Il convitato di pietra Altre cure più gravi di queste, altra brama quaggiù mi guidò! (Da Ponte–Mozart, Don Giovanni) 1. I “professionisti dell’antimafia” A Racalmuto gli hanno fatto una statua. Uno Sciascia iperrealista, formato naturale, giacca gualcita e sigaretta in mano. Ma lasciato lì, in un punto qualunque d’un qualunque marciapiede, sul corso popolato di passanti distratti e frettolosi. Una scelta ardita, dice qualcuno, quello Sciascia senza piedistallo, uomo tra gli uomini. Solo che mette i brividi, imbattersi in quel buffo replicante da museo delle cere. E sa tanto, a prescindere dalle buone intenzioni degli amministratori, di ridimensionamento voluto e anzi vendicativo, da parte d’un paese che non sempre seppe capirlo ed amarlo. Il ritorno di Leonardo Sciascia a Racalmuto, da Palermo e anzi da Parigi che fu per lui capitale dell’anima, e le estati alla 76 “Noce” fra i parenti e gli amici scrittori (qualcosa di simile alle Soirées de Médan di Zola), e quei funerali tradizionali e istituzionali nel cuore del paese, e la scommessa testamentaria sulla Fondazione, cattedrale nel deserto: tutto questo appartiene alla nobile retorica del nóstos, cara ai nostri grandi scrittori, da Verga in poi, quando come possenti elefanti hanno deciso di chiudere i conti con la vita. È il ritorno a quella terra che meglio d’ogni altra sa essere croce e delizia, grembo accogliente e trappola mortale, è il ritorno al dolce ricatto delle abitudini e delle amicizie, è il bisogno di chiudere il giro, di riappropriarsi di sé: «tel qu’en Lui-même enfin l’éternité le change», quale in lui stesso alfine l’eternità lo muta, come recita un verso di Mallarmé sulla tomba di Poe, caro all’ultimo Sciascia. E quella frase di Villiers de l’Isle-Adam, sulla candida lastra tombale nel cimitero di Racalmuto, nella sua serenità beffarda, nel suo siderale distacco, è carica di quello stesso amore scontroso, di quella contrastata nostalgia, di quel rancore venato di pietas, che segnarono il rapporto di Sciascia con Racalmuto, con la Sicilia, con il mondo: «Ce ne ricorderemo, di questo pianeta». Scriveva Ibn Hamdis, poeta arabo-siciliano dell’XI secolo, dell’isola da cui era esule: «vuote le mani, ma pieni gli occhi del ricordo di lei». Finché Sciascia fu esule, la sua Sicilia fu il mondo, nel bene e nel male: fu la Racalmuto-Regalpetra delle Parrocchie, coi suoi notabili vaniloquenti e trasformisti e coi suoi ragazzi avidi di pane e di verità; fu la zolfara dell’Antimonio, teatro dell’offesa al genere umano ma anche della presa di coscienza; fu il “cuore” assolato e desolato dell’isola, intossicato di tracotanza mafiosa e rovelli pirandelliani, dei “gialli” degli anni Sessanta. Fu, anche, teatro della memoria e laboratorio di moralità e di stile. Fu osservatorio sul mondo, a sfatarne le magnifiche sorti e progressive, a svelare qui come altrove le ricorrenti e 77 corresponsabilizzanti infamie del “contesto”. Fu un’utopia d’irriducibile diversità, di resistenza all’omologazione, d’intelligenza critica, concepita in assenza (“vuote le mani, ma pieni gli occhi”) di un’isola reale effettualmente diversa, che invece, nel frattempo, si andava omologando a quel feroce “contesto”. Fu, infine, l’ultimo approdo. Il “cancello della preghiera” intravisto, ma non varcato, dal laico Vice de Il cavaliere e la morte; il gesto di liberatoria indifferenza dell’“uomo della Volvo” nell’ultima pagina vergata dallo scrittore morente, in coda a Una storia semplice: «Uscì dalla città cantando». Tornando alle radici, a quella “dimora vitale” compitata sulle pagine dello storiografo dell’hispanidad Américo Castro, a quel “teatro della metamorfosi” che Pirandello aveva