Epifania del Signore Is 60,1-6; Sal 71; Ef 3,2-3a.5-6; Mt 2,1-12 Prima Lettura Is 60,1-6 La gloria del Signore brilla sopra di te. Dal libro del profeta Isaia Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere. Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio. Allora guarderai e sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore, perché l’abbondanza del mare si riverserà su di te, verrà a te la ricchezza delle genti. Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Màdian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore. Beato Angelico, Adorazione dei Magi, 1440, Firenze Seconda Lettura Ef 3,2-3a.5-6 Ora è stato rivelato che tutte le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità. Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini Fratelli, penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore: per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero. Esso non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo. Vangelo Mt 2,1-12 Siamo venuti dall'oriente per adorare il re. Dal vangelo secondo Matteo Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”». Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese. 1 La prima lettura (Is 60,1-6) riprende un oracolo di salvezza del Terzo Isaia, (yüša| yüša|`yäºhû, «salvezza di Yah»: cc. 56-66. Autore ignoto che ha operato tra il 537 e il 520 a.C.). La profezia esprime una visione di universalismo e di unità di tutti i popoli in pellegrinaggio verso Gerusalemme sulla scia di Is 2,1-5 (cf Ger 12,15-16; 16,19-21; Mi 4,1-3; Sof 3,9-10; Zc 8,20-23). Il profeta vede una carovana che avanza verso la città santa in due gruppi: uno formato dagli Israeliti che ritornano dall'esilio (v. 4), l'altro formato dalle nazioni straniere, attratte dalla luce e dalla gloria di Dio, che illumina Sion. Queste vengono a Gerusalemme per onorare il nome del Signore, portando preziosi doni per il culto. È finito il tempo del lamento ed è iniziato quello della gioia e della speranza. Il capitolo 60 costituisce uno dei grandi poemi del libro. Canta con immagini splendide ed entusiasmo il trionfo della luce e la peregrinazione dei popoli, che rendono omaggio alla città prima umiliata e arricchiscono colei che prima era spogliata. Il trionfo della luce permette di contemplare la città come tipo della nuova Gerusalemme. Is 60,1: Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te (qûºmî ´ôºrî Kî bä´ ´ôrëk ûkübôd yhwh(´ädönäy) `älaºyik zäräH, lett. «Sorgi, riluci, poiché venne tua luce e gloria di hashem su te brillò»). - Àlzati, rivestiti di luce (qûº qûºmî ´ôºrî). î Gerusalemme è personificata e invitata a risorgere dalla sua misera condizione di deportata a Babilonia, per trasfigurarsi con una luce splendida. La ´ôºr, «luce» corrisponde alla salvezza e alla prosperità. Il canto inizia con un doppio imperativo: qûºmî ´ôºrî, î «àlzati, rivestiti di luce!». La gloria del Signore è paragonata a una nuova aurora. 60,2: Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta [avvolge] i popoli; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te (Kî|-hinnË haHöºšek yükassè-´eºrec wa`áräpel lü´ummîm wü`älaºyik yizraH yhwh(´ädönäy) ûkübôdô `älaºyik yërä´è, lett. «Poiché ecco, la tenebra copre terra e oscurità popoli, ma su te brilla hashem e la sua gloria su di te si fa vedere»). - la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta [avvolge] i popoli (haHöº haHöºšek yükassèyükassè-´eºrec wa`áräpel lü´ummîm). lü´ummîm Con termini poetici e immagini espressive il profeta contempla il contrasto tra il mondo immerso nelle tenebre e Gerusalemme che brilla di smagliante splendore, investita dalla gloria divina e divenuta centro mondiale del culto. È un'aurora spettacolare, suscitata da Dio mediante la luce della sua gloria che illumina Gerusalemme e il mondo intero. 60,3: Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere (wühälkû gôyìm lü´ôrëk ûmüläkîm lünöºgah zarHëk). Grazie alla luce della città di Dio i popoli e i re stranieri ritroveranno la via della pace. Si compie così la visione escatologica di Is 2,2-3 e Mi 4,1-2. 60,4: Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio (Sü´î|-säbîb `ênaºyik ûrü´î Kulläm niqBücû bä|´û-läk Bänaºyik mëräHôq yäböº´û ûbünötaºyik `al-cad Të´ämaºnâ). - I tuoi figli vengono da lontano (Bänaº Bänaºyik mëräHôq yäböº´û). û La sentinella alza la voce e invita la città a contemplare dalla sua altura il pellegrinaggio che sta arrivando verso di essa. Gerusalemme è simile a una madre che assiste radiosa al ritorno dei figli lontani. Le donne vengono portate in braccio come bambini, perché non si stanchino. Grande gesto di attenzione e di tenerezza nei confronti di chi ha ricevuto il compito di trasmettere la vita! Le carovane vengono dall'oriente, mentre le flotte dall'occidente. Si tratta della terza riunione, quella definitiva, più gloriosa dell'esodo dall'Egitto e da Babilonia. 60,5: Allora guarderai e sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore, perché l’abbondanza del mare si riverserà su di te, verrà a te la ricchezza delle genti (´äz Tir´î wünäharT ûpäHad würäHab lübäbëk Kî|-yëhäpëk `älaºyik hámôn yäm Hêl Gôyìm yäböº´û läk). - sarai raggiante (wünäharT wünäharT). wünäharT Il verbo è in sé ambiguo, poiché significa risplendere e anche confluire. - l’abbondanza del mare (hámôn hámôn yäm). yäm Il termine hámôn normalmente si riferisce al movimento fragoroso delle onde marine (17,12; 51,15; Sal 46,4). 2 Il poeta sceglie questa immagine per alludere al traffico commerciale di quelli che arrivano con tesori e ricchezze tipiche delle città marinare della Grecia e della Fenicia, portati a Gerusalemme con le navi. 60,6: Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Madian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore (ši|p`at Gümallîm Tükassëk Bikrê midyän wü`êpâ Kulläm miššübä´ yäböº´û zähäb ûlübônâ yiSS亴û ûtühillöt yhwh(´ädönäy) yübaSSëºrû). - Uno stuolo di cammelli ti invaderà (ši| ši|p`at Gümallîm Tükassëk). Tükassëk È frequente l'applicazione di ši|p`at, `at «stuolo», al mare, benché si possa anche applicare a una folla armata (2Re 9,17; Ez 26,10). La vicinanza del versetto precedente favorisce una certa ambiguità immaginativa. Le risorse più rare e pregiate dell'Oriente affluiscono dal deserto, portate dalle carovane. Madian ed Efa sono regioni della costa nord-occidentale della penisola arabica (Gen 25,1-4). In esse vivevano i discendenti di Abramo. Saba si trova a sud-ovest dell'Arabia, celebrata per l'oro (1Re 10,2; Ez 27,22) e l'incenso (Ger 6,20). L'oro serviva a preparare i vasi sacri per il culto e l'incenso era usato nelle cerimonie del tempio di Gerusalemme. Si suppone che il secondo tempio sia in via di costruzione. L'Autore nel comporre questo poema che celebra la gloria di Gerusalemme, si ispira a Is 2,2-5, ove si parla del monte del Tempio che, come un faro, attira tutti i popoli per farli vivere in pace nella città gloriosa. Alla squallida condizione del tempo immediatamente seguente al rimpatrio da Babilonia, il discepolo del Secondo Isaia, che è insieme profeta, poeta e visionario, oppone la grandiosa visione della futura Gerusalemme, avvolta dalla luce di Dio, centro della religione universale e punto d'incontro di tutti i popoli. La descrizione altamente idealizzata, ricca di ardite immagini e pervasa da un pathos irruente, abbraccia con un solo sguardo la Gerusalemme ricostruita nel post-esilio e la gloria dell'epoca escatologica. Guardando la città devastata con le mura abbattute, l'area del Tempio in rovina e le case diroccate, il profeta vede in visione la Gerusalemme messianica, trasformata dalla presenza di Dio. Le antiche speranze sono pienamente realizzate, le glorie passate sono sorpassate. Si tratta di più che di un simbolismo. A causa della certezza della fede profetica, il futuro sembra realizzato nel momento presente. L'ispirazione del poema di Is 2,2-5 è impareggiabile nel cantare la pace universale, ma se poniamo il Sal 87,5: «L'uno e l'altro in essa sono nati», insieme a Is 60 è possibile ritrovare lo stesso lirismo e profondità. Quasi tutti gli esegeti sono d'accordo sull'unità stilistica e tematica di questo «poema di Ziòn». Esso si compone di tre parti: la prima (vv. 1-9) è segnata dal movimento dei figli d'Israele e dei figli degli stranieri che salgono a Gerusalemme, attratti dallo splendore della sua luce (tematica che ha la sua origine in Is 2); la seconda (vv. 10-14) descrive la situazione di Zion definitivamente restaurata, con il concorso degli stranieri; la terza (vv. 15-22) insiste su questa trasformazione della città, operando anche uno sconfinamento apocalittico. Ma questa divisione del poema serve solo da guida di lettura, perché la composizione è molto coerente, e i passaggi da una parte all'altra molto fluidi. Questo schema ci consente di cogliere meglio la funzione della luce, quale aurora senza tramonto. Potremmo parafrasare in questo modo: è notte, oscurità universale. D'improvviso, la sentinella annuncia l'aurora. Stranamente il