Mario Farina
Critica, simbolo e storia
La determinazione hegeliana dell’estetica
Edizioni ETS
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Il volume è frutto di una ricerca svolta presso
il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze
e beneficia per la pubblicazione di un contributo a carico
dei fondi di ricerca d’Ateneo di cui è il responsabile il prof. G. Garelli
La pubblicazione di questo volume si avvale di un contributo
del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale
“Amedeo Avogadro”
© Copyright 2015
Edizioni ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
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Sede legale: via G. Verdi 8 - 20090 Assago (MI)
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via Zago 2/2 - 40128 Bologna
ISBN 978-884674322-0
ISSN 2420-9198
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ringraziamenti
Una prima versione di questo lavoro è stata discussa come tesi di
dottorato all’Università del Piemonte Orientale nel settembre del 2012.
Rispetto a quel primo tentativo, lo scritto ha subito una sostanziale rielaborazione, tanto nella sistemazione del materiale, quanto nei contenuti.
Diversi capitoli sono stati tolti, alcuni sono confluiti in altri lavori, e
intere parti sono state aggiunte.
Un ringraziamento doveroso va al professor Maurizio Pagano, che
mi ha seguito e sostenuto durante il dottorato. È stato relatore attento e
disponibile della mia tesi e a un suo suggerimento devo la scelta stessa
dell’argomento. Il suo libro Hegel: la religione e l’ermeneutica del concetto contiene molte delle idee sul simbolo che ho sviluppato nel corso
del lavoro. Un altro ringraziamento va al professor Paolo D’Angelo, che
tra i primi ha letto il mio progetto di ricerca, sapendomi consigliare al
meglio. Il suo studio del 1989 Simbolo e arte in Hegel forma, tuttora, il
nucleo concettuale della tesi portante di questo scritto.
Ringrazio di cuore il professor Gianluca Garelli che, oltre a essere un amico, è stato in questi anni occasione di continuo confronto
scientifico. Ha letto con pazienza i miei studi e mi ha sempre spronato
a lavorare, invogliandomi a proseguire nella ricerca. Senza il suo aiuto e
senza le sue intelligenti osservazioni questo lavoro probabilmente non
sarebbe stato pubblicato.
Alla professoressa Annemarie Gethmann-Siefert va un ringraziamento per aver letto e criticato il mio progetto di ricerca quando ancora
era agli inizi e per avermi dato la possibilità di consultare, in dattiloscritto, il manoscritto del corso di estetica del 1828/29; ai professori Klaus
Düsing e Walter Jaeschke devo, oltre ai preziosi consigli, l’ospitalità
all’Università di Colonia e al seminario dello Hegel-Archiv di Bochum.
Ringrazio Alberto Siani, con il quale in questi anni c’è stata una
vera e propria Zusammenarbeit, che spero possa rinnovarsi; allo stesso
modo, e per gli stessi motivi, ringrazio il professor Markus Ophälders,
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che mi permette sempre di tornare alle vecchie passioni francofortesi.
Ringrazio la professoressa Simona Chiodo, la professoressa Francesca Iannelli e il professor Federico Vercellone, i cui spunti mi hanno
aiutato molto.
Ringrazio il professor Adriano Fabris per aver letto e accolto questo libro nella sua collana.
Ringrazio le persone che hanno letto alcune parti di questo lavoro: Michela Bordignon, Francesco Campana, Eleonora Caramelli, Luca
Corti, Federico Sanguinetti; le loro osservazioni hanno reso migliore
questo libro.
Ringrazio Simone Seminara, per l’ontestà intellettuale.
Un ringraziamento, come sempre, lo devo a Flavio Cassinari, che
per primo ha avuto la costanza di correggere il mio lavoro.
Ringrazio infine Serena Feloj, non solamente per essermi stata vicina nello studio e nella vita, ma anche per avermi fatto capire con i suoi
lavori che l’estetica, nonostante tutto, è anche questione di gusto.
