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Il ruolo della società civile nelle dinamiche di rappresentanza e di
partecipazione nell’Unione Europea
Marco Mascia*
1. Le circostanze storiche venutesi a creare dopo la seconda guerra mondiale ci
offrono uno scenario della politica ricco di novità per quanto attiene in particolare
alla varietà degli attori, all’avvenuto recepimento di principi di etica universale da
parte del Diritto internazionale, ai processi di organizzazione permanente della
cooperazione internazionale, alla mobilità dei ruoli nello spazio dilatato
dell’interdipendenza, alle molteplici possibilità di accesso al decision-making
istituzionale per gli attori diversi dagli stati. Particolarmente importante ai fini del
nostro discorso è l’avvenuto sviluppo organico del Diritto internazionale dei diritti
umani, quale nucleo centrale – fortemente innovativo - del vigente Diritto
internazionale generale. Questo nuovo Diritto esalta la centralità della persona
umana e la conseguente legittimità di quelle formazioni sociali che sono libera
espressione della volontà di singoli e di gruppi. Si fa strada l’idea che sia proprio il
codice universale dei diritti umani, o meglio la coerente aderenza ad esso, a fare
l’identità originaria della società civile e delle sue formazioni organizzate.
In quest’ottica, A.Papisca asserisce che per società civile deve intendersi quel
“soggetto collettivo che è prioritario rispetto allo stato e al sistema degli stati
perché ciascuno dei suoi membri individuali è titolare di diritti innati
formalmente riconosciuti anche dalle norme del diritto internazionale. I diritti
umani fanno lo status politico della società civile in quanto tale, cioè il suo porsi
quale soggetto sociale originario. Pertanto i diritti umani sono la chiave per
capire l’identità profonda della società civile e i termini del suo rapporto con le
istituzioni derivate, compreso lo stato e il sistema degli stati”1.
Il parametro di riferimento è dunque etico-giuridico, sganciato da logiche mercantili.
J.Habermas, su questa lunghezza d’onda, precisa da par suo:
“Ciò che noi chiamiamo oggi società civile non include più l’economia regolata
dai mercati del lavoro, dai mercati dei capitali e dai beni costituiti dal diritto
privato. Al contrario, il suo cuore tradizionale è ormai formato da quei gruppi e
associazioni non statali e non economici a base volontaria che uniscono le
strutture comunicative dello spazio pubblico alla componente “società” del
mondo vissuto. La società civile si compone di quelle associazioni,
organizzazioni e movimenti che allo stesso tempo accolgono, condensano e
ripercuotono, amplificandola nello spazio pubblico politico, la risonanza che i
problemi sociali hanno nelle sfere della vita privata. Il cuore della società civile
è dunque costituito da un tessuto associativo che istituzionalizza, nel quadro
Cattedra Europea Jean Monnet “Sistema politico dell’Unione europea”, Responsabile del Centro
europeo di eccellenza Jean Monnet, Direttore del Centro interdipartimentale di ricerca e servizi sui
diritti della persona e dei popoli, Università di Padova.
1 V. A.Papisca, Commissione diritti umani della Assemblea dei Cittadini di Helsinki, HCA:
documento presentato alla riunione di Mosca della Conferenza sulla dimensione umana della
CSCE, in “Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli, V, 2, 1991, p.95-100.
*
1
degli spazi pubblici organizzati, le discussioni che si propongono di risolvere i
problemi riguardanti temi di interesse generale”2.
Sulla base della fenomenologia di cui disponiamo e tenuto conto dei più recenti
apporti teorici, io ritengo che una definizione accettabile di “società civile” sia, oggi,
quella che la identifica con l’insieme dei rapporti intersoggettivi che sono agiti per
via transnazionale, al di là delle frontiere, per il conseguimento del ventaglio di
obiettivi che fanno il bene comune dei membri della famiglia umana, in particolare
per il soddisfacimento di quei bisogni vitali della persona che anche il vigente
Diritto internazionale riconosce come diritti fondamentali.
Ph.C.Schmitter, tra i più illustri politologi dell’integrazione europea, vede il futuro
dell’UE legato allo sviluppo e al consolidamento della democrazia partecipativa e
ad un più sostanziale riconoscimento di ruolo delle formazioni di società civile.
Secondo questo autore “affinché l’UE riprenda energia e rafforzi la sua
legittimazione, i suoi stati membri dovranno accordarsi su riforme che non si
limitino a far funzionare meglio le sue istituzioni, ma anche a legare in un rapporto
di maggiore responsabilità e fiducia i suoi governanti con i suoi cittadini”3. Egli vede
negli attori di società civile la variabile indipendente di maggior rilievo con
riferimento alla tenuta del sistema sopranazionale che egli chiama Europolity.
2. La creazione dell’Unione Europea (UE) e la successiva proclamazione, con il
Trattato di Amsterdam, dei principi dei diritti umani, della democrazia e dello stato
di diritto a fondamento dell’Unione, hanno dato origine ad un nuovo e ancora poco
conosciuto sistema di consultazione con le organizzazioni nongovernative (ONG) e
altre strutture solidaristiche di società civile europea. Il Trattato di Lisbona, appena
entrato nell’arena delle ratifiche, apre al superamento di reticenze e ambiguità
nell’affrontare il tema del ruolo delle formazioni di società civile nel contesto che gli
è naturalmente proprio, quello della democrazia internazionale: esso dedica infatti
il Titolo II a “Disposizioni relative ai principi democratici”, enunciando nell’articolo
8A, ai paragrafi 1 e 2, il principio di democrazia rappresentativa e, al paragrafo 3, il
principio di democrazia partecipativa che così recita:
“Ogni cittadino ha il diritto di partecipare alla vita democratica dell'Unione. Le
decisioni sono prese nella maniera il più possibile aperta e vicina ai cittadini”.
L’articolo 8B, che riprende quasi integralmente il testo dell’art. I-47 del progetto di
Costituzione europea, recita:
“1. Le istituzioni danno ai cittadini e alle associazioni rappresentative,
attraverso gli opportuni canali, la possibilità di far conoscere e di scambiare
pubblicamente le loro opinioni in tutti i settori di azione dell'Unione. 2. Le
istituzioni mantengono un dialogo aperto, trasparente e regolare con le
associazioni rappresentative e la società civile. 3. Al fine di assicurare la
coerenza e la trasparenza delle azioni dell'Unione, la Commissione europea
procede ad ampie consultazioni delle parti interessate. 4. Cittadini dell'Unione,
in numero di almeno un milione, che abbiano la cittadinanza di un numero
significativo di Stati membri, possono prendere l'iniziativa d'invitare la
2
3
V. B.J.Habermas, Droit et démocratie, Paris, Gallimard, 1997, p.394.
Come democratizzare l’Unione europea e perché, cit., p.48.