edificato fra i templi della costa e i latifondi dell’interno, Sciascia null’altro vi cerca che un varco, lo stesso da cui ha avuto origine il suo “involontario soggiorno sulla terra”, per fuoruscirne, e magari “cantando”. O gemendo, come invece, purtroppo, accadde a lui di uscire, angosciosamente, di scena. Tutto questo e tant’altro fu, ed è per chi vi s’inoltri da lettore, la mitica Regalpetra: che già nel suo nome univa l’etimo arabo di quel luogo di pena con un toponimo (I fatti di Petra, di Savarese) di pura, fantastica letterarietà. E come in una pagina di letteratura isolana Sciascia sfilò, per l’ultima volta, per le anguste strade di Regalpetra: «Così vanno via i morti, al mio paese; / finestre e porte chiuse, ad implorarli / di passar oltre, di dimenticare...» (Sciascia, I morti, in La Sicilia, il suo cuore). Oggi, fra quelle quinte di carta stampata ma anche di sangue rappreso, quel monumento accigliato come il Commendatore mozartiano potrebbe apparire superfluo, inutilmente intimidatorio, al cospetto di nuovi crimini e nuove malversazioni, mezzo secolo dopo Il giorno della civetta. E sembra scoraggiare ogni ulteriore tentativo di riprendere, contro la volontà stessa più volte espressa dallo scrittore, la vecchia querelle su Sciascia e la 78 mafia che gli avvelenò gli ultimi anni di vita già insidiati dal male e che periodicamente torna, con ottusa protervia, a infangarne la memoria. Certo non si può limitare o appiattire la complessa e copiosa produzione letteraria di Leonardo Sciascia, né l’incessante travaglio intellettuale che la percorre e la anima, riducendo l’una e l’altro all’unica chiave, o al tema dominante, della mafia. Si cadrebbe, così facendo, nello stesso errore di certa critica “impegnata” del dopoguerra, che dell’autore delle Parrocchie di Regalpetra e del Giorno della civetta aveva inteso solo la “corda civile”, non il rovello pirandelliano né certe profondità manzoniane, che l’avrebbero indotto ad analisi sempre più sottili e sfumate, a seminare dubbi anziché certezze, a investigare – piuttosto – sulle responsabilità individuali e sull’universale correità del “contesto”. E perciò, quando quella stessa critica, inaugurando una interminabile teoria di polemiche, si scandalizzò di quella sorta di reciproca intesa, o onore delle armi, fra il combattente anti-mafioso (il capitano Bellodi) del Giorno della civetta e il boss mafioso don Mariano Arena, “uomini” entrambi, quel che non s’intese era il fatto che Sciascia si dichiarava estraneo, in tal modo, alla retorica manichea (“uomini e no”) del neorealismo, e aspirava ad analisi più complesse, a un’antropologia del Potere e della “sicilitudine” affinata, per esempio, nelle considerazioni di Pirandello e la Sicilia sulla «sofistificazione» della morale sessuale ad opera del codice «borgese-mafioso». Lo stesso può dirsi, qualche anno dopo, a proposito del secondo “giallo di mafia” firmato da Sciascia, A ciascuno il suo, dove a dar scandalo, e a liquidare l’agiografia “di sinistra”, era il fatto che l’indagine anti-mafiosa fosse affidata a un «cretino», o meglio a un perdente, a uno sgomento anti-eroe, come Laurana; e del resto già in quel libro Sciascia, un liberal-radicale che come tanti allora simpatizzava per l’opposizione comunista, 79 non si nascondeva affatto i silenzi e le omissioni di questa parte politica a proposito dei misfatti del “contesto” notabiliareclerical-mafioso. Ma se Sciascia non è solo mafia, e piuttosto rimanda a temi più vasti come la giustizia e la ragione, la scrittura e la morte, la memoria e l’inquisizione, pure non si può parlare di mafia senza citare Sciascia, le sue intuizioni anticipatrici, le sue polemiche generose