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premEssa
A partire dalla sua determinazione come disciplina filosofica autonoma, intorno alla metà del XVIII secolo, l’estetica si trova, a ogni suo
punto costituivo, a dover affrontare di nuovo la questione della presentazione. Il tentativo di afferrare concettualmente un significato espresso
in modo sensibile si scontra, infatti, con il problema della forma o, il
che è lo stesso, della presentazione del significato. Questo processo è
diventato assai più evidente nel momento in cui l’estetica – intesa non
più come gnoseologia inferior, come ancora la pensava Baumgarten – ha
iniziato a essere concepita come filosofia dell’arte e quindi come poetica1. Il primo romanticismo, grazie alla teorizzazione della conoscenza
artistica come Kunstkritik, ha mostrato come il nucleo dell’interpretazione dell’opera vada ricercato proprio in quel concetto di forma sul
quale può esercitarsi la riflessione, termine questo che veniva mutuato
dalla filosofia di Fichte2. Il tentativo fichteano di recuperare il concetto
di intuizione intellettuale per mezzo di una riflessione, di un’astrazione,
operata a partire dalla forma del conoscere, nel primo romanticismo
1 Questa variazione, che ha origine nel romanticismo, è stata registrata in modo
evidente da Heidegger: «se ogni arte, in essenza, è poesia, allora l’architettura, l’arte figurativa, l’arte musicale devono essere ricondotte alla poesia», non alla poesia nel senso
stretto del termine, bensì al «poetare in questo senso più ampio»: M. Heidegger, Der
Ursprung des Kunstwerkes, in Id., Holzwege, in Gesamtausgabe, Bd. 5, hrsg. v. F.-W. von
Herrmann, Klostermann, Frankfurt a. M. 2003, pp. 60-61. In modo ancora più esplicito:
«la poesia [Dichtung] è qui pensata in un senso così ampio e al contempo in così intima
essenzialità con la lingua e la parola, che deve restare aperto se l’arte e precisamente in
tutte le sue maniere, dall’architettura alla poesia [Poesie], esaurisca l’essenza della poesia
[Dichtung]» (ivi, p. 62).
2 Il riferimento, qui, è all’interpretazione offerta da Walter Benjamin del concetto primo romantico di Kunstkritik all’interno della sua dissertazione. Si veda W.
Benjamin, Der Begriff der Kunstkritik in der deutschen Romantik, in Gesammelte Schriften, Bd. I.1, hrsg. v. R. Tiedemann - H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt a. M.
1974; trad. it. di C. Colaiacomo, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, in Opere,
vol. 1, a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2008, in particolare le pagine dedicate al
rapporto tra il concetto romantico di forma e l’idea fichteana di riflessione, pp. 360-367.
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si allontana dall’esito pratico perseguito da Fichte e si trasforma in un
processo conoscitivo nel quale la forma diviene forma dell’opera d’arte.
Se Kant poteva pertanto ancora descrivere il giudizio sul bello
come frutto della «mera apprensione (apprehensio) della forma di un
oggetto nell’intuizione», mostrando l’uso di un concetto di forma non
mediato dalla riflessione concettuale, il motivo risiede nel fatto che,
proprio in quell’uso del concetto di forma, il modello è rintracciabile
all’interno del bello di natura. Questa conseguenza discende però direttamente dal pensiero kantiano stesso che, escludendo la possibilità
conoscitiva dell’intuizione intellettuale, intende la forma dell’oggetto
del giudizio di gusto nei termini, appunto, di una «mera apprensione».
Quella che in Kant corrisponde alla «forma dell’oggetto per la riflessione in generale»3 coincide precisamente con ciò che genera il giudizio soggettivo sul bello, senza che per determinare quell’idea di forma
sia necessaria alcuna riflessione su di essa; per questo motivo Adorno,
esponendo il concetto di forma, poteva ancora meravigliarsi di quanto
poco l’estetica classica avesse riflettuto su questa categoria, che «le sembrò data senza problemi»4. Affinché quest’idea di forma venga posta in
questione, è necessario attendere la nascita della critica mossa alle filosofie della soggettività e, dunque, il tentativo – in estetica – di concepire
qualcosa come un significato oggettivo di ciò che costituisce il materiale
artistico. Il concetto kantiano di forma è perciò in grado di corrispondere alla semplice apprensione della forma dell’oggetto nell’intuizione,
solamente perché il giudizio sul bello rimane sempre un giudizio soggettivo, nonostante la pretesa di universalità a cui mira.