2
Commissione europea, nell'ambito delle sue attribuzioni, a presentare una
proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono
necessario un atto giuridico dell'Unione ai fini dell'attuazione dei trattati”.
Riferimenti espliciti alla società civile sono inoltre contenuti:
nel nuovo articolo 16A:
“1. Al fine di promuovere il buon governo e garantire la partecipazione della
società civile, le istituzioni, gli organi e gli organismi dell'Unione operano nel
modo più trasparente possibile”,
nell’articolo 256bis:
“2. Il Comitato economico e sociale è composto da rappresentanti delle
organizzazioni di datori di lavoro, di lavoratori dipendenti e di altri attori
rappresentativi della società civile, in particolare nei settori socioeconomico,
civico, professionale e culturale”,
nell’artticolo 259:
“2. Il Consiglio delibera previa consultazione della Commissione. Esso (il
Comitato economico e sociale) può chiedere il parere delle organizzazioni
europee rappresentative dei diversi settori economici e sociali e della società
civile interessati dall'attività dell'Unione”.
E’ dato intuire che l’elemento che ha spinto l’UE ad affrontare, in maniera esplicita,
il tema della partecipazione politica e quindi di una più sostanziosa legittimazione
democratica dell’intero sistema UE, è riconducibile ad almeno quattro ragioni
principali. La prima riguarda l’esistenza di una domanda politica intrinsecamente
europea che si indirizza direttamente alle istituzioni comunitarie in settori chiave
quali quelli dei diritti umani, della non discriminazione, della coesione economica e
sociale, della tutela dell’ambiente, dello sviluppo umano, della politica estera e di
sicurezza comune. La seconda si riferisce al progressivo diffondersi nelle società
civili dei paesi membri dell’Unione di sentimenti di sfiducia nei confronti proprio di
quelle istituzioni sopranazionali che hanno il compito di dare risposte concrete alla
domanda politica che ad esse si indirizza. La terza ragione è rappresentata dalla
definitiva presa d’atto che lo sviluppo del processo di integrazione non può più
reggersi, come è avvenuto nel passato e come ha estesamente teorizzato la
scuola funzionalista, sulla centralità di ruolo degli “eurocrati” e degli “esperti”, sul
protagonismo dei gruppi d’interesse economici, nonché sulla esclusione dai
processi decisionali di tutte quelle formazioni sociali che pongono al centro delle
loro azioni e rivendicazioni valori umani universali e interessi di carattere generale.
La quarta ragione, non meno importante delle altre, è riconducibile al fatto che le
ONG europee, per rendere più efficace e visibile la loro azione nei confronti delle
istituzioni sopranazionali dell’UE, si sono organizzate in vere e proprie “piattaforme
europee” tematiche. Le principali sono la Piattaforma delle ONG sociali europee, la
Confederazione delle ONG europee per l’aiuto allo sviluppo, Green Ten, il Network
diritti umani e democrazia, European Women Lobby. Queste a loro volta hanno
dato vita ad una struttura permanente di coordinamento denominata “Gruppo di
contatto della società civile”, con l’obiettivo di favorire la collaborazione fra le realtà
più rappresentative della società civile organizzata a livello europeo.
3
E’ appena il caso di sottolineare che la prassi del coordinamento, del cosiddetto
networking, sta diventando una caratteristica strutturale dell’agire politico delle
organizzazioni solidariste di società civile europea e globale sia all’interno delle
istituzioni internazionali multilaterali sia nel più ampio sistema delle relazioni
internazionali. Nel variegato mondo della società civile, la consapevolezza che
questo modo di organizzare in rete l’azione comune costituisce una fondamentale
risorsa di influenza nelle relazioni con gli altri attori della politica internazionale, in
particolare con quelli statuali, è ormai un fatto acquisito. Tale consapevolezza si
fonda sul fatto che il networking rafforza e sviluppa la capacità delle ONG di
autonomamente organizzarsi e gestire le proprie attività, di condizionare il
comportamento dei centri di potere governativi ed intergovernativi facendo un
puntuale riferimento ai principi e ai valori enunciati nel diritto internazionale dei
diritti umani, di pensare nuove idee, nuovi principi, nuovi programmi d’azione,
nuove campagne e di promuoverne la ricezione da parte delle istituzioni di governo
nazionali ed internazionali, di sensibilizzare l’opinione pubblica, di esercitare ad
ogni livello della vita politica e sociale i propri diritti di cittadinanza.
In particolare, per le Piattaforme europee, il dialogo con le istituzioni europee ha un
alto significato politico poiché contribuisce a ridurre il gap esistente nell’UE tra
governanti e governati, a potenziare il coinvolgimento dei cittadini nei processi e
nelle decisioni politiche che hanno un impatto diretto nella loro vita, ad assicurare
lo sviluppo e l’attuazione delle politiche comunitarie fornendo conoscenze ai
decisori politici e segnalando loro nuovi bisogni che necessitano di tutela a livello
UE, a rappresentare interessi pubblici, idee e valori nella vita politica dell’Unione, a
diffondere tra i cittadini un “pensare europeo”, a promuovere solidarietà e
responsabilità sociale. Interessante è l’impatto sulla cultura e la prassi politica
comunitaria dell’azione delle organizzazioni di società civile europea. Esse
dimostrano di avere la capacità di innovare, in contenuti e in modalità, le prese di
decisioni dei governi e delle istituzioni europee, soprattutto nei settori in cui la
tradizionale Realpolitik non può evitare il confronto ravvicinato con la legalità dei
diritti umani internazionalmente riconosciuti4.
3. Poiché nel sistema dell’UE si decide molto, sempre di più, e con vincoli
immediati nei confronti dei cittadini, la rappresentanza degli interessi e la
formazione della domanda politica assumono un rilievo cruciale nella dinamica
funzionale del sistema.
Quanto più il sistema europeo decide, tanto più palese diventa il suo deficit
democratico. Questo stato di cose peraltro non è un incidente di percorso, è
connaturale, pur se in prospettiva evolutiva, ad un sistema costitutivamente
segnato dalla scelta prioritaria dell’incrementalismo economico avulso
dall’infrastruttura democratica. La stessa complessità di contenuti del mandato
istituzionale delle tre Comunità, ha comportato automaticamente che la
consultazione, da parte delle istituzioni comunitare, di gruppi bene organizzati,
portatori di specifici interessi di settore e di puntuale know how, assumesse subito
un posto centrale nelle articolazioni del processo decisionale europeo, soprattutto
Sul punto, v. M.Mascia, La società civile nell’Unione Europea. Nuovo orizzonte democratico,
Venezia, Marsilio, 2004.