cielo si va illuminando in un punto centrale (non a oriente) e tutti si voltano a contemplare questa luce inaspettata che li chiama. Si mettono in movimento i figli dispersi e i popoli stranieri che si offrono ad accompagnarli. Via terra arriva uno stuolo di cammelli e dal mare una flotta di navi. Fattosi giorno consegnano i tesori, mentre la giustizia e la pace si affermano solidamente. Pur volgendo al termine il giorno, la notte non cala, perché è cominciato il giorno unico senza fine, giorno di luce, di vita, di giustizia e fecondità. Il poema è pieno di effetti di luce, infatti ripete sette volte il termine or «luce», tre volte zarach «albeggiare», due volte nogah «splendore». Ripete undici volte il verbo ba' «venire, trarre», stabilendo un'inclusione pressoché totale : «viene la tua luce ... il tuo sole non tramonterà più» (Is 60,1a.20a). La salita a Gerusalemme (60,1-9). Inizialmente, Zion non è neppure nominata, ma gli innumerevoli suffissi pronominali della seconda persona femminile nel testo ebraico (-ek, -ak, -ayik) sono inequivocabili. D'altra parte, gli imperativi iniziali rievocano quelli analoghi dei capitoli 51-52: «Svegliati, svegliati, alzati, Gerusalemme» (51,17; cf 52,1). Questo risveglio o questo rialzarsi allude alla risurrezione di Gerusalemme 3 dopo il sonno e l'abbandono dell'esilio, e fa pensare a un nuovo giorno: infatti la città si riveste di luce come al sorgere del sole. Veramente non si parla del sole, ma per ben due volte, nei vv. 1 e 2, si afferma che il Signore, o la sua gloria, «sorge» (zarach) sopra Gerusalemme come il sole (caso unico in tutto l'AT). Qui si pensa al ritorno della gloria di Adonay nel Tempio, già profetizzato in 40,5. La gloria del Signore si rivela a Gerusalemme, ma fa sentire la sua forza di gravità o di attrazione su tutta la terra. È come se dappertutto fosse ancora notte, ma a Gerusalemme fosse già giorno. Perciò tutte le nazioni sono attratte, tutta la storia gravita verso questa luce: «Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere» (zarach, anche qui, v. 3). Gradualmente, l'obiettivo si sposta da Gerusalemme alle genti che vengono «da lontano» (v. 4). Due nuovi imperativi segnalano questo passaggio: «Alza gli occhi intorno e guarda» (v. 4), un altro richiamo alla profezia precedente (49,18). Ma tutto il tema della salita delle genti era già stato orchestrato in 49,18-23: il fatto che i figli d'Israele dispersi sarebbero stati portati «in braccio» dai gentili; che questi ultimi sarebbero diventati «ricostruttori» della città santa, sono tutti motivi così strettamente deuteroisaiani da supporre un'identità di autore, o per lo meno un'espansione letteraria degli stessi temi. Gli elementi che qui vengono aggiunti sono: il tratto psicologico dello stupore di Gerusalemme («palpiterà e si dilaterà il tuo cuore», v. 5, che sarà ripreso dal «turbamento» di Gerusalemme nel racconto dei Magi, cf Mt 2,3); l'elenco delle carovane dei popoli del deserto (Midyan, Efa, Saba, Qedar, Nebayot: vv. 6-7); la flora (la stessa di 41,19: cipressi, olmi e abeti) e la fauna (cammelli, dromedari, greggi e arieti); e l'immagine, letterariamente suggestiva, delle navi che volano come colombe (v. 8), come se il movimento gravitazionale verso Gerusalemme avvenisse per terra, per mare e perfino per aria. Ci sono poi anche i tesori (oro e incenso: v. 6; argento e oro: v. 9) che hanno fatto di questo testo, nella tradizione cristiana, la profezia dell'epifania ai gentili. Ma sapientemente, poco per volta, si introduce anche il discorso diretto del Signore, e i segni grammaticali della prima persona appaiono sempre in connessione con il verbo pa 'ar «splendere» (vv. 7.9.13b.21b; per ricordare che la gloria di Adonay non è solo l'obiettivo di questo movimento gravitazionale, ma anche il suo artefice principale. La seconda lettura (Ef 3,2-3a.5-6) riprende un passo della Lettera agli Efesini ove si afferma che il «mistero di Cristo» è stato manifestato a tutti gli uomini, indipendentemente dalle discriminazioni provocate dai peccatori. Ef 3,2-3a: [Fratelli] penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia di Dio, a me affidato a vostro favore: 3per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero (εἴ γε ἠκούσατε τὴν οἰκονομίαν τῆς χάριτος τοῦ θεοῦ τῆς δοθείσης μοι εἰς ὑμᾶς, 3ὅτι κατὰ ἀποκάλυψιν ἐγνωρίσθη μοι τὸ μυστήριον). - penso che abbiate sentito parlare (εἴ γε ἠκούσατε, lett. «se pure avete sentito [parlare]»). Inizia qui un periodo lungo fino al v. 7, in cui manca la principale. Il verbo ἠκούσατε è ind. aor. di ἀκούω «odo, ascolto». - del ministero della grazia di Dio (τὴν οἰκονομίαν τῆς χάριτος τοῦ θεοῦ, lett. «della gestione della grazia di Dio»). Anche qui (cf 1,10) il termine οἰκονομία, oikonomía è di difficile traduzione: «adempimento» (Schlier, 224), «dispensazione» (Penna, 152), «piano» (Best, 343), «disposizione» (Romanello, 108), «amministrazione» al v. 2 ed «economia» al v. 9 (Aletti, 168). L'idea soggiacente è che Paolo sta ricevendo un'iniziativa di grazia che ha Dio per artefice, ma che Paolo è chiamato a gestire (Paolo, infatti, è «servitore», 3,7). La versione CEI opta per «ministero», anche se nell'originale non c'è affatto διακονία, diakonía. È preferibile scegliere «gestione», termine che ha il pregio di poter esser ripreso pure in 3,9. - cioè per rivelazione (3ὅτι κατὰ ἀποκάλυψιν). La congiunzione ὅτι è omessa nel papiro Chester Beatty II, nel codice Vaticano (B) e in altri manoscritti, mentre è presente nel Sinaitico, Alessandrino (A), Efrem riscritto (C), Claromontano (D) e in altri. È preferibile mantenerla, considerandola dipendente da ἠκούσατε (3,2): «avete sentito». - è stato fatto conoscere (ἐγνωρίσθη). Si tratta di un passivo divino, il cui soggetto sottinteso è Dio stesso. La conferma viene dal termine tecnico ἀποκάλυψις, «rivelazione», che indica una conoscenza di origine trascendente: la radice ἀποκάλυπ- ritorna in 3,5: ἀπεκαλύφθη «è stato rivelato». 3,5: Esso non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: (ὃ ἑτέραις γενεαῖς οὐκ ἐγνωρίσθη τοῖς υἱοῖς τῶν ἀνθρώπων ὡς νῦν ἀπεκαλύφθη τοῖς ἁγίοις ἀποστόλοις αὐτοῦ καὶ προφήταις 4 ἐν πνεύματι, lett. «che alle altre generazioni non è stato fatto conoscere ai figli degli uomini come ora è stato rivelato ai santi apostoli suoi e profeti in Spirito»). - profeti (προφήταις). Non sono quelli menzionati nell'AT, autori dei libri che portano il loro nome, ma sono i profeti cristiani, che sono a servizio della comunità ecclesiale. 3,6: che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo (εἶναι τὰ ἔθνη συγκληρονόμα καὶ σύσσωμα καὶ συμμέτοχα τῆς ἐπαγγελίας ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ διὰ τοῦ εὐαγγελίο, lett. «essere le nazioni coeredi e coincorporate e compartecipi della promessa in Cristo Gesù mediante il vangelo»). Da notare l'insistente ripresentazione del prefisso συν- «con»: συγκληρονόμα, σύσσωμα, συμμέτοχα, lett. «coneredi, con-corporei, com-partecipi» (cf 2,5-6.21- 22). La Lettera agli Efesini si articola in due parti. La prima parte, dottrinale (1,3-3,21), punta l'attenzione sulla Chiesa, corpo di Cristo - Paolo non usa il termine «corpo mistico» -, nella quale si realizza il mistero della riconciliazione di Giudei e pagani, popoli normalmente visti come lontani e ostili tra loro. Su tutti si stende la medesima carità di Dio e Paolo si sente il banditore, il ministro dell'annuncio e della realizzazione di questo mistero. La seconda parte della lettera, esortativa (4,1-6,24), trae le conseguenze pratiche per la vita del cristiano situato in famiglia. Di qui il «codice familiare» (presente in forma più breve nella Lettera ai Colossesi), in cui Paolo propone agli sposi cristiani il modello che deve ispirare il loro comportamento: il rapporto Cristo-Chiesa (5,25-27). Nel terzo capitolo si dispiega tutta l'autorevolezza di Paolo: a lui è stato svelato il mistero, cioè la partecipazione dei pagani alla stessa eredità dei giudei (3,1 -13), e da questa rivelazione sgorga la preghiera dell'apostolo (3,14-21), che sfocia infine in una dossologia. Il prigioniero di Cristo (3,1). L'autore fa iniziare all'apostolo un discorso in prima persona, lasciato subito in sospeso per seguire un tema che improvvisamente gli cattura l'attenzione. Il filo verrà ripreso al v. 14 con il medesimo sintagma «di questo a causa, per questo» (τούτου χάριν). Delle sue prigionie l'apostolo ha parlato in diverse occasioni nelle lettere, ma qui egli non è più semplicemente un discepolo in prigione, è «il prigioniero di Cristo Gesù» (v. 1: ὁ δέσμιος τοῦ Χριστοῦ Ἰησοῦ). Da notare l'articolo che lo qualifica come «il» prigioniero per antonomasia, e il genitivo (τοῦ Χριστοῦ Ἰησοῦ), che esprime l'appartenenza a Lui. L'esperienza delle catene rivela come la vita di Paolo sia in realtà definitivamente incatenata a Cristo. La prigionia però è ricordata nella sua valenza positiva: a vantaggio dei pagani; la condizione di prigioniero più che nuocere ha giovato alla causa del Vangelo. Paolo verrà ricordato