Il momento costitutivo della Realästhetik corrisponde proprio alla
messa in crisi di questo modello. Quando si dice che la morte dell’arte corrisponde, di pari passo, alla nascita del romanticismo e alla conseguente morte dell’arte come modello ideale5, ci si riferisce perciò a
qualcosa che tocca, anche se solo tangenzialmente, questo specifico ordine problematico: l’ideale della forma necessita, infatti, di essere posto
3 I. K ant, Kritik der Urteilskraft, in Gesammelte Schriften, Bd. 5, hrsg. v. der
königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften, Reimer, Berlin 1913, pp. 189
e 190 (trad. it. di L. Amoroso, Critica della capacità di giudizio, Rizzoli, Milano 1995,
pp. 121 e 123).
4 Th.W. A dorno, Ästhetische Theorie, in Gesammelte Schriften, Bd. 7, hrsg. v.
R. Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1970, p. 211 (trad. it. di E. De Angelis, Teoria
estetica, Einaudi, Torino 1977, p. 237).
5 D. Formaggio, La «morte dell’arte» e l’Estetica, Il Mulino, Bologna 1983,
pp. 20-24.
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in relazione con l’elemento dell’oggettività, riscontrato ora nel contenuto. Questo processo rende la forma una categoria concettualmente
mediata, senza però negarne la costituzione aconcettuale. La relazione
tra l’elemento ideale e quello oggettivo – espressa nella formulazione
laconica che enuncia l’identità di forma e contenuto – è dunque ciò
che contraddistingue l’estetica oggettiva e che la allontana, almeno nelle
intenzioni, dalla sua origine soggettiva. L’identità di forma e contenuto
però, una volta che la forma non trova più il proprio modello ideale
nel bello di natura, è un’identità che necessita di essere spiegata ed è
così che l’estetica, non più semplice intuizione della forma, si tramuta nella riflessione sull’intuizione della forma, o meglio nella riflessione
sull’intuizione dell’identità di forma e contenuto, dell’identità di ciò
che è ideale con ciò che è storico. Peter Szondi parla in proposito di
un’identità dialettica6; richiamandosi a Hegel, e dunque muovendo da
una concezione dialettica dell’identità, è pertanto possibile derivare la
fondazione storica dell’analisi artistica: la forma, ciò che è atemporale
per eccellenza, e il contenuto, vale a dire il significato storico, una volta
pensati in identità, non possono riunirsi ambedue nell’astoricità di ciò
che è ideale e formale, ma essendo quell’identità dialettica, si risolvono
in una storicizzazione della forma. In questo modo la forma, che Adorno descrive come un contenuto «precipitato» o «sedimentato»7, rimane
sì l’unico modo possibile dell’esposizione di ciò rispetto a cui è in identità, ma il contenuto esposto nella forma artistica non è più in identità
statica con quella: «la riuscita estetica dipende essenzialmente dal successo che ciò che è formato ha nel destare il contenuto depositatosi nella
forma. Infatti generalmente anche l’ermeneutica delle opere d’arte è la
traduzione dei loro elementi formali in contenuti»8. Il contenuto è tale
solamente se è sedimentato nella forma e la critica dell’opera consiste,
perciò, nel provare che una forma determinata espone, nelle sue correlazioni oggettive, un contenuto determinato. Secondo questa prospettiva,
solo una critica pensata in questi termini, una critica immanente all’opera, può dimostrare il carattere di opera dell’opera d’arte.
Ciò che occorre comprendere è in che modo l’elemento concettuale si inserisca in questo processo di determinazione dell’opera, poi6 P. Szondi, Theorie des modernen Dramas, in Schriften, Bd. I, hrsg. v. J. Bollock, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1978, p. 12 (trad. it. di G. Lunari, Teoria del dramma
moderno, Einaudi, Torino 1962, p. 4).
7 Th.W. A dorno, Philosophie der neuen Musik, in Gesammelte Schriften, Bd.
12, cit., pp. 39 ss.
8 Th.W. A dorno, Ästhetische Theorie, cit., p. 210 (236).
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ché riflettere sulla forma significa di per sé rendere concettuale qualcosa
che in origine si sottrae agli schemi della concettualità.
