Linee-guida ESC e EASD

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Task Force sul Diabete e la Malattia Cardiovascolare della Società Europea di Cardiologia (ESC) e
dell’Associazione Europea per lo Studio del Diabete (EASD)
Autori / Task Force Members: Lars Ryde´n, Co-Chairperson (Sweden)*, Eberhard Standl,
Co-Chairperson (Germany)*, Małgorzata Bartnik (Poland), Greet Van den Berghe (Belgium),
John Betteridge (UK), Menko-Jan de Boer (The Netherlands), Francesco Cosentino (Italy),
Bengt Jo¨nsson (Sweden), Markku Laakso (Finland), Klas Malmberg (Sweden), Silvia Priori (Italy),
Jan O¨stergren (Sweden), Jaakko Tuomilehto (Finland), Inga Thrainsdottir (Iceland).
Partecipanti: Ilse Vanhorebeek (Belgium), Marco Stramba-Badiale (Italy), Peter Lindgren (Sweden)
Qing Qiao (Finland).
Comitato ESC per le linee guida (CPG): Silvia G. Priori, Chairperson (Italy), Jean-Jacques Blanc
(France), Andrzej Budaj (Poland), John Camm (UK), Veronica Dean (France), Jaap Deckers (The
Netherlands), Kenneth Dickstein (Norway), John Lekakis (Greece), Keith McGregor (France), Marco
Metra (Italy), Joa˜o Morais (Portugal), Ady Osterspey (Germany), Juan Tamargo (Spain),
Jose´ Luis Zamorano (Spain).
Recensione: Jaap W. Deckers, CPG Review Coordinator (The Netherlands), Michel Bertrand (France),
Bernard Charbonnel (France), Erland Erdmann (Germany), Ele Ferrannini (Italy), Allan Flyvbjerg
(Denmark), Helmut Gohlke (Germany), Jose Ramon Gonzalez Juanatey (Spain), Ian Graham (Ireland),
Pedro Filipe Monteiro(Portugal), Klaus Parhofer (Germany), Kalevi Pyo¨ra¨la¨ (Finland), Itamar Raz
(Israel), Guntram Schernthaner (Austria), Massimo Volpe (Italy), David Wood (UK).
INDICE DOCUMENTO
1
Preambolo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .3
Introduzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4
Definizione, classificazione e screening per diabete, pre-diabete,
alterazioni della glicemia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .5
Epidemiologia del diabete, IGH
e rischio cardiovascolare. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .12
Identificazione dei soggetti ad alto rischio per diabete e malattie cardio vascolari. . . . . . . . . . . . . . . . 17
Terapia per la riduzione del rischio cardiovascolare. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .22
Gestione delle CVD. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37
Scompenso cardiaco e diabete. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48
Aritmie: fibrillazione atriale e morte cardiaca improvvisa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52
Vascolopatia periferica e cerebrovascolare. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57
Terapia intensiva. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 62
Aspetti economici e diabete. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65
Bibliografia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68
2
Preambolo
Le linee guida e i documenti prodotti dalla Commissione di Esperti hanno lo scopo di fornire un mezzo
per la gestione clinica e delle raccomandazioni che si basino su tutte le evidenze cliniche riguardanti
un gruppo particolare di soggetti nel tentativo di aiutare il medico a scegliere la migliore strategia
terapeutica per il singolo paziente affetto da una specifica malattia, prendendo in considerazione non
solo l’effetto ottenuto bensì anche il rapporto tra rischio e beneficio di una particolare procedura
diagnostica e terapeutica. Le linee guida con le rispettive raccomandazioni dell’ESC possono essere
trovate sul sito web dell’ESC.
In breve, l'ESC ha incaricato degli esperti in materia, di effettuare una valutazione completa e critica
dell'uso delle procedure diagnostiche e terapeutiche e di valutare il rapporto rischio-beneficio delle
terapie suggerite per il trattamento e/o la prevenzione di una data condizione. La forza dell’evidenza a
favore o contro una particolare procedura diagnostica o di trattamento è costruita secondo scale
predefinite per la classificazione delle raccomandazioni e tramite livelli di prova, come descritto sotto.
Una volta che il documento è stato finito ed è stato approvato da tutti gli esperti coinvolti nella Task
Force è stato presentato agli esperti esterni per la revisione. Ove necessario, il documento è stato
modificato una o più volte per essere infine approvato dal comitato per le linee guida e dai membri
selezionati dal direttivo dell'ESC. Il comitato dell’ESC per le linee guida (CPG) sorveglia e coordina la
preparazione di nuove linee guida e dei Documenti di Consenso degli esperti redatti dalle Task Force,
da gruppi di esperti, o dai comitati di consenso. Gli esperti scelti dai comitati sono chiamati a dichiarare
tutti i rapporti che possono avere, che potrebbero essere percepiti come reale o potenziale conflitto
d’interesse. Queste dichiarazioni sono conservate nello schedario della European Heart House, sede
dell'ESC. La commissione è inoltre responsabile dell'approvazione di queste linee guida e dei
documenti di consenso degli esperti
Classi di raccomandazioni
Classe I
Evidenze e/o consenso generale per una procedura diagnostica/trattamento
sia di beneficio, utile ed efficace
Classe II
Evidenze conflittuali e/o divergenze di opinioni circa l’utilità e l’efficacia del
trattamento o della procedura
Classe IIa
Il peso delle evidenze/opinioni è a favore dell’utilità/efficacia
Classe IIb
L’utilità/efficacia è poco ben stabilita dalle evidenze/opinioni
Classe III
Evidenze e/o consenso generale che una procedura diagnostica/trattamento
non sia utile ed efficace e che in alcuni casi potrebbe essere dannoso
Tabella 1: classi di raccomandazione
Livelli di Evidenza
A
Dati derivati da multipli trials clinici randomizzati o da meta-analisi
B
Dati derivati da un singolo trial clinico randomizzati da ampi studi non- randomizzati
C
Consenso di opinioni di esperti e/o studi piccoli, studi retrospettivi, registri
Tabella 2: livelli di evidenza
3
Introduzione
Il diabete e le malattie cardiovascolari (CVD) appaiono spesso come due facce della medesima moneta:
il diabete mellito (DM) è stato considerato come un equivalente della malattia coronarica e per contro
molti pazienti con malattia coronarica risultavano affetti da diabete o da prediabete. Pertanto, è ora che
i diabetologi ed i cardiologi uniscano le loro forze per migliorare la qualità nella diagnosi e la cura per
milioni di pazienti che presentano sia malattie cardiovascolari sia alterazioni metaboliche. L’approccio
cardio-diabetologico non solo è di massima importanza per il bene di quei pazienti, ma è anche uno
strumento per un’ulteriore progresso nei campi della cardiologia e della diabetologia e della
prevenzione.
L'ESC e l’EASD hanno accettato questa sfida ed hanno sviluppato insieme le linee guida per il diabete
e la CVD. Agli esperti di entrambe le società è stato chiesto di formare un Task Force. La strategia
principale del gruppo è descritta nella Figura1.
È stato sviluppato un algoritmo per contribuire ad identificare la malattie cardiovascolare in pazienti
con il diabete e viceversa, le alterazioni metaboliche in pazienti con malattia coronarica, stabilendo la
base per una adeguata terapia congiunta.
Questo riassunto, una versione ridotta del documento completo, è inteso per la pratica clinica del
medico. Pone l’attenzione su precedenti lavori e sui riferimenti più rilevanti all’interno delle
raccomandazioni date. Informazioni più dettagliate devono essere ricercate nel documento integrale. La
numerazione delle note bibliografiche è la stessa sia nel testo integrale sia in questo documento. Le
figure e le tabelle, tuttavia, sono numerate nell'ordine progressivo nel sommario esecutivo e quindi non
necessariamente hanno gli stessi numeri nel documento integrale. Il testo completo inoltre contiene un
capitolo dettagliato sui collegamenti patofisiologici fra le alterazioni del metabolismo dei carboidrati e
le CVD e molte più informazioni sugli aspetti economici della gestione del diabete e delle CVD. Il
testo integrale delle linee guida sarà disponibile sul Web nelle pagine di ESC/EASD
(www.escardio.org e www easd.org).
È un privilegio per i presidenti, che hanno potuto lavorare con gli esperti in materia reputati migliori al
mondo, ora fornire queste linee guida alla Comunità dei cardiologi e dei diabetologi.
Desideriamo ringraziare tutti i membri del gruppo di esperti, che hanno offerto generosamente la loro
conoscenza, così come ai referenti per il loro input straordinario. I ringraziamenti speciali vanno al
Professor Carl Erik Mogensen per i suo consigli sulle sezioni riguardanti la nefropatia diabetica e la
microalbuminuria. Inoltre vorremmo ringraziare l'ESC ed il EASD per aver reso possibile queste linee
guida. Per concludere, desideriamo esprimere il nostro apprezzamento per il gruppo che si occupa delle
linee guida alla Heart House, in particolare a Veronica Dean, per il suo supporto estremamente utile.
Stoccolma e Monaco, Settembre 2006
Professor Lars Ryden, Past-President ESC
Professor Eberhard Stando, Vice-Presidente EASD
4
MALATTIA CARDIOVASCOLARE E
DIABETE
DIAGNOSI PRINCIPALE
DM±CAD
CAD non nota
Ecg, Ecocardiografia, test
da sforzo negativi
Nella norma
Follow-up
DIAGNOSI PRINCIPALE
CAD±DM
CAD non nota
Ecg, Ecocardiografia, test da
sforzo positivi
Consulenza cardiologica
Anomalo
Consulenza cardiologica
Trattamento ischemia:
non-invasivo o invasivo
DM non noto
OGTT, glicemia a
digiuno, profilo
lipidico, HbA1c.
Se IMA o ACS
scopo
normoglicemia
Nella norma
Follow-up
DM noto
Screening per la
nefropatia. Se
scarso controllo
(HbA1c >7%)
Consulenza
diabetologica
Nuova diagnosi
DM o IGT± sindrome
metabolica:
Consulenza diabetologica
Figura 1: Algoritmo diagnostico per il paziente affetto da coronaropatie e/o diabete mellito
Definizione, Classificazione e Screening del Diabete e delle Anomalie del
Metabolismo Glucidico Pre-Diabete.
Il diabete mellito è un disordine metabolico ad eziologia multifattoriale caratterizzato dalla presenza di
iperglicemia cronica associata ad alterazioni del metabolismo dei carboidrati, dei lipidi e delle proteine
derivanti da una alterazione della secrezione dell’insulina, della sua azione o dalla combinazione di
entrambe. 1
Il diabete di tipo 1 è dovuto alla mancanza virtualmente completa di produzione pancreatica endogena
di insulina, mentre nel diabete di tipo 2, l’aumento della glicemia deriva dalla combinazione di un
complesso di processi fisiopatologici derivanti dalla combinazione di predisposizione genetica, dieta
scorretta, inattività fisica ed aumento di peso con un’aumentata obesità viscerale.
Il DM è associato allo sviluppo a lungo termine di danno d’organo specifici dovuti all’insorgenza di
complicanze microvascolari. I pazienti con il diabete sono inoltre ad un elevato rischio per lo sviluppo
di malattia cardiovascolare, malattia cerebrovascolare e vasculopatia periferica.
5
Raccomandazioni
La definizione ed i criteri diagnostici di diabete e di pre-diabete
dovrebbero basarsi sul livello del conseguente rischio di
complicanze cardiovascolari.
Il metodo migliore per riconoscere stadi precoci di iperglicemia
e diabete mellito di tipo 2 asintomatico è il carico orale di glucosio
(OGTT) che fornisce sia la glicemia a digiuno che il valore di
glicemia a 2 ore dal carico.
Uno screening nel sospetto di diabete mellito di tipo 2 potrebbe
essere fatto efficientemente tramite una valutazione del rischio non
invasivo associato a un OGTT diagnostico in persone che
presentano un rischio elevato.
Classe
Livello
I
B
I
B
I
A
Tabella 3:raccomandazioni
Definizione e Classificazione Del Diabete
I criteri diagnostici per la valutazione delle alterazioni del metabolismo glucidico stabiliti
dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) 4,5 e dall'Associazione Americana del Diabete
(ADA) 6,7 vengono riportati in Tabella 1. La classificazione del diabete (Tabella 2) include i tipi
eziologici e i diverse stadi clinici dell’iperglicemia8. Sono state identificate quattro principali categorie
eziologiche che possiamo distinguere: diabete di tipo 1, diabete di tipo 2, altri tipi specifici e il diabete
gestazionale, come descritto nel documento del WHO4.
Il diabete di tipo 1 è caratterizzato dalla mancanza di insulina dovuto a lesioni distruttive delle β-cellule
pancreatiche, tipicamente si presenta in soggetti giovani, ma può presentarsi in qualsiasi età. 9 Le
persone che presentano anticorpi anti β-cellule pancreatiche come gli anticorpi anti decarbossilasi
dell'acido glutammico, è possibile che sviluppino sia il tipico esordio acuto o un diabete insulino
dipendente a lenta progressione10,11.
Il diabete di tipo 2 è determinato dalla combinazione di una diminuzione della secrezione insulinica e
della diminuita sensibilità all'insulina. Le fasi iniziali del diabete di tipo 2 sono caratterizzate da una
resistenza all’azione dell’insulina che causa iperglicemia eccessiva nel post-prandiale. Ciò è seguito da
un peggioramento della prima fase di secrezione insulinica in risposta all’aumento della concentrazione
di glucosio. 12 Il diabete di tipo 2 interessa più del 90% degli adulti affetti da diabete, tipicamente si
sviluppa dopo l'età media. I pazienti sono spesso obesi e sedentari.
Il diabete gestazionale costituisce un’alterazione del metabolismo del glucosio che si sviluppa durante
la gravidanza e sparisce con il parto. Circa il 70% delle donne con diabete gestazionale svilupperà il
diabete successivamente. 13
I criteri clinici di classificazione attualmente validi, pubblicati da WHO4 e dall’ADA7, sono
attualmente in fase di revisione da parte del WHO. I criteri aggiornati verranno presto introdotti.
6
Le raccomandazioni WHO per la classificazione delle alterazioni del metabolismo glucidico sono
basate sulla valutazione delle glicemia a digiuno e dopo 2 ore dal pasto e viene raccomandato che il
carico orale con 75 g di glucosio venga eseguito in assenza di franca iperglicemia4.
I valori soglia della glicemia a digiuno e dopo due ore dal pasto per la diagnosi di diabete sono stati
determinati in base ai valori per i quali la prevalenza di retinopatia diabetica, una complicanza specifica
dell’iperglicemia, tendeva ad aumentare. Sebbene le complicanze macrovascolari siano la principale
causa di decesso nei pazienti affetti da diabete di tipo 2 o da IGT, nella classificazione non è stata
considerata la malattia macrovascolare.
Il National Diabetes Data Group2 ed il WHO3 hanno coniato il termine IGT, una categoria intermedia
fra normotolleranza del glucosio e diabete. L’ADA6 ed il WHO4 hanno proposto alcuni cambiamenti ai
criteri diagnostici per il diabete ed hanno introdotto una nuova categoria denominata IFG (alterata
glicemia a digiuno). L’ADA, recentemente, ha diminuito il valore soglia per IFG da 6.1 a 5.6 mmol/L7,
ma questo è stato criticato ed ancora non è stato adottato dal gruppo di esperti del WHO, che
suggeriscono
di
mantenere
il
valore
soglia
precedentemente
indicato nel rapporto di consultazione del WHO del 1999. Questi criteri sono stati rivisti da un nuovo
gruppo di esperti del WHO nel 2005. Per standardizzare le determinazioni del glucosio, è stato
suggerito di utilizzare il plasma come campione principale. Molti centri utilizzano sia sangue intero o
venoso o sangue capillare. I fattori di conversione per queste procedure sono stati riportati nella
Tabella 3.
La categorizzazione delle alterazioni metaboliche glucidiche basata su FPG può differire da quello
basato su una glicemia a 2 h post-carico.
Avere una FPG normale richiede la capacità di produrre una sufficiente secrezione basale di insulina e
un’adeguata insulino-sensibilità epatica in grado di regolare il rilascio di glucosio da parte del fegato.
Durante l’OGTT, la risposta normale data dall'assorbimento del carico di glucosio, riguarda sia la
soppressione del rilascio di glucosio da parte del fegato sia l’aumento dell'assorbimento del glucosio da
parte dei tessuti periferici, i.e. muscolo scheletrico.
Mantenere la glicemia post-carico entro un range di normalità richiede una adeguata dinamica della
risposta secretoria da parte delle β-cellule, sia in termini quantitativi che temporale, in associazione ad
una adeguata sensibilità insulinica epatica e muscolare 1,16,17.
Categoria glucometabolica
]
Akosah KO, et al. (2003)
Normotolleranza (NGR)
ALTERATA GLICEMIA
A DIGIUNO
Fonte
WHO
Criteri di classificazione
[mmol/L (mg/dL)]
FPG ≤6.1 (110)
+2h PG ≤7.8 (140)
ADA (1997)
FPG ≤ 6.1 (110)
ADA (2003)
FPG ≥ 5.6 (100)
WHO
FPG ≥ 6.1 (110) ≤ 7.0 (126)
+2-h PG ≤ 7.8 (140)
ADA (1997)
FPG ≥ 6.1 (110) ≤ 7.0 (126)
7
ADA (2003)
FPG ≥ 5.6 (100) ≤ 7.0 (126)
Intolleranza ai carboidrati (IGT)
WHO
FPG ≤7.0 (126)
+ 2h PG ≥ 7.8 (140) ≤ 11.1 (200)
WHO
IFG o IGT
Alterata omeostasi glicemica (IGH)
Diabete mellito (DM)
WHO
FPG ≥ 7.0 (126)
o 2h PG ≥ 11.1 (200)
ADA (1997)
FPG ≥ 7.0 (126)
ADA (2003)
FPG ≥ 7.0 (126)
Tabella 4: Criteri utilizzati per la classificazione delle alterazioni glicometaboliche in accordo con WHO(1999) e
ADA (1997 e 2003). I valori sono espressi come glicemia su plasma venoso.
FPG (glicemia a digiuno); 2-h PG glicemia a 2 ore dal carico orale di glucosio (1 mmol / L= 18 mg / dl). La diagnosi
di IGT è posta solo tramite OGTT. OGTT è effettato al mattino, dopo 8-14 ore di digiuno, raccogliendo un campione
di sangue prima e dopo 2 ore dalla somministrazione di 75 g di glucosio sciolto in 250-300ml di acqua e assunto in 5
min (tempo stimato dall’inizio dell’assunzione).
DM tipo 1 (distruzione della β-cellula, determina un deficit assoluto di insulina)
Autoimmune
Idiopatico
DM tipo2 (determinato da un’importante insulino resistenza con relativo deficit
di insulina oppure da un deficit secretivo importante con o senza insulino resistenza)
Altri tipi specifici di DM
∗
Difetti genetici della funzione β-cellula
∗
Difetti genetici dell’azione insulinica
∗
Patologie del pancreas esocrino
∗
Endocrinopatie
∗
Farmaci o chemioterapici (es. corticosteroidi, farmaci anti depressivi, β-bloccanti,
tiazidici ecc.)
∗
Infezioni
∗
Rare forme di diabete immuno-mediate
∗
Sindromi genetiche associate al diabete (es. sindrome di Down, atassia di Friedreich,
sindrome di Klinefelter, sindrome di Wolfram.
Diabete gestazionale b
Tabella 5: classificazione eziologica dei disordini glicemici a
a Sono stati scoperti sottotipi supplementari, si anticipa che loro saranno riclassificati all'interno della loro propria
specifica categoria.
b Include le forme di IGT e diabete durante la gravidanza.
8
∗
Glicemia plasmatica (mmol/L) = 0.558 x 1.119 _ glicemia sangue intero (mmol/L)
∗
Glicemia plasmatica (mmol/L) = 0.102 x 1.066 _ glicemia capillare (mmol/L)
∗
Glicemia plasmatica (mmol/L) = 20.137 x 1.047 _ glicemia sierica (mmol/L)
Tabella 6: fattori di conversione tra i valori di glicemia plasmatica rispettoa quella da sangue intero, capillare o siero
L'emoglobina glicata
L'emoglobina glicata (HbA1c), un’utile misura dell'efficacia del trattamento antidiabetico, è una media
dei valori glicemici durante le 6-8 settimane precedenti, equivalente alla vita media degli eritrociti18.
L’HbA1c non è mai stata suggerita come test diagnostico per il diabete. L’HbA1c è poco sensibile per i
valori bassi. Un normale valore di emoglobina glicata non può escludere la presenza di diabete o di
IGT.
Markers di disordini glicometabolici
Una difficoltà nella diagnosi del diabete è la mancanza di un indicatore biologico identificato e unico in
grado di distinguere i soggetti con IFG, IGT o diabete dalle persone con il metabolismo glucidico
normale. E’ stato discusso come marker l'uso dell’insorgenza di retinopatia diabetica. Il limite è che
questa condizione diventa solitamente evidente solo dopo alcuni anni di esposizione all’iperglicemia.1,510
Finora, la mortalità totale e la malattia cardiovascolare non sono stati considerati per la definizione di
le alterazioni glucidiche che determinano un rischio significativo. Nondimeno, la grande maggioranza
delle persone con il diabete muore per CVD (malattia cardiovascolare) e le alterazioni asintomatiche
del metabolismo glucidico raddoppiano la mortalità e il rischio di infarto del miocardio (IMA) e di
ictus. La maggior parte delle persone affette da diabete di tipo 2 sviluppa CVD che è la complicanza
più severa e costosa della retinopatia diabetica, la presenza di CVD dovrebbe essere considerata
quando vengono definiti i “cutpoints” per la glicemia.
Confronto tra FPG e glicemia 2 h post-carico
Lo studio DECODE ha mostrato che il rischio di mortalità nella persone con elevato FPG è collegato a
un concomitante aumento della glicemia a 2 h post-carico15,19,20. Pertanto, il valore soglia attuale per il
diabete, basato sulla glicemia a 2h dal carico, di ≥11.1mmol/L potrebbe essere troppo alto. È stato
notato che, sebbene un livello di FPG ≥7.0 mmol/L e un livello del glucosio post-carico a 2 h ≥11.1
mmol/L a volte si riscontrano negli stessi individui, altre volte possono non coincidere. Nello studio
DECODE21 il reclutamento dei pazienti con diabete attraverso lo screening mediante FPG da solo o in
associazione alla glicemia post-carico, ha evidenziato che solo il 28% dei pazienti presentavano
entrambi i parametri alterati, il 40% ha presentato solo alterata glicemia a digiuno e il 31% solo il
9
criterio della glicemia a 2h dal carico. Fra coloro che presentavano il criterio della glicemia a 2h postcarico, il 52% non presentava il criterio della glicemia a digiuno e il 59% di coloro che presentava il
criterio della FPG non presentava il criterio della glicemia a 2h dal carico.
Screening per la Diagnosi di Diabete
Stime recenti suggeriscono che 195 milioni di persone nel mondo intero sono affette da diabete. Questo
numero nel 2030 aumenterà a 330, forse anche a 500 milioni23,24. Oltre il 50% di tutti i pazienti con
diabete non viene diagnosticato21,22,34 rimanendo questi asintomatici per molti anni. Individuare questi
pazienti è importante per la salute pubblica e per la pratica clinica quotidiana. Lo screening di massa
per il diabete subclinico non è stata suggerito non essendo evidente il dato che la prognosi di tali
pazienti migliorerebbe tramite una individuazione e un trattamento tempestivo25,26. Prove indirette
suggeriscono che lo screening potrebbe presentare dei benefici, migliorando la possibilità di prevenire
le complicanze cardiovascolari. In più, le persone con IGT potrebbero trarre beneficio dal cambiamento
dello stile di vita e dall’intervento farmacologico atto a ridurre o far ritardare la progressione a
diabete27.
Figura 1: glicemia a digiuno e glicemia a 2h post-carico identificano
differenti individui con diabete asintomatico. FPG, glicemia, su
campione di plasma, a digiuno; 2hPG, glicemia, su campione di
plasma, a 2h post-carico (adattato dallo studio DECODE21).
Individuazione di persone ad alto rischio di diabete
Generalmente le persone ad alto rischio di sviluppare diabete mellito e quelle con diabete asintomatico
sono ignare della loro condizione di alto rischio. Sebbene sia stata rivolta molta attenzione alla
rivelazione del diabete mellito di tipo 2 non diagnosticato, solo recentemente si è posto l’attenzione su
coloro che mostrano lievi anomalie del metabolismo glucidico, che tendono a presentare gli stessi
fattori di rischio tipici del diabete di tipo 2. Esistono tre metodi generali per l’individuazione precoce:
(i)- misurazione della glicemia per valutare la prevalenza di alterata omeostasi glicemica (IGH); una
10
strategia che rileverà i casi di diabete misconosciuti; (ii)- utilizzo di dati demografici, clinici e di
precedenti esami di laboratorio per determinare la probabilità di incidenza di diabete, una strategia che
trascura lo stato attuale del metabolismo glucidico; (iii)- raccolta di informazioni attraverso questionari
riguardo la presenza ed entità di alcuni fattori di rischio per il diabete di tipo 2, anche questa strategia
trascura lo stato attuale del metabolismo glucidico.
Gli ultimi due metodi possono servire come strumenti di screening iniziale e a basso costo,
identificando un sottogruppo nella popolazione sul quale effettuare una valutazione attenta dello stato
della glicemia. La seconda opzione, in particolare, è adatta per alcuni gruppi ad alto rischio inclusi i
soggetti con preesistente CVD e donne che hanno avuto un diabete gestazionale, mentre la terza
opzione è più adatta per la valutazione della popolazione generale (Figura 3). La valutazione della
glicemia è necessaria in un secondo momento per tutti e tre gli approcci per determinare in modo
preciso l’omeostasi glicemica, dal momento che il primo passo di screening non è diagnostico.
È’ necessario un bilanciamento fra sensibilità e specificità per le diverse strategie. False diagnosi
potrebbero essere un problema solo nel primo approccio, infatti nelle altre due metodiche in cui sono
considerati i diversi fattori di rischio si hanno meno probabilità di incappare in errate classificazioni e
di per se stesse dovrebbero già portare a modifiche dello stile di vita25. Includere più valutazioni della
glicemia contribuirebbe a ottenere maggiori informazioni sullo stato glicemico, al contrario poche
valutazioni risultano inconcludenti. Se una strategia non comprende l’esecuzione di un carico orale di
glucosio (OGTT) in nessuno stadio non potrà essere determina la tolleranza ai carboidrati. La glicemia
a digiuno e l’emoglobina glicata non forniscono informazioni utili riguardo l’escursione dei livelli
glicemici nel post-prandiale o dopo carico di glucosio.