4
4
in quella iniziale della formazione della ‘proposta’ della Commissione. Questo
spiega perché, fin dalle prime analisi sull’integrazione europea, gli studiosi abbiano
prestato particolare attenzione ai cosiddetti gruppi d’interesse economico quali
attori indispensabili al funzionamento del sistema comunitario.
Nell’ottica funzionalista che, come prima ricordato, assegna priorità al ruolo del
funzionario-tecnocrate rispetto a quello del politico drammatico (reclutato a seguito
di competizione elettorale), i gruppi d’interesse sono attori utili per il
conseguimento dell’obiettivo strategico dell’integrazione politica, perché
porterebbero razionalmente, senza traumi, l’iniziale processo integrativo a punti di
non ritorno sulla via dell’unificazione. Questa tesi è ancora oggi sostenuta da autori
che si ispirano alla scuola funzionalista.
L’originaria priorità assegnata agli obiettivi economici per la costruzione europea
ha comportato una divisione del lavoro politico gestita da un triplice protagonismo:
quello dei gruppi di interesse settoriali nell’articolare gli interessi, quello della
Commissione nell’aggregare la domanda di base sotto forma di “proposte”, quello
degli stati nel tutelare i rispettivi interessi nazionali “vitali” e nel controllare la
ineludibile, per quanto non illimitata, dinamica dello spillover.
Alla luce di questa realtà e andando per analogia, il gruppo d’interesse economico
risulta essenziale al funzionamento del sistema dell’integrazione europea come il
partito politico lo è rispetto ai sistemi nazionali democratici.
Per gli agenti dei gruppi d’interesse è vitale stabilire alleanze operative con
funzionari tecnicamente capaci e immuni da ideologia, ed è anche naturale che
così sia, perché c’è condivisione della cultura della razionalità costi-benefici e
dell’efficientismo incrementalista. Dal canto loro, i funzionari comunitari hanno
interesse a privilegiare l’interazione con soggetti privati che li gratificano nello
svolgimento del loro ruolo alimentandoli di informazione, rispetto all’interazione con
il personale diplomatico e burocratico degli stati, che tenderebbe a perpetuarne la
posizione di subalternità.
Obiettive ragioni di complessità-funzionalità del sistema, ma anche soggettive
ragioni di tutela di interessi e di incremento di status spiegano dunque la
consistenza e la capillarità d’impianto dei gruppi d’interesse nel sistema UE. I
Comitati consultivi e d’esperti di cui si avvalgono Commissione e Consiglio danno
ricettività e visibilità anche formale a questa situazione. Attualmente, tra comitati
consultivi i cui membri rappresentano le varie categorie professionali e comitati
composti da esperti governativi, funzionari e alti dirigenti di organismi pubblici, si
calcola che siano oltre settecento quelli che svolgono la loro attività presso la
Commissione e il Consiglio.
Rispetto a questi comitati e gruppi di lavoro, il Comitato economico e sociale
europeo, CESE, si presenta come un organo di coordinamento e di legittimazione,
che contribuisce, dall’interno del sistema comunitario, a dare visibilità d’insieme
alle varie categorie d’interessi che rilevano nel sistema.
E’ chiaro che la “forza” dei comitati, ovvero la loro capacità di influire sui processi
decisionali dell’Unione attraverso dei pareri non vincolanti, dipende dal grado di
rappresentatività e di consenso che essi sono capaci di aggregare, dalla
competenza dei loro membri nonché dalla capacità di negoziazione che sanno
esprimere.
5
Nel Libro bianco sulla governance europea la Commissione europea riconosce la
necessità di riformare il sistema della comitatologia al fine di renderlo più
trasparente e rappresentativo: “Vi è attualmente scarsa chiarezza su come
avvengono le consultazioni e su chi viene ascoltato dalle istituzioni. (…) La
Commissione ritiene necessario razionalizzare questo poco maneggevole sistema
non per soffocare i dibattiti ma per renderli più efficaci e affidabili non solo per chi è
consultato ma anche per chi è destinatario del parere (…)”5.
In questo contesto diventa fondamentale distinguere il gruppo d’interesse rispetto
ad altri attori politici, in particolare rispetto ai partiti, tenuto conto del diverso modo
di porsi nei riguardi del potere. I gruppi d’interesse lo usano per perseguire i propri
obiettivi di parte, ma non si vogliono sostituire ad esso, i partiti agiscono invece
intenzionalmente per conquistarlo. In un sistema politico democratico, pluralista,
politicamente sviluppato, quindi differenziato nelle strutture e nelle funzioni, la
divisione del lavoro tra gruppi d’interesse e partiti politici è chiara. Lo è invece
molto meno in un sistema, quale quello dell’UE, in cui ai partiti politici “europei” è
tuttora precluso di agire per la conquista del potere di governo saldamente
detenuto dal Consiglio dell’Unione.
4. La Commissione europea dimostra, senza ombra di dubbio, di essere
consapevole che i profondi cambiamenti avvenuti nell’UE, in relazione ai molteplici
processi di mondializzazione, richiedono una riforma democratica della
governance, sulla base di cinque principi fondamentali: apertura, partecipazione,
responsabilità, efficacia, coerenza6.
Non sfugge alla Commissione la situazione di crisi in cui versa la democrazia
rappresentativa negli stessi sistemi politici “politicamente sviluppati” dei suoi stati
membri e, ancor più palesemente, nel sistema sopranazionale dell’UE. Un dato per
tutti – non sia superfluo evocarlo anche in questa sede – è quello della sempre più
bassa partecipazione dei cittadini ai processi elettorali, sia interni sia europei.
A questo fenomeno non è estraneo il fatto che se, da un lato, i partiti politici
nazionali perdono militanti e consenso popolare e soffrono di una ormai cronica
crisi di leadership politica, dall’altro, le confederazioni partitiche europee – i
cosiddetti “partiti europei”-, nonostante i riconoscimenti (di status e di ruolo) di cui
beneficiano in virtù dei Trattati di Maastricht e di Nizza, stentano a svolgere quel
ruolo di aggregazione della domanda politica e di selezione del personale politico
che è naturalmente proprio dei partiti nei sistemi politici democratici.
Il problema di una più chiara e sostanziosa collocazione istituzionale e funzionale
dei partiti politici nel sistema dell’Unione Europea è tuttora aperto.
La questione è parte della più ampia, endemica problematica del deficit
democratico e dello sviluppo politico dell’Unione7. Come prima sottolineato, quanto
più questa decide e governa invasivamente rispetto alle sfere domestiche degli
stati membri, toccando settori di nevralgico interesse per la vita di ogni giorno,
5
V. Commissione europea, La governance europea. Un Libro Bianco, COM(2001) 428 definitivo/2,
Bruxelles, 2001.
