L`aspetto economico del concetto di decadenza pag. 4

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MARCO SACCHI
CAPITALISMO IN DECOMPOSIZIONE?
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L’ASPETTO ECONOMICO DEL CONCETTO DI DECADENZA
LO SCONVOLGIMENTO NELLE SOVRASTRUTTURE
- decomposizione delle forme ideologiche regnanti in seno all’antica società
- sviluppo delle guerre tra le frazioni della classe dominante.
- intensificazione dello sviluppo della lotta fra le classi.
- rafforzamento dell’apparato statale
CI SONO DELLE DIFFERENZE TRA COME EMERGE LA DECADENZA NEGLI ALTRI
MODI DI PRODUZIONE E QUELLO CAPITALISTA?
QUAL È LA DIFFERENZA TRA DECADENZA E DECOMPOSIZIONE?
DALLE DEMOCRAZIE IN DECOMPOSIZIONE AL GOVERNO DIRETTO DEL CAPITALE FINANZIARIO
QUALI PROSPETTIVE?
LA LOTTA DI CLASSE DI FRONTE ALLA DECOMPOSIZIONE DELLA SOCIETÀ
I DUBBI SULLA CLASSE OPERAIA
L’EVOLUZIONE DELLA LOTTA DI CLASSE DOPO IL 1989
SULLA CRISI ATTUALE
LE RIVOLTE IN NORD AFRICA
I MOVIMENTI IN SPAGNA, GRECIA E ISRAELE
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Tutti i modi di produzione del passato hanno conosciuto un periodo di ascendenza e un periodo
decadenza. Il primo periodo corrisponde a un pieno adeguamento dei rapporti di produzione dominanti
con il livello di sviluppo delle forze produttive della società, nel secondo questi rapporti di produzione
sono divenuti troppo stretti per contenere le forze produttive.
La decadenza di un modo di produzione si caratterizza per due aspetti, uno economico e l’altro
sovrastrutturale.
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L’ASPETTO ECONOMICO DEL CONCETTO DI DECADENZA.
Lo sviluppo delle forze produttive può presentarsi sotto due forme:
1° Con l’accrescimento del numero dei lavoratori incorporati nella produzione a un livello di
produttività dato.
2° Con lo sviluppo della produttività del lavoro con numero dato di lavoratori.
Nella realtà di un sistema in piena espansione si costata la combinazione di due forme. Un sistema in
crisi è un sistema che si trova limitato sui due piani allo stesso tempo.
Si potrebbe parlare di un “limite esterno” all’espansione del sistema (incapacità ad allargare il campo
di applicazione del sistema) e di un “limite interno” (incapacità a superare un certo stadio di
produttività). Consideriamo il caso della fine dello schiavismo nell’impero romano. Il limite esterno è
costituito dall’impossibilità materiale di continuare a estendere la superficie dell’Impero. Il limite
interno è l’impossibilità di aumentare la produttività degli schiavi senza sconvolgere il sistema sociale
stesso, senza eliminare il loro stato di schiavi. Per il feudalesimo è la fine dei dissodamenti, l’incapacità
di trovare nuove terre coltivabili, che costituisce il limite esterno; il limite interno è costituito
dall’impossibilità di aumentare la produttività del servo o dell’artigiano, senza introdurre il lavoro
associato del capitale sconvolgendo l’ordine economico feudale.
Le influenze di questi due tipi di limiti sono dialetticamente legate: l’Impero Romano non poté
estendere indefinitamente il suo Impero a causa dei suoi limiti tecnici; inversamente, più le difficoltà a
estendersi sono grandi, più fu obbligato ad accrescere la propria produttività, spingendola così più
rapidamente fino ai suoi limiti estremi. Allo stesso modo i dissodamenti feudali erano limitati dal
livello delle tecniche e nello stesso tempo man mano che le terre diventano rare, ci si sforza nelle città e
nelle campagne di aumentare la produttività feudale fin sulla soglia del capitalismo.
In ultima analisi sono i limiti che trovano lo sviluppo della produttività in seno all’antica società che
provoca il marasma. È, in effetti, questa produttività che costituisce la vera misura dello stadio di
sviluppo delle forze produttive: essa è l’espressione quantitativa di una certa combinazione di lavoro
umano e di mezzi di produzione, di lavoro vivo e di lavoro morto.
A ogni stadio di sviluppo delle forze produttive, cioè a ogni livello globale di produttività,
corrisponde un certo tipo di rapporto di produzione. Quando questa produttività raggiunge i massimi
limiti possibili in seno al sistema che gli corrisponde, la società entra in una fase di decadenza
economica. Si assiste allora a una specie di fenomeno “valanga di neve”: le prime conseguenze della
crisi si trasformano in fattori acceleratori di questa. Per esempio, tanto alla fine di Roma che nel
declino del feudalesimo, la caduta dei redditi delle classi dominanti le spinge ad aumentare lo
sfruttamento della sua mano d’opera fino all’esaurimento. Il risultato è nei due casi un
disinteressamento e un malcontento crescente dei lavoratori, cosa che può che non può che accelerare
ancor più l’abbassamento dei profitti. Inoltre, l’impossibilità di incorporare altri lavoratori alla
produzione obbliga la società a mantenere uno strato di inattivi che non possono che pesare nel profitto.
Parallelamente a queste conseguenze economiche, la crisi provoca una serie di convulsioni sociali
che a loro volta ostacolano la già debole vita economica. Lo sviluppo della produttività urta
sistematicamente contro le strutture sociali esistenti, rendendo sempre di più difficile ogni ulteriore
sviluppo delle forze produttive. Il superamento della vecchia società è messo all’ordine del giorno.
“Mai una società si estingue prima che si siano sviluppate tutte le forze produttive che essa può
contenere” (Marx). In effetti, bisogna notare che nessun sistema ha potuto sviluppare tutte - nel senso
proprio del termine – le forze produttive che potevano contenere in teoria.
Sotto la pressione delle forze produttive, le basi della nuova società cominciano a svilupparsi in seno
all’antica: questo però è valido solo per le società passate in cui la classe che ha realizzato il
superamento di un sistema non è mai stato la classe sfruttata. Il feudalesimo si sviluppa nel seno stesso
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dell’Impero romano schiavista. Le prime forme di feudalesimo a Roma erano spesso attuate da anziani
membri del Senato Municipale che si erano resi autonomi nei confronti dello Stato che li aveva resi
responsabili della riscossione delle imposte. Allo stesso modo alla fine del feudalesimo, membri della
nobiltà diventano uomini d’affari e nelle città – spesso in lotta con i signori locali - si sviluppano le
prime manifatture annuncianti il capitalismo.
Questi primi “centri del sistema futuro” sorgono nella maggior parte dei casi come risultato della
decomposizione del sistema. Vi si trovano tutti i tipi di persone che cercano di sfuggire al sistema. Da
risultati della decadenza essi si trasformano rapidamente in fattori acceleratori di essa.
Le condizioni materiali che permettono il passaggio a un nuovo tipo di società esistono già nell’antica
società e la loro pressione è sufficiente a farvi germogliare gli inizi del nuovo sistema.
“Mai dei rapporti di produzione superiori cominciano ad attuarsi prima che le condizioni materiali
della loro esistenza si siano sviluppate nel seno stesso della vecchia società” (Marx).
Non è sufficiente che la produzione si avvicini ai suoi limiti massimi nella vecchia società. C’è
ancora bisogno che i mezzi di superarla esistano già o siano in via di formazione. Quando queste due
condizioni sono storicamente realizzate, l’adozione da parte della società di nuovi rapporti di
produzione è all’ordine del giorno. Ma la resistenza della vecchia società (resistenza delle antiche classi
privilegiate, inerzia dei costumi e delle abitudini, delle ideologie, della religione ecc.) e l’eventuale
anacronismo nella realizzazione delle due condizioni, impediscono che il passaggio sia effettuato
secondo una progressione continua. La fase di decadenza di un sistema è questo periodo nel quale il
salto storico da realizzare non è ancora compiuto: è l’espressione di una contraddizione che
s’ingigantisce tra forze produttive e rapporti di produzione; è il malessere di un corpo che cresce in un
vestito troppo stretto.
Prigioniera delle sue contraddizioni, la società conosce una serie di fenomeni caratteristici che
traducono il malessere crescente.
LO SCONVOLGIMENTO NELLE SOVRASTRUTTURE
Quando l’economia traballa, tutta la sovrastruttura che essa sostiene entra in crisi e in
decomposizione. Le manifestazioni di questa decomposizione sono altrettanti elementi caratteristici
della decadenza di un sistema.
Prendiamo in esame quattro fenomeni presenti tanto nella decadenza dello schiavismo quanto in
quello del feudalesimo. Essi sono:
1° La decomposizione delle forme ideologiche regnanti in seno all’antica società.
2° Lo sviluppo delle guerre tra le frazioni della classe dominante.
3° L’intensificazione dello sviluppo della lotta fra le classi.
4° Il rafforzamento dell’apparato statale.
La decomposizione delle forme ideologiche regnanti in seno all’antica società.
L’ideologia dominante di una società divisa in classi è necessariamente l’ideologia della classe
dominante. La capacità di arricchimento e di sviluppo di queste forme ideologiche dipende dalla
capacità reale di questa classe a fare accettare la sua dominazione dall’insieme della società. Una
società che non è disposta ad accettare una data ideologia se non quando il sistema economico che
questa difende corrisponde ai propri bisogni. Più un sistema economico assicura prosperità e sicurezza
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e più gli uomini che ci vivono dentro fanno proprie le idee che lo giustificano come sistema che esse
difendono e da cui sono prodotte.
In condizione di espansione le ingiustizie dei rapporti economici possono apparire come dei mali
necessari; la convinzione che “ciascuno può trovarvi il proprio interesse” permette lo sviluppo di
ideologie democratiche, soprattutto in seno alla frazione che ne trae il maggior profitto: la classe
dominante. La forma politica repubblicana corrisponde al periodo fiorente dell’economia romana; nel
feudalesimo in espansione il re non è che un signore, eletto come il primo tra i suoi pari. Il diritto stesso
è poco sviluppato perché il sistema corrisponde sufficientemente ai bisogni oggettivi della società
perché un gran numero di problemi può risolversi mediante la forza stessa delle cose.
Le scienze tendono ad arricchirsi, le filosofie propendono al razionalismo, all’ottimismo e alla fiducia
nell’uomo. Quando l’aspetto orribile di ogni società di sfruttamento è dissimulato dalla prosperità, le
ideologie sono meno ostacolate nella loro elaborazione dalla necessità di mascherare la realtà e di
giustificare ciò che non può esserlo. L’arte stessa riflette questo ottimismo e conosce in generale i suoi
grandi momenti nei migliori periodi economici (quella che si suole chiamare l’età dell’oro dell’arte
latina corrisponde al periodo di piena espansione dell’Impero; allo stesso modo che nella prosperità
dell’XI e XII, il feudalesimo conosce un rinnovamento intellettuale e artistico immenso).
Ma è sufficiente che i rapporti di produzione si trasformino in una zavorra per la vita della società e
tutte le forme ideologiche corrispondenti al passato si trovano sradicate, vuotate del loro contenuto,
contraddette apertamente dalla realtà. Nell’Impero Romano decadente, l’ideologia del potere politico
non può che prendere un carattere sempre più sopranaturale e dittatoriale. Così la decadenza feudale si
accompagna a un rafforzamento del carattere divino della monarchia e dei privilegi della nobiltà,
sconfitti dai rapporti mercantili che la borghesia introduce.
Filosofia e religioni traducono un pessimismo costante; la fiducia nell’uomo cede il posto
all’abnegazione davanti alla fatalità e a un oscurantismo crescente (sviluppo dello stoicismo, poi del
neoplatonismo nel Basso Impero Romano: il primo che parla dell’elevazione dell’uomo per mezzo del
dolore. il secondo che nega all’uomo la capacità di comprendere con la sua ragione i problemi del
mondo).
Tutto ciò traduce l’anacronismo crescente tra i rapporti che reggono la società e le idee che se ne erano
fatti gli uomini fino allora.
Le sole forme ideologiche che in questo periodo possono acquistare un vero sviluppo sono il diritto,
da una parte, e le ideologie che annunciano la nuova società dall’altra.
Il diritto in una società divisa in classi non può che essere che l’espressione degli interessi e della
volontà della classe dominante espressa in forma legislativa. È l’insieme delle regole permettenti il
buon funzionamento del sistema di sfruttamento. Il diritto conosce dunque il maggior sviluppo
all’inizio della vita di un sistema sociale, quando sono stabilite le “nuove regole del gioco”, ma alla
fine di, questa, quando, la realtà rende sempre più inadatta e impopolare il sistema vigente, è la volontà
della classe dominante che diventa un elemento sempre più importante per mantenere in vita
questi rapporti. Il diritto traduce allora la necessità di rafforzare il quadro oppressivo necessario alla
sopravivenza di un sistema diventato superato. È per questo che il diritto si sviluppa tanto nella
decadenza romana che in quella del feudalesimo. (Diocleziano, il più grande imperatore del Basso
Impero, fu anche quello che redasse il maggior numero di editti. Allo stesso modo a partire dal XIII
secolo cominciano ad apparire le prime forme di diritto abituale)
Parallelamente a questo diritto dell’antica società cominciano a sorgere le idee preconizzanti il nuovo
tipo di rapporti sociali: esse prendono delle forme critiche, contestatarie, poi rivoluzionarie. Questo
fenomeno è particolarmente evidente a partire dal XV secolo in Europa occidentale. Il protestantesimo,
soprattutto quello di Calvino, religione che opponendosi al cattolicesimo, ammette il prestito su
interesse (condizione di vita del Capitale); che preconizza l’elevazione spirituale per mezzo del lavoro
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e che glorifica “l’uomo che è riuscito” (opponendosi ai privilegi “di fonte divina” della nobiltà); che
mette in questione il ruolo soprannaturale della Chiesa cattolica per preconizzare l’interpretazione della
Bibbia da parte dell’uomo stesso senza bisogno di intermediari; questa religione costituisce un
elemento ideologico annunciatore del capitalismo.
Lo sviluppo delle guerre tra frazioni della classe dominante
La prospettiva di un sistema di sfruttamento permette una relativa armonia tra gli sfruttatori e dunque
dei rapporti “democratici” tra di loro. Quando il sistema cessa di essere redditizio, quando i profitti
diminuiscono, l’armonia cede posto alla guerra tra i profittatori. Così si assiste al moltiplicarsi delle
guerre tra le frazioni della classe dominante.
A partire dal II secolo in Roma si assiste alle guerre tra cavalieri, burocrati, capi dell’esercito contro
senatori e patrizi.
Alla fine del Medio Evo le guerre tra i signori assumono tali proporzioni che i re occidentali sono
costretti a proibirle e Luigi IX arriverà fino a proibire il porto delle armi. In questo secondo ordine di
fenomeni si colloca la guerra dei Cento Anni. Quando la classe dominante non può servirsi dei suoi
profitti, la soluzione più immediata consiste per ogni frazione della classe dominante nell’impadronirsi
di quello degli altri; o almeno nell’impadronirsi delle condizioni di produzione permettenti la creazione
di profitto (per esempio, i feudi nell’epoca feudale).
Intensificazione e sviluppo della lotta tra le classi
Si riscontrano nella decadenza di un sistema tre fenomeni che fanno delle lotte di classe una delle
caratteristiche principali di questi periodi di declino.
1° L’aumento della miseria: la fine dello schiavismo romano e la fine del feudalesimo sono marcate da
carestie, epidemie e da una miseria che tende a generalizzarsi. Sono le classi oppresse che subiscono
più intensamente questi problemi; cosa che da parte loro provoca ribellioni rivolte sempre più
frequenti.
2° L’aumento dello sfruttamento: in un sistema in decadenza, non poteva essere accresciuta con mezzi
tecnici, le classi dominanti sono costrette a ovviare a ciò mediante un supersfruttamento della forza
lavoro. La forza lavoro è utilizzata fino al suo esaurimento. I sistemi di punizione si sviluppano.
Aggiunto alla miseria e alle sofferenze, quest’ultimo fattore non può che accentuare il fenomeno di
generalizzazione delle lotte degli sfruttati contro gli sfruttatori. Le reazioni contro il tentativo di
accrescere la loro produttività sono da parte dei lavoratori così violente e nefaste per la produzione, che
tanto alla fine dell’Impero che in quella del Medio Evo, si tenderà a sostituire le punizioni con sistemi
di “interessamento” (liberazione di schiavi o di servi).
3° La lotta della classe portatrice della nuova società: parallelamente alle rivolte degli sfruttati si
sviluppa la lotta di una nuova classe (grandi proprietari feudali alla fine dell’Impero, borghesia alla fine
del feudalesimo), che cominciò a stabilire le basi del proprio sistema di sfruttamento minando così le
basi del vecchio. Queste classi sono portate a una guerra permanente contro la vecchia classe
privilegiata. Nel corso di questa lotta esse hanno sempre trovato nella rivolta dei lavoratori la forza che
mancava loro distruggere le antiche strutture diventate reazionarie (Solo nella Rivoluzione Proletaria
avviene che la classe portatrice della nuova società sia nello stesso tempo la classe sfruttata).
Tutti questi elementi spiegano perché la decadenza di una società provoca obbligatoriamente un
rifiorire deciso della lotta tra le classi. Nel Basso Impero romano: “la situazione creata dalla carenza
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di produzione, una tassazione sempre più forte, la svalutazione della moneta e l’indipendenza sempre
maggiore di grandi proprietari, ebbe per conseguenza di accentuare la disorganizzazione politica e
sociale e di far scomparire i principi che regolavano le relazioni umane.
Proprietari impoveriti, uomini d’affari rovinati, lavoratori della città. Coloni, schiavi, disertori
dell’esercito, si davano al saccheggio in Gallia, Sicilia, Italia, Africa del nord e Asia Minore. Nel 235
un’onda di brigantaggio spazzò tutto il Nord. Nel 238 i coloni della Gallia attaccano in numerose
città e nel 269 una rivolta di schiavi scoppiò in Sicilia”.
Nello stesso modo alla fine del Medio Evo, le rivolte operaie sconvolgono le città fiamminghe. Al
tempo della guerra dei Cento Anni ci furono sollevamenti causati dalla miseria urbana. Dei tribuni
sfruttarono queste rivolte al servizio delle ambizioni politiche di gruppo o di un individuo.
Le rivoluzione di Cromwel nel 1649 in Inghilterra e quella francese del 1789 saranno il risultato
spettacolare delle lotte che il declino della società feudale e la nascita del sistema capitalistico avevano
provocato.
Il rafforzamento dello Stato.
Se il diritto traduce l’interesse e la volontà della classe dominante, sotto forma di legge, lo Stato è la
forza armata incaricata di farlo rispettare. Esso è il garante dell’ordine necessario allo sfruttamento di
una classe da parte di un'altra. Di fronte ai disordini economici e sociali che caratterizzano la fase di
decadenza di un sistema, lo Stato non può, dunque, che rafforzarsi.