per sempre come l'apostolo dei gentili. A lui è stato rivelato il μυστήριον, mystérion «mistero», di cui l'autore delinea dapprima la natura (vv. 2-7) e poi l'atto di proclamazione (vv. 8-13). La natura del mistero (3,2-7). L'apostolo è destinatario della rivelazione del «mistero», che, pur essendo da sempre nei progetti di Dio, era rimasto finora nascosto: che cioè anche i pagani in Cristo partecipano pienamente della stessa salvezza offerta ai giudei e prendono parte del medesimo corpo ecclesiale. Dire che Paolo ha ricevuto la οἰκονομία, oikonomía «gestione» significa non che sia lui a gestire la grazia, ma solamente che ne è il recettore. Tale grazia è data a lui personalmente, ma è comunque a beneficio dei pagani. L'autore aveva già delineato in 1,9-10 il senso del «mistero» in quanto progetto salvifico da sempre pensato ma taciuto e rivelato solo con l'evento Cristo; inoltre, se lo scopo del mystérion è l'inclusione dei pagani nel piano di salvezza in Cristo, ne aveva parlato diffusamente in 2,11-22. Paolo è pervenuto alla conoscenza di tale «mistero» non riflettendo sull'AT, né perché altri glielo hanno spiegato e nemmeno per una qualche intuizione personale, ma solo «per rivelazione» (ἀποκάλυψις, apokálypsis, 3,3), cioè esclusivamente in forza di una comunicazione diretta da parte di Dio. Ma quand'è che Dio ha svelato questo suo segreto a Paolo? Il linguaggio assai aderente a Gal 1,12.15-16 («per rivelazione ... mi chiamò con la sua grazia e si compiacque di rivelare in me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani...») lascerebbe intendere l'esperienza sulla via di Damasco. Ma il libro di Atti al riguardo non è univoco: in due casi è Anania a riferire l'incarico (9,15; 22,15), e solo in un altro è il Risorto (26,16-18). In 2Cor 12,1-4, poi, Paolo parla di diverse visioni e rivelazioni ricevute dal Signore. Quindi il momento preciso non 5 è possibile stabilirlo con esattezza. In ogni caso l'autore non è interessato al "quando", ma al "come" e al "perché": per iniziativa divina e a vantaggio dei pagani. Inoltre aggiunge una precisazione rispetto a 1,9: si tratta del «mistero di Cristo» (v. 4). In precedenza nessuno aveva ricevuto notizia della novità assoluta di cui ora si è messi al corrente. I destinatari di questa rivelazione sono i «santi apostoli e profeti» (v. 5). I primi a riceverla sono dunque le guide della comunità primitiva. Dapprima l'autore aveva riservato esclusivamente a Paolo la rivelazione del mystérion, ora invece allarga la cerchia ai capi storici. Perché? Quest'inclusione dei primi testimoni potrebbe essere un indizio significativo di come si fosse già lontani dagli esordi del cristianesimo, percependo così la generazione dei primissimi cristiani nella sua valenza fondante e normativa. Come si può notare, nella coscienza ecclesiale accade che più ci si allontana anche cronologicamente dall'evento fondante più si guarda con venerazione agli apostoli. Pure in Rm 16,25-26 e Col 1,26 Paolo si presenta come l'incaricato da parte di Dio di annunciare il mistero ai pagani. In questo modo si può comprendere come di fatto il concetto di «mistero» equivale al «Vangelo». Per esprimere il contenuto del «mistero» l'autore seleziona alcuni termini a effetto e li inanella in una espressione curiosa: la novità sta nel fatto che i pagani sono «con-eredi», «con-corporei» e «compartecipi». L'imprevedibile partecipazione dei pagani impone anche un nuovo modo di esprimersi. Evidente la triplice ripetizione del prefisso συν- «con», simile a 2,5-6. Ma mentre là si insisteva sul concetto di partecipazione alla vita risorta di Cristo da parte di tutti i credenti, ora l'insistenza verte sulla piena partecipazione alla salvezza in Cristo da parte dei pagani, senza differenza alcuna rispetto ai giudeocristiani. Grazie al disvelamento del mistero ogni divisione etnica e religiosa è superata e le componenti prima distanti o in conflitto ora confluiscono in una perfetta comunione vicendevole e con Dio. L'Epifania del Signore rappresenta un segno luminoso di questa rivelazione del mistero destinato a tutte le nazioni. Il Re è nato come un bimbo qualunque, porta in sé i segni della regalità che vengono riconosciuti dai Magi che vengono da oriente. Il vangelo (Mt 2,1-12) ci propone l'originale racconto della visita dei Magi al re dei Giudei. Mt 2,1: Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme (Τοῦ δὲ Ἰησοῦ γεννηθέντος ἐν Βηθλέεμ τῆς Ἰουδαίας ἐν ἡμέραις Ἡρῴδου τοῦ βασιλέως, ἰδοὺ μάγοι ἀπὸ ἀνατολῶν παρεγένοντο εἰς Ἱεροσόλυμα). - Nato Gesù a Betlemme di Giudea (Τοῦ δὲ Ἰησοῦ γεννηθέντος ἐν Βηθλέεμ τῆς Ἰουδαίας). Al contrario di Luca 2,1-7, Matteo fa solo un breve accenno alla nascita di Gesù. Betlemme era la città natale di Davide, e perciò il racconto della nascita di Gesù riprende il motivo del «Figlio di Davide» dal capitolo 1. Giacobbe, benedicendo il figlio Giuda profetizza: «Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l'obbedienza dei popoli» (Gen 49,10). In una narrazione che tratta dell'arrivo del Davide definitivo, del neonato re dei Giudei che salverà tutti i popoli, questa profezia è da percepire sullo sfondo. Betlemme di Giudea si trova a circa 8 km a sud di Gerusalemme; da distinguersi da Betlemme di Galilea, (Beit Lechem Haglilit) moshav, villaggio organizzato come un kibbutz. Betlemme di Galilea sorge presso Qiryat Tiv'on, a circa 10 km a nord ovest di Nazaret. Conta circa 700 abitanti. È ricordata nel Libro di Giosuè (19,15) come città della tribù di Zabulon. Per distinguere Beit Lechem Haglilit dalla più nota città di Betlemme (luogo di nascita di Gesù secondo la tradizione cristiana), la prima fu chiamata in origine Betlemme di Zabulon, e la seconda Betlemme di Giudea. Città natale del giudice biblico Ibsan (uno dei giudici minori d'Israele, il nono dei Giudici biblici, vissuto nel dodicesimo secolo a.C. Governò dopo Iefte per sette anni. Oriundo di Betlemme di Zabulon, ebbe trenta figli e trenta figlie, tutti accasati), Betlemme di Galilea fu abitata dagli ebrei fino a qualche tempo dopo la seconda distruzione del Tempio nell'anno 70. Nel Talmud di Gerusalemme Beit Lechem Haglilit è chiamata Beth Lechem Zoria, cioè Betlemme di Tiro, in quanto parte di questa città all'epoca del regno. Durante le Crociate fu un piccolo centro cristiano, in seguito abbandonato, del Regno di Gerusalemme. Per la sua vicinanza a Nazaret, alcuni storici ritengono sia questo il vero luogo di nascita di Gesù. Sostiene la tesi Aviram Oshri, eminente archeologo dell'Autorità Israeliana per le Antichità. Fino al tardo XIX secolo si potevano ammirare a Betlemme di Galilea le rovine di una chiesa e una sinagoga, e i ritrovamenti archeologici mostrano che si trattava di una città fiorente. 6 - al tempo del re Erode (ἐν ἡμέραις Ἡρῴδου τοῦ βασιλέως). Qui troviamo indicato il quadro storico con il rimando al re Erode e al luogo di nascita, Betlemme. Rudolf Pesch (1936-2011) sostiene che la figura di Erode abbia un significato teologico: «Come nel Vangelo di Natale (Lc 2) viene menzionato all'inizio l'imperatore romano Augusto, così il racconto di Matteo 2 comincia analogamente con la menzione del "re dei Giudei", Erode. Se là l'imperatore era agli antipodi del bambino appena nato, qui lo è il re, che ha la pretesa di essere il redentore, almeno per il regno giudaico». L'idumeo Erode il Grande (73-4 a.C. Il popolo edomita era discendenza di Esaù, parlava una lingua semitica e costituiva un gruppo a struttura tribale che abitava il deserto del Negev e il Wadi Araba, che si estende a sud di Israele e della Giordania) fu nominato re dei Giudei dal senato romano nel 40 a.C. e prese possesso di Gerusalemme nel 37 a.C. Morì nel 4 a.C. e il suo regno fu diviso tra i suoi figli. Erode il Grande era un politico scaltro che riuscì a mettere l'una contro l'altra le fazioni pro-Roma e la giudaica. In particolare era famoso per i suoi grandiosi progetti edilizi a Cesarea Marittima, a Samaria e per il tempio di Gerusalemme. Fece inoltre costruire numerose fortezze, la più famosa delle quali era Masada. I suoi problemi familiari e la ben nota crudeltà verso i componenti della sua stessa famiglia fanno da sfondo e spiegano i fatti descritti in Mt 2,1-12. - ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme (ἰδοὺ ἀπὸ ἀνατολῶν παρεγένοντο εἰς Ἱεροσόλυμα). Il termine μάγοι, mágoi, «Magi» è noto tanto alla letteratura antica (Erodoto) che a quella biblica. Per l’autore delle Storie i magi erano sacerdoti, astrologi e interpreti di sogni; per l’AT i maghi sono incantatori e stregoni che operano alle corti del faraone e di Nabucodonosor. Il NT, invece, opera una decisa inversione di rotta. I magi, di cui parla esclusivamente l’evangelista Matteo (cap. 2), sono dei pii sapienti, probabilmente di origine e di religione persiana, ai quali è concesso di vedere, riconoscere e adorare il Messia, che è anche figlio di Dio. Il primo significato indica l'appartenenza alla casta sacerdotale persiana. Nella cultura ellenistica erano considerati