Maria Luisa Maniscalco EUROPA, NAZIONALISMI, GUERRA Sociologie a confronto tra Otto e Novecento ARMANDO EDITORE Sommario Introduzione 7 PARTE PRIMA: SPIRITO COSMOPOLITA E ‘IMPOSSIBILITÀ SOCIALE’ DELLA GUERRA 13 Auguste Comte: l’anacronismo della guerra 15 L’uomo e il suo tempo; La guerra nel contesto della teoria evolutiva dei tre stadi; Il ruolo della religione; Opinione pubblica ‘cosmopolita’ e declino della guerra; L’utopia comtiana Herbert Spencer: società industriale versus società militare 31 L’evoluzionismo sociale spenceriano; La guerra come modalità di evoluzione sociale; La società militare; La società industriale; Tra pace e guerra Alexis de Tocqueville: società democratica e guerra 47 Originalità del pensiero di Tocqueville; Libertà e uguaglianza nel contesto americano; Dottrina del benessere e trasformazione del senso dell’onore; Democrazia, guerra e professione militare PARTE SECONDA: LA VERTIGINE NAZIONALISTICA E LA CATASTROFE DELLA GRANDE GUERRA 63 Émile Durkheim: ragione e resistenza 65 Uno spirito pacifico, libero e antimilitarista; La scelta patriottica; Dottrina dello Stato e concezione della guerra in Germania; Il valore della resistenza; La lezione durkheimiana Max Weber: una politica di potenza per la Germania 83 La passione nazionalistica; La sociologia weberiana del conflitto; Politica di potenza, cultura e libertà; Il coinvolgimento intellettuale ed emotivo; L’orgoglio di essere tedesco fino alla fine Georg Simmel: la guerra come ‘rinascita’ 103 L’impegno nazionalistico; Specificità dell’identità tedesca; La teoria simmeliana del conflitto; Una Germania ‘nuova’; Gli effetti della guerra in Europa Vilfredo Pareto: lo sguardo di un’altra sociologia 121 Un osservatore disincantato; Sentimenti e ragione; La guerra e la sociologia paretiana; La brama di potere; I problemi del dopoguerra Introduzione Mentre l’Europa della crisi torna ad interrogarsi sui nazionalismi, questo libro analizza le narrazioni sulla guerra, la pace e il patriottismo di due diverse generazioni di sociologi: gli autori dell’Ottocento e i ‘padri’ della moderna sociologia. Le loro opposte visioni mostrano i percorsi di un’‘immaginazione sociologica’ su due posizioni polari di quel processo trasformativo che portò, nella maggior parte dei paesi europei a partire dal Diciottesimo secolo, ad uno spostamento dalla centralità degli ideali a sfondo cosmopolita e universalistico in direzione di orientamenti particolaristici con a fulcro l’idea di nazione. Auguste Comte, Herbert Spencer e Alexis de Tocqueville vissero e descrissero importanti processi di cambiamento a livello economico, politico, socio-culturale e psicologico. L’Ottocento fu un secolo in cui trovarono compimento gli impulsi generati da trasformazioni di lungo periodo – che si sono sviluppate in Europa a partire dal basso Medioevo attraverso il Rinascimento, la Riforma, le scoperte geografiche e l’industrializzazione – e da eventi storici più puntuali, ma non per questo meno epocali, quali l’Illuminismo e la Rivoluzione. La storia europea ne fu profondamente segnata: era stata impressa una svolta al suo sviluppo e si era affermata una nuova e autonoma soggettività. Sulla base della condivisione transnazionale di ideali politici e di interessi commerciali emersero sistemi concettuali che assicurarono un entusiastico appoggio all’ideologia del progresso, sostennero il tramonto di ogni particolarismo e l’ineluttabilità della pace e della solidarietà tra i popoli. La nascente sociologia bene esprimeva lo spirito del tempo: teorizzava che con l’evoluzione sociale aumentasse il ruolo delle singole individualità, mentre una progressiva sostituzione della mentalità magico-religiosa con una meno caratterizzata dall’influenza dell’immaginazione e in minor grado collegata all’emotività delle passioni avrebbe fa7 cilitato l’affermazione di nuove forme di autoconsapevolezza e di capacità critica nei confronti dei governanti, rendendo progressivamente più pacifiche le società. Fu espressa allora un’intenzione non radicalmente nuova, ma sicuramente originale nelle sue formulazioni: quella di una conoscenza puramente scientifica della realtà sociale in quanto tale, nel duplice e talvolta contradditorio carattere di relazioni elementari tra gli individui e di entità globale. La sociologia si propose e si affermò come