Nato come forza armata della classe dominante, lo Stato è essenzialmente il servitore di una classe.
Tuttavia, è in questo servitore che si cristallizzano nel modo più perfetto gli interessi della classe
dominante: il suo compito è di mantenere un ordine globale, generale. In questo senso esso ha una
visione più completa del funzionamento del sistema, e delle sue necessità, che quella degli individui
che costituiscono la classe privilegiata. Separato dall’insieme della società, poiché organo di
oppressione al servizio di una minoranza, esso si distingue anche da questa minoranza per il suo
carattere unico di fronte alla diversità degli interessi frazionali o individuali degli sfruttatori. Inoltre, i
privilegi della burocrazia statale sono strettamente legati al buon andamento del sistema nel suo
insieme. Lo Stato è così, non solo strumento che hanno le classi dominanti è capace di giungere a una
visione globale dell’economia, ma anche il solo ad avere in ciò un interesse immediato e vitale.
Perciò nei periodi di decadenza, lo Stato si rafforza poiché non solo deve far fronte a un numero,
crescete di rivolte della classe oppressa, ma anche perché è il solo capace di assicurare la coesione della
classe dominante spinta al laceramento e allo sparpagliamento.
Lo sviluppo del potere dell’imperatore romano dal II secolo, così come quello della monarchia
feudale trovò una giustificazione tanto nelle loro lotte rispettive contro le rivolte degli oppressi, quanto
nella loro azione di difensori dell’ordine vigente per frenare le lotte tra frazioni della classe dominante.
L’imperatore Settimio Severo (193-211) arrivò fino al punto di confiscare le proprietà di senatori e
degli uomini di affari della città (come i commercianti) per procurarsi i fondi necessari al pagamento
dei soldati che assicuravano la sua sicurezza e il suo potere; la monarchia capetingia nella Francia del
medioevale dovette svilupparsi a spese dei grandi signori feudali.
Nella maggior parte dei casi le guerre costituiscono anche un potente fattore del processo di
rafforzamento dell’apparato dello Stato. Solo l’autorità statale può realizzare il raggruppamento della
forza che esse esigono, lo Stato esce dunque sempre più rafforzato dalla prova.
Questo fattore ha giocato un ruolo molto importante nel rafforzamento del potere monarchico,
soprattutto in Francia.
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Si costata il grande sviluppo dell’interventismo economico dello Stato tanto nel declino dell’Impero
Romano che in quello del feudalesimo. L’imperatore Diocleziano (284-305), ideò, per stimolarla, una
specie di “economia diretta”, controllando lo sfruttamento dei grandi latifondi, stabilendo un controllo
dei prezzi e ristrutturò il sistema fiscale. La monarchia feudale si rafforzò creando una potente
amministrazione le cui funzioni economiche accrescono in tutto il regno.
Quando i rapporti economici di una società diventano una calamità per coloro che li praticano, solo la
forza delle armi permette di farli sopravvivere.
Con lo sviluppo delle forze armate e conseguentemente si sviluppa l’intervento dello Stato
nell’economia.
Tutto in una società in decadenza produce questo fenomeno: le spese parassitarie per far sopravvivere
un’economia che non è più redditizia impongono lo sviluppo della pressione fiscale. Solo uno Stato
forte può riuscire a strappare queste imposte a una popolazione affamata e pronta a rivoltarsi.
L’Imperatore del Basso Impero e il re feudale troveranno in questa funzione una delle basi per
rafforzare i loro poteri. Poiché l’economia non si accorda più alle necessità imposte dalla realtà sociale,
le iniziative economiche non sono più guidate dalla ricerca della prospettiva e dell’armonia con il resto
della società. L’intervento dello Stato e della sua forza diventa allora il solo mezzo per evitare la
paralisi dell’economia.
Una tendenza alla burocratizzazione della società e all’inquadramento sistematico degli individui si
sviluppa tanto alla fine dello schiavismo che nel declino del feudalesimo.
CI SONO DELLE DIFFERENZE TRA COME EMERGE LA DECADENZA NEGLI ALTRI MODI DI PRODUZIONE
E QUELLO CAPITALISTA?
E’ sbagliato affermare che la decadenza del capitalismo segua le tracce dei modi di produzione che
l’hanno preceduto. È importante sottolineare le differenze fondamentali tra la decadenza capitalista e
quelle delle società del passato.
1° Il capitalismo è la prima società della storia che si estende a livello mondiale, che abbia sottomesso
alle proprie leggi tutto il pianeta, per questo fatto, la decadenza di questo modo di produzione si
estende a tutta la società umana.
2° Mentre nelle società del passato, i nuovi rapporti di produzione che erano chiamati a soppiantare i
vecchi ormai superati, poteva svilupparsi all’interno della stessa società (cosa che poteva, in un certo
modo, limitare in un certo modo gli effetti e l’ampiezza della decadenza), la società comunista, la sola
che possa succedere al capitalismo, non può in alcun modo svilupparsi al suo interno; non esiste
dunque alcuna possibilità di una qualunque rigenerazione di questa società in assenza di un
rovesciamento del potere della classe borghese e dell’estirpazione dei rapporti di produzione
capitalistici.
3° La crisi che dura dalla metà degli anni ’70, non è solo economica, ma anche politica e culturale.
5° Anche se i periodi di decadenza del passato sono stati marcati da conflitti bellici, questi non erano
neanche comparabili alle guerre mondiali che, per due volte, hanno devastato il mondo.
La differenza tra l’ampiezza e la profondità della decadenza capitalista e quelle della decadenza del
passato, non può essere ridotta a una semplice questione di quantità. La società capitalista è la prima a
minacciare la sopravivenza stessa dell’umanità, la prima che possa distruggere la specie umana
(armamenti nucleari, biologici e chimici, crisi ambientale ecc).
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QUAL È LA DIFFERENZA TRA DECADENZA E DECOMPOSIZIONE?
Tutte le società in decadenza comportano degli elementi di decomposizione: sfaldamento del corpo
sociale, putrefazione delle sue strutture economiche, politiche e ideologiche ecc.
Non bisogna confondere decadenza e decomposizione.
La fase della decomposizione non si presenta solo come quella caratterizzata dal controllo sociale e
dalla crisi permanente. Nella misura in cui le contraddizioni e manifestazioni della decadenza del
capitalismo, che una dopo l’altra, marcano i diversi momenti di questa decadenza, la fase della
decomposizione appare come quella risultante dell’accumulazione di tutte queste caratteristiche di un
sistema moribondo, quella che chiude degnamente l’agonia di un modo di produzione condannato dalla
storia.
Essa costituisce l’ultima tappa del ciclo infernale di crisi – secondo conflitto mondiale – ricostruzione
e ripresa del capitalismo (i 30 anni succeduti dalla fine del conflitto) nuova crisi con convulsioni
enormi, che ha caratterizzato nel XX secolo, la società e le differenti classi:
1° Due guerre mondiale cha hanno lasciato esangui la maggior parte dei principali paesi.
2° Un’ondata rivoluzionaria che ha fatto tremare tutta la borghesia mondiale e che è sfociata in una
controrivoluzione dalle forme più atroci (fascismo e nazismo) mistificatrici (stalinismo) e ciniche
(democrazia borghese);
3° Il ritorno di un impoverimento assoluto a livello mondiale, di una miseria delle masse proletarie che
sembravano, orami dimenticate. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro il numero dei
disoccupati nel mondo è passato da 30 milioni nel 2007 a 210 milioni di oggi. Negli Stati Uniti,
secondo un rapporto del Census Bureau circa 44 milioni di persone vivono sotto la soglia della povertà,
ossia di 6,3 milioni di poveri in due anni che vanno ad aggiungersi al già forte sviluppo della povertà
conosciuto nei tre anni precedenti.
La crisi che dura dalla età degli anni ’70 apre di nuovo l’alternativa storica guerra mondiale o scontri
di classe generalizzati verso la rivoluzione proletaria. La crisi degli anni ’30, si è sviluppa in un
momento in cui il proletariato subiva la cappa di piombo della sconfitta subita negli anni ’20 (sconfitta
della rivoluzione proletaria in Europa determinata anche dal ruolo controrivoluzionario della
socialdemocrazia, fascismo in Italia) e ’30 (stalinismo in Russia, nazismo in Germania, guerra e
rivoluzione in Spagna). La radicalizzazione della lotta di classe nel 1968 nelle metropoli imperialiste ha
mostrato che la borghesia non aveva più le mani libere per scatenare un’ennesima guerra mondiale.
Allo stesso tempo, se il proletariato ha già la forza di impedire una tale conclusione, esso non ha ancora
trovato quella di rovesciare il capitalismo, e questo a causa del ritardo nello sviluppo della sua
coscienza determinato dalla rottura provocato dal diffondersi dello stalinismo nel Movimento
Comunista Internazionale.
In una situazione in cui le due classi fondamentali e antagoniste della società si confrontano senza
riuscire a imporre la loro risposta decisiva, la storia non può attendere fermandosi. Mentre le
contraddizioni del capitalismo in crisi non fanno che aggravarsi, l’impossibilità da parte della borghesia
di offrire la minima prospettiva per l’insieme della società, unita al fatto che in questo periodo il
proletariato non è ancora riuscito ad affermare la sua prospettiva di cambiamento della società,
nell’immediato non può che sfociare in un fenomeno di decomposizione generalizzata, della società.
Nessun modo di produzione è capace di vivere e svilupparsi, assicurare la coesione sociale, se non è
capace di presentare una prospettiva all’insieme della società da esso dominata. Nell’attuale fase
caratterizzata dall’impedimento che i rapporti di produzione capitalisti allo sviluppo delle forze
produttive ormai collettive, non può che determinare una fase di decadenza e della successiva
deposizione.
Manifestazioni evidenti della decomposizione della società capitalista sono:
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1° Le moltiplicazioni di carestie che avvengono nei paesi che sono definiti “Terzo Mondo” mentre nei
paesi “avanzati” sono distrutti stock di prodotti agricoli, oppure sono abbandonate superfici
considerevoli di terre fertili. La FAO, che si rallegra nell’osservare che nel 2010 c’è stato un
arretramento della malnutrizione che colpisce particolarmente l’Asia con 578 milioni di persone e
l’Africa con 239 milioni, non rileva che nello stesso tempo questa cifra resta largamente superiore a
quella pubblicata nel 2008, perché gli effetti dell’inflazione speculativa dei prezzi dei prodotti
alimentari si erano fatti sentire fino a provocare una serie di sommosse in numerosi paesi.
2° La trasformazione di questo “Terzo Mondo” in un’immensa bidonville in cui centinaia di milioni di
esseri umani sopravvivono come topi nelle fogne. L’Asia e l’Africa sono l’epicentro di tali squilibri. La
popolazione urbana africana, cresciuto di oltre 10 volte dal 1959, raggiungerebbe il 63% nel 2050, ma
già in Tunisia, il 60% è urbanizzato e concentrato nella zona costiera, mentre quella asiatica dovrebbe
raddoppiare.
3° Lo sviluppo di questo stesso fenomeno nei paesi “avanzati” in cui numero dei senzatetto e di quelli
privi di ogni mezzo di sostenimento continua ad accrescersi.
4° Le catastrofi “ accidentali” che si moltiplicano (aerei che precipitano, treni che si trasformano in
casse da morto).
5° Gli effetti sempre più devastanti sul piano umano, sociale ed economico delle catastrofi “naturali”
(inondazioni, siccità, terremoti, cicloni) di fronte alle quali gli esseri umani sembrano sempre più
disarmati laddove la tecnologia continua progredire ed esistono già oggi tutti i mezzi per realizzare le
opportune protezioni (dighe, sistemi d’irrigazione, abitazioni antisismiche e resistenti alle tempeste,
…), mentre poi, di fatto, sono chiuse le fabbriche che producono tali mezzi e licenziati i loro operai;
6° La degradazione dell’ambiente che raggiunge proporzioni assurde (acqua di rubinetto imbevibile, i
fiumi ormai privi di vita, gli oceani pattumiera, l’aria delle città irrespirabile, decine di migliaia…) e
che minaccia l’equilibrio di tutto il pianeta con la scomparsa della foresta dell’Amazzonia (il “polmone
della terra”), l’effetto serra e il buco dell’ozono al polo sud.
Tutte queste calamità economiche e sociali, se sono in generale un’espressione della decadenza del
capitalismo, per il grado di accumulazione e l’ampiezza raggiunta costituiscono la manifestazione dello
sprofondamento in uno stallo completo di un sistema che non ha alcun avvenire da proporre alla
maggior parte della popolazione mondiale se non una barbarie al di là di ogni immaginazione. Un
sistema in cui le politiche economiche, le ricerche, gli investimenti, tutto è realizzato sistematicamente
a scapito del futuro dell’umanità e, pertanto, a scapito del futuro stesso del sistema stesso.
Ma le manifestazioni dell’assenza totale di prospettive della società attuale sono ancora più evidenti
sul piano politico e ideologico.
1° L’incredibile corruzione che cresce e prospera nell’apparato politico, amministrativo e statale, il
susseguirsi di scandali in tutti i paesi imperialisti.
2° L’aumento della criminalità, dell’insicurezza, della violenza urbana che coinvolgono sempre di più
i bambini che diventano preda dei pedofili.
3° Il flagello della droga, che è da tempo divenuto un fenomeno di massa, contribuendo pesantemente
alla corruzione degli Stati e degli organi finanziari, che non risparmia nessuna parte del mondo
colpendo in particolare i giovani, è un fenomeno che sempre meno esprime la fuga nelle illusioni e
sempre di più diventa una forma di suicidio.
4° Lo sviluppo del nichilismo, del suicidio di giovani, della disperazione, dell’odio e del razzismo.
5° La proliferazione di sette, il rifiorire di un pensiero religioso anche nei paesi imperialisti, il rigetto di
un pensiero razionale, coerente, logico.
6° Il dilagare nei mezzi di comunicazione di massa di spettacoli di violenza, di orrore, di sangue, di
massacri, finanche nelle trasmissioni e nei giornalini per i bambini.
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7° La nullità e la venalità di ogni produzione “artistica”, di letteratura, di musica, di pittura o di
architettura, che non sanno esprimere che l’angoscia, la disperazione, l’esplosione del pensiero, il
niente.
8° Il “ciascuno per sé”, la marginalizzazione, l’atomizzazione degli individui, la distruzione dei
rapporti familiari, l’esclusione delle persone anziane, l’annientamento dell’affetto e la sua sostituzione
con la pornografia, lo sport commercializzato, il raduno di masse di giovani in una isterica solitudine
collettiva in occasione di concerti o in discoteche, sinistro sostituto di una solidarietà e di legami sociali
completamente assenti.
Tute queste manifestazioni della putrefazione sociale che oggi, a un livello mai visto nella storia,
permea tutti i pori della società umana; esprimono una sola cosa: non solo lo sfascio della società
borghese, ma soprattutto l’annientamento di ogni principio di vita collettiva nel senso di una società
priva del minimo progetto, della minima prospettiva, anche se a corto termine, anche se illusoria.
Tra le caratteristiche principali della decomposizione della società capitalista bisogna sottolineare la
difficoltà crescente della borghesia a controllare l’evoluzione della situazione sul piano politico.
L’impasse storica in cui si trova imprigionato il modo di produzione capitalistico, i fallimenti delle
diverse politiche economiche che si sono attuate, l’indebitamento generalizzato che ha permesso di
sopravvivere l’economia mondiale, tutti questi elementi che ripercuotersi su un apparato politico
incapace, da parte su, di imporre alla società, e in particolare alla classe operaia, la disciplina e
l’adesione richieste per mobilitare tutte le forze e le energie verso la sola risposta storica che la
borghesia possa offrire: la guerra.
DALLE DEMOCRAZIE IN DECOMPOSIZIONE AL GOVERNO DIRETTO DEL CAPITALE FINANZIARIO
Concentriamoci su uno degli aspetti che riguarda maggiormente i maggiori paesi imperialisti: la
decomposizione delle forme di democrazia parlamentare.
Questo fenomeno è in atto da tempo nei maggiori paesi imperialisti, pur con ritmi e forme diverse, un
processo di rafforzamento delle forme istituzionali. Esse sono l’espressione a livello giuridico istituzionale non solo di un avvenuta trasformazione dei rapporti tra proletariato e borghesia.
A questo indebolimento del proletariato ha contribuito il crollo del cosiddetto “blocco socialista”.
Non può esserci indifferente che il blocco dell’est sia crollato sotto i colpi della crisi economica
piuttosto che sotto i colpi della lotta di classe. Se fosse prevalsa questa seconda alternativa, piuttosto
che indebolirsi come sta avvenendo oggi, la fiducia del proletariato nelle proprie capacità si sarebbe
potuta rafforzare. Inoltre, nella misura in cui il crollo del blocco dell’est fa seguito a un periodo di
“guerra fredda” con il blocco occidentale, in cui quest’ultimo appare come il “vincitore” senza colpo
ferire, si è generato nelle popolazioni occidentali, e anche tra i proletari, un sentimento di euforia e di
fiducia verso i propri governi, simile (facendo le debite proporzioni) a quello che pesò sui proletari dei
paesi “vincitori” nelle due guerre mondiali e che fu una delle cause della sconfitta dell’ondata
rivoluzionaria seguita alla prima guerra mondiale.
Una tale euforia, catastrofica per la coscienza del proletariato, sarà evidentemente molto più limitata
dato che oggi non stiamo uscendo da una carneficina imperialista. Tuttavia quella che oggi si manifesta
in alcuni paesi dell’est ha certamente un impatto in occidente e non potrà che accentuare gli effetti
nefasti della situazione attuale. Infatti quando è caduto il muro di Berlino, simbolo del terrore imposto
dallo stalinismo, la stampa ed alcuni esponenti borghesi hanno paragonato l’atmosfera che regnava in
questa città a quella della “Liberazione” dopo il secondo macello mondiale. Non è un caso: i sentimenti
provati dalla popolazione della Germania dell’est nel momento in cui si abbatteva questo simbolo erano
paragonabili a quelli delle popolazioni che avevano subito per anni l’occupazione e il terrore della
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Germania nazista. Ma, come ci ha dimostrato la storia, questo tipo di sentimenti sono tra i peggiori
ostacoli per la presa di coscienza del proletariato. La soddisfazione provata dagli abitanti dei paesi
dell’est davanti al crollo dello stalinismo e soprattutto il rafforzamento delle illusioni democratiche che
questo comporta, si ripercuoteranno fortemente,e si ripercuotono già sul proletariato dei paesi
occidentali e particolarmente su quello tedesco che riveste una particolare importanza all’interno del
proletariato mondiale nella prospettiva della rivoluzione proletaria.
Tornado al discorso del rafforzamento istituzionale, esso è soprattutto l’espressione del tentativo
borghese di predisporre un apparato statale adeguato alle maggiori difficoltà che si manifesteranno in
futuro e di contenere all’interno dell’ideologia borghese i rapporti sociali che vanno sempre più
decomponendosi.