6 V. Commissione europea, La governance europea. Un Libro Bianco, cit.
7 V. Ph.C.Schmitter, Come democratizzare l’Unione europea e perché, Bologna, Il Mulino, 2000;
M.Mascia, Il sistema dell’Unione Europea. Appunti su teorie, attori, processi nella prospettiva di una
Costituzione per l’Europa, Padova, Cedam, 2005 (2a ed.).
6
tanto più avvertita si fa l’esigenza del ruolo di strutture che siano allo stesso tempo
capaci di rappresentare interessi generali e di contenere, se non di condizionare,
preesistenti centri di potere corporativo, sempre più attrezzati quanto a
organizzazione, competenze, skills, canali d’accesso. Mi riferisco evidentemente ai
gruppi d’interesse economico.
Lo scenario presenta caratteri di grande complessità. Sul piano sistemico europeo,
lo spazio della rappresentanza è fin dall’inizio occupato dalla tentacolare
articolazione funzionale della Commissione europea e dalle molteplici reti dei
gruppi d’interesse, mentre a livello sotto-sistemico, i partiti politici nazionali soffrono
non di aprioristica esclusione ma dell’opposto fenomeno di eccesso d’occupazione
del potere governativo, ciò che li rende vischiosamente legati alla dimensione
appunto nazionale e sub-nazionale degli interessi.
Il problema del ruolo del partito politico nell’UE non è eludibile, per ragioni sia di
funzionalità del sistema sia, soprattutto, di qualificazione democratica del
medesimo.
Una volta assunto che nell’era della globalizzazione, conviene agli stati coordinarsi
e rinunciare a parte delle loro sovranità all’interno di strutture di governo su più
livelli – multi-level governance -, aumenta l’esigenza di disporre di garanzie
democratiche la cui gestione sia in corretto rapporto di scala con l’ordine di
grandezza delle istituzioni che decidono. E’ sempre lecito chiedersi se la macro
dimensione esigita dalla governabilità annulli ogni possibilità di mediazione tra chi
decide e chi è destinatario della decisione. Il discorso si chiuderebbe in partenza
se si ammettesse oggi che rimane spazio di mediazione soltanto per le macro
strutture transnazionali di aggregazione verticale e corporativa degli interessi, in
ultima analisi soltanto per le grandi multinazionali economiche. Ma l’approccio che
seguiamo è diverso da quello della presa d’atto dei determinismi del mercato
mondiale. Assumiamo infatti che le nuove frontiere della politica e della
governabilità siano quelle della democrazia internazionale, ovvero dell’estensione
della pratica democratica oltre i confini dello stato nazione8.
Nel caso del sistema dell’UE, la prospettiva dello sviluppo democratico anche
attraverso i partiti politici, è complicata dal fatto della originalità, anzi dalla atipicità
di un sistema in cui la Commissione, istituzione genuinamente sopranazionale di
governo, è la principale, se non esclusiva (quanto meno di fatto), aggregatrice
‘trasparente’ di domanda politica.
Ma occorre tener conto di un altro aspetto, che parrebbe contraddire le ragioni di
chi denuncia la perdurante assenza di ruolo dei partiti politici. A ben vedere, infatti,
c’è nell’UE una “influenza partitica” che è pervasiva, trasversale alle varie fasi del
processo decisionale fino ai più alti livelli istituzionali, se è vero che i destini
dell’Unione sono nelle mani di leaders di partito i quali, per il fatto di essere tali,
sono divenuti capi di governo o di stato e quindi, automaticamente, membri del
Consiglio europeo e del Consiglio dell’Unione. La “influenza partititica” è presente
8
Per un approfondimento del tema della democrazia internazionale, v. A.Papisca, Democrazia
internazionale, via di pace. Per un nuovo ordine internazionale democratico, Milano, Angeli, 1995
(5a ed.); Idem, Democrazia internazionale, via di pace. Il rilancio della politica passa attraverso la
globalizzazione della democrazia, in “Futuribili”, 1-2, 2003, pp.92-106; Idem, Diritto e democrazia
internazionale, via di pace. Riflessioni sullo Ius novum universale, Quaderno n.15 di “Mosaico di
Pace, Molfetta, 2003.
7
dentro la stessa Commissione europea, stante la designazione formalmente
governativa, sostanzialmente partitica del suo Presidente e dei suoi membri. E
naturalmente essa lo è, in maniera ancora più visibile, nei Gruppi politici del
Parlamento europeo.
Ma questa pervasività dell’influenza partitica al livello europeo è la trasposizione,
spesso rozzamente meccanicistica, della dimensione sotto-sistemica nazionale del
partito politico, che si fa carico in via primaria, naturaliter, della difesa degli
interessi nazionali.
Rimane pertanto intatta l’esigenza della dimensione autenticamente “sistemica
europea”, quindi transnazionale, del partito politico. La prospettiva si pone in
termini che potremmo chiamare di “european party building” all’interno di un più
ampio processo di ‘democratic institution building’: un processo di ‘costruzione’
che, nel nostro caso, non si colloca in un terreno vergine, giacchè deve fare i conti,
da un lato, con la già evocata atipicità di rappresentanza degli interessi
ampiamente praticata a livello europeo per via di lobbismo, dall’altro con le
vischiosità e le resistenze provenienti dagli ancor più consolidati sistemi partitici
nazionali.
Gli interrogativi che si pongono, e si ripropongono, sono tanti. Innanzitutto, se un
più visibile, autonomo sistema partitico europeo possa essere frutto di integrazione
fra preesistenti partiti politici nazionali, oppure di creazione ex novo di entità
partitiche transnazionali. Di certo, dalla realtà dei partiti nazionali non si può
prescindere. Si spiega così, come un fatto naturale, che appunto i partiti nazionali
abbiano preso l’iniziativa, a partire dagli inizi degli anni settanta, di avviare forme di
coordinamento fra partiti appartenenti a medesime ‘famiglie’, gestite da
“federazioni partitiche europee”, gli attuali cosiddetti partiti europei. Al di là delle
denominazioni ufficiali, i risultati finora conseguiti in termini sia di organizzazione
sia di consistenza delle funzioni, non vanno al di là di ciò che una dimensione
blandamente confederale consente.
Allo stesso tempo, si è instaurato un rapporto tra Gruppi politici del Parlamento
europeo (PE) e corrispettive (con)federazioni partitiche europee che vede i primi in
una posizione di netta predominanza sui secondi, diversamente che nei sistemi
nazionali ove sono i gruppi parlamentari a essere condizionati dai partiti di
rispettiva appartenenza dei loro membri.
Lo sviluppo dei Gruppi politici nel PE sembra essere la (naturale) conseguenza
non tanto delle elezioni a suffragio universale e diretto, quanto del progressivo
incremento dei poteri del PE.