È dunque necessario separare tre differenti quadri clinici: 1-la popolazione generale, 2-i soggetti con
alterazioni metaboliche note includendo tra queste chi è obeso, iperteso o ha familiarità per il diabete
mellito, 3- pazienti con CVD. Quando pazienti affetti da CVD presentano alterazioni metaboliche, nella
maggioranza dei casi, la glicemia a 2 ore dal pasto risulta elevata mentre spesso la glicemia a digiuno
risulta normale30. Quindi la sola valutazione della glicemia a digiuno dovrebbe essere evitata in questi
pazienti. Poiché pazienti con CVD per definizione dovrebbero essere considerati ad alto rischio, non è
necessario creare una stima del rischio di diabete separata, ma questi soggetti dovrebbero essere
sottoposti ad un carico orale di glucosio. Nella popolazione generale, la strategia appropriata è iniziare
dalla valutazione dei fattori di rischio come screening primario e associare la valutazione dei livelli
glicemici per individuare i soggetti ad alto rischio31. Questa strategia predice il rischio di sviluppare
diabete nei prossimo 10 anni con una accuratezza del 85% ed, inoltre, rivela i soggetti affetti da diabete
asintomatico o con anomalie della tolleranza glucidica. 32,33
11
Figura 2:FINnish Diabetes Risk SCore (FINDRISC) per la stima del
rischio di diabete tipo 2 nellarco di 10 anni in una persona adulta.
(modificato da Lindstrom e Tuomilehto31) scaricabile dal sito
www.diabetes.fi/english
12
Epidemiologia del diabete, alterata omeostasi glucidica (IGH) e rischio
cardiovascolare
Raccomandazioni
La relazione tra iperglicemia e CVD dovrebbe essere considerata
come un continuum. Per ogni punto percentuale (1%) di HbA1c
esiste un definito incremento del rischio cardiovascolare.
Il rischio cardiovascolare per i soggetti affetti da diabete conclamato
è aumentato di 2-3 volte per gli uomini e di 3-5 volte per le donne
rispetto ai soggetti senza diabete.
I dati a riguardo la glicemia post prandiale (o post-carico) correlano
meglio con il rischio CVD rispetto alla sola glicemia a digiuno,
elevati valori glicemici post-prandiali (o post-carico) predicono
inoltre incremento del rischio CVD nei soggetti con normale
glicemia a digiuno.
In particolare le alterazioni glicometaboliche determinano un
aumentato rischio di morbidità e mortalità cardiovascolare nelle
donne per cui necessitano di una maggiore attenzione.
Classe
Livello
I
A
I
A
I
A
IIa
B
Tabella 7: Raccomandazioni
Prevalenza delle malattie ed età
Glicemia, età e sesso
Nella popolazione europea la concentrazione media di glucosio post-prandiale nel sangue aumenta con
l’età in particolare dopo i 50 anni. Le donne raggiungono concentrazioni più elevate rispetto agli
uomini soprattutto dopo i 70 anni e probabilmente ciò è dovuto alla differenza di sopravvivenza degli
uomini rispetto alle donne. La concentrazione media di glicemia a digiuno aumenta di poco con l’età.
Nel periodo di età compreso tra i 30 e 69 anni è maggiore nei maschi rispetto alle donne e dopo i 70
anni è più alta nelle donne.
Prevalenza di diabete ed IGH
La prevalenza età specifica del diabete aumenta con l’età fino alla settima ottava decade parimenti in
entrambi i sessi. (Figura 4). 14 La prevalenza è inferiore al 10% nei soggetti di età inferiore ai 60 anni,
del 10-20% tra i 60-69 anni; il 15-20% del gruppo d’età più avanzata risultato precedentemente affetto
da diabete ed una pari percentuale viene rilevato come diabete asintomatico. Questo suggerisce che il
rischio di sviluppare diabete nella popolazione Europea è pari a 30-40%.
La prevalenza di IGT aumenta linearmente con l’età, al contrario la prevalenza di alterata glicemia a
digiuno non aumenta. Nelle persone di età media la prevalenza di IGH è circa 15% mentre negli
anziani è pari 35-40%. La prevalenza di diabete ed IGT definita da iperglicemia postprandiale è
13
aumentata nelle donne rispetto agli uomini mentre la prevalenza di diabete e IFG diagnosticata
mediante il valore di glicemia a digiuno è più alta negli uomini che nelle donne. 14
Diabete e malattia coronarica
Nella popolazione europea adulta affetta da diabete la causa principale di morte è la coronaropatia
(CAD). Alcuni studi hanno dimostrato che il rischio dei soggetti diabetici è aumentato di due-tre volte
rispetto alla persone non affette da diabete39. Ci sono notevoli differenze nella prevalenza della CAD
nei pazienti affetti da diabete di tipo 140 e tipo 2 ed anche nelle diverse popolazioni. Nello studio
EURODIAB IDDM Complication Study, sono stati arruolati 3250 soggetti affetti da diabete di tipo 1 in
16 paesi europei, la prevalenza di CVD era del 9% nei maschi e del 10% nelle femmine, 43 aumentando
con l’età, dal 6% nel gruppo di età tra 15-29 anni al 25% nel gruppo tra 45-59 anni, e con la durata di
malattia.
Nel diabete di tipo 1 il rischio di CAD aumenta drammaticamente con la comparsa della nefropatia
diabetica. Più del 29% dei pazienti con diabete di tipo 1 insorto nell’infanzia e nefropatia, con una
durata di malattia oltre 20 anni, presenteranno CAD in confronto a solo il 2-3% nei soggetti senza
nefropatia44.
Alcuni studi confrontano il grado di rischio per CAD associato a storia di diabete di tipo 2 o alla
presenza di pregressa CAD. In 51735 uomini e donne Finlandesi di età compresa tra 25-74 anni,
seguiti per 17 anni, si sono verificati 9201 decessi. Il rischio combinato per mortalità coronarica,
aggiustato per altri fattori di rischio49, tra uomini con solo diabete, solo IMA o con entrambe le
condizioni erano rispettivamente 2.1, 4.0 e 6.4 in confronto a soggetti sani.
Il corrispettivo rischio per le donne era 4.9, 2.5, 9.4 mentre il rischio per la mortalità totale era 1.8, 2.3,
3.7 negli uomini e 3.2, 1.7 e 4.4 nelle donne. Uomini e donne affetti da diabete hanno avuto medesimi
tassi di mortalità totale, mentre la mortalità coronarica tra gli uomini era marcatamente più elevata.
Dunque una storia di diabete e di IMA aumenta significativamente la mortalità per CAD e per tutte le
cause. L’effetto relativo del diabete era maggiore nelle donne mentre l’effetto relativo di storia di IMA
era più evidente fra gli uomini. L’aumento del rischio per CAD nei soggetti affetti da diabete mellito è
stato spiegato solo parzialmente dalla concomitanza di altri fattori di rischio fra cui l’ipertensione
arteriosa, l’obesità, la dislipidemia e il fumo. Dunque, lo stato di diabete o l’iperglicemia in se e le
relative complicanze sono molto importanti nell’aumentare il rischio di CAD e la mortalità correlata.
Un ulteriore supporto all’importante correlazione tra diabete e IMA è stato ottenuto dall’Interheart
Study160. Il diabete aumenta il rischio di due o tre volte sia negli uomini che nelle donne
indipendentemente dall’origine etnica.
14
Figura 2
IGH e CAD
Rischio cardiovascolare e iperglicemia post-prandiale.
La maggior discrepanza nella classificazione dell’omeostasi glicemica tra i criteri formulati da WHO e
ADA si pone sulla modalità di diagnosi del diabete che dovrebbe essere posta in base alla media delle
glicemia a digiuno o a 2 h post-carico. Pertanto è clinicamente rilevante conoscere come queste due
entità siano collegate alla mortalità e al rischio per CVD. Nel Japanese Funagata Diabetes Study,
l’analisi di sopravvivenza conclude che i soggetti con IGT, ma non i soggetti IFG presentino un
aumentato rischio per CVD63. In un recente studio finlandese, la condizione di IGT all’inizio risultava
essere un fattore di rischio indipendente predittivo di evento CVD, di morte precoce CVD e per tutte le
cause; dato non confuso dallo sviluppo di diabete clinico29 durante il follow-up. Il Chicago Heart Study
che coinvolgeva circa 12000 soggetti senza storia di diabete mostrava che i soggetti di razza bianca con
iperglicemia asintomatica (a 1h dal carico ≥ 11.1 mmol/l o ≥ 200mg/dl) presentavano un aumentato
rischio di morte per CVD rispetto ai soggetti con glicemia post-prandiale bassa (<8.9mmol/l o 160
mg/dl). 58 Diversi studi hanno valutato l’associazione tra CVD e la glicemia a 2 ore dal carico. Sulla
base di studi longitudinali effettuati nelle Mauritius, Shaw e colleghi 62 riportarono che le persone con
isolati picchi iperglicemici post-prandiali presentavano una mortalità per CVD raddoppiata rispetto ai
soggetti non diabetici, mentre non c’era un significativo incremento del rischio per la sola iperglicemia
a digiuno (FPG ≥ 7.0mmol/l o 126mg/dl) e per glicemie a 2 ore dal carico <11.1mmol/l o 200mg/dl.
15
L’evidenza più convincente della relazione tra l’incremento del rischio per CVD ed alterata tolleranza
ai carboidrati è stata documentata dallo studio DECODE, analizzando l’unione dei dati provenienti da
10 coorti europee includendo 22.000 soggetti68,69. Il tasso di morte per tutte le cause, per CVD e per
CAD era maggiore nei soggetti affetti da diabete diagnosticato mediante la valutazione della glicemia a
2 ore dal pasto, rispetto a quelli che non raggiungevano tale criterio diagnostico. Un aumento
significativo di mortalità era stato osservato anche per i soggetti IGT mentre non si è evidenziata
differenza tra i soggetti con alterata o normale glicemia a digiuno. Un’analisi multivariata mostra che
un elevata glicemia a 2h dal carico predice il rischio di mortalità per tutte le cause, CVD e CAD, dopo
aggiustamento per gli altri fattori di rischio cardiovascolari, mentre ciò non avviene per la sola elevata
glicemia a digiuno.
Elevati livelli di glicemia a 2h dal carico sono predittivi di mortalità in modo indipendente dai livelli di
FPG, mentre l’aumento di mortalità nei soggetti con elevata FPG correla fortemente con l’elevata
glicemia a 2h dal carico. La maggior parte dei decessi per CVD è stata osservata soprattutto nei
soggetti con IGT sebbene avessero una normale glicemia a digiuno. La relazione tra la glicemia a 2h
dal carico e la mortalità per CVD era lineare, tale relazione non si è però verificata per la glicemia a
digiuno.
Controllo glicemico e rischio cardiovascolare
Sebbene diversi studi prospettici hanno mostrato inequivocabilmente che la glicemia post-carico
aumenta il rischio di morbilità e mortalità per CVD, rimane ancora da dimostrare come l’abbassamento
dei livelli glicemici a 2h dal carico possa ridurre tale rischio. Gli studi a riguardo sono in corso ma i
dati raccolti fino a qui sono scarsi. Un’analisi degli end-point secondari dello studio STOP-NIDDM
(Study to Prevent Non-Insulin-Dependent Diabetes Mellitus) rivela una riduzione statisticamente
significativa del rischio cardiovascolare nei soggetti IGT che assumevano acarbosio rispetto a coloro
che assumevano placebo. Poiché l’acarbosio riduce specificatamente l’escursione glicemica questa è la
prima dimostrazione che l’abbassamento dei livelli glicemici post-prandiali potrebbe comportare la
riduzione di eventi CVD. Bisogna comunque considerare che, visto l’esiguo numero di eventi, la
potenza di questa analisi è bassa.
Il più ampio studio eseguito finora in soggetti affetti da diabete di tipo 2, lo United Kingdom
Prospective Diabetes Study (UKPDS), 71 non aveva la potenza per dimostrare l’ipotesi che un
trattamento intensivo per ridurre la glicemia, potesse ridurre il rischio di IMA, sebbene c’era una
riduzione del 16% (al limite della significatività) nel gruppo posto in trattamento intensivo rispetto al
gruppo posto in trattamento convenzionale. In questo studio l’escursione glicemica post-carico non era
stata valutata e dopo 10 anni di follow-up la differenza nei livelli di HbA1c tra i due gruppi era solo lo
0.9% (7.0% vs 7.9%). E ancora, i farmaci utilizzati nel trattamento intensivo, sulfaniluree, insulina ad
lunga durata d’azione e metformina, influivano principalmente sulla glicemia a digiuno mentre non
sortivano effetti sull’escursione glicemica post-prandiale.
Lo studio German Diabetes Intervention Study, reclutando soggetti con diabete di tipo 2 di recente
diagnosi, è stato l’unico studio d’intervento che ha dimostrato come controllando l’iperglicemia postprandiale (valutata 1h dopo colazione) si otteneva un grosso impatto sulla mortalità per tutte le cause e
per CVD rispetto al solo controllo della glicemia a digiuno72. Durante 11 anni di follow-up lo scarso
controllo della glicemia a digiuno non ha comportato un incremento significativo della mortalità per
IMA mentre il cattivo controllo delle glicemia post-prandiali è stato associato fortemente ad un’alta
mortalità. Informazioni ulteriori sono state ottenute dalla meta-analisi di sette studi a lungo termine che
16
utilizzavano acarbosio nei pazienti affetti da diabete di tipo 2. Il rischio per IMA era significativamente
più basso nei soggetti in trattamento con acarbosio rispetto a coloro che assumevano placebo.73
Differenze tra i due sessi nella CAD associata a diabete.
Nella popolazione di età media gli uomini hanno un rischio di sviluppare CAD da due a cinque volte
più alto rispetto alle donne74,75. Il Framingham Study è stato il primo studio a sottolineare che le donne
con diabete sembrano perdere la protezione relativa per CAD rispetto agli uomini76. La ragione
dell’aumentato rischio per CAD nelle donne con diabete rispetto agli uomini non è del tutto chiara. Una
metanalisi di 37 studi di coorte prospettici, includendo 447.064 soggetti affetti da diabete ha stimato il
rischio per CAD fatale correlato al sesso associato a diabete81. La mortalità per CAD era maggiore nei
soggetti affetti da diabete rispetto a quelli senza (5.4% vs 1.6%). Il rischio relativo globale tra le
persone con o senza diabete era significativamente maggiore tra le donne con diabete 3.50 (95% CI
2.70-4.53) che tra gli uomini con diabete 2.06 (1.81-2.34).
Omeostasi glucidica e malattie cerebrovascolari
Diabete ed ictus
La malattia cerebrovascolare è la causa predominante a lungo termine di morbilità e mortalità sia in
pazienti con diabete di tipo 1 che con diabete di tipo 2. Già dalle prime osservazioni, presentate dal
Framingham Investigators, diversi ampi studi di popolazione avevano verificato un’aumentata
frequenza di ictus nella popolazione diabetica. In uno studio prospettico finlandese con follow-up a 15
anni, il diabete era il più forte fattore di rischio singolo per ictus (rischio relativo per uomini 3.4 e 4.9
per le donne)82. Il diabete mellito potrebbe essere causa di microateromi a carico dei piccoli vasi
causando infarto lacunare, uno dei più comuni sottotipi di infarto ischemico. L’ictus, nei soggetti con
diabete o iperglicemia in fase acuta dell’evento, ha un alto rischio di mortalità, di complicanze
neurologiche e più severa disabilità rispetto a soggetti non diabetici82,90-101.
Ci sono poche informazioni riguardanti il rischio di ictus nel diabete di tipo 1 e nel diabete di tipo 2. Il
World Health Organization Multinational Study of Vascular Disease in Diabetes mostrava un
aumentata mortalità cerebro-vascolare nei pazienti con diabete di tipo 1, anche se con notevole
variabilità tra i paesi103. I dati dalla coorte di più di 5000 bambini finlandesi affetti da diabete di tipo 1
mostrano che prima dei 50 anni, il rischio di un evento acuto cerebrale è pari al rischio per evento
coronarico senza differenze correlate al sesso44. La presenza della nefropatia diabetica era il più forte
fattore predittivo per ictus, determinando un aumento del rischio di almeno 10 volte.
IGT e ictus
Per ciò che concerne la frequenza di diabete asintomatico e/o IGT nei soggetti con ictus sappiamo
molto meno. In un recente studio austriaco104 che ha arruolato 238 soggetti, 20% avevano un diabete
noto, 16% erano nuovi casi di diabete, 23% risultava IGT, ma solo 0.8% risultava IFG. Solo il 20%
aveva una normale omeostasi glicemica. Un altro 20% dei soggetti presentava valori iperglicemici che
non sono stati classificati per la mancanza di dati relativi all’OGTT. In un studio italiano in cui sono
stati reclutati soggetti con evento acuto di ictus, senza una storia di diabete, 81 pazienti (84%)
17
presentavano alterazioni del metabolismo glucidico alla dimissione (39% IGT e 27% diabete di nuova
diagnosi) e altri 62 soggetti (66%) dopo 3 mesi105.
Prevenzione della CVD nei soggetti con IGT
Sebbene il tasso di mortalità per CVD ha mostrato un significativo decremento nei paesi sviluppati
negli ultimi decenni, si è inoltre evidenziato che tale andamento era minore o non si è verificato del
tutto nella popolazione affetta da diabete106. Uno studio più recente riporta una riduzione del 50% del
tasso di incidenza degli eventi CVD tra soggetti adulti con diabete mellito. Il rischio assoluto di CVD
era comunque due volte più grande rispetto alle persone senza diabete. 161 Sono necessari più dati per
un giudizio riguardo la popolazione Europea.
Un problema imminente è dimostrare che la prevenzione ed il controllo dell’iperglicemia postprandiale potrebbe determinare una riduzione nella mortalità, di CVD e ritardare l’insorgenza di
complicanze del diabete di tipo 2. Inoltre, occorre riconsiderare la metodica utilizzata per la diagnosi
di iperglicemia20. La maggior parte delle morti premature correlate a IGH si verificano nelle persone
con IGT, 15,19 evitando la necessità di aumentare l’attenzione verso le persone con iperglicemia a due
ore post-carico. Una prima tappa potrebbe essere sottoporre a screening sistematico tutti i soggetti ad
alto rischio (vedi capitolo successivo). La miglior modalità di prevenire le conseguenze negative
dell’iperglicemia sulla salute potrebbe essere prevenire lo sviluppo del diabete di tipo 2. Sono in corso
studi clinici controllati che valutano soggetti asintomatici con iperglicemia, ma i risultati saranno
disponibili solo tra qualche anno. Nel frattempo il solo modo per intraprendere decisioni d’intervento
clinico in questi soggetti è valutare la relazione tra i dati epidemiologici osservazionali e gli studi
patofisiologici.
Identificazione dei soggetti ad alto rischio per CVD e diabete
Raccomandazioni
La sindrome metabolica identifica soggetti ad elevato rischio di
CVD rispetto alla popolazione generale, anche se non può fornire
una previsione migliore o ugualmente valida del rischio
cardiovascolare posto sulla base dei fattori di rischio cardiovascolari
principali (pressione sanguigna, fumo e colesterolo nel siero).
Classe
Livello
II
B
I
A
Una valutazione sul rischio di sviluppare diabete tipo2 dovrebbe
essere eseguito di routine mediante le metodiche di calcolo dei
rischi a disposizione.
II
A
I pazienti senza un diabete noto ma con stabile malattia
cardiovascolare dovrebbe essere sottoposto ad OGTT.
I
B
Esistono molteplici mezzi di valutazione di rischio che possono
essere applicati sia agli oggetti non-diabetici che diabetici.
18
I soggetti ad alto rischio per diabete tipo 2 dovrebbero ricevere
appropriate consigli sulle modifiche dello stile di vita e se
necessario iniziare trattamento in grado di allontanare o rallentare la
comparsa del diabete. Questo potrebbe diminuire anche il rischio di
sviluppare CVD.
I pazienti diabetici dovrebbe essere invitati a effettuare attività fisica
al fine di ridurre il rischio cardiovascolare.
I
A
I
A
Tabella 8: Raccomandazioni
Sindrome Metabolica
Nel 1998 Reaven118 descrisse una sindrome sulla base del riscontro concomitante delle seguenti
anomalie: insulino resistenza, iperinsulinemia, iperglicemia, aumentate LDL-C, aumentati trigliceridi,
riduzione delle HDL-C ed ipertensione arteriosa. In seguito tale sindrome prese il nome di “sindrome
metabolica” 120. Più recentemente, alcune nuove componenti, sono stati proposte come appartenenti alla
sindrome, includendo i markers infiammatori, la microalbuminuria, l’iperuricemia, anomalie della
coagulazione e della fibrinolisi. 121
Definizione
Attualmente sono presenti non meno di cinque definizioni per la sindrome metabolica formulate da
WHO nel 1998122 (revisionata nel 19994); dall’EGIR (European Group for Study of Insulin Resistance)
nel 1999124,125, dal NCEP (National Cholesterol Education Programme), dall’ATPIII (Adult Treatment
Export Pannel III) nel 2001126,127, dal AACE ( American Association of Clinical Endocrinology) nel
2003128,129 e dal IDF (International Diabetes Federation) Consensus Panel nel 2005130. Le definizioni di
WHO e EGIR sono primariamente proposte per la ricerca, mentre le definizioni di NCEP e AACE per
l’utilizzo clinico. La definizione dell’IDF del 2005 ha come scopo la pratica clinica mondiale. Le
tabelle riportano le varie definizioni che sono presentate nel capitolo della patogenesi nella versione
integrale delle linee guida (www.escardio.org).
Gli studi sulla relazione tra la presenza della sindrome metabolica ed il rischio di mortalità e morbosità
sono ancora scarsi, in particolar modo la comparazione del rischio per le differenti definizioni della
sindrome.
Diversi studi in Europa hanno riportato che la presenza della sindrome metabolica aumentava il rischio
di mortalità per CVD e per tutte le cause131-134, ma un paio di lavori dagli USA hanno mostrato
evidenze inconsistenti. Sulla base dei dati di 2431 adulti americani di età compresa fra 30-75 anni
coinvolti nel secondo National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES II) si evidenziava
che la sindrome metabolica era associata con un moderato aumento del rischio di mortalità per CVD
ma non era significativamente associata con le altre cause, malattia coronarica o ictus136. Nello studio
San Antonio Heart Study, dopo aver escluso i soggetti affetti da diabete, il rischio relativo per tutte le
cause di morte era essenzialmente diminuito dal 1.45 (1.07-1.97) al 1.06 (0.71-1.58) con la definizione
NCEP e da 1.23 (0.90-1.66) a 0.81 (0.53-1.24) con la definizione WHO modificata137. Un recente
studio ha rivelato che la sindrome metabolica secondo i criteri NCEP ha un ridotto potere predittivo per
diabete di tipo 2 e CVD138. Lawlor e colleghi139 hanno mostrato di recente che le valutazioni
sull’effetto di ogni definizione della sindrome sono similari o più deboli rispetto al peso dei singoli
fattori suggerendo che c’è un minimo fattore prognostico aggiuntivo considerando i singoli fattori o
19
uniti come sindrome per predire la mortalità CVD. Sebbene ogni definizione di sindrome metabolica
includa diversi fattori di rischio, questi sono stati definiti dicotomici. Poiché una formula prognostica
non è in grado di predire la malattia cardiovascolare così accuratamente come un modello di rischio che
abbia come base delle variabili continue.
Tabelle di Rischio.
La prima tabella di rischio, Framingham Risk Score, è stata introdotta dal 1967, comprendendo la
maggior parte dei fattori conosciuti a quei tempi: sesso, età, pressione sistolica, colesterolo totale, fumo
di sigaretta, presenza di diabete. La versione più recente ha introdotto nel calcolo le HDL-C e ha tolto
la presenza d’ipertrofia ventricolare sinistra140. Le valutazioni del rischio Framinghan ed altre formule
sono state testate su differenti popolazioni141-149 e la conclusione degli studi di comparazione delle
differenti metodiche è che, mentre il rischio assoluto potrebbe differire da popolazione a popolazione, il
rischio relativo calcolato con lo stesso punteggio risulta costante fra le popolazioni.
La definizione di sindrome metabolica proposta dal NCEP ed il calcolo del rischio cardiovascolare col
metodo Framingham sono confrontabili per il rischio predittivo di sviluppare eventi cardiovascolari. I
dati provenienti dalla popolazione San Antonio Study138, mostravano che il calcolo del rischio
mediante Framinghan prediceva l’evento cardiovascolare in modo migliore rispetto alla sindrome
metabolica. Questo non ci sorprende considerando il fatto che il calcolo Framingham, diversamente
dalla sindrome metabolica, era stato preposto proprio al calcolo del rischio predittivo per lo sviluppo di
eventi cardiovascolari e che è differente dal momento che prende in considerazione come fattori di
rischio anche l’abitudine al fumo. Più recentemente l’European Heart Score, basato sugli eventi fatali, è
stato generato prendendo in considerazione i dati derivanti da più di 200.000 uomini e donne150,
inserendo nella formula la totalità dei fattori di rischio per CVD. Il diabete, non veniva ancora
considerato in questa coorte di soggetti; a causa di ciò non è stato inserto nella formula di calcolo del
rischio. È comunque risaputo che la presenza di diabete comporta per la persona un aumento del livello
di rischio. I risultati ottenuti da studi di coorte in particolare l’ampio studio Europeo DECODE rivelano
che entrambe la glicemia a digiuno sia la glicemia a due ore dal pasto sono un fattore di rischio
indipendente sia per tutte le cause sia per la mortalità e morbosità cardiovascolare anche nelle persone
senza diagnosi di diabete15,19,20,69. Il gruppo DECODE ha sviluppato un calcolo del rischio
cardiovascolare che è attualmente il solo di questi che include l’IGT o IFG nella determinazione del
rischio. 157
Sin dal 1982 nella relazione del WHO Expert Committee on Prevention of Coronary Heart Disease era
stata considerato di utilizzare strategie di popolazione per cambiare lo stile di vita ed eliminare i fattori
di rischio ambientali, cause fondamentali della massiccia incidenza di eventi cardiovascolari. Questa
idea è in linea col fatto che anche piccole riduzione a livello di popolazione nei pattern dei fattori di
rischio, poiché coinvolgono un ampio numero di persone, contribuiscono a migliorare la salute di
molti. 158 Un approccio simile è stato testato in Finlandia con successo158. Avendo come finalità la
salute pubblica, c’è la necessità di sviluppare un sistema di valutazione del rischio cardiovascolare
basato sulle informazioni facilmente a disposizione, similare a quello sviluppato per predire lo sviluppo
del diabete di tipo 2 in Finlandia32. Il Finnish Diabetes Risk Score (FINDRISC) predice lo sviluppo del
diabete di tipo 2 nei 10 anni successivi con una accuratezza dell’85%. Inoltre è in grado di individuare
la presenza di diabete asintomatico e di alterata tolleranza glucidica con un alta affidabilità anche in
altre popolazioni32,111. In aggiunta il FINDRISC predice l’incidenza di infarto miocardio e di ictus163. I
20
soggetti ad alto rischio individuati mediante un semplice sistema di calcolo possono essere sottoposti a
trattamento specifico, non solo per la prevenzione del diabete, ma anche per la prevenzione CVD.
