digital magazine APRILE 2009 il suono della Detroit ‘00 Madlib + The Clever Nerd qemists//camera obscura//here we go magic//malakai//mulatu astatke// passe montagne//adriano modica// animal collective//shinkei N.54 Sentireascoltare n.54 Turn On 4 5 . N 9002 ELIRPA enizagam latigid p. 6 The Qemists 7 Camera Obscura 8 Here We Go Magic 9 Malakai 10 Mulatu Astatke 12 Passe Montagne Tune In 00‘ tiorteD alled onous li Rubriche 14 Adriano Modica 140 Giant steps 18 Animal Collective 141 Classic album 142 La sera della prima 150 A night a the opera 152 I cosiddetti contemporanei Drop Out 22 Shinkei 30 Madlib 46 Mutoid Motown Recensioni 60 Elvin Perkins, Cryptacize, Matteah Baim, Mariposa, Here We Go Magic... Rearview Mirror bildaM + dreN revelC ehT //stsimeq //arucsbo aremac //iakalam//cigam og ew ereh //engatnom essap//ektatsa utalum evitcelloc lamina//acidom onairda 132 Mantronix 136 Sylvain Chaveau, Death, Swayzak.... Direttore: Edoardo Bridda Ufficio Stampa: Teresa Greco Consulenti alla redazione: Daniele Follero, Stefano Solventi Staff: Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Antonello Comunale, Teresa Greco Hanno collaborato: Leonardo Amico, Gianni Avella, Sara Bracco, Marco Braggion, Luca Collepiccolo, Alessandro Grassi, Gabriele Marino, Francesca Marongiu, Andrea Napoli, Massimo Padalino, Giulio Pasquali, Stefano Pifferi, Andrea Provinciali, Antonio Puglia, Costanza Salvi, Vincenzo Santarcangelo, Giancarlo Turra, Fabrizio Zampighi. Guida spirituale: Grafica In e Adriano Trauber (1966-2004) Impaginazione: Nicolas Campagnari copertina: Madlib SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright © 2009 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare Come già annunciato, torneranno dopo cinque anni i Tortoise, il prossimo 23 giugno: Beacons Of Ancestorship è il titolo dell’album dei chicagoani che uscirà su Thrill Jockey… Death Cab for Cutie faranno seguire a Narrow Stairs non un album ma un EP, The Open Door, che è uscito digitalmente il 31 marzo e fisicamente il14 aprile; include quattro pezzi inediti e un demo di Talking Bird, già apparsa sul precedente album… Jona Bechtolt annuncia che Yacht non è più un progetto in solitaria, ma un duo di cui fa parte anche Claire L. Evans; il gruppo pubblicherà il secondo album in estate, dal titolo See Mystery Lights su DFA… Uscirà a maggio Primary Colours, secondo disco degli Horrors, a dispetto delle voci di scioglimento… Nuovo album in uscita, il secondo, per il duo scandinavo Prins Thomas e Hans-Peter Lindstrom, che ritornano a maggio con II… Sempre a maggio, Smalltown Supersound pubblica Desire Lines dei Meanderthals, una collaborazione tra i veterani disco-not-disco Idjut Boys (Dan Tyler e Conrad McConnell) e Rune Lindbaek, quest’ultimo sulla scena dance norvegese dagli Ottanta… Secondo album solista per Conor Oberst (Bright Eyes): Outer South uscirà a maggio per la Merge… Un altro gruppo in vista per Jack White, dopo White Stripes e Raconteurs: The Dead Weather è il suo nome ed è formata da Alison Mosshart (cantante dei Kills), Jack Lawrence (già nei Raconteurs) e Dean Fertita dei Queens Of The Stone Age. Un album, Horehound, sarà pubblicato a giugno su Third Man Records, anticipato dal singolo Hang You From The Heavens, che ha sul retro la cover di Are Friends Electric? di Gary Numan… Tornano gli scozzesi My Latest Novel, a tre anni da Wolves: il nuovo disco Deaths and Entrances vedrà al luce il prossimo 18 maggio… a cura di Teresa Greco è uscito il 27 marzo su Rough Trade The Hazards of Love dei The Decemberists, il seguito di The Crane Wife (2006) e loro quinto album. Tra revival folk inglese e classic metal, prende spunto da un EP di Anne Briggs dallo stesso titolo. Ospiti: Becky Stark (Lavender Diamond), Shara Worden (My Brightest Diamond), Jim James (My Morning Jacket), Robyn Hitchcock e Rebecca Gates (The Spinanes)… Electricpriest presenta i Butthole Surfers (Usa), sabato 25 aprile a Bologna all’Estragon, per un’unica data italiana. Dopo 7 anni torna dal vivo una delle band più destabilizzanti