È in questa fase che c’è il passaggio da una democrazia sotto forme parlamentari a un governo che
appare sotto forma di “governi tecnici”, si potrebbe dire una “dittatura tecnocratica”.
Che la democrazia si in decadenza è reso evidente dai diversi avvenimenti e fenomeni che ci sono
nella sfera politica, sociale e culturale. Prendiamo come esempio la corruzione: essa ha pervaso ogni
settore, i politici si contendono i contributi finanziari dei capitalisti; le pozioni all’interno dei governi e
dei parlamenti (andando in giù in ogni settore del potere locale) hanno tutto un prezzo; ogni parte della
legislazione è influenzata da potenti “lobbies” che spendono milioni per la scrittura di leggi a loro
profitto e per individuare le manovre opportune alla loro approvazione.
Questa democrazia in decomposizione si sta trasformando in un governo autoimposto da funzionari
dell’esecutivo. Una giunta esecutiva di funzionari eletti e non eletti risolve questioni come quelle della
guerra e della pace, alloca miliardi dollari e di euro presso un’oligarchia finanziaria e riducendo il
tenore di vita di milioni di persone tramite “pacchetti di austerità”.
Questo governo viene descritto come un governo condotti da tecnici esperti, “apolitici” e “scevri da
interessi privati”. Dietro alla retorica tecnocratica, la realtà è che i funzionari designati hanno una
carriera di operatori per e con i grandi interessi finanziari nazionali e internazionali.
Lucas Papdemos, nominato Primo ministro, ha lavorato per la Federal Reserve Bank di Boston e stato
il capo della Banca centrale greca, nonché responsabile della falsificazione dei libri contabili a
copertura di quei bilanci fraudolenti che hanno portato la Grecia all’attuale disastro. Mario Monti,
designato Presidente del Consiglio in Italia, ha ricoperto incarichi per l’Unione Europea e nella
Goldman Sachs.
Queste nomine si basano sulla lealtà totale di questi personaggi e sul loro impegno senza riserve di
imporre politiche, le più inique sui lavoratori di Grecia e in Italia.
I cosiddetti tecnici non sono soggetti a fazioni di partito, nemmeno lontanamente sensibili a qualsiasi
protesa sociale. Essi sono liberi da qualsiasi impegno politico…tranne uno, quello di assicurare il
pagamento del debito ai detentori dei titoli di Stato, in particolare di restituire i prestiti alle più
importanti istituzioni finanziarie europee e nord americane.
C’è una differenza tra questi governi tecnici e le dittature come quella fascista.
Negli attuali governi tecnici, il potere viene consegnato dalle elites politiche della democrazia
borghese, in sostanza una sorta di transizione pacifica, almeno nella sua fase iniziale.
A differenza delle precedenti dittature, gli attuali regimi conservano le facciate elettorali, ma svuotate
da contenuti e mutilate, come entità certificate senza obiezioni per offrire una sorta di legittimazione,
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che seduce la stampa finanziaria. A differenza delle precedenti dittature come il fascismo che si
presentavano come stati di polizia, gli attuali governi tecnici prima lanciano il loro assalto a tutto
campo contro le condizioni di vita e di lavoro del proletariato, con il consenso parlamentare, e poi di
fronte alla resistenza posta, procedono per gradi fino ad arrivare a uno stato di polizia.
L’organizzazione dittatoriale di un regime tecnocratico deriva dalle sue politiche e dalla missione. Al
fine di imporre politiche che si traducono in massici trasferimenti di ricchezza dal lavoro al capitale
nazionale e internazionale, è essenziale un regime autoritario in veste democratica, questo in previsione
di un’accanita resistenza. La borghesia non può assicurare per tanto tempo una “stabile e sostenibile”
sottrazione di ricchezza con qualche parvenza di democrazia (che è sempre il miglior involucro della
dittatura della borghesia) e tanto meno una democrazia come quella attuale in decomposizione.
La missione della “dittatura democratica” non è solo quello di porre in essere un’unica politica
regressiva di breve durata, come il congelamento salariale o il licenziamento di qualche migliaio di
insegnanti. L’intento di questi tecnocrati è di convertire l’intero apparato statale in un torchio
efficace in grado di estrarre continuamente e di trasferire le entrate fiscali e i redditi, dai
lavoratori e dai dipendenti i n favore dei detentori dei titoli.
Il processo decisionale è chiuso e limitato alla cricca di grossi industriali, banchieri e tecnocrati senza
la minima trasparenza. I tecnocrati ignorano completamente le proteste di manifestanti, se possibile, o,
se necessario, rompere loro la testa.
Le trasformazioni principali della democrazia sotto i tecnici sono:
1)
Massici spostamenti delle disponibilità di bilancio, dalle spese per i bisogni ai pagamenti dei
titoli di Stato e alle rendite.
2)
Cambiamenti su larga scala nelle politiche di reddito, dai salari ai profitti, ai pagamenti degli
interessi e alla rendita.
3)
Politiche fiscali fortemente regressive, con l’aumento delle imposte sui consumi (aumento
dell’IVA) e sui salari, e con la diminuzione della tassazione di titoli e investimento.
4)
Riscrittura dei codici del lavoro. Salari, condizioni di lavoro e problemi sanitari sono consegnati
alle commissioni aziendali (commissioni “paritetiche” dove c’è la presenza “paritetica” di padroni e
sindacati).
5)
Lo smantellamento delle imprese pubbliche, e la privatizzazione delle telecomunicazioni, delle
fonti di energia, della sanità, dell’istruzione e dei fondi pensione. Privatizzazioni per migliaia di
miliardi di dollari sono attivate su una scala mondiale. Monopoli privati rimpiazzano quelli pubblici,
forniscono un numero minore di posti di lavoro e servizi, senza l’aggiunta di una nuova capacità
produttiva.
6)
L’asse economico si sposta dalla produzione e dai servizi per il consumo di massa nel mercato
interno alle esportazioni di beni e servizi particolarmente adatti sui mercati esteri. Questo dinamica
richiese salari sempre più bassi per competere a livello internazionale, ma contrae il mercato interno.
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QUALI PROSPETTIVE?
Bisogna prendere coscienza della minaccia mortale della decomposizione. Non bisogna nascondere a
se stessi l’estrema gravità della situazione mondiale. Inoltre sarebbe che essendo la decomposizione,
una realtà essa sia anche una necessità, cioè un passo necessario verso la rivoluzione.
All’inizio la decomposizione ideologica colpisce evidentemente la classe capitalista stessa e per
contraccolpo, gli strati di piccola borghesia che non hanno alcuna autonomia.
Solo il proletariato porta in sé una prospettiva per l’umanità e, in questo senso, è al suo interno che
esiste la maggiore capacità a resistere a questa decomposizione. Tuttavia neanche lui è risparmiato,
in particolare perché la piccola borghesia a contatto della quale esso vive ne è il principale veicolo. I
diversi elementi che costituiscono la forza del proletariato si scontrano direttamente con i diversi aspetti
di questa decomposizione ideologica:
1° L’azione collettiva, la solidarietà, contro l’atomizzazione, il “ciascuno per sé”, “l’arrangiarsi
individuale”.
2° Il bisogno di organizzazione contro la decomposizione sociale, la distruzione dei rapporti su cui
poggia la sociale.
3° La fiducia nell’avvenire e nelle sue forze continuamente minate dalla disperazione, dal nichilismo,
dalla “mancanza di futuro”.
4° La coscienza, la lucidità, la coerenza e l’unità del pensiero, l’inclinazione per la teoria hanno
difficoltà ad affermarsi di fronte alla fuga nelle chimere, alla droga, alle sette, al misticismo, al rigetto
della riflessione e la distruzione del pensiero che caratterizza la nostra epoca. Perciò è importante
avere coscienza della posta in gioco nella situazione attuale, in particolare i pericoli mortali che
decomposizione fa correre all’umanità. Perciò il proletariato deve essere determinato a
continuare, sviluppare e unificare la propria lotta di classe.
Questo è una premessa indispensabile, però bisogna prendere coscienza che contrariamente alla
situazione esistente negli anni ’70, il tempo non gioca più a favore della classe operaia. Questo non per
fare del catastrofismo (siamo nel 2012 e la tentazione di richiamare le profezie Maya potrebbe venire),
ma bisogna partire dal presupposto che finché la distruzione della società era rappresentata dalla guerra
imperialista, il semplice fatto che le lotte del proletariato fossero capaci di mantenersi come ostacolo
decisivo di un tale evento decisivo era sufficiente a sbarrare la strada a questa distruzione. Invece,
contrariamente alla guerra imperialista che per potersi realizzare richiede l’adesione del proletariato
alle idee della borghesia, la presente fase della decomposizione della società capitalista non ha nessun
bisogno di imbrigliare la classe operaia per distruggere l’umanità. Le lotte operaie puramente difensive
non sono sufficienti a costituire un freno alla decomposizione in atto: solo la rivoluzione comunista
può bloccare questa minaccia.
Il proletariato non può sperare di utilizzare a proprio beneficio l’indebolimento che la
decomposizione provoca all’interno della borghesia. In questa fase il suo obbiettivo sarà quello di
resistere agli effetti nocivi della decomposizione al suo interno contando solo sue forze, sulla propria
capacità di battersi in maniera collettiva e solidale in difesa dei propri interessi in quanto classe
sfruttata.
Solo quando saremo in una situazione rivoluzionaria, è sarà all’offensiva, quando ingaggerà
direttamente e apertamente la lotta per la sua prospettiva storica, esso potrà utilizzare alcuni effetti della
decomposizione, in particolare la decomposizione dell’ideologia borghese e quella delle forze del
potere capitalista, come punti su cui far leva e da ritorcere contro lo stesso capitale.
I pericoli che la decomposizione della società capitalista che fa correre alla classe operaia e
all’insieme dell’umanità non deve indurre il proletariato e soprattutto le sue minoranze
15
rivoluzionarie, ad adottare nei suoi confronti un atteggiamento fatalista. Oggi, la prospettiva
storica resta completamente aperta.
LA LOTTA DI CLASSE DI FRONTE ALLA DECOMPOSIZIONE DELLA SOCIETÀ
Come dicevo prima il crollo del blocco dell’Est si è imposto a un proletariato che non aveva
raggiunto il livello necessario per essere capace di reagire sul terreno di classe ad un avvenimento
storico di tale portata.
Il crollo del blocco dell’Est e l’enorme, mistificatoria campagna ideologica sulla “morte del
comunismo” che la borghesia internazionale ha sviluppato in questa occasione ha avuto un impatto
profondamente negativo sulla coscienza di classe (a eccezione di una minoranza politicizzata della
classe operaia), che è un elemento fondamentale per la capacità della classe di sviluppare una
prospettiva, che abbia come scopo di dare una visione globale alla lotta.
Il crollo del blocco dell’Est ha portato un colpo alla classe in due maniere:
1)
Ha permesso alla borghesia di sviluppare tutta una serie di campagne sul tema della “morte del
comunismo” e della “fine della lotta di classe” che ha profondamente intaccato la capacità della classe
di situare le sue lotte nella prospettiva della costruzione di una nuova società, ergendosi a forza
autonoma e antagonista al capitale. La classe operaia non avendo giocato un ruolo negli avvenimenti
del 1989-91, è stata intaccata profondamente il suo livello di fiducia in se stessa.
2)
Nello stesso tempo il crollo del blocco dell’Est ha aperto le porte a tutte le forze della
decomposizione che stavano alla sua origine sottoponendo sempre di più la classe alla putrida
atmosfera del “ciascuno per sé”, alle influenze nefasta dei vari fondamentalismi religiosi, della
criminalità organizzata, ecc. In più la borghesia è stata capace di rivolgere contro la classe operaia le
manifestazioni della decomposizione del suo sistema. Esempi tipici sono stati l’affare Dutroux in
Belgio e Mani Pulite in Italia, dove le sporche pratiche delle cricche borghesi sono state usate come
pretesto per trascinare le masse proletarie in una vasta campagna democratica per un “governo pulito”.
L’utilizzazione della mistificazione democratica è diventata sempre più sistematica perché essa è allo
stesso tempo la “logica conclusione della fine del comunismo” (ovviamente secondo la borghesia) e
costituisce uno degli strumenti ideali per accrescere l’atomizzazione della classe (e favorire
l’identificazione con lo Stato borghese). Le guerre provocate dalla decomposizione (come quella della
ex Yugoslavia) hanno avuto l’effetto di aumentare il senso di impotenza nel proletariato, il sentimento
di vivere in un mondo crudele e irrazionale nel quale non c’è altra soluzione che quella di nascondere la
testa nella sabbia.
La situazione dei disoccupati mostra con chiarezza i problemi che pongono oggi alla classe. Sotto il
peso della decomposizione si è visto che è risultato sempre più difficile per i disoccupati sviluppare
proprie forme collettive di lotta e di organizzazione, essendo essi particolarmente vulnerabili agli effetti
più distruttivi della decomposizione (atomizzazione, delinquenza, ecc). E questo è vero in particolare
per i giovani disoccupati, che non hanno mai fatto l’esperienza lavorativa.
Allo stesso tempo questa influenza negativa è stata aggravata dalla tendenza del capitale a
deindustrializzare i suoi settori tradizionali – siderurgia, tessile ecc. – dove gli operai hanno una lunga
esperienza di lotta di classe.
Nonostante, questi pericoli per la classe operaia di essere schiacciata in questo processo di
decomposizione (pericoli che non possono e devono essere sottostimati), la capacità del proletariato di
lottare, di reagire al declino del sistema capitalistico non è sparita.
16
I DUBBI SULLA CLASSE OPERAIA
Per analizzare il rapporto che esiste tra crisi generale del capitalismo, le lotte che sta attuando il
proletariato e i movimenti che dal 2011 sono partiti dalla Spagna e si sono propagati alla Grecia fino ad
Israele, bisogna rifuggire categoricamente dal metodo immediatista ed empirico. Con questo metodo
ogni avvenimento viene analizzato in sé , al di fuori di ogni contesto storico e isolandolo nel paese in
cui si svolge.
Il metodo immediatista/empirico usato dagli intellettuali “in voga” è un riflesso della degenerazione
ideologica della borghesia. Tutto questo perché la borghesia, è una classe decadente, quello che può
offrire all’insieme della società è quello di resistere giorno per giorno, colpo su colpo, al crollo del
Modo di Produzione Capitalista.
Certo tutto ciò a chi si definisce comunista, internazionalista, marxista si pone inevitabilmente delle
domande: ma oggi che siamo XXI secolo può essere ancora la classe operaia essere il soggetto centrale
della rivoluzione comunista? Sara capace di rispondere alla crisi.
Quando la classe operaia mostra apertamente la sua forza paralizza la macchina produttiva, fa
indietreggiare lo Stato, scatenando un fermento di vita nell’insieme della società, come fu il caso dello
sciopero di massa del 1980 in Polonia.
Quando gli operai arrivano a rompere le forze che li atomizzano in polvere impotente, quando la loro
unione esplode in faccia alla classe dominante, facendo vacillare tutto il suo edificio, costringendola a
fare in marcia indietro, è facile, se non evidente, comprendere come e perché la classe operaia è la sola
forza capace di concepire e di intraprendere un rovesciamento rivoluzionario.
Ma quando la lotta aperta cessa, quando il capitale riprendere il controllo e reinstalla la sua cappa di
piombo sulla società, ciò che sembrava così evidente in un dato momento pare sfumare anche nel
ricordo, la borghesia come classe decadente impone,attraverso i suoi intellettuali, la propria visione del
mondo:quella di una classe operaia sottomessa, atomizzata, che entra in ranghi silenziosi tutti i giorni
nelle fabbriche, nei cantieri, incapace di rompere le sue catene.
Non mancano allora teorici per spiegare che la classe operaia è nei fatti parte integrante del sistema,
che essa ha un posto da difendere all’interno di esso.
Quello che questi intellettuali (in buona o cattiva fede, coscientemente o meno) difendono, è la bontà
del sistema capitalista. Nei periodi di riflusso della lotta operaia, guarda caso, si vede l’apparire di
gruppi e di pubblicazioni che teorizzano i dubbi sulla classe operaia, dubbi che possono emergere
anche tra chi rivendica la rivoluzione comunista.
Le idee di stampo populista secondo la quale la rivoluzione non sarà essenzialmente l’opera non si
una classe economica specifica, ma dell’insieme degli uomini che, in un modo o in un altro, subiscono
l’inumanità del capitalismo, in questo contesto guadagnano terreno.
La visione che in questi ambiti che mettono in dubbio la capacità rivoluzionaria della classe operaia,
il proletariato diventa una forza rivoluzionaria dai contorni più o meno indeterminati, comprendente un
po’ di tutto: dall’operaio metallurgico al teppista di professione, passando per prostitute, omosessuali,
studenti ecc.
Marx per definire la nozione di proletariato è molto preciso: “Il prodotto si trasforma (…) in prodotto
sociale, prodotto comune di un lavoratore complessivo, cioè di un personale da lavoro combinato, le
cui membra hanno una parte più grande o più piccola dell’oggetto del lavoro. Quindi col carattere
cooperativo del processo lavorativo si amplia necessariamente il concetto di lavoro produttivo e del
veicolo di esso, cioè del lavoro produttivo. Ormai per lavorare produttivamente non è più
necessariamente por mano personalmente al lavoro, è sufficiente essere organi del lavoratore
complessivo e compiere una qualsiasi delle sue funzioni subordinate”.
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Quello che Marx sottolinea non è che tutti nel mondo sarebbero diventati produttivi o proletari, ma
bensì che è la qualità del compito di questo o quel lavoratore non costituisce, nel capitalismo avanzato,
un criterio, una determinazione valida se è produttivo o meno, modificando il processo di produzione
secondo i suoi bisogni, il capitale sfrutta l’insieme della forza lavoro che esso compra, come quella di
una lavoratore produttivo. L’utilizzazione concreta che esso fa di ognuno dei suoi salariati, operaio di
panetteria o impiegato di ufficio, produttore di armi o spazzino, è secondario dal punto di vista del
sapere chi è sfruttato dal capitale. È l’insieme complessivo che lo è.
Per quanto si sia sviluppato, la dominazione del capitale non ha generalizzato a tutta la società la
condizione di proletariato. Esso ha lasciato sopravvivere dei settori pre-capitalisti, come i piccoli
contadini, il piccolo commercio, l’artigianato, le libere professioni.
Come genera, anche nei paesi capitalisti più avanzati, per via della generale dell’accumulazione
capitalista, un enorme massa di marginalizzati.
Prima di riprendere questo il discorso sul ruolo centrale della classe operaia, vorrei fare alcune
precisazioni sul concetto di lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Capire questa distinzione è
fondamentale per comprendere la reale natura del capitale e del suo antagonista diretto: il proletariato.