In questo modo all’esposizione viene infatti sottratto ciò che la
connotava come estetica, vale a dire l’assenza in essa dei concetti9, ribadendo però sempre la necessità che l’opera rinunci alla rappresentazione concettuale: concettuale è la critica, mentre l’opera deve rimanere
esposizione, rispetto alla quale la critica funge da dimostrazione e completamento. Ciò che definisce l’arte è pertanto la forma, la quale però
non possiede alcuna indipendenza dal proprio contenuto. L’identità tra
forma e contenuto va dunque pensata alla stregua dell’impossibilità di
trattare il contenuto al di fuori della sua esposizione formale, ma al contempo come la necessità di non risolvere l’arte nella sola formalità astratta, come ancora poteva fare una teoria estetica della ricezione soggettiva
fondata sul modello del bello di natura. La critica dell’opera d’arte, la
fondazione oggettiva dell’estetica, nasce così quando il problema del
contenuto si svincola e si separa da quello dell’argomento. L’argomento
– ed è tanto più chiaro se ci si riferisce all’opera poetica – si unisce armonicamente con la forma ed è precisamente muovendo da questa unione
che deve nascere quell’identità dialettica di forma e contenuto che viene
definita dall’estetica oggettiva. La critica ha precisamente il compito di
mostrare il carattere contraddittorio di questa identità: il contenuto è in
identità con la forma proprio poiché è la forma, rapportandosi con l’argomento dell’opera, a determinarne il contenuto oggettivo; è per questo
motivo che il primo romanticismo, all’origine della costituzione dell’estetica oggettiva, l’ha definita una «critica divinatoria»10. Comprendere
l’opera, dimostrarne il carattere artistico, viene originariamente inteso
alla stregua di un atto mistico che deve realizzare un compito impossibile e paradossale: riunire l’infinito nel finito per mezzo della riflessione.
Senza l’opera della riflessione, infatti, quell’identità resta inattuabile; il
lavoro del critico è portarla a compimento per mezzo del pensiero.
Questo spiega perché la categoria più problematica per ogni tentativo di determinare un’estetica del contenuto sia proprio quella della
forma. Se un’estetica del contenuto deve necessariamente essere un’e9Si pensi all’idea kantiana di uno schematismo senza concetto nell’apprensione del bello. Per la schematizzazione senza l’uso del concetto si veda I. K ant, Kritik der
Urteilskraft, cit., § 35, p. 287 (p. 375) e per l’apprensione ivi, § 11, p. 221 (195-197).
10 F. Schlegel, Athenäums-Fragmente, in Kritische Friedrich-Schlegel-Ausgabe,
Bd. 2, hrsg. v. E. Behler, Schöningh, München-Paderborn-Wien-Zürich 1967, No. 116,
p. 183 (trad. it. di M. Cometa, Frammenti dell’«Athenaeum», in Frammenti critici e poetici, a cura di M. Cometa, Einaudi, Torino 1998, n. 98 [116], p. 45).
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statica storicizzata, allora spiegare la relazione che il contenuto storico
intrattiene con la forma – l’ideale astorico per eccellenza – si trasforma
nel vero e proprio compito della critica. E a offrirne una comprensione
lampante è stato un pensatore come Marx non certo votato all’estetica:
«la difficoltà non sta nell’intendere che l’arte e l’epos greco sono legati a
certe forme dello sviluppo sociale. La difficoltà è rappresentata dal fatto
che essi continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili»11.
L’esposizione, dunque, definisce quell’unità inscindibile di significato ed esteriorità rispetto alla quale, però, la critica ha il compito di
isolarne gli estremi. Non è un caso infatti che Benjamin – più di un secolo dopo la fondazione romantica della critica, da lui stesso riconosciuta
per la prima volta con chiarezza12 – abbia operato il tentativo di spiegare il rapporto gnoseologico, e dunque conoscitivo, tra metodo e verità
ricalcandolo proprio sul modello dell’esposizione che apparteneva, in
origine, alla conoscenza artistica13; a questo proposito, a dispetto dell’idiosincrasia benjaminiana nei confronti del pensiero di Hegel, andrebbe
verificato quanto Benjamin abbia assunto dell’idea genuinamente hegeliana del sapere inteso come Darstellung, appunto come presentazione,
come esposizione14.
