La psicanalisi della guerra .- Campo Movimento

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La psicanalisi della guerra .- Campo Movimento Nonviolento (Albiano)
11-13 agosto 2009 – Conduzione: Angela Dogliotti/ Elsa Bianco
(Estratto dal materiale di supporto al corso)
Leonard BERKOWITZ, Biological Roots: Are Humans Inherently Violent?
in: B. GLAD, Psychological Dimensions of War, SAGE Pub. , 1990, pagg. 24-40
(traduzione semplificata di Angela Dogliotti Marasso)
La tradizionale teoria degli istinti
Spesso la guerra è descritta come una fredda aggressione razionalmente programmata per
raggiungere certi obiettivi. Ciò è in parte vero, tuttavia questa impostazione trascura la rabbia e
l’odio che possono condurre a queste azioni violente. Quando emergono simili emozioni e quale
parte giocano nelle ostilità?
Nel tentativo di rispondere a questo quesito, nel 1932 Albert Einstein convoca un forum
nell’ambito della Lega delle Nazioni, ritenendo che nulla fosse più importante della salvaguardia
del genere umano dalla minaccia della guerra.
Supponendo che qualche risposta potesse essere trovata nella psicologia umana, invitò Sigmund
Freud per discutere come mai la propaganda avesse così successo nel convincere gli esseri umani
alla guerra. C’era forse una qualche predisposizione all’odio e all’aggressione in essi, che resta
latente ma emerge appena viene sollecitata?
Freud risponde affermativamente: esiste “una attiva pulsione istintuale all’odio e all’aggressità”
che risiede nel profondo della natura umana.
Tale teoria di un istinto aggressivo innato è poi stata sviluppata in seguito anche dall’etologo
Konrad Lorenz.
Nella visione di Freud la vita psichica ha come scopo quello di ridurre al massimo le tensioni
interne, e ciò porterebbe a desiderare la morte come massima libertà dalle tensioni. Ma a questa
tendenza si oppone l’Eros, l’istinto di vita, che porta ad allontanare la morte.. Come conseguenza,
gli esseri umani, invece di cercare la propria morte, attaccano gli altri. E’ la loro ricerca di una pace
interiore che presumibilmente li porta a desiderare l’attiva distruzione degli altri.
Inoltre, secondo Freud, in qualsiasi modo si manifesti l’aggressione verso l’esterno, nella fantasia o
nel comportamento aperto, essa riduce la propria interiore propensione verso la morte.
Se si applica questo principio ad un caso specifico, si potrebbe dire che il rifiuto di Gandhi verso
ogni forma di aggressione esterna necessariamente lo portava a cercare la propria morte (ma c’è la
combattività nonviolenta! Ndt : la pulsione aggressiva può essere rivolta verso gli altri , anche
attraverso i meccanismi di difesa dell’Io- esternalizzazione-si rivolta verso se stessiautodistruttività- La nonviolenza diventa fondamentale come depurazione/trasformazione
dell’aggressività in assertività, orientata ad un ideale positivo di più alta civilizzazione: punto di
equilibrio tra il non far del male agli altri e non lasciarsi fare del male – Patfoort-; combattività
nonviolenta orientata alla vita anziché alla morte. Istinto di conservazione o pulsione distruttiva?)
Anche Lorenz credeva come Freud che a) un istinto era essenzialmente una spinta all’azione e che
b)questa tendenza fosse generata spontaneamente all’interno dell’organismo, indipendentemente
dall’ambiente esterno/esperienza.
Per entrambi (F.e L.)inoltre, lo scopo di questo comportamento frutto dell’istinto era la riduzione
della tensione interna. Entrambi ritenevano che diverse attività sostitutive potessero svolgere il
medesimo compito di “scarico” dell’energia. Lorenz ricava ciò dall’osservazione del
comportamento di diverse specie animali e sostiene che, come i vertebrati, anche l’uomo ha
ereditato istinti come quello di aggredire, che non è una reazione ma un’attività sorta
spontaneamente dall’interno.
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Assunzioni implicite e conseguenze di questa teoria:
il modello energetico è spontaneo e non reattivo = minimizzazione degli stimoli esterni; l’azione
può svolgersi semplicemente per un eccesso di energie istintuali accumulate nei centri del sistema
nervoso;
la società deve dare opportunità alternative di sfogo a questa energia se vuole evitare l’aggressione;
i popoli civilizzati soffrono per una insufficiente scarica di questa aggressività;
l’evoluzione può trasformare l’energia aggressiva e utilizzarla per scopi pacifici;
Anche il concetto psicoanalitico di sublimazione comporta una trasformazione dell’energia
istintuale da una direzione comportamentale all’altra. (es. del chirurgo che sublima la propria
istintiva carica violenta utilizzandola in modo benefico)
Allo stesso modo, possiamo usare la nostra aggressività per “lottare contro” le difficoltà, “attaccare”
gli ostacoli, “padroneggiare” i problemi (aggressività benigna, necessaria)
Dal punto di vista teorico, l’aggressività è “la base delle conquiste intellettuali, del raggiungimento
dell’indipendenza e anche dell’orgoglio che rende capaci gli uomini di andare a testa alta tra i propri
simili” (A.Storr, Human Aggression, 1968)
Critica della concezione tradizionale
La prima critica riguarda il fatto che esiste un unico tipo di aggressività, mentre quasi tutti gli
studiosi ne distinguono diversi. Mayer ne propone 7 diverse categorie: predatoria, provocata dalla
paura, inter-maschile, di difesa del territorio, dovuta a irritabilità, materna, strumentale, che
probabilmente hanno una base neuroendocrina diversa.