Prevenire l’evoluzione a diabete
Lo sviluppo di diabete di tipo 2 è spesso preceduto da una varietà di alterazioni dello stato metabolico,
incluso l’intolleranza ai carboidrati, la dislipidemia e l’insulino resistenza170. Sebbene non tutti i
soggetti con tali alterazioni progrediscono verso un diabete, il loro rischio di sviluppare la malattia è
significativamente elevato. Studi clinici condotti in modo attento174-178 hanno dimostrato come le
strategie d’intervento che intervengano efficacemente sullo stile di vita e i trattamenti farmacologici
possano prevenire o ritardare l’insorgenza della progressione del diabete in soggetti ad alto rischio.
Nello studio Svedese Malmı, l’incremento dell’attività fisica e la perdita di peso sono in grado di
prevenire o ritardare l’esordio del diabete in soggetti con IGT riducendo il rischio a meno della metà
nel gruppo di controllo, durante i 5 anni di follow-up174.
In uno studio cinese pubblicato da Da Qing, 577 soggetti con IGT sono stati randomizzati in uno dei
seguenti quattro gruppi: solo esercizio fisico, solo dieta, dieta ed esercizio fisico e gruppo di
controllo175. L’incidenza cumulativa di diabete di tipo 2 nei sei anni era significativamente inferiore nei
tre gruppi di intervento rispetto al gruppo di controllo (41% nel gruppo esercizio, 44% nel gruppo dieta,
46% nel gruppo dieta ed attività fisica e 68% nel gruppo di controllo).
Nello studio Finnish Diabetes Prevention Study una riduzione del peso corporeo ≥ 5%, ottenuto tramite
un programma intensivo di dieta ed esercizio fisico, determinava una riduzione del 58% del rischio di
sviluppare diabete di tipo 2 (p<0.001) in uomini e donne di mezza età sovrappeso con IGT176. La
riduzione del rischio di progredire a diabete era direttamente proporzionale al grado di cambiamento
dello stile di vita, nessuno dei pazienti che ha raggiunto almeno quattro degli obbiettivi preposti in un
anno ha sviluppato diabete di tipo 2 durante il follow-up108,179.
Lo studio americano Diabetes Prevention Programme, metteva in confronto variazioni attive dello stile
di vita, metformina o uno stile di vita standard associato a placebo, evidenziando che le variazioni
dello stile di vita erano in grado di ridurre l’incidenza di diabete di tipo 2 di circa il 58% in adulti
americani in soprappeso ed IGT109. L’obbiettivo del programma era di ottenere una riduzione > 7% del
peso corporeo ed attività fisica di intensità moderata per almeno 150 minuti/settimana. L’incidenza
cumulativa di diabete trovata era rispettivamente pari a 4.8, 7.8, 11.0 casi per 100 soggetti/anno nel
gruppo dello stile di vita, nel gruppo in metformina e nel gruppo di controllo. Dopo tre anni di followup dei soggetti con IGT nel gruppo stile di vita si assisteva all’esordio di 1 caso di diabete su 7 soggetti
paragonato ad 1 caso su 14 nel gruppo in trattamento con metformina.
Alla luce di questi risultati, l’ADA e il National Institutes of Diabetes, Digestive and Kidney Diseases
(NIDDK) hanno raccomandato che le persone sopra i 45 anni con BMI >25 kg/m2 venissero valutate
per evidenziare una possibile iperglicemia. A coloro che presentano uno stato di pre-diabete
dovrebbero essere fornito un giusto counseling riguardo l’importanza di perdere peso mediante un
programma di variazione del regime dietetico e dell’attività fisica180. Inoltre, poiché i pazienti con
sindrome metabolica hanno un aumentato rischio cardiovascolare e di mortalità131,132,136, interventi
sullo stile di vita in pazienti obesi e in coloro che presentano obesità o iperglicemia sono candidati a
dare dei benefici in termine di miglioramento dello stato di salute e di aspettativa di vita. Il numero di
soggetti con IGT da trattare per prevenire un caso di diabete di tipo 2 mediante un intervento sullo stile
di vita è estremamente basso (Tabella 9).
21
Studio
Malmo174
DPS108
DPP109
DaQing175
Coorte
217
523
2161a
500
Media BMI
(kg/m2)
26.6
31.0
34.0
25.8
Durata (anni)
5
3
3
6
RRR (%)
63
58
58
46
ARR (%)
NNT
18
12
15
27
28
22
21
25
Tabella 9: Sommario delle scoperte di quattro studi di intervento di stile di vita che hanno puntato
sulla prevenzione del diabete tipo 2 in soggetti con IGT.
RRR =riduzione del rischio relativo; ARR = riduzione del rischio assuluto/1000 soggetti-anno;
NNT= numeri necessitarono di trattamento per prevenire un caso di diabete a più di 12 mesi.
a
unione dei gruppi di soggetti in placebo, dieta e attività fisica.
In un recente lavoro Indian Diabetes Prevention Programme (IDPP), sia la modifica dello stile di vita
sia l’utilizzo di metformina mostravano la stessa capacità nel ridurre l’incidenza di diabete, ma
l’associazione di questi due possibili trattamenti non comportava un ulteriore vantaggio.
Lo studio Diabetes Reduction Assesment con ramipril e rosiglitazone Medication (DREAM)268,318, uno
studio prospettico, si proponeva di testare se questi due farmaci fossero in grado di ridurre la comparsa
di diabete in soggetti con intolleranza ai carboidrati, alterata glicemia a digiuno o entrambe le
condizioni.
L’end-point primario era la comparsa di diabete o la mortalità per tutte le cause. Dopo un periodo
medio di follow-up di tre anni, l’incidenza di questi end-point non differiva in modo significativo tra
ramipril e placebo (18.1% vs 19.5% HR 0.91, 95% IC 0.81-1.03). Il Rosiglitazone al contrario
determinava una riduzione significativa (11.6%) rispetto al placebo (n=688; 26%; HR 0.40; 0.35-0.46;
p<0.0001). Benché era prevedibile l’efficacia del rosiglitazone sulla possibilità di sviluppare diabete
nelle persone con alterata omeostasi glicemica, considerando la sua nota capacità ipoglicemizzante, la
totalità degli eventi cardiovascolari non differiva significativamente tra rosiglitazone e placebo. Nel
gruppo in trattamento con rosiglitazone però si è verificato un aumento significativo del peso corporeo
(p<0.0001) ed un aumento dei casi di insufficienza cardiaca (0.5vs 0.1%; p<00.1). Lo studio DREAM
non era stato pensato e non aveva la potenza adeguata per valutare la comparsa di eventi
cardiovascolari che avrebbero richiesto un periodo maggiore di studio. Un lungo follow-up è stato
necessario per valutare se gli effetti glicometabolici del rosiglitazone sulla glicemia si mantenevano
solo finché il trattamento continuava o se si mantenevano più a lungo. Perciò il rosiglitazone non può,
finché non ci saranno ulteriori evidenze, essere utilizzato come farmaco appropriato per ridurre il
rischio CVD in soggetti con alterata omeostasi glicemica. L’Indian Diabetes Prevention Programme
dimostrava che le modifiche sullo stile di vita e la metformina prevengono il diabete di tipo 2 nei
soggetti asiatici con IGT (IDPP-1). 37
Recenti dati dello studio STOP-NIDDM hanno suggerito per la prima volta che eventi cardiovascolari
acuti nelle persone con IGT potrebbero essere prevenuti mediante un trattamento atto a ridurre la
glicemia post-prandiale70. In più i dati basati su NHANES III avevano mostrato in persone con
sindrome metabolica (in assenza di diabete o CAD) che il controllo delle LDL-C, del HDL-C e della
pressione arteriosa a livelli normali può prevenire il 51% degli eventi coronarici negli uomini e il 43%
nelle donne; il controllo di tali fattori di rischio a valori ottimali potrebbero portare alla prevenzione
dell’81 e 82% degli eventi, rispettivamente183.
22
Prevenzione CVD tramite l’attività fisica
Gli studi che valutano l’associazione tra attività fisica ed il rischio di mortalità cardiovascolare nei
soggetti affetti da diabete indicano che la regolare attività fisica è associata ad una riduzione della
mortalità totale e CVD186-191. Nello studio Aerobic Center Longitudinal, il gruppo con scarsa attività
fisica ha avuto un elevato rischio di mortalità rispetto al gruppo che praticava attività fisica186. Altre
tipologie di attività fisica, quali le attività quotidiane casalinghe o lavorative, le passeggiate a piedi o in
bicicletta, sono state anch’esse associate alla riduzione della mortalità cardiovascolare tra i pazienti
diabetici191. Le persone in movimento sul lavoro hanno ottenuto una riduzione del 40% della mortalità
cardiovascolare rispetto ai soggetti con attività lavorative sedentarie. Rispetto al gruppo di soggetti
sedentari i soggetti che eseguono livelli elevati di attività fisica nel tempo libero presentano una
diminuzione del 33% della mortalità cardiovascolare, e quelli con un attività moderata del 17%.
Praticando uno, due o tre tipi di attività fisica, lavoro moderato/intenso, pendolari, e durante il tempo
libero si riduce significativamente la mortalità totale e cardiovascolare190. Perciò la riduzione del
rischio cardiovascolare ottenuto con l’attività fisica potrebbe essere confrontata con quella ottenuta
mediante trattamento farmacologico prescritto al paziente con diabete di tipo 2. L’ADA, NCEPP, IDF
hanno raccomandato l’attività fisica come prevenzione primaria e secondaria delle complicanze
cardiovascolari tra i soggetti con diabete127,193,194. Il livello di attività fisica può essere assegnato
mediante questionari o contapassi. La cosa di maggior importanza è che venga praticata e che gli
operatori sanitari motivino i pazienti con diabete a praticare attività fisica.
Trattamento per ridurre il rischio cardiovascolare
Stile di vita ed gestione
Raccomandazioni
L’educazione sistematica dei pazienti migliora il controllo
metabolico e i valori pressori.
Classe
I
Livello
A
Il trattamento non farmacologico dello stile di vita migliora il
controllo metabolico.
I
A
Controllo vicino a valori di normoglicemi (HbA1c <6.5%) riduce le
complicanze microvascolari, riduce le complicanze macrovascolari.
I
A
Il trattamento insulinico intensivo nel diabete tipo 1 riduce la
morbidità e mortalità.
I
A
Precoce aumento di terapia verso gli obbiettivi predifiniti migliora
morbidità e mortalità.
IIa
B
Precoce inizio del trattamento insulinico dovrebbe essere preso in
considerazione nel paziente con diabete tipo 2 con fallimento
terapeutico.
IIb
C
23
La metformina è raccomandata come primo trattamento nel soggetto
con diabete tipo2 in sovrappeso.
IIa
B
Tabella 10: Raccomandazioni
L’iperglicemia cronica come si verifica sia nel diabete di tipo 1 che nel tipo 2 è fortemente associata
con specifiche complicanze microvascolari a carico della retina e dei reni e con malattie macrovascolari
del cuore, encefalo e arti inferiori e neuropatia del sistema nervoso autonomico e periferico286-294. Gli
eventi macrovascolari sono circa 10 volte più comuni che le complicanze microvascolari e possono
verificarsi con alta frequenza nei pazienti con alterazioni glicometaboliche già prima dell’esordio del
diabete di tipo 2295-297. L’iperglicemia è solo uno di un insieme dei fattori di rischio vascolari che
spesso si associano alla sindrome metabolica.118,131,135,300 Perciò le modalità di trattamento basate sulla
terapia non farmacologica devono essere abbastanza complesse e efficaci includendo le modifiche dello
stile di vita, l’auto-controllo ed una educazione del paziente strutturata301-305. Questa deve includere una
forte motivazione a cessare il fumo.
Precedentemente alla randomizzazione, i pazienti arruolati nello studio UKPDS sono stati seguiti per
tre mesi senza alcun trattamento farmacologico. Al termine hanno riportato un calo ponderale di circa 5
kg, una diminuzione nell’HbA1c del 2% ed un valore assoluto pari al 7%303. Perciò, un trattamento non
farmacologico sembra essere almeno parimenti efficace alla terapia con ipoglicemizzanti, con la quale
il valore medio del decremento dell’HbA1c è compreso tra 1-1.5% in studi placebo-controllo
randomizzati (Tabella 5).
Farmaco
Inibiori Alpha-glucosidase
Media dei valori di iniziale diminuizione di HbA1c
(%)
0.5–1.0
Biguanini
1.0–1.5
Glinidi
0.5–1.5
Glitazonici
1.0–1.5
Insulina
1.0–2.0
Sulfanilurea
1.0–1.5
Tabella 11: media efficacia delle opzioni di trattamento farmacologico nei pazienti affetti da diabete 253,54,331
Le specifiche raccomandazioni includono almeno 30 minuti di attività fisica al giorno per cinque giorni
alla settimana, dieta ipocalorica a 1500 Kcal/die, riduzione del consumo di grassi al 30-35 % del totale
delle calorie giornaliere (10% per gli acidi grassi insaturi, es. olio d’oliva), eliminazione degli acidi
grassi trans, aumento del consumo di fibre a più di 30g/die ed eliminazione dei mono- e
disaccaridi108,109,301,303,307,308.
La stratificazione del rischio per le patologie associate quali ipertensione, dislipidemia,
microalbuminuria è mandataria per la valutazione nel suo insieme del paziente diabetico131,135,275,298-300.
Il riconoscimento di una sottostante insulino resistenza con aumento del deposito di grasso viscerale è
la chiave di volta per un appropriato trattamento non solo per l’iperglicemia ma anche per
l’ipertensione e la dislipidemia269-300.
24
Usando questo approccio nei pazienti ad elevato rischio con diabete di tipo 2 e applicando l’intervento
su multipli fattori di rischio, come nello studio Steno 2, si è ottenuto un estremo miglioramento
generale309. Il trattamento ottimale di iperglicemia, ipertensione e dislipidemia insieme all’utilizzo di
acido acetilsalicilico nei pazienti ad alto rischio con microalbuminuria, comporta l’abbassamento di
oltre il 50% degli eventi macrovascolari per un tempo di benessere (NNT) minimo di 5 anni fino ad un
massimo di 8 anni (p=0.008). Questo intervento su molteplici fattori di rischio si mostra altamente
efficace in termini di diminuzione della comparsa di eventi microvascolari in meno di quattro anni,
confermando di conseguenza i dati dello studio UKPDS. Finora la capacità di raggiungere gli obbiettivi
proposti dallo Steno2 era lontana da essere completa e sorprendentemente variabile. Di gran lunga il
target più difficile da raggiungere è stato l’HbA1c. (Figura 4).
Figura 3: percentuale di pazienti che hanno raggiunto l'obbiettivo predefinito del trattamento intensivo nello studio
STENO 2 ( modificato da Gaede et al. 309).
Questa concetto era già noto nell’UKPDS71,291, promuovendo il concetto della necessità di un
trattamento polifarmacologico per il controllo glicemico, come per il trattamento antipertensivo.
Raggiungere i target è l’obbiettivo cruciale di una gestione globale. In questo contesto ogni paziente
diabetico con evidenza di una danno vascolare, sia essa macrovascolare o microvascolare, dovrebbe
essere posto in trattamento antiaggregante in particolare con acido acetilsalicilico309,310. Ulteriori
dettagli sui livelli di target si trovano nella Tabella 13. Dovrebbe essere risaputo che si deve evitare il
fallimento nel raggiungimento dei livelli ottimali di HbA1c e che è essenziale il rapido potenziamento
del trattamento antidiabetico. Per limitare il divario tra i bisogni complessi di una gestione globale in
soggetti diabetici di tipo 2 ad alto rischio e pluricomplicati e le prove della vita quotidiana, è
necessario un counseling intensivo dei pazienti. 304,305 A questi pazienti molto spesso sono prescritti
più di dieci farmaci di diverse classi oltre al cambiamento dello stile di vita. Terapie strutturate, che
includano classi educazionali e programmi di training per acquisire la capacità di avere uno stile di vita
sano e di effettuare l’automonitoraggio glicemico e della pressione.304,305,310-312 Una revisione reciproca
dell’automonitoraggio ad ogni visita del paziente permette sia ai medici che ai pazienti di cooperare nel
trattamento. Il personale paramedico, come educatori certificati nel campo diabetologico e infermieri,
dovrebbero aver un ruolo in questo processo di qualità. Una gestione integrata dei pazienti diabetici
richiede una struttura di valutazione della qualità con processi di revisione di valutazione degli
25
obiettivi. Una gestione certificata di qualità dovrebbe essere ribadita tramite appropriati incentivi sia
per il paziente che per il medico.
Controllo Glicemico
Relazione tra microangiopatia e neuropatia.
Studi controllati e randomizzati hanno fornito prove che la microangiopatia diabetica e la neuropatia
possono essere ridotte tramite uno stretto controllo glicemico71,286,287,291,309,314. Questo stretto controllo
potrà influenzare in modo benefico la comparsa di CVD 288-291,295. La nefropatia accelera la malattia
cardiovascolare e la neuropatia diabetica può mascherare la sintomatologia. E’ obbligatorio effettuare
lo screening annuale della microalbuminuria e della retinopatia.
Quando il trattamento intensivo viene confrontato con il trattamento convenzionale, con lo scopo di
abbassare l’emoglobina glicata vicino al limite di normalità, il trattamento intensivo viene
costantemente associato ad una diminuzione marcata della frequenza e della comparsa delle
complicanze microvascolari e neuropatiche nelle persone affette sia da diabete di tipo 1 che di tipo 2.
Questo dato si verifica non solo per interventi di prevenzione primaria ma anche di prevenzione
secondaria71,286,287,314. Le analisi ottenute dagli studi Diabetes Control and Complication Trial (DCCT)
e dall’UKPDS hanno dimostrato l’esistenza di un rapporto continuo tra i valori di l'HbA1c e le
complicanze microangiopatiche senza alcun apparente soglia di beneficio287,295. Nello studio DCCT,
una riduzione di HbA1c del 10% è stato associata ad un 40-50% di riduzione del rischio di retinopatia
o della sua progressione, anche se la riduzione del rischio assoluto era sostanzialmente inferiore per
valore più bassi di HbA1c, es. < 7.5%.
L'UKPDS ha mostrato una relazione lineare per ogni 1.0% di riduzione del livello di HbA1c associato
ad un riduzione del 25% del rischio di complicanze microvascolari, definendo nuovamente un basso
rischio assoluto per livelli di HbA1c <7.5%. Le complicanze microvascolari, sia esse a livello renale sia
esse a livello della retina necessitano di misure terapeutiche meticolose e mirate, comprendenti un
controllo adeguato della pressione del sangue mediante l'uso di ACE inibitori e/o bloccanti il recettore
2 dell’angiotensina e la cessazione del fumo.
Relazione con la macroangiopatia
Sebbene piuttosto suggestiva, la relazione tra la malattia macrovascolare e l’iperglicemia è meno chiara
rispetto alla microangiopatia71,286,288,295,309,310,314. Il recente follow-up del DCCT di oltre 11 anni (EDIC
Study) ha dimostrato che l’assegnazione in modo randomizzato, di uno stretto controllo glicemico
(media HbA1c vicina al 7% nel corso dei primi 7-10 anni) ha efficacemente ridotto gli eventi
cardiovascolari da 98 eventi in 52 pazienti a 46 eventi in 31 pazienti, corrispondente ad una
diminuzione del 42%316. Il rischio di infarto miocardico ed ictus, come pure il rischio di mortalità da
CVD, è stata ridotto del 57%. Questo importante riscontro è stato basato sul follow-up del 93% di una
originale coorte di 1441 pazienti con diabete di tipo 1. L'unico fattore di confondimento significativo è
stato un più elevato tasso di microalbuminuria e macroproteinuria nel gruppo di controllo (complicanza
che dipende dal proprio controllo glicemico). Dal punto di vista statistico, la riduzione di HbA1c è stata
di gran lunga il fattore più importante per la riduzione della CVD con un 21% di riduzione per ogni
diminuzione di punto percentuale dell’HbA1c. Nel diabete di tipo 2, come dimostra l'UKPDS, ogni
26
punto percentuale di declino dell’HbA1c ha causato una riduzione pari al 14% del tasso d’incidenza
d’infarto del miocardio e un minor numero di decessi per diabete o per qualsiasi causa71,295 Nello
studio di Kumamoto, un livello più basso di HbA1c (7.0 vs 9.0%) ha comportato una riduzione del
tasso d’incidenza cardiovascolare per oltre 10 anni a meno della metà rispetto al gruppo di controllo.
Questa differenza non ha, tuttavia, raggiunto la significatività statistica a causa delle piccole dimensioni
del campione315.
Quasi tutti gli studi osservazionali prospettici per valutare il rischio della malattia macrovascolare nel
diabete hanno dimostrato che tale rischio è aumentato già a livelli di glicemia leggermente al di sopra
del range di normalità o anche per valori ai limiti superiori292,295-297. In particolare, i livelli plasmatici di
glucosio 2 ore dopo il carico di glucosio sembrano essere altamente predittivi per eventi
cardiovascolari, maggiormente rispetto ai valori di glicemia a digiuno15,62,63,178.
La riduzione della glicemia post-prandiale per mezzo di un inibitore dell’alfa-glucosidasi – ha ridotto in
modo evidente l'insorgenza del diabete di tipo 2 nei soggetti con IGT, durante il periodo di studio, vi è
stata inoltre una riduzione degli eventi cardiovascolari. Il numero di eventi è stata, tuttavia, di
dimensioni relativamente piccole, e anche se significativi, questi risultati devono essere interpretati con
grande cautela 70,178 L’analisi Post Hoc di studi clinici randomizzati in pazienti con diabete di tipo 2,
utilizzando lo stesso inibitore dell’alfa-glucosidasi, e con periodi di follow-up di almeno 1 anno ha
confermato queste considerazioni nella condizione di portare a target i valori di iperglicemia postprandiale73. L’insulina resistenza è un altro forte fattore predittivo di CVD131,135,300. Inoltre, elementi
della sindrome metabolica come la pressione alta o anomalie lipidiche sono state attenuate anche
dall’intervento scelto in questi studi319. Su questa falsariga, riducendo sia la resistenza insulinica che
l’HbA1c, come nello studio PROACTIVE, si è ottenuta una riduzione del 16% (in valori assoluti
differenza 2,1%; NNT= 49) degli eventi cardiovascolari come morte, infarto miocardico, e stroke 320.
Relazione con sindromi coronariche acute
Molteplici studi indicano che un prelievo casuale di glicemia nel paziente ricoverato per una sindrome
coronarica acuta (ACS) è fortemente correlato con l’outcome a breve e/o a lungo termine di questi
pazienti393,321-324. Elevate concentrazioni di glucosio nelle persone affette da diabete, incluse coloro
senza diagnosi precedente, sono altamente predittive per un peggiore esito sia ospedaliero che in
seguito 319-324. L’importante studio, Diabetes Glucose And Myocardial Infarction (DIGAMI), condotto
nei pazienti con una ACS che presentavo iperglicemia all’ingresso posti in modo randomizzato in
infusione con glucosata ed insulina. Entro 24 ore, la glicemia veniva significativamente diminuita nel
gruppo di intervento, con l’obiettivo di mantenerla significativamente più bassa durante l’anno
successivo. Questa differenza ha portato ad ottenere una riduzione del 11% della mortalità in valore
assoluto, mostrando un NNT di nove pazienti per una vita salvata. L’effetto benefico era ancora
evidente dopo 3.4 anni, con un relativa riduzione della mortalità del 30%323,325. Lo studio DIGAMI 2
ha confermato che il controllo glicemico è altamente predittivo per il tasso di mortalità nei due anni
successivi, ma non ha mostrato alcuna differenza clinicamente rilevante tra i diversi regimi per la
riduzione della glicemia326. Un recente studio pubblicato, tuttavia, con un follow-up di soli 3 mesi ha
confermato che la media di glicemia raggiunta è rilevante per la mortalità nei pazienti diabetici post
infartuati, mentre la terapia insulinica di per sé non determina una riduzione della mortalità66.
Il trattamento dell’iperglicemia acuta nei pazienti diabetici con ACS è stato introdotto anche nel
registro Schwabing Myocardial Infarction. A condizione che tutti gli altri potenziali interventi sono
27
stati ugualmente applicati ai pazienti non diabetici e diabetici, la mortalità nelle 24 ore tra i pazienti
diabetici è stata normalizzata per il totale dei decessi in ospedale, lo stesso è stato fatto per i pazienti
con e senza diabete327.
Approccio terapeutico attuale al controllo glicemico
Nel diabete di tipo 1, il gold standard terapeutico è il trattamento insulinico intensivo, basato su di un
corretto regime dietetico e sull’automonitoraggio glicemico con l’obbiettivo di portare l’HbA1c a valori
<7%. Gli episodi ipoglicemici necessitano di essere presi se si considera questo obiettivo, e gli episodi
ipoglicemici gravi dovrebbero essere limitati al di sotto di 15/100 paziente anno310.328.
Nel diabete di tipo 2, un approccio terapeutico comune è meno generalmente accettato. Varie
associazioni diabetologiche hanno posto come obiettivo valori di HbA1c < 7,0 o 6.5%310,328,329
(Tabella 12).
Organizzazione HbA1c
ADA
IDF-Europa
AACE
<7
<6.5
<6.5
FPG
Post-prandial PG
[mmol/L(mg/dl)] [mmol/L(mg/dl)]
6.7 (120)
<6.0 (108)
<6.0 (108)
<7.5 (135)
<7.8 (140)
Tabella 12: Obbittivi glicemici per la cura dei pazienti con diabete come raccomandati dalle varie organizzazioni
107,110,420.
FPG= glicemia a digiuno; Post-prandial PG= glicemia a 2h dal pasto.
Purtroppo, solo una minoranza dei pazienti ha raggiunto gli obiettivi preposti durante il follow-up a
lungo termine in studi come l’UKPDS o Steno 271,309.
Il più grande progresso nel trattamento del diabete di tipo 2 ottenuto negli ultimi anni è l’avvento della
terapia combinata, originariamente proposta dallo studio UKPDS330. Il concetto di terapia combinata è
stato proposto con l’intento di aumentare l’efficacia e diminuire gli eventi avversi.
Questa idea si basa sul fatto che un dosaggio medio produce l’80% dell'effetto di riduzione della
glicemia, riducendo al minimo il potenziale degli effetti collaterali come l'aumento di peso, disturbo
gastrointestinale, ed il rischio di ipoglicemia331. Ciò include l’introduzione precoce del trattamento
insulinico, se il farmaco ipoglicemizzante orale alla dose ottimale od in combinazione, associato ad un
adeguato stile di vita, non permette di raggiungere l’obbiettivo. I principali determinanti per la scelta
del trattamento sono il BMI e il rischio di ipoglicemia, insufficienza renale, insufficienza cardiaca
331
(Tabella 13).