La critica deve perciò isolare gli estremi riuniti nell’esposizione,
estremi che danno luogo all’opera solamente se sono presentati come
identità inscindibile per mezzo della riflessione. Ciò che rende problematica quest’idea di critica è il fatto che essa non può più riferirsi al bello
come al discrimen del valore dell’opera d’arte; la critica deve all’opposto
dimostrare il carattere artistico dell’opera rinunciando a possederne a
priori il modello. Questo è il motivo per cui la critica oggettiva, e con
11 K. M arx, Einleitung zur Kritik der politischen Ökonomie, in Werke, Bd. 13,
Dietz, Berlin 1971, p. 641 (trad. it. di D. Cantimori, Per la critica dell’economia politica,
Editori Riuniti, Roma 1976, p. 199).
12 «La fondazione oggettiva del concetto di Kunstkritik offerta da Friedrich
Schlegel ha a che fare solamente con la struttura oggettiva dell’arte – come idea e come
sua formazione – intesa come opera» (W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, cit., p. 356).
13 «Il metodo, per la conoscenza una via per ottenere il possesso dell’oggetto
– e magari grazie a una sua produzione nella coscienza – è per la verità esposizione di
sé e perciò è dato come forma insieme a quella»: W. Benjamin, Ursprung des deutschen
Trauerspiels, in Gesammelte Schriften, Bd. I.1, cit., p. 209 (trad. it. di F. Cuniberto, Il
dramma barocco tedesco, in Opere, vol. 2, cit., p. 71).
14 PhG, p. 11 (5).
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essa ogni estetica oggettiva, deve necessariamente definirsi storica: non
si tratta però semplicemente di enunciare che il significato, in epoche
storiche differenti, viene esposto di volta in volta in modo diverso; la
storicità della critica è data dal fatto che essa deve rinunciare a pensare la compiutezza come qualcosa che risieda in un’origine sovrastorica.
Questa, in campo estetico, è stata di fatto la grande intuizione di Hegel,
permettendogli di prendere le distanze da quel progetto romantico, destinato al fallimento, che sperava di poter creare una nuova mitologia
per la modernità. Quest’idea della storicità dell’arte, espressa da Hegel,
si comprende facendo ancora ricorso a Benjamin: «è oggetto della critica
filosofica dimostrare che la funzione della forma artistica è appunto questa: trasformare i contenuti storici concreti [Sachgehalte], per come stanno alla base di ogni opera significativa, in contenuti di verità filosofici»15.
La concezione iniziale di Schlegel – l’idea che la critica dell’arte non possa essere pensata nei termini di un’intuizione intellettuale
dell’assoluto, ma necessiti di essere intesa come riflessione sulla sua forma ideale, la quale deve dimostrare che l’opera stessa è parte dell’assoluto – si è scontrata con l’aspirazione del romanticismo stesso: se da
un lato la critica è definita come «una scienza, che annienta i vecchi
errori e apre nuove prospettive sulla conoscenza dell’antichità, sullo
sfondo della quale si profila una compiuta storia della poesia», dall’altro egli afferma che «noi non possediamo una mitologia. Però, vorrei
aggiungere, siamo prossimi ad averla, o piuttosto è tempo che noi operiamo seriamente per produrne una»16. In questo passaggio, vale a dire
nel passaggio che muove dall’ideale della critica come riflessione sulla
forma per giungere alla necessità della produzione di una nuova mitologia per l’arte, l’estetica si è scontrata, nuovamente, con il problema
dell’esposizione. Questo problema è stato affrontato da Hegel portando
alle estreme conseguenze il principio secondo cui il momento formale
dell’opera – il momento dell’esposizione – non può mai coincidere con
il rivestimento sensibile di un concetto o di una teoria17. Se l’essenziale
dell’opera d’arte è l’esposizione, allora quest’ultima – espressa nella for15
W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 358 (215-216).
F. Schlegel, Gespräch über die Poesie, in Kritische Friedrich-Schlegel-Ausgabe, Bd. 2, cit., rispettivamente p. 303 e p. 312 (trad. it. di D. Mazza, Dialogo sulla poesia,
in Athanaeum [1798-1800]. Tutti i fascicoli della rivista di August Wilhelm Schlegel e Friedrich Schlegel, a cura di G. Cusatelli - E. Agazzi - D. Mazza, Bompiani, Milano 2008,
pp. 666 e 671).