Questo stato di cose indurrebbe a ipotizzare che genuini ed effettivi “partiti politici
europei” potrebbero, nel tempo, essere un prodotto dei Gruppi politici del
Parlamento europeo, più che la risultanza di un processo orizzontale di
integrazione dal basso, una sorta di gemmazione parlamentare, insomma un esito
più bottom down che bottom up.
Sul futuro dei partiti europei non potrà non influire il fatto che, a partire dal Trattato
di Maastricht, essi sono strutture formalmente “riconosciute” e, in virtù del Trattato
di Nizza, anche sovvenzionate con finanziamento pubblico a carico del bilancio
UE. Questa circostanza potrebbe incentivare, già nel breve periodo, maggiore
visibilità e autonomia di ruolo, pur se ancora nella dimensione confederale, delle
attuali strutture partitiche europee e concorrere ad equilibrare il loro rapporto con i
8
Gruppi politici. Lo stesso Trattato di Lisbona, riconoscendo che “i partiti politici a
livello europeo contribuiscono a formare una coscienza politica europea e ad
esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione” (art. 8A, parag.4), attribuisce
implicitamente ad essi essi un ruolo diretto nell’esercizio del potere politico nel
sistema dell’Unione Europea.
Tuttavia, sul futuro dei partiti europei gravano ancora le difficoltà e i
condizionamenti derivanti da elementi quali la cronicizzata sindrome ‘sovranitàcentralismo’ del partito politico nazionale, la ineludibile scarsa differenziazione di
contenuto culturale degli stessi partiti europei, la mancanza di una legge elettorale
uniforme per il voto europeo, l’assenza di pieni poteri legislativi del Parlamento
europeo, l’assenza di una prospettiva di sbocco nel ‘governo dell’UE’ quale esito
fisiologico del voto europeo.
L’affermazione del partito europeo è soprattutto legata allo sfondamento delle
tradizionali colonne d’Ercole della democrazia, ovvero al superamento del confine
dello stato nazionale. La “pratica” della democrazia – beninteso, non il “valore”
della democrazia – è fortemente in crisi per difetto di spazio, che significa vuoto di
lavoro. Il metodo democratico diventa mero proceduralismo se viene privato del
suo fine primario: la legittimazione e il controllo di chi decide. La crisi discende dal
fatto che chi decide non sta più dentro la spazio tradizionale in cui è tuttora
confinata, al limite della asfissia, la pratica democratica. Il partito europeo, quanto
meno da un punto di vista razionale, avrebbe un futuro assicurato, da gestire
insieme alle formazioni di società civile, nel ruolo di artefice dell’estensione
transnazionale della democrazia, in quanto veicolo di democrazia internazionale.
5. Con il Libro Bianco sulla governance europea9, la Commissione assume tra gli
elementi che qualificano una governance democratica quello della partecipazione
dei cittadini, in particolare delle formazioni spontanee e istituzionali che ne sono
più diretta espressione, quali le organizzazioni di società civile e gli enti di governo
locale e regionale. L’analisi sviluppata nel Libro bianco è infatti dedicata alla
riforma del “modo in cui l’Unione esercita i poteri che le hanno conferito i suoi
cittadini”. L’obiettivo è di dare concretezza e visibilità a due poli della sussidiarietà
non previsti dal Trattato sull’Unione Europea (TUE), e cioé al polo “territoriale”
degli enti di governo locale e regionale e al polo “funzionale” delle molteplici e
diversificate formazioni di società civile.
Nel linguaggio degli ambienti politici comunitari, “dialogo civile” è un’espressione
che, insieme con “società civile”, ricorre sempre più frequentemente e che sta ad
indicare la dimensione partecipativa della democrazia internazionale, a fianco di
quella rappresentativa di cui è espressione genuina il Parlamento europeo.
L’istituzione UE che con maggior continuità dimostra di farsi carico di elucidare i
concetti in materia, con riferimento sia ai soggetti che ai contenuti, è il Comitato
economico e sociale europeo (CESE). Per il CESE, dialogo civile è il “dialogo
strutturato e regolare tra l’insieme delle organizzazioni europee rappresentative
della società civile e l’Unione europea”, è il “dialogo settoriale quotidiano tra le
organizzazioni della società civile e i loro interlocutori in seno ai poteri legislativo
ed esecutivo”, è un mezzo per promuovere nella società civile europea un
9
Commissione europea, La governance europea. Un Libro Bianco, cit.
9
consenso diffuso e radicato nei riguardi del processo di integrazione europea e del
suo sviluppo10.
Sempre per il Comitato, il dialogo civile è un “forum di comunicazione della società
civile organizzata sul piano comunitario”, che si pone a necessario complemento
del dialogo sociale. Vi possono prendere parte tutte le componenti della società
civile organizzata, compresi i tradizionali “partners sociali” (sindacati, associazioni
padronali, istituzioni governative); può riguardare “tematiche orizzontali o verticali e
quindi assumere la forma di dialogo generale oppure settoriale”; le sue
competenze si estendono ad una pluralità di settori: da quello della politica sociale
a quello della tutela dell’ambiente, dal commercio internazionale allo sviluppo
umano, dalla protezione del consumatore alla tutela dei diritti umani, dal dialogo
interculturale all’educazione e alle politiche giovanili, ecc11.
Al presente stato di evoluzione della riflessione in materia, c’è convergenza tra le
istituzioni UE nel considerare il dialogo civile quale parte integrante del processo di
“consultazione” nel sistema UE, come tale reputato necessario a soddisfare due
principi fondamentali di good governance: la trasparenza e la partecipazione.
Ma proprio sull’approccio “consultazione”, esponenti qualificati di società civile
europea sollevano un problema di sostanza. Per esempio, per la Piattaforma delle
ONG sociali europee, che raggruppa quasi 40 networks attivi nei 25 stati membri
dell’UE, il dialogo civile europeo “si esprime non soltanto nella consultazione, ma
soprattutto nel far sì che a tutti gli stakeholders sia data l’opportunità di influire su
temi politici per i quali hanno competenza. (…) Esso è parte di un processo in atto
che coinvolge tutti i livelli: locale, nazionale ed europeo, tanto in un settore
specifico quanto su temi orizzontali. Questo processo è incanalato verso le
istituzioni europee dalle ONG europee che sono state incaricate dalle loro
rispettive basi associative di rappresentarle e difenderle a loro nome. Questo
stretto legame tra le ONG europee e le loro reti nazionali spiega perché le
istituzioni dell’Unione danno così grande considerazione alla consultazione diretta
delle organizzazioni di società civile”12.
Sulla definizione di società civile, istituzioni e organi dell’Unione Europea non
hanno ancora trovato un accordo tale da consegnarci un concetto univoco. Fa
tuttavia obbligo segnalare che è in corso una riflessione sempre più puntuale in
materia.