come «rappresentanti di una religione autentica», dediti anche alla speculazione filosofica. I filosofi greci spesso sono stati considerati come loro seguaci. Anche Aristotele (Stagira 384 Calcide 322 a.C.) parla dei magi come filosofi. Gli altri significati menzionati da Gerhard Delling sono: detentore di un sapere soprannaturale, stregone, imbroglione, seduttore. Negli Atti degli Apostoli troviamo quest'ultimo significato: un mago di nome Bar-Iesus viene qualificato da Paolo come «figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia» (13,10). L'ambivalenza del termine «mago» mette in luce l'ambivalenza della stessa dimensione religiosa. La religiosità può diventare una via verso una vera conoscenza, oppure diventare demoniaca e distruttiva. Il Vangelo ebraico di Matteo del medico giudeo-spagnolo Shem Tov ben Isaac del XIV secolo, parla di «veggenti nelle stelle», cioè di «astrologi». In diversi testi antichi il termine «mago» è in rapporto con fenomeni di chiaroveggenza, di interpretazione dei sogni, di profezia. Nel testo greco di Matteo prevale il primo significato: la sapienza religiosa e filosofica dei Magi è una forza che mette gli uomini in cammino; è la sapienza che conduce a Cristo. Gli uomini di cui parla Matteo non erano soltanto astronomi, ma «sapienti» che avvertivano il bisogno di andare oltre se stessi, espressione di una ricerca della verità, ricerca del vero Dio. In tal modo la sapienza risana anche il messaggio della «scienza»: la razionalità di questo messaggio non si ferma al solo sapere, ma cerca la comprensione del tutto, portando così la ragione alle sue possibilità più elevate. Potremmo dire che essi rappresentano il cammino delle religioni verso Cristo, l'autosuperamento della scienza in vista di Lui. Si trovano in qualche modo al seguito di Abramo che alla chiamata di Dio parte. In modo diverso si trovano al seguito di Socrate (Atene 470-399 a.C.) e del suo interrogarsi, al di là della religione ufficiale. In tal senso, questi uomini sono dei precursori, dei ricercatori della verità di ogni tempo. Come la tradizione della Chiesa ha letto il racconto di Natale sullo sfondo di Is 1,3 (Il bue conosce il suo proprietario e l'asino la greppia del suo padrone) e, in questo modo, sono arrivati al presepe il bue e l'asino, così ha letto il racconto dei Magi alla luce del Sal 72,10: I re di Tarsis e delle isole portino tributi, i re di Saba e di Seba offrano doni; e di Is 60: 1Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te … 3Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere … 6Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Madian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso. In questo modo, i sapienti venuti dall'Oriente sono diventati re, e con loro sono entrati nel presepe i cammelli e i dromedari. Se la promessa contenuta in tali testi estende la provenienza di questi uomini fino all'estremo Occidente (Tarsis = Tartessos in Spagna, Sal 72,10; Is 60,9), la tradizione ha ulteriormente sviluppato l'universalità dei regni di quei sovrani, interpretandoli come re dei tre continenti allora noti: Africa, Asia, Europa. Dopo diversi tentativi in Oriente come in Occidente (i loro nomi sovrapposti in bella evidenza in Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna sono di epoca successiva), la prima fonte scritta che attribuisce ai magi i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre è il Liber Pontificalis di Agnello di Ravenna (sec. IX). La tardomedievale Historia trium regum di Giovanni di Hildesheim, un carmelitano tedesco, si sofferma invece sulle terre di provenienza dei tre magi. 7 Secondo questa cronaca, i tre re non fecero il viaggio insieme, bensì giunsero a Gerusalemme ciascuno proveniente dai rispettivi paesi: Melchiorre dalla Nubia, Baldassarre dalla regione di Saba, Gaspare da Tharsis. Di qui la tradizione operò un ulteriore passaggio attribuendo ai magi la funzione di ambasciatori delle razze dell’umanità presso il Messia. All’origine di questa estensione vi erano la tavola dei popoli riportata in Gen 10 e la teologia dell’universalità della salvezza collegata alla solennità dell’Epifania, festa dei magi. Melchiorre divenne discendente di Cam e rappresentante della razza africana; Baldassarre erede di Sem e inviato degli asiatici; Gaspare discendente di Iafet e messaggero degli europei. Per questa concezione uno dei magi (Melchiorre ma, secondo altri, Baldassarre) è considerato rappresentante della razza nera e quindi raffigurato egli stesso come uomo di colore. Ugualmente collegata alla concezione dell’universalità della salvezza è la tradizione che vede nei magi i rappresentanti delle tre età dell’uomo. Gaspare rappresenta la giovinezza, Baldassarre la maturità, Melchiorre la vecchiaia. Nella diversità delle tradizioni sono tuttavia costanti la triade (tre sono i doni, tre i magi, tre le razze dell’umanità, tre le età dell’uomo) e il significato della pienezza. Gesù vuole manifestarsi all’intera umanità, per questo invita i magi, ambasciatori dell’umanità, a recarsi a Betlemme per conoscerlo e venerarlo. Il messaggio di fondo resta: i sapienti dell'Oriente sono un inizio, rappresentano l'incamminarsi dell'umanità verso Cristo, inaugurano una processione che percorre l'intera storia. Ulteriori notizie sui Magi sono riportate dai vangeli apocrifi: Protovangelo di Giacomo (II sec.), Vangelo di Nicodemo (II sec.), Vangelo dello pseudo Matteo (VIII-IX sec.), Vangelo dell’infanzia arabo siriano (VIII-IX sec.), Vangelo dell’infanzia Armeno (redazione definitiva XIX secolo su materiale precedente). Quest'ultimo è il più dettagliato. Precisa che i re magi erano tre fratelli: il primo Melkon (Melchiorre) regnava sui persiani, il secondo Balthasar (Baldassarre) regnava sugli indiani, e il terzo Gaspar (Gaspare) regnava sul paese degli arabi. Essi arrivarono alla città di Gerusalemme dopo nove mesi di viaggio, con al seguito dodicimila uomini: quattromila per ciascun re. Melkon aveva con sé mirra, aloe, mussolina, porpora, stoffe di lino e i libri scritti e sigillati dalle mani di Dio. Balthasar portava nardo prezioso, mirra, cannella, cinnamomo, incenso e altri profumi. Gaspar aveva oro, argento, pietre preziose, zaffiri e perle. Nell'anno 614, la Palestina fu occupata dai Persiani guidati dal re Cosroe II. Essi distrussero quasi tutte le chiese cristiane, ma risparmiarono la Basilica della Natività di Betlemme. Si racconta che fecero questo poiché sulla facciata della basilica vi era un mosaico che raffigurava i Magi vestiti con l'abito tradizionale persiano. Secondo Matteo i Magi, dopo aver adorato Gesù e avergli offerto i doni, escono definitivamente di scena. Per la tradizione, tuttavia, la storia dei saggi venuti dall’Oriente per venerare il Messia bambino era troppo avvincente per lasciarla incompleta. Presto numerose leggende si preoccuparono di completare l’asciutto racconto dell’evangelista. Qui riportiamo la versione definitiva fatta conoscere nel tardo Medioevo da Giovanni Hildesheim. Dopo il ritorno in patria, i magi annunciarono di aver visto e riconosciuto il Messia ed edificarono dei luoghi di culto nei quali erano raffigurati il Bambino, la stella che li aveva guidati a Betlemme e la croce che doveva segnare il destino del nuovo re. Dopo la risurrezione di Gesù i Magi vennero raggiunti dall’apostolo Tommaso. Il discepolo che per ultimo credette alla risurrezione, prima di raggiungere l’India, passò in Persia, visitò i Magi e raccontò loro le gesta e l’insegnamento di Gesù. I Magi che già avevano riconosciuto nel Bambino il re della pace, non ebbero difficoltà ad accogliere la parola del vangelo. Tommaso allora li battezzò e li consacrò vescovi. Essi collaborarono quindi all’opera evangelizzatrice dell’apostolo e morirono in età veneranda nella loro città: «Ora, dopo il loro trapasso, Iddio che li aveva prediletti in vita, volle grandemente onorarli anche in morte. Poiché per i loro meriti, in modo manifesto, liberò tutti quelli che, afflitti da ogni specie di malattia, di angustia o di prigionia, vicini o lontani, nella terra o sul mare, avessero implorato il loro aiuto. Così che, da lontani paesi, per terra o per mare, grandi folle di popoli accorrevano alle loro reliquie» (Giovanni di Hildesheim, Le Gesta dei tre beatissimi re). Per quanto riguarda le tombe dei Magi, Marco Polo scrive nel Milione: «È in Persia la città di Savah donde partirono i re Magi quando vennero ad adorare Gesù Cristo. Ci sono in quelle città le tre tombe, bellissime e grandissime, in cui i tre magi furono sepolti» (cap. XXXI). La città di Saba, a sud di Teheran, è stata visitata da Marco Polo intorno al 1270. La notizia è confermata nel secolo successivo da Oderico da Pordenone che, a sua volta, raggiunse le antiche terre della Persia. Parallelamente alla tradizione orientale, tuttavia, si era sviluppato un intenso culto dei Magi in Occidente. Ne dà conto già la Legenda aurea di Iacopo da Varazze (1230-1298, domenicano vescovo di Genova), le cui notizie vengono