forma di conoscenza ‘scientifica’ della vita sociale in un periodo in cui un clima culturale fiducioso, nutrito di aspettative per un futuro migliore, alimentate anche dalle scoperte scientifiche e tecnologiche, aveva reso possibile un processo di reinterpretazione e di ridefinizione della società alla luce delle istanze sociali emergenti e delle nuove esigenze ad esse connesse. D’altronde ogni società che vuole migliorarsi ha bisogno di avere fiducia nei propri progetti e di credere nella possibilità di un cammino evolutivo nella storia. Per i nuovi interessi scientifici il discorso sulla guerra perse parte della sua secolare centralità ed autonomia per essere un aspetto di una più generale riflessione sulla società e sul suo sviluppo; molti tra i pensatori sociali che se ne occuparono lo fecero con un’ottica strumentale, considerando la presenza o l’assenza della guerra un buon indicatore del livello raggiunto nel processo storico-evolutivo che concepivano secondo un modello fortemente influenzato dalla fede nel progresso e dalle aspettative di pace del secolo Diciannovesimo. Secondo gli autori qui presi a testimonianza dello spirito dell’epoca, la società moderna con il suo carattere democratico e cosmopolita contrastava la logica dell’esclusione e la chiusura tipiche degli orientamenti bellicisti tradizionali per i quali la guerra necessitava di organismi improntati a principi collettivistici. La trasformazione della società avrebbe respinto la guerra al rango di fenomeno residuale. Comte, Spencer e Tocqueville, fiduciosi nella forza della ragione soggettiva e nell’affermazione della società industriale e democratica, tendevano a considerare la guerra, e le forti passioni che da sempre l’hanno accompagnata, come un’eredità di altre epoche che l’evoluzione storica e una diversa mentalità avrebbero progressivamente minimizzato. La pace all’interno della società e tra gli Stati sarebbe stata una sorta di esito naturale di una diversa organizzazione sociale, basata su valori nuovi e su habitus mentali ad essi coerenti. La storia, come è noto, con la brutalità del primo conflitto mondiale, per non parlare 8 di quanto accadde dopo, smentì clamorosamente le loro previsioni per lasciare spazio alle riflessioni di quanti – più o meno riluttanti – considerarono la guerra e la violenza elementi ineliminabili della condizione umana. La generazione successiva di sociologi – quella dei grandi ‘padri’ della sociologia – si è trovata a vivere una più matura consapevolezza circa l’ambiguo destino della ragione e del progresso, dello sviluppo della società industriale e della stessa modernità; soprattutto sperimentò la forza dei sentimenti nazionalistici e la relativa capacità di trasformare un popolo in un ‘corpo belligerante’. A fine Ottocento entrò in crisi la società europea in concomitanza con una più generale rivoluzione del pensiero scientifico e filosofico. Freud in particolare dimostrò che l’uomo non è un’unità, né agisce esclusivamente in base alla razionalità, minando la concezione antropologica intorno alla quale era stata costruita l’immagine unitaria di una società in evoluzione. La crisi fu l’esito di una sofferta transizione che portò l’Europa a perdere il comune linguaggio in una babele vernacolare e ad eclissarsi come idea nel vortice di nazionalismi olistici che inghiottivano tutto ciò che prima aveva goduto di dignità e valore, di unità e concordia. Le riflessioni sulla guerra di Durkheim, Pareto, Simmel e Weber facilitano la comprensione di un evento epocale: nel 1914 finì un’epoca storica incominciata nel 1789 e si aprirono processi che segnarono significativamente il ‘secolo breve’. L’ascesa politica delle classi borghesi giocò un ruolo fondamentale per l’affermazione di un amore di patria tradotto in dedizione alla collettività nazionale. Queste nuove dirigenze, decisamente più inclini ed esperte negli affari interni, si trovarono di fronte alla responsabilità di gestire rapporti interstatali senza aver avuto la possibilità di elaborare dottrine e prospettive autonome. A differenza dell’aristocrazia – sensibile ai rapporti internazionali seppure dedita, in connessione ai valori militari delle caste guerriere, alla piena realizzazione dei propri interessi – le classi borghesi non poterono contare su una tradizione che, pur nel crudo perseguimento