Altri distinguono almeno 2 tipi: tutte le aggressioni sono un tentativo deliberato di colpire o
distruggere qualcuno (fisicamente o psicologicamente), ma si può distinguere tra a) strumentale (o
mossa da uno scopo che la incentiva) e b) ostile ( dovuta a rabbia, noia, avversità).
Es. di a): un soldato che uccide per vincere la guerra o salvare la propria vita; b) lo0 scopo
principale è proprio colpire, far del male, spinti da forti emozioni di odio, rabbia, ostilità)
Ci occuperemo in particolare di quella del secondo tipo.
Endogena o reattiva? Innata o acquisita?
Gli innatismi sostengono che l’ambiente esterno al massimo può inibire o stimolare il
comportamento aggressivo, che però nasce spontaneamente. Lorenz ha esplicitamente rifiutato
l’idea che l’aggressività sia innanzitutto un comportamento reattivo, una risposta a qualcosa che
proviene dall’esterno.
Gli scienziati sociali, credendo nel miglioramento dell’uomo, attribuiscono le malattie sociali,
violenza inclusa, all’ambiente, che può essere cambiato più facilmente di quanto non possa esserlo
la natura umana. L’enfasi sul comportamento innato è strettamente legata a una svalutazione del
ruolo dell’apprendimento e dell’esperienza nel comportamento sociale in genere.
Anche Eibl-Eibesfeldt sostiene che il comportamento aggressivo è innato perché si manifesta anche
se non è stato insegnato, ma è frutto di attività neurofisiologiche.
Più risulta evidente, però, l’intreccio di influenze biologiche, ambientali, sociali, meno adeguato
risulta il modello energetico di Freud e Lorenz.
“Non esiste evidenza di alcun istinto a combattere nel senso di una tendenza interiore che debba
essere soddisfatta. C’è invece un meccanismo fisiologico interiore che deve solo essere stimolato
per produrre combattimento” (J.P.Scott, Aggression, 1958)
Uso impreciso dei termini
Uso impreciso di “istinto” da parte di Lorenz e seguaci non professionisti. Essi parlano di istinti o di
movimenti istintivi come di azioni stereotipate caratteristiche di una specie particolare, suscitate da
specifici stimoli, ma questa definizione non funziona per i fenomeni umani che Lorenz chiava
istintivi, come il supposto “bisogno istintivo di essere membro di un gruppo che combatte per ideali
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comuni” E’ ora di eliminare questo ambiguo concetto dal discorso scientifico delle scienze sociali e
biologiche.
Sulla supposta diversione dell’energia aggressiva
Come si è spesso osservato, la formulazione della tradizionale teoria dell’istinto aggressivo in
genere collega l’organismo ad una riserva energetica, il cosiddetto “sistema idraulico”, e comporta
che il sovraccarico di energia debba essere scaricato attraverso diversi canali alternativi..
I concetti psicoanalitici di spostamento e sublimazione si basano su questo assunto e comportano
che i sovraccarichi energetici possano essere scaricati in azioni sostitutive sia dirette verso un
obiettivo diverso, sia attraverso un comportamento alternativo. (lo sport è stato indicato come un
ottimo sostituto in questo senso, fino ad auspicare un incremento della competizione sportiva come
mezzo per l’armonia internazionale “La rivalità sportiva tra nazioni non può che essere un bene”
Storr, Human Aggression)
E’ facile comprendere la popolarità di questa convinzione sui benefici degli sport competitivi nel
ridurre l’aggressività che utilizza la metafora di una riserva di energia che preme per essere
scaricata e l’esperienza può testimoniare come ciò si possa ottenere con uno sport. Tuttavia tutto ciò
è più apparente che reale, perché una osservazione attenta mostra che la competizione non solo non
garantisce lo scarico di aggressività, ma in alcuni casi può favorirne la crescita. (Cita incidenti
accaduti dopo una vittoria dei Cechi contro i Russi nel 1969 in una partita di hockey, in seguito alla
quale giovani cecoslovacchi saccheggiarono gli uffici di Praga della compagnia aerea russa: anziché
trovare nella vittoria sportiva uno sfogo alla rivalità antirussa, l’aver vinto li eccitò e li stimolò
nell’attacco ai simboli di coloro che odiavano)
Così Crook osserva che “il comportamento di folle di spettatori di sport competitivi spesso mostra
l’insorgere di atteggiamenti aggressivi anziché la loro sublimazione” (J.H.Crook, Man and
Aggression, Montagu) . Perché allora questa credenza è così popolare? Probabilmente perché il
piacere derivante dall’aver assistito ad una bella partita rende più disponibili e fa dimenticare i
propri guai (è più un divertimento/distrazione che una scarica energetica)
Così la competizione tra giocatori lungi dal ridurre l’aggressività può portare all’aumento
dell’ostilità fino allo scontro aperto e questo perché la competizione è spesso frustrante e ciò
favorisce l’aumento della rivalità e dell’antagonismo. In sintesi, pochi autori, oggi, all’infuori dei
freudiani e lorenziani ortodossi condividono il “modello energetico idraulico”, facile da
comprendere ma non sostenuto dall’evidenza dei fatti.
