Sintesi del saggio Introduzione alla metafisica (1903) • Nel 1903, sulla Revue de métaphysique et de morale, Bergson pubblica un notevole saggio, già dal titolo e nelle intenzioni molto ambizioso, capace di attirare molta curiosità intorno al suo autore: Introduzione alla metafisica che viene pubblicato negli anni in cui il criticismo di Kant e il dogmatismo dei suoi successori erano generalmente ammessi, se non come conclusione, almeno come punto di partenza della speculazione filosofica. • In quest’opera Bergson intende esplicitare e giustificare (come Cartesio con il suo Discorso sul metodo) il metodo dell’intuizione. In questo saggio Bergson dà ampia dimostrazione del suo anticriticismo, e della sua intenzione di riportare l’attenzione filosofica alla questione metafisica. Infatti, se Kant aveva limitato le capacità gnoseologiche del soggetto, Bergson fa delle medesime capacità gnoseologiche un punto di forza. • È chiara fin dall’inizio la distinzione fra una conoscenza relativa ed una assoluta. Il primo modo di conoscenza, secondo Bergson, «implica che si giri intorno alla cosa; il secondo che si entri in essa» La prima forma di conoscenza si ferma al relativo, mentre la seconda cerca di attingere l’assoluto. Bergson si è presentato come un critico radicale della metafisica classica e, al tempo stesso, come l’autore di una ricostruzione del discorso metafisico, sul fondamento dell’idea di durata e del metodo dell’intuizione. Tale duplice atteggiamento nei confronti della metafisica – di dissoluzione e di ricostruzione – costituisce il filo conduttore di quest’opera che egli dedicò al problema stesso della filosofia. la metafisica autentica è “la scienza che pretende di fare a meno dei simboli”, che trascende il livello esteriore della conoscenza, formato da parole, concetti e immagini, per “porsi all’interno dell’oggetto” cioè per cogliere, in modo diretto, la struttura della realtà. L’errore della metafisica classica è radicale, e segna l’intera storia della filosofia. Questo errore di prospettiva significa che la metafisica non è riuscita a compiersi, che lo sforzo speculativo di toccare la realtà nella sorgente ultima si è piegato al dominio dell’intelligenza, cioè a una figura del conoscere che – attraverso i simboli, le immagini, i concetti – mira costantemente a fermare il flusso del divenire, a irrigidirlo in forme immobili, al fine di esercitare un utile dominio pratico sulle cose, di agire e controllare il divenire del mondo. Per tale scambio tra durata reale e astrazione, la metafisica, che pure mirava a comprendere la realtà, è rimasta subalterna alla dinamica dell’homo faber, cioè alle finalità della tecnica, attraverso cui l’uomo agisce per garantire efficacia al proprio comportamento. Da questo errore iniziale (la costruzione di un universo sovrasensibile) sono derivati tutti i grandi problemi della tradizione metafisica, che Bergson giudica insolubili e, in definitiva, inutili. Essere-niente Potenza-atto Errore della metafisica classica sostanza presenza In sintesi: Errore fondamentale della metafisica classica: (da cui sono derivate le aporie dei suoi concetti) è stato quello di non immergersi nella cosa, di non dirigersi verso la radice diveniente della realtà, ma, al contrario, di saltare le contraddizioni del tempo spazializzato, segnalate da Zenone, attraverso la costruzione di un mondo sovrasensibile, immobile e protetto dal mutamento. → Per questo, una metafisica autentica deve, anzi tutto, “invertire la direzione abituale del lavoro di pensiero”, operare una vera e propria ‘conversione’: alla visione ‘cinematografica’ del divenire, che cerca di comporre estrinsecamente dei punti immobili, e che serve soltanto alle esigenze pratiche dell’azione, occorre sostituire la capacità teoretica di volgersi alle cose stesse, di coglierne il movimento originario e indivisibile (la durata), penetrando la vasta superficie di simboli che i fini utilitari della vita umana hanno frapposto tra lo sguardo del filosofo e l’essenza ultima della realtà. A tale atto di comprensione diretta del divenire – che non è, insiste, una pigra ‘rilassatezza dello spirito’, ma ‘sforzo’ e dura fatica di pensiero – Bergson dà il nome di intuizione, per indicare il metodo proprio della nuova metafisica. Ciò che l’intuizione coglie non è, dunque, un universo di idee sovrasensibili, ma, al contrario, il ritmo originario della durata, che costituisce l’essenza ultima delle cose. È su queste basi che, secondo Bergson, si può tentare di elaborare una nuova metafisica: una metafisica che non pretende di sostituire il lavoro delle scienze fisico-naturali, né di sollevarsi gerarchicamente sopra di esse, ma che anzi ne assume l’abitudine alla precisione, volgendola a un differente oggetto, ‘nascosto’ e ‘coperto’ dalle