riprese e ampliate dalla cronaca di Giovanni di Hildesheim. Lo scopo, anzi, che si riprometteva Giovanni, era proprio quello di ricostruire il percorso attraverso il quale i corpi dei Magi dall’originaria Persia erano arrivati fino in Germania. Non potendo contare su ricerche storiche o archeologiche, la Legenda e con essa Giovanni fecero ricorso a un testimone di prestigio: Elena, la madre di Costantino. [Flavia Iulia Helena, Elenopoli, 248 circa – Treviri, 329, è stata augusta dell'Impero romano, concubina dell'imperatore 8 Costanzo Cloro e madre dell'imperatore Costantino I]. Dopo aver ricercato e trovato la croce del Signore, l’imperatrice madre si spinse più in là verso l’Oriente. Qui, dopo varie traversie, riuscì a trovare i corpi dei tre re Magi, martirizzati a Gerusalemme, dove erano tornati dopo la crocifissione di Gesù. Elena fece trasferire le spoglie dei Magi nella chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli. Verso la fine del VI secolo, Eustorgio vescovo di Milano, con l’appoggio dell’imperatore Maurizio, riuscì a farsi donare i corpi dei Magi e a trasferirli nella capitale d’Occidente in una chiesa che prese il suo nome. Fu così che il mastodontico dono, attraversando il mare e risalendo il Po, giunse su un carro trainato dai buoi a Porta Ticinese, dove si arenò sprofondando nel fango. Non ci fu verso di smuoverlo. Il vescovo interpretò lo strano incidente come il segno della volontà divina che lì dovessero rimanere le preziose reliquie con il loro voluminoso contenitore. Così venne deciso di erigervi una chiesa. Il sepolcro dei Magi, Sepulchrum Trium Magorum, divenne subito meta di venerazione dei milanesi che considerano le reliquie miracolose contro i mali e i sortilegi. Qui le reliquie riposarono per circa sei secoli, fino a quando Milano fu occupata e distrutta da Federico Barbarossa nell’ambito delle lotte per le libertà comunali. Era il 10 giugno 1164. Le spoglie dei Magi, diventate bottino di guerra, furono trafugate. Uno dei più stretti collaboratori dell’imperatore era l’arcivescovo di Colonia, Rainaldo di Dassel. Egli riuscì a farsi donare le preziose reliquie che vennero prima custodite nella chiesa di San Pietro, poi nella grande cattedrale gotica di Colonia. Qui, secondo la Legenda aurea, le reliquie dei Magi «risplendono dell’omaggio e della devozione che il popolo mostra per loro». Invano Ludovico il Moro nel 1494 e successivamente Filippo di Spagna, Pio IV, Gregorio XIII e il cardinale Federico Borromeo tentarono di riavere il maltolto. L’impresa è parzialmente riuscita al cardinal Ferrari nel 1904, quando ottenne in restituzione qualche ossicino, ora conservato in una preziosa urna posta sopra l’altare dei Magi. La stessa basilica di Sant’Eustorgio è considerata la chiesa dei Magi. Dedica convalidata dalla presenza della stella sulla cuspide del campanile al posto della croce. Fino al XVIII secolo, le reliquie dei tre santi sono state una delle più importanti mete di pellegrinaggio di tutto l’Occidente, e a tutt’oggi la fede popolare attribuisce notevole importanza ai Re Magi. Così la benedizione dei Re Magi allontanerebbe la sventura dalle case e dalle fattorie; soprattutto nelle campagne del nord Europa sopravvive l’usanza di scrivere sullo stipite della porta, la sera antecedente il 6 gennaio, le iniziali dei re e l’anno in questione. In molte località la padrona di casa incensa tutti gli ambienti. Molte locande tedesche hanno nomi che si riferiscono alla storia dei Re Magi: Mohr (moro), Stern (stella), Krone (corona). Anche nelle città è ancora viva l’usanza per cui i bambini, il 6 gennaio, si vestono da Magi e vanno di casa in casa a chiedere doni. Per allontanare il maltempo, le campane di molte chiese recano incise le iniziali dei Re Magi. Il centro del culto dei Re Magi era ed è la città di Colonia; fuori della città renana il culto dei saggi venuti dall’Oriente come santi non ha mai ricevuto un’approvazione ufficiale. Quale testimonianza del culto dei Re Magi, si può vedere ancora oggi un meraviglioso scrigno d’oro, conservato nel duomo di Colonia, opera di Nicola di Verdun, uno dei più celebri orafi del Medioevo. In esso riposano le ossa dei tre saggi venuti dall’Oriente, nonché quelle dei santi Felice, Nabore e Gregorio da Spoleto. Interessanti, sul lato frontale dello scrigno, le tre pietre che indicano la posizione delle teste dei santi. In Italia si trovano insegne di alberghi e osterie con questi nomi: «Ai tre Re», «Le tre corone», «Alla stella». Iconografia: In considerazione del forte culto tributato ai Re Magi a Colonia e dintorni, è in tale ambito che le loro immagini abbondano. Ne troviamo rappresentazioni figurative o simboliche, tra l’altro, alle porte della città, sugli edifici più importanti, sui sigilli della città, sui gonfaloni e persino sulla catena ufficiale del sindaco. Nelle vedute della città spesso i Re Magi si librano sulle nubi sopra Colonia. Nei dipinti spesso i Re Magi, carichi di doni, rendono omaggio a Gesù Bambino nella culla. Uno dei tre ha solitamente la pelle scura. Significato dei nomi: Baldassarre (assiro): Dio protegge la sua vita; Melchiorre (ebraico): il mio re è luce; Gaspare (iranico): portatore di tesoro, stimabile maestro, che ha in sé lo splendore; (sanscrito): colui che ispeziona. Patroni di Colonia, dei viaggiatori, dei pellegrini, dei pellicciai, dei produttori di carte da gioco; contro il maltempo. La festa dei Re Magi è per tradizione festa degli orefici, mentre Baldassarre è anche invocato contro gli attacchi di epilessia. 2,2: e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» (λέγοντες• ποῦ ἐστιν ὁ τεχθεὶς βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων; εἴδομεν γὰρ αὐτοῦ τὸν ἀστέρα ἐν τῇ ἀνατολῇ καὶ ἤλθομεν προσκυνῆσαι αὐτῷ). - il re dei Giudei (βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων). Poiché questo era il titolo ufficiale di Erode il Grande, la domanda dei Magi si prestava a essere interpretata come un riferimento a un rivale di Erode. Il titolo era stato usato da Alessandro Ianneo (103-76 a.C.) e dai suoi successori per indicare un re-sacerdote. Poiché molti guardavano al giudaismo dell'idumeo Erode con una certa diffidenza (gli Idumei erano stati costretti con la forza a convertirsi al giudaismo da Giovanni Ircano, 134-104 a.C.), qualsiasi rivale pretendente al titolo 9 avrebbe costituito un pericolo per Erode. Il titolo «re dei Giudei» ritorna solo durante il processo di Gesù e nell'iscrizione sulla Croce, ambedue le volte usato dal pagano Pilato (cf Mc 15,9; Mt 27,11.29.37; Gv 19,1922). Così si può dire che qui - nel momento in cui i primi pagani chiedono di Gesù - traspare già in qualche modo il mistero della Croce che è inscindibilmente connesso con la regalità di Cristo. - Abbiamo visto [spuntare] la sua stella (εἴδομεν γὰρ αὐτοῦ τὸν ἀστέρα ἐν τῇ ἀνατολῇ, lett. «abbiamo visto la sua stella in oriente»). Dal greco ἀστήρ, έρος, ὁ «stella» derivano i termini italiani «stella, astro, asteroide, astrologia, astronomia, astrografia, astrofisica…» Che tipo di stella era? È veramente esistita? L'idea che la nascita e la morte di grandi personaggi fosse accompagnata da fenomeni astrali era molto diffusa nell'antichità. Da Tacito e Svetonio sappiamo che, in quei tempi, circolavano attese secondo cui da Giuda sarebbe uscito il dominatore del mondo - un'attesa che Giuseppe Flavio interpretò indicando Vespasiano, con la conseguenza che entrò nei suoi favori (cf De bello Iud. III 399-408). La natura del fenomeno astrale che fu messo in relazione alla nascita di Gesù è stata interpretata in vari modi: una nuova stella, una supernova (Giovanni Keplero 1571-1630), una cometa, o la congiunzione dei pianeti Giove e Saturno. L'archeologo tedesco Friedrich Wieseler di Göttingen (1811-1892) afferma di aver trovato tavole cronologiche cinesi che attestano nell'anno 4 a.C. l'apparizione di «una stella luminosa» (Gnilka). L'astronomo viennese Konradin Ferrari d'Occhieppo (1907-2007) ha sostenuto che nella città di Babilonia continuava a esistere «ancora un piccolo gruppo di astronomi ormai in via di estinzione [...] Tavole di terracotta, coperte di iscrizioni in caratteri cuneiformi con calcoli astronomici [...] ne sono prove sicure». La congiunzione astrale dei pianeti Giove e Saturno nel segno zodiacale dei Pesci, avvenuta negli anni 7-6 a.C. - ritenuto oggi il vero tempo della nascita di Gesù -, sarebbe stata calcolabile per gli astronomi babilonesi e avrebbe indicato loro la terra di Giuda e un neonato «re dei Giudei». Ferrari d'Occhieppo riassume così: «Giove, la stella della più alta divinità babilonese [Marduc], compariva nel suo massimo splendore al tempo del suo sorgere serale accanto a Saturno, il rappresentante cosmico del popolo dei Giudei». Ma il motivo della stella deriva più probabilmente dall'oracolo di Balaam («Una stella spunta da Giacobbe», Nm 24,17) che non da questi fenomeni astrali. La stella di cui parla Balaam non è un astro; lo stesso re che deve venire è la stella che brilla