dei propri obiettivi, aveva creato una sorta di solidarietà trasversale tra la nobiltà e le élites militari europee e aveva sviluppato consuetudini e pratiche che favorivano la limitazione delle perdite di vite umane. A loro volta le spinte ugualitarie e l’emergere delle masse sulla scena politica resero le logiche di potenza – non più concepite e sostenute 9 esclusivamente nell’interesse di un ‘signore’ – espressione delle pulsioni e della politica di una collettività, oggetto di investimenti affettivi e di vincoli emotivi e sacralizzata come ‘patria’, ‘popolo’, ‘nazione’. Questo cambiamento – che per alcuni rappresentava quel riferimento e quel conforto necessari a compensare le perdite subite con un crescente processo di razionalizzazione societaria – non poteva non alterare profondamente il tono emotivo delle società e, con esso, gli equilibri internazionali; sotto la spinta delle pulsioni nazionalistiche le diplomazie apparivano esangui figure di un passato irrimediabilmente lontano. Infatti non solo esiste un intimo legame tra nazionalismo e guerra, ma il primo introduce nella seconda quella passione di popolo che la rende feroce; una passione, come sosteneva il prussiano von Clausewitz, sconosciuta finché le guerre erano state combattute nell’esclusivo interesse della nobiltà. In questo periodo si alterò anche l’ideale aristocratico della scienza; la cesura tra filosofo e cittadino, quale soluzione per tenere al riparo la conoscenza più elevata, si era rivelata inadeguata alle esigenze e ai processi della società di massa. Scriveva Freud negli anni di guerra: «Ci pare che mai un evento storico abbia distrutto in tale misura il così prezioso patrimonio comune dell’umanità, turbato tante delle più lucide intelligenze, inabissato così profondamente tutto quanto vi è di elevato. Persino la scienza ha perduto la propria serena imparzialità; esacerbati nell’intimo, gli uomini al suo servizio cercano di usarne le armi per contribuire alla lotta contro il nemico. L’antropologo è spinto ad individuare nell’antagonista un essere di natura inferiore e degenerato, e lo psichiatra ne diagnostica le perturbazioni dello spirito e della mente»1. La sapienza europea aveva subìto una sorprendente torsione; da parte di quei popoli che per cultura e tradizioni si erano distinti nei secoli, proseguiva amaro Freud, ci si sarebbe aspettata una capacità di regolare i conflitti in altro modo. Invece, la guerra ‘impossibile’, quella che non sarebbe mai dovuta scoppiare, si era manifestata come «la più cruenta e disastrosa di tutte le guerre sperimentate […], a causa della micidiale perfezione raggiunta dalle armi». Essa oltrepassando ogni limitazione a cui ci si obbliga in tempo di pace, non riconosceva le prerogative del ferito e del medico, né faceva distinzione tra popolazione pacifica e 1 Cfr. S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, tr. it., Roma, Editori Riuniti, 1991, pp. 3-4. 10 popolazione in armi. Spezzando ogni vincolo comunitario che ancora legava i popoli in lotta, minacciava «di lasciare dietro di sé un rancore tale da rendere ancora per lungo tempo impossibile il ripristino di quelle relazioni»2. Di fronte alla sfida di questo nuovo tipo di guerra la maggior parte degli intellettuali aveva reagito come il resto della popolazione; lo scoppio del conflitto, che aveva visto dileguarsi l’internazionalismo socialista e pacifista, li aveva ‘contagiati’ e si erano allineati nella difesa dei rispettivi paesi. I ‘padri’ della sociologia non si sottrassero all’atmosfera generale; coinvolti nella catastrofe di quel terrificante conflitto, pur cercando di non rinunciare alla loro identità di uomini di scienza, vissero a pieno le vicende belliche e si dedicarono a sostenere la causa nazionale. Con la sola eccezione dell’italiano Pareto (più ironico, disincantato e, per certi aspetti, ancora ‘cosmopolita’ alla maniera ottocentesca) la scelta patriottica sembrò al francese Durkheim e ai tedeschi Simmel e Weber, sia pure con enfasi e prospettive diverse, quasi uno sbocco naturale, una presa di posizione obbligata e per ciò stesso in un certo senso irriflessa. Nell’affermazione della priorità dell’unità spirituale e culturale della propria nazione era implicita la negazione di ogni cosmopolitismo illuminista. I tedeschi rivendicavano la loro ‘diversità’, la