preoccupazioni della vita ordinaria. La filosofia ha il compito di ‘dé-couvrir’, di s-coprire, questo terreno più profondo della realtà, che manifesta un puro divenire e, quindi, la perenne e indivisibile inserzione del passato nel presente. Per fare ciò, essa deve oltrepassare il filtro della struttura simbolica (parole, immagini, concetti) e imparare ad afferrare le cose attraverso il metodo diretto dell’intuizione. Distinzione tra analisi e intuizione : • • • L'analisi, cioè il pensiero concettuale, è aderente agli strati superficiali della realtà, a quelli in cui noi ci troviamo ad agire quando operiamo, mettiamo in rapporto le cose (o anche le persone, quando in fondo le trattiamo come cose). L'analisi tende ad isolare artificialmente pezzi, elementi, cose, mentre tutto non è confuso ma fuso insieme. L’intuizione coglie appunto la realtà nel suo profondo, e per esprimere questa intuizione Bergson afferma che è meglio servirsi di immagini ora poetiche, ora anche geometriche, ma usate consapevolmente come immagini, perché se invece ho la pretesa di adoperare concetti, mi illudo di fare un discorso proprio, un discorso aderente a quel tipo di realtà, mentre faccio un discorso che è aderente ad un altro tipo di realtà. La metafora (che significa trasporto, traslato da un livello ad un altro) e anche l'immagine parlano di cose spaziali, di cose esteriori, ma con la consapevolezza di una inevitabile improprietà di linguaggio. Questo primato dell'immagine rispetto al concetto ha una valenza anche nella visione del linguaggio bergsoniano. Il linguaggio, secondo Bergson, è tutto modellato sull'azione, cioè serve per gli scopi dell'azione, e allora il linguaggio divide e collega come fa precisamente il pensiero concettuale; esso, però, non coglie la realtà nel suo profondo, dove non ci sono cose, elementi staccati da collegare, ma c'è una unità globale. Il punto nodale, a suo avviso, è che quando si usa a tal fine lo strumento linguistico lo si deve fare con la consapevolezza, sia in chi parla che in chi ascolta, che questo strumento si situa ad un livello metafisico o ontologico diverso dall'oggetto che vuole esprimere, che c'è una distanza tra i due livelli. Heidegger, al riguardo, avrebbe parlato di differenza ontologica tra il livello dove si situa il linguaggio e i suoi concetti ed il livello dove si situa la realtà profonda che Bergson vuole descrivere. Interrogativi: 1. Ma come può questa metafisica “senza linguaggio” comunicare la realtà profonda che, di tanto in tanto (“ove sia possibile”), qualcuno riesce a cogliere con il “colpo d’occhio” dell’intuizione? • La risposta sta, da un lato, nello stile di scrittura dello stesso Bergson, ricco di figure, paragoni, metafore che ci guidano nel percorso di avvicinamento all’interno dell’oggetto di cui, però, solo un atto finale di “auscultazione interiore” può farci cogliere il senso autentico; dall’altro, Bergson suggerisce la via che, dall’intuizione della propria durata coscienziale, può portarci, per via analogica, alla realtà delle cose esterne, fino a “sentirne palpitare l’anima”. • Questa metafisica intuizionista e immaginativa, che si avvale dell’introspezione e della metafora, che pretende semplicemente di cogliere il “nocciolo” della realtà, ha influenzato moltissimo l’arte contemporanea che fa del “dinamismo” e della “simultaneità” i concetti basici della sua realizzazione artistica. “Dinamismo”, poiché ogni realtà è, bergsonianamente, “durata”, cioè un continuum in divenire; “simultaneità”, poiché la realtà vera delle cose non sta in una loro “fotografia” prospettica o in una somma di punti di vista, ma nella totalità diveniente di tutti i possibili punti di vista. 2. La distinzione tra intuizione metafisica e analisi scientifica può indurre l’idea che lo scopo di Bergson sia quello di svalutare la scienza? Il procedimento scientifico risponde ad un interesse pratico dell’uomo, allora l’errore non sta nell’uso scientifico dell’intelligenza, ma nella sua indebita applicazione ad ambiti che le sono estranei, come accade con la filosofia che, per sua natura, è un sapere disinteressato. Se l’intuizione diventa l’organo della filosofia, non va però intesa romanticamente come una forma irrazionale di conoscenza o come un sentimento, poiché essa ha un metodo. Si tratta di un metodo dicotomico volto a individuare i concetti puri, che consiste nello “scomporre i misti”, cioè le nozioni che contengono più concetti confusi tra loro, distinguendo in esse differenze di grado (puramente quantitative, quindi “spaziali”) e differenze di natura (qualitative) vi sono, per esempio, differenze di grado tra i tempi dell’orologio, ma differenze di natura tra tempo misurato e tempo vissuto; differenze di grado tra percezioni, ma differenze di natura tra percezione e memoria.