Problema
Aumento di peso
Sospensione o rivalutazione
Sulfanilurea, glinidi, glitazonici, insulina.
Sintomi gastroenterici
Biguanidi, inibitori alfa-glucosidase
Ipoglicemia
Sulfanilurea, glinidi, insulina.
28
Altaerazione funzione ranale
Biguanidi, sulfaniluree
Alterazione funzione epatica
Glinidi, glitazonici, biguanidi, inibitori alfaglucosidase.
Alterazione funzione cardio-polmonare
Biguanidi, glitazonici
Tabella 13: potenziali effetti indesiderati del trattamento farmacologico nei pazienti con diabete tipo2.
Edema e le alterazioni del profilo lipidico necessitano di altre considerazioni.
Inoltre, lo stadio della malattia e il relativo fenotipo metabolico331-334 principale dovrebbero essere
considerati quando si vuole personalizzare la terapia per il singolo paziente. Una strategia per
selezionare tra le varie possibilità terapeutiche atte a ridurre la glicemia sulla base di un presupposto o,
se disponibile, sulla conoscenza dettagliata della situazione metabolica è delineata nella Tabella 14.
Iperglicemia post-prandiale
Inibitori alfa-glucosidase, sulfaniluree ad azione
rapida, glinidi, insulina rapda o analoghi
d’insulina.
Iperglicemia a digiuno
Biguanidi, sulfaniluree ad azione prolungata,
glitazonici, insulina long acting.
Insulino resistenza
Biguanidi, glitazonici, inibitori alfa-glucosidase.
Deficit insulinico
Sulfaniluree, glinidi, insulina
Tabella 14: strategie di trattamento per la riduzione della glicemia in considerazione della situazione
glicometabolica.
L'uso della metformina sta emergendo come una importante opzione sia in monoterapia che
combinata anche con l'insulina, purché non ci siamo controindicazioni al suo utilizzo291.
Il successo della terapia ipoglicemizzante combinata richiede attento automonitoraggio della glicemia
per garantire che gli obiettivi metabolici vengano raggiunti. D’altra parte anche in questo caso, il
regime di automonitoraggio dipende dalla scelta della terapia utilizzata ed dal fenotipo metabolico.
Ovviamente, quando l’obiettivo è la normoglicemia, occorre tener conto oltre che della glicemia a
digiuno anche dei valori di glicemia post-prandiale.
Monnier e collaboratori313 hanno dimostrato che per conseguire un buon controllo della glicemia,
HbA1c <8%, è necessaria per ridurre l’escursioni glicemiche postprandiali, vale a dire che non sarà
sufficiente trattare unicamente le glicemie a digiuno. Il monitoraggio della glicemia è vantaggioso
anche nei pazienti con diabete di tipo 2 senza trattamento insulinico, come evidenziato dalla recenti
metanalisi311,312.
Ci sono sempre maggiori evidenze che dimostrano che avere un obiettivo vicino ai livelli normali di
glicemia è utile per ridurre l’insorgenza di CVD nei soggetti con diabete. La valutazione sull’efficacia
per la prevenzione primaria attende ancora conferma. I valori glicemici raccomandati per la maggior
parte delle persone con diabete di tipo 1 e tipo 2 sono elencati nella Tabella 12. I trattamenti
29
dovrebbero, tuttavia, essere adeguati alle esigenze individuali, in particolare va tenuto conto del rischio
di ipoglicemia e di altri effetti collaterali della terapia.
Dislipidemia
Raccomandazioni
Elevate LDL-C e basse HDL-C sono inportanti fattori di rschio nei
soggetti affetti da diabete mellito.
Classe
I
Livello
A
Le statine sono farmaci di prima scelta per la riduzione di LDL-C
nei pazienti con diabete.
I
A
Nel paziente con diabete associato a CVD, la terapia statinica
dovrebbe essere iniziata al momento con un target terapeutico di
<1.8-2.0mmol/L (<70-77 mg/dl).
I
B
La terapia statinica dovrebbe essere considerata nel soggetto adulto
con diabete tipo2 senza CVD quando il colesterolo totale
è>3.5mmol/L (>135mg/dl) con un target terapeutico di riduzione
delle LDL-C del 30-40%.
IIb
B
IIb
C
IIb
B
Considerato l’elevato rischio CVD è opportuno considerare
trattamento statinico nel soggetto con diabete tipo 1 con età > 40
anni. Nel paziente di età compresa 18-39 anni ( diabete tipo1 e
tipo2), il trattamento statinico dovrebbe essere preso in
considerazione quando oltre ai fattori di rischio sono presenti:
nefropatia, scarso controllo glicemico, retinopatia, ipertensione,
ipercolesterolemia, caratteri della sindrome metabolica, familiarità
per malattie vascolari giovanili.
Nel paziente diabetico con ipertrigliceridemia >2mmol/L
(>177mg/dl), anche dopo raggiungimento del target per LDL-C
mediante statine, la terapia con statina dovrebbe essere aumentata al
fine di raggiungere il secondo target di riduzione del non-HDL-C.
In alcuni casi la terapia combinata con l’aggiunta di ezetimibe,
acido nicotinico, o fibrati dovrebbe essere considerata.
Tabella 15: Raccomandazioni
Background ed epidemiologia
Come parte della sindrome metabolica e della condizione di pre-diabete, la dislipidemia è spesso
presente al momento della diagnosi di diabete di tipo 2. La dislipidemia persiste nonostante l'uso della
terapia ipoglicemizzante e richiede una terapia specifica con dieta, stile di vita, e farmaci
ipolipemizzanti. Tipicamente, vi è moderata ipertrigliceridemia, basso colesterolo HDL, e anormale
assetto lipidico post-prandiale. I livelli di colesterolo totale e di LDL-colesterolo sono simili a quelli
30
rilevati nei soggetti senza diabete; tuttavia, le particelle di LDL colesterolo sono piccole e dense,
condizione associato ad un aumentato dell’aterogeneità, vi è accumulo di particelle remnant ricche in
colesterolo, che sono anch’esse aterogeniche.
La dislipidemia è un’alterazione comune nel diabete di tipo 2. Nello studio Botnia (4483 uomini e
donne di età compresa tra 35-70 anni; 1697 soggetti con Diabete e 798 soggetti con IFG), la prevalenza
di bassi livelli di colesterolo HDL [<0,9mmol/L (35mg/dl) negli uomini e <1.0mmol/L (39 mg/dl) in
donne] e/o di elevati trigliceridi plasmatici [>1.7 mmol/L (151 mg/dl)] era fino a tre volte più elevata
nei soggetti con diabete e di due volte superiori nei soggetti con IFG rispetto a coloro con normale
tolleranza ai carboidrati. 131 In questo e in altri studi, la prevalenza di dislipidemia era più evidente nelle
donne rispetto agli uomini.
Dislipidemia e rischio vascolare
Sebbene le concentrazioni del colesterolo totale e di colesterolo LDL nei pazienti con diabete di tipo 2
sono analoghe a quelle di soggetti senza diabete, essi sono importanti fattori di rischio vascolari335-337.
I dati osservazionali dello studio UKPDS hanno dimostrato che un aumento di 1 mmol/L (38,7 mg/dl)
di colesterolo LDL è stato associato con un aumento del 57% di eventi CVD. Basse concentrazione di
HDL-c erano anche un importante fattore predittivo di alterazioni vascolari nello studio UKPDS, un
aumento di 0.1 mmol/L (4 mg/dl) del colesterolo HDL, si associava ad un calo del 15% degli eventi
CVD336. La correlazione indipendente di elevati trigliceridi plasmatici ed il rischio CVD rimane
controversa. Tuttavia, date le complesse interazioni tra i trigliceridi e le altre lipoproteine e le inerenti
variazioni di concentrazioni dei trigliceridi, è chiaro che l'indipendenza della determinazione del
rapporto trigliceridi/malattia vascolare mediante modello matematico, quale l’analisi di regressione
multivariata, è suscettibile di essere densa di problemi. In una meta-analisi di popolazione basata su
studi di coorte, la media per eccesso del rischio associato ad un aumento dei trigliceridi di 1 mmol/L
(89 mg/dl) era del 32% negli uomini e del 76% nelle donne338. Quando questo dato veniva aggiustato
per la concentrazione di HDL-C, l'eccesso di rischio veniva dimezzato al 37% nelle donne e al 14%
negli uomini, ma rimane statisticamente significativo.
Elevate concentrazioni di trigliceridi e bassi livelli di colesterolo HDL sono stati correlati
significativamente a tutte gli eventi coronarici ed alla mortalità cardiovascolare in una vasta coorte di
pazienti con diabete di tipo 2 seguita per 7 anni339.
Benefici del trattamento con statine
Prevenzione Secondaria
Sebbene non siano stati effettuati grandi studi per la prevenzione secondaria in una specifica
popolazione diabetica, vi è sufficiente evidenza da analisi Post hoc, in un sottogruppo di oltre 5000
pazienti con diabete, reclutati nei principali studi clinici, per concludere che essi mostrano simili
benefici nella riduzione degli eventi (entrambi gli eventi coronarici e ictus), come i pazienti non affetti
da diabete.
Dallo Scandinavian Simvastatina Survival Study (4S) sono stati riportati due analisi Post hoc,
coinvolgenti pazienti affetti da diabete. In questo studio, la simvastatina veniva confrontata al placebo,
in pazienti (n =4444), con nota CAD e livelli di colesterolo totale tra 5.5 e 8 mmol/L (193 e 309 mg/dl)
341
. Al basale, erano noti per diabete 202 pazienti (età media 60 anni, 78% maschi), un piccolo numero
ed una popolazione diabetica atipica dal momento che erano ipercolesterolemici e che livelli di
trigliceridi basali erano relativamente bassi <2.5 mmol/L (220 mg/dl). I cambiamenti del profilo
31
lipidico in questo sottogruppo di diabetici sono stati similari a quelli osservati nella popolazione
generale. La terapia con simvastatina è stata associata ad una riduzione del 55% degli eventi coronarici
maggiori (P=0.002). Il numero di pazienti diabetici era insufficiente per esaminare l'impatto della
simvastatina sull’obiettivo primario della mortalità generale, anche se c'è stato una riduzione del 43%
non significativa342. Una ulteriore analisi dello studio 4S ha identificato 483 pazienti diabetici mediante
la glicemia a digiuno. In questa coorte, c’era un riduzione significativa del 42% degli eventi coronarici
e una riduzione delle rivascolarizzazione del 48%343. Questi primi risultati sono stati confermati da
successivi studi clinici di prevenzione secondaria, in particolare Heart Protection Study (HPS; Tabella
9). È chiaro che i pazienti con diabete mostrano una riduzione del rischio relativo simile ai soggetti non
diabetici.
Dato il più elevato rischio assoluto in questi pazienti, l’NNT per prevenire un evento CVD è più basso.
Comunque il rischio residuo nei pazienti diabetici rimane elevato nonostante la terapia con statine,
sottolineando la necessità di un approccio combinato che, come indicato altrove in questi linee guida,
va al di là della riduzione del colesterolo.
Quando i risultati degli studi clinici con statina sono legati al grado di riduzione delle LDL-C, i risultati
mostrano una forte relazione lineare. Più recentemente, è stato testato il vantaggio potenziale di
raggiungere concentrazioni di colesterolo LDL inferiori al livello precedentemente raggiunto. Nello
studio Pravastatin or Atorvastatina Evaluation and Infection Therapy (PROVE-IT), la terapia standard
con statine (pravastatina 40 mg/die) è stato confrontato con una terapia intensiva (atorvastatina 80
mg/die) in 4162 pazienti entro 10 giorni da un ACS, per un follow-up medio di 24 mesi345.
La terapia intensiva [raggiungeva valori medi di LDL di 1.6 mmol/L (62 mg/dl)], veniva associata ad
una significativa riduzione degli eventi cardiovascolari, confrontata alla terapia standard [LDL 2,5
mmol/L (97 mg/dl)]. Lo studio PROVA-IT ha incluso 734 pazienti diabetici (18%) e in questo
sottogruppo non è stato riscontrato alcun effetto di eterogeneità.
Il Treat to New Targets Trial (TNT), ha riportato gli effetti della terapia intensiva con statina
(atorvastatina 80 mg/die) confrontato con la terapia standard (atorvastatina 10mg/die) in 10.001
pazienti con CAD nota346. Il trattamento intensivo [valori medi di colesterolo LDL 2.0 mmol/L (77 mg/
dl)] era associato ad una riduzione del rischio del 22%, rispetto alla terapia standard [valori medi di
colesterolo LDL 2.6 mmol / L (101 mg/dl)], con una mediana di follow-up di 4.9 anni. In una recente
analisi di un sottogruppo del TNT, i risultati del trattamento intensivo rispetto allo standard, venivano
riportati su 1.501 pazienti affetti da diabete in terapia con atorvastatina, di cui 735 hanno ricevuto
atorvastatina 10 mg/die e 748 atorvastatina 80 mg/die. Alla fine del trattamento i livelli medi di
colesterolo LDL sono stati 2.6 mmol/L (99 mg/dl), con atorvastatina 10 mg e 2.0 mmol/L (77 mg/dl),
con atorvastatina 80 mg die. Un evento primario avveniva in 135 pazienti (17.9%) che ricevevano
atorvastatina 10 mg rispetto ai 103 pazienti (13.8%) che ricevevano atorvastatina 80 mg di (rapporto di
rischio 0.75; P = 0.026). Differenze significative tra i gruppi a favore di atorvastatina 80 mg sono state
osservate anche per gli eventi cerebrovascolari [0.69 (0.48-0.98), P = 0.037], e per ogni evento
cardiovascolare [0.85 (0.73-1.00), P = 0.044] 181.
Obiettivi della terapia per la prevenzione secondaria.
Sulla base delle evidenze emerse dagli studi randomizzati controllati, the Third Joint European
Societies Task Force On Cardiovascular Disease Prevention In Clinical Practice347 raccomanda per i
32
pazienti con CVD il trattamento al fine di raggiungere gli obiettivi stabiliti di colesterolo totale <4,5
mmol / L (174 mg/dl) e il colesterolo LDL < 2.5 mmol /L (97 mg/dl).
Questo obiettivo per le LDL è simile a quello proposto dall’Adult Treatment Panel III (ATP III), del
Cholesterol Education Programme negli USA.
Più recentemente, le linee guida sono state rivisitate dal National Cholesterol Education Programme,
alla luce dei recenti RCTs348. Perciò, per i pazienti ad alto rischio, compresi quelli con diabete e CVD,
viene suggerita come opzione terapeutica l’obiettivo delle LDL inferiori a 1.8 mmol / L (70 mg/dl).
Prevenzione Primaria
Dato l'elevato rischio di CVD per i pazienti diabetici, insieme ad una maggiore mortalità associata al
primo evento, nei pazienti con diabete di tipo 2 la prevenzione primaria associata alla riduzione dei
lipidi è una componente importante delle strategie di prevenzione.
Evidenze dagli studi clinici randomizzati e controllati sono disponibili da parte di grandi coorti di
pazienti diabetici inclusi negli studi HPS344 e nell’Anglo-Scandinavian Cardiac Outcomes Trial Lipid
Lowering Arm (ASCOT - LLA) 349 .
Nel ASCOT-LLA, 10 mg di atorvastatina sono stati confrontati con il placebo, in 10.305
pazienti ipertesi con colesterolo totale non a digiuno pari a 6.5 mmol/L (251 mg/dl) o meno, di questi
soggetti 2532 presentavano diabete di tipo 2. Il trattamento con atorvastatina è stato associato ad una
riduzione dell’endpoint primario di infarto miocardico non letale e di CAD fatale del 36% dopo un
follow-up mediano di 3.3 anni. I test per l’eterogeneità hanno dimostrato che i soggetti con diabete (n.
= 2532) hanno risposto in modo analogo, anche se si sono verificati troppo pochi eventi (n. = 84) per
valutare l'effetto reale nel solo sottogruppo.
Nello studio HPS, sono stati reclutati 2912 pazienti diabetici non sintomatici per malattie
cardiovascolari344. In questa coorte, con simvastatina 40 mg/die si otteneva una riduzione del rischio
del 33% (P = 0,0003). Lo studio Collaborative Atorvastatin Diabetes (CARDS), ha posto a confronto
atorvastatina 10 mg rispetto a placebo, in una popolazione di pazienti con diabete di tipo 2 (di età
compresa tra 40-75 anni), senza elevati valori di colesterolo [basale LDL 3.0 mmol/L (116 mg/dl)], ma
con altri fattori di rischio per CVD: ipertensione, retinopatia, proteinuria o fumo di sigaretta. Dopo una
follow-up con una mediana di 3.9 anni, la diminuzione del rischio per il primo evento cardiovascolare
maggiore è stata del 37% (P = 0.001). In tutti e tre gli studi clinici, non si è evidenziata una diversità di
effetto sui valori di colesterolo LDL o degli altri lipidi350.
Obiettivi della terapia per la prevenzione primaria
Nelle linee guida del Joint European Guidelines, gli obiettivi della terapia per i pazienti con diabete in
prevenzione primaria, sono simili a quelli per i pazienti con malattia CVD sintomatica: colesterolo
totale < 4.5 mmol/L (<174 mg/ dl) e LDL < 2.5 mmol / L (<97 mg/dl).
I pazienti con diabete di tipo 1 e proteinuria sono inclusi in queste linee guida347. Nel ATP III, la
maggior parte dei pazienti con diabete senza malattia sintomatica sono considerati ad alto rischio e per
loro viene suggerito l’obiettivo delle LDL<2.6 mmol/L (<100mg/dl).
Dato che i pazienti diabetici nello studio HPS e nel CARDS con bassi valori di LDL hanno mostrato
simile beneficio relativo in trattamento con statine rispetto a quelli con più elevati livelli di LDL, un
importante quesito clinico è se iniziare la terapia con statine nei pazienti in cui già il colesterolo LDL è
<2.6mmol/L (<100mg/dl). Attualmente, questa decisione è lasciata al giudizio clinico346.
33
Nei pazienti diabetici considerati a basso rischio, la terapia farmacologica potrebbe non essere
intrapresa se il colesterolo LDL è <3.4 mmol/L (<131 mg/dl). Le più recenti linee guida dell’ADA
suggeriscono che, nei pazienti con diabete con un colesterolo totale >3.5 mmol/L (>135 mg/dl), è
raccomandato il trattamento con statine con l’obiettivo di ridurre le LDL del 30-40%
indipendentemente dai livelli di LDL basali351.
Nei pazienti con diabete di tipo 1, che hanno anche un elevato rischio CVD, sono ancora carenti
evidenze per quanto riguarda il ruolo della terapia con statine sulla prevenzione primaria.
Studi clinici con fibrati
Ad oggi sono poche le informazioni disponibili provenienti da studi randomizzati e controllati, per la
pratica clinica, riguardanti il trattamento con fibrati rispetto alla terapia con statine. Nel trial Veterans
Administration HDL (VAHIT), il gemfibrozil è stato confrontato con placebo in 2531 uomini con
CAD stabile e bassi livelli di colesterolo HDL [basale HDL 0.8 mmol/L (31 mg/dl)] ed un livello
relativamente normale di LDL [basale LDL 2.8 mmol/L (108 mg/dl)]. Dopo un follow-up medio di 5.1
anni, il trattamento con gemfibrozil è stato associato ad una riduzione del rischio del 22% di in
endpoint primario di infarto miocardico non letale o morte coronarica (P = 0.006). In un sottogruppo di
309 pazienti diabetici, l’endpoint complessivo di morte coronarica, ictus, e di infarto miocardico è stato
ridotto del 32% (morte coronarica del 41% e di ictus del 40%). Questo studio suggerisce un beneficio
al di là della riduzione delle LDL, in quanto la terapia con gemfibrozil non varia il colesterolo LDL, ma
aumento il colesterolo HDL del 6% ed i trigliceridi del 31%353,354 .
Nello studio Field (Fenofibrate Intervention and Event Lowering in diabetes) è stato valutato l'effetto
del fenofibrato (200 mg/die) rispetto al placebo in soggetti affetti da diabete di tipo 2, con (n. = 2131),
e senza (N. = 7664) pregresso CVD. 355 Dopo una durata media di 5 anni, il trattamento con
fenofibrato è stato associato ad una riduzione del rischio relativo del 11% (HR 0,89, 95% CI 0,75-1,05)
per l’endpoint primario di morte per malattia coronarica e per infarto miocardico non fatale, non
raggiungendo la significatività statistica (P = 0.16). L’incidenza di infarto miocardico non fatale si
riduceva in modo significativo (HR 0,76, 95% CI 0.62-0.94; R = 0.01), ma la mortalità per malattia
coronarica mostrava un aumento non significativo (HR 1,19, 95% CI 0.90-1.57; R = 0.22). Il totale
degli eventi cardiovascolari (morte cardiaca, infarto miocardico, ictus, rivascolarizzazione coronarica e
carotidea) veniva significativamente ridotto dalla terapia con fenofibrato (P = 0,035). La mortalità
totale era 6.6% nel gruppo in placebo e 7.3% nel gruppo con fenofibrato (P = 0.18).
In una analisi post hoc, il trattamento con fenofibrato era associato ad una riduzione degli eventi
coronarici in pazienti senza CVD, ma non in quelli con pregressa CVD (P=0.03).
Si sono fatte molte congetture nel tentativo di spiegare i risultati conflittuali dello studio.
Probabilmente il grado di dislipidemia basale [Colesterolo totale 5.0 mmol/L (195 mg/dl), il totale dei
trigliceridi 2.0 mmol/L (173 mg/dl), il colesterolo LDL 3.1 mmol/L (119 mg/dl), e del colesterolo HDL
1,1 mmol/L (43 mg/ dl)] è stato insufficiente a dimostrare l'effetto ottimale del farmaco. Nel Veterans
Administration HDL Trial, uno studio sulla prevenzione secondaria si evidenziava un risultato positivo
con gemfibrozil, il colesterolo HDL era 0.8 mmol/L. Altri possibili fattori confondenti sono il fatto di
aver incluso una più alta percentuale di soggetti in trattamento con statine nel gruppo placebo, il
potenziale effetto negativo del fenofibrato sui livelli di omocisteina (un aumento di 3.7 µmol/L) e la
capacità relativamente modesta di ridurre il colesterolo LDL e di aumentare le HDL
(solo il 2% alla fine dello studio).
34
Tuttavia, le principali conclusioni a seguito dei risultati dello studio FIELD sono che le indicazioni
sulle strategie di trattamento rimangono invariate e le statine rimangono la principale scelta nel
trattamento nella maggioranza dei pazienti diabetici.
Linee guida per il colesterolo HDL e per i trigliceridi
Data la scarsità di informazioni disponibili provenienti da studi clinici controllati, le linee guida sono
meno specifiche in materia di obiettivi per il colesterolo HDL e per i trigliceridi. Tuttavia, le Joint
European Guidelines definiscono che bassi livelli di colesterolo HDL (<1 mmol/L (39 mg/dl) negli
uomini e <1.2 mmol/L (46 mg/dl) nelle donne] e i trigliceridi a digiuno >1.7 mmol/L (151 mg/dl),
rappresentano dei markers di aumentato rischio vascolare. Nei recenti aggiornamenti dell’ATP III per
pazienti considerati a rischio severo, come i pazienti diabetici con malattia vascolare conclamata,
elevati livelli di trigliceridi, e bassi livelli di HDL colesterolo, devono essere presi in considerazione il
trattamento combinato di fibrati o acido nicotinico con un farmaco per la riduzione del colesterolo
LDL348. Quando i trigliceridi sono >2.3 mmol/L (> 189 mg/dl), ma i livelli di colesterolo LDL sono nei
limiti a seguito di un trattamento con statine, viene suggerito come obiettivo secondario il colesterolo
non-HDL (colesterolo totale meno colesterolo HDL), 0.8 mmol/L (31 mg/dl) superiore agli obiettivi
identificati per il colesterolo LDL.
Pressione Arteriosa
Raccomandazioni
Nei pazienti con diabete ed ipertensione gli obiettivi raccomandati
sono valori pressori <130/80 mmHg.
Classe
I
Livello
B
Il rischio cardiovascolare nei pazienti con diabete ed ipertensione è
sostanzialmente potenziato. Il rischio può essere efficacemente
ridotto mediante trattamento antipertensivo.
I
A
Il paziente diabetico solitamente richiede un combinazione di
differenti farmaci antipertensivi per un controllo pressorio
soddisfacente.
I
A
Al paziente diabetico dovrebbe essere prescritto un inibitore sistema
renina-angiotensina
come
componente
del
trattamento
antipertensivo.
I
A
I
A
Screening per la microalbuminuriae un adeguato trattamento
antipertensivo incudendo un ACE inibitore o sartanico migliora le
complicanze del diabete micro e macrovascolari
Tabella 16:Raccomandazioni
35
Background
L’ipertensione è fino a tre volte più comune nei pazienti con diabete di tipo 2 rispetto ai soggetti non
diabetici 356,357 ed è condizione frequente anche nei paziente con diabete di tipo 1. In quest’ultima
condizione solitamente la nefropatia precede l’ipertensione che in seguito accelera la progressione delle
complicanze micro e macrovascolari. L’obesità, l’avanzare dell’età, l’insorgenza di una patologia
renale aumentano ulteriormente la prevalenza dell’ipertensione nei pazienti diabetici358.
Il diabete e l’ipertensione sono fattori di rischio addizionali per l’aterosclerosi e la CVD, e
l’ipertensione aumenta il rischio per tali malattie, maggiormente nei soggetti con diabete rispetto ai
soggetti ipertesi normoglicemici, come dimostrato, per esempio, dallo studio Multiple Risk Factor
Intervention359,360 e dallo studio PROspective CArdiovascular Munster (PROCAM) 361. Esistono
diverse possibili spiegazioni all’aumento del rischio, una può essere una maggior sensibilità allo stress
di parete indotto dalla pressione. Il miocardio nel diabetico potrebbe inoltre essere più sensibile ad altri
fattori di rischio per CVD, il che aumenta il rischio di ipertrofia miocardica, ischemia e scompenso
cardiaco362. E ancora la nefropatia diabetica è notevolmente accelerata dall’aumento pressorio, una
volta che l’ipertensione e la nefropatia sono presenti si crea un circolo vizioso363.
Va notato che nel paziente diabetico, la stenosi dell’arteria renale potrebbe essere responsabile di
entrambe le condizioni di insufficienza renale ed ipertensione. Lo screening per tale condizione è
obbligatorio nei soggetti con ipertensione refrattaria e/o insufficienza renale.
Obiettivi di trattamento
L'UKPDS e l’Hypertension Optimal Treatment (HOT) hanno rivelato che nei pazienti con diabete, una
strategia di trattamento intensivo per la riduzione della pressione arteriosa è associata ad una minore
incidenza di complicanze cardiovascolari364,365.