sul mondo e determina le sue sorti. Tuttavia, la connessione tra stella e regalità potrebbe aver suscitato l'idea di una stella, che sarebbe la stella di questo Re e rimanderebbe a Lui. È solo in Mt 2,9 che la stella serve chiaramente da guida per i Magi, autentici rappresentanti dei popoli che cercano Cristo. La stella conduce i Magi innanzitutto a Gerusalemme. È del tutto normale che essi, alla ricerca del neonato re dei Giudei, vadano nella capitale ed entrino nel palazzo del re. Per trovare in modo definitivo la strada verso il vero erede di Davide, hanno poi bisogno dell'indicazione delle Scritture di Israele, delle Parole del Dio vivente. Non è la stella a determinare il destino del Bambino, ma il Bambino guida la stella. - e siamo venuti ad adorarlo (καὶ ἤλθομεν προσκυνῆσαι αὐτῷ). Il termine greco προσκυνέω, proskynéō, «mi prostro, adoro» (59x nel NT, 24x in Ap, 13x in Mt, 11x in Gv) si riferisce a un atto di sottomissione (inchino profondo, prostrazione) davanti a una persona di grande dignità o autorità. In questo caso si tratta di un re. Il termine è ripreso in Mt 2,8.11 e altrove per indicare, oltre alla richiesta del diavolo di 4,9, il gesto di venerazione verso Gesù da parte del lebbroso (8,2), del notabile (9,18), dei discepoli (14,33), della cananea (15,25), della madre di due discepoli (20,20), delle donne (28,9), e infine quello del gruppo degli Undici che adorano il Risorto (28,17). Il verbo è molto importante per Matteo, ed è forse prefigurazione della venerazione di Gesù di cui i suoi lettori cristiani avevano dimestichezza nel culto comunitario. Che l'uso matteano di προσκυνέω sia intenzionale si evince dal fatto che l'evangelista lo omette nei due passi in cui viene usato da Marco (5,6; 15,19). 2,3-5: All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. 4Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. 5Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: (ἀκούσας δὲ ὁ βασιλεὺς Ἡρῴδης ἐταράχθη καὶ πᾶσα Ἱεροσόλυμα μετ' αὐτοῦ, 4καὶ συναγαγὼν πάντας τοὺς ἀρχιερεῖς καὶ γραμματεῖς τοῦ λαοῦ ἐπυνθάνετο παρ' αὐτῶν ποῦ ὁ Χριστὸς γεννᾶται. 5οἱ δὲ εἶπαν αὐτῷ ἐν Βηθλέεμ τῆς Ἰουδαίας• οὕτως γὰρ γέγραπται διὰ τοῦ προφήτου•) - il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme (ὁ βασιλεὺς Ἡρῴδης ἐταράχθη καὶ πᾶσα Ἱεροσόλυμα μετ' αὐτοῦ). Il verbo ἐταράχθη è ind. aor. pass. di ταράσσω «agito, sommuovo, sconvolgo, turbo» (17x nel NT, 2x in Mt). Comprensibile è il turbamento di Erode, meno lo è quello di Gerusalemme. Probabilmente l'evangelista vuole alludere all'ingresso trionfale di Gesù nella Città Santa alla vigilia della sua Passione, ingresso a proposito del quale Matteo scrive: «tutta la città fu presa da agitazione» (21,10). Dio disturba le nostre abitudini quotidiane. La regalità di Gesù si rivela autentica nella sua Passione. 10 - i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo (τοὺς ἀρχιερεῖς καὶ γραμματεῖς τοῦ λαοῦ). Il plurale ἀρχιερεῖς da ἀρχι- ἱερεῖς «i capi dei sacerdoti» probabilmente si riferisce agli ex sommi sacerdoti e ai membri della famiglia sacerdotale oltre che al sommo sacerdote in carica. I γραμματεῖς «scribi» (citati qui per la prima volta) erano gli esperti nell'interpretazione delle Scritture e perciò potevano rispondere alla domanda dei Magi riguardo al luogo di nascita del re dei Giudei. L'accenno a questi gruppi in questo passo può anche essere un'anticipazione di quelli che saranno i nemici di Gesù nel racconto della passione. - A Betlemme di Giudea (ἐν Βηθλέεμ τῆς Ἰουδαίας). Che questo fosse ritenuto comunemente il luogo dove doveva nascere il Messia è suggerito da Gv 7,42: «Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide?». - per mezzo del profeta (διὰ τοῦ προφήτου). Alcuni manoscritti aggiungono il nome del profeta Michea o Isaia. In realtà la citazione è una combinazione di Mi 5,1 e di 2Sam 5,2. 2,6: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele» (καὶ σύ Βηθλέεμ γῆ Ἰούδα, οὐδαμῶς ἐλαχίστη εἶ ἐν τοῖς ἡγεμόσιν Ἰούδα• ἐκ σοῦ γὰρ ἐξελεύσεται ἡγούμενος ὅστις ποιμανεῖ τὸν λαόν μου τὸν Ἰσραήλ.) - terra di Giuda (γῆ Ἰούδα). La «citazione» di Mic 5,1 è modificata, in sostituzione di «terra di Èfrata» Matteo preferisce «terra di Giuda», probabilmente per sottolineare la discendenza del Messia da Giuda, antenato di Davide (cf Mt 1,1-2). - non sei davvero (οὐδαμῶς). L'avverbio οὐδαμῶς «certamente no, nient'affatto, no davvero» vuole negare l'insignificanza di Betlemme. Nella Bibbia ciò che è grande nasce da ciò che sembra piccolo e insignificante, mentre ciò che, agli occhi del mondo, è grande, si frantuma e scompare. Una parola di Maria nel Magnificat riassume questo persistente paradosso dell'agire di Dio: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52). - da te infatti uscirà un capo (ἐκ σοῦ γὰρ ἐξελεύσεται ἡγούμενος). Il verbo ἐξελεύσεται è ind. fut. di ἐξέρχομαι «esco, vado, provengo, scaturisco». Il participio ind. pres. pass. di ἡγέομαι «guido, conduco, governo, ritengo, giudico, credo, stimo» corrisponde all'ebraico moshel che vuol dire anche «clan». - che sarà il pastore (ὅστις ποιμανεῖ, lett. «che pascerà»). Il finale della «citazione» viene da 2Sam 5,2: «Tu pascerai Israele mio popolo». È stato modificato solo per farlo concordare con la citazione di Michea. Il futuro principe viene qualificato come Pastore di Israele. Così si fa un accenno alla sollecitudine amorevole e alla tenerezza, che contraddistinguono il vero sovrano in quanto rappresentante della regalità di Dio. 2,7-8: Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella 8e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo» (Τότε Ἡρῴδης λάθρᾳ καλέσας τοὺς μάγους ἠκρίβωσεν παρ' αὐτῶν τὸν χρόνον τοῦ φαινομένου ἀστέρος, 8καὶ πέμψας αὐτοὺς εἰς Βηθλέεμ εἶπεν πορευθέντες ἐξετάσατε ἀκριβῶς περὶ τοῦ παιδίου• ἐπὰν δὲ εὕρητε ἀπαγγείλατέ μοι, ὅπως κἀγὼ ἐλθὼν προσκυνήσω αὐτῷ.). - Andate e informatevi accuratamente... fatemelo sapere (πορευθέντες ἐξετάσατε ἀκριβῶς … ἀπαγγείλατέ μοι, lett. «essendovene andati informatevi accuratamente … annunciate a me»). L'ansia di Erode si riconosce dall'uso frequente di verbi: part. aor. pass. di πορεύομαι «vado, mi reco, parto, percorro, vivo»; impt. aor. di ἐξετάζω «interrogo, interpello, indago, chiedo»; cong. aor. di εὑρίσκω «trovo, reperisco, ottengo, conseguo, incontro»; impt. aor. di ἀπαγγέλλω «rispondo, faccio sapere, riferisco, racconto, informo, parlo, annuncio, ordino, dichiaro»; part. aor. di ἔρχομαι «vengo, arrivo, giungo»; cong. aor. di προσκυνέω «mi prostro, adoro». Matteo 2,12 suppone che Erode si aspettasse che i Magi andassero a Gerusalemme e lo informassero direttamente. Il desiderio espresso da Erode di poter andare a rendere omaggio al bambino è in netto contrasto con le sue reali intenzioni (che saranno rese note in Mt 2,16-18) e con le vere intenzioni dei Magi che vogliono unicamente poter rendere omaggio al neonato re dei Giudei (cf 2,2.11). La risposta dei capi dei sacerdoti e degli scribi alla domanda dei Magi ha certamente un contenuto geografico concreto, che per i Magi è utile. Essa, tuttavia, non è solo un'indicazione geografica, ma anche un'interpretazione teologica del luogo e dell' avvenimento. Che Erode ne tragga le sue conseguenze è comprensibile. Sorprendente è invece il fatto che i conoscitori della Sacra Scrittura non si sentano spinti a conseguenti decisioni concrete. Si deve forse scorgere in questo l'immagine di una teologia che si esaurisce nella disputa accademica? (Ratzinger). 11 2,9-10: Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. 10Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima (οἱ δὲ ἀκούσαντες τοῦ βασιλέως ἐπορεύθησαν καὶ ἰδοὺ ὁ ἀστὴρ ὃν εἶδον ἐν τῇ ἀνατολῇ. προῆγεν αὐτοὺς, ἕως ἐλθὼν ἐστάθη ἐπάνω οὗ ἦν τὸ παιδίον. 10ἰδόντες δὲ τὸν ἀστέρα ἐχάρησαν χαρὰν μεγάλην σφόδρα). - la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva (ἀστὴρ ὃν εἶδον ἐν τῇ ἀνατολῇ. προῆγεν αὐτοὺς, lett. «la stella che avevano visto in oriente li precedeva»). Il termine ἀνατολή, ῆς, ἡ significa «est, levante, oriente». Il verbo προῆγεν è impf. ind. di προάγω «conduco, presento, precedo, progredisco». Adesso il movimento della stella indica esattamente dove si trova il bambino. Fino a che punto la stella fosse servita da guida ai Magi prima di questo momento non è specificato. La creazione, interpretata dalla Scrittura, torna a parlare all'uomo. La stella stessa pare che abbia interesse a incontrare il Re bambino, per adorarlo. Anche il creato, che geme in attesa della redenzione finale (cf Rom 8,22), prova una grandissima gioia insieme ai Magi, perché trova tra le sue creature il suo stesso Creatore. - provarono una gioia grandissima (ἐχάρησαν χαρὰν μεγάλην σφόδρα, lett. «si rallegrarono di gioia grande fortemente»). Il verbo ἐχάρησαν è ind. aor. pass. di χαίρω «sono lieto, mi rallegro, gioisco». L'espressione della gioia dei Magi è descritta in termini ridondanti per sottolineare il fatto. È la gioia dell'uomo che è colpito nel cuore dalla luce di Dio e che può constatare che la sua speranza si realizza; è la gioia di colui che ha trovato e nello stesso tempo è stato trovato. 