17Sulla critica del punto di vista morale kantiano nel contesto dell’estetica, si
veda in particolare Kehler 1826, Ms. 24-29, pp. 15-17.
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ma – non può fungere da mezzo per la comunicazione di un concetto.
Si riproduce così anche nell’opera d’arte il verdetto hegeliano contro
la pratica di considerare il conoscere come uno strumento18, per cui il
pensiero non può essere inteso come qualcosa di estraneo ed esterno rispetto al pensato. Se però nella Einleitung della Fenomenologia il conoscere è un conoscere concettuale – o meglio è un conoscere concettuale
il cui oggetto è la concettualità stessa – nel campo della critica artistica
il conoscere corrisponde sì a un conoscere concettuale, ma esercitato su
una forma di per sé non concettuale.
L’impossibilità di trattare le opere d’arte come fossero dei filosofemi, a ben guardare, non è certo una novità hegeliana. Questo principio si annuncia tanto nell’idea goetheana della produzione inconscia
dell’opera19, quanto nell’identità del conscio con l’inconscio postulata
esplicitamente da Schelling nel Sistema del 1800 e ha come modello quel
concetto di genio che ha dato forma all’estetica del romanticismo nel
suo tentativo di riformularne la descrizione kantiana, secondo la quale
«il genio è la disposizione d’animo innata (ingenium) mediante la quale
la natura dà la regola all’arte»20. Se però, come abbiamo detto, in Kant
il bello artistico ha come ideale il bello naturale, il tentativo romantico
nasce proprio dall’esigenza di superare l’ideale kantiano.
Lo sviluppo che conduce dall’idea kantiana a quella romantica e
schellinghiana di genio non è comprensibile se si pensa al bello naturale
di Kant nei termini dell’imitazione della natura. Il processo secondo cui
la natura, tramite il genio, dà la regola all’arte deve tener conto di due
aspetti: l’assenza di normatività nella creazione artistica e la specificità del concetto di natura esposto nella terza Critica. In questo contesto, infatti, a dare la regola all’arte «dev’essere la natura nel soggetto (e
mediante l’accordo delle sue facoltà)»21. Si tratta dunque della natura
intesa nei termini di finalità e perciò non della natura concepita in vista della conoscenza, come accadeva nella prima Critica, e nemmeno
della natura pensata come materialità bruta opposta alla destinazione
18
PhG, pp. 53-54 (57-58).
veda quanto afferma Goethe riguardo alla produzione poetica: «essa pronuncia un particolare senza pensare all’universale e senza richiamare su di esso l’attenzione. Chi coglie in modo vivente questo particolare, ottiene assieme ad esso l’universale senza accorgersene, o accorgendosene solo più tardi» (J.W. Goethe, Maximen und
Reflexionen, in Goethes Werke. Hamburger Ausgabe, Bd. 12, hrsg. v. E. Trunz - H.J.
Schrimpf - H. v. Einem, Beck, München 1999, p. 471).
20 I. K ant, Kritik der Urteilskraft, cit., § 46, p. 307 (427).
21 Ibidem.
19Si
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morale del soggetto, come nel caso della Ragion pratica. La natura che
dà la regola all’arte corrisponde a una natura che è soggetta allo «als
ob» metodologico della Urteilskraft, una natura pensata «come se» fosse conforme alla libertà. Di qui è facile comprendere l’origine dell’idea
di Schelling secondo cui «il carattere fondamentale dell’opera d’arte è
dunque una infinità inconscia [sintesi di natura e libertà]»22. Allo stesso
modo, due anni prima della pubblicazione del Sistema schellinghiano,
il più giovane dei fratelli Schlegel aveva parlato del progetto dell’opera
come del «seme soggettivo di un oggetto in divenire»: «per la sua origine completamente soggettivo, originale, possibile solo in questo spirito;
per il suo carattere completamente oggettivo»23. La natura che, tramite
il genio, dà la regola all’arte è pertanto una natura finalistica, teleologica,
alla quale Kant non poteva però assegnare alcun attributo di conoscenza
intellettuale; il grande tentativo romantico è stato esattamente quello
di trasportare la natura finalistica di Kant all’interno del più generale
terreno della conoscenza, mettendo così ancora una volta in tensione il
concetto con ciò che non può essere concettualmente determinato.