del post-punk americano. La formazione con cui si Cooperative Music… Torna il bolognese Claudio Lolli con un nuovo album, già in prevendita su www.storiedinote.com. Si tratta di reinterpretazioni delle sue canzoni d’amore più significative e in parte meno conosciute, con arrangiamenti di Nicola Alesini e Paolo Capodacqua. Esce il 25 aprile… patrick wolk Esce il 28 maggio The Bachelor, il quarto album di Patrick Wolf, contenente 14 brani ai quali hanno collaborato Eliza Carthy, Thomas Bloch, Alec Empire, Matthew Herbert e Tilda Swinton. Era stato concepito come doppio album, ora scisso. L’altro disco, The Conqueror uscirà in seguito. Le due parti saranno unificate nel 2010 con Battle… Il maestro etiope Mulatu Astatké, padre dell’ethio-jazz (una miscela di jazz, il funk e il soul più il sound indigeno) e gli inglesi The Heliocentrics saranno in Italia per due date live, l’8 aprile all’Auditorium Flog/Firenze e il 9 aprile al Circolo degli Artisti/Roma.Il loro album insieme, Inspiration Information 3 è uscito su Strut… ensemble pittoresque butthole surfers mul atu astatke presenteranno live è quella che li vide protagonisti negli anni 80: Gibby Haynes, Paul Leary, Jeff Pinkus, King Coffey and Teresa Taylor. Maggiori informazioni sul sito di electripriest booking management organizzazione e promozione eventi www.electricpriest.com, prevendite su ticketone. it… Gli Eels pubblicheranno il loro nuovo album dal titolo Hombre Lobo a giugno su Vagrant/ Dopo 26 anni (!) esce l’attesa ristampa di un disco-culto, For This Is Past degli olandesi Ensemble Pittoresque, album diventato negli anni un riferimento musicale per il synth-pop, la minimal-wave e in generale l’elettronica melodica, sia del passato che attuale. Tutte le info su www.martinrecs.com Mentre sta per cominciare un nuovo tour americano, Langhorne Slim si rimette al lavoro su un nuovo album, a cui lavorerà insieme a Chris Funk dei Decemberists… Gli OM su Drag City e nuovo album in arrivo: il gruppo nato nel 2003 con Al Cisneros e Chris Hakius (già insieme negli Sleep), è oggi un duo composto da Al a basso e voce ed Emil Amos alla batteria. Il nuovo disco, attualmente in lavorazione con la collaborazione di Steve Albini, sarà pubblicato a settembre… L’interminabile saga canadese pop ha ancora un disco quasi pronto: Spencer Krug e i Sunset Rubdown usciranno a giugno con il quarto album, Dragonslayer, sempre su Jagjaguwar; per l’occasione, c’è il nuovo Mark Nicol, bassista e batterista… News / 5 Camera Obscura The Qemists join the Qemists! Qemists. Il combo 2009 che avvicina l’energia del drum’n’bass al pogo rave. La macchina sonica (3 uomini, 2 deck e 2 laptop DJ) tutta London based che riaccende la scintilla meshy dei Prodigy e che guarda al futuro imbevuto di contaminazioni. Le origini stanno al confine tra la cultura del cut’n’mix (remix per Coldcut, Roots Manuva, live sound engineering per Basement Jaxx e Lady Sovereign) e si fondono con l’energia del metal. Un marchio di fabbrica tutto brit. Dall’esordio 2005 con il remix di Everything Is Under Control dei Coldcut (padroni di casa Ninja Tune) e dalle frequentazioni di fine novanta con la galassia d’n’b, oggi esce un disco che ripropone quei suoni veloci con i superbassi e però spacca. Il continuum hardcore reynoldsiano (di cui i nostri non conoscono l’esistenza) sporcato con il palco, i suoni che ritornano in loop di ricordi infiniti, ma senza troppa nostalgia ci trafiggono. Un’affinità quindi con le band che hanno segnato il suono trashy meticcio (Rage Against The Machine, Asian Dub Foundation) ma che si connette inevitabilmente all’oggi di Klaxxons, Ladyhawke e Bloc Party (come ci dicono da un’intervista via myspace). Il dubstep si configura quindi come una palet6 / Turn On te sonora che i nostri usano come base su cui fondare il loro suono più che mai now. Pompati dall’hype radiofonico di BBC Radio 1, 1Xtra e dagli apprezzamenti di un vecchio guru del calibro di Laurent Garnier, si avvalgono di featuring che spaziano dal rock dell’ex Faith No More Mike