2,11: Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra (καὶ ἐλθόντες εἰς τὴν οἰκίαν εἶδον τὸ παιδίον μετὰ Μαρίας τῆς μητρὸς αὐτοῦ, καὶ πεσόντες προσεκύνησαν αὐτῷ καὶ ἀνοίξαντες τοὺς θησαυροὺς αὐτῶν προσήνεγκαν αὐτῷ δῶρα χρυσὸν καὶ λίβανον καὶ σμύρναν.). - Entrati nella casa (καὶ ἐλθόντες εἰς τὴν οἰκίαν). La frase si introduce con il part. aor. di ἔρχομαι «vengo, arrivo, giungo». Matteo dà per scontato che Maria e Giuseppe vivano in una casa a Betlemme. Poi procederà a spiegare come da Betlemme si siano trasferiti a Nazaret. Al contrario, Luca 2,1-7 spiega come da Nazaret siano andati a Betlemme. Nonostante la tradizione popolare, non è necessario vedere in Lc 2,7 un riferimento a una grotta o a una stalla. Più probabilmente si tratta della parte della casa privata riservata agli animali, che in una situazione di emergenza poteva anche essere usata come alloggio per gli ospiti. Perciò non è necessario vedere una netta contraddizione tra Matteo e Luca su questo punto. Per entrambi, Maria, Giuseppe e Gesù potevano stare in una casa. - si prostrarono e lo adorarono (πεσόντες προσεκύνησαν αὐτῷ). Il primo verbo è part. aor. di πίπτω «cado»; il secondo è ind. aor. di προσκυνέω, proskynéō, «mi prostro, adoro». Davanti al Bambino, i Magi praticano la προσκύνησις, proskýnēsis, «adorazione, prosternazione». Questo è l'omaggio che si rende a un Re-Dio. A partire da ciò si spiegano poi anche i doni che i Magi offrono. Non sono regali pratici, che in quel momento forse sarebbero stati utili per la Santa Famiglia. I doni esprimono la stessa cosa della proskýnēsis: sono un riconoscimento della dignità regale di Colui al quale vengono offerti. - gli offrirono in dono (προσήνεγκαν αὐτῷ δῶρα, lett. «gli offrirono doni»). Il verbo è ind. aor. di προσφέρω «porto, porgo, presento, conduco, faccio un offerta, un sacrificio, agisco, mi comporto verso». È dall'elenco di questi tre doni (χρυσὸν καὶ λίβανον καὶ σμύρναν, «oro, incenso e mirra») che è sorta l'idea dei tre Magi. Da una possibile allusione al Sal 72,10: «i re degli Arabi e di Saba offriranno tributi» viene l'idea che i Magi fossero re. La natura dei doni fa pensare a Is 60,6: «tutti verranno da Saba portando oro e incenso». Questi luoghi legano i Magi all'Arabia o al deserto siriano. I doni portati a Betlemme, sin dall'antichità (Origene, 185-254), sono interpretati in senso cristologico e in riferimento alla sorte del Messia. L'Inno per l'Epifania di Prudenzio (Aurelio Prudenzio Clemente 348 – ca. 413, poeta romano cristiano) afferma: «l'oro è per il re, il profumo dell'incenso d'Arabia preannuncia Dio e nella polvere di mirra c'è il presagio del sepolcro». Incenso e mirra potrebbero però essere semplicemente legati alle usanze di quel tempo e di quei luoghi: compaiono insieme in Ct 3,6, identificati come «aroma di profumiere» (cf Ap 18,13), e forse per questa ragione nell'antichità i Padri non hanno tenuto debito conto di questi riferimenti, che svalutavano, ai loro occhi, il significato che invece dovevano avere in rapporto al futuro di Gesù. 2,12: Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese (καὶ χρηματισθέντες κατ' ὄναρ μὴ ἀνακάμψαι πρὸς Ἡρῴδην, δι' ἄλλης ὁδοῦ ἀνεχώρησαν εἰς τὴν χώραν αὐτῶν). 12 - Avvertiti in sogno (χρηματισθέντες κατ' ὄναρ). Il verbo χρηματισθέντες è part. aor. di χρηματίζω «essere istruito da un oracolo divino, portare un nome». I sogni sono mezzi di comunicazione divina (cf Mt 1,20; 2,13.19). Qui, a differenza dei sogni di Giuseppe, non c'è nessun accenno all'«angelo del Signore». Chi segue la luce della verità che viene dall'alto riceve il dono del discernimento e perciò non esita a dissociarsi dai voleri dei potenti di questo mondo, esercitando un sacrosanto diritto e dovere di spirito critico, espressione autentica della libertà che il Padre assicura a ogni suo figlio. Per altra strada i Magi fecero ritorno al loro paese, noncuranti delle pretese di Erode. Nel primo capitolo del suo vangelo, Matteo si concentra sull'identità di Gesù ponendosi la domanda: «chi è Gesù?». È il figlio di Abramo e di Davide. Poi passa a mostrare come Giuseppe sia diventato il padre legale di Gesù e come gli sia stato suggerito il nome Gesù. In Matteo 2 l'enfasi è spostata dall'identità di Gesù a una serie di luoghi. Se l'interesse principale del capitolo uno era il «Chi?», quello del capitolo due è il «Dove?». La storia dei Magi si può dividere in due parti, secondo il luogo in cui si svolge l'azione: Gerusalemme (2,1-6) e Betlemme (2,7-12). I magi di cui parla Matteo normalmente sono identificati come pagani, rappresentanti di quei credenti in Cristo che iniziano a unirsi alla comunità di Matteo e provengono appunto dai non circoncisi. L'idea che questi personaggi siano stranieri è però aliena al piano teologico di Matteo e soprattutto difficilmente dimostrabile attraverso il testo. L'idea che i magi siano gentili ha avuto fortuna anche perché implica che mentre ad adorare Gesù vengono gli stranieri, Israele rimarrebbe (col suo re e i suoi saggi) chiusa e ferma a Gerusalemme; in questo senso, ha una chiara tonalità antigiudaica. L'argomento più forte contro questa lettura è che la maggior parte delle volte in cui compare la parola «mago» nell'Antico Testamento, ovvero nel libro di Daniele, il termine designa sì astrologi pagani, ma dei quali diventa capo un ebreo, Daniele (cf Dn 2,48), che vive proprio a Babilonia, uno dei luoghi identificabili con l'espressione «dall'oriente» (Mt 2,1). Perciò i magi potrebbero ben rappresentare gli ebrei della diaspora, idealmente discendenti delle dieci tribù disperse in qualche luogo dell'Assiria o di Babilonia, e mai tornati in patria con Esdra. Se infatti solo tre tribù uscirono dall'esilio (Giuda, Levi e Beniamino), l'attesa per una totale reintegrazione era forte anche al tempo di Gesù. Questi prima, e Matteo poi, dovevano conoscere la preghiera delle Diciotto benedizioni, con la quale si chiedeva a Dio proprio il ritorno degli esiliati al suono del grande «šôpar šôpar» šôpar a cui allude solo il primo vangelo in 24,31. Ora, in forza della loro abilità di interpretare segni e sogni, questi sapienti-maghi sarebbero finalmente in grado di tornare nella loro terra d'origine, perché è nato il re che pascerà le tribù di Israele. All'ipotesi che i magi siano ebrei si può obiettare che la magia è rigidamente proibita nella Bibbia, ma è anche vero che i rabbini dovevano tollerarne alcune pratiche (Rabbi Eli'ezer ben Hyrkanos; Abraam era ritenuto esperto di astrologia, cf Talmud babilonese, Nedarim 32a) o comunque ritenevano che se ne dovessero conoscere i misteri. In ogni caso, i magi di Matteo sono più astrologi o sapienti, capaci di attività divinatoria e di interpretare i sogni, proprio come Daniele che sapeva scrutare i misteri di Dio (cf Dn 2,22). La teologia che deriva da questa interpretazione si spiega attraverso la citazione profetica in Mt 2,6 interpretata e spiegata dagli scribi di Gerusalemme, sapienti come i magi. Per quanto riguarda la «stella» (v. 2), oggi si rinuncia a identificare eventuali fenomeni celesti o congiunzioni astrali; essa viene interpretata come un'allusione alla profezia pronunciata dal mago Bil'am/Balaam di Nm 24,17: Una stella spunta da Giacobbe. Nell'epoca intertestamentaria la frase «una stella si muove da Giacobbe, si alza uno scettro da Israele» era compresa di volta in volta come 1) una profezia su David (cf Ibn Ezra, 1089-1167), 2) profezia sul Messia che deve venire (Targum Onkelos, I-II d.C.: «Un re sorgerà da Giacobbe e l'unto verrà consacrato da Israele»; cf Bereshit Rabba 23,14), 3) sull'atteso «interprete della Torà» (nel testo qumranico Documento di Damasco A 7,18). La fortuna dell'interpretazione messianica dell'oracolo di Bil'am/Balaam è attestata anche dalla sua applicazione, da parte di rabbi Akivà (50-135 d.C.), al capo della terza guerra giudaica (132-135 d.C.) Bar Kochba «figlio della stella», autoproclamatosi messia nel 132, con lo scopo di liberare Israele dai Romani. Tre furono le rivolte antiromane: 66-70 d.C. (Vespasiano, Tito); 115-117 d.C. (Traiano); 132-135 d.C. (Adriano). Dopo la sua sconfitta, però, fu chiamato Bar Koziba, «figlio della menzogna». L'obiezione principale a questa lettura basata su Nm 24 è che se davvero il riferimento fosse a una profezia addirittura presente nella Torà, 13 Matteo non si sarebbe lasciato sfuggire l'occasione per sottolinearne il compimento (come ha fatto con la profezia dell'Immanuel). Altri hanno proposto che la stella sia l'equivalente della gloria celeste vista dai pastori in Luca. È comunque qualcosa di non definibile in modo preciso: l'interesse di Matteo sta nel dire che i magi riescono a decodificarne il significato, così come sanno interpretare i sogni che vengono da Dio. Per mezzo del profeta. Nel v. 6 apprendiamo che gli scribi trovano una profezia determinante per la ricerca dei magi: solo grazie alla conoscenza delle Scritture essi possono