A supporto di questo lavoro di elucidazione, il CESE fornisce non una, ma più
definizioni nel Parere che è da considerare come il più organico in re. Una prima
definizione è quella che identifica la società civile come “l’insieme di tutte le
strutture organizzative i cui membri, attraverso un processo democratico basato
sulla discussione e sul consenso, sono al servizio dell’interesse generale e
Cfr. Relazione del Presidente del CESE alla Conferenza “Participatory democracy on the
European Constitution”, Brussels, 8-9 March 2004, in www.esc.eu.int.
11 Cfr. i Pareri CESE 851/1999 del 22 settembre 1999 “Il ruolo e il contributo della società civile
organizzata nella costruzione europea” e 811/2000 del 13 luglio 2000 “La Commissione e le
organizzazioni non governative: rafforzare il partenariato”.
12 Cfr. A.S.Parent, The European Constitution, civil dialogue and the democratic life of the Union in
the new Europe, Statement at the EU Conference on “Participatory democracy on the European
Constitution”, Brussels, 8-9 March 2004, in www.esc.eu.int.
10
10
agiscono da tramite tra i pubblici poteri e i cittadini”13. Nello stesso atto formale, c’è
poi una definizione che enfatizza la dimensione per così dire di socializzazione
politica: la società civile organizzata è intesa dal CESE come “un luogo per
l’apprendimento collettivo”, come una “scuola di democrazia”, come un “processo
culturale” che si fonda su principi quali il pluralismo, l’autonomia, la solidarietà, la
partecipazione, l’educazione, la responsabilità, la sussidiarietà14.
Una ulteriore definizione è quella che intende per società civile “un termine
collettivo per tutti i tipi di azione sociale, realizzati attraverso individui e gruppi, che
non sono l’emanazione dello stato e nemmeno un suo prolungamento. Ciò che
caratterizza il concetto di società civile è la sua natura dinamica, il fatto che esso
significhi sia situazione sia azione. Il modello partecipativo della società civile offre
anche una opportunità per rafforzare la fiducia nel sistema democratico così che
possa svilupparsi un clima più favorevole per la riforma e l’innovazione”15. Il CESE
chiarisce ancora che “la società civile dipende dalle organizzazioni di società civile
le quali assicurano la funzione di mediazione tra lo stato, il mercato e i cittadini”.
Fornisce infine il quadro delle “appartenenze” asserendo che “c’è accordo nel
definire le ONG, le CBO (Community-Based Organisations, nella misura in cui si
distinguono dalle prime) e le parti sociali come organizzazioni di società civile in
senso ampio”16.
Fuori di metafora dei cerchi concentrici, è evidente che siamo in presenza di un
approccio ‘estensivo’ al tema della società civile, spiegabile anche in ragione del
fatto che all’interno del CESE sono rappresentati oltre che gli interessi dei datori di
lavoro e dei sindacati dei lavoratori, anche gli interessi cosiddetti ‘generali’, cioè
una gamma praticamente illimitata di domande, aspirazioni, rivendicazioni e
obiettivi.
Dal canto suo la Commissione, nel citato Libro Bianco sulla governance europea,
definisce la società civile attraverso l’elencazione dei suoi “attori rappresentativi”:
“organizzazioni sindacali e padronali, organizzazioni non governative, associazioni
professionali, volontariato, organizzazioni di base, organizzazioni che coinvolgono i
cittadini nella vita locale municipale con il particolare contributo delle chiese e delle
comunità religiose”17.
In un documento successivo, ma coerentemente con l’ottica ampiamente inclusiva
del Libro Bianco, la Commissione precisa che per organizzazioni della società
civile devono intendersi “le principali strutture della società al di fuori degli organi
governativi e della pubblica amministrazione, compresi gli operatori economici che
generalmente non sono considerati come facenti parte del cosiddetto terzo settore
o delle ONG”, il cui ruolo “nelle democrazie moderne è strettamente connesso col
diritto fondamentale dei cittadini di formare associazioni per perseguire finalità
comuni, come sancito dall’art.12 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE”18.
13
Parere CESE 851/1999, cit., p.33.
Ibidem, p.33.
15 Ibidem, p.32.
16 Ibidem, p.32.
17 Commissione europea, La governance europea. Un Libro Bianco, cit., p.15.
18 Commissione europea, ComunicazioneVerso una cultura di maggiore consultazione e dialogo.
Principi generali e requisiti minimi per la consultazione delle parti interessate ad opera della
Commissione, COM(2002)704 definitivo, Bruxelles, 11/12/2002.
14
11
E’ chiaro che la via prescelta dalla Commissione è ancor più ampia di quella
imboccata dal CESE: alla fine, per essa è “civile” tutto ciò che non è “governativo”
o “amministrativo”, a prescindere dunque da qualsiasi distinzione del tipo di
interessi perseguiti.
Non sia superfluo far notare che in questo percorso concettualizzante dell’UE, non
c’è ancora traccia esplicita della rilevanza dei diritti umani e di principi di etica
universale quale paradigma utile all’identificazione dei soggetti collettivi dell’area
che quì interessa.
6. Appare dunque chiara la tendenza delle istituzioni comunitarie a considerare
attori del dialogo civile sia le associazioni che operano per fini solidaristici di
servizio alla comunità – dunque le ONG comunemente intese - sia il settore
privato che ha come fine il profitto.
La Commissione illustra le caratteristiche che fanno l’identità delle ONG: il livello di
istituzionalizzazione o di esistenza formale; l’assenza di fini di lucro; l’indipendenza
dallo stato e da altri enti pubblici; il comportamento “disinteressato” dei soci, la cui
azione non deve avere fini di lucro; il rilievo di “pubblica utilità” delle loro attività. La
Commissione esclude, per ovvi motivi, dalla categoria delle associazioni i partiti
politici - per i quali i Trattati di Maastricht e Nizza contengono apposite disposizioni
-, i sindacati e le congregazioni religiose19. La Commissione specifica altresì i
requisiti che una ONG dovrebbe possedere per far parte di un comitato consultivo:
la rappresentatività, il carattere democratico della struttura interna, la trasparenza
dell’organizzazione e del modo di funzionamento, la comprovata esperienza in uno
o più settori specifici, la partecipazione in precedenza a comitati e gruppi di lavoro,
la capacità di fornire un contributo sostanziale alla discussione e la capacità di
fungere da catalizzatori per lo scambio di informazioni e di idee tra la Commissione
e i cittadini20.