passione eroica e la dedizione metafisica di cui si sentivano capaci, con toni tristemente anticipatori della superiorità ariana; Durkheim – che pure aveva ereditato la visione positivista che intendeva la guerra solo come patologia – nel momento della massima sfida chiamava la società francese alla coesione assoluta per la sopravvivenza e negava all’Altro, al nemico, ogni sua eventuale ragione. Omogeneità, pensiero unico, compattezza estrema furono le parole d’ordine di un terribile tempo: Weber, Simmel, Durkheim, distanti uno dall’altro – negli approcci, negli interessi conoscitivi, nelle tematiche – risposero in maniera emotivamente analoga e combatterono fino alla fine con le armi del pensiero a fianco dei connazionali. Diversa fu invece la via alla riflessione sulla guerra indicata da Pareto, con la sua critica corrosiva nei riguardi delle potenzialità civilizzatrici della ragione e del progresso scientifico-tecnologico. Biasimando quanti, sulla base di un presupposto cambiamento sostanziale dell’umanità, avevano dimenticato che per ciò che riguarda istinti e 2 Ivi, p.10. 11 sentimenti l’uomo rimane sempre uguale a se stesso, ricordava come la sete di potere e la brama di dominio restassero sempre latenti nei governanti e nei popoli. A distanza di un secolo appaiono deboli quelli che pure furono antagonismi forti, distillati dal profondo humus della tradizione europea; tuttavia i nazionalismi emersi con virulenza alla fine del secolo Ventesimo – e in particolare quelli dell’Est europeo negli anni Novanta – mostrano la persistenza della fenomenologia nazionalistica e la relativa capacità di influenzare marcatamente le dinamiche interne degli Stati e i rapporti tra di essi e di coinvolgere emotivamente le popolazioni. Come aveva notato Simmel, nella dinamica sociale tra micro e macro livelli tende a prodursi negli individui una sorta di adattamento interiore a quei sentimenti che sono i più opportuni ad una data situazione. Ne deriva che se pure, come emerge dalla lettura degli autori qui considerati, la ragione non appare in grado di arginare la forza dei sentimenti, nondimeno essa ha i suoi doveri. Primo tra tutti quello di riconoscere la propria fragilità e, con questa forte consapevolezza, di impegnarsi a decostruire preventivamente qualsivoglia processo di escalation conflittuale e la relativa alea di un aumento di intensità e di violenza che può sfociare in quella tipologia di processo ‘cieco’, per utilizzare la terminologia di Norbert Elias, che, una volta avviato, presenta un’evoluzione che sfugge agli stessi attori. Per la sociologia questo potrebbe significare un impegno lungo la direzione indicata da Pareto di un’analisi che tenga conto dei sentimenti delle popolazioni; infatti come mostrano anche più recenti studi3 le condizioni oggettive – di esclusione, ingiustizie, sfruttamento, conflitto di interessi – trovano nei sentimenti collettivi quei catalizzatori incredibilmente efficaci e quelle energie sociali necessarie per l’avvio di una conflittualità violenta. 3 Cfr., per esempio, E. Lindner, Making Enemies, Westport (Connecticut) & London, Praeger Security International, 2006. 12 PARTE PRIMA SPIRITO COSMOPOLITA E ‘IMPOSSIBILITÀ SOCIALE’ DELLA GUERRA Auguste Comte*: l’anacronismo della guerra L’uomo e il suo tempo Auguste Comte, ‘creatore’ della parola sociologia, è il sociologo cosmopolita dell’unità dell’umanità pur nella diversità dei popoli1 e il fondatore di una ‘religione’ che celebrava l’uomo nella sua espressione migliore. Il ‘Grande Essere’ che ci invita ad amare è, come sostiene * Auguste Comte (Montpellier 1798 – Parigi 1857), filosofo positivista, fu il ‘fondatore’ della sociologia. Nato da una famiglia cattolica si allontanò presto da quella fede per aderire ad idee liberali e rivoluzionarie. Studiò all’École Polytechnique di Parigi dal 1814 al 1816, anno in cui fu chiusa provvisoriamente per sospetto giacobinismo. Tornato a Montpellier frequentò nell’Università del luogo corsi di medicina e fisiologia. Di nuovo a Parigi, dove si manteneva dando lezioni di matematica, divenne segretario, poi collaboratore e amico di Saint-Simon dal 1817 al 1824, anno in cui la relazione tra i due si ruppe. Aron ricorda che, a partire dal contrasto per l’attribuzione scientifica di un testo che segnò la fine del loro rapporto, Comte parlò