Varie manifestazioni cardiovascolari, come l’ictus cerebri e la malattia renale, sono state notevolmente
ridotte nei soggetti diabetici con un rigoroso controllo della pressione sanguigna rispetto a coloro che
presentavano un minor controllo. Vi è un accordo generale che ha raccomandato valori pressori più
bassi nei pazienti con diabete (< 130/80 mmHg) rispetto ai soggetti senza diabete (< 140/90 mmHg).
Se tollerati, i pazienti diabetici con nefropatia dovrebbero essere trattati al fine di ottenere livelli più
bassi della pressione. Una vigorosa riduzione della pressione arteriosa potrebbe inizialmente elevare la
creatinina sierica, ma a lungo termine determinerà un beneficio sulla funzione renale.
Come dovrebbe essere ridotta la pressione sanguigna?
Gli interventi sullo stile di vita dovrebbero costituire la base del trattamento di tutti i pazienti con
ipertensione. Sebbene importanti, i cambiamenti dello stile di vita sono generalmente insufficienti per
un adeguato controllo della pressione arteriosa. La maggior parte dei pazienti necessita di un
trattamento farmacologico, e spesso di una combinazione di più farmaci antipertensivi. I registri e gli
studi clinici dimostrano che molti pazienti con diabete ancora non hanno raggiunto l'obiettivo
raccomandato di valori pressori <130 mmHg sistolica e <80 mmHg diastolica366,367. Pertanto, vi è un
notevole potenziale per un miglioramento della gestione del paziente. Solo pochi grandi studi clinici
randomizzati prospettici, con agenti antipertensivi sono stati specificatamente condotti in pazienti con
36
diabete. Tuttavia, alcuni dei più grandi studi clinici controllati verso placebo, con sottogruppi di ampie
dimensioni di pazienti diabetici, hanno dato informazioni specifiche sui risultati in questo sottogruppo.
(Tabella 10). Una importante constatazione è la marcata riduzione del rischio per successivi eventi
cardiovascolari tra i pazienti trattati con un principio attivo rispetto a quelli in placebo. Questa
constatazione è valida per tutti i tipi di farmaci antiipertensivi che sono stati studiati.
E’ stata ben documentata la scelta come primo farmaco dei diuretici, dei β-bloccanti, dei calcio
antagonisti e degli ACE inibitori368-373. Più di recente, diversi principi attivi anti-ipertensivi sono stati
confrontati l’un l’altro (Tabella 11). Il blocco del sistema renina-angiotensina-aldosterone sembra
essere di particolare utilità, soprattutto quando questo trattamento viene utilizzato nei pazienti con
diabete ad elevato rischio cardiovascolare374-376.
Recenti evidenze nei pazienti ipertesi con diabete, supportano l'efficacia dell’utilizzo degli ACE–
inibitori come terapia iniziale rispetto ai calcio antagonisti, quando l’obiettivo è impedire o ritardare
l'insorgenza di microalbuminuria377.
Nello studio Losartan Intervention For Endpoint reduction in hypertension (LIFE), nel quale venivano
reclutati pazienti ad alto rischio per la presenza di ipertrofia ventricolare sinistra, l’utilizzo come
trattamento anti ipertensivo di un bloccante del recettore dell’angiotensina, losartan, era più efficace
nella riduzione degli endpoint primari cardiovascolari rispetto all’uso dei beta bloccanti selettivi, come
l’atenololo. In questo studio, il beneficio del losartan è stato ancora più evidente nella sottopopolazione
di diabetici, con una differenza statisticamente significativa anche in tutte le cause di morte378.
Va notato che la stragrande maggioranza dei pazienti in entrambi i gruppi avevano ricevuto
idroclorotiazide in aggiunta al sartanico o al β-bloccante.
Come illustrato nella Tabella 10, la riduzione del rischio assoluto nei pazienti con diabete dovuta al
trattamento dell’ipertensione è superiore rispetto a quelli dei non diabetici. L'obiettivo principale del
trattamento dell’ipertensione nei pazienti diabetici è, pertanto, ridurre la pressione arteriosa
indipendentemente da quale farmaco o combinazione di farmaci venga utilizzata per tale scopo.
Comunque un inibitore del sistema renina-angiotensina-aldosterone dovrebbe far parte della
combinazione farmacologica. È importante monitorare la funzione renale quando viene introdotto in
terapia un ACE-inibitore o un sartanico, specialmente considerando il rischio di peggioramento della
funzione renale in presenza di una stenosi dell’arteria renale. 182
Una questione che è stata ampiamente dibattuta nel corso degli ultimi decenni è se le azioni
metaboliche dei vari farmaci anti-ipertensivi sono importanti per gli eventi cardiovascolari a lungo
termine. E' ben noto che l'uso di tiazidici e di β-bloccanti è associato ad un aumentato rischio di
sviluppare diabete di tipo 2 rispetto al trattamento con calcio antagonisti e inibitori del sistema reninaangiotensina-aldosterone379,380. Non è noto tuttavia se il trattamento con tiazidici e/o β-bloccanti nei
pazienti con diabete di tipo 2 conclamato ha qualche azione metabolica avversa di importanza clinica,
incluso un aumentato rischio di eventi cardiovascolari. Nello studio Antihypertensive and LipidLowering Treatment to Prevent Heart Attack Trial (ALLHAT), il risultato è stato simile nei gruppi
trattati con diuretici, ACE-inibitori, e calcio antagonisti381. Comunque, in questo studio, il sottogruppo
di pazienti con IFG era molto più piccolo in confronto al sottogruppo di diabetici e di normoglicemici.
Così, sebbene i farmaci con effetti metabolici negativi, soprattutto la combinazione di un tiazidico e di
un β-bloccante, probabilmente dovrebbero essere evitati come trattamento di prima scelta nella
gestione di pazienti ipertesi con la sindrome metabolica, l’obiettivo di ridurre la pressione arteriosa nei
pazienti con diabete franco sembra più importante delle lievi alterazioni metaboliche382. Nel sottostudio
ASCOT è stata recentemente proposta una analisi, di potenziale interesse, per spiegare le differenze nel
ridurre la pressione arteriosa, tra il trattamento con atenololo/tiazidici
in confronto ad
37
amlodipina/perindopril155. Il trattamento con β-blocccanti/tiazidici non riduceva la pressione centrale
nella stessa misura dell’altra combinazione farmacologica. È stato proposto che questo potrebbe essere
legato ad una diminuita protezione cardiovascolare della prima combinazione.
Gestione della CVD
Malattia coronarica
Raccomandazioni
La stratificazione precoce del rischio dovrebbe essere parte della
valutazione del paziente diabetico dopo ACS.
Classe
IIa
Livello
C
Gli obiettivi terapeutici dovrebbero essere valutati e applicati su
ogni paziente diabetico a seguito di ASC
IIa
C
Paziente con IMA e diabete dovrebbe essere valutato per la terapia
trombo embolica al pari di un soggetto di pari grado non diabetico.
IIa
A
Quando possibile il paziente con diabete e ACS dovrebbe essere
sottoposto a studio angiografico e rivascolarizzazione meccanica.
IIa
B
Il beta bloccante riduce la morbidità e mortalità nei pazienti con
diabete e ACS.
IIa
B
Aspirina dovrebbe essere data con le medesime indicazioni e lo
stesso dosaggio ai pazienti con e senza diabete
IIa
B
Clopidrogel dovrebbe essere considerato in aggiunta all’aspirina,
nel paziente diabetico con ACS.
IIa
C
L’aggiunta di un ACE inibitore al resto della terapia riduce il rischio
di eventi cardiovascolari nei soggetti con diabete e stabile CVD.
I
A
IIa
B
I pazienti diabetici con IMA beneficiano di uno stretto controllo
glicometabolico. Questo potrebbe essere raggiunto mediante
differenti strategie terapeutiche.
Tabella 17: Raccomandazioni
Epidemiologia
Diabete e malattia coronarica
Il diabete è molto comune tra i pazienti con malattia coronarica. Negli ultimi registri multinazionali le
percentuali variano dal 19 al 23%.389-391 Quando i pazienti con infarto miocardico acuto, ma senza
diabete noto, sono stati sottoposti ad un carico orale di glucosio, il 65% ha mostrato alterazioni della
regolazione della glicemia (diabete misconosciuto 25% e IGT 40%), una percentuale molto più elevata
rispetto ai controlli sani di pari età e sesso, tra i quali il 65% aveva una normale regolazione del
38
glucosio (NGR) 392,393. L'Euro Heart Survey on Diabetes and Heart, ha sottoposto a carico orale di
glucosio pazienti provenienti da 25 paesi, ricoverati d’urgenza per CAD, diagnosticando il diabete nel
22% dei pazienti, precedentemente non noti per tale patologia395. Pertanto, la percentuale complessiva
di DM tra i pazienti con malattia coronarica sembra essere circa il 45%396.
Implicazioni prognostiche
La mortalità durante il ricovero e a lungo termine dopo infarto miocardico è diminuita nel corso degli
anni, ma i pazienti con diabete non hanno beneficiato di questa riduzione nella stessa misura rispetto a
quelli senza questa malattia.
I pazienti inclusi nel registro Grace, con diabete noto ricoverati per sindrome coronarica acuta hanno
più elevata mortalità intra-ospedaliera (11,7, 6,3 e 3,9% nel MI con e senza elevazione del tratto ST e
angina pectoris instabile) rispetto ai soggetti senza diabete (6,4, 5,1, e 2.9%)389.
Il diabete è associato ad un elevato tasso di mortalità a lungo termine, che corrisponde al 15-34% dopo
1 anno e fino al 43% dopo 5 anni. Il rischio relativo per la mortalità globale attribuibile al diabete, dopo
adeguamento per le differenze nelle caratteristiche basali, per le malattie concomitanti, e per il
trattamento di base, varia da 1.3 a 5.4 ed è un po' più elevato tra le donne rispetto agli uomini. I pazienti
con recente diagnosi di diabete di tipo 2 presentano simili probabilità di re-infarto, ictus, e di mortalità
a 1 anno dopo un infarto miocardico acuto come i pazienti con diabete già noto406. Le principali
complicanze nei pazienti con sindrome coronarica acuta includono ricorrenti episodi d’ischemia
miocardica, disfunzione ventricolare sinistra, grave insufficienza cardiaca, facilità ad aritmie, reinfarto, ictus o morte. La maggior parte di queste complicanze sono significativamente più comuni nei
pazienti con diabete (per una panoramica più completa, si veda la Tabella 22 e il testo completo del
documento di questi linee guida, www.escardio.org) 388,391,397-406.
Il marcato aumento del rischio di morte associato a diabete al di là della fase acuta degli eventi
coronarici indica il profondo ruolo delle alterazioni del matabolismo glucidico. Un’alterata glicemia a
qualsiasi livello determina alterazioni del metabolismo energetico, tra cui l’insulino resistenza,
l'aumentata concentrazioni di acidi grassi non esterificati e l’eccessivo stress ossidativo201,408.
Quando dolore al torace, mancanza di respiro, e ansia causano un incremento di stress-indotto
dall’aumento del tono adrenergico, questi fattori metabolici favoriscono ulteriormente l'insorgenza
d’infarto miocardico acuto. I pazienti diabetici hanno spesso CAD estesa e diffusa, ridotta riserva
vasodilatatoria, diminuita attività fibrinolitica, elevata aggregazione piastrinica, disfunzioni del sistema
nervoso autonomo, e probabilmente, cardiomiopatia diabetica (per ulteriori dettagli, vedere il capitolo
sulla fisiopatologia nella versione full-text), tutti fattori che devono essere presi in considerazione al
momento della scelta della terapia. Un alterato controllo della glicemia può agire anche nel tempo. Il
controllo metabolico nel diabete di tipo 2, valutato come glicemia a digiuno o emoglobina glicata
(HbA1c) rappresenta un importante fattore di rischio per la malattia coronarica. Inoltre, livelli elevati di
glicemia al momento del ricovero sono un potente fattore predittivo per la mortalità durante il ricovero
e a lungo termine, sia in pazienti con e senza DM327,409,411.
Principi di trattamento
Diversi studi dimostrano che i pazienti diabetici non sono trattati come per i pazienti non diabetici con
attenzione tramite terapie basate sull’evidenza e sugli interventi coronarici.324,404
In particolare, sembra che le eparine, agenti trombolitici, utili nell’evento coronarico non siano
frequentemente somministrate. Una spiegazione potrebbe essere, come conseguenza della neuropatia
39
autonomica, la mancanza di sintomi tipici nei pazienti diabetici con ischemia coronarica. La prevalenza
d’ischemia silente nel soggetto diabetico è circa 10-20%, rispetto al 1-4% nella popolazione non
diabetica264. Di conseguenza, gli infarti silenti o infarti con sintomi atipici sono più comuni nei
diabetici, prolungando il tempo per il ricovero ospedaliero, così come per la diagnosi, riducendo in tal
modo l'opportunità di somministrare il trattamento adeguato. Un'altra possibile ragione è che il paziente
diabetico è considerato più vulnerabile e che questa malattia è stata vissuta come una controindicazione
relativa ad alcune modalità di trattamento. Tuttavia, il trattamento dell’evento coronarico basato
sull’evidenze, inclusa l’angiografia coronarica precoce e se possibile la rivascolarizzazione, è almeno
altrettanto efficace nel paziente diabetico come nei pazienti non diabetici e non vi sono informazioni
per una maggiore propensione a sviluppare eventi avversi.
Stratificazione del rischio
I pazienti con sindrome coronarica acuta e concomitante DM, già noto o di recente diagnosi, sono ad
alto rischio di successive complicanze. Per la gestione a lungo termine è importante un estesa
valutazione del rischio per identificare specifici rischi e delineare obiettivi terapeutici415,416.
Questo include (i) una valutazione approfondita dell’anamnesi e dei segni di malattia periferica, renale
e cerebrovascolari, (ii) una attenta valutazione dei fattori di rischio, come il profilo lipidico, la
pressione arteriosa, l’abitudine al fumo e lo stile di vita; (iii) la valutazione dei fattori predittivi di
rischio clinico comprendendo l'insufficienza cardiaca, l’ipotensione, e il rischio di aritmia, con
particolare attenzione alle disfunzioni del sistema nervoso autonomo; (iv) indagini sulla presenza di
ischemia inducibile mediante monitoraggio del tratto ST, test da sforzo, eco-stress o scintigrafia
miocardica (qualunque sia il metodo più appropriato per il singolo paziente e a giudizio clinico), (v) la
valutazione della vitalità del miocardio e dalla funzione ventricolare sinistra mediante eco-Doppler e/o
la risonanza magnetica. L'affidabilità (sensibilità/specificità) del test da sforzo, dell’eco-stress o della
scintigrafia miocardica è un elemento importante per rilevare l’ischemia in pazienti diabetici. Sono
fattori confondenti la soglia potenzialmente alta di dolore a causa di disfunzioni del sistema nervoso
autonomo, la natura multivasale della malattia coronarica, anomalie elettrocardiografiche di base, una
scarsa performance nell’esercizio comune nei pazienti diabetici, la coesistenza di malattia delle arterie
periferiche, e l’uso di molteplici terapie. In questo contesto, sono di particolare importanza una attenta
valutazione clinica ed una mirata valutazione dei risultati di laboratorio.
Obiettivi terapeutici
Nella Tabella 18 sono riassunte le opzioni terapeutiche disponibili, atte a preservare e a ottimizzare la
funzione miocardica, ad ottenere la stabilizzazione delle placche fragili, a prevenire eventi ricorrenti
mediante il controllo dell’attività protombotica e a contrastare la progressione delle lesioni
aterosclerotiche417,418.
Le raccomandazioni per la prevenzione secondaria sono, in termini generali, valide per i pazienti con e
senza diabete. La strategia di trattamento dovrebbe, se non altro, essere ancora più ambiziosa nella
prima categoria di pazienti. Per una pari riduzione del rischio, il numero di pazienti necessari da trattare
per salvare una vita o evitare uno definito endpoint è più bassa tra i pazienti diabetici, a causa del più
elevato rischio assoluto. Principali obiettivi del trattamento sono illustrati nella Tabella 19, che
riassume le raccomandazioni per la prevenzione secondaria sulla base delle prove accumulate,
compresi i dati di recenti linee guida e documenti di consenso130,419-421.
40
Rivascolarizzazione
Terapie anti-ischemia
Agenti antiaggreganti
Agenti antitrombotici
Prevenzione secondaria mediante
Stile di vita incluso alimentazione e attività fisica
Smettere di fumare
Inibizione del sistema renina-angiotensina
Controllo pressorio
Trattamento per la riduzione del colesterolo
Controllo glicemico
Tabella 18: opzioni terapeutiche in base all'evidenze riscontrate.
<130/80
Pressione arteriosa
(sistolica/diastolica)mmHg
In caso di di insufficienza renale con con
proteinuria>1g/24h
<125/75
Controllo glicemico
HbA1c (%)
<6.5
Glicemia a digiuno mmol/l(mg/dl)
<6.0(108)
Glicemia post-prandiale
<7.5 (135) tipo2
<7.5-9.0(135-160) tipo1
Profilo lipidico in mmol/L (mg/dl)
Colesterolo totale
<4.5(175)
LDL-C
<1.8(70)
HDL-C
>1.0(40) uomini e >1.2(46) donne
Trigliceridi
<1.7 (150)
TC/HDL
<3
Obbligatorio
Smettere di fumare
Attività fisica regolare (min/giorno)
>30-45
Controllo del peso
BMI
<25
In caso di sovrappeso calo ponderale (%)
10
Circonferenza vita (cm)
<94 negli uomini
<80 nelle donne
Abitudini alimetari
Sale (g/die)
<6
Acidi grassi saturi(%)
<10
Acidi grassi Trans
<2
Polinsaturi 6
4-8
Polinsaturi 3
2g/die ac. Linoleico e 200mg/die acidi grassi a
catena molto lunga.
Tabella 19:obiettivi terapeutici raccomandati per i pazienti con diabete e CAD (modificato da European guidelines
per Cardiovascular Disease Prevention419)
41
Trattamento specifico
Trombolisi
Una meta-analisi di 43.343 pazienti con infarto miocardico, dei quali il 10% aveva una storia di
diabete, ha rivelato che il numero di vite salvate grazie alla terapia trombolitica è stato il 37‰ dei
pazienti trattati nella coorte dei diabetici, rispetto al 15‰ tra quelli senza DM.422
Così, a causa del loro elevato rischio, è necessario trattare un minor numero di soggetti per salvare una
vita nella coorte di diabetici, corrispondente ad una maggiore beneficio assoluto per il trattamento
trombolitico nei diabetici rispetto ai pazienti non diabetici. Si tratta di una leggenda che la trombolisi è
controindicata nei pazienti diabetici a causa di un aumentato rischio di emorragia cerebrale o oculare.
Rivascolarizzazione precoce
La rivascolarizzazione entro 14 giorni dall’evento di infarto miocardico acuto con un elevazione del
tratto ST sia nell’infarto senza elevazione del tratto ST, ha determinato una riduzione del 53% della
mortalità a un anno nei pazienti senza diabete e il 64% tra quelli con diabete (15 vs 5%; RR 0.36; 95%
CI 0.22-0.61). 424,425
La strategia di riperfusione precoce tra i pazienti diabetici con angina instabile o con infarto senza
elevazione del tratto ST nello studio FRISC-II ha portato ad una significativa riduzione degli endpoint
di morte o di re-infarto del miocardio da 29.9 a 20.6% (OR 0.61; 95% IC: 0.36-0.54)405. L'impatto
della strategia invasiva precoce è stato dello stesso ordine di grandezza in entrambi i pazienti diabetici e
non diabetici. Ciò significa che, a causa del significativo più alto rischio assoluto, il vantaggio relativo
è stato notevolmente superiore nei pazienti diabetici rispetto a pazienti non diabetici. L'NNT per
diminuire un evento morte o infarto miocardico è stato di 11 per i soggetti diabetici e 32 per i non
diabetici. La scelta tra intervento coronarico percutaneo (PCI) e bypass coronarico (CABG) viene
discusso più avanti in questo capitolo.
Farmaci anti-ischemici
β-bloccanti
L’utilizzo di β -bloccanti nei pazienti diabetici con infarto miocardico è consigliato, in quanto gli effetti
benefici hanno un solido supporto in fisiopatologia, anche se, in larga misura, si basa su analisi di
sottogruppi. Il trattamento con beta-bloccanti nel post infarto ha comportato una generale riduzione
della mortalità, come risulta da una meta-analisi sistematica di Freemantle e collaboratori su lavori
scientifici pubblicati tra il 1966-97. 426 In questa meta-analisi, la riduzione della mortalità globale era
del 23% (CI: 15-31%), che può essere tradotto come necessità di trattare 42 pazienti per 2 anni per
salvare una vita. I β -bloccanti sono particolarmente efficaci nel diminuire la mortalità post-infarto e
nel diminuire l’insorgenza di nuovi infarti in pazienti con una storia di DM. 427-432
Pertanto, i β -bloccanti per via orale sono raccomandati, in assenza di controindicazioni, per tutti i
pazienti diabetici con malattia coronarica. 427,428,433 Inoltre, questi pazienti sono molto più inclini a
sviluppare insufficienza cardiaca e studi recenti hanno documentato che i β-bloccanti presentano
effetti benefici nei pazienti con insufficienza cardiaca.541,543,544
Sembra ragionevole rendere individualizzata la scelta tra i diversi β-bloccanti a seconda delle
condizioni concomitanti e del tipo di trattamento per il diabete. I bloccanti β-1 selettivi possono essere
preferito in caso di trattamento con insulina, e gli antagonisti sia α-1-β come il carvedilolo possono
offrire ulteriori vantaggi per i pazienti con malattia delle arterie periferiche o con sostanziale insulino-
42
resistenza. 434 Ancora, dati attuali riportano che i pazienti diabetici con CAD sono privi di questo
trattamento salvavita. 394,397,404
Altri farmaci
Nitrati e calcio antagonisti appartengono ai farmaci anti-ischemici. Una recente meta-analisi non rivela
i benefici sulla sopravvivenza per nessuno di questi, sebbene nei pazienti con infarto senza elevazione
del tratto ST siano stati segnalati effetti favorevoli per il diltiazem 418,435. I calcio antagonisti a lunga
durata ed i nitrati non sono dunque raccomandati ma possono essere utili per il controllo della
sintomatologia nei pazienti già in trattamento con β-bloccanti o in caso che questi siano controindicati.
Farmaci anti-aggreganti ed anti-trombotici
È stato ipotizzato ma mai verificato che i pazienti affetti da diabete necessitino di dosi particolarmente
elevate di aspirina perché ci sia una inibizione efficace della produzione di trombossanoA2. Un’analisi
sistematica di 195 studi clinici che includeva più di 135.000 pazienti (delle quali 4.961 con diabete) ad
alto rischio per arteriosclerosi ha rivelato che il rischio di ictus, infarto miocardico, o morte vascolare è
stato ridotto di circa il 25% mediante la terapia anti-aggregante data in forma di aspirina, clopidogrel,
dipiridamolo, e antagonisti della glicoproteina IIb/IIIa (separatamente o in associazione).436 I benefici
ottenuti tra i pazienti diabetici sono stati un po' più modesti. Lo studio Antithrombotic Trialists ha
concluso che la dose efficace di aspirina è di 75-150 mg al giorno, e quando necessario, una dose di
carico di 150-300 mg per ottenere un effetto immediato.
Quando aggiunto all’aspirina, l'effetto delle tienopiridine (Ticlopidina, Clopidogrel), che bloccano
l’attivazione piastrinica tramite il recettore ADP-dipendente, è favorevole nei pazienti con angina
instabile e infarto senza elevazione del tratto ST, riducendo l'incidenza di morte cardiovascolare,
infarto miocardico, o ictus dal 11.4% al 9.3%; (RR 0.80; IC: 0.72-0.90). 437 Lo studio CURE
raccomanda a seguito di un evento coronarico acuto, l’utilizzo di clopidogrel (75 mg al giorno) in
combinazione con l'aspirina (75-100 mg al giorno) per 9-12 mesi. 418,438
Tra i pazienti con diabete e malattie vascolari, il clopidogrel fornisce una migliore protezione da eventi
gravi (morte vascolare, re-infarto, ictus, o ricorrenti ricoveri per ischemia) rispetto all'aspirina (RR
0.87; IC: 0.77 - 0.88; CAPRIE). 439,440
ACE-inibitori
Gli inibitori del sistema renina-angiotensina (ACE-inibitori) non hanno mostrato particolare vantaggio
nei pazienti diabetici rispetto ai pazienti non diabetici con infarto miocardico, tranne che nel resoconto
dello studio GISSI-3. Nell’analisi di un sottogruppo di questo studio, il precoce trattamento con
lisinopril riduceva la mortalità nei pazienti diabetici ma non nel gruppo di controllo non diabetico. 411
Nello studio Heart Outcomes Prevention Evaluation (HOPE) è stato testata la possibilità che l'ACEinibitore ramipril possa prevenire eventi cardiovascolari nelle persone con diabete. Sono stati reclutati
in un sottogruppo 3.654 pazienti con diabete associato a pregresso CVD o con uno o più fattori di
rischio per tale malattia, in cui il diabete era una domanda specifica dello studio. 372 C'è stata una
riduzione del 25% nell’endpoint di infarto miocardico, ictus o morte cardiovascolare ed una chiara
riduzione di tutti gli eventi. Più di recente, lo studio EUROPA con perindopril in soggetti con
coronaropatia stabile ha esteso questi risultati a una popolazione che, in termini assoluti, ha avuto un
43
più basso rischio cardiovascolare rispetto a quello dello studio HOPE. La riduzione della morbilità e
della mortalità cardiovascolare con perindopril, è stata osservata indipendentemente da una elevato uso
di altre terapie per la prevenzione secondaria. Il beneficio ottenuto per i pazienti con diabete è stato
simile a quello della popolazione generale. Il beneficio assoluto è stato, tuttavia, maggiore a causa della
maggiore incidenza di tali eventi tra soggetti diabetici. 442,443
Dettagli sul controllo della pressione arteriosa e l'utilizzo di vari farmaci, compresi gli ACE-inibitori,
soli o in combinazione sono indicati altrove nel capitolo sul trattamento per la riduzione del rischio
cardiovascolare.
Ipolipidemizzanti
L'uso di farmaci ipolipidemizzanti è discusso altrove in queste linee guida.