e irritanti. Senza quei “gialli di mafia”, che pure erano ben altro e ben più che cronache giornalistiche o laiche omelie, non si potrebbe intendere quell’escalation dalle mafie rurali alla conquista della città e degli appalti, infine alla internazionalizzazione degli affari e dei legami mafiosi, che Sciascia fu comunque il primo, o uno dei primi, a prevedere, sia con circostanziate analisi sia con trasparenti metafore: come quella che prende a prestito dai botanici le valutazioni sulla «linea della palma», che progressivamente «va a nord», ovvero sposta la frontiera del costume e del sentire mafiosi ben oltre i confini entro i quali erano germogliati e si erano alimentati. Altre metafore, più astratte e più terribili, Sciascia va forgiando, via via che la sua scrittura e la sua riflessione si approfondiscono e si complicano: e in primo luogo quella del «contesto» che dà il titolo al romanzo del 1971. A seguito dell’assassinio d’un alto magistrato, che ancora una volta prefigura un’escalation di là da venire e i “cadaveri eccellenti” dei successivi decenni, si aprono agli occhi del lettore (e dell’investigatore) gl’inquietanti scenari d’un regime-piovra artefice d’intrighi e di crimini, ma quel ch’è peggio d’una omertosa corresponsabilità dell’opposizione (anche il “compromesso storico” e il “consociativismo” erano di là da venire). E di una più profonda, irredimibile corresponsabilità del singolo: anche l’onesto investigatore, il dubbioso e colto Rogas, prototipo dei tanti detective-controfigure fino al Vice del testamentario Il cavaliere e la morte, lungi dal condividere il fermo garantismo di Sciascia, consente che il reo-vittima Cres 80 continui a farsi giustizia da sé, così come s’erano fatti o si faranno giustizia da sé l’eretico fra’ Diego La Matina di Morte dell’inquisitore e lo sgomento pittore capitato nell’eremo penitenziale e criminoso di Todo modo. Sciascia fu un autore che programmaticamente «contraddisse e si contraddisse». In merito al problema cruciale «del giudicare», angosciosamente dibattuto nel Contesto, problematicamente esitava tra il culto del diritto e la sete di giustizia, tra il garantismo connesso alla sua formazione illuministico-liberale e il giustizialismo di fra’ Diego (il suo personaggio prediletto!). Anche i suoi numerosi interventi in materia di mafia, e di lotta alla mafia, rientrano in quest’irrisolta dialettica, tuttavia più feconda d’insostenibili verità e affilati paradossi di quanto non siano state le certezze di certi ayatollah dell’antimafia o di certi cultori d’un garantismo pro domo sua. Gli scritti giornalistici dell’ultimo decennio, raccolti nel volume postumo A futura memoria (se la memoria ha un futuro), testimoniano dell’impegno di Sciascia non per questo o quello schieramento ma per la quotidiana invenzione della verità, la meno accomodante, la più inedita e anticonformista. Si collocano, perciò, accanto agli Scritti corsari di Pasolini, così come Sciascia – da Todo modo, giallo di Palazzo e processo all’establishment democristiano, all’Affaire Moro, che si apre nel segno delle “lucciole” pasoliniane – si era trovato sempre più vicino all’impegno critico e alle battaglie civili, ma soprattutto alla figura di dolente testimone e caparbio “uomo-contro”, dell’amico poeta scomparso nel 1975. E dunque è alla letteratura che quegli scritti vanno ricondotti, non per sminuirli ma anzi per esaltarne la portata metaforica e lo spessore problematico: e infatti è a un Flaubert o a un Borges che Sciascia chiede, di volta in volta, le chiavi di lettura d’un “contesto” mafioso sempre più indecifrabile, mentre gl’interventi contro il “pentitismo” non sono che accorate repliche