Un’altra sigla, tendenzialmente onnicomprensiva, usata dalla Commissione
europea nell’ambito della politica di cooperazione allo sviluppo è quella di ANS,
attori non statali. Questi vengono definiti come “l’insieme delle organizzazioni in cui
si raccolgono le principali strutture esistenti o emergenti della società al di fuori del
governo e della pubblica amministrazione. Gli ANS si formano per iniziativa
volontaria dei cittadini (…). Sono autonomi rispetto allo stato e possono perseguire
o non perseguire a fini di lucro”21. Nell’Accordo di Cotonou si precisa che “1. Gli
attori della cooperazione comprendono: a) lo Stato (a livello locale, nazionale e
regionale); b) gli attori non statali: il settore privato; i partner economici e sociali,
comprese le organizzazioni sindacali; la società civile in tutte le sue forme, a
seconda delle particolarità nazionali. 2. Le parti riconoscono gli attori non statali
nella misura in cui essi rispondono alle esigenze della popolazione, dimostrano
competenze specifiche e sono organizzati e gestiti in modo democratico e
trasparente” (art.6).
Commissione europea, Comunicazione “sulla promozione del ruolo delle associazioni e delle
fondazioni in Europa” COM(1997)241 definitivo.
20 Commissione europea, La Commissione e le organizzazioni non governative: rafforzare il
partenariato, (COM(2000)11 definitivo.
21 Cfr. Commissione europea, Comunicazione “Partecipazione degli attori non statali alla politica di
sviluppo della CE”, COM(2002) 598 definitivo, 07.11.2002, p. 5.
19
12
Il proposito di ricomprendere quanti più attori non-statali possibili dentro la
definizione di società civile è di per sé lodevole, esso potrebbe sottendere una
felice tensione pedagogica da parte delle istituzioni europee e portare all’innesco di
un esteso processo di fecondazione, o contaminazione valoriale, ad opera dei
diritti umani, tale da arrecare grandi benefici alla coesione sociale ed economica,
cioè in ultima analisi alla pace sociale nell’UE. Certamente, questo approccio
contribuisce in via di principio a dare maggiore visibilità, se non anche forza per
l’immediato, al polo funzionale della sussidiarietà. Tuttavia, nel superiore interesse
delle comunità umane, occorre evitare che alla fine risulti intaccata l’identità che è
costitutivamente propria degli attori della solidarietà, un’identità che è oggi
riconoscibile e spendibile sul campo, in ogni parte del mondo, con l’acronimo
ONG22. Questa preoccupazione induce a sottolineare l’opportunità, anzi la
necessità di disciplinare lo status delle ONG nell’UE distintamente da quello di altre
forme organizzative del privato, innovando al meglio, tenuto conto del contesto
“regionale” europeo caratterizzato da uno stadio avanzato di integrazione, rispetto
allo standard universale di status consultivo definito e praticato in sede di Nazioni
Unite, in un contesto cioé accentuatamente intergovernativo.
L’Unione Europea, sempre più consapevole del ruolo di cittadinanza attiva svolto
dalle organizzazioni di società civile si sta facendo carico di prospettare un più
organico coinvolgimento nel funzionamento del sistema politico dell’UE,
individuando per esse cinque funzioni principali. La prima, di evidente rilievo
politico, è quella di contribuire alla crescita della democrazia partecipativa: alle
ONG è riconosciuta la capacità di svolgere un ruolo di collegamento tra le
istituzioni comunitarie e i cittadini, di fornire alle istituzioni sopranazionali
informazioni sugli orientamenti dell’opinione pubblica, di alimentare il feed-back
governanti-governati sugli effetti delle politiche europee anche attraverso
l’esercizio di forme di monitoraggio. La seconda funzione è quella di rappresentare
gli interessi dei soggetti più deboli presso le istituzioni europee. La terza funzione
riconosciuta alle ONG è di contribuire alla definizione delle politiche dell’UE
apportando le loro conoscenze e competenze specifiche e avvalendosi dei legami
diretti con la realtà sociale a livello locale, regionale, nazionale ed europeo. La
La sigla ONG è comunemente usata nelle sedi ufficiali dell’organizzazione intergovernativa per
indicare gli attori collettivi, ovvero le espressioni associative, della parte “popolare” del sistema
internazionale, che perseguono fini di promozione umana quali la solidarietà internazionale, lo
sviluppo umano, l’assistenza umanitaria, il dialogo interculturale, la promozione e la protezione dei
diritti umani, la pace, il disarmo, la soluzione nonviolenta dei conflitti, la tutela dell’ambiente.
Essenziale è la non-finalizzazione al profitto. Dire ONG significa dire strutture non profit. Nella
letteratura delle Relazioni internazionali, la definizione corrente di ONG è così riassumibile: la ONG
è una struttura permanente di società civile a carattere transnazionale, creata sulla base di un
accordo tra soggetti diversi sia dagli stati sia dalle loro agenzie intergovernative, per il
perseguimento non profit di obiettivi di promozione umana. Essa è democraticamente strutturata, in
grado di autofinanziarsi, attiva per via transnazionale “dalla città all’ONU”, soggetto politico di “utilità
internazionale”, si identifica nei principi del diritto internazionale dei diritti umani e stimola la
democratizzazione degli organismi intergovernativi. Tende a coordinarsi con altre ONG
(networking) e a porsi come attore di mutamento strutturale del sistema internazionale. Cfr.
M.Mascia, L’associazionismo internazionale di promozione umana. Contributo all’analisi dei nuovi
attori della politica internazionale, Padova, Cedam, 1991; A.Papisca, M.Mascia, Le relazioni
internazionali nell’era dell’interdipendenza e dei diritti umani, Padova, Cedam, 2004 (3a ed.).
22
13
quarta funzione è di contribuire alla gestione, al controllo e alla valutazione dei
progetti finanziati dall’UE sia negli stati membri sia nei paesi terzi in materie quali
l’emarginazione sociale e la discriminazione, la protezione dell’ambiente e la tutela
dei diritti umani, l’assistenza umanitaria e gli aiuti allo sviluppo. La quinta funzione,
di evidente portata strategica, è quella deputata a contribuire a sviluppare il
processo di integrazione europea.
In questo contesto, la Commissione europea ha definito i principi generali e i
requisiti minimi per la consultazione delle “parti interessate”23 con un triplice
obiettivo: standardizzare i meccanismi e i metodi della consultazione attraverso la
definizione di principi e criteri generali; coinvolgere in maniera più sistematica le
organizzazioni della società civile; promuovere un processo di consultazione
trasparente, nonché lo scambio di buone pratiche.
L’assunto di fondo dell’approccio della Commissione è che “il processo decisionale
dell’Unione trae la propria prima e massima legittimazione dai rappresentanti eletti
dai popoli europei”24. Naturalmente, si tratta di un assunto condiviso anche dal più
diretto interessato, cioè il Parlamento europeo il quale, nella sua risoluzione sul
Libro bianco in materia di governance europea25, ribadisce che la consultazione
degli “ambienti interessati” costituisce un “complemento” e non può in nessun caso
sostituire nel sistema dell’UE il ruolo decisionale delle istituzioni legislative, quali
sono, in grado diverso, Parlamento e Consiglio.