Controllo Metabolico
Ci sono diversi motivi per cui il controllo metabolico intensivo durante un infarto miocardico acuto
determina beneficio. Questo effetto avviene direttamente per il metabolismo del miocardio attraverso la
beta-ossidazione degli FFA si ha una riduzione del consumo di glucosio. Un modo per ottenere questo
effetto è quello di infondere insulina e di glucosio. Uno stretto controllo delle glicemia attraverso
l’infusione d’insulina ha anche la potenzialità di migliorare la funzione piastrinica, correggere il profilo
lipidico e diminuire l’attività dell’inibitore dell’attivatore del plasminogeno-1 (PAI-1), migliorando
così la capacità di fibrinolisi spontanea. Il concetto del controllo acuto e/o cronico del metabolismo è
stato testato nei due studi DIGAMI. Nel primo studio DIGAMI sono stati reclutati 620 pazienti con
diabete e infarto miocardico acuto e sono stati randomizzati a un gruppo di controllo o ad un
trattamento insulinico intensivo, mediante infusione di glucosio-insulina durante le prime 24 ore dopo
l’infarto miocardico.323 In un follow-up a lungo termine per più di 3.4 anni, vi è stato una riduzione
assoluta di mortalità del 11% nel gruppo sottoposto a trattamento intensivo con insulina, il che implica
una vita salvata ogni nove pazienti trattati. 409 Di particolare interesse era che i pazienti senza
precedente trattamento con insulina e ad un rischio relativamente basso ne beneficiavano di più.
L’HbA1c, usata come la misura di un miglioramento del controllo metabolico, in questo gruppo di
pazienti è diminuita in media del 1.4%. La ben nota relazione epidemiologica tra il livello di glicemia
all’ingresso e la mortalità è stata osservata solo tra i pazienti di controllo, indicando che il trattamento
per il corretto metabolismo nel periodo peri-infartuale ha attenuato l'effetto nocivo di elevati valori
glicemici al momento del ricovero. 323
Nel secondo studio DIGAMI sono stati valutati 1.253 pazienti con Diabete di tipo 2 e sospetto di
infarto miocardico acuto che sono stasi suddivisi tramite tre bracci di gestione: (1) infusione glucosioinsulina in acuto, seguita dal trattamento insulinico per il controllo glicemico a lungo termine, (2)
l'infusione di glucosio-insulina, seguita da un controllo glicemico standard, (3) gestione del controllo
326
glicemico
di
routine
in
conformità
con
la
pratica
clinica
locale.
Questo studio non ha verificato se un tempestivo trattamento insulinico intensivo a lungo termine
migliora la sopravvivenza nei pazienti diabetici di tipo 2 con infarto miocardico e non ha dimostrato se
iniziando la terapia con infusione di glucosio-insulina, la sopravvivenza è superiore rispetto alla
gestione convenzionale. Tuttavia, il controllo glicemico era migliore rispetto al DIGAMI 1, già al
44
momento del ricovero ospedaliero, e le tre strategie di controllo della glicemia non hanno determinato
un controllo glicemico differente a lungo termine. Infatti, non sono stati raggiunti livelli glicemici
ottimali nel gruppo in trattamento insulinico intensivo e sono stati raggiunti valori migliori del previsto
con le altre due strategie di trattamento. Dato un simile grado di controllo glicemico, sembrava che
l'insulina di per sé, non migliorasse la prognosi più di qualsiasi altra combinazione atta a far diminuire
la glicemia. Lo studio DIGAMI 2 ha confermato che il livello di glicemia è un forte, fattore predittivo
indipendente di mortalità a lungo termine in seguito ad infarto miocardico in pazienti con diabete di
tipo 2, con un incremento del tasso di mortalità del 20% nel lungo termine per un aumento di glicemia
di 3 mmol / L.
Nello studio Estudios Cardiologicos Latinoamerica (ECLA), che coinvolgeva 400 pazienti, nei pazienti
in terapia con infusione di glucosio-insulina-potassio non vi era una tendenza significativa di riduzione
degli eventi maggiori e minori intra-ospedalieri 411 Il recente studio CREATE-ECLA ha randomizzato
più di 20.000 pazienti con infarto acuto ed elevazione del tratto ST, dei quali il 18% era affetto da
diabete di tipo 2, questi sono stati posti in terapia con alte dosi di glucosio-insulina-potassio o in
trattamento standard. Il risultato globale è stato che il trattamento con glucosio-insulina-potassio non ha
influenzato la mortalità. 444 Si deve sottolineare che nessuno di questi studi è stato mirato ad arruolare
soggetti con diabete franco o aveva lo scopo di normalizzazione i livelli glicemici di per sé. In realtà, vi
è stato un aumento significativo dei livelli di glicemia nello studio CREATE-ECLA che può aver
contribuito ad ottenere questo risultato neutro. Il vero risultato importante di questo trial è che
suggerisce fortemente che l’intervento tempestivo di correzione del metabolismo attraverso l’infusione
di glucosio-insulina-potassio non ha collocazione attualmente nel trattamento di pazienti con MI acuto,
se non utilizzato per normalizzare il livello di glicemia. Al contrario, e come discusso in dettaglio
altrove in queste linee guida, lo studio Belgian surgical intensive care unit (ICU), che ha ottenuto la
normalizzazione dei valori glicemici (4.5-6.1 mmol/L; 80-110 mg/dl) nel gruppo posto in trattamento
intensivo, mostra una diminuzione significativa della mortalità. 445
Sulla base delle conoscenze attuali, ci sono ragionevoli evidenze di iniziare il controllo glicemico
mediante infusione di insulina nei diabetici, che sono ricoverati per infarto miocardico acuto e che
presentano livelli di glicemia significativamente elevati, al fine di raggiungere la normoglicemia nel più
breve tempo possibile. Pazienti ricoverati con livelli di glucosio relativamente normali possono essere
trattati con antidiabetici orali. Nel follow-up, sia dati epidemiologici che recenti studi mostrano che il
controllo stretto delle glicemie è utile. Il regime terapeutico per realizzare questo obiettivo dovrebbe
comprendere la dieta, il cambiamento dello stile di vita, antidiabetici orali ed insulina. Poiché non
esiste una risposta definitiva per la scelta del trattamento farmacologico migliore, la decisione finale
può essere basata su decisione da parte del medico curante, in collaborazione con il paziente. Più
importante, deve essere perseguito l'effetto del controllo glicemico a lungo termine, e i livelli glicemici
dovrebbero essere il più possibile normali.
45
Diabete e rivascolarizzazione coronarica
Raccomandazioni
Le decisioni di trattamento per la rivascolarizzazione miocardica nel
paziente con diabete dovrebbero favorire il bypasscoronarico
rispetto all’angioplastica.
Classe
IIa
Livello
A
Gli inibitori gli proteine IIb/IIIa sono indicati in elettive caso di PCI
elettiva nel paziente diabetico.
I
B
Quando si esegue una PCI con impianto di stent nel paziente
diabetico, dovrebbero essere utilizzati gli stent medicati.
IIa
B
La riperfusione meccanica attraverso PCI è la modalità di
rivascolarizzazione di prima scelta per il paziente diabetico con
IMA.
I
A
Tabella 20: raccomandazioni
Le procedure di rivascolarizzazione coronarica potrebbero essere indicate nei pazienti diabetici con
sindrome coronarica stabile o instabile, coinvolgendo l'intero spettro di cardiopatia ischemica da
pazienti asintomatici ai pazienti con infarto miocardico con elevazione del tratto ST, con malattia
coronarica e come prevenzione della morte cardiaca improvvisa. I pazienti con diabete hanno una
maggiore mortalità e morbilità dopo CABG rispetto ai non-diabetici, e questo viene visto anche in
pazienti sottoposti a PCIs 488-490. L'influenza del controllo glicometabolico sul risultato dopo
rivascolarizzazione (insulina vs terapia orale) è ancora poco chiaro.
Intervento chirurgico vs percutanea
L'efficacia del PCI e bypass chirurgico, come modalità di rivascolarizzazione è stata confrontata in
diversi studi clinici controllati e randomizzati. Dopo che lo stent è divenuto disponibile, sono stati
condotti studi per il confronto di questa nuova tecnologia con il CABG in pazienti con patologia
coronarica multi distrettuale. 474-477
Maggiori interessi sono stati sollevati dopo che un analisi post hoc di un sottogruppo dello studio BARI
in pazienti con diabete e malattia coronarica multi distrettuale ha dimostrato una prognosi meno
favorevole tra quelli trattati con PCI rispetto a quelli sottoposti a CABG (Tabella 21). 458,496 Nello
studio BARI, la sopravvivenza a 7 anni per la popolazione totale era 84.4% per i pazienti trattati
chirurgicamente e 80.9% per il PCI (P = 0,043). Le percentuali corrispondenti per i pazienti con diabete
sono state 76.4% vs 55.7% (P = 0,001).
Ciò suggerisce che la differenza non significativa tra le due strategie di intervento era limitata alla PCI
nei pazienti con diabete. Inoltre, nello studio BARI, la differenza di sopravvivenza era limitata ai
pazienti diabetici che hanno ricevuto almeno un graft con una arteria mammaria interna. 459
Lo studio BARI non è stato concepito per la valutazione nei pazienti diabetici. Il sospetto sollevato
dallo studio BARI che la prognosi a lungo termine dopo PCI potrebbe essere peggiore nei pazienti con
diabete con malattia coronarica multi distrettuale è stato, tuttavia, confermato da un altra grande
46
valutazione delle procedure di rivascolarizzazione. 479 Pazienti non randomizzati, eleggibili per lo
studio BARI, sono stati inseriti in un registro. La tecnica di rivascolarizzazione è stata lasciata alla
discrezione dei pazienti e dei medici. Nel registro BARI, non sono state osservate simili differenze
nella mortalità (Tabella 21). 456,460 Inoltre, altri tre studi, condotti quando l’angioplastica era già
disponibile, non potevano confermare la conclusione dello studio BARI per quanto riguarda i pazienti
diabetici sottoposti a PCI: RITA-1, CABRI, e EAST (Tabella 21). 471-473
Lo studio AWESOME (Angina with Estreme Serious Operative Mortality Evaluation) ha randomizzato
solo pazienti con angina instabile e ad alto rischio chirurgico. Nel gruppo PCI, il 54% dei pazienti ha
ricevuto stent e 11% ha ricevuto antagonisti della glicoproteina IIb / IIIa. 477
L'impressione avuta da questi studi è che la sopravvivenza non differisce, ma che i pazienti diabetici
hanno una più alta incidenza di ripetere la rivascolarizzazione e che la restenosi è ancora un grave
problema soprattutto in questa categoria di pazienti (Tabelle 21 e 22).
PAZIENTI
(n)
353
124
59
STUDIO
BARI 458
CABRI471
EAST472
REGISTRO
BARI 460
330
FOLLOW UP Mortalità (%)
(anni)
CABG PCI
7
23,26
44,3
4
12,5
22,6
8
24,5
39,9
14,9
14,4
5
P value
<0,001
NS
NS
NS
Tabella 21:studi per la valutazione del diabete e la rivascolarizzazione
per malattia mutivasale
STUDIO
Pazienti
(n)
ARTS 474
SoS476
AWESOME477
208
150
144
FOLLOW
UP
(anni)
3
1
5
Mortalità (%)
CABG PCI
4,2
0,8
34
7,1
2,5
26
Rivascolarizzazione
(%)
CABG
PCI
8,4
41,1
P value
0,39
NS
0,27
Tabella 22:rivascolarizzazione nel paziente diabetico con malattia multivasale nell'epoca di PCI
Terapia aggiuntiva
Tutti gli studi citati sinora sollevano la questione se la rivascolarizzazione mediante PCI o CABG è da
preferire nei pazienti con diabete e malattia coronarica multivasale.
Gli stent, e in seguito gli stent medicati (DES), sono nati per migliorare l'esito del PCI nel paziente
diabetico. Anche se i risultati sono promettenti, soltanto un piccolo studio si è effettivamente dedicato
alla trombosi subacuta dello stent, alla restenosi, e al risultato a lungo termine in questa categoria di
pazienti e altri dati disponibili si riferiscono a sottoinsiemi di pazienti inclusi negli studi su stent e
DES457,462,480-482. Una recente meta-analisi ha confrontato gli stent medicati con gli stent di metallo
nella sottopopolazioni di diabetici in diversi studi clinici e ha rivelato che gli stent medicati sono stati
associati ad un 80% di riduzione del rischio relativo per restenosi durante il primo anno di follow-up
483
. Saranno certamente necessari futuri studi clinici che confronteranno i DES con il bypass per
determinare la strategia migliore di rivascolarizzazione nei pazienti diabetici con malattia multivasale.
Nei pazienti diabetici gli inibitori piastrinici della glicoproteina piastrinica IIb/IIIa migliorano il
47
risultato dopo PCI quando somministrati durante la procedura. In tre studi randomizzati con abciximab,
c'è stata una riduzione del 44% della mortalità dopo 1 anno, suggerendo che questi agenti sono indicati
in tutti i pazienti diabetici sottoposti a PCI. 482 Antagonisti del recettore adenosina-difosfato (ADP)
(tienopiridine), come il clopidogrel, possono impedire le complicanze tardive di trombosi dello stent
dopo impianto, in particolare nei pazienti con diabete. 438
Nei pazienti con diabete, la natura progressiva della malattia aterosclerotica, la marcata disfunzione
endoteliale e le anomalie della coagulazione e delle piastrine sono responsabili di un esito meno
favorevole dopo rivascolarizzazione. Trattamenti ulteriori dovranno essere incentrati su queste
specifiche entità di malattia, ponendo particolare attenzione alla malattia concomitante e ai fattori di
rischio. Tuttavia, non sono stati eseguiti studi randomizzati per verificare se queste misure influenzino
il risultato delle procedure di rivascolarizzazione. Inoltre, non sono disponibili dati per quanto riguarda
se il miglioramento del controllo glicemico possa ridurre l'incidenza di restenosi dopo PCI o migliorare
la pervietà del bypass dopo CABG. Nel Euro Heart Survey sulla rivascolarizzazione coronarica, è stata
posta l’attenzione se, in generale, il diabete sia associato ad un aumento della preferenza del medico per
un trattamento medico o per la rivascolarizzazione. In una vasta gamma di protocolli di trattamento
europei, il diabete non è stato considerato tra i fattori che determinano la decisione sul trattamento della
coronaropatia stabile. 490 Tuttavia, dovrebbe essere sempre presa in considerazione l’alta incidenza di
una seconda rivascolarizzazione nei pazienti trattati con PCI. Sebbene i pazienti che presentano la
malattia coronarica acuta hanno diverse caratteristiche cliniche da quelli che si presentano con sindromi
coronariche stabili, l’opinione generale è che l'approccio, per quanto riguarda le modalità di
rivascolarizzazione, debba essere identico. 491
Rivascolarizzazione e riperfusione nell’infarto miocardico
I pazienti con diabete o iperglicemia possono avere differenti risposte alle diverse strategie di
trattamento utilizzato nell’infarto miocardico. 400,492-494
Nei pazienti con infarto miocardico ed elevazione del tratto ST, la trombolisi sembra essere meno
efficace nei pazienti affetti da diabete. 495 In generale crescenti evidenze suggeriscono che
l’angioplastica primaria sia preferibile alla trombolisi come terapia riperfusiva nell’infarto miocardico
con elevazione del tratto ST. 496-498 E’ meno chiaro se questo vantaggio sia presente anche nei pazienti
diabetici. Ancora, la PCI primaria è stata suggerita come il trattamento di scelta nei pazienti ad alto
rischio, tra i quali sono considerati i pazienti diabetici. 496,497 Sebbene la trombolisi sia meno utile nei
pazienti diabetici, anche la rivascolarizzazione e la riperfusione mediante PCI primaria potrebbe essere
meno efficace a causa di una CAD più diffusa, dei diametri dei vasi più piccoli e per una tendenza più
elevata a formare restenosi. 499,500 I pazienti con DM hanno una prognosi sfavorevole dopo infarto
miocardico con elevazione del tratto ST e dopo riperfusione miocardica, come dimostrato da una
incompleta risoluzione del tratto ST dopo angioplastica primaria e da un ridotto grado di rossore
miocardico, rispetto ai pazienti non diabetici. 400
Identificare il metodo di riperfusione miocardica ottimale nei pazienti diabetici è di grande importanza
clinica, dato il numero elevato di infarto miocardico con elevazione del tratto ST in questi pazienti e la
prognosi peggiore. 309,501 Una recente analisi su pazienti diabetici, che prendeva in considerazione 11
studi randomizzati, ha dimostrato un beneficio di sopravvivenza per i pazienti trattati con PCIs rispetto
48
a quelli posti in trattamento con farmaci trombolitici. 497,498 Questi risultati sono stati confermati da altri
due studi. 502,503
L’intervento cardiochirurgico nel trattamento dell’infarto miocardico con elevazione del tratto ST è
indicato solo quando l'anatomia coronarica non è passibile di un intervento percutaneo, o dopo che tale
intervento non sia riuscito e la zona di miocardio a rischio è grande, o quando si sono verificate
complicanze meccaniche.
Questioni irrisolte
Nei pazienti con diabete e CAD, sia la PCIs che il CABG sono le opzioni di trattamento, anche se resta
da stabilire quale sia preferibile. La stragrande maggioranza degli studi comprende solo sottogruppi di
pazienti con diabete, ma non è stata dedicata a pazienti con diabete in particolare.
Inoltre, solo studi randomizzati che includano pazienti diabetici da sottoporre a rivascolarizzazione
tramite moderne tecnologie, come gli stent medicati, potranno dare la risposta se il CABG, procedure
ibride di rivascolarizzazione o l’angioplastica siano la modalità di trattamento da preferire. A seconda
del coinvolgimento diffuso del processo aterosclerotico, del tipo di diabete, dell’idoneità all’intervento
percutaneo, della presentazione clinica, della presenza di occlusione totale cronica, della morfologia
della lesione e del coinvolgimento prossimale della coronaria anteriore sinistra discendente, della comorbidità e di altri fattori si potranno definire sottogruppi che possano beneficiare da una o l’altra
opzione di rivascolarizzazione. Tali studi sono in corso, ma fino a quando questi non saranno
completati, una classificazione rimane altamente speculativa.
Insufficienza cardiaca e diabete
Raccomandazioni
ACE inibitori sono raccomandati come terapia di prima scelta nel
paziente diabetico con ridotta funzione di pompa con o senza
sintomi.
Classe
I
Livello
C
I sartanici hanno effetti similari agli ACE inibitori quando impigati
nello scompenso cardiacoe possono essere utilizzati in alternativa o
in associazione agli ACE inibitori.
I
C
Beta bloccanti (metoprololo, bisoprololo e carvedilolo) sono
raccomandati come terapia di prima scelta nel paziente diabetico
con scompenso cardiaco.
I
C
IIa
C
IIb
C
I diuretici, in partisolare i diuretici dell’ansa, sono importanti per il
trattamento della sintomatologia dell’edema da scompenso
cardiaco nel paziente diabetico.
Antagonisti aldosteronici possono essere impiegati in associazione
agli ACE inibitori, beta bloccanti e diuretici nel paziente diabetico
con grave scompenso cardiaco.
Tabella 23: raccomandazioni
49
Aspetti Epidemiologici :
Prevalenza di insufficienza cardiaca e alterazione della tolleranza ai carboidrati
La prevalenza di insufficienza cardiaca varia nei diversi studi; è stata stimata pari a 0.6-6.2% negli
uomini svedesi e aumenta con l'età. Questo dato è simile alla prevalenza generale di insufficienza
cardiaca in entrambi i sessi riscontrata nella popolazione dello studio Rotterdam e dello studio
Reykjavık. 514-516 Si conosce meno quale è la prevalenza dell’associazione tra diabete e insufficienza
cardiaca. I più recenti e ampi dati sulla prevalenza di insufficienza cardiaca e diabete provengono dallo
studio Reykjavı'k che dimostra che la prevalenza della associazione tra insufficienza cardiaca e diabete
è dello 0,5% negli uomini e 0,4% nelle donne, aumentando all'aumentare dell'età. L’insufficienza
cardiaca è stata riscontrata nel 12% dei soggetti con diabete rispetto al solo 3% negli individui senza
diabete. Pertanto, veniva riscontrata una forte associazione tra diabete ed insufficienza cardiaca. 516
Incidenza di insufficienza cardiaca e anomalie del glucosio
Tra i pazienti britannici l'incidenza di insufficienza cardiaca è stata registrata pari a circa 4/1000
persone-anno, in aumento con l'età. Dati similari sono stati registrati in Finlandia. 517,518 Meno
informazioni sono disponibili sull’incidenza dell’associazione tra diabete e insufficienza cardiaca.
Nello studio Framingham, l'incidenza di insufficienza cardiaca è stata doppia
nei maschi e cinque volte superiore nelle donne con diabete nel corso dei 18 anni di follow-up, rispetto
ai pazienti non diabetici, 519 e nella popolazione generale di anziani italiani, l'incidenza di diabete era
9.6% per ogni anno in pazienti con insufficienza cardiaca. 520
Implicazioni prognostiche
In presenza di diabete e scompenso cardiaco, la prognosi diviene severa. 521 Il diabete è anche un grave
fattore prognostico per mortalità cardiovascolare nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra a
causa della cardiopatia ischemica. 522 Nella popolazione generale dello studio Reykjavık, la
sopravvivenza è diminuita in maniera significativa, con la concomitante presenza di entrambi le
condizioni, insufficienza cardiaca e anomalie del metabolismo del glucosio, anche dopo aggiustamenti
per i fattori di rischio cardiovascolari e per la cardiopatia ischemica. 523 Questo può essere visto come
un indicatore della gravi implicazioni dell’associazione tra diabete e insufficienza cardiaca.
Trattamento
Ci sono pochissimi studi clinici sul trattamento dell’insufficienza cardiaca specificatamente mirati per i
pazienti diabetici. Le informazioni sull’efficacia del trattamento con vari farmaci sono quindi basate sui
sottogruppi di pazienti diabetici inclusi in studi clinici sull’insufficienza cardiaca. Lo svantaggio di
questo dato è che i sottogruppi non sono sempre ben definiti per quanto riguarda lo stato e il
trattamento del diabete. Molti dati mostrano un’efficacia simile nei pazienti diabetici e nei soggetti non
diabetici. Il trattamento tradizionale dello scompenso cardiaco nei pazienti diabetici è attualmente
basato sui diuretici, gli ACE-inibitori, i β-bloccanti, come sottolineato in altre linee guida. 420,506
Inoltre, si presume che un meticoloso controllo metabolico dovrebbe essere di beneficio nello
scompenso cardiaco in pazienti con diabete. 524
50
ACE-inibitori
L'impiego degli ACE-inibitori è indicato sia nella disfunzione cardiaca asintomatica sia
nell’insufficienza cardiaca sintomatica dal momento che migliora i sintomi e riduce la mortalità. Gli
ACE-inibitori sono utili nell’insufficienza cardiaca moderata-severa con e senza diabete.
Lo studio Studies of Left Ventricular Dysfunction (SOLVD) ha mostrato una efficacia similare del
trattamento con enalapril in pazienti con compromissione della funzione ventricolare sinistra con e
senza diabete, 530 e nello studio Assessment of Treatment with Lisinopril and Survival (ATLAS),
quando si sono confrontate alte e basse dosi di lisinopril, la riduzione della mortalità è stata subottimale
sia nel paziente diabetico come nel soggetto non diabetico. 531 In pazienti diabetici in trattamento con
ipoglicemizzanti in seguito alla istituzione di ACE-inibitori sono stata riportata ipoglicemie534,535.
Si raccomanda pertanto di controllare in questi pazienti attentamente la glicemia nella prima fase
dell'istituzione di un ACE-inibitore.
Inibitori del recettore dell’Angiotensina II
I sartanici possono essere utilizzati in alternativa agli ACE-inibitori per migliorare la morbilità e la
mortalità nei pazienti con insufficienza cardiaca o possono essere utilizzati anche in combinazione con
ACE-inibitore in pazienti con insufficienza cardiaca sintomatica. 506 L'uso dei sartanici non è stato
verificato principalmente in pazienti con insufficienza cardiaca e diabete, ma in analisi di sottogruppi di
grandi studi clinici, gli effetti benefici sono stati equivalenti a quelli degli ACE-inibitori. 536-538
β-bloccanti
Il β-blocco diminuisce l’esposizione del miocardio agli acidi grassi liberi, pertanto varia questa via
metabolica nei pazienti con diabete539-540. Non ci sono studi che affrontano specificamente l'uso di βblocco nei pazienti con insufficienza cardiaca e diabete. Le analisi dei sottogruppi di pazienti diabetici
nei grandi studi sull’insufficienza cardiaca hanno comunque dimostrato che i β-bloccanti riducono la
mortalità e migliorano i sintomi nella insufficienza cardiaca moderata-grave in misura simile nei
pazienti con e senza diabete. Poiché la mortalità è notevolmente più elevata tra i pazienti con
insufficienza cardiaca diabetici rispetto ai non diabetici, l'NNT per salvare una sola vita è
sostanzialmente minore nella coorte dei diabetici. I seguenti β-bloccanti possono, sulla base dei risultati
di studi clinici che includono sottogruppi di pazienti con diabete, sono raccomandati come trattamento
di prima scelta nei pazienti con insufficienza cardiaca e diabete: Metoprololo (MERIT-HF),
Bisoprololo (CIBIS II), e Carvedilolo (COPERNICUS e COMET). 432,541-545
Diuretici
I diuretici sono obbligatori per la risoluzione dei sintomi, che sono causati da un sovraccarico di liquidi.
Questi farmaci non dovrebbero, tuttavia, essere usati in eccesso poiché essi inducono l'attivazione
neuro-ormonale.547 Anche se non ci sono studi specifici che considerano il risultato dell'utilizzo dei
diuretici nell’insufficienza cardiaca in una popolazione di pazienti diabetici, vengono raccomandati i
diuretici dell’ansa, piuttosto che i diuretici tiazidici, in quanto questi possono compromettere lo stato
glicometabolico. 546
51
Antagonisti dell’Aldosterone
L'aggiunta di antagonisti dell’aldosterone è indicata, nelle forme gravi di insufficienza cardiaca e può
migliorare la sopravvivenza. 547 Sulla somministrazione di antagonisti dell’aldosterone in pazienti con
insufficienza cardiaca e diabete non è disponibile nessuna informazione specifica proveniente da
studi clinici. L'uso di inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone deve essere fatto con cautela
e sorvegliando la funzione renale e i livelli di potassio, in quanto non è infrequente la presenza di
nefropatia tra i pazienti con insufficienza cardiaca e diabete.
Ipoglicemizzanti e Modulatori del Metabolismo
Insulina
L'effetto principale dell’insulina è di ridurre la glicemia, ma può anche aumentare il flusso di sangue
del miocardio, diminuire la frequenza cardiaca, e provocare un modesto aumento della gittata cardiaca
548,549
Il trattamento con insulina nei pazienti con insufficienza cardiaca e diabete è in fase di
discussione. È stato dimostrato che l’insulina possiede effetti benefici sulla funzione miocardica, ma
anche che può essere associata ad un aumento della mortalità. 540,550 Sono necessari ulteriori studi per
stabilire il ruolo specifico del trattamento con insulina al di là del ruolo ipoglicemizzante nei pazienti
con diabete ed insufficienza cardiaca. In generale, si assume che un controllo metabolico meticoloso sia
utile nei pazienti con insufficienza cardiaca e diabete524, ma questa ipotesi non è ancora stata testata in
studi clinici prospettici.