Secondo quest’idea, pertanto, i primi romantici hanno tentato di
riunire, nell’esposizione, il momento produttivo con quello critico, terreno sul quale Schelling non è stato in grado di seguirli. È sufficiente la
dichiarazione secondo cui l’arte sarebbe l’organo privilegiato della comprensione dell’assoluto – dichiarazione fatta al culmine di un sistema
dell’idealismo che si pensa come trascendentale e quindi filosofico – per
mostrare la tensione interna al progetto di Schelling, una tensione tra
l’oggetto che garantisce la conoscenza dell’assoluto (l’opera non concettuale) e il metodo della conoscenza stessa (la filosofia concettuale).
Quando Adorno afferma che gli scritti hegeliani assomigliano a opere d’arte molto più che non quelli di Schelling, nonostante il tentativo
schellinghiano di costruire una filosofia sul modello dell’opera d’arte,
sta dicendo esattamente questo24. Hegel, dunque, la cui formazione è in
22 F.W.J. Schelling, System des transzendentalen Idealismus, in Schellings Werke, Bd. 2, hrsg. v. M. Schröter, Beck u. Oldenbourg, München 1958, p. 619 (trad. it. di M.
Losacco, riv. da G. Semerari, Sistema dell’idealismo trascendentale, Laterza, Roma-Bari
1990, p. 293).
23 F. Schlegel, Athenäums-Fragmente, cit., No. 22, p. 168 (n. 13 [22], p. 32).
24 «Se lo Hegel della maturità ha bandito l’intuizione intellettuale di Schelling
come esaltazione al tempo stesso priva di concetto e meccanica, in compenso la forma della filosofia di Hegel è incomparabilmente più vicina alle opere dell’arte rispetto
a quella di Schelling, che voleva costruire il mondo sull’archetipo dell’opera d’arte»:
Th.W. A dorno, Drei Studien zu Hegel, in Gesammelte Schriften, Bd. 5, cit., p. 367 (trad.
it. di F. Serra, riv. da G. Zanotti, Tre studi su Hegel, Il Mulino, Bologna 2014, p. 158).
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Premessa17
qualche modo debitrice nei confronti dello sviluppo primo romantico,
ha affrontato la contraddizione insita nell’idea romantica di critica e l’ha
fatto tentando di sospingere la comprensione dell’arte all’interno della
filosofia e non, viceversa, riconducendo la filosofia sul terreno dell’arte.
A Hegel è infatti del tutto estranea l’idea di una filosofia poetica, ma ciò
non significa che l’elemento estetico – assieme alla connessione formale
della sua esposizione – vengano espulsi dal sistema.
L’esposizione è perciò un momento centrale tanto dell’arte quanto
della filosofia, ma se la filosofia dispone dell’oggetto che intende esporre
– il concetto – l’arte all’opposto necessita della mediazione filosofica, e
perciò concettuale, affinché il suo oggetto venga dimostrato. La conseguenza che trae Hegel enuncia l’impossibilità, da parte dell’arte, di conoscere il proprio contenuto nella sua estensione concettuale e infinita,
proprio in virtù della legge formale ed espositiva che la determina come
finita e la definisce in quanto arte. A questo proposito, nell’Enciclopedia
del 1817 Hegel afferma che «in quanto però la forma ha in sé il suo vero
contenuto, quella compenetrazione stessa, la sostanza spirituale nel suo
significato assoluto, così tuttavia a causa dell’immediatezza, nella quale
questo sapere è intuire o rappresentare figurativo, la forma è finita»25.
Questo specifico ordine di problemi, assieme allo sforzo di comprenderne gli esiti per la filosofia hegeliana dell’arte, sono ciò che ha
guidato la stesura di questo lavoro. La tesi che enuncia la funzione simbolica dell’arte all’interno dell’estetica di Hegel deve perciò essere intesa
come tentativo di venire a capo della formulazione più nota e apparentemente più ovvia dell’estetica di Hegel: l’identità di forma e contenuto.
Questa formulazione, lungi dall’essere banale, una volta sviluppata, dimostra tutto il suo carattere enigmatico. Riconoscere il carattere simbolico dell’arte in Hegel non significa, tuttavia, fare di Hegel un romantico;
significa all’opposto cercare di mostrare il modo in cui Hegel si discosta dagli aspetti più problematici del primo romanticismo, conservando
però qualcosa del suo spirito iniziale: il progetto di portare a compimento un’estetica oggettiva, senza rinunciare alla mediazione del concetto.