Implicazioni politiche
Una formulazione tradizionale del modello di Lorenz di solito è associata al conservatorismo socipolitico perché l’aggressività innata non può essere abilita da riforme sociali o ridotta dal
cambiamento di condizioni difficili. Per gli istintivisti, gli esseri umani sono intrinsecamente
pericolosi e perciò devono essere controllati. Las civiltà e l’ordine sociale in ultima analisi devono
basarsi sulla costrizione più che sull’educazione e la comprensione. Anche Freud risponde a
Einstein in questo modo vedendo nella legge lo strumento per contenere la violenza, anche se la
stessa legge può essere violenta contro chi resiste ad essa..
Lorenz pensava che gli scienziati sociali fossero in errore nel credere nella perfettibilità umana e
nell’attribuire all’ambiente questo ruolo di miglioramento. La sofferenza umana non è dovuta alle
carenze sociali ma è inerente alla natura stessa dell’uomo e ai suoi difetti ineliminabili.
Una concezione alternativa della tendenza all’aggressività: le predisposizioni latenti
La mia posizione critica sulla tradizionale dottrina degli istinti non significa che io respinga la
possibilità di influenze genetiche sul comportamento. Questa possibilità non era molto popolare in
passato nelle scienze sociali, ma ora è più chiaro che gli esseri umani hanno alcune tendenze innate
a reagire in modi particolari a certi stimoli (v. comportamenti di neonati che non possono essere
stati appresi, ma sono istintivi, come la suzione)…
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Si può ammettere il ruolo delle influenze ereditarie sul comportamento umano senza accettare la
concezione tradizionale istintivista su come queste influenze agiscono.
Afferma Scott: “Non c’è alcuna tendenza interna che deve essere soddisfatta. C’è però un
meccanismo psicologico (interno) che deve solo essere stimolato per produrre combattimento.” Ciò
comporta due concetti: a) l’aggressività è la reazione a uno stimolo esterno e non il prodotto di una
tendenza spontanea e b) più in generale, un comportamento viene agito quando un meccanismo
fisiologico (interno) è attivato da uno stimolo appropriato.
Quest’ultima proposizione rappresenta l’essenza delle più recenti concezioni circa le tendenze
“istintive” nel comportamento. Tali tendenze, dunque, si può dire semplificando al massimo, sono
predisposizioni geneticamente determinate a rispondere in modo particolare ad un determinato
stimolo (cioè, c’è la possibilità di essere violenti, ma occorre uno stimolo esterno per attivare la
risposta comportamentale, che non è una sorta di “scarica energetica“ spontanea e necessaria). C’è
una possibilità latente, una predisposizione a quel tipo di risposta, ma non una spinta interiore che si
attiva spontaneamente )es. i bambini, ad una certa età- due/tre mesi, sono geneticamente
predisposti a sorridere quando vedono un viso sorridente)
Le condizioni fisiologiche dell’organismo influenzano poi il grado in cui lo stimolo può attivare la
risposta “pre-programmata”. Stati interiori possono rendere più o meno sensibili agli stimoli esterni
(metafora dell’apparecchio TV che non può produrre da solo le immagini ma è predisposto a
trasmetterle ove vi siano le appropriate condizioni di attivazione/stimolo (antenne per captare,
corrente elettrica e pulsante acceso…)
L’ipotesi dell’aggressione come risposta alla frustrazione
Vediamo ora quali sono le condizioni che possono stimolare le predisposizioni aggressive.
Nel 1939 John Dollard e Neal Miller con loro colleghi dell’Università di Yale pubblicarono un testo
ormai classico che sosteneva le seguenti tesi correlate:
a) la frustrazione stimola il comportamento aggressivo
b) tutte le aggressioni si possono far risalire ad una precedente frustrazione (aggressione come
risposta alla frustrazione)
Ricerche successive hanno confermato la validità di questa tesi ma con alcune modifiche.
Innanzitutto non tutte le azioni aggressive si possono far risalire ad una precedente frustrazione (si
può imparare a rispondere aggressivamente anche in altri contesti) Poi bisogna chiarire il concetto
di frustrazione.
L’originale formulazione di Yale considera che ci sia una frustrazione solo quando l’obiettivo sia
stato desiderato e atteso: frustrazione come risultato dell’impedimento a raggiungere uno scopo
previsto (non basta non ottenere qualcosa che genericamente si desidera)
Inoltre una frustrazione considerata “illegittima” può provocare maggiore aggressività di una
legittima. Le frustrazioni non provocano necessariamente un comportamento aggressivo aperto
anche se bloccano il soddisfacimento di forti desideri e aspettative; le inclinazioni aggressive
possono essere inibite se c’è la paura della punizione o anche solo della disapprovazione sociale.