Tiazolidinedioni
I tiazolidinedioni sono insulino sensibilizzanti, vengono utilizzati come farmaci per ridurre la glicemia
nel trattamento del diabete. A causa di un rischio di ritenzione di liquidi, e, di conseguenza, un
peggioramento dei sintomi di insufficienza cardiaca, l'uso di questi farmaci è controindicato nei
pazienti con insufficienza cardiaca di classe NYHA III-IV. 552
Essi possono, tuttavia, se necessario, essere utilizzati in pazienti con lieve grado di insufficienza
cardiaca, di classe NYHA I-II.
Farmaci modulatori metabolici
Farmaci quali la trimetazidina, l’etomoxir e il dicloroacetato che mirano a trasformare il metabolismo
del miocardio dalla β ossidazione degli FFA verso la glicolisi, sono stati testati in pazienti con
disfunzione miocardica e diabete, ma la loro utilità non è stata dimostrata. 553-556
52
Aritmie: fibrillazione atriale e morte cardiaca improvvisa
Raccomandazioni
Uso di aspirina e antiaggreganti è raccomandato per i pazienti con
fibrillazione atriale dovrebbe essere rigorosamente applicato anche
per i pazineti diabetici con fibrillazione atriale per la prevenzione
dello stroke.
La terapia cronica anticoaugulante orale nella dose ottimizzata al
fine di raggiungere gli obiettivi internazionali di INR 2-3 dovrebbe
essere considerata in tutti i pazienti con fibrillazione atriale e
diabete se non presentano controindicazioni.
Il controllo glicemico anche allo stato di pre-diabete è importante
per prevenire lo sviluppo di alterazioni che predispongono a morte
cardiaca improvvisa.
Le complicanze micro vascolari e la nefropatia sono indicatori di
aumentato rschio di morte cardiaca improvvisa nei pazienti
diabetici.
Classe
I
Livello
C
IIa
C
I
C
IIa
B
Tabella 24: Raccomandazioni.
Diabete, fibrillazione atriale, e rischio di ictus
Diabete e fibrillazione atriale
Il diabete non è infrequente nei pazienti con fibrillazione atriale. Nello studio Etude en Activité
Liberale sur le Fibrillation Auriculaire (ALFA) la percentuale di diabete nei pazienti con fibrillazione
atriale cronica è stata del 13.1%, rendendo il diabete una condizione comunemente associata, superata
solo dall’insufficienza cardiaca e dall’ipertensione561 Si è dimostrato che diversi fattori cardiaci e non
cardiaci possono avere un effetto sull’incidenza di fibrillazione atriale. Lo studio Manitoba Followup562 ha stimato l’incidenza età specifica della fibrillazione atriale in 3.983 maschi. Il diabete era
significativamente associato alla fibrillazione atriale, con un rischio relativo di 1.82 nella analisi
univariata. Tuttavia, nel modello multivariato, l'associazione con il diabete non ha raggiunto la
significatività, suggerendo che l'aumento del rischio di fibrillazione atriale negli uomini diabetici può
dipendere dalla presenza di cardiopatia ischemica, ipertensione ed insufficienza cardiaca.
Nello Framingham Heart Study, 563 il diabete era significativamente associato alla fibrillazione atriale
in entrambi i sessi, anche dopo aggiustamento per età e altri fattori di rischio (OR 1.4 per gli uomini e
1.6 per le donne). Sebbene i meccanismi alla base di questa associazione restano da chiarire, il diabete
sembra favorire l'insorgenza di fibrillazione atriale.
Diabete e rischio di ictus nella fibrillazione atriale
Il gruppo di studio sulla fibrillazione atriale ha analizzato i dati provenienti dal gruppo di controllo dei
53
cinque studi di prevenzione primaria di pazienti con fibrillazione atriale posti in trattamento con
aspirina o warfarin. Lo scopo delle analisi è stato quello di individuare le caratteristiche cliniche
indicative di un alto vs basso rischio di ictus. Al momento della randomizzazione, il 14% dei pazienti
presentava diabete. Nei pazienti del gruppo di controllo i fattori di rischio che predicono l’ictus
nell’analisi multivariata sono l’aumento dell'età, la storia di ipertensione, un precedente attacco
ischemico transitorio (TIA) o ictus, il diabete. In particolare, la diagnosi di DM, era un fattore di rischio
indipendente per l'ictus, con un rischio relativo di 1.7.
Il tasso di eventi embolici originati dall'atrio nei pazienti con fibrillazione atriale aumenta con la
riduzione della velocità di flusso dell’appendice atriale sinistra e la presenza di eco contrasto
nell’ecocardio doppler transesofageo. 575 E’ stato dimostrato un rapporto tra il numero di ulteriori
fattori di rischio nei pazienti con fibrillazione atriale, compresi diabete, e la presenza di eco contrasto o
ridotta velocità del flusso dell’appendice atriale sinistra 576, suggerendo che fattori come l'ipertensione
e il diabete possano influenzare il complesso dei meccanismi tromboembolici.
La terapia antitrombotica e la fibrillazione atriale
Una meta-analisi di 16 studi clinici randomizzati su 9.874 pazienti è stata eseguita per caratterizzare
l'efficacia degli anticoagulanti e dei farmaci antiaggreganti piastrinici per la prevenzione dell’ictus in
presenza di fibrillazione atriale. 577 Gli anticoagulanti orali si sono dimostrati efficaci per la
prevenzione primaria e secondaria dell’ictus in studi comprendenti 2.900 pazienti, con riduzione del
rischio relativo del 62% (95% CI 48-72). La riduzione del rischio assoluto era del 2.7% per anno per la
prevenzione primaria e 8.4% per la prevenzione secondaria. Con la terapia anticoagulante i
sanguinamenti extracranici maggiori sono aumentati dello 0.3% per anno. L’aspirina riduce l’ictus del
22% (95% CI 2-38), con una riduzione del rischio assoluto di 1.5% per anno per la prevenzione
primaria e di 2.5% per anno per la prevenzione secondaria. Nei cinque studi, confrontando la terapia
anticoagulante e gli agenti antiaggreganti in 2837 pazienti, il warfarin è risultato più efficace
dell’aspirina, con una riduzione del rischio relativo del 36% (95% CI 14-52). Questi effetti sono stati
osservati in entrambi le forme di fibrillazione atriale, cronica e parossistica.
Gli anticoagulanti orali sono più efficaci per i pazienti a rischio elevato di ictus, mentre i rischi
superano i benefici nei pazienti a basso rischio. Così, quantificare il rischio di ictus è di fondamentale
importanza per determinare quali pazienti con fibrillazione atriale trarrebbero maggior vantaggio dalla
terapia anticoagulante.
Diabete e stratificazione del rischio per ictus
Sono stati proposti diversi schemi di stratificazione del rischio per ictus per i pazienti con fibrillazione
atriale, e nella maggior parte di questi, il diabete viene preso in considerazione come un importante
fattore di rischio. I pazienti sono considerati a basso, moderato, e ad alto rischio di ictus in relazione
all’età, a pregresso ictus o TIA e alla presenza di altri fattori di rischio, quali ipertensione, il diabete,
CAD, e di insufficienza cardiaca. Tuttavia, l'importanza del diabete come fattore di rischio per ictus
differisce tra gli schemi di stratificazione. Nello schema proposto da studiosi della fibrillazione
atriale565 i pazienti diabetici sono considerati ad alto rischio, in maniera indipendente dall’età. Nello
schema prodotto dall’American College of Chest Physicians (ACCP), sono classificati a rischio
moderato e ad alto rischio solo se è presente un altro fattore di rischio578, mentre nello schema fornito
dallo Stroke Prevention in Atrial fibrillation III Study (SPATRIAL) il diabete non è considerato un
54
fattore di rischio579. Due schemi sviluppati recentemente si sono basati sull’assegnazione di un
punteggio: questi sono il CHADS2 (acronimo derivato dai singoli fattori di rischio per ictus:
insufficienza cardiaca congestizia, ipertensione, età> 75 anni, il diabete, pregresso ictus o TIA) e il
Framingham scheme580,581.
Nel CHADS2, vengono assegnati due punti per pregresso ictus o TIA (quindi, 2), e un punto per
ciascuno degli altri fattori. Nel Framingham Score è stato sviluppato un sistema di assegnazione del
punteggio in base all’età (0-10 punti), al sesso (6 punti per le femmine; 0 per i maschi), alla pressione
arteriosa (0-4 punti), al diabete mellito (4 punti), e al pregresso ictus o TIA (6 punti). Uno studio
prospettico di coorte ha testato l’accuratezza del valore predittivo di questi cinque schemi di
valutazione della stratificazione del rischio di ictus inserendo nei singoli i dati provenienti da 2.580
partecipanti con fibrillazione atriale di origine non-valvolare ai quali è stata prescritta aspirina come
trattamento anti-trombotico. 582 Tutti gli schemi erano predittivi per ictus, ma il numero di pazienti
classificati come a basso e ad alto rischio variava notevolmente. I pazienti con fibrillazione atriale e
pregressa ischemia cerebrale sono stati classificati ad alto rischio da tutti e cinque i schemi, ed anche i
pazienti a basso rischio sono stati identificati da tutti i schemi. Tuttavia, solo CHADS2 ha individuato
correttamente i pazienti ad alto rischio di ictus da porre in prevenzione primaria. Una considerazione è
che per questo sistema la presenza di diabete è un importante contributo nella stratificazione del
rischio. Nelle linee guida in materia di fibrillazione atriale stilate nel 2006 dall’American College of
Cardiology/American Heart Association/European Society of Cardiology (ACC / AHA / ESC) 583, il
diabete viene classificato come un fattore di rischio moderato insieme all’età >75 anni, all’ipertensione,
allo scompenso cardiaco e alla frazione di eiezione ventricolare sinistra < 35%.
La terapia antitrombotica nei pazienti diabetici
Entrambe le linee guida del 2006 per la fibrillazione atriale di AHA/ACC/ESC583 e dell'American
College of Chest Physicians584 consigliavano la terapia antitrombotica per tutti i pazienti con
fibrillazione atriale ad eccetto di coloro che presentano controindicazioni. La scelta del farmaco
antitrombotico dovrebbe essere basata sulla valutazione dei rischi e dei benefici per il singolo paziente,
considerando il rischio assoluto di ictus e di sanguinamento, con le varie modalità di trattamento. Nei
pazienti con fibrillazione atriale cronica o parossistica che hanno già avuto un ictus o un TIA è indicata
la terapia anticoagulante con un INR compreso tra 2.0 e 3.0, indipendentemente dall’età o dalla
presenza di altri fattori di rischio. Inoltre, nei pazienti con più di un fattore di rischio per la
tromboembolia, dei quali uno è il diabete, dovrebbero ricevere un trattamento anticoagulante. Nei
pazienti considerati ad elevato rischio di sanguinamento (ad esempio età >75 anni), ma senza una
chiara controindicazione al trattamento anticoagulante orale, potrebbe essere preso in considerazione
un intervallo di riferimento per INR inferiore a 2.0 (1.6-2.5). Le raccomandazioni per la terapia
antitrombotica nella fibrillazione atriale in presenza di un solo fattore di rischio sono secondo le linee
guida 2006 di AHA / ACC / ESC, l’utilizzo di aspirina 81-325 mg al giorno o la terapia anticoagulante.
L’aspirina è indicata alla dose di 325 mg al giorno come alternativa per i pazienti con controindicazioni
per il trattamento anticoagulante orale. In tutti i pazienti con fibrillazione atriale, in cui è indicata la
terapia anticoagulante, INR deve essere determinato almeno settimanalmente all'inizio della terapia e
mensilemente quando il paziente è stabile. Nel complesso e sebbene non siano disponibili dati di studi
multicentrici e randomizzati volti a valutare il ruolo del trattamento con anticoagulanti o aspirina per
la prevenzione di ictus nei pazienti con fibrillazione atriale e diabete; sembra opportuno concludere che
55
il diabete è un fattore di rischio per ictus e che questo dovrebbe essere preso in considerazione nella
decisione della terapia appropriata.
Morte Cardiaca Improvvisa
Epidemiologia della morte cardiaca improvvisa nei pazienti diabetici
Sebbene non vi siano dubbi sull’eccesso di mortalità totale nei pazienti con diabete, dopo infarto
miocardico, più dibattuta è la questione se il diabete aumenta la morte cardiaca improvvisa; su questo
argomento in letteratura sono presenti risultati conflittuali. La morte improvvisa è un endpoint difficile
da valutare negli studi clinici a causa di vari motivi metodologici. Prima di tutto, la definizione di
morte cardiaca improvvisa potrebbe variare notevolmente da uno studio all'altro; inoltre, la modalità di
morte (improvvisa o non improvvisa), potrebbe essere 'arbitraria' soprattutto quando la morte è senza
testimone; infine la metodologia utilizzata per definire la causa di morte (autopsia vs. certificato di
morte vs. qualunque informazione disponibile) può anche determinare importanti differenze nella
percentuale di morti etichettate come morti cardiache improvvise585. Quando si indaga il legame tra il
diabete e la morte cardiaca improvvisa, la difficoltà metodologiche si raddoppiano, anche per quanto
riguarda la definizione di intolleranza ai carboidrati/diabete che può variare tra i diversi studi, variando
così la percentuale di pazienti 'diabetici' presenti nei vari studi. Fatte queste considerazioni, la presenza
di discrepanze tra i risultati dei diversi studi che hanno esaminato il ruolo del diabete come fattore di
rischio per la morte cardiaca improvvisa apparirà meno sorprendente. Suscita interesse che gli studi con
grandi numeri di pazienti e con follow-up molto lungo (>20 anni) sostengano l'esistenza di una
associazione positiva tra il diabete e morte cardiaca improvvisa.
Nello studio Framingham, il diabete era associato ad un aumentato rischio di morte cardiaca
improvvisa per tutte le età (quasi quattro volte), e il rischio di morte improvvisa associato a diabete era
costantemente maggiori nelle donne rispetto agli uomini. 586 L'importanza del diabete come una fattore
di rischio per la morte cardiaca improvvisa nelle donne è stato recentemente studiato utilizzando i dati
dello studio Nurses' Health587, che comprendeva 121.701 donne di età compresa tra 30-55 anni seguite
per 22 anni. E 'stato riportato che la morte cardiaca improvvisa si presenta come primo segno di
malattia cardiaca nel 69% dei casi, anche se quasi tutte le donne che sono morte improvvisamente
avevano almeno un fattore di rischio cardiaco. Il diabete era un fattore di rischio molto forte, in quanto
è stato associato a quasi un aumento triplo del rischio di morte improvvisa rispetto all’ipertensione, che
è stata associata ad un rischio maggiore di 2.5 volte, e l'obesità, ad un rischio maggiore di 1.6 volte.
Interessante notare che i dati dimostrano, inoltre, che il diabete aumenta il rischio relativo di morte
cardiaca improvvisa nei diversi gruppi etnici. The Honolulu Heart Programme588 ha esaminato il ruolo
del diabete come fattore predisponente in uomini di mezza età, giapponesi-americani seguiti per 23
anni. Questo studio ha mostrato un aumento del rischio relativo di morte cardiaca improvvisa nei
soggetti con intolleranza al glucosio e diabete rispetto ai non diabetici.
Più recentemente, gli autori dello studio Paris Prospective589 hanno dimostrato che il rischio di morte
cardiaca improvvisa, ma non quello di infarto miocardico fatale, è stato aumentato nei pazienti con
diabete rispetto a quelli senza. Allo stesso modo,the Group Health Cooperative590 ha presentato un
ampio studio di 5.840 persone rafforzando l'opinione che il diabete è un forte fattore di rischio per
morte cardiaca improvvisa nella popolazione francese. Sembra logico concludere che la maggior parte
56
degli elementi di prova consente di sostenere il concetto che il diabete è un fattore di rischio di morte
cardiaca improvvisa.
Fisiopatologia della morte cardiaca improvvisa e diabete
I pazienti diabetici hanno una maggiore incidenza di aritmie cardiache, compresa la fibrillazione
ventricolare e la morte improvvisa. Le cause alla base della maggiore vulnerabilità del tessuto di
conduzione in questi pazienti non sono chiare, ed è probabile che sia la conseguenza di una sinergia di
diversi fattori concomitanti: (i) aterosclerosi (ii) la malattia microvascolare è aumentata nei pazienti
con diabete e concorre allo sviluppo d’ischemia predisponendo ad aritmie cardiache; (iii) la neuropatia
autonomica diabetica592,593, porta ad anomali riflessi e anomala innervazione del cuore diabetico che
determina instabilità elettrica, (iv) l'elettrocardiogramma di pazienti diabetici presenta anomalie di
ripolarizzazione che si manifestano come prolungato l'intervallo QT alterato ed inversione dell’onda
T593 che possono riflettere un’anomala conduzione del potassio595. Sembra quindi probabile che fattori
quali CAD, alterazioni metaboliche, anomalie dei canali ionici, e disfunzioni del sistema nervoso
autonomo possono contribuire a creare il substrato per la morte cardiaca improvvisa nei diabetici.
In uno studio di Jouven e collaboratori590 gli autori spostano la loro attenzione dalla valutazione del
rischio di morte cardiaca improvvisa nei diabetici rispetto ai pazienti non diabetici, al rischio relativo di
morte cardiaca improvvisa, in gruppi di pazienti con diversi valori di glicemia. Lo studio ha mostrato
che più elevati sono i valori di glicemia maggiore è il rischio di SCD. Dopo correzione per età,
abitudine al fumo, pressione arteriosa sistolica, malattie cardiache e trattamento ipoglicemizzante,
anche i pazienti con diabete borderline definito come alterata tolleranza ai carboidrati con glicemia
dopo il carico orale di glucosio compresa tra 7.7 e 11.1mmol / L (140 e 200 mg/dl) hanno avuto un
aumento del rischio di morte cardiaca improvvisa [odds ratio (OR) 1.24, rispetto ai pazienti con
normoglicemia]. La presenza di malattia microvascolare, definita come retinopatia o proteinuria, e il
sesso femminile aumenta il rischio di morte cardiaca improvvisa in tutti i gruppi. Questo studio mette
in risalto soprattutto che l'intolleranza ai carboidrati sembra essere una variabile continua direttamente
correlata al rischio di morte cardiaca improvvisa, piuttosto che sostenere la precedente visione del
rischio legato ad una determinata soglia di tolleranza ai carboidrati, come suggerito dall’approccio
'dicotomico' di confronto tra i diabetici vs i pazienti non diabetici. Ciò coincide con l'attuale concetto di
rischio cardiovascolare, che aumenta ben di sotto alle soglie per la presenza di diabete e ai livelli
glicemici che sono considerati di solito nei limiti di norma64.
Gli autori dello studio Framingham600 hanno valutato l'influenza dei livelli glicemici sulla variabilità
della frequenza cardiaca in una grande popolazione. Essi hanno dimostrato che, dopo l'adeguamento
per le covariate, gli indici di ridotta variabilità della frequenza cardiaca sono stati influenzati dai valori
di glicemia. Alti livelli glicemici sono stati associati ad una minore variabilità della frequenza cardiaca.
Risultati similari sono stati segnalati dallo studio Atherosclerotic Risk in Commnity (ARIC) 601, che ha
dimostrato che anche i pazienti con pre-diabete hanno già anomalie della funzione autonomica cardiaca
e alterata variabilità della frequenza cardiaca. Questi due studi hanno confermato che il livello di
glicemia deve essere considerato come una variabile continua in grado di influenzare il controllo
autonomo del cuore. Purtroppo, questi studi non sono stati progettati per rispondere alla domanda se la
ridotta variabilità della frequenza cardiaca nei pazienti diabetici è un fattore predittivo indipendente di
morte cardiaca improvvisa. Al momento attuale, questa pressante domanda rimane senza risposta.
Lo studio Rochester Diabetic Neuropathy602 è stato progettato per definire i fattori di rischio per morte
cardiaca improvvisa e il ruolo della neuropatia autonomica diabetica in una popolazione di 462 pazienti
diabetici seguiti per 15 anni. In un’analisi univariata, molte covariate erano statisticamente associate a
57
morte cardiaca improvvisa compresa l’età avanzata, il colesterolo HDL, il grado di nefropatia, la
creatinina, la microalbuminuria, la proteinuria, un pregresso infarto del miocardio, l’allungamento del
tratto QT (QTc), il blocco di branca, neuropatia autonomica severa la ed altre ancora. Curiosamente,
risultati autoptici hanno dimostrato che tutti i decessi per morte cardiaca improvvisa avevano segni di
coronaropatia o miocardiopatia, ed un’analisi bivariata ha mostrato che la disfunzione autonomica QTc
e la riduzione delle HDL perdevano la loro associazione significativa con la morte cardiaca improvvisa,
dopo la correzione per la nefropatia. Nel complesso, i dati di questo studio suggeriscono che la
nefropatia e la coronaropatia sono le più importanti determinanti del rischio di morte cardiaca
improvvisa, mentre nessun altro parametro quale la neuropatia autonomica né un alterato QTc sono
fattori predittivi indipendenti di rischio per morte cardiaca improvvisa. Purtroppo, questo studio non ha
incluso la variabilità della frequenza cardiaca fra i parametri introdotti nell’analisi multivariata.
Pertanto, non sono disponibili dati forti sulla stima della variabilità della frequenza cardiaca come un
fattore predittivo indipendente di morte cardiaca improvvisa nei pazienti diabetici.
Sulla base dei dati disponibili, sembra che l'intolleranza ai carboidrati, anche in una fase di pre-diabete,
sia associata allo sviluppo progressivo di una serie d’anomalie che alterano la sopravvivenza e
predispongono alla morte cardiaca improvvisa.
L'identificazione di fattori predittivi indipendenti di morte cardiaca improvvisa nei pazienti diabetici
non è ancora giunto ad una fase in cui è possibile mettere a punto un sistema di stratificazione del
rischio per la prevenzione di tali decessi nei pazienti diabetici. In un unico studio, la malattia
microvascolare e la nefropatia sono state identificate come indicatori di aumentato rischio di morte
cardiaca improvvisa nei diabetici.
Vasculopatia periferica e cerebrovascolare
Raccomandazioni
Tutti i pazienti con diabete e CVD dovrebbero essere
trattati con basse dosi di ASA.
Nei pazienti diabetici con vasculopatia periferica si
dovrebbe considerare il trattamento in alcuni casi con
clopidrogel o eparina a basso peso molecolare
Classe
IIa
Livello
B
IIb
B
I pazienti con ischemia critica dell’arto inferiore dovrebbero,
se possibile, essere sottoposti a procedura di
rivascolarizzazione.
I
A
L’infusione di prostaciclina rappresenta un trattamento
alternativo nel paziente con ischemia critica dell’arto inferiore,
non passibile di rivascolarizzazione
I
A
Tabella 25: raccomandazioni
58
Vasculopatia Periferica
I soggetti con diabete hanno una incidenza di vasculopatia periferica aumentata da due a quattro volte e
un anormale indice di pressione caviglia-brachiale presente in circa il 15%603-605. Le manifestazioni
cliniche della vasculopatia periferica sono: claudicatio intermittens e ischemia critica degli arti. La più
comune e non traumatica causa di amputazione degli arti è la riduzione della circolazione del piede a
causa della macro- e microangiopatia diabetica. La prevalenza della vascolopatia periferica aumenta
con l'avanzare età, la durata del diabete e la neuropatia periferica. Quest'ultima condizione potrebbe
mascherare i sintomi di ischemia degli arti e quindi la progressione della malattia potrebbe avvenire
senza che pazienti e i medici se ne rendano conto.
La diagnosi precoce della vascolopatia periferica nei pazienti diabetici è importante per la prevenzione
della progressione di essa, nonché per la previsione del rischio cardiovascolare globale. L'ostruzione
vascolare nei soggetti con diabete è spesso situata più distalmente rispetto ai soggetti non diabetici.
Così, la tipica vasculopatia periferica diabetica è situata a carico dell’arteria poplitea o dei vasi della
porzione inferiore della gamba606,607. La calcificazione della tonaca media dei vasi è anche un segno
tipico della vascolopatia diabetica607,608.
Diagnosi
I sintomi di ischemia della gamba nei pazienti diabetici con neuropatia periferica sono spesso atipici e
subdoli. Piuttosto che l'esperienza di dolore alle gambe, il paziente può accusare affaticamento alle
gambe o solo incapacità di camminare a un ritmo normale. L’esame obiettivo è di fondamentale
importanza per la diagnosi. La palpazione dei polsi agli arti inferiori e l’osservazione dei piedi sono
essenziali. La presenza di rubor, di pallore quando si solleva l’arto, l’assenza di peli e la distrofia
ungueale sono segni di ischemia periferica. Una misura oggettiva della vasculopatia periferica è
l’indice di pressione arteriosa caviglia-brachiale, definito come il rapporto tra la pressione arteriosa a
livello della caviglia e a livello dell’arteria brachiale considerando la pressione più alta. L’indice di
pressione arteriosa caviglia-brachiale dovrebbe essere normalmente >0.9. Questa misura è utile per la
diagnosi precoce di vascolopatia periferica ed anche per una migliore stratificazione del rischio
cardiovascolare globale. Un indice di pressione arteriosa caviglia-brachiale <0.5 o una pressione alla
caviglia <50 mm Hg è indicativo di grave compromissione della circolazione a livello dei piedi. Un
indice di pressione arteriosa caviglia-brachiale >1.3 indica una scarsa elasticità dei vasi a causa di un
aumento della rigidità della parete arteriosa, che di solito nei pazienti diabetici è dovuta
all’arteriosclerosi a carico dello strato medio della parete arteriosa.
Un paziente con ischemia critica degli arti è caratterizzato da dolore ischemico cronico, ulcere e
cancrena attribuibili al una oggettiva vasculopatia. 609 È importante considerare che nonostante una
conservata circolazione, le ulcere nel piede diabetico potrebbero spesso essere presenti. Queste ulcere
sono determinate da alterazioni della microcircolazione e più spesso dalla neuropatia. Tuttavia, tali
ulcere deve essere trattate con attenzione in quanto anche da queste condizioni possono derivare
cancrena e amputazione610 .
Una indagine approfondita, che mira a una descrizione dettagliata dell’anatomia delle ostruzioni
vascolari dovrebbe essere effettuata solo nei pazienti in cui è indicata una procedura invasiva per
ripristinare il flusso di sangue. Il metodo di scelta è il duplex ultrasuoni. Una angiografia arteriosa
dovrebbe essere eseguita solo quando è probabile che sia necessario un intervento invasivo per
59
ripristinare la circolazione arteriosa. La Tabella 16 descrive i vari metodi per la valutazione della
circolazione periferica.
Alla visita medica in ogni paziente
Rubor
Pallore sollevando l’arto
Assenza di peli
Distrofie alle unghie dei
piedi
Ulcere o gangrene
Ispezione
Palpazione
Polsi
Cute secca e fredda
Sensibilità
Misurazione delle PA
Caviglia e braccio
Misurazione pressione distale e/o
segmentale.