Proprio sviluppando una nozione di simbolo via via sempre più autonoma rispetto a quella elaborata dal romanticismo, Hegel riuscirà infine a
costituire una teoria dell’arte capace di far fronte alla tensione tra l’elemento formale, ideale, dell’opera e la sua natura storica e contenutistica.
L’ambito della simbolica è la vera e propria innovazione apportata
da Hegel nella suddivisione storica dell’arte, che spezza la bipartizione
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Enz 1817, § 461, p. 242 (256).
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di classico e romantico, aggiungendo a questi la sfera iniziale del simbolico, come primo impulso dell’arte. Lungi dall’essere un mero fatto di
proporzione, questa tripartizione storica permette a Hegel di concepire
il compimento della bella armonia non come un qualcosa di originario
(come accadeva nell’opposizione tra antico e moderno), ma di intendere
la sua formazione come il frutto, il risultato, di un preciso progresso
storico. Anziché essere una categoria metastorica e originaria, la bellezza compiuta diventa con Hegel frutto della sedimentazione del lavoro
storico compiuto dall’umanità.
Seguendo questa linea, la concezione hegeliana del simbolo subisce necessariamente una trasfigurazione. Ciò che definisce il simbolo
– secondo una concezione ampia che abbraccia la significazione artistica nel suo insieme – è infatti la coabitazione al suo interno di due
elementi discordanti: quello della storia (del contenuto) e quello della
natura (dell’esposizione ideale). Da un lato l’aspetto temporale e dall’altro quello rigido della ripetizione. Il problema dell’estetica di Hegel è
quello di dimostrare in che modo possano convivere, nel medesimo prodotto, il momento storico e quello ideale. Da questo punto di vista, la
nozione di simbolo – intesa come determinante per l’estetica – può dar
ragione di questa tensione. Interpretare l’estetica di Hegel alla luce del
simbolo significa perciò fare i conti con la presenza simultanea di una
determinazione storica e di una determinazione metafisica e ideale nel
prodotto artistico.
Questo studio, seguendo una metodologia ricostruttiva e storico
filosofica, si pone l’obiettivo di illustrare questa convivenza, riassunta
dall’idea hegeliana della significazione simbolica come «traduzione in
immagini dell’universale e universalizzazione dell’immagine»26.
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Z, § 456, p. 267 (317).
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indice
Premessa
Capitolo Primo
L’estetica di Jena: l’assoluto come contenuto dell’arte
1.Dalla metafisica della sostanza alla metafisica della soggettività
assoluta. L’inizio dell’estetica
2. La funzione simbolica dell’arte. L’estetica e la fondazione
del sistema
3. L’inizio della simbolica? L’opera d’arte nella Fenomenologia
dello spirito
Capitolo Secondo
Romanticismo e dibattito sul simbolo: il concetto di critica
1. Kant e la ricezione goetheana
2. Schelling e il primo romanticismo
3.Creuzer e il romanticismo di Heidelberg
Capitolo Terzo
La forma d’arte simbolica nelle lezioni:
la considerazione simbolica
1.Il modello dell’arte simbolica: 1820/21
2.Il simbolo e il sublime: 1823
3. Oriente, panteismo e modernità. La «considerazione
simbolica»: 1826
4. La sistematizzazione dell’arte simbolica: 1828/29
5. Il simbolo come relazione: l’interiore nell’esteriorità
Capitolo Quarto
Forma e contenuto: l’arte come conferimento di senso
1. Kunst e Religion der Kunst. La determinazione del contenuto
dell’arte nelle enciclopedie
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Critica, simbolo e storia
2. Contenuto e forma
Capitolo Quinto
Psicologia e antropologia: il simbolo come conferimento
di senso
1. Psicologia. Rappresentazione e immaginazione:
la funzione teoretica del simbolo
2. Antropologia. La relazione simbolica dell’interno
e dell’esterno
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Capitolo Sesto
Critica e storia: il carattere passato dell’arte
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Bibliografia e abbreviazioni
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Indice dei nomi
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Edizioni ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
[email protected] - www.edizioniets.com
Finito di stampare nel mese di dicembre 2015
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