Lavoro produttivo, astrattamente inteso, al di fuori di modi di produzione specifici, è qualsiasi attività
lavorativa che produce valori d’uso. E come dice Marx un “un ricambio organico” tra uomo e natura.
Lo stesso processo di produzione è l’unità del processo produttivo e del processo di valorizzazione,
così come la merce è unità di valore d’uso e valore di scambio. Inteso rispetto la produzione di valori
d’uso, tutto il lavoro è lavoro produttivo.
Ma tale definizione di lavoro produttivo, così come appare dal punto di vista del processo lavorativo
in generale, non dice niente della definizione di lavoro produttivo così denominato dal processo di
produzione capitalistico.
Lavoro produttivo e lavoro improduttivo vengono, dunque determinati dallo specifico modo di
produzione dominante. Produttivo e improduttivo sono concetti mobili, trasformandosi il modo di
produzione, possono trasformarsi gli stessi concetti di lavoro produttivo e lavoro improduttivo.
Il lavoro, in quanto capacità lavorativa dell’operaio, separato dal capitale, non è produttivo, così come
produttivo fino a quando resta nell’ambito della circolazione mercantile semplice (M – D – M) e si
scambia con il reddito.
Il lavoro diventa produttivo nel Modo di Produzione Capitalista soltanto quando riproduce il suo
contrario, “Lavoro produttivo, nel senso che, nello scambio con la parte salariale del capitale (la
parte del capitale spesa in salario) non solo riproduce questa parte del capitale (o il valore della
propria capacità lavorativa) ma oltre ciò produce plusvalore per il capitalista. E’ produttivo solo il
lavoro salariato che produce capitale”.
Il lavoro produttivo, nella società capitalista non ha nulla a che vedere con il particolare contenuto del
lavoro, né con la sua utilità. Non è il suo valore d’uso , ma il valore di scambio che interessa al
capitalista.
La produzione capitalista non è rivolta alla soddisfazione dei bisogni, ma è produzione di plusvalore.
Il capitalista ottiene plusvalore solo con lo scambio con il lavoro, che, per questo, si può definire lavoro
produttivo.
Il lavoro produttivo trasforma le condizioni di lavoro in capitale e il proprietario in capitalista:
esso produce non una merce specifica, ma il capitale stesso. Lavoro produttivo è quel lavoro che,
scambiandosi direttamente con denaro in quanto capitale, per l’operaio riproduce il valore della propria
forza-lavoro mentre per il capitalista è creatore di plusvalore.
Fatta questa precisazione, si può tranquillamente dire il Modo di Produzione Capitalista è
instaurato in tutto il pianeta e ha sottomesso tutta la società. In sostanza è attuato il processo di
sussunzione reale della società nel capitalismo.
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In che consiste questo processo di sussunzione? Se prima la borghesia si era impadronita delle
attività produttive che erano state sviluppate in seno alla vecchia società e sviluppò le relazioni
sociali sue proprie negli spazi che la vecchia società consentiva. Questo era il processo che viene
definito sussunzione formale nel capitale: cambiano i rapporti nell’ambito dei quali un’attività
lavorativa viene svolta, ma l’attività e la società che fa da contesto restano sostanzialmente eguali
a quelli che la borghesia ha trovato. In un secondo tempo modifica il contenuto dell’attività, in
modo da renderla più produttiva, più adatta all’estrazione del plusvalore assoluto (allungamento
della giornata lavorativa) e del plusvalore relativo (riduzione del lavoro necessario).
Contemporaneamente modifica il complesso dei rapporti sociali, onde renderli più favorevoli alla
valorizzazione del capitale. Questo processo viene definito sussunzione reale della società nel
capitale.
Tutti quelli che subiscono questo processo, per via della miseria che porta, hanno delle ragioni
per rivoltarsi contro di esso. Ma solo la parte legata al capitale attraverso il salario e la produzione di
plusvalore è veramente antagonista al capitale: il proletariato.
Il proletariato ha una sua specifica centralità nel processo rivoluzionario: “Perché nel
proletariato pienamente sviluppato è fatta astrazione da ogni umanità, perfino dalla parvenza;
perché nelle condizioni di vita del proletariato sono riassunte tutte le condizioni di vita dell’odierna
società nella loro forma più inumana; perché l’uomo nel proletariato ha perduto sé stesso, ma
contemporaneamente, non solo ha acquistatola coscienza teorica di perdita, bensì è stato spinto
direttamente dalla necessità ormai incombente, ineluttabile, assolutamente imperiosa –
dall’espressione pratica della necessità – alla ribellione contro questa inumanità; ecco per quali
ragioni il proletariato può e deve emanciparsi. Ma esso non può emanciparsi senza sopprimere le
proprie condizioni di vita. Esso non può sopprimere le proprie condizioni di vita senza sopprimere
tutte le inumane condizioni di vita della società attuale, che si riassumono nella sua situazione”.
Questa è la specificità della classe operaia: i suoi interessi immediati e storici coincidono con
quelli dell’intera umanità, il che non è per nessuna altra classe della società. Il proletariato non
può liberarsi del salariato capitalista, la forma più matura dello sfruttamento dell’uomo da parte
dell’uomo, senza eliminare ogni forma di sfruttamento.
La classe operaia trae la sua forza innanzitutto dalla sua posizione centrale che ha nel processo
di produzione. Il capitale non è macchine e materie prime; il capitale è un rapporto sociale.
Quando, attraverso la sua lotta, la classe operaia rifiuta questo rapporto, il capitale è
immediatamente paralizzato. Non c’è capitale senza plusvalore, non c’è plusvalore senza lavoro
dei proletari, è in questo che risiede la potenza degli scioperi di massa.
Gli schiavi di Spartaco, nell’antichità, o i servi della gleba nel feudalesimo avevano anch’essi
una situazione centrale, determinante nel processo di produzione. Tuttavia le loro rivolte non
potevano sbocciare in una prospettiva comunista.
Il proletariato è portatore del comunismo perché la società capitalista ha creato i mezzi materiali della
sua realizzazione. Sviluppando le ricchezze materiali della società al punto di permettere una
abbondanza sufficiente per sopprimere le leggi economiche, cioè le leggi della gestione della
penuria, il capitalismo ha aperto una prospettiva che esso sfrutta.
C’è un altro aspetto da non trascurare. Per accrescere la produttività del lavoro dei suoi operai,
la borghesia ha dovuto rendere le forze produttive sempre più collettive, cioè tali che la quantità
e qualità delle ricchezze prodotte dipendono sempre meno dalle capacità, qualità e caratteristiche
del singolo lavoratore e dai suoi sforzi personali (la sua dedizione al lavoro, la durata del suo
lavoro, la sua intelligenza, la sua forza ecc.). Esse dipendono sempre di più dall’insieme
organizzato dei lavoratori (il collettivo di produzione), dal collettivo nell’ambito del quale
l’individuo lavora, dalla combinazione dei vari collettivi di lavoratori, dal patrimonio scientifico e
19
tecnico che la società impiega nella produzione. In conseguenza di ciò il lavoratore isolato è
ridotto all’impotenza: egli può produrre solo se è inserito in un collettivo di produzione (azienda,
unità produttiva). Ma nello stesso tempo si sono create le condizioni perché crescano non solo la
produttività del lavoro, ma anche la coscienza di massa dei lavoratori, la loro capacità ed attitudine a
organizzarsi, cioè a costituirsi in collettivo e a dirigersi, la loro attitudine a svolgere attività umane
intellettualmente e moralmente superiori.
Detto questo, non si può non tenere conto che le idee comuniste, la teoria rivoluzionaria, si sono
sviluppate attraverso e in vista della comprensione delle lotte operaie. Tutti i grandi passi in
avanti della teoria della rivoluzione sono state il prodotto, non delle pure deduzioni logiche di
qualche pensatore isolato, ma dell’analisi militante e impegnata dei grandi passi del movimento
reale della classe operaia. Marx nella Miseria della filosofia descriveva il passaggio di
trasformazione della classe operaia in classe per sé: il processo della coscienza di classe nel
proletariato: “le condizioni economiche avevano dapprima la massa della popolazione del paese in
lavoratori. La dominazione del capitale , ha creato a questa massa una situazione comune, interessi
comuni. Così questa massa è già una classe nei confronti del capitale, ma non lo è ancora per se
stessa. Nella lotta, della quale abbiamo segnalato alcune fasi, questa massa si riunisce, si costituisce
in classe per se stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi di classe. Ma la lotta di
classe contro classe è una lotta politica”.
Engels descrive ne La situazione della classe operaia in Inghilterra i tentativi della classe operaia
di organizzarsi, di fondare un’associazione generale che riunisse tutti gli operai del paese. Ne
descrive anche i metodi di lotta, in primis lo sciopero, poi la lotta contro i crumiri e quindi
l’esercizio di forme di pressione contro coloro che rifiutano di organizzarsi nell’organizzazione
operaia. Ma mentre riconosce che il sindacalismo è una forma organizzativa operaia valida in
quella fase, nel contempo ne comprende i limiti nella società capitalista: “ La storia di queste
associazioni è una lunga serie di sconfitte degli operai, interrotta da qualche vittoria isolata. È
naturale che tutti gli sforzi non possono mutare la legge economica secondo la quale sul mercato del
lavoro il salario viene determinato dal rapporto tra domanda e offerta”.
Ma anche quando gli scioperi possono sembrare inconcludenti, è chiaro che gli operai devono
lottare contro la diminuzione del salario, poiché in mancanza di tali proteste gli imprenditori non
conoscerebbero limite alla loro avidità: “Ma queste associazioni e scioperi che ne derivano
assumono un’importanza specifica in quanto rappresentano un’importanza specifica in quanto
rappresentano il primo tentativo di abolire la concorrenza tra loro. Esse presuppone la
consapevolezza che il potere della borghesia, poggia unicamente sulla concorrenza degli operai tra di
loro cioè il frazionamento del proletariato, sul reciproco contrapporsi dei singoli operai”.
Ai socialisti e agli economisti che condannavano gli scioperi, Engels ne ricorda il valore
educativo: “In genere questi scioperi sono soltanto scaramucce di avamposti, talvolta però ci sono
gli scontri di una certa importanza; non decidono nulla, ma sono la prova migliore che la battaglia
decisiva tra il proletariato e la borghesia si sta avvicinando. Sono la scuola di guerra in cui gli operai
si preparano alla grande lotta ormai inevitabile; movimento operaio (…). E come le scuole di
guerra, sono di un efficacia insuperabile sono i pronunciamenti di singole categorie di operai sulla
loro adesione al grande”.
Marx, nella sua polemica contro Proudhon (anch’egli non favorevole agli scioperi) riprese le
conclusioni di Engels dandogli solo una formulazione più precisa, mostrando come lo sviluppo
delle trad-unions fosse connessa all’organizzazione di classe del proletariato: ”I primi tentativi
degli operai di associarsi tra di loro assumono sempre forma di coalizioni. La grande industria
raccoglie in un solo luogo una folla di persone sconosciute le une dalle altre. La concorrenza le
divide, nei loro interessi. Ma il mantenimento del salario, questo interesse comune che essi hanno
20
contro il loro padrone, li unisce in uno stesso proposito di resistenza e coalizione. Così la coalizione
ha sempre un duplice scopo, di far cessare la concorrenza degli operai tra loro, per poter fare la
concorrenza al capitalista. Se il primo scopo della resistenza era solo il mantenimento dei salari, a
misura che i capitalisti si uniscono a loro volta in un proposito di repressione, le coalizioni dapprima
isolate, si uniscono in gruppi, e di fronte al capitale sempre unito, il mantenimento dell’associazione
diviene per gli operai più necessario ancora di più di quello del salario. Ciò è talmente vero, che gli
economisti inglesi rimangono stupiti a vedere come gli operai sacrifichino una buona parte del
salario a favore di associazioni che, agli occhi di questi economisti, erano state istituite solo a favore
del salario .In questa lotta – vera guerra civile – si riuniscono e si sviluppano tutti gli elementi
necessari a una battaglia imminente. Una volta giunta a questo punto, l’associazione acquista un
carattere politico”.
L’organizzazione di scioperi, l’istituzione di sindacati, la loro estensione a livello provinciale, i
tentativi di collegarsi su scala nazionale, che per il momento portarono solo all’unione
temporanea di qualche sindacato, andarono di passo con la lotta politica degli operai assumendo
una certa rilevanza negli anni 1836-37. Questa fu l’epoca del primo partito operaio: il partito
cartista. Engels descrive come si passò gradualmente dalla lotta dei singoli sindacati alla loro
federazione nella lotta di classe su scala nazionale e quindi alla lotta politica vera e propria:
“Poiché dunque gli operai non rispettano la legge, ma unicamente ne riconoscono la forza dal
momento che non hanno essi stessi la forza di mutarla, è più che naturale che essi avanzino delle
proposte per modificare la legge, e che al posto della legge borghese vogliano instaurare la legge
proletaria. Questa legge proposta dal proletariato, è la peoples’ charter che nella sua forma ha un
carattere esclusivamente politico ed esige una base democratica per la Camera bassa. Il cartismo è
la forma compatta dell’opposizione. Nelle associazioni e negli scioperi l’opposizione rimaneva sempre
isolata, erano singoli operai e gruppi di operai a combattere contro i singoli borghesi; quando la lotta
diventava più generale, raramente ciò avveniva per volontà degli operai, e in quei pochi casi alla base
di quella volontà vi era il cartismo. Nel cartismo, invece, è l’intera classe che insorge contro la
borghesia e che attacca prima di tutto il suo potere politico, il muro di leggi con il quale essa si è
circondata”.
Perciò non è un caso che è stata solamente la classe operaia che ha messo in pratica nella
Comune di Parigi e nella rivoluzione di ottobre del 1917, la distruzione dello Stato borghese e
l’instaurazione del potere proletario.
Questo non significa che il proletariato possa ignorare tutto il resto della società. L’esperienza
della rivoluzione russa ha dimostrato l’importanza per la sua lotta dell’appoggio di tutti gli strati
sfruttati. Ma l’esperienza ha anche messo in evidenza che solo il proletariato è capace di offrire un
programma rivoluzionario coerente. L’unificazione di tutta l’umanità, e in un primo tempo di tutti gli
sfruttati, non può farsi che sulla base dell’attività e del programma della classe operaia. Organizzandosi
in maniera separata, il proletariato non divide la società, esso si dà i mezzi per condurre la sua
unificazione comunista.
Certo le sconfitte storiche (anni ’20, seconda guerra mondiale), non solo hanno disgregato e
debilitato la classe operaia isolandone l’avanguardia, ma hanno pure abbassato il livello
ideologico complessivo, facendo regredire il pensiero politico. Ma tutto ciò non può da parte delle
minoranze comuniste rivoluzionarie essere accettato con fatalismo. Chi conosce la storia del
movimento operaio, sa che il processo che conduce il proletariato alla rivoluzione non ha niente
di lineare o di automatico. Esso è una dinamica dialettica fatta di arretramenti e di avanzate,
dove solo una lunga pratica ed esperienza della lotta permette a milioni di proletari, sotto la
pressione della miseria, cominciano a unificarsi, ritrovano le lezioni delle lotte passate,
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cominciano a scoperchiarsi la cappa ideologica della classe dominante, per lanciarsi in un nuovo
assalto contro l’ordine stabilito.
L’EVOLUZIONE DELLA LOTTA DI CLASSE DOPO IL 1989
All’inizio degli anni ’90 si comincia a delineare i primi segni di una ripresa della combattività della
classe operaia, in particolare attraverso la mobilitazione degli operai italiani contro le misure di
austerità del governo Amato nel mese di settembre 1992. Queste mobilitazioni sono state seguite dalle
manifestazioni dei minatori contro la chiusura delle miniere. Alla fine del 1993 ci sono stati nuovi
movimenti di lotta in Italia, in Belgio, in Spagna e soprattutto in Germania con scioperi e
manifestazioni in numerosi settori, in particolare nell’edilizia e in quello automobilistico.
Nel 1995 in Francia, sull’onda di un conflitto nelle ferrovie e a seguito di un attacco alla protezione
sociale dei lavoratori, si sviluppò un movimento con scioperi e assemblee generali. Nell’estate del
1998ci fu un altro grande sciopero in Danimarca.
Tutto questo sta a dimostrare di una lenta ripresa della lotta di classe.
Caratteristiche di questa fase della lotta di classe è la riuscita degli scioperi, l’ampia partecipazione a
essi, e la nascita in paesi come l’Italia del fenomeno del sindacalismo di “base”, che riassorbì solo in
minima parte la combattività e il malcontento dei proletari nei confronti dei sindacati ufficiali.
Questa combattività si espresse in numerosi paesi:
1)
Negli Stati Uniti, durante l’estate 1998, con gli scioperi di quasi 10.000 operai alla General
Motors, quello di 70.000 operai della compagnia telefonica Bell Atlantic, quella dei lavoratori della
sanità a New York, senza parlare dei violenti scontri con la polizia durante la una manifestazione di
40.000 edili a New York.
2)
In Gran Bretagna, con gli scioperi non ufficiali della sanità in Scozia, dei postali a Londra, così
come i due scioperi degli elettrici nella capitale nella capitale che hanno mostrato una chiara volontà di
battersi nonostante l’opposizione della direzione sindacale.
3)
In Grecia, dove gli scioperi tra gli insegnanti sono arrivati allo scontro con la polizia.
4)
In Norvegia dove in autunno vi era stato uno sciopero paragonabile in ampiezza a quello della
Danimarca.
5)
In Francia, dove si sono sviluppate tuta una serie di lotte in vari settori, nella scuola, nella
sanità, nelle poste e nei trasporti, in particolare lo sciopero degli autisti dei bus di Parigi dove i
lavoratori hanno risposto sul loro terreno di classe. Era successo che ha fronte un terreno di aggressioni
che subiscono (frutto della decomposizione della società), invece che la presenza della polizia degli
autobus, hanno rivendicato un aumento dei posti di lavoro.
6)
In Belgio, con gli scioperi nell’industria automobilistica, nei trasporti, nelle comunicazioni.
7)
Nel cosiddetto Terzo Mondo, con gli scioperi in Corea e in Zimbabwe dove uno sciopero
generale è stato indetto per canalizzare la collera degli operai non solo contro le misure di austerità del
governo, ma anche contro i sacrifici imposti dalla guerra nella Repubblica Democratica del Congo,
questo sciopero ha coinciso con diserzioni in seno alle truppe.
Se ne potrebbero fare tanti di esempi, la borghesia ha risposto alla maggior parte di questi movimenti
di lotta con la politica del blackout, della censura, del silenzio, a riprova del fatto che questi movimenti
di lotta sono un sintomo di un crescente volontà di lottare da parte proletaria, che la borghesia non può
certo incoraggiare.
In questa fase c’è un certo fiorire di sindacati di “lotta” o di “base” (come in Belgio, in Grecia o nello
sciopero degli elettrici inglesi).