Valutazione vascolare
(quando necessari)
Oscillografia.
Test di Treadmill (con o senza
pressione distale dopo esercizio).
Ecocolordoppler.
Per la valutazione del Ossimetria transcutanea
microcircolo:
Capilloroscopia
Valutazione radiologica Risonanza Magnetica Nucleare
Angiografia
Tabella 26: Valutazione della circolazione periferica nei pazienti diabetici
Trattamento
Misure di carattere generale e inibizione piastrinica
Per i pazienti diabetici con vascolopatia periferica, le misure generali per la riduzione del rischio
cardiovascolare globale dovrebbe essere intensive, come è stato descritto in dettaglio in un'altra sezione
di questa sintesi. Il trattamento di ipertensione dovrebbe essere vigoroso, anche se nei pazienti con
ischemia critica degli arti e perfusione distale molto bassa, potrebbe essere pericoloso per il piede
60
abbassare troppo la pressione arteriosa. La sopravvivenza dei tessuti nelle estremità distali deve essere
la priorità fino a quando la situazione critica sia risolta. In tali casi, la pressione del sangue deve essere
mantenuta ad un livello che consenta un adeguato afflusso di sangue alle estremità distali.
L’inibizione dell’aggregazione piastrinica con aspirina a basso dosaggio, alla dose di 75-250 mg al
giorno, è indicata in tutti i pazienti con diabete di tipo 2 e CVD che non hanno una controindicazione e
per i pazienti con grave vasculopatia periferica; inoltre l’inibizione dell'aggregazione piastrinica con
clopidogrel o dipiridamolo può essere indicato, in alcuni casi, insieme al trattamento con eparina a
basso peso molecolare, come anticoagulante di prima scelta611-614.
Nei pazienti con ulcere neuropatiche non-ischemiche è di massima importanza rimuovere eventuali
pressioni esterne dall’area dell’ulcera, talvolta anche tramite l’immobilizzazione del paziente su una
sedia a rotelle. Queste ulcere quindi più spesso guariscono senza alcun intervento diretto a migliorare la
macrocircolazione. Una attenta copertura della ferita e l’utilizzo di scarpe ortopediche o un opportuno
bendaggio dovrebbe essere gestiti da una clinico specializzato610. Purtroppo, molte amputazioni sono
state effettuate in casi in cui un attento trattamento conservativo avrebbe salvato le estremità.
Rivascolarizzazione
Se anatomicamente possibile, la procedura di rivascolarizzazione dovrebbe essere provata in tutti i
pazienti con ischemia critica degli arti609. Ciò può essere effettuato per mezzo di una angioplastica
percutanea transluminale o con una procedura chirurgica, preferibilmente un bypass con la vena safena.
L’angioplastica percutanea transluminale è il metodo di scelta se la stenosi avviene in breve segmento
in un tratto prossimale al di sopra del ginocchio. L’angioplastica percutanea transluminale prossimale
può essere associata ad un bypass distale. I pazienti con claudicatio intermittens dovrebbero essere
rivascolarizzati se hanno sintomi invalidanti e vascolopatia prossimale609 Per i pazienti con claudicatio,
che necessitano di un bypass nella porzione distale dell’arto, è indicato un approccio di tipo
conservativo.
Il trattamento medico nell’ischemia critica degli arti
L'unico agente farmacologico che ha finora dimostrato in modo convincente di avere un effetto
positivo sulla prognosi dei pazienti con ischemia critica degli arti è la prostaciclina sintetica (Ilomedin,
iloprost), che viene somministrata per via endovenosa una volta al giorno per un periodo di 2-4
settimane. In una meta-analisi, si otteneva sollievo dal dolore e guarigione dell’ulcera in confronto con
il placebo. Ancora più importante, nei pazienti con iloprost la probabilità di sopravvivenza con
entrambe le gambe intatte dopo sei mesi era del 65% rispetto al 45% nei pazienti trattati con placebo.
615
61
Stroke
Raccomandazioni
Per la prevenzione dell’ictus, la riduzione della pressione
arteriosa è più importante della scelta del farmaco.
L’inibizione del sistema renina-angiotensina-aldosterone
può avere dei benefici oltre alla riduzione della pressione di per sé
I pazienti con ictus e diabete dovrebbero essere trattati
secondo gli stessi principi dei pazienti con ictus senza diabete
Classe
IIa
IIa
Livello
B
C
Tabella 27: raccomandazioni
Background
Il rischio relativo di ictus è aumentato nei soggetti con diabete di un fattore di 2.5-4.1 per gli uomini e
3.6-5.8 per le donne. Dopo correzione per altri fattori di rischio per ictus, il rischio è ancora maggiore
di due volte e ciò indica che il diabete mellito è un forte fattore di rischio indipendente per ictus83,618. Il
rapporto tra iperglicemia di per sé e ictus è molto meno chiaro del rapporto tra iperglicemia ed infarto
miocardico. Le complicazioni diabetiche come la proteinuria, la retinopatia e la neuropatia autonomica
aumentano il rischio di ictus. Di solito l’ictus è di tipo ischemico. Il TIA è noto per predire l'insorgenza
di un ictus entro 90 giorni, questo sottolinea la gravità del TIA specialmente nel paziente diabetico623.
Prevenzione dell’Ictus
Misure volte a prevenire l’ictus dovrebbe essere basate su una strategia multifattoriale volta al
trattamento di ipertensione, iperlipidemia, microalbuminuria, iperglicemia e sull’utilizzo di farmaci
antiaggreganti piastrinici, come descritto altrove in questa sintesi.
Lo studio Heart Outcomes Prevention Evaluation (HOPE) e lo studio Perindopril Protection Against
Recurrent Stroke (PROGRESS) suggeriscono che la riduzione di incidenza di ictus nei soggetti
diabetici durante il trattamento con ACE-inibitori è stata maggiore rispetto a quella che sarebbe
avvenuta con la sola riduzione pressoria risultando evidente anche nei soggetti normotesi373,624. Nello
studio LIFE una tendenza simile è stata trovata con l’utilizzo di un inibitore del recettore
dell’angiotensina378. Tuttavia, in numerosi altri studi, tra cui ALLHAT, non vi erano apparenti benefici
con una classe di farmaci antipertensivi rispetto ad un altra. 380,384
Nello studio HPS, un ragguardevole sottogruppo di 5.963 pazienti diabetici veniva randomizzato a
placebo o a 40 mg di simvastatina al giorno. La simvastatina riduceva l'incidenza di ictus del 24%344 .
La terapia antiaggregante riduce l'incidenza di ictus nei pazienti diabetici ed è indicato sia per la
prevenzione primaria sia secondaria625. L’aspirina a basse dosi (75-250 mg al giorno) dovrebbe essere
la prima scelta, ma in caso di intolleranza, dovrebbe essere somministrato Clopidogrel 75 mg una volta
al giorno468,613. Nei pazienti con ictus ricorrente, dovrebbe essere considerata l’associazione di aspirina
e dipiridamolo626,627. Lo studio MATCH eseguito in 7599 pazienti di cui il 68% era affetto da diabete
ha riportato che la combinazione di aspirina e clopidogrel è associata ad un aumentato rischio di
sanguinamento senza alcun beneficio in termini cardiovascolari628. Inoltre, nello studio CHARISMA
62
non si è evidenziato alcun vantaggio con un doppio trattamento cronico antiaggregante, con aspirina e
clopidogrel629.
L'elevata frequenza di ictus precoce dopo un TIA motiva la valutazione entro 7 giorni dell’evento per
ridurre il rischio di un successivo, e potenzialmente più grave, evento neurologico. È indicato la
valutazione con ecocardiogramma e di un doppler carotideo. Un aumento di microemboli cerebrali è
rilevabile tramite il doppler trans-craniale, e un alto numero di microemboli possono essere considerati
dei marcatori per futuri eventi neurologici631. Dopo un TIA o ictus causati dovuto ad aterosclerosi
carotidea le cure mediche possono essere ottimizzate per evitare la necessità di intervento chirurgico
carotideo in emergenza e permettere al paziente di sottoporsi ad un intervento elettivo sicuro632.
L’endoarteroidectomia elettiva per la prevenzione di ictus nei pazienti con stenosi di alto grado della
carotide è efficace, ma non è stato specificamente studiata nei pazienti diabetici. Poiché le complicanze
durante e dopo la procedura sono più frequenti nei soggetti diabetici rispetto ai soggetti non diabetici,
dovrebbe essere posta particolare attenzione al rischio globale di morbilità e mortalità peri-e postoperatoria al momento di decidere l’intervento chirurgico in un paziente diabetico633. Un'alternativa
all’endoarteroidectomia è l’angioplastica e stent della carotide, che sembrerebbe non essere inferiore
all’endoarteroidectomia e potrebbe rivelarsi un metodo preferibile per i pazienti ad alto rischio634.
Trattamento dell’ictus in acuto
Il trattamento nella fase acuta dell’ictus nei pazienti diabetici dovrebbe seguire gli stessi principi che
regolano il trattamento di ictus nella popolazione generale. La trombolisi è un trattamento efficace per
ictus ischemico se istituito entro 3-4 h. 635 Riduce la mortalità e la disabilità da ictus ma è associato a
un rischio di emorragia e il suo uso e gli effetti nel soggetto con diabete richiedono un'ulteriore
valutazione tramite la registrazione ad un registro di qualità (SITS-MOST, www.acutestroke.org).
Il trattamento conservativo dell’ictus in una stroke unit comprende una stretta sorveglianza delle
funzioni vitali e l’ottimizzazione delle condizioni di circolo e del metabolismo, tra cui il controllo
glicemico636. I pazienti dovrebbero ricevere una riabilitazione neurologica precoce e correzione delle
anomalie, come descritto nella sezione 'prevenzione dell’ictus in questo capitolo. Studi recenti
suggeriscono che l'intervento precoce contro l'ipertensione durante la fase acuta di ictus potrebbe essere
benefico ma attualmente si raccomanda di ridurre con grande cautela solo valori pressori molto elevati
sopra 220 mmHg per la pressione sistolica e/o sopra i 120 mmHg per la pressione diastolica, per non
abbassare la pressione a livelli che possano peggiorare l’ischemia e comunque non oltre il 25% durante
il primo giorno di trattamento637.
Terapia intensiva
Raccomandazioni
Uno stretto controllo glicemico tramite un trattamento
insulinico intensivo migliora la mortalità e la morbilità nei
pazienti sottoposti ad intervento cardiaco
Uno stretto controllo glicemico tramite un trattamento
insulinico intensivo migliora la mortalità e la morbilità nei
pazienti in condizioni critiche
Classe
I
I
Livello
B
A
Tabella 28: raccomandazioni
63
Iperglicemia come risultato dell’evento critico
Lo stress determinato dall’evento critico porta allo sviluppo di anomalie metaboliche ed endocrine. I
pazienti vanno incontro ad iperglicemia a causa di una maggiore insulino resistenza ed un’aumentata
produzione di glucosio noto come “diabete da stress” o “diabete da danno” 638,639. Nella fase acuta
dell’evento critico la produzione epatica di glucosio è aumentata per aumento sia della gluconeogenesi
sia della glicogenolisi sebbene i livelli sierici di insulina, la quale normalmente sopprime questi
processi, siano elevati. Gioca anche un ruolo l’aumento dei livelli di glucagone, cortisolo, ormone della
crescita, catecolamine e di tutte le citochine. 640-645 Oltre a stimolare la produzione di glucosio,
riducendo la captazione periferica di glucosio insulino-mediata, contribuiscono allo stato
iperglicemizzante.
Diversi studi recenti identificano chiaramente l’iperglicemia come un importante fattore di rischio in
termini di mortalità e morbilità di questi pazienti. Una meta-analisi su pazienti con infarto miocardico
ha rivelato una forte e coerente associazione tra lo sviluppo di iperglicemia da stress e l’aumento del
rischio di mortalità in ospedale per insufficienza cardiaca congestizia o shock cardiogeno646.
Anche un lieve aumento della glicemia a digiuno nei pazienti con CAD sottoposti a PCI è stato
associato ad un notevole rischio di mortalità647. Inoltre, il livelli di glicemia nei pazienti sottoposti a
CABG sembrano essere un importante fattore predittivo di ritardo per l’estubazione 648. Una analisi
retrospettiva di una popolazione eterogenea di pazienti critici ha anche rivelato che un modesto grado
di iperglicemia è stata associato ad un aumento sostanziale della mortalità ospedaliera649.
Circa il 30% di questi pazienti sono stati ricoverati in unità di terapia intensiva (ICU) per motivi
cardiologici. Allo stesso modo l’iperglicemia prediceva l’aumento della morbilità e della mortalità
dopo ictus651, la severità della lesione cerebrale652,653, di un trauma654,655 e la severità di un ustione656.
Controllo della glicemia tramite trattamento insulinico intensivo nel paziente critico.
Uno studio di riferimento prospettico, randomizzato e controllato su un grande gruppo di pazienti
ammessi in una ICU prevalentemente dopo chirurgia estesa o per lo sviluppo di complicanze dopo un
intervento chirurgico esteso ha rivelato importanti benefici clinici dati dall’uso durante la fase critica
della terapia insulinica in modo intensivo. 445 Nel gruppo in trattamento insulinico convenzionale solo
valori di iperglicemia eccessivi >11.9 mmol / L (215 mg/dl) venivano trattati con insulina con
l’obiettivo di mantenere le glicemie tra 10.0 e 11.1mmol / L (180-200 mg/dl). Questo protocollo ha
portato in media livelli di glicemia intorno a 8-9 mmol / L (150-160 mg / dl), vale a dire iperglicemia.
Nel gruppo di terapia intensiva l’insulina veniva somministrata allo scopo di mantenere i livelli di
glicemia tra 4.4 e 6.1 mmol / l (80-110 mg/dl) con livelli medi di glicemia <5-6 mmol / L (90-100 mg/
dl), vale a dire normoglicemia, senza rilevare eventi avversi dovuti a ipoglicemia. Lo stretto controllo
della glicemia ottenuto con insulina ha sorprendentemente abbassato il tasso di mortalità durante il
periodo in ICU da 8.0 al 4.6% (43% di riduzione). Questo beneficio è stato più accentuato tra i pazienti
che hanno ricevuto il trattamento intensivo per più di 5 giorni, con una riduzione di mortalità in ICU
dal 20.2 al 10.6% e un tasso di mortalità in ospedale ridotta dal 26.3 al 16.8%. Oltre il 60% del totale
della popolazione di pazienti è stato incluso dopo chirurgia cardiaca. In questo sottogruppo, la terapia
insulinica intensiva ha ridotto la mortalità nel periodo in ICU dal 5.1 al 2.1%.
Oltre a salvare vite umane, la terapia insulinica intensiva ha in gran parte impedito l’insorgenza di
complicanze associate, quali le polineuropatie, infezioni sistemiche, anemia e insufficienza renale
acuta445. I pazienti sono stati anche meno dipendenti dalla ventilazione meccanica prolungata e da
64
trattamenti intensivi. I benefici clinici di questa terapia sono stati ugualmente presente nella maggior
parte dei sottogruppi valutati, compresi i pazienti cardiaci. Per quest'ultimo sottogruppo, uno studio di
follow-up ha dimostrato che la terapia intensiva con insulina ha determinato a lungo termine una
miglior risultato, quando somministrato per almeno un terzo dei giorni in ICU, mantenendo il beneficio
sulla sopravvivenza fino a 4 anni dopo la randomizzazione657. In particolare, nei pazienti con lesione
cerebrale isolata la terapia intensiva con insulina ha protetto il sistema nervoso centrale e periferico da
insulti secondari e migliorato la riabilitazione a lungo termine657 Fondamentalmente, il protocollo di
Leuven sul controllo della glicemia in una popolazione di soggetti sottoposti ad intervento chirurgico è
stato recentemente testato in un grande studio randomizzato e controllato, ed è stato altrettanto efficace
per la popolazione di pazienti dell’ICU. 659 Nel gruppo in intention-to-treat di 1200 pazienti, la
morbilità era significativamente ridotta, con minore insorgenza di nuove lesioni renali prima dello
svezzamento dalla ventilazione meccanica e prima della dimissione dalla terapia intensiva e
dall’ospedale. Nel gruppo in intention-to-treat la terapia con insulina non ha alterato significativamente
la mortalità (tasso di mortalità in ospedale dal 40.0 al 37.3%, P = 0.3). Questo non è stato sorprendente
in quanto lo studio non è stato progettato per questo endpoint di mortalità. Per quanto riguarda il
gruppo di pazienti con ricovero di lunga durata (almeno tre giorni in ICU), per il quale è stato
realizzato lo studio, la terapia insulinica intensiva ha ridotto la mortalità in ospedale da 52.5% con il
trattamento convenzionale al 43.0% nel gruppo di terapia insulinica intensiva (P = 0,009) e la riduzione
della morbilità è stata ancora più sorprendente. Una sintesi dei diversi studi sulla terapia insulinica
intensiva negli eventi critici è indicata nella Tabella 17.
Meccanismi che portano ad un miglioramento dei risultati con trattamento insulinico intensivo
Un’analisi di regressione multivariata ha riportato che l’iperglicemia associata ad alte dosi di insulina
è associata ad un alto rischio di morte665. Da qui, sembra che sia il controllo della glicemia e/o gli altri
effetti metabolici dell’insulina che determinano uno stretto controllo dei valori glicemici, ma non la
dose di insulina somministrata di per se con una terapia insulinica intensiva che ha contribuito al
miglioramento della sopravvivenza. L'associazione tra l'alta dose di insulina e la mortalità è
probabilmente spiegata dalla più grave resistenza all'insulina nei pazienti più gravi, che hanno un alto
rischio di morte. Il rischio di morte, infatti, sembrava correlato linearmente con il grado di
iperglicemia, senza alcun chiaro cut-off al di sotto di cui non vi era alcun ulteriore beneficio665.
I pazienti che hanno ricevuto una terapia insulinica convenzionale e che hanno sviluppato solo una
moderata iperglicemia (6.1-8.3 mmol/L o 110-150 mg/dl) avevano un più basso rischio di morte di
quelli con grave iperglicemia (8.3-11.1 mmol/L o 150-200 mg/dl), mentre erano a più alto rischio di
morte rispetto ai pazienti i cui livelli di glicemia erano controllati <6.1 mmol/L (110 mg/dl) tramite una
terapia insulinica intensiva. Altri dati indicano anche che i benefici sulla mortalità possono essere
attribuiti al controllo glicemico/metabolico, piuttosto che alla dose assoluta di insulina
somministrata649,666.
Per la prevenzione della polineuropatia da malattia critica, della batteriemia, dell’anemia, e
dell’insufficienza renale acuta, è apparso altrettanto di cruciale importanza lo stretto controllo
glicemico <6,1 mmol/L (110 mg/dl). 665 Se infatti evitare l’iperglicemia è di fondamentale importanza,
sembra sorprendente che fare ciò solo per un periodo relativamente breve, durante il quale il paziente
necessita di trattamento intensivo, possa impedire le più temute complicanze della malattia critica. Le
cellule normali per proteggersi dall’iperglicemia moderata riducono l’espressione dei trasportatori del
glucosio667 D'altro canto, l’iperglicemia cronica causa complicanze nei pazienti diabetici in un lasso di
65
tempo che è di diversi ordini di grandezza più lungo rispetto al tempo impiegato per evitare il pericolo
di complicanze durante la terapia intensiva. Così, l’iperglicemia appare tossica più acutamente nei
malati critici rispetto agli individui sani o ai pazienti diabetici. L’aumento della captazione di glucosio
insulino dipendente mediato dai trasportatori GLUT-1, GLUT-2, o GLUT-3 e il conseguente
sovraccarico cellulare di glucosio, potrebbe svolgere un ruolo668 Una parte del miglioramento ottenuto
con la terapia insulinica intensiva è quindi attribuibile alla prevenzione della glucotossicità658,668-671
Tuttavia, anche gli altri effetti di insulina potrebbero contribuire a migliorare il risultato668,669,671-673.
Van den Berghe Van den Berghe Krinsley660 Grey e
e
e col659
Perdriset661
Chirurgica Medica
Chir./Med
Chirurgica
Riferimento
Popolazione
Numero
1548
1200/767
1600
Si
Si
No
<6.1
<6.1
<7.8
↓
↓
Randomizzati
Target glicemia
Mortalità
↓
Polineuropatia
↓
Batteriemia/Inf.
↓


I. Renale Acuta
↓
↓
↓
Trasfusioni
↓
Durata
ventil.
Mecc.
Periodo di degenza
Furnary
e col. 662
CCH in
61
4864
Si
No
<6.7
<8.3
-
↓
↓
↓
↓
↓
↓
↓
↓
↓
↓
↓
Infezioni sternali
Tabella 29:Studi pubblicati sull’utilizzo di trattamento insulinico intensivo nel paziente critico
Aspetti Economici e Diabete
Raccomandazioni
L’utilizzo di farmaci per ridurre i lipidi ha un costo-efficacia
necessario per prevenire le complicanze
Uno stretto controllo della pressione ha un costo-efficacia
necessario
Classe
I
I
Livello
A
A
Tabella 30: raccomandazioni
66
Studi Costo-Malattia
Il metodo più usato per valutare la spesa per la malattia diabetica è attraverso studi di costo-malattia,
che si sforzano di valutare il costo totale causato da una malattia o da una condizione679-680.
Lo studio CODE 26706 è stato progettato per misurare il totale delle spese sanitarie per i pazienti con
Diabete di tipo 2 in otto paesi europei, utilizzando lo stesso approccio metodologico. Sono stati inclusi
pazienti provenienti da Belgio, Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Svezia, e il Regno
Unito. Lo studio ha utilizzato un disegno basato sulla prevalenza il che significa che sono state raccolte
tutte le spese sanitarie sostenute per i pazienti con diabete. A causa del forte impatto di co-morbidità
nei pazienti con diabete di tipo 2, non è possibile separare quali risorse siano state impiegate per il
diabete e quali per altre malattie. Questo può essere fatto solo con metodi epidemiologici, confrontando
i pazienti con e senza diabete. Sono stati compiuti sforzi per assicurare la coerenza in termini di
raccolta dati, analisi ed esposizione dei risultati, il che significa che questo studio fornisce l'opportunità
per confronti internazionali. La Tabella 18 mostra il costo totale per ogni paese, il costo per paziente, e
la quota delle spese sanitarie per paziente con diabete. Il costo totale di assistenza sanitaria per i
pazienti con diabete negli otto paesi ammonta a €29 miliardi di euro. Costo pro capite varia da €1.305
per paziente in Spagna a € 3.576 in Germania. Inoltre, la quota stimata del costo sanitario totale varia
notevolmente tra i vari paesi, ciò indica che, nonostante il tentativo di utilizzare lo stesso metodo di
raccolta dati, vi possono essere state differenze tra il modo di condurre lo studio nei diversi paesi.
La cifra molto bassa per i Paesi Bassi potrebbe derivare da una riduzione dei costi, ma più
probabilmente da un bias di selezione nei pazienti studiati e/o da una troppo bassa stima della
prevalenza di diabete di tipo 2. Differenze nella definizione della spesa sanitaria fra i paesi possono
anche essere un fattore da considerare quando si analizza le differenze tra i vari paesi.
Il costo delle complicanze
I risultati dello studio CODE2 mostrano che la principale spesa nel diabete non è la malattia in quanto
tale o il trattamento del diabete, ma le complicanze causate dal diabete. Nello studio, i pazienti sono
stati suddivisi in un gruppo senza complicanze, con solo complicanze microvascolari, o solo con
complicanze macrovascolari, o aventi entrambi le complicanze macro e microvascolari. In questi tre
gruppi, il costo relativo è stato 1.7, 2.0, e 3.5 volte superiore a quello del costo per i pazienti senza
complicanze707 La spesa principale di questo aumento dei costi è stato un maggior costo per il ricovero
dei pazienti con complicanze. Questo è naturale, dato che spesso i pazienti non sono ricoverati in
ospedale per il diabete, mentre le complicanze macrovascolari, come infarto miocardico, portano al
ricovero immediato. Le ospedalizzazioni sono la più grande componente di costo del campione nel suo
complesso e, ancora una volta, indicano l'importanza delle complicanze. È interessante notare che i
farmaci cardiovascolari sono la più importante categoria di farmaci, la loro spesa ammonta a circa un
terzo del costo complessivo della spesa farmaceutica. Questo costo è maggiore del costo dell’insulina e
dei farmaci antidiabetici orali insieme.
È importante comprendere che lo studio CODE-2 fa riferimento solo ad una parte dei costi per il
diabete, in quanto sono inclusi solo i costi sanitari diretti. La perdita di produzione a causa dall’assenza
dei soggetti malati, il prepensionamento e la mortalità precoce comporterebbero costi ulteriormente
elevati. Negli studi che hanno incluso questo componente si raggiungeva più del 50% del totale dei
costi696,697.
67
Paese
Belgio
Francia
Germania
Italia
Olanda
Spagna
Svezia
UK
Tutti i paesi
Costo totale
(milioni euro)
1094
3983
12438
5783
444
1958
736
2608
29000
Costo per paziente Costo percentuale
(euro)
della spesa sanitaria (%)
3295
6.7
3.2
3064
3576
6.3
7.4
3346
1889
1.6
1305
4.4
2630
4.5
3.4
2214
2895
5.0
Tabella 31:Costi per paziente diabetico in otto paesi europei
Costo-efficacia dell’intervento
La riduzione dei lipidi utilizzando le statine nei pazienti con diabete è stata studiata in diversi studi. In
un sottogruppo dello studio 4S, il rapporto costo-efficacia del trattamento dei pazienti diabetici con 2040 mg di simvastatina è stato ben al di sotto dei livelli che sono generalmente considerati utili708. I
pazienti diabetici sono stati arruolati anche nello studio HPS, che indicava accettabile il rapporto costoefficacia per i pazienti con questo livello di rischio709. Una cosa importante da considerare di questi
studi è che essi hanno utilizzato il costo della simvastatina prima della data di scadenza del brevetto.
Successivamente, il prezzo è sceso notevolmente, il che significherebbe che la statina usata nei
diabetici è probabilmente a basso costo anche nella prevenzione secondaria e associata ad un rapporto
costo-efficacia molto basso in prevenzione primaria.
Un altro approccio per la prevenzione delle complicazioni macrovascolari è attraverso il controllo
della pressione arteriosa. Questo è stato valutato come parte dello studio UKPDS, dove è stato studiato
lo stretto controllo della pressione sanguigna-utilizzando β-bloccanti e ACE-inibitori. Una recente
analisi costo-efficacia di questo intervento ha indicato che questa strategia di trattamento è stata
associata ad un alto rapporto costo-efficacia711.
Si può concludere che i costi associati al diabete costituiscono una considerevole quota di spesa delle
risorse per l'assistenza sanitaria in tutta Europa. Come spesa più importante ci sono le complicanze
causate dalla malattia, e dunque è essenziale una corretta gestione per la prevenzione delle complicanze
stesse.
68
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