raggiungere il bambino. L'interpretazione delle stelle, dunque, non è sufficiente (e poi Israele «non è soggetta a influenze planetarie»: cf Talmud babilonese, Nedarim 32a); bisogna scrutare le profezie, decifrabili da coloro che allora erano seduti «sulla cattedra di Mosè» (23,2-3), e che anche i magi sembrano comprendere e accogliere. La profezia è composta di due parti. Quella di Mi 5,1 non necessariamente doveva avere, in origine, un significato messianico, ma il Targum glielo attribuisce. A Matteo però la citazione di Michea non basta: per il Testo Masoretico e la Settanta di Mi 5,1 colui che uscirà da Betlemme dovrà «dominare» Israele, mentre per Matteo lo governerà come un «pastore» che pasce il suo popolo. Per sostenere questo punto l'evangelista deve operare una conflazione con un testo che nel canone ebraico era comunque considerato parte dei Profeti, il Secondo libro di Samuele. Con un implicito richiamo all'investitura di David come re di Israele (cf 2Sam 5,1-2) viene così introdotto un tema caratteristico del primo vangelo, quello del re-pastore venuto per le pecore disperse di Israele: Gesù - già presentato come erede di David nel primo versetto del vangelo - è ora colui che radunerà le tribù disperse per riportarle alla loro terra. L'esilio, quello di cui Matteo ha parlato per quattro volte nella genealogia di Gesù (cf 1,11.12.17), vedeva ancora a oriente della terra d'Israele una consistente diaspora di ebrei che dimoravano a Babilonia. Questa diaspora sta per finire e l'erede di David riceve la visita e l'onore degli ebrei che lo riconoscono come colui che raccoglierà le pecore disperse della casa d'Israele per le quali è stato mandato (cf 15,24; 10,6). Vangelo dell'infanzia e passione. Nonostante la corretta interpretazione delle Scritture, né i capi dei sacerdoti, né gli scribi (e tanto meno Erode) si muovono per andare a Betlemme: solo i magi proseguono il loro viaggio. Il riunirsi dei sacerdoti e dei sapienti ha ricordato a qualcuno quanto accadrà alla fine del vangelo: lì, ancora una volta, sarà radunato un «sinedrio» per giudicare Gesù (cf 26,59) e condannarlo a morte, con il motivo scritto sul suo capo «Gesù, il re dei Giudei». Anche i magi chiedono del «re dei Giudei» (2,2). Un altro sogno. In 2,12 si allude al secondo sogno del vangelo dell'infanzia di Matteo. I sogni sono fondamentali nel primo vangelo, e torneranno nel racconto della passione, in un momento cruciale, quello del processo di Gesù (cf 27,19). Luoghi della comunicazione con Dio per il mondo greco-romano, sono per l'Antico Testamento un modo per comprendere la sua volontà e le sue decisioni: secondo il libro di Giobbe, il sogno è un modo in cui Dio si rivela (Gb 33,14-16). Il sogno si presenta sempre come una forma debole di rivelazione, secondo quanto scritto in un midrash: «Ci sono tre sessantesimi [cioè «anticipazione»]: il sessantesimo della morte è il sonno, il sessantesimo della profezia è il sogno, il sessantesimo del mondo avvenire è il sabato» (Bereshit Rabba 17,5; 44,7). Diversamente dai sogni presenti nelle varie leggende o nelle diverse letterature mondiali, Dio insieme al sogno dona anche la corretta interpretazione, al modo in cui aveva dato al patriarca Giuseppe e a Daniele il modo di decifrarli. Giuseppe e i magi capiscono quanto devono fare e lo mettono in atto. Sempre in 2,12 si dice del ritorno dei magi in oriente; a essi basta aver visto il re dei giudei e aver sperimentato quella grande gioia: non possono restare, la loro casa è altrove. Forse si dice qui che l'esilio non è terminato, non solo quello del popolo ebraico, ma anche quello dei cristiani: proprio intorno al 70, con l'esercito romano che stava occupando la Galilea, Gerusalemme e i dintorni, gruppi di giudeo-cristiani secondo le notizie di Eusebio (263-339) ed Epifanio (310-403) - devono essere andati a Pella per non partecipare alla rivolta e mettersi al riparo; dopo l'esilio di Efrayim e quello babilonese, ne è iniziato uno ancora più significativo. In fondo, però, la diaspora e l'esilio rappresentano molto di più di una contingenza storica: sono le categorie con cui si è compreso Abraam, «forestiero e di passaggio» (Gen 23,4; cf Eb 11,13) e si sono letti poi i cristiani (cf Gc 1,1: «alle dodici tribù che sono nella diaspora»; e 1Pt 1,1: «ai pellegrini della dispersione...»). I magi e la storia. Se la stella di Matteo può essere letta in senso simbolico, cristologico e messianico, a prescindere dalla probabilità di un reale fenomeno astronomico che abbia originato il fenomeno, questo non 14 porta necessariamente a dover sostenere che il sorgere di una stella e l'episodio dell'arrivo dei magi siano una creazione matteana o della comunità cristiana: se qualcuno ritiene si tratti di un midrash, nel senso di una storia edificante, altri hanno però fatto notare che possiamo comprendere meglio la storia dei magi in Matteo non come una creazione letteraria ma come basata su un episodio storico, anche per il fatto che la tradizione primitiva non avrebbe guadagnato nulla a inventare un tale racconto: non solo i maghi e la magia sono visti in modo negativo nella Bibbia (e così dai Padri della Chiesa), ma anche Gesù era stato accusato di stregoneria. Viene infatti erroneamente creduto da alcuni farisei un mago, col titolo di «capo dei demoni» (9,34), accusa che avrà fortuna nella successiva polemica anticristiana (in certi passi del Talmud Gesù è un impostore settario). Si deve comunque ammettere che il genere letterario dei primi due capitoli del vangelo è particolare. La questione del carattere storico dei racconti di Matteo 2 è un problema complicato. Alcuni sostengono che questi racconti siano una specie di «midrash», nel senso che sarebbero elaborazioni costruite su testi biblici anziché la descrizione di fatti reali. Anche se il racconto può considerarsi leggendario, tuttavia è ricchissimo di contenuti simbolici e prefigurativi. Prefigura, anzitutto, la vicenda di un Messia, "Re dei giudei", che paradossalmente sarà creduto dai pagani più che dagli stessi giudei, che lo attendevano e ai quali era destinato. E questo riflette il "mistero" di cui parla Paolo nella Lettera ai Romani: «Se la loro caduta è stata ricchezza per il mondo e il loro fallimento ricchezza per le genti, quanto più la loro totalità!» (Rm 11,12). Ma anche dal punto di vista simbolico il brano è molto denso e può essere riconosciuto una teologia della rivelazione: il luogo in cui si trova il Messia è la stella e la Scrittura. La stella rappresenta i segni dei tempi, la storia, la creazione, il linguaggio silenzioso delle cose. La stella conduce vicino all'evento messianico, ma non raggiunge da sola la meta: occorre anche la verifica della Scrittura. I magi non salgono direttamente fino a Betlemme, si fermano a Gerusalemme: «da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore» (Is 2,3). Occorre la mediazione di Israele, a prescindere dalla sua incredulità, che è sempre parziale (cf Rm 11,25). Solo nella congiunzione fra la stella apparsa ai pagani e la parola custodita da Israele è possibile individuare l'evento del Messia. La stella conduce alla Scrittura, e la Scrittura riattiva la stella: insieme conducono al luogo dove si trova l'Emmanuele, il Dio-con-noi. È in quel momento che la stella si ferma, la parola si fa evento, e noi siamo ricolmi di una grandissima gioia. Molte e varie possono essere le modalità di accesso al popolo di Israele e al suo mistero. Il Catechismo della Chiesa cattolica ce ne ricorda diverse, tra cui l'epifania di Cristo, con queste parole: «L'Epifania è la manifestazione di Gesù come Messia d'Israele, Figlio di Dio e Salvatore del mondo; insieme con il battesimo di Gesù nel Giordano e con le nozze di Cana, essa celebra l'adorazione di Gesù da parte dei magi venuti dall'Oriente» (528). La venuta dei magi, che rappresentano le nazioni pagane circostanti «sta a significare che i pagani non possono riconoscere Gesù e adorarlo come Figlio di Dio e Salvatore del mondo se non volgendosi ai giudei e ricevendo da loro la promessa messianica quale è contenuta nell'Antico Testamento. L'Epifania manifesta che «la grande massa delle genti» entra nella famiglia dei Patriarchi (cf Leone Magno, Sermones, 23) e ottiene la dignità israelitica» (528). I Padri hanno attribuito diversi significati simbolici ai doni dei magi. Aurum, thus, myrrham, regique, Deoque, hominique, «Oro, incenso, mirra: al re, al Dio, all'uomo», detto di Gaio Vettio Aquilino Giovenco (primo poeta latino cristiano del IV secolo). L'apice del racconto si trova nei vv. 10-11, ove si parla della χαρὰν μεγάλην σφόδρα «gioia molto grande» che i pagani provano nel trovare il luogo in cui si trova il bambino. Riconosciuto il Messia, i Magi se ne tornano al loro paese δι' ἄλλης ὁδοῦ «per un'altra via» (v. 12), senza più ritornare da Erode. «I Magi, prostratisi, adorarono il Bambino. Fa' lo stesso anche tu. I Magi, come tuoi maestri, ti insegnano il modo in cui devi adorare Dio» (Giuliano di Vézelay, Sermoni). 15