Lo spostamento dell’ostilità e le caratteristiche degli attacchi alle vittime
Il gruppo di Yale condivide con le teorie psicoanalitiche la convinzione che una inibizione del
comportamento aggressivo può provocare uno spostamento su un oggetto sostitutivo. La vittima
dell’attacco è tale sia perché chi aggredisce si sente sicuro dell’agire su di lei, sia perché la vittima
ha un certo grado di somiglianza con l’aggressore.
Ho ampliato l’analisi di Miller-Dollard sullo spostamento dell’ostilità suggerendo che fattori sia
negativi sia positivi possano influenzare il livello cui persone innocenti sono soggette ad essere
attaccate da chi ha inclinazioni aggressive. Alcune persone stimolano reazioni aggressive perché
ricordano situazioni emozionali dello stesso tipo per l’aggressore, ad esempio l’essere spiacevoli.
I fattori positivi hanno a che fare con il vantaggio che si può ottenere agendo in modo aggressivo.
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Tutto ciò fa pensare che gruppi minoritari come neri o ebrei possano fungere da capri espiatori
perché le loro qualità percepite (nella mente di coloro che sono pronti all’aggressione) evocano
reazioni ostili da parte di coloro che sono emozionalmente disturbati.
Più che essere bersagli sicuri, essi convogliano l’ostilità perché ricordano le persone arrabbiate di
altre occasioni emotivamente provocanti e/o sono visti come sgradevoli e/o l’aggressore pensa che
nel passato l’aggressione contro questi gruppi è stata efficace.
…Semplificando processi molto complessi si può sostenere che l’affezione negativa generata da
una situazione avversa produce un certo numero di inclinazioni comportamentali a combattere e a
fuggire, così come alcuni sentimenti relativamente primitivi come rabbia e paura. Un’ampia varietà
di condizioni (comprese le influenze genetiche, l’apprendimento precedente e le conseguenze
previste per una certa azione) determinano la maggiore o minore forza di queste differenti tendenze
e sentimenti.
Perciò, una persona potrebbe preferire sfuggire alla situazione avversa a causa delle sue condizioni
genetiche o di apprendimento, ma la tendenza ad attaccare un obiettivo adeguato è presumibilmente
presente con la tendenza a fuggire un evento spiacevole…
Gli umani, come molti altri animali, sono predisposti all’aggressione quando si trovano in uno stato
di sofferenza. L’apprendimento naturalmente può rafforza o indebolire questa tendenza che può
essere anche contenuta o rafforzata da altre influenze situazionali.
… Questo riconoscimento della molteplicità di fattori che agiscono nella comparsa del
comportamento violento mette in luce l’estrema semplificazione prodotta dalla tradizionale teoria
degli istinti. Lo stesso si deve dire di ogni altra teoria che veda la violenza come prodotto di un
singolo gruppo di determinanti…. Come ciascuno agisce in una data situazione è in parte dovuto
alle abitudini e ai valori acquisiti nel passato, ma anche a quanto essi siano presenti al momento;
alle caratteristiche dei “targets” disponibili, alla valutazione del rapporto costi/benefici che il
comportamento aggressivo può avere nella specifica situazione.
Perché la guerra?
Per tornare alla questione iniziale posta da Einstein: perché la guerra? Una facile risposta sarebbe
che le guerre scoppiano per una buona molteplicità di ragioni. Però a mio parere la psicologia
dell’aggressività individuale probabilmente ci po’ dire poco sullo sviluppo dei conflitti
internazionali. Le guerre non nascono da una pulsione di morte e distruzione inerente alla natura
umana; né sono generate da una storia di frustrazioni e situazioni avverse che portano a sviluppare
inclinazioni aggressive. Tendo piuttosto a concordare con quanti vedono le guerre come un prodotto
di decisioni razionali (anche se non necessariamente intelligenti), basate sulla percezione di
obiettivi in conflitto, considerazioni di costi e benefici e valutazioni dei possibili esiti.
Non voglio certo espellere i fattori emotivi. Essi indubbiamente giocano un ruolo, almeno in certi
casi. Ma piuttosto che sottolineare la rabbia, indicherei l’orgoglio come maggiormente significativo.
Esso può essere una forza sottile e pervasiva e in alcuni casi può influenzare le relazioni
internazionali. Non essendo questo il contesto adatto per approfondire la complessa questione, mi
limito a poche osservazioni basate sulle più recenti ricerche della psicologia sociale sulla
costruzione dell’identità e dell’espansione. Tali questioni infatti hanno certamente un peso nel
patriottismo e nella rivalità internazionale.
Non è particolarmente acuto sostenere che le persone cercano in genere di aumentare il proprio
valore e che si identificano con i gruppi ai quali appartengono. Ciò che è importante qui è capire
come le persone si conformino prontamente e quasi automaticamente ai gruppi che hanno intorno e
come cerchino di valorizzare queste collettività per incrementare la propria importanza.