22
Nello stesso tempo si sviluppa la propaganda sulla democrazia (vittoria dei governi di sinistra (o di
centro-sinistra come in Italia), l’affare Pinochet ecc., le mistificazioni sulla crisi (la critica alla
mondializzazione, gli appelli ad una sedicente “terza via” che utilizzerebbe lo Stato per tenere le redini
di una “economia di mercato sociale”) e si sviluppano le calunnie contro la Rivoluzione di ottobre, i
bolscevichi e il comunismo in genere.
Nonostante ciò, per quanto a molti possa apparire paradossale, si può dire che alla fine la classe
operaia ha conservato un enorme potenziale per combattere questo sistema moribondo. I motivi di
questo giudizio nascono da altri fattori che possono portare a una radicalizzazione dei movimenti di
classe, sono:
1)
Lo sviluppo sempre più aperto della crisi economica mondiale. La crisi mette a nudo i reali
limiti del Modo di Produzione Capitalistico.
2)
L’accelerazione della crisi corrisponde all’accelerazione degli attacchi contro la classe operaia.
Ma essa significa anche che la borghesia è sempre meno in grado di diluire nel tempo questi attacchi, di
riportarli o di concentrali su alcuni settori. Sarà sempre più tutta il proletariato a essere colpito in tutti
gli aspetti delle sue condizioni di vita e di lavoro a essere minacciati. Così la necessità di dare una
risposta agli attacchi sempre più massicci della borghesia, metterà sempre più in chiaro la necessità di
una risposta di massa da parte del proletariato.
3)
Nello stesso, la borghesia dei principali paesi imperialisti si impegna in avventure militari. Di
conseguenza la società si impregna sempre di più da un’atmosfera di guerra. alcune circostanze (come
il crollo del blocco dell’Est e della relativa campagna della “morte del comunismo”), lo sviluppo del
militarismo può far aumentare il sentimento di impotenza del proletariato. Dalle mobilitazioni contro i
vari interventi imperialisti, al di là del loro interclassismo e pacifismo, l’aspetto positivo sta nel fatto
nell’incapacità da parte della borghesia di mobilitare in massa il proletariato per le sue avventure
militari.
SULLA CRISI ATTUALE
Dalla metà degli anni ‘70 è divenuto impossibile per i capitali più concentrati (quelli con una massa
enorme di macchinari in rapporto ai lavoratori impiegati) investire ulteriormente ricavando un tasso di
profitto superiore a quello ottenuto in precedenza ottenuto con un capitale minore.
Di conseguenza, da un lato è stato avviato un poderoso processo di trasferimento delle lavorazioni
più mature e standardizzate in paesi poco (o niente) industrializzati nell’intento di alzare i profitti;
dall’altro lato, una parte dell’enorme massa dei capitali prodotti da circa 30 anni di sviluppo
capitalistico (ovvero di sfruttamento operaio) non ha potuto trovare impieghi remunerativi adeguati, nel
ciclo produttivo, per gli appetiti capitalisti ed ha cominciato, per così dire, a “agitarsi” girovagando per
tutto il globo in cerca di delle occasioni migliori: fossero le materie prime o gli interessi sui prestiti a
breve termine o i differenziali tra i cambi delle valute.
Di pari passo, come si diceva prima, è cresciuto a dismisura l’indebitamento dei paesi del cosiddetto
“Terzo Mondo” verso cui è confluita, attraverso l’intermediazione del sistema finanziario
internazionale, una parte significativa dei capitali in eccedenza in cerca di valorizzazione. La massa dei
capitali in cerca di adeguata valorizzazione sui mercati internazionali rappresenta l’aspetto specifico
della crisi (anche se non mancano gli aspetti cosiddetti classici della sovrapproduzione delle merci,
della disoccupazione, del sottoimpiego delle capacità produttive).
Combinato con questo principale, campo di sfogo del capitale in eccesso, vi furono in questo periodo
altri campi di sfogo ausiliari e complementari, tra cui particolarmente importante è stata la
privatizzazione nei paesi imperialisti dei settori economici pubblici e dei servizi sociali. Non è un caso
23
che è nel periodo che va dalla fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 che cominciarono ad avviarsi
le cosiddette politiche neoliberiste. Ed è sempre in questo periodo, che prese corpo la controffensiva
dei paesi imperialisti tesa a ridurre la rendita petrolifera e il potere politico ed economico dell'OPEC.
Negli anni '90 e nei primi anni del nuovo secolo il capitale in eccesso ha trovato principalmente sfogo
nella cosiddetta “globalizzazione” (creazione di una struttura produttiva integrata a livello
internazionale, con cui i paesi semicoloniali e nei paesi che erano considerati “socialisti” o che ancora
si definiscono tali come la Cina, sono stati trasformati in un’officina mondiale per la produzione di
manufatti con bassi salari e con vincoli antinquinamento di basso livello), nelle fusioni e aggregazioni
che crearono grandi imprese produttive mondiali nell'ulteriore sviluppo della finanziarizzazione e della
speculazione.
In questo periodo della cosiddetta “globalizzazione”, gli investimenti diretti verso l'estero sono
passati dai 58 miliardi di dollari del 1982 agli 1.833 miliardi di dollari del 2007, 500 dei quali nei paesi
detti “in via di sviluppo” (140 nella sola Cina inclusa Hong Kong). I tassi di crescita sono stati: +
23,6% nel periodo 1986-1990, + 22,1% nel periodo 1991-1995, + 39,9% nel periodo 1996-2000 e nel
2006 + 47,2%. questo gigantesco afflusso di capitali ha creato una mondializzazione della produzione
industriale. Con un forte aumento dei reparti produttivi collocati in Asia, in America Latina. Nel
periodo tra il 1982 e il 2007 i dipendenti delle filiali all'estero delle multinazionali sono balzati da 21
milioni e mezzo a 81 milioni e 615.000. Tutto ciò ha portato, per quanto riguarda la collocazione del
proletariato industriale mondiale, che, nel 2008 la grande maggioranza degli operai addetti all'industria
è fuori degli Stati Uniti, dell'Europa e del Giappone. Nella sola Cina vi sono 100 milioni di lavoratori
nell'industria, 50 milioni di addetti all'edilizia, 6 milioni di minatori, 20-25 milioni di lavoratori dei
trasporti. Dal 1996 al 2006 la totalità della crescita dell’occupazione industriale mondiale si è realizzata
fuori dai paesi dell'OCSE. Nei primi 5 anni del XXI secolo Brasile, Cina, Russia, e India hanno creato
22 milioni di nuovi posti di lavoro l'anno, complessivamente 110 milioni (molti nell'industria). Questi
addetti all'industria lavorano in media 9 – 10 ore al giorno, se non di più. La grande maggioranza di
loro riceve paghe, nettamente inferiori alla media mondiale dei salari industriali. Questa tendenza è in
atto anche per i lavoratori dei paesi imperialisti, statunitensi in testa, che sempre in questo periodo
hanno visto venire meno le garanzie occupazionali e il salario ridotto sempre più all'osso.
Negli ultimi tre decenni il capitale transazionale è ulteriormente penetrato in agricoltura. Le società
che producono macchine agricole, fertilizzanti, sementi, medicinali per il bestiame e le piante, le
banche, le corporations della raccolta e commercializzazione dei cereali e degli altri prodotti agricoli, le
imprese dell'agro-alimentare e quelle della grande distribuzione, hanno stretto in una morsa di ferro i
piccoli produttori agricoli “indipendenti”. E li hanno trasformati, quali fossero i loro titoli formali di
proprietà sulla terra, in un enorme esercito di proletari e semi-proletari di un’agricoltura sempre più
dominata dal mercato mondiale e dalle forze dominanti in esso.
L’attuale crisi mondiale è cominciata negli U.S.A., si è estesa nei paesi capitalisti più avanzati e poi
(attraverso l’esportazione di capitali e l’industrializzazione accelerata) a tutto il mondo (contribuendo
tra l’altro al crollo del cosiddetto blocco “socialista”.
Si può dire tranquillamente che ci troviamo davanti a una crisi generale del capitalismo.
Cosa si deve intendere per crisi generale del capitalismo? La crisi è generale perché non riguarda solo
alcuni aspetti, ma il complesso della società. Si tratta di una crisi economica, quindi di una crisi politica
e di una crisi culturale. La crisi economica non può trovare una soluzione in campo economico, a
differenza di quanto credono i riformisti che si affannano a proporre misure economiche quali “meno
orario a pari salario”, “lavori socialmente utili”, “maggiore competitività”, “meno concorrenza” ecc.;
per evitare il crollo del sistema. Essa trapassa in crisi politica (le istituzioni esistenti non rispondono più
alle esigenze del grande capitale e i gruppi capitalisti lottano gli uni contro gli altri per assumere il
controllo dello Stato trasformandolo in conformità ai propri scopi) e sociale - culturale (aumenta
24
l’insicurezza per le masse, aumentano le tensioni e la violenza nei rapporti tra gli individui, le idee
formatesi prima diventano inadeguate e se ne manifestano di nuove). Gli idealisti, non hanno una
visione unitaria, trattano le crisi politica e culturale non vedendone i legami che esse hanno con la crisi
economica.
A quelli che si sorprendono dell’attuale crisi, bisognerebbe farli leggere gli stralci di un’intervista che
Carlo De Benedetti nel “lontano” 1998: “Quella che stiamo vivendo è la prima crisi finanziaria in un
mercato globale. La diffusione delle tecnologie e la globalizzazione interagiscono in modo nuovo e
senza precedenti. L’attività economica mondiale ha subito un tale rallentamento che è oggi corretto
dire che l’economia globale è alle soglie della recessione. …il rallentamento dell’attività economica
negli Stati Uniti determina una fase di contrazione degli investimenti e di inizio della riduzione
dell’occupazione. Di conseguenza si ridurranno i redditi e i consumi individuali…E poiché questi
eccessi finanziari globali sono di gran lunga i maggiori che il mondo abbia mai visto, la mia tesi è che
non possono che essere il presagio a una gravissima crisi globale. Ma la maggiore preoccupazione è
quella che una crisi iniziata come finanziaria, e che già si è trasformata per i due terzi della
popolazione mondiale in crisi economica, possa trasformarsi come altre volte nel passato, portare e
crisi sociali e politiche”. (Intervista di Carlo De Benedetti su Il Sole – 24 0re del 23.10.1998).
Questa è una crisi di lunga durata. Da più di 30 anni e a ogni nuovo ciclo di crisi finanziaria
(all’interno della crisi generale) produce nuove dirompenti contraddizioni: gli sforzi di coordinamento
internazionale, i salvataggi dei paesi in difficoltà (come nel 1994 il Messico, nel 1998 la Russia, il
Brasile…) pongono rimedi alla situazione contingente senza risolvere il problema fondamentale che sul
versante del capitale, è rappresentato dall’impossibilità di riavviare il processo di accumulazione a un
grado soddisfacente.
Crisi generale del Modo di Produzione Capitalistico significa crisi economica, sociale, culturale e
politica, di lunga durata e mondiale.
Cerchiamo di vedere uno degli aspetti dell’attuale crisi: quello inerente la finanza.
Partiamo dal fatto che il capitale finanziario non è la causa o la forma motrice della crisi. Il
gonfiamento (l’accrescimento rapido, tumultuoso e illimitato) del capitale finanziario è un effetto, una
delle manifestazioni della crisi, come lo è la sovrapproduzione di merci e la sovrappopolazione.
Il capitale finanziario è una categoria tipica della fase imperialista. Lenin ha mostrato il ruolo
dirigente, in questa fase del capitalismo, in campo economico del capitale finanziario.
Con questo, non bisogna esagerare sul ruolo delle banche nell’economia, Lenin non parlò mai di
soggezione del capitale industriale al capitale bancario bensì della fusione di queste due forme di
capitale che egli denominò appunto capitale finanziario.
Marx diceva a proposito: “Quando la produzione capitalista si sviluppa pienamente e diventa il
modo di produzione fondamentale, il capitale usuraio si sottomette al capitale industriale e il capitale
commerciale diventa un modo di essere del capitale industriale, una forma derivata dal suo processo
di circolazione. Ma proprio per questo, entrambi devono arrendersi e assoggettarsi preventivamente al
capitale industriale” (K. Marx, Teorie del plusvalore, Tomo II°).
Per Marx è la banca che s’indebolisce se perde i suoi legami con l’industria e il commercio. Il
capitale può funzionare solo simultaneamente come capitale produttivo, capitale-merci e capitaledenaro. In questa formula trinitaria è il capitale produttivo che svolge il ruolo più importante poiché
può funzionare autonomamente, mentre gli altri costituiscono ciò che Marx chiamava “capitale
inattivo”.
Certi equivoci nascono dal fatto che per “finanza” s’intende fondamentalmente speculazione
borsistica. La definizione di Lenin è come abbiamo visto è più ampia e lungimirante: infatti, se si
approfondisse l'analisi dei bilanci delle grandi imprese che nominalmente fanno parte del settore
manifatturiero, si scopre che il peso delle attività finanziarie è ancora maggiore di quello che dicono le
25
statistiche. Facciamo degli esempi. Il capitale produttivo, degli stabilimenti FIAT, è determinato non
solo dalle partecipazioni azionarie della FIAT detenute dalle varie “finanziarie” del gruppo e dal denaro
in prestito dalle banche, ma anche dalle azioni del gruppo FIAT detenute dalle banche, tutto ciò
determina la formazione di un unico capitale finanziario. I fondi pensione degli U.S.A., per esempio,
detengono azioni e obbligazioni di grosse imprese, speculano sui cambi e sui tassi d’interesse, hanno
quote investite in immobili: la speculazione, la produzione materiale e immateriale, il capitale bancario,
la rendita immobiliare, il capitale produttivo d’interesse, tendono a fondarsi, a presentarsi come singoli
aspetti di un gigantesco meccanismo di valorizzazione su scala mondiale. Secondo lo studio della
società di consulenza InterSecResearch, le azioni possedute da queste strutture su scala mondiale nel
1998 arrivavano a 11 miliardi di dollari. Il 10% circa dei portafogli dei fondi pensione statunitensi è
investito fuori dagli U.S.A., e sono diventati o protagonisti di primo piano delle fusioni e delle
acquisizioni ovunque nel mondo. La General Motor, pur essendo una delle più grandi imprese del
settore automobilistico del mondo, in realtà è un agglomerato in cui gli assetti finanziari costituiscono
l'80% del suo bilancio aggregato, lo stesso discorso vale per le imprese come Ford e Chrysler.
Riprendiamo il discorso su crisi e speculazione.
Con il crollo del 1987 il sistema economico cade vittima dell’estrema instabilità dei rapporti che si
era venuta a creare. A differenza del 1929, dove le classi dominanti strinsero i cordoni del credito e
assettarono così una mazzata finale, il sistema aveva creato nel frattempo delle cinture “protettive”, che
permise di circoscrivere i danni e isolare i settori colpiti da tutti gli altri, impedendo la propagazione dei
fenomeni. Queste forme di gestione collettiva dell’economia per gestire la crisi, che già Marx ne
parlava nei Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse). Il capitolo del
denaro (Opere complete vol. 29), nascono dal fatto che la fase imperialista del capitalismo è
caratterizzata dal contrasto tra la proprietà privata delle forze produttive con il loro carattere
collettivoper questo motivo, diventa un’esigenza da parte della borghesia creare in continuazione forme
di gestione collettiva che costituissero una mediazione di questo contrasto, che cerchino di porre in
qualche misura dei freni agli effetti più devastanti dal fatto che i rapporti di produzione capitalisti
sopravvivono. Queste forme di gestione collettiva sono: le società per azioni, le associazioni di
capitalisti, i cartelli internazionali di settore, le banche centrali, le banche internazionali, i sistemi
monetari internazionali, i sistemi monetari fiduciari, le politiche statali, gli enti economici pubblici, i
contratti collettivi di lavoro, i sistemi assicurativi generali, i regolamenti pubblici dei rapporti
economici, gli enti sopranazionali, il capitalismo monopolista di stato.
Permanendo lo stato di crisi, il capitale speculativo s’ingigantisce, ha come unica strada per cercare di
evitare esplosioni ancora più violente la deregulation finanziaria, vale a dire proprio lo smantellamento
di queste cinture protettive. Il risultato è stato che in nessun paese, esiste più una separazione fra
credito a esercizio breve e finanziamento a lungo termine delle imprese industriali; è venuta a meno la
divisione fra banche d’affari e banche commerciali; vi è totale commistione fra istituti di credito, sono
nati e si sono sviluppati hedge-funds, specializzati nella speculazione sui derivati, si è estesa in modo
sconvolgente la speculazione delle banche in conto proprio con la propensione degli istituti di credito a
finanziarie le attività speculative.
Attività speculative e ruolo delle banche sono fattori chiave per comprendere l’attuale situazione di
crisi capitalista. Se si prendesse come esempio il caso Parmalat, quello che è successo non deve certo
essere interpretato che tutto ciò che è accaduto sia dovuto alle avventure di un “furbone” in un paese
come l’Italia dove non ci sono “regole”. Quello che è accaduto (e questo discorso vale per tutti i paesi
capitalisti) non è stato solamente una gestione speculativa delle eccedenze valutarie, cioè del capitale
monetario temporaneamente inattivo, ma i profitti generati nel processo produttivo erano totalmente al
servizio dell’attività speculativa, diventata sotto ogni punto di vista il vero business dell’azienda.
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E’ errato sostenere (come fanno i riformisti vecchi e nuovi) che l'attività economica complessiva è
stata abbandonata alla libera iniziativa di tanti singoli individui. Al contrario la sua direzione è stata
sempre più concentrata nelle mani di un ristretto numero di capitalisti e di loro commessi. In secondo
luogo, la cosiddetta “globalizzazione”, la finanziarizzazione, la speculazione ha permesso alla
borghesia di ritardare il collasso dell'economia. Con l'estorsione del plusvalore estorto ai lavoratori o
con le plusvalenze delle compravendite di titoli, i capitalisti hanno soddisfatto il loro bisogno di
valorizzare il loro capitale e accumulare. I bassi salari dei proletari (in tutti i paesi imperialisti compresi
gli U.S.A., il monte salari è stato una percentuale decrescente del P.I.L.) sono stati in una certa misura
compensati dal credito: grazie a ciò il potere di acquisto della popolazione è stato tenuto elevato,
milioni di famiglie si sono indebitati, le imprese sono riuscite così a vendere le merci prodotte e hanno
investito tenendo alta la domanda di merci anche per questa via.
Si è trattato di un'autentica esplosione del credito al consumo attraverso l'uso generalizzato del
pagamento a rate per ogni tipo di merce, delle carte di credito a rimborso rateizzato, nel proliferare
come funghi di finanziarie che nei canali televisivi offrivano credito facile (anche a chi ha avuto
problemi di pagamento). Fenomeno che si è diffuso dagli U.S.A. a tutti gli altri paesi occidentali, dove
in paesi come l'Italia (dove tradizionalmente le famiglie tendono al risparmio) l'indebitamento delle
famiglie è salito in pochi anni, in Spagna e salito al 120% del reddito mensile e in Gran Bretagna è
arrivato a essere riconosciuto come una patologia sociale.