della «‘disastrosa influenza’ esercitata su di lui da un’‘amicizia funesta’ con un ‘pagliaccio depravato’» (cfr. R. Aron, Le tappe del pensiero sociologico, tr. it., Milano, Mondadori, 1989, p. 80). Dal 1827-1828 fu colpito da una grave crisi nervosa e tentò il suicidio. Da allora per prevenire le crisi si impose uno stile di vita molto severo. Negli anni a seguire fece domanda, senza successo, per una cattedra di analisi all’École Polytechnique dove però nel 1836 ottenne il posto di esaminatore per le prove d’accesso, posto che perse nel 1844, anno in cui conobbe Clotilde de Vaux di cui si innamorò, non ricambiato. Alla morte della giovane donna, due anni dopo, Comte le dedicò un vero e proprio culto e ‘ispirato’ dalla memoria dell’amata formulò un nuovo sistema religioso. 1 Tre temi, presenti in ciascuno dei diversi momenti dello sviluppo del pensiero di Auguste Comte, rappresentano tre possibili interpretazioni dell’idea dell’unità dell’umanità: a) il modello di società che si sta sviluppando in Occidente è paradigmatico per tutte le altre società; b) la storia dell’umanità è la storia della mente, intesa come divenire del pensiero scientifico-positivo; c) la storia dell’umanità rappresenta il pieno dispiegamento della natura umana. 15 Raymond Aron, ciò che gli uomini hanno fatto di meglio2, mentre la sua ‘religione positiva’ esprimeva un’esigenza di solidarietà transnazionale e la promozione di un ambito di appartenenza universalistico in grado di favorire l’amicizia e la pace tra i popoli. L’epoca in cui visse risentiva degli influssi dell’Illuminismo; il suo tempo fu quello dell’ideologia della scienza in cui era ancora perdurante la fiducia (seppure incrinata da dubbi e da timori generati dall’esperienza degli anni del Terrore durante la Rivoluzione) nella forza e nelle capacità della ragione. Fu però anche un’epoca di grandi trasformazioni e di sconvolgimenti sociali e di una certa apprensione per il futuro; consapevole di vivere in un periodo di considerevoli mutamenti sociali e culturali, Auguste Comte, che aveva ereditato la sensibilità politica illuminista per il problema dell’ordine, era particolarmente attento alle tematiche del consenso e dell’organizzazione sociale. Il suo impegno scientifico fu sostanzialmente rivolto a due obiettivi: riformare la società e operare una sintesi delle conoscenze; volle essere scienziato e riformatore. Alla sociologia che aveva fondato, Comte, fiducioso e propositivo, affidò il compito di risolvere la crisi del mondo moderno, attraverso un sistema di idee scientifiche adeguato a sostenere razionalmente una riorganizzazione sociale all’altezza del livello dello sviluppo scientifico e tecnologico raggiunto. La riforma della società richiedeva in primo luogo una nuova mentalità che poteva formarsi solo con l’abbandono del vecchio modo teologico di pensare e la diffusione di un sapere ‘positivo’ consono ai tempi e alla sensibilità dell’epoca. A questo doveva provvedere la nuova scienza, la sociologia, che nella concezione comtiana doveva essere per il mondo moderno «quello che la teologia era per il mondo medievale: la regina delle scienze»3. Basata su metodi analoghi a quelli delle scienze naturali – e in particolare della biologia – la sociologia, secondo Comte, consisteva nello studio delle leggi dello sviluppo storico; in quanto scienza di sintesi, partendo dalle leggi fondamentali dell’evoluzione umana, portava a scoprire il determinismo che regola la totalità. Utilizzava la metodologia dell’osservazione e del confronto sia per lo studio della statica sociale sia per quello della dinamica, entrambe considerate in un approccio sintetico; la statica era l’analisi delle strutture e degli elementi che 2 3 16 R. Aron, Le tappe del pensiero sociologico, cit., p. 131. Cfr. S. Moscovici, La fabbrica degli dei, tr. it., Bologna, il Mulino, 1991, p. 335. fanno di parti eterogenee un’unità: si risolveva quindi essenzialmente nello studio di quello che definiva ‘consenso sociale’; la dinamica decifrava le modalità delle tappe dell’evoluzione dello spirito umano e della società. Trasportando in sociologia i modelli di analisi e di spiegazione della biologia – per cui un fatto biologico viene conosciuto solo se rapportato all’insieme dell’organismo nella sua totalità – volle farne una scienza in grado non solo di dare