Molto di quanto si sa in proposito deriva dagli studi dello psicologo inglese Tajfel. In questi
esperimenti i partecipanti erano assegnati ad uno di due gruppi temporanei sulla base di criteri
estremamente banali e poi si chiedeva loro di assegnare risorse a tutti gli individui intorno a loro. I
soggetti favorivano le persone dei loro gruppi nella divisione delle risorse disponibili. Ciò si
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verificava anche quando erano anonimi, non potevano conoscere molto di quanto ciascuno avrebbe
dato agli altri, non ne beneficiavano direttamente e non avevano avuto alcuna precedente
conoscenza degli altri.
Secondo Tajfel e i suoi collaboratori, questo favoritismo di gruppo non è il risultato di una
predisposizione innata a non amare coloro che sono diversi, ma scaturisce piuttosto dal desiderio
diffuso di affermare la propria identità nel modo più favorevole possibile.
La gente spesso desidera distinguersi dagli altri e usa l’appartenenza ad un gruppo per realizzare
questo obiettivo soprattutto se è l’unico mezzo possibile. Favorendo quelli del proprio gruppo
aiutano a identificare se stessi differenziandosi dai membri che non sono del gruppo e affermando il
valore della propria identità.
Se questa argomentazione è corretta, non dovremmo stupirci di come tutti siano pronti a proclamare
i meriti del paese al quale appartengono. La nazionalità è una parte importante della propria identità
e quando la gente ha a che fare con stranieri soddisfa il suo desiderio di unicità. Assegnare valore al
proprio paese significa dare valore anche a sé. Nell’interesse della pace mondiale si dovrebbe
sperare di poter diminuire il peso di questa equazione del proprio sé con la propria nazione, ma è
difficile. Si considerino gli Inglesi. Essi non proclamano le loro virtù nazionali con la stessa
intensità con cui ciò avviene negli USA e sembra esserci molta meno insistenza sul patriottismo in
GB che non negli States. Tuttavia, in genere gli Inglesi si sentono meglio quando persone che
rappresentano il loro paese hanno successo in qualche prova difficile e sentono come una sconfitta
personale quando rappresentanti della nazione sono umiliati. I popoli di tutte le nazioni sono più o
meno dispiaciuti quando loro rappresentanti sono in una situazione di sofferenza fisica o
psicologica. L’affezione negativa generata da queste situazioni avverse può essere esacerbata dai
media e/o da personaggi importanti. Media e leaders possono anche contribuire a diminuire la
riluttanza a fare la guerra facendo emergere l’interpretazione che l’evento avverso sia stato
intenzionalmente e ingiustificabilmente prodotto da una nazione sgradita (esempio del ruolo della
stampa nella guerra ispano-americana):
Tuttavia ritengo che questo tipo di processi non sia la causa principale della guerra. I conflitti
internazionali, come molte altre azioni umane, hanno molteplici fonti di origine.
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INCONTRIAMO L’OMBRA …..
INTEGRIAMO L’OMBRA PER PRATICARE LA NONVIOLENZA.
La nonviolenza per me non è un semplice principio filosofico.
E’ la regola e il respiro della mia vita…
Non è questione di intelletto , ma di cuore.
M.K.Gandhi
Quando entriamo nella scintillante indeterminatezza e contradditorietà dei fenomeni psichici (possiamo
anche dire, degli stati d’animo, degli stati mentali, della dimensione interiore), entriamo nel profondo
dell’essere umano, in un microcosmo estremamente complesso, interdipendente e conflittuale, ma anche
potentemente creativo e distruttivo.
L’essere umano è:
una unica entità psicofisica (relazione mente - corpo)
una unica entità conscio-inconscio ( relazione tra quello che sa di sé e quello che non conosce di sé, ma che
lo abita)
una unica entità relazionale ( relazione tra il mondo interiore e il mondo esterno, con la Natura)
Queste tre dimensioni sono interconnesse e non separabili tra loro.
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Quando lo sguardo e l’attenzione sono rivolti all’interno del “sistema essere umano”, si sviluppa un
percorso di autoconoscenza in cui la sua modalità di relazione non solo verso se stesso, ma anche verso gli
altri e verso l’ecosistema, diventa un elemento fondamentale di sviluppo personale, perché orienta il
soggetto a collocarsi e a contribuire così alla realizzazione di un” mondo “piuttosto che di un altro.
La relazione tra conscio e inconscio: l’Ombra
E’ decisivo che l’uomo sia orientato verso l’infinito
è il problema essenziale della propria vita…
Se riusciamo a capire e a sentire
che già in questa vita abbiamo un legame con l’infinito
i nostri desideri e i nostri atteggiamenti mutano…
Ma possiamo raggiungere il sentimento dell’infinito
solo se siamo differenziati al massimo livello possibile.
Se so di essere unico nella mia combinazione individuale
e cioè limitato, posso prendere coscienza dell’illimitato.
Perciò, l’uomo ha bisogno di conoscere se stesso
guardando senza reticenze quanto bene può fare
ma anche di quale infamia è capace.