Ma nonostante la droga creditizia messa in atto, il collasso delle attività produttrici di merci non è
stato evitato e a causa della bolla immobiliare dei prestiti ipotecari U.S.A. e del crollo del prezzo dei
titoli finanziari, si restringe il credito.
Bisogna considerare, inoltre, che la massiccia profusione di credito introdusse numerosi squilibri nel
sistema poiché l’aumento del credito concesso non era accompagnato dalla crescita dei depositi liquidi
atti a fronteggiare eventuali fallimenti dei debitori. Il problema nasce dal fatto è che questo sistema
poggia sulla continua rivalutazione delle attività finanziarie, cui all’origine sta il rientro dei debiti
contratti e a valle la fruibilità dei prestiti fiduciari tra le istituzioni di credito. Poiché le passività
tendono a essere molto più liquide delle attività (è più facile pagare un debito che riscuoterlo),
l’assottigliamento dei depositi significa che in corrispondenza di una svalutazione degli assetti
finanziari che intacchi la fiducia, le banche diventano particolarmente esposte al rischio d’insolvenza.
Le chiavi attorno a cui ruota l’interno meccanismo furono essenzialmente quattro:
1)
I Veicoli d’Investimento Strutturato (Siv). Si presentano come una sorta di entità virtuali
designate a condurre fuori bilancio le passività bancarie, cartoralizzarle e rivenderle. Per costruire una
Siv, la “banca madre” acquista una quota consistente di obbligazioni garantite da mutui ipotecari,
chiamate morgtgage-backed Securities (Mbs). La Siv, nel frattempo creata dalla banca, emette titoli di
debito a breve termine detti assett-backed commercial paper – il cui tasso d’interesse è agganciato al
tasso d’interesse interbancario (LIBOR rate) – che serviranno per acquistare le obbligazioni rischiose
dalla banca madre, cartoralizzarle nella forma di collateralized debt obligation (Cdo) e rivenderle ad
altre istituzioni bancarie oppure a investitori come fondi pensione o hedge funds. Per assicurare gli
investitori circa la propria solvibilità, la banca madre attiva una linea di credito che dovrebbe garantire
circa la solvibilità nel caso in cui la Siv venga a mancare della liquidità necessaria a onorare le proprie
obbligazioni alla scadenza. Quando nell’estate del 2007, la curva dei rendimenti – ossia la relazione
che lega i rendimenti dei titoli con maturità diverse alle rispettive maturità – s’invertirà e in tassi
d’interesse a lungo termine diventeranno più bassi di quelli interbancari a breve termine, la strategia di
contrarre prestiti a breve termine (pagando bassi tassi di interesse) si rivelerà un boomerang per le
banche madri, costrette ad accollarsi le perdite delle Siv.
2)
Collateralized Debt Obligation (Cdo). La cartolarizzazione è una tecnica finanziaria che
utilizza i flussi di cassa generati da un portafoglio di attività finanziarie per pagare le cedole e
27
rimborsare il capitale di titoli di debito, come obbligazioni a medio - lungo termine oppure carta
commerciale a breve termine. Il prodotto cartoralizzato divenuto popolare con lo scoppio della crisi è il
Cdo ossia un titolo contenente garanzie sul debito sottostante. Esso ha conosciuto una forte espansione
dal 2002 al 2003, quando i bassi tassi di interesse hanno spinto gli investitori ad acquistare questi
prodotti che offrivano la promessa di rendimenti ben più elevati.
3)
Agenzie di rating. Sono società che esprimono un giudizio di merito, attribuendone un voto
(rating), sia sull’emittente sia sul titolo stesso. Queste agenzie non hanno alcuna responsabilità sulla
bontà del punteggio diffuso. Se il titolo fosse sopravvalutato, le agenzie non sarebbero soggette ad
alcuna sanzione materiale, ma vedrebbero minata la loro “reputazione”. Tuttavia, data la natura
monopolista in cui operano, se tutte le agenzie sopravalutassero i giudizi, nessuna sarebbe penalizzata.
4)
Leva finanziaria. Essa è il rapporto fra il titolo dei debiti di un’impresa e il valore della stessa
impresa sul mercato. Questa pratica è utilizzata dagli speculatori e consiste nel prendere a prestito
capitali con i quali acquistare titoli che saranno venduti una volta rivalutati. Dato il basso costo del
denaro, dal 2003 società finanziarie di tutti i tipi sono in grado di prendere denaro a prestito (a breve
termine) per investirlo a lungo termine, generando alti profitti. Per quanto riguarda la bolla sub prime,
l’inflazione dei prezzi immobiliari alla base della continua rivalutazione dei titoli cartoralizzati ha
spinto le banche a indebitarsi pesantemente per acquistare Cdo, lucrando sulla differenza tra i tassi dei
commercial papers emessi dalle Siv e i guadagni ottenuti, derivanti dall’avvenuto apprezzamento dei
Cdo. In realtà, si è giunto al cosiddetto “effetto Ponzi” in cui la continua rivalutazione dei Cdo non era
basata sui flussi di reddito sottostante, ma sulla pura assunzione che il prezzo del titolo sarebbe
continuato ad aumentare.
Questa bolla non è certamente esplosa per caso.
La New Economy, ha visto forti investimenti in nuove tecnologie infotelematiche (TIC): ma alla fine,
i forti incrementi in termini di produttività non hanno compensato i costi della crescita dell'intensità del
capitale, e quindi la sostituzione del capitale a lavoro.
L'indebitamento delle famiglie come si diceva prima, era stato favorito dal basso costo del denaro che
favorì una crescita dei processi di centralizzazione, dell'indebitamento delle imprese e appunto delle
famiglie, della finanziarizzazione dell'economia e di attrazione degli investimenti dall'estero. Ne
conseguì un boom d’investimenti nel settore delle società di nuove tecnologie infotelematiche, in
particolare sulle giovani imprese legate a Internet; con la conseguente crescita fittizia della New
Economy che alimentò gli ordini di computer, server, software, di cui molte imprese del settore
manifatturiero erano forti utilizzatrici e le imprese produttrici di beni d’investimento in TIC avevano
visto esplodere i loro profitti e accrescere i loro investimenti. Ma, a causa degli alti costi fissi e dei
prezzi tirati verso il basso dalla facilità di entrata di nuove imprese nel settore della New Economy,
queste ultime accumularono nuove perdite e quando cercavano di farsi rifinanziare (avendo molte di
queste società forti perdite) la somma legge del profitto che regola l'economia capitalistica indusse i
vari finanziatori a stringere i cordoni della borsa giacché avevano preso atto della sopravvalutazione al
loro riguardo e le più fragili videro presto cadere attività e valore borsistico. Si sgonfiò così il boom
degli investimenti in TIC.
Dopo la fine della New Economy nel 2001 le autorità U.S.A. favorirono l'accesso facile al credito a
milioni d’individui, in particolare per l'acquisto di case come abitazione principale o come seconda
casa. Tra il gennaio 2001 e il giugno 2003 la Banca Centrale USA (FED) ridusse il tasso di sconto dal
6,5% all’1%. Su questa base le banche concedevano prestiti per costruire o acquistare case con ipoteca
sulle case (senza bisogno di disporre già di una certa somma né di avere un reddito a garanzia del
credito). I tassi d’interesse calanti garantivano la crescita del prezzo delle case. Ad esempio chi
investiva denaro comprando case da affittare, il prezzo delle case era conveniente finché la rata da
pagare per il prestito contratto per comprarle restava inferiore all'affitto. Il prezzo cui era possibile
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vendere le case quindi saliva man mano che diminuiva il tasso d'interesse praticato dalla FED. La
crescita del prezzo corrente delle case non copriva le ipoteche, ma consentiva di coprire nuovi prestiti.
Il potere d'acquisto della popolazione USA era così gonfiato con l'indebitamento delle case.
Ma quando la FED, per far fronte al declino dell'imperialismo U.S.A. nel sistema finanziario
mondiale (l'euro sta contrastando l'egemonia del dollaro, poiché molti paesi, per i loro scambi e i
processi di regolamentazione delle partite correnti tra merci cominciano a preferire l'euro) nel 2007
riporta il tasso di sconto al 5,2% fa scoppiare la bolla nel settore edilizio USA e causa il collasso delle
banche che avevano investito facendo prestiti ipotecari di cui i beneficiari non pagavano più le rate.
Questo a sua volta ha causato il collasso delle istituzioni finanziarie che avevano investito in titoli
derivati dai prestiti ipotecari che nessuna comprava più, perché gli alti interessi promessi non potevano
più arrivare. Tutto questo, alla fine, provocò il collasso del credito, la riduzione della liquidità e del
potere di acquisto. Diminuzione degli investimenti e del consumo determinano il collasso delle attività
produttrici di merci.
Se si guarda il percorso storico della crisi, dagli anni '80, si nota che le attività produttrici stavano in
piedi grazie a investimenti e consumi determinati dalle attività finanziarie. Quando queste collassano
anche le attività produttrici crollano.
Le autorità pubbliche di uno stato borghese, per rilanciare l'attività economica, le uniche cose che
possono fare rimanendo dentro l'ambito delle compatibilità del sistema, sono:
1) Finanziare con pubblico denaro le imprese capitaliste.
2) Sostenere (sempre con pubblico denaro) il potere d'acquisto dei potenziali clienti delle imprese.
3) Appaltare a imprese capitalistiche lavori pubblici.
Per far fronte a questi interventi, le autorità chiedono denaro a prestito, proprio nel momento in cui le
banche non solo non danno prestiti, ma sono anche loro alla ricerca di denaro perché ognuna di esse
possiede titoli che non riesce a vendere. Infatti, chiedono denaro per non fallire e per non negare il
denaro depositato sui conti correnti presso di loro. Si sta creando un processo per cui le banche centrali
fanno crediti a interesse zero o quasi alle banche per non farle fallire, le stesse banche che dovrebbero
fare prestiti allo Stato. Essendo a corto di liquidità lo fanno solo con alti interessi e pingui commissioni.
Lo Stato così s’indebita sempre di più verso banche e istituzioni finanziarie, cioè verso i capitalisti che
ne sono proprietari. Finché c'è fiducia che lo Stato possa mantenere i suoi impegni di pagare gli
interessi e restituire i debiti, i titoli di debito pubblico diventano l'unico investimento finanziario sicuro
per una crescente massa di denaro che così è disinvestita da altri settori.
Per far fronte alla crisi ogni Stato cerca di chiudere le proprie frontiere alle imprese straniere e forzare
altri Stati ad aprire a loro. Quindi tutti i mezzi di pressione sono messi in opera. La competizione fra
Stati e il protezionismo dilaga, come dilaga nazionalismo, fondamentalismo religioso, xenofobia,
populismo, insomma tutte le ideologie che in mancanza di un’alternativa anticapitalista si diffondono
tra i lavoratori e che sono usate dalle classi dominanti per ricompattare il paese (bisogno di creare un
senso comune, di superare le divisioni politiche).
Nel primo trimestre 2009 le 390 imprese che ci sono al mondo vedono calare i loro profitti del 75% e
il fatturato del 26% su base annua.
La crisi incide nei consumi della maggior parte della popolazione. All’inizio del 2009 negli USA 32,2
milioni di persone fanno la spesa con i buoni governativi, se poi si guardassero i consumi più indicativi
(case e auto) si scopre che negli USA 12 milioni di persone vivono in coabitazione e le richieste in tal
senso crescono, mentre 14 milioni di abitazioni sono vuote. Quanto all’auto essa ha avuto diversi
sostegni per opera di vari governi, ma la più grande fabbrica russa licenzia, nel 2009. 27.000
dipendenti, la FIAT nel terzo trimestre del 2009, accusa su base annua un calo del 15,9% del proprio
fatturato, e lo stesso avviene per il gruppo PSA francese, sia pure in maniera più contenuta.
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Nel 2009 negli USA Chrysler e GM sono decotte e l’industria dell’auto lavora al 51,2% delle proprie
capacità produttive contro il 54,5% del 2008. Ma è tutta l’industria U.S.A. come quella degli altri paesi
imperialisti che lavora con una capacità utilizzata al 70%.
Le banche sono in ginocchio: le perdite ufficiali sono di 1717,4 miliardi di dollari (1167,5 SUA,
567,1 Europa 48,2 Asia), tuttavia il Fondo Monetario Internazionale ammonisce che la metà delle
perdite bancarie sono occultate con giochi di bilancio, il che significa che le cifre prima indicate vanno
raddoppiate, sfiorando i 3.500 miliardi di dollari.
Non meno mostruosa è la crescita dell’indebitamento pubblico, le previsioni sono catastrofiche ad
esempio per il 2010 è prevista per i SUA una crescita del debito del 97/5% (rapporto debito federalePIL). In realtà non si conoscono le cifre esatte dell’indebitamento totale, c’è chi parla di 80-90 miliardi
di dollari d’indebitamento mondiale.
Chi pagherà questa massa enorme di debiti che sta franando? Esiste una consistente riserva
inutilizzata: i capitali in giacenza presso i paradisi discali, che secondo alcune stime sarebbero qualcosa
come 33 miliardi di dollari. Se un improbabile San Francesco convertisse gli evasori (capitalisti che
falsano i bilanci, politici corrotti, mafiosi ecc.) a dare i loro capitali occultati per riparare il buco nero
che sta divorando l’economia mondiale, si potrebbe ottenere una cifra pari a 1/7 del volume del debito
globale (dico potrebbe perché con le cifre bisogna essere prudenti e quelle ufficiali sono di molto
inferiori alla realtà). Poco per riparare il debito. Poiché di un San Francesco non se ne intravede
l’ombra, gli evasori professionali continuano con il loro tipico atteggiamento: sottoscrivono i bonds del
debito pubblico in cambio d’interessi favorevoli e di benevolenza verso l’evasione fiscale, altrimenti
nulla. E i governi lo sanno bene, poiché le posizioni contro i paradisi fiscali sono in realtà un’autentica
burla, del fumo negli occhi.
Il capitalismo è in un culo di sacco, per distruggere il debito dovrebbe attuare una politica
iperinflazionistica come quella attuata nella Germania del 1923, quando i prezzi crescevano di ora in
ora, se non di minuto in minuto, dove un fascio di broccoli costava 50 milioni di marchi, e il cambio sul
dollaro del 23.11.1923 arrivò a 4.200 marchi per dollaro. Questa inflazione permise di azzerare i vecchi
debiti: si poteva rimborsare il mutuo fatto per acquistare una casa con una somma che, al momento
dell’estinzione, bastava ad acquistare un paio di scarpe. L’economia tedesca però era ferma: le industrie
erano ferme, la moneta non valeva più nulla (si ritornava allo scambio in natura), sicché il governo
dovette cambiare, radicalmente, la politica inerente ala stampa selvaggia di carta moneta; i vecchi
marchi furono ritirati dal mercato con un tasso di cambio del genere: una monetina d’oro da un marco
contro mille miliardi di carta straccia.
In altre parole per distruggere il debito si rischia di distruggere l’apparato produttivo, in sostanza di
creare un deserto.
Torniamo alla cosiddetta lotta ai paradisi fiscali e all’evasione. Perché cosiddetta? Perché burla? Se
Obama volesse veramente combattere l’evasione fiscale, non avrebbe bisogno di spingersi sulle
montagne svizzere, gli basterebbe varcare il Deleware ed entrare nel territorio di uno Stato della
Federazione americana di cui egli è presidente, che è uno dei paradisi fiscali dei più illustri al mondo, le
cui perfomance umiliano Svizzera e Lussemburgo, e senza dimenticare Puerto Rico che è un
protettorato U.S.A. di diritto, nonché Panama protettorato U.S.A. di fatto. Questo discorso vale anche
per gli altri paesi imperialisti che tuonano contro lo scandalo dei paradisi fiscali, ma proteggono da
decenni, i propri paradisi fiscali.. Come Macao e Hong Kong sono un’emanazione della Cina, Monaco
è un protettorato francese, di fatto, mentre le isole francesi del canale e i territori di oltremare sono
suolo francese, e lo stesso dicasi per le isole inglesi del canale o Gibilterra, l’Andorra è un protettorato
franco-spagnolo, Panama, Puerto Rico e Deleware (come si è detto prima), San Marino è un’isola in
terra italiana. I comunicati che i vari paesi imperialisti contro i paradisi fiscali, sono delle autentiche
buffonate, perché basterebbe che i singoli paesi (USA, Inghilterra, Francia, Cina in testa), prendessero
30
misure concrete (e serie) sui loro paradisi fiscali, quelli cioè che si trovano nel loro territorio o nella
loro orbita. Così non avviene. L’iniziativa di Obama contro la Svizzera in realtà mirava a colpire la
Svizzera per favorire i paradisi fiscali U.S.A. In sostanza, un atto concorrenziale, volto a convincere gli
evasori amerikani a tornare in patria, dove potranno continuare a evadere ma patriotticamente.
Ma quanto vale o pesa l’evasione fiscale? Prendiamo le cifre ufficiali (da prendere sempre con le
molle): per l’OCSE vale 7000 miliardi di dollari, per il governo U.S.A siamo a 7300 miliardi,per
Guerra, numero uno dell’OCSE, siamo a 11 miliardi (così corregge al rialzo la stima della propria
organizzazione).Come si vede sono cifre enormi ma assolutamente approssimative, perché indicano in
genere il volume del capitale che giacciono nei cosiddetti paradisi fiscali in un momento dato, ma il
fatto è che queste somme sono capitali che vanno investiti, il compito dei paradisi è di occultare,
rietichettare e reinvestire i capitali con un continuo movimento di andirivieni.
In Italia, negli anni ‘70 il Ministero delle Finanze riteneva che 1/3 del reddito italiano fosse occultato,
poco male nella vicina Francia, che ha fama di grande efficienza burocratica, ciò avveniva negli anni
’60. A questo bisogna aggiungere la massa enorme dei profitti creati dalle attività criminali: l’industria
del crimine è valutata dall’ONU come un’industria che vale il 5% almeno del PIL mondiale e questo
significa evasione necessaria: questo reddito deriva dal commercio della droga, dallo sfruttamento della
prostituzione, dal commercio dei lavoratori clandestini ecc.
Analogo discorso vale per il lavoro nero: in Italia Confindustria e Istat (che portano dati da prendere
sempre con le molle) stimano al 15% del PIL. e a livello mondiale l’OCSE ha stimato che il 60% dei
lavoratori al mondo (1,8 miliardi) lavora in nero.
Torniamo alla cosiddetta lotta all’evasione fiscale lanciata da Obama. Il contenzioso contro la
Svizzera, volta a ottenere informazioni sui conti di 52.000 correntisti americani ottenne il risultato che
furono consegnati o rivelati solo 4450 conti. L’amministrazione Obama spacciò questo risultato come
una vittoria, ma d’altronde questo non deve meravigliare, poiché è consuetudine dei tutti politici
borghesi chiamare vittorie le sconfitte.