spiegazioni di ciò che è stato e di ciò che è, ma anche di prevedere ciò che sarà. Si trattava dunque, secondo Comte, di elaborare una teoria per comprendere sia le caratteristiche di una determinata società, sia le grandi linee della sua storia evolutiva: in entrambi i casi però, è lo spirito che subordina le osservazioni parziali alla comprensione preliminare del tutto. Nell’ottica di un individuo come progetto incompiuto di libertà spirituale e intellettuale, Comte maturò l’idea di un moto storico di progresso dell’umanità. La storia dell’uomo divenne la storia dell’affermazione della sua intelligenza; è questa che sviluppa le conoscenze per il dominio del mondo naturale e porta a identificare le forme migliori di vita associata. Comte era assolutamente convinto che la maturazione di capacità critiche e di una piena autoconsapevolezza avrebbe permesso l’emergere e il diffondersi di una dottrina di rifiuto della violenza e della guerra. Questa convinzione lo portò a proclamare nelle ultime pagine del suo Corso di filosofia positiva «l’incompatibilità della guerra con la costante disposizione delle popolazioni civili […] e la scomparsa delle cause della guerra»4. In questa affermazione, come in altre prese di posizione universalistiche e pacifiste, Comte fu influenzato dal pensiero di Claude Henri de Saint-Simon5 che anticipò molte delle concezioni che il nascente 4 Cfr. A. Comte, Corso di filosofia positiva, tr. it., Torino, Utet, 1979, vol. 2, p. 425. Se il suo annuncio della scomparsa della guerra si è rivelato fallace, un’altra sua profezia ha avuto una sorte migliore. Comte sosteneva che i conflitti tra i popoli dell’Europa occidentale – che definiva l’avanguardia dell’umanità – sarebbero scomparsi; questa previsione ha trovato nel processo di unificazione europea, iniziato circa un secolo dopo la sua scomparsa, una soddisfacente realizzazione. 5 L’aristocratico Claude Henri de Rouvroy conte di Saint-Simon (Parigi 1760 – 1825) da giovanissimo capitano di cavalleria dell’esercito francese aveva combattuto valorosamente a fianco degli insorti americani per essere poi fatto prigioniero dagli inglesi nel 1782 e trattenuto in Giamaica per circa un anno. Presumibilmente in quel periodo iniziò a sviluppare attitudini pacifiste e un’inclinazione allo studio e alla ricerca nel tentativo di lavorare al ‘perfezionamento della civiltà’. Alla sua morte il suo pensiero fu estremizzato dai discepoli, un gruppo di giovani entusiasti che diede vita ad 17 pensiero sociologico portò poi a maturazione. Come scrive Giddens, le idee di Saint-Simon sono state influenti in maniera significativa sullo sviluppo del pensiero sociale; hanno lasciato «una duplice eredità, in quanto da esse sono scaturite da un lato il positivismo di Comte e successivamente, attraverso Durkheim, le teorie moderne della ‘società industriale’, e dall’altro l’analisi e la critica del capitalismo formulate da Marx e dalle successive generazioni di studiosi marxisti»6. SaintSimon fu il primo teorico dell’industrialismo e attribuì al passaggio dalla società militare a quella industriale – e parallelamente da un potere spirituale superstizioso ad uno scientifico – il segno del cambiamento di epoca. Nel suo Du Système industriel del 1820-22 scriveva che «non ci sono e non possono esserci altro che due sistemi di organizzazione sociale realmente distinti, il sistema feudale e militare e il sistema industriale e, per quanto riguarda il potere spirituale, un sistema di credenze e uno di dimostrazioni positive»7. Secondo Saint-Simon, l’Illuminismo aveva reso inutili le dottrine teologiche e feudali, senza però sostituirle con un adeguato complesso ideologico culturale. Da ciò era scaturito un disordine morale generalizzato e la diffusione dell’egoismo e dell’isolamento. Saint-Simon intravedeva in quella che definiva la ‘dottrina industriale’ quel complesso di idee e principi in grado di costituire le basi per un nuovo sistema sociale, per rigenerare la società da un punto di vista morale, politico e sociale. L’emergere dello ‘spirito industriale’ risultava coerente con la sua idea della nuova società, nella quale lo scopo dell’organizzazione sociale era di operare per il soddisfacimento dei bisogni degli individui. Per la crescente diffusione, per i valori di cui si fa portatrice, per i risultati che