Carl Gustav Jung
Ognuno di noi è inseguito da un’Ombra
e meno è integrata nella vita cosciente dell’individuo tanto più è nera e densa.
Nessuno sta fuori della nera Ombra collettiva dell’umanità,
sarà quindi bene avere una immaginazione del Male
perché soltanto gli sciocchi possono trascurare la premessa della propria natura.
Sono accadute e accadono tuttora cose terribili,
ma sono sempre gli altri che le hanno fatte;
noi portiamo invece nel nostro essere
invariate e inamovibili la capacità e l’inclinazione a ripetere cose simili.
Siamo, in forza del nostro essere umani, ‘criminali’ in potenza”.
Carl Gustav Jung
Conoscenza e non conoscenza, luce e ombra sono inseparabili nella nostra esperienza di vita.
In tutti noi c’è una parte della nostra personalità che ci è nascosta.
Siamo portatori di inclinazioni, desideri, paure, passioni, che non abbiamo potuto affrontare e sviluppare
nel corso della nostra vita perché abbiamo avuto troppa paura, oppure perché era incompatibile con la nostra
educazione o con il modello sociale e culturale nel quale eravamo immersi.
Una delle più forti radici di ogni male è l’incoscienza (…).
Il decorso del processo di individuazione comincia di regola con la presa di coscienza dell’Ombra, cioè di una componente della
personalità, che generalmente ha segno negativo.
C.G.Jung
Ma l’ombra rappresenta solo qualcosa di inferiore, di primitivo, inadatto e goffo
e non è male in senso assoluto.
C.G.Jung
Via via che viviamo seppelliamo tutto quello che riteniamo sgradevole, inaccettabile ed inquietante in
qualche angolino dentro di noi.
Più ricacciamo l’Ombra nel profondo e non la esprimiamo e più le permettiamo di prendere spazio
ed energia dentro la profondità del nostro essere.
Genitori ed insegnanti ci spingono a sviluppare il lato luminoso della personalità, a occuparci di
argomenti illuminati dalla ragione e ad avere successo. La parte oscura della personalità allora non viene
rispettata, presa in considerazione, nutrita e diventa sempre più affamata…più potente
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L’Ombra è proprio quella parte della nostra personalità che ci dà profondamente fastidio, che non
vogliamo vedere, che accantoniamo, che ricacciamo nel buio, nel profondo. Ogni parte di noi che non
amiamo ci diventa ostile e la parte negata tende ad allontanarsi dalla nostra coscienza e a scatenare una
rivolta contro di noi. Gli aspetti ombra della nostra personalità, seppure negati non stanno inattivi ma
lavorano, sono dei fermenti sotterranei che condizionano il nostro modo di conoscerci, di vedere il mondo e
di relazionarci agli altri.
Una simile modalità di relazione tra conscio e inconscio è profondamente regressiva.
Il poeta americano Robert Bly dà l’immagine dell’ombra come di un sacco che ogni persona ha fin da
bambino e butta dentro le cose che non sono apprezzate dai genitori e dalla società. Il problema è che questo
sacco man mano che la vita va avanti diventa sempre più pesante, sempre più grande. Occorre, allora,
guardare dentro questo sacco.
Se non strappiamo la maschera diventiamo dei replicanti. Corriamo proprio il rischio di diventare dei
replicante di una macchina o di qualcosa che funziona sui modelli di massa. L’ Ombra è un potente
elemento che contribuisce fortemente a strutturare le dinamiche di potere a qualsiasi livello.
Questo continuo “buttar fuori” di noi (proiettare fuori) è forte generatore di conflitti. Il pensiero che
produciamo è primitivo, schematico (o è bianco o è nero). Siamo portatori di grande inconsapevolezza,
passività, ignoranza, adesione alle ideologie e all’idea della inevitabilità di agire il conflitto, sino ad arrivare
a giustificare lo scontro fisico e la guerra.
Il cosiddetto uomo civile non intuisce che la sua Ombra, nascosta, e apparentemente inoffensiva,
è dotata di caratteristiche di cui egli non sospetta neppure lontanamente la pericolosità.
Non appena gli uomini si radunano in masse nelle quali il singolo viene sommerso, quest’Ombra è mobilitata e,
come dimostra la storia, trova anche modo di personificarsi o incarnarsi.
C.G. Jung
*** Incontriamo il mistero… .umanizziamo l’Ombra
Tanto più l’Io si estranea nella luce, tanto più si produce caos e devastazione. Occorre far dialogare luce e
ombra. L’Ombra è molto complementare alla parte cosciente della nostra personalità già in luce e
permette di costituire la totalità dell’essere umano; rappresenta l’altro, il diverso che chiede di essere
integrato.
Fare i conti con l’Ombra significa anche accedere ad un grosso potenziale energetico perché è il serbatoio
della nostra energia, della nostra istintività, del nostro eros. Altrimenti, siamo “pallidi, piatti e collettivi”
perché non c’è spessore, non c’è sfondo… non c’è coscienza della complessità…non c’è molta energia.