Un’altra cosa da rilevare è che nei paradisi fiscali non sembrano per nulla impressionati dagli squilli
di guerra che squillano contro di loro; dopo il G20 di Londra, il presidente della Liberia, un altro
notissimo paradiso fiscale, dice che “non cambia nulla e non cambierà niente” e che continueranno a
collaborare come prima con gli USA (che sono il loro protettore).
Se poi si andasse a vedere i conti occultati in Svizzera e che furono rivelati, quello che viene fuori è
che sono intestati a prestanome poco consistenti da punto di vista patrimoniale, ma dietro ci sono
autentici colossi. Ma questo in realtà è solo un aspetto secondario del problema, perché gli U.S.A. sono
essi stessi un paradiso fiscale (non solo il Deleware), perciò la manovra di Obama è in realtà un atto di
concorrenza tra paradisi fiscali. Abbiamo parlato prima del Deleware. Si scoprirà che in questo
piccolissimo Stato, hanno sede un milione di società tra cui 250 delle 500 più grandi classificate da
Fortune; in un palazzo della capitale di questo statale hanno sede 200 mila società, che fa rendere
ridicolo il “primato” mondiale delle Cayman nelle quali un palazzo ospitava solo 18.000 società; il
motivo di ciò è molto semplice, nel Deleware non si pagano imposte sui profitti societari e il libro dei
soci è impenetrabile sicché il 56% delle società quotate a New York hanno sede nel piccolo Stato,tutto
questo di chi alla faccia di chi a sinistra soprattutto dice che negli Stati Uniti c’è una feroce lotta
all’evasione fiscale.
Enorme è stato l’impegno a sostegno dei salvataggi bancari, valutabili in termini di trilioni di dollari
di aiuti diretti e indiretti. Le banche sembrerebbero “risanate”. Sembrano appunto. Nel 2008 negli USA
il numero dei fallimenti nel 2008 furono 25, nel 2009 (fino all’inizio di novembre) 124, cui si devono
aggiungere 522 banche in serie difficoltà.
Ma non è tutto: un settore importante su cui il sistema finanziario si regge, è quello dei fondi
pensione per via dei loro immensi patrimoni. Questi alla fine del 2009, dichiarano di non poter
31
garantire il vecchio livello delle pensioni (che fondamentale per il livello consumi negli USA) se non
trovano una “piccola” somma di 2000 miliardi che al momento manca.
Perciò dire che la crisi bancaria è passata è una grandissima balla, la politica dei salvataggi può solo
tamponare la situazione.
Dopo la Seconda guerra mondiale imperialista, lo Stato della borghesia imperialista USA ha
assicurato la persistenza o il ristabilimento del dominio delle classi borghesi nella parte continentale
dell’Europa Occidentale, in Giappone e in buona parte delle colonie e delle semicolonie.
La borghesia imperialista USA aiutò la borghesia dei singoli paesi a ricostruire i propri Stati. Essa
pose tuttavia dei limiti alla sovranità di alcuni nuovi Stati (l’Italia in primis), assicurandosi vari
strumenti di controllo della loro attività e d’intervento in essi.
Nei 45 anni che seguirono la fine del conflitto, i conflitti tra questi Stati e gli U.S.A. non hanno avuto
un ruolo rilevante nello sviluppo del movimento economico e politico, con delle eccezioni come ad
esempio le tensioni con gli Stati della borghesia francese e inglese in occasione della campagna di Suez
del 1956.
Questo non significa che è finita l’epoca dei conflitti fra Stati imperialisti. Finché gli affari sono
andati bene, finché l’accumulazione del capitale si è sviluppata felicemente (e ciò è stato fino all’inizio
degli anni ’70), non si sono sviluppare contraddizioni antagoniste tra Stati imperialisti, né potevano
svilupparsi se è vero che esse sono la trasposizione in campo politico di contrasti antagonisti tra gruppi
capitalisti in campo economico. Il problema sorge quando dalla metà degli anni ’70 comincia la crisi. E
da questo momento che la lotta da parte degli U.S.A. per la difesa dell’ordine internazionale (quello
che certa pubblicistica ha spacciato per “nuovo ordine internazionale”) si mostra alla fine per quello
che è effettivamente: lotta per difendere gli interessi dei capitalisti U.S.A e le condizioni di stabilità
politica all’interno degli Stati Uniti, cioè del dominio di classe sulla popolazione americana anche a
scapito degli affari della borghesia degli altri paesi diventando quindi un fattore d’instabilità politica.
Né i capitalisti operanti in altri paesi possono concorrere a determinare la volontà dello Stato USA al
pari dei loro concorrenti americani:
1)benché vi sia una discreta ressa di esponenti della borghesia imperialista di altri paesi a installarsi
negli USA, a inserirsi nel mondo economico e politico USA: pensiamo solamente ai defunti Onassis e
Sindona;
2)
benché molti gruppi capitalisti di altri paesi organizzino correntemente gruppi pressione
(lobbies.) per orientare l’attività dello Stato federale USA e partecipano, di fatto, attivamente a
determinare l’orientamento.
Man mano che le difficoltà dell’accumulazione di capitale, c’è il tentativo da parte di una frazione
della borghesia imperialista mondiale di imporre un’unica disciplina a tutta la borghesia imperialista
cercando di costruire attorno allo Stato USA il proprio Stato sovrazionale. Questo tentativo è favorito
dal fatto che negli anni trascorsi dopo la seconda guerra mondiale imperialista, si è formato un vasto
strato di borghesia imperialista internazionale, legata alle multinazionali, con uno strato di personale
dirigente cresciuto al suo servizio.
Già sono stati collaudati numerosi organismi sovrastali (monetari, finanziari, commerciali), che sono,
come si diceva in precedenza, un tentativo di gestione collettiva che deve mediare il contrasto tra la
proprietà privata delle forze produttive con il loro carattere collettivo. Attraverso questi organismi uno
strato di borghesia imperialista internazionale tenta di esercitare una vasta egemonia.
Parimenti si è formato un personale politico, militare e culturale borghese internazionale. Di
conseguenza ci sono le basi materiali per il formarsi di un unico Stato, ma la realizzazione di un
processo del genere, quando la crisi economica avanza e si aggrava, difficilmente si realizzerebbe in
maniera pacifica, senza che gli interessi borghesi lesi dal processo si facciano forti di tutte le
rivendicazioni e pregiudizi nazionali e locali.
32
Tutto questo è importante, per comprendere le dinamiche che avvengono a livello di politica
economica, internazionale e l’inseguire falsi obiettivi, come l’andare a contestare le varie riunioni come
il G8 dove si riuniscono i principali briganti imperialisti. In realtà, queste riunioni non sono un
embrione di governo mondiale dell’economia, ma sono un mascheramento delle reciproche impotenze
dei vari paesi imperialisti a governare la crisi.
Quando nel 2009 si riunirono i vari briganti imperialisti a Londra, essi misero sul piatto della bilancia
5.000 miliardi di dollari d’interventi, ma al TG2 della sera del 02.04.2009 Federico Rampini,
giornalista di Repubblica, fa notare che questa è solo la somma dei diversi provvedimenti decisi dai
singoli governi, senza alcun coordinamento globale, ognuno agisce per contro proprio, non esiste
nessuna politica economica mondiale dei vari paesi che partecipano ai vari G. Sintomatico, è quello che
avviene nel campo degli ammortizzatori sociali: USA e Canada lasciano scoperti (senza alcuna tutela
cioè) il 57% dei lavoratori, che diventano il 93% in Brasile, l’84% in Cina, il 77% in Giappone, il 40%
nel Regno Unito, il 18% in Francia e il 13% in Germania (fonte ILO),come si vede, si va da una
copertura quasi totale come in Francia e in Germania a una marginale ò pressoché assente in Cina,
Giappone e Brasile.
Ma è poi vero che i miliardi spesi sono 5000? Proprio nei giorni del G20 di Londra,
Il Sole 24 Ore pubblica una mappa analitica e aggiornata degli interventi compiuti dai vari governi dal
settembre 2008 al marzo 2009 e la cifra è sconcertante: 22-23 mila miliardi di dollari, contro gli 80 che
costò il new deal e i 500 del costo della seconda guerra mondiale imperialista, la metà di questa cifra o
quasi è impegnata solo dal governo USA (amministrazioni Bush e Obama) e larghissima parte di essi,
in USA e nel mondo, è destinato alle banche.
Raffrontando queste cifre risulta che:
1)la spesa della seconda guerra mondiale imperialista abbraccia un arco di 6 anni, qui siamo in
presenza di 6-7 mesi;
2)
la spesa militare nella seconda guerra mondiale imperialista rilanciò l’economia USA, infatti,
nel 1941 il PIL era di poco superiore al 1929 e s’impenna negli anni susseguenti raddoppiando quasi
mentre nel 1943-44 la percentuale del PIL della spesa militare era pari al 44,6%. Adesso invece si
spende molto di più ma l’economia non sembra reagire positivamente.
Che queste cifre non siano arrivate alla stampa “popolare” è evidente: l’enormità della cifra significa
che siamo vicini al si salvi chi può.
L’estate del 2011 ha messo in evidenza che le enormi immesse non possono arrestare l’emorragia e
che il capitalismo viene trascinato in una china che come dimostrano i dati prima citati, che è molto ben
più grande di quella del 1929.
Apparentemente, in un primo tempo, e nonostante i colpi che piovono su di lui il proletariato sembra
assente.
Apparentemente, appunto in realtà se si dava a uno sguardo a quanto succede nel mondo, si vede,
che, nascoste o trascurate dai media, lotte e rivolte operaie si sono sviluppate in tutto il mondo.
L’Argentina è stata percorsa da una grandissima lotta operaia e proletaria in tutta la fase della crisi
generale del paese nel 2001-2022, con il movimento di occupazioni delle fabbriche (Fabricas
Occupadas) con i piqueteros (Movimento Trabajadores Desocupados) e con una resistenza che
permane tuttora, seppure non più a quei livelli di massa.
In Messico alla fine del 2006, vi è stata la rivolta popolare e proletaria di Oaxaca per la difesa delle
condizioni di vita e di lavoro, peggiorate costantemente dalla politica governativa.
Sempre in America Latina ci sono stati gli incontri latinoamericani delle fabbriche recuperate dai
lavoratori, che si sono tenuti nel 2005 a Caracas (Venezuela) e nel 2006 a Joinville (2006). Si sono
33
trattati di incontri che si possono definire storici, perché si sono incontrati per la prima volta a livello
continentale gli operai coinvolti nelle occupazioni di fabbriche, confrontando le rispettive esperienze e
cercare di trarre delle conclusioni politiche dalla loro lotta.
In Corea c’è stata una vasta ondata di agitazioni nel 2004 per i diritti sindacali e contro la guerra
dell’Iraq.
In Iran tra la fine del 2005 e l’inizio del 2066 i lavoratori dei trasporti urbani di Teheran, si sono
mossi contro i Consigli Islamici (il sindacato di Stato iraniano) e la repressione poliziesca (700
scioperanti arrestati) per ottenere la contrattazione collettiva (negata dal regime) e aumenti dei salari.
In Cina secondo dati ufficiali del governo cinese, le proteste di massa sono aumentate da 10.000
episodi, che coinvolgevano 730.000 manifestanti nel 1993, a 60.000 episodi, che coinvolgevano più di
3 milioni di persone nel 2003. Molti osservatori hanno liquidato le crescenti proteste operaie in Cina
come localizzate apolitiche, attivismo “cellulare” (Lee 2007). Non così il governo cinese, oltre alla
repressione delle proteste (che si innestavano con un’escalation dei conflitti sociali sul diritto alla terra
e sul degrado ambientale nelle aree rurali), con la paura dell'ingovernabilità della Cina se si fosse
continuato con il modello di sviluppo degli anni '90, tra il 2003 e il 2005 cominciò a spostare
l'attenzione sulla promozione di un “nuovo modello di sviluppo” che puntasse a ridurre le
disuguaglianze fra le classi e le regioni. Davanti a quest’ondata di agitazioni che rischiava di perturbare
l'ordine sociale, persino il sindacato ufficiale (Acftu) modificò nel 2003 il suo statuto per “rendere
prioritario la difesa dei diritti dei lavoratori” (Chan, Kwan 2003).
Nel 2007 diventava anche chiaro che i cambiamenti stavano andando oltre il piano retorico. La
manifestazione concreta più importante fu la nuova Legge sui contratti di lavoro, entrata in vigore il 1°
gennaio 2008. La legge, rafforza la sicurezza del lavoro, ponendo restrizioni significative al diritto dei
padroni di assumere e licenziare i lavoratori senza giusta causa. Nel maggio del 2008 una nuova Legge
sull'arbitrato consente ai lavoratori di rivolgersi gratuitamente ai tribunali contro i padroni. Nel 2006
l'Acftu, di fronte al rifiuto della WalMart di permettere l'ingresso dei sindacati ufficiali nei suoi empori
in Cina, iniziò una mobilitazione di base dei lavoratori, che fu vittoriosa (Business 2006 –Magazine).
Questo meraviglioso risveglio del proletariato cinese non è stato senza conseguenze, per quanto
riguarda il capitale. Secondo il Wall Street Journal, il cambiamento della struttura dei costi nel
Guandong “sta producendo effetti in tutto il mondo”, poiché i padroni investono in “nuove zone più
interne della Cina” e/o si dirigono verso “paesi più poveri, con livelli salariali più bassi” come il
Vietnam e il Bangladesh. Ma, là dove va il capitale, si trascina inevitabilmente il conflitto di classe.
Nella stampa di Taiwan si trovano resoconti di un “esplosione di scioperi” in Vietnam, che ha colpito
le aziende di proprietà straniera nel 2007 e 2008. Si dice che cresca il disagio tra gli uomini di affari di
Taiwan (che sono uno dei gruppi più importanti di investitori) che vedono la situazione degli scioperi
“peggiorare sempre di più” (Lianhe-News 2008). Benvenuta vecchia talpa.
La crescita media dei salari in Cina, nell'ultimo biennio è stata circa del 20%, certamente inferiore
rispetto alla crescita della produzione che della produttività, ma decisamente eccessivo rispetto alle
attese degli investitori occidentali.
In Turchia, gli operai della Tuzla hanno scioperato il 27 e il 28 febbraio 2008 contro gli omicidi sul
lavoro. Per questa lotta, 75 di essi sono stati arrestati, torturati dalla polizia e rilasciati dopo la pressione
esercitata da 5.000 manifestati.
In Serbia gli operai della Zavasta si sono mobilitati per i salari contro i licenziamenti tra l’agosto e il
settembre 2008, a seguito del mancato pagamento della cassa integrazione da parte dello Stato.
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In Polonia nel luglio del 2008 gli operai della Fiat per ottenere aumenti salari e contrastare lo
sfruttamento pesantissimo cui sono sottoposti per la produzione della 600, si sono mobilitati.
Gli operai marittimi della Corsica nel 2005 hanno bloccato i trasporti da e per l’isola, per contrastare
la ristrutturazione delle linee di navigazione dell’isola.
Negli USA 1° maggio 2008 nella costa ovest hanno scioperato i portuali, bloccando i porti per
fermare la guerra in Iraq e Afghanistan. Questo sciopero è stato indetto da un’assemblea dei lavoratori
dei porti. Nell’assemblea c’era molta rabbia. Di quelli che hanno parlato a favore dello sciopero contro
la guerra molti erano veterani del Vietnam: “L’unica strada è l’azione diretta: fermare il lavoro per
fermare la guerra. L’hanno fatto i portuali francesi rifiutandosi di caricare le navi contro
l’insurrezione anticoloniale in Marocco negli anni ’20 e conto la guerra indocinese nei ’50. Oggi tocca
a noi”. È impressionante il filorosso che lega la memoria storica della lotta di classe, e proprio da parte
della classe operaia del maggiore paese imperialista, dove molti sostengono che sia totalmente integrata
dentro il sistema.
In Italia gli autoferrotranvieri, nell’inverno del 2003, hanno ripetutamente violato la legge
antisciopero, rivendicando consistenti aumenti salariali fuori e contro la concertazione CGIL-CISLUIL
e le griglie di contenimento poste dalla contrattazione subordinata ai tassi di inflazione programma. Nel
2004 gli operai di Melfi sono scesi in sciopero rivendicando parità di salario a parità di lavoro nel
gruppo Fiat e contrastando il modello di rapporti nella fabbrica improntato allo strapotere padronale,
alla flessibilità totale e alla de contrattualizzazione.
Certo non voglio dare l’idea che il proletariato si mobiliti dappertutto e si tratterebbe “solamente” di
collegare e coordinare a livello internazionale le sue lotte, ma che l’antagonismo tra capitale e lavoro,
tra padrone e operaio, tende a emergere e a manifestarsi, anche in conseguenza dell’aumentata
concorrenza intercapitalista, che fa crescere lo sfruttamento e peggiora la situazione complessiva dei
lavoratori. I mass media non danno conto di queste notizie “poco interessanti”, ma le condizioni in cui
il genere umano versa riproduce la esistenza ripropongono incessantemente le manifestazioni della lotta
di classe.
Va soprattutto sottolineato che queste lotte si sviluppano indipendentemente le une dalle altre, sono
isolate paese per paese,o addirittura all’interno dei rispettivi Stati. E in esse i lavoratori non si pongono
in modo autonomo, limitandosi spesso alle sole rivendicazioni salariali e normative. Ciò deriva dal
fatto che il proletariato nel suo complesso non ha una propria organizzazione autonoma dalla
borghesia.
I movimenti in atto in Spagna, Israele e Grecia mostrano che il proletariato comincia a prepararsi a
essere presente,a darsi i mezzi per vincere.
In questi tre movimenti si è manifestata la collera contro i politici e in generale contro la democrazia.
Così come si è manifestata l’indignazione rispetto fatto che i borghesi e il loro personale politico siano
sempre più ricchi e corrotti. Che la grande maggioranza della popolazione sia trattata come merce al
servizio dei privilegi scandalosi della minoranza sfruttatrice, merce gettata nella spazzatura quando i
“mercati non vanno più bene”.
Perciò non è un caso che in Spagna secondo alcuni sondaggi l’80% della popolazione appoggia
questo movimento. Per questo gli Indignados rifiutano di dialogare con individui che ritengono
(giustamente) non rappresentino più la popolazione ma le élite che finanziano le loro campagne
elettorali. Per loro un partito vale l’altro.
Rabbia che si alimenta non solo per le retribuzioni dei politici ma anche come vengono spesi i soldi
pubblici. Pensiamo solamente al proliferare di fondazioni. Esse di moltiplicano, a nome di politici più o
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meno in carica, sono istituzioni che non risolvono certamente i mali economici della popolazione.