produce l’industria era considerata un fattore centrale della vita associata; attorno ad essa si andava una sorta di ‘setta’ politico-religiosa guidata da Saint-Amand Bazard e da Barthélemy Prosper Enfantin. Sul piano etico, le convinzioni personali e i comportamenti dei saintsimoniani erano ispirati a principi pacifisti e esplicitamente nonviolenti: ripudio di ogni tipo di violenza, sostituzione dell’amor di patria con l’amore per la famiglia universale. L’esperimento romantico di una comunità a cui avevano dato vita fallì dopo un anno con l’arresto, per oltraggio alla morale, di Enfantin che fu poi condannato ad un anno di carcere. In seguito a questa sfortunata vicenda i saint-simoniani si trasformarono in industriali e finanzieri. 6 Cfr. A. Giddens, La struttura di classe nelle società avanzate, tr. it., Bologna, il Mulino, 1975, p. 29. 7 Cfr. C.H. de Saint-Simon, “Il sistema industriale”, in Opere, tr. it., Torino, Utet, 1975, pp. 591-592. 18 strutturando un nuovo modo di fare società. Saint-Simon sosteneva che la disponibilità finanziaria che aveva consentito all’industria di svincolarsi dal potere politico l’aveva resa un fattore di liberazione dell’intera società dal dispotismo dei governanti. Comte sviluppò queste idee di Saint-Simon in un clima culturale generale in cui si riteneva il pensiero teologico, la struttura feudale e l’organizzazione monarchica retaggi di un passato in via di dissoluzione; fatte sue queste convinzioni, elaborò una visione tecnocratica della società del futuro e del suo governo in cui gli scienziati e gli industriali – categoria quest’ultima in cui venivano ricompresi imprenditori, banchieri e altre figure professionali – avrebbero costituito le nuove élites. La guerra nel contesto della teoria evolutiva dei tre stadi Le riflessioni comtiane sulla pace e sulla guerra si svolgono sulla base di una teoria evolutiva a tre stadi – teologico, metafisico, positivo – a cui corrispondono l’ordinamento militare, quello feudale e quello industriale8. La vita sociale, secondo Comte, è stata a lungo condizionata dal prevalere dello ‘spirito militare’ che però nei secoli ha conosciuto un lento declinare. Sebbene la società militare e la società industriale si presentino connesse nel processo evolutivo, la differenza tra loro si configura così radicale che il passaggio definitivo dal primo tipo di società al secondo ha necessitato di uno stadio intermedio parallelo allo stadio metafisico che, nel campo dell’evoluzione spirituale, ha separato lo stadio teologico da quello positivo. In questa fase di transizione un’organizzazione militare difensiva si è sostituita a quella offensiva e progressivamente si è registrata una crescente subordinazione dell’apparato bellico a quello civile e produttivo9. 8 Comte sviluppa e conferma la legge dei tre stadi nel Cours de philosophie positive pubblicato dal 1830 al 1842 seguendo le linee che aveva già precedentemente esposto negli Opuscules del 1820-1826. Secondo la legge dei tre stadi lo spirito umano è evoluto passando per tre fasi successive. La prima è quella in cui i fenomeni vengono spiegati attribuendone la causa ad esseri o a forze paragonabili all’uomo stesso; nella seconda vengono invece invocate forze astratte. Nella terza fase – quella positiva – l’uomo si limita ad osservare i fenomeni e a fissare le connessioni regolari riscontrate tra di essi. 9 Secondo Comte in tutti gli Stati europei era ormai riscontrabile la relazione civile/ militare individuata da Machiavelli come anomalia transitoria degli Stati italiani in cui 19 Dal ragionamento del fondatore della sociologia come primo importante punto si evidenzia che le finalità e le modalità delle guerre mutano significativamente in relazione ai cambiamenti delle condizioni sociali, economiche e politiche; ognuno dei tre stadi presenta caratteri specifici che influenzano le disposizioni delle collettività nei confronti della guerra. Ne deriva che la modalità dell’evoluzione storica dello spirito umano avanza parallelamente ad una scansione delle diverse trasformazioni del fenomeno guerra; in altri termini è la storia del suo cambiamento. Il raggiungimento dell’ultima fase, lo stadio positivo in cui si assiste al completo sviluppo delle potenzialità della ragione umana, contempla la scomparsa dei conflitti armati. Secondo il modello