A questo proposito, la Commissione dice espressamente che le parti interessate
“esprimono un’opinione, non già un voto”, ma tiene anche a precisare che tutti
coloro che partecipano al processo di consultazione devono avere le stesse
possibilità di accesso e di ascolto, allo scopo di assicurare la possibilità di
espressione a tutti gli interessi presenti nella società, e quindi anche a quelli
“generali” rappresentati dalle organizzazioni di società civile26.
La Commissione intende favorire una partecipazione la più larga possibile,
conformemente al principio di “governance aperta”, però allo stesso tempo afferma
la necessità di individuare chiaramente sia i soggetti del processo di consultazione
sia i criteri per operare, quando necessario (per esempio, in occasione di audizioni
o per la partecipazione ad organismi consultivi), una selezione delle cosiddette
parti interessate.
Con il termine “consultazione”, la Commissione intende un processo mediante il
quale le parti interessate contribuiscono alla elaborazione delle politiche UE nella
fase che precede l’adozione di una decisione da parte della Commissione 27. La
definizione appare alquanto restrittiva, poiché limita la consultazione alla prima
fase del processo decisionale comunitario, quella che vede la Commissione
impegnata ad elaborare la proposta di atto legislativo, mentre sembra escludere il
coinvolgimento delle parti interessate nelle successive fasi del processo
Commissione europea, Comunicazione “Verso una cultura di maggiore consultazione e dialogo.
Principi generali e requisiti minimi per la consultazione delle parti interessate ad opera della
CommissioneCOM(2002) 704 definitivo, Bruxelles, 2002.
24 Ibidem, p.4.
25 Doc. A5-0399/2001.
26 COM(2002) 704 definitivo, Bruxelles, 2002, p.5. Sul punto v. European Citizen Action Service,
The EU and NGOs: An Update, 2004, in www.ecas.org.
27 Ibidem, p.14.
23
14
decisionale comunitario che, nella procedura co-decisionale, riguardano la
seconda e la terza lettura nonché l’operato del comitato di conciliazione. E’
altrettanto evidente l’esclusione delle organizzazioni di società civile dal processo
di consultazione in tutti i casi in cui il potere di iniziativa legislativa si estende anche
al Consiglio o agli stati membri. Si pensi, per esempio, alla politica estera e di
sicurezza comune o alla politica europea di sicurezza e difesa o ad alcuni settori
della giustizia e degli affari interni. Insomma, la Commissione non è ancora
disposta a parlare di un mainstreaming della pratica della consultazione che, a
nostro avviso, dovrebbe pervadere appunto trasversalmente tutte le fasi del
processo decisionale comunitario e investire anche la fase del monitoraggio
sull’attuazione delle decisioni.
Con i limiti ora evidenziati, il documento si segnala anche per la sistematicità che
informa l’illustrazione del contenuto. Esso richiama i “principi generali” che devono
informare il processo di consultazione e fissa i requisiti minimi per parteciparvi. I
principi generali sono quelli, già enunciati nel Libro bianco sulla governance
europea, della partecipazione, dell’apertura, della responsabilizzazione,
dell’efficacia, della coerenza. I requisiti minimi sono enunciati con riferimento
all’oggetto delle consultazioni (che deve essere chiaramente percepibile), ai
destinatari delle consultazioni (tutte le parti interessate devono avere la possibilità
di esprimere il loro punto di vista), alla pubblicazione delle informazioni necessarie
per sensibilizzare l’opinione pubblica e degli esiti delle consultazioni (a questo fine
è stato attivato il portale “La vostra voce in Europa”28), ai limiti di tempo per
partecipare (la Commissione propone 8 settimane per l’invio di osservazioni
nell’ambito di consultazioni per procedura scritta, mentre le convocazioni alle
riunioni dovrebbero essere inviate con un anticipo di 20 giorni lavorativi), alla
ricevuta dei contributi e al feedback (la ricevuta può essere notificata, attraverso la
posta elettronica o su Internet, sotto forma di risposta individuale o collettiva; il
feedback della Commissione sarà illustrato, oltre che nei rapporti di valutazione,
nelle relazioni introduttive alle proposte legislative o in apposite comunicazioni)29.
La disciplina relativa ai principi generali e ai requisiti minimi ha trovato applicazione
a partire dal 1° gennaio 2003.
In questo contesto, sempre più ricco di riconoscimenti ma anche di aspettative, le
organizzazioni della società civile sembrano avere raccolto la sfida del
coordinamento e della creazione di reti, al fine di agevolare il processo di
consultazione da parte della Commissione e delle altre istituzioni comunitarie.
7. In conclusione, nel sistema dell’Unione Europea è in sviluppo e si va
consolidando una complessa e capillare “infrastruttura società civile” secondo i
caratteri di autonomia e di iniziativa che sono connaturali alle spontanee formazioni
sociali ed è stato avviato l’improcrastinabile bilanciamento tra la soggettualità del
profit e quella del non profit.
La parte del Trattato di Lisbona che fa riferimento alla democrazia partecipativa
sopraggiunge a dare copertura e rilievo ‘costituzionale’ ad un solco già
ampiamente tracciato.
28
29
http://europa.eu.int/yourvoice.
COM(2002) 704 definitivo, Bruxelles, 2002, p.17ss.
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Se vogliamo parlare di superamento dell’annoso deficit democratico dell’UE, siamo
qui in presenza di una variabile indipendente tanto importante quanto poco
conosciuta nelle sue reali potenzialità trasformatrici. Su questo argomento,
l’attenzione è di solito portata in via esclusiva a due problemi: il tradizionale
disimpegno ‘europeo’ dei partiti politici e l’assenza di pieni poteri legislativi del
Parlamento europeo. E si continua, peraltro con palese stanchezza, a ragionare in
termini esclusivamente di competizione elettorale e di poteri delle istituzioni
rappresentative. E’ appena il caso di sottolineare che il riferirsi alla società civile
significa invece evocare, insieme, sovranità popolare, rappresentanza,
partecipazione, requisiti essenziali di buon governo. Si deve inoltre constatare un
duplice dato, politicamente significativo per il sistema dell’UE, quello tutto positivo
dell’avvenuta europeizzazione-integrazione delle organizzazioni della società civile
all’interno di un ampio e coraggioso processo di European Civil Society Network
Building e quello, assai deludente, della mancata integrazione partitica europea,
del perdurante stallo del processo di sviluppo di una dimensione autenticamente
“sistemica europea”, quindi transnazionale, del partito politico.
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