Negli ultimi anni si è assistito al proliferare di think tank, termine altisonante sotto cui si nascondo le
solite lobby delle oligarchie finanziarie, spesso finanziate dalle grandi multinazionali come la
Monsanto. Da dove vengono i soldi che servono a gestire queste fondazioni? Dallo Stato, che ha
dispetto di tutte le ideologie liberiste proclamate, come si è visto prima non è affatto meno presente
nell’economia rispetto al passato, ai tempi del Welfare State. Piuttosto la sua partecipazione ha scopi
diversi.
I soldi pubblici vengono spesso e volentieri sperperati attraverso un complesso sistema di appalti che
distribuiscono denaro a società di comodo gestite da amici, famigliari e compari delle élite politiche. In
Italia e in Spagna la lista degli scandali immobiliari di questo tipo è lunghissima e ci vorrebbe
un’enciclopedia per elencarla tutta. Il movimento israeliano 14 luglio denuncia la medesima
speculazione e lo fa dando vita a una serie di tendopoli nelle piazze di Tel Aviv.
Lo Stato appalta anche le mansioni degli impiegati ministeriali, questa pratica è diffusa non solo in
Spagna e in Italia, ma anche in Grecia e Portogallo.
È evidente che i sentimenti di parlare male dei politici non sono certo una novità. Come è chiaro che
questi sentimenti possono essere deviati verso vicoli ciechi reazionari o populisti.
Ma quello che c’è di nuovo è che riveste un’importanza significativa è che questi temi, a prescindere
dalla volontà o dalla coscienza di chi vi partecipa, che questi movimenti mettono in questione la
democrazia, lo Stato borghese e i suoi apparati di dominio, sono diventati oggetto di innumerevoli
assemblee. Non si possono paragonare degli individui che rimuginano il loro disgusto da soli,
atomizzati, passivi e rassegnati con individui che lo esprimono liberamente in assemblee. Al di là degli
errori, delle confusioni, dei momenti di stallo che vi si esprimono inevitabilmente e che devono essere
discussi con la massima pazienza, l’essenziale sta proprio nel fatto che i problemi siano posti
pubblicamente, cosa che contiene in potenza un’evidente inizio di politicizzazione delle grandi masse e
di una messa in discussione di questa democrazia che ha reso tanti servizi al capitalismo lungo tutto
l’ultimo secolo.
I movimenti in Spagna, Israele e Grecia, al di là di tutti i loro limiti, debolezze che contengono,
forniscono per la loro stessa esistenza un rimedio efficace contro il cancro dello scetticismo.
Essi non sono, però un fulmine a cielo sereno,ma sono il risultato di una lenta condensazione di lotte
(alcune delle quali ne citavo prima) che si sono sviluppate negli ultimi otto anni. Di lotte che come
dicevo prima erano molto isolate, ignorate dai mass media. Nello stesso tempo ci fu uno sviluppo di
minoranze internazionaliste alla ricerca di una coerenza rivoluzionaria, che si pongono tante questioni e
cercano il contatto tra di loro, discutono, tracciano prospettive.
Nel 2006 ci furono due movimenti – la lotta contro il CPE in Francia e lo sciopero massiccio dei
lavoratori di Vigo in Spagna – che nonostante la distanza, le differenze di condizioni e di età dei
partecipanti, presentano tratti simili: assemblee generali, estensione ad altri settori, partecipazione di
massa alle manifestazioni.
Nel caso del CPE si tratta di una lotta vittoriosa. Il CPE (Contrat Premier Emploi) è stato l’ennesimo
tentativo governativo di attaccare e rimodellare il mercato del lavoro, per aggravare sensibilmente le
condizioni del lavoro salariato. Il CPE intende instaurare una specie di arbitrio padronale: durante i
primi due anni d’impiego è soppressa la giusta causa per motivare un licenziamento, cioè i padroni
potranno licenziare senza motivazione e senza preavviso. Il salariato non avrà alcuna possibilità di
ricorso. Ciò riguarderà i giovani, fino all’età di 26 anni. Tutto ciò non è che un aggravamento di una
precarizzazione che è già predominante (in Francia il peso del lavoro interinale concerne fino a un terzo
della forza-lavoro nelle fabbriche e nei cantieri edili). Questa misura è stata sentita dalla gioventù in
modo particolarmente offensivo.
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Le lotte sono iniziate in alcune università, agli inizi di febbraio 2006. La svolta si è avuta con lo
sgombero della Sorbonne di Paris, il 15 marzo: sgombero intervenuto il giorno dopo la sua occupazione
da parte di alcune centinaia di studenti. Per rintracciare un intervento poliziesco dentro una Università
bisogna andare al maggio parigino del 1968.
Così si è scatenato lo scontro, è dilagata la protesta. A centinaia sono accorsi dalle altre Università
della regione parigina e lo scontro con le forze di repressione è diventato costante. Così come si estende
in tutto il paese, in tantissime città, e in modo particolare forte nei poli come Marseille, Lyon,
Toulouse, Bordeaux, Rennes, Nantes.
E a questo punto entrano in campo le forze sindacali. L’interesse proletario a resistere ad una tale
legge è evidente, la pressione della base si è fatta sentire, le stesse burocrazie sindacali hanno di che
perderci. Le varie “giornate d’azione” indette dai sindacati, si sono susseguite con successi di piazza
sempre crescenti, dalla prima a febbraio con un milione di partecipanti, alle ultime con tre milioni. E
poi una costante degli ultimi anni il fatto che la resistenza proletaria preferisce l’utilizzo della piazza
agli scioperi. Il successo è indiscutibile per estensione, tenuta, intensità. Oltre tutto si verifica lo stesso
fenomeno che si è dato in altre mobilitazioni analoghe negli ultimi anni: il vastissimo sostegno
popolare fino allo “sciopero per procura”, cioè l’appoggio a lotta da parte di chi lottare non può (la gran
massa de salariati delle piccole imprese, in particolare).
Ma un altro dato capitale, che la dice lunga sull’acutizzazione delle contraddizioni e dello scontro di
classe, è l’estendersi della violenza di piazza.
C’è un dato che deve essere considerato: a misura che le lotte diventano sempre più drammatiche, per
il loro contenuto, per la posta in gioco (e qui di parla ormai di masse di giovani che vedono nero quanto
ad un loro futuro), le forme di lotta si radicalizzano. Le dimensioni degli arresti parlano chiaro:
sicuramente oltre duemila, a significare l’ampiezza degli scontri.
Lunedì 10 aprile il primo ministro de Villepin capitola: ritiro delle misure principali del CPE. È una
vittoria,chiara e forte. Le università restano in stato di agitazione e anche molti licei.
Un anno più tardi un embrione di sciopero di massa scoppia in Egitto a partire da una grande fabbrica
tessile. Il 6 aprile 2008 si attua uno sciopero generale. Ci sono stati 2 morti e almeno 400 persone ferite
e più di 800 arrestate. Epicentro delle lotte è la fabbrica della Ghazl al Mahalla, che con i suoi 27.000
operai è una delle industrie tessili più grandi del mondo. Gli operai erano scesi in piazza contro il caro
prezzi (l’inflazione ufficialmente è al 12%, ma quella reale è almeno il doppio) e, per chiedere
l’aumento dei salari. Lo sciopero non è stato sostenuto dalla Fratellanza musulmana, il maggiore
movimento politico di opposizione al regime del presidente Hosni Mubarak. I Fratelli, in un
comunicato ufficiale della Guida suprema Mohammed Mahdi Akef diedero il proprio sostegno morale
agli operai tessili, ma chiarirono che non intendevano partecipare a nessuna manifestazione. Un
duro colpo per gli organizzatori, privati così dell'appoggio di una forza anti-regime diffusa
capillarmente sul territorio. E' probabile secondo osservatori che la forte repressione in atto contro la
Fratellanza a pochi giorni dalle elezioni amministrative dell'8 aprile, abbia spinto i vertici del
movimento a evitare ulteriori occasioni di conflitto con il governo. Ma sicuramente il motivo di fondo
sta nella matura di classe dei movimenti islamici radicali, nella natura reazionaria della loro ideologia.
Una lezione che vale per tutte: i proletari devono prima di tutto contare su se stessi e sul resto delle
masse popolari sfruttate.
Alla fine del 2008 scoppia la rivolta della gioventù proletaria in Grecia, appoggiata da una parte del
proletariato.
Nel giugno del 2009 c’è un esplosivo sciopero generalizzato nel sud della Cina.
Il proletariato di fronte alla crisi, comincia a lottare in maniera ben più decisa e, nel 2010, la Francia è
scossa da movimenti di massa di protesta contro la riforma delle pensioni, movimenti nel corso dei
quali fanno la loro comparsa tentativi di assemblee intercategoriali; i giovani inglesi si rivoltano in
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dicembre contro l’aumento brutale delle tasse scolastiche. L’anno 2011 vede le grandi rivolte sociali in
Egitto e Tunisia. Successivamente c’è l’estensione del movimento di protesta (quello definito degli
indignati) in Spagna, Grecia e Israele.
LE RIVOLTE IN NORD AFRICA
I movimenti più di massa che si sono sviluppati nell’ultimo periodo non sono cresciuti nei paesi
capitalisticamente più avanzati, ma nei paesi alla periferia del capitalismo e in particolare in certi paesi
arabi come la Tunisia e l’Egitto, dove alla fine dopo avere tentato di soffocarli con una feroce
repressione la borghesia è stata costretta a licenziare i dittatori del posto.
Queste rivolte che hanno scosso il Nord Africa e il Medio Oriente sono indubbiamente il frutto della
crisi economica generale del capitalismo che ha prodotto in questi paesi un rialzo dei generi di prima
necessità tale da rendere impossibile per queste masse la sopravivenza.
Già nei decenni precedenti, ora in un paese, ora in un altro,vi sono state rivolte sociali per lo stesso
motivo, ma mai della dimensioni delle rivolte attuali. Basti a pensare che la Tunisia, dove si è formato
il primo sindacato africano, la UGTT, è stata scossa negli anni che vanno dal 1975 al 1977 da grandi
scioperi e violenti scontri che per la prima volta dall’indipendenza, hanno messo a dura prova il
governo “socialista” di Bourghiba tanto da indurlo, con il prezioso aiuto dell’imperialismo francese, a
più che triplicare le risorse finanziarie per la polizia e l’esercito. Nella primavera del 1984 un’altra
ondata di scioperi è stata repressa nel sangue con condanne per gli arrestati da 5 a 30 anni di prigione,
ma ciò non ha fermato il movimento degli scioperi che è ripreso l’anno successivo. Il dispotismo
sociale, abbinato alla repressione preventiva di ogni tipo di sciopero cui ha collaborato l’UGTT, riuscì
a prevenire per un certo periodo di tempo ogni protesta operaia; ma dalla primavera del 2008, di fronte
ad aumenti iperbolici dei prezzi dei generi alimentari e alla sempre più diffusa disoccupazione
giovanile, ci furono scontri violentissimi con la polizia, fino a quelli del 2009 nel bacino di Gafsa, alle
miniere di fosfati dove la polizia torna a sparare. Questi avvenimenti preparano il terreno per le rivolte
del 2010.
Negli anni ’70, in Egitto, paese economicamente disastrato a causa delle guerre contro Israele
scoppiano dei veri e propri moti proletari come quelli del 1975 ripresentatisi sulla scena nel 1977.
Protagonisti di tali moti furono contadini poveri e operai, che reagirono a un rialzo notevole dei prezzi
dei generi di prima necessità e alla soppressione delle sovvenzioni statali al consumo primario.
Commissariati di polizia, locali notturni, mezzi di trasporto, banche, residenze di lusso ecc. sono stati
simboli del potere e dell’oppressione borghese del giovane capitalismo egiziano dati alle fiamme da
masse inferi cute ribellatasi alla fame, alla miseria, alla disoccupazione, alla corruzione, ai privilegi di
una classe dominante che ostentava ricchezza e potenza.
Tra il 2004 e il 2010, l’Egitto ha conosciuto una lunghissima stagione di agitazioni operaie, scioperi
occupazioni, tentativi di organizzazione immediata classista al di fuori e contro i sindacati ufficiali.
Le rivolte scoppiate in Nord Africa hanno preso forma di rivolte sociali in cui si trovavano associati
ogni sorta di settore della società: lavoratori del settore pubblico e privato, disoccupati, ma anche dei
piccoli commercianti, degli artigiani ecc. E’ per questo motivo che il proletariato non è comparso in
prima persona direttamente, in maniera distinta (come è apparso, per esempio, negli scioperi in Egitto
verso la fine delle rivolte) ancor meno assumendo il ruolo di forza dirigente.
Anche se il proletariato non è apparso direttamente come classe a se stante in questi movimenti, la
sua impronta era ben presente in questi paesi dove ha avuto un peso notevole, particolarmente
attraverso la profonda solidarietà che si è manifestata nelle rivolte. In fin dei conti se borghesia
egiziana e tunisina si è alla fine decisa di sbarazzarsi dei vecchi dittatori, spinta anche dai consigli degli
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USA, è in gran parte a causa della presenza della classe operaia in questi movimenti. In Libia, in
negativo c’è stata l’involuzione di questa realtà: alla fine ci fu lo scontro militare fra cricche borghesi
dove gli sfruttati sono stati arruolati come carne da cannone. In questo paese una gran parte della classe
operaia era costituita da lavoratori immigrati (in particolare da egiziani, tunisini, cinesi, africani sub
sahariani, bengalesi) la cui reazione principale è stata quella di fuggire.
I MOVIMENTI IN SPAGNA, GRECIA E ISRAELE
Senza dubbio la presenza del proletariato all’interno dei movimenti in Spagna, Grecia e Israele non è
stata dominante. Esso era presente attraverso la partecipazione individuale dei lavoratori, che cercano
di reagire alla situazione presente.
Ci sono dei tratti comuni nelle lotte che si sono sviluppare in Spagna, Grecia e Israele:
1)
L’entrata in lotta di nuove generazioni del proletariato.
2)
L’azione diretta delle masse: la lotta ha guadagnato la strada, le piazze sono state occupate.
3)
L’inizio della politicizzazione: grandi masse cominciano a interessarsi direttamente e
attivamente delle grandi questioni della società.
4)
Le assemblee. Esse sono legate alla tradizione proletaria dei consigli operai del 1905 e 1917 in
Russia, che si estesero in Germania e in altri paesi durante l’ondata rivoluzionaria del 1917-23. Essi
riapparvero nel 1956 in Polonia e in Ungheria, nelle lotte operaie del ‘68/’69 in diversi paesi capitalisti.
I momenti di debolezza di questi movimenti sta nella presenza all’interno di essi di un ala
democratica. Questa spinge alla realizzazione di una “vera democrazia”, che gode del favore di media e
politici. Come comunisti internazionalisti bisogna combattere energicamente tutte le manifestazioni, le
false misure, gli argomenti fallaci di questa tendenza.
Non bisogna trascurare l’influenza delle illusioni democratiche nella classe operaia. Ci sono
diversi motivi del preservarsi di queste illusioni:
1)
Il peso all’interno di questi movimenti di strati sociali non proletari molto recettivi alle
mistificazioni democratiche e all’interclassismo.
2)
La potenza delle illusioni democratiche ancora presenti nella classe operaia.
3)
La pressione della decomposizione sociale e ideologica sociale del capitalismo che favorisce la
tendenza la tendenza a cercare rifugio in un’entità “al di là delle classi e dei conflitti”, cioè lo Stato, che
si presume potrebbe apportare un certo ordine.
Fino a quando il proletariato dubita delle proprie capacità, non recupera una propria identità,
questa condizione creerà la tendenza all’interno di esso ad aggrapparsi a dei rami marci, alle
misure di “riforme” (che in questa fase di crisi generale sono veramente pie illusioni) e di
“democratizzazione della società”, anche se con tanti dubbi. Tutto questo, crea ancora dei
margini di manovra per la borghesia che le permette di seminare divisione e demoralizzazione e
di conseguenza di rendere più difficile al proletariato il recupero di quella fiducia in sé e di
questa identità di classe.
Un'altra tendenza negativa presente nel proletariato è il peso dell’apoliticismo, che induce a credere
che ogni opzione politica, comprese quelle che si richiamano al proletariato, non siano che menzogne
che portano in sé la serpe del tradimento. Di questo approfittano le forze della borghesia che,
occultando la propria identità imponendo la finzione di un intervento “in quanto liberi cittadini”,
operano nei movimenti per prendere il controllo delle assemblee e sabotarle dall’interno.
Un altro pericolo, molto presente nei movimenti della Grecia e d’Israele (ma non solo in questi
ovviamente) è quello del nazionalismo. Per molti proletari e piccoli borghesi colpiti dalla crisi,
l’identità nazionale appare come un ultimo rifugio immaginario quando tutto il resto crolla
rapidamente. Dietro parole d’ordine contro “il governo venduto allo straniero” o “sovranità nazionale”,
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le parole d’ordine di avere “nuove costituzioni” o “nuove regole” appaiono some soluzioni magiche e
unificatrici.
Un’altra debolezza del proletariato sta nella paura e nella difficoltà ad assumere lo scontro di classe.
L’angosciante minaccia della disoccupazione, la precarietà di massa, la crescente frammentazione degli
impiegati divisi nello stesso posto di lavoro, in una rete di subappaltatori e attraverso un’incredibile
varietà di modalità di assunzione, provocano un effetto intimidatorio e rendono più difficile il
raggruppamento dei lavoratori per la lotta. Questa situazione non può certamente essere superata con
appelli volontaristici alla mobilitazione, ne tantomeno ammonendo i lavoratori per la loro supposta
“vigliaccheria” o “servilismo”.
I movimenti presenti sono solo il primo, timido e contradditorio passo perché il proletariato
recuperi la fiducia in se stesso e la sua identità di classe, ma quest’obbiettivo resta ancora lontano
perché richiede lo sviluppo di lotte di massa su un terreno direttamente proletariato che metta in
evidenza che la classe operaia, di fronte alla rovina del capitalismo, è capace di offrire un alternativa
rivoluzionaria agli strati sociali non sfruttatori.
Ci sono degli embrioni di una potenziale coscienza internazionalista. Il movimento degli
Indignati spagnoli, diceva che la sua fonte di ispirazione era stata la Piazza Tahrir in Egitto, i
dimostranti in Israele esibivano cartelli che dicevano : “Mubarak, Assad, Netanyahu: tutti uguali”, cosa
che mostra non soltanto un inizio di coscienza di chi è il nemico ma una comprensione almeno
embrionale del fatto che la loro lotta si fa con gli sfruttati di questi paesi e non contro di loro nel quadro
della difesa nazionale. A Jaffa, decine di manifestanti arabi ed ebrei portavano cartelli in ebraico ed in
arabo con la scritta “Arabi ed ebrei vogliono alloggi a prezzi accessibili” ci sono state proteste continue
sia ebrei che di arabi contro gli sfratti. A Tel Aviv, ci sono stati contatti con i residenti dei campi
profughi nei territori occupati.
In sostanza in questi movimenti, sta emergendo una potenziale ala proletaria che è alla ricerca
dell’autorganizzazione, della lotta intransigente a partire da posizione di classe.
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