comtiano di evoluzione sociale ognuno dei tre stadi è caratterizzato da un particolare rapporto con la religione, analizzando il quale è possibile individuare nel corso della storia un percorso orientato in direzione di una progressiva emancipazione dell’uomo da vincoli e norme trascendenti fino alla definitiva affermazione della ragione come unica guida e come unico principio di orientamento. L’evoluzione della guerra risulta intrinsecamente collegata ai cambiamenti che si verificano nello spirito umano e nelle società con il passaggio dall’una all’altra forma religiosa e ai corrispondenti specifici habitus mentali. Lo stadio teologico, caratterizzato da una forte preponderanza nell’agire delle dimensioni emotive e da un pensiero organizzato in base ad idee religiose, rappresenta l’ambito che più degli altri ha favorito l’attività bellica. Le passioni ‘forti’ – volontà di potenza, odio, collera, desiderio di vendetta, spirito predatorio, ira, terrore – tipiche di questa fase iniziale della storia dell’umanità trovavano un’espressione esemplare negli atteggiamenti e nei comportamenti dei guerrieri. Tra i tre sistemi religiosi (totemismo, politeismo, monoteismo) che compongono lo stadio teologico, il politeismo presenta i più forti legami con la guerra predatoria e offensiva. La guerra costituiva per le popolazioni antiche l’attività principale sia dal punto di vista economico, sia da quello politico e, secondo Comte, il politeismo era la religione più adatta alle esigenze di quella specifica organizzazione sociale. Gli dei del politeismo presentavano «il giusto grado di generalità che permetteva «i capi militari, ormai profondamente subordinati al potere civile, sono stati assoggettati […] ad una specie di sistema continuo di sospetto e di sorveglianza»; cfr. A. Comte, op. cit., vol. 2, p. 77. 20 di richiamare sotto la loro bandiera popolazioni sufficientemente vaste e, nello stesso tempo, quel tanto di nazionalità che li rendeva adatti a stimolare ancora più il sorgere spontaneo dello spirito guerriero»10. Nel sistema politeistico inoltre qualsiasi divinità poteva essere introdotta nel pantheon e questo favoriva l’assimilazione delle popolazioni conquistate che attraverso la presenza delle loro divinità sentivano riconosciuta la propria specificità. Comte sosteneva inoltre che in un sistema politeista «l’intelligenza viene sempre assillata […] da una grande quantità di spiegazioni teologiche molto dettagliate in modo che anche le sue azioni più comuni costituiscano, per così dire, altrettanti atti spontanei di un’adorazione speciale […] Il mondo immaginario occupava allora certamente, rispetto al mondo reale, molto più spazio nel sistema intellettuale dell’uomo che sotto il regime monoteistico»11. L’elaborazione di questa particolare teodicea, che offriva spiegazioni dettagliate per ogni evento della vita quotidiana, soddisfaceva a priori ogni quesito, facilitando l’omogeneità di visioni del mondo e la stabilità sociale; concetti quali ‘destino’, ‘fatalità’, tipici di questa fase, motivavano gli individui all’azione bellica, rendendo accettabile, nel quadro di un disegno divino, anche la possibilità della morte. Chi mandava a morire infatti era anche chi donava la vita eterna. Per di più, laddove regnano condizioni di caos e di incertezza e la spiegazione logica degli accadimenti può essere difficoltosa, l’imperscrutabilità degli dei e il loro volere capriccioso possono rappresentare una valida giustificazione di vicende e avvenimenti altrimenti privi di senso. Funzionale al mantenimento di un ethos guerriero era la cosiddetta ‘facoltà di apoteosi’12 che prometteva vita e glorificazione eterne ai combattenti eroici; in essa Comte vedeva la base dell’entusiasmo, elemento che considerava centrale dello spirito militare. 10 Ivi, p. 535. Ivi, p. 503. 12 Con il termine apoteosi si intende sia il riconoscimento della condizione divina a particolari persone, sia la cerimonia con la quale veniva divinizzato un eroe defunto. Comte scrive che l’apoteosi «pur soddisfacendo pienamente il desiderio universale di una vita infinita, aveva inoltre il privilegio speciale di promettere alle anime vigorose l’eterna attività degli istinti di orgoglio e di ambizione, il cui sviluppo costituiva per loro la principale attrazione dell’esistenza»; cfr. ivi, vol. 1, p. 537. 11 21