L’incontro con l’Ombra va a sanare la separazione profonda operata dal potere del giudizio dualistico che ha
etichettato, fissato, allontanato, rifiutato qualche cosa di noi che ci appartiene nel profondo. Una modalità
giudicante è sempre una modalità violenta perché alimenta inevitabilmente dinamiche di separazione.
Conoscere l’Ombra significa accettare la complessità dell’essere umano, del mondo ed essere disponibili ad
un incontro con il mistero.
L’Ombra può essere considerata un qualche altro me stesso che mi accompagna tutta la vita, è una porta di
accesso alla conoscenza perché manifesta un qualche cosa che sfugge alla ragione.
L’Ombra è una “presenza” con la quale dobbiamo fare i conti ad un certo punto della vita ( particolarmente
nella seconda metà). E’ un doppio che chiede di essere riconosciuto.
Si può praticare la via del rispetto, dell’incontro e della integrazione dei vari aspetti della nostra
personalità. Provare a vivere una pratica una modalità non violenta di relazione – si passa dallo sguardo
giudicante allo sguardo amante - è incamminarsi per una via che segue percorsi di consapevolezza e
che conduce all’accettazione dei nostri limiti e delle nostre contraddizioni.
Non si può mutare
nulla che non sia accettato.
C.G.Jung
Questa sensazione che provo nel dover comprendere la violenza in me stesso
genera tremenda vitalità ed entusiasmo.
Ma per poter superare la violenza non la posso sopprimere, non la posso negare, non posso dire,
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“Beh, fa parte di me e questo è tutto”, oppure “Non la voglio”.
Devo guardarla, devo studiarla, devo esserle molto vicino,
e non potrò esserlo se la condannerò o la giustificherò.
Tuttavia noi la condanniamo, la giustifichiamo.
Perciò dico, smettete per il momento di condannarla o di giustificarla.
Krishnamurti
L’Ombra collettiva.
Nella nostra esperienza di vita vi è anche la dimensione collettiva dell’Ombra( ad esempio, lo squadrismo
fascista, che cosa si pensa sugli islamici, che cosa si è pensato sui comunisti al tempo della Guerra Fredda,
il fatto che crediamo che la nostra cultura sua migliore delle altre). Oppure, più semplicemente ricordiamoci
che un Gruppo di lavoro come questo ha anche la sua Ombra.
“C’è però una dimensione dell’Ombra collettiva che tocca praticamente tutti ed è la dimensione economica.
L’Economia, o meglio la nostra economia capitalistica è “ il demone invisibile” che determina le nostre
motivazioni e le nostre scelte” (James Hillman, Il potere)
Hillman afferma che la società capitalistica può essere paragonata ad una grande e potente madre. Il suo
lato ombra è quello del potere cioè di fermare, bloccare e fissare la persona unicamente al momento
nutritivo ( consumi) impedendo alla persona di arrivare ad uno stato adulto. La scelta è tra essere un
“suddito-consumatore” o essere un “soggetto riflessivo” in grado di immaginarsi ed impegnarsi a
realizzare un altro tipo di società.
Ora, se ritorniamo alla dimensione individuale, è possibile che nel cammino dell’autorealizzazione (e nella
molteplicità dei cammini personali), prendere le distanze anche dalla grande Ombra della logica oggettuale e
di pulsione di immediatezza consumistica ( perché di gratificazione immediata) che sta alla base
dell’economia.
Per sganciarsi prima di tutto dalla visione che sorregge il capitalismo, occorre sempre più
recuperare una visione riflessiva personale e fare i conti con la nostra propria Ombra. Crescere in
consapevolezza significa anche minare alla base la credenza che il capitalismo sia desiderabile,
superiore ad altre forme di economia o addirittura inevitabile.
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Inconscio e archetipo
C.G.Jung, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, vol. nono, Opere
Dapprima il concetto di inconscio si limitò a designare la situazione di contenuti rimossi o
dimenticati. (…) Un certo strato per così dire superficiale dell’inconscio è senza dubbio personale:
noi lo chiamiamo “inconscio personale”. Esso poggia però sopra uno strato più profondo che non
deriva da esperienze e acquisizioni personali, ma è innato. Questo strato più profondo è il cosiddetto
“inconscio collettivo”. Ho scelto l’espressione “collettivo” perché questo inconscio non è di natura
individuale, ma universale e cioè, al contrario della psiche personale, ha contenuti e comportamenti
che (cum grano salis) sono gli stessi dappertutto e per tutti gli individui. In altre parole, è identico in
tutti gli uomini e costituisce un sostrato psichico comune, di natura sovra personale, presente in
ciascuno.(…). I contenuti dell’inconscio dell’ inconscio collettivo sono i cosiddetti “archetipi”….
cioè immagini universali presenti fin da tempi remoti….”figure simboliche delle primitive visioni
del mondo (Levy Bruhl)”.
Archetipo è un termine che si trova già nell’antichità ed è sinonimo di “idea” in senso platonico.
Questo significa che in ogni psiche sono presenti – inconsce e ciò nonostante attive, cioè vive –
forme, disposizioni, idee in senso platonico, le quali istintivamente preformano e influenzano i
nostri pensieri, sentimenti, azioni
Ben note manifestazioni di archetipi sono il mito e la fiaba.
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L’archetipo rappresenta in sostanza un contenuto inconscio che viene modificato attraverso la presa
di coscienza e per il fatto di essere percepito, e ciò a seconda della consapevolezza individuale nella
quale si manifesta.
L’archetipo in quanto tale rappresenta un modello ipotetico, non evidenziabile, simile al modello di
comportamento noto nella biologia.
L’archetipo è in sé un elemento vuoto, formale, nient’altro che una facultas praeformandi ,una
possibilità data a priori della forma di rappresentazione. Ereditarie non sono le rappresentazioni,
bensì le forme.
Un terribile amore per la guerra
James Hillman, Adelphi, Milano; [2005]
Abstract: La guerra, sostiene Hillman in questo libro, è una pulsione primaria e ambivalente della
nostra specie. Per incontrare le forze soggiacenti che muovono le vicende umane dobbiamo scavare
in profondità, in una sorta di archeologia della mente,in modo da riportare alla luce i temi mitici che
attraversano i tempi e sono senza tempo. E la guerra è una di tali forze.
Le strutture archetipiche dell’immaginazione , gli “universali fantastici”, abbracciano tutti gli
eventi, razionali e irrazionali.
Questo significa che per comprendere la guerra dobbiamo arrivare ai suoi miti, riconoscere che
essa è un accadimento mitico, che coloro che vi sono immersi sono proiettati in uno stato d’essere
mitico, e che l’amore per la guerra dice di un amore per gli dei, per gli dei della guerra.
La tesi dell’autore e che, se di quella pulsione “distruttiva/estetica” che affonda le sue radici
nell’inconscio non si avrà consapevolezza , ogni opposizione alla guerra sarà vana.
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Cenni bibliografici
Perché la guerra. Riflessioni a due sulle sorti del mondo
Sigmund Freud/Albert Einstain – Bollati Boringhieri, Torino,2006 (ristampa)
Può l'uomo prevalere? : Uno psicanalista di fama mondiale svela le
radici patologiche di una "politica del suicidio".
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Bompiani, Milano; 1963
Psicanalisi della guerra atomica
Franco Fornari
-
Edizioni di Comunita', Milano; 1964
Psicanalsi della guerra
Franco Fornari
-
Feltrinelli, Milano; 1966
La violenza e il sacro
Renè Girard, Adelphi, Milano, 1980
Il disagio della civiltà
Sigmund Freud, Boringhieri, Torino, 1987
Psychological Dimensions of War
Betty Glad (a cura) (raccolta di articoli)
SAGE Publications, London; 1990
Gli effetti psicologici della guerra
Giorgio Majorino
-
Arnoldo Mondadori, Milano; 1992
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Gli archetipi e l’inconscio collettivo
C,G,Jung
- volume nono, Opere, Bollati Boringhieri, Torino,1992
Psicoanalisi del guerriero : storia e motivazioni psicologiche di una
vocazione enigmatica.
Claude Barrois ; Gian Giacomo Rovera (presentazione di)
Ed. it. / a cura di Gian Giacomo Rovera, Secondo Fassimo e Andrea Ferrero
Centro Scientifico, Torino; [1994]
Considerazioni attuali sulla guerra e la morte ; Caducità
Sigmund Freud; Simona Argentieri(prefazione di)
-
Editori Riuniti, Roma; 1994
Violenza di stato e psicoanalisi
J. Puget [e altri]; Giovanna Mazzacca (traduzione e glossario di)
Ed. it. / prefazione di Adele Nunziante Cesauro - Gnocchi, Napoli; [1994]
Il piccolo libro dell’ombra,
Robert Bly - Demetra Edizioni, Bussolengo (Vr), 1996
L’ombra del potere
Claudio Bonecchio-Claudio Risè - Red edizioni, Como
Psicanalisi della guerra
Claudio Risé
-
Red, Como; 1997
Psicologia dell'inerzia e della solidarietà : il ruolo degli spettatori
nelle atrocità collettive.
Adriano Zamperini
-
Einaudi, Torino; [2001]
Le seduzioni della guerra : miti e storie di soldati in
Joanna Bourke
battaglia.
- Carocci, Roma; 2001
L'incubo globale:prospettive junghiane a proposito dell'11
settembre.
James Hillman [e altri]; Luigi Zoja
Moretti & Vitali, Bergamo; [2002]
(a cura di); Luciano Perez (traduzioni di)
Psiche e guerra : immagini dall'interno.
Anna Maria Sassone
(prefazione di) -
(a cura di); Giorgio F. Albani
Manifestolibri, Roma; [2002]
[e altri]; Assunta De Coro
Il potere
James Hillman, Rizzoli, Milan,2002
Il fascino oscuro della guerra
Chris Hedges - Laterza, Roma ; Bari; 2004
Un terribile amore per la guerra
James Hillman -
Adelphi, Milano; [2005]
Psicoanalisi e guerra : per un'analisi multidisciplinare dei conflitti
armati.
Marco Bo
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