Patton (Lost Weekend), al padrino del grime Wiley (Dem Na Like Me), dal mago del beatbox Beardyman, al soul di Devlin Love degli Alabama 3 (S.W.A.G.), per arrivare alla reginetta del d’n’b Jenna G e a molti altri ancora. Un’evoluzione che prende le mosse dall’underground londinese geeky e si fa mainstream su una delle etichette storiche, la mastodontica Ninja Tune. Ne sono passati di anni e di dischi da quando i Coldcut ci allietavano con sample fatti apposta per nerd con le mani paffute. Oggi si ritorna a mostrarsi, più incazzati che mai, ma con il cuore sintetico di chi ha vissuto sulla pelle (e sui neuroni persi) le stagioni novanta del ritmo. La nuova crew che guarda al phuture è compatta e pronta demolirci i timpani e le ossa sotto il palco. Pronti al pogo? Join the Q! Marco Braggion Ready to Heartbroken Non citate più i Belle & Sebastian a Tracyanne Campbell, voce e chitarra degli scozzesi Camera Obscura. Non si sa come potrebbe reagire. Eppure Stuart Murdoch figura tra i mentori del gruppo, avendo partecipato alla produzione dell’album d’esordio, Biggest Bluest Hi-Fi nel 2001, nonché collaborato al successivo Underachevers Please Try Harder (2003). Quest’ultimo vanta anche un suo scatto rétro in copertina, due fanciulle che sembrano provenire da un immaginario prettamente B&S. Eppure. Eppure le due band condividono influenze e attitudini (il pop soul sixties, il folk inglese, la Sarah Records), un background letterario-cinematografico e tanto altro ancora. È comprensibile a questo punto la reazione di Tracyanne. Da ex-girlfriend del leader dei B&S, a cui viene di continuo accomunata, non deve essere stato facile non far troppo caso ai continui paragoni tra le due band e potersi poi scrollare di dosso a un certo punto il confronto. Eppure l’eredità di nuovi Belle per i Camera Obscura non è un demerito, anzi, se la cosa è stata guadagnata sul campo. La cifra stilistica della band è infatti netta e personale oramai dal non temere confronti con l’altro più celebre gruppo scozzese. Sembra lontano quel fatidico giorno del 1996, quando Tracyanne e John Henderson facevano il loro ingresso nel negozio di dischi del bassista Gavin Dunbar per esporre un annuncio in cui cercavano musicisti per ampliare il gruppo. Poi ai tre si uniranno Gavin Skinbirg (chitarra), Lee Thompson e Lindsay Boyd. La formazione realizza un paio di singoli e un EP (Rare UK Bird nel ’99), fino ad arrivare al primo citato album nel 2001 (un chamber pop etereo). Segue intanto anche l’appoggio di John Peel per il singolo Eighties Fan. Poi il secondo disco nel 2003, Underachevers Please Try Harder (più personale e strutturato) e la dipartita di John Henderson. Fino alla consacrazione nel 2006 con Let’s Get Out Of This Country dove liricità e compiutezza si coniugano al meglio. Seguono intanto altri cambi di formazione. Ed arriviamo all’oggi con il signing per 4AD e la pubblicazione di My Maudlin Career (in recensioni). Indie pop, orchestrazioni, gusto jazzato e soprattutto i ritmi soul più accentuati che in precedenza. La Campbell lo giudica “intenso e piuttosto dark e dai testi più espliciti che in passato, che documentano le mie esperienze più recenti”. Van Morrison, Al Green, Lou Reed, Paul Simon le maggiori ispirazioni questa volta. Con il gruppo più malinconico e intenso che mai. Siamo pronti per farci spezzare il cuore anche a questo giro. Teresa Greco Turn On / 7 here we go magic Malakai Luke Temple in Graceland Si torna a parlare di New York. Luke Temple, cittadino acquisito della grande mela, prende il faccione bonario di Paul Simon e lo travasa nel quattro piste. Il risultato? Beh, “magico…” Dalla città delle streghe a quella che non dorme mai. Luke Temple, nativo di Salem, Massachusetts, sito da tempo nella grande mela si candida, alla luce del suo nuovo progetto Here We Go Magic, come frizzante sorpresa della primavera in musica. Alcuni di voi lo conosceranno per via dei due precedenti lavori, Hold A Match to a Gasoline World del 2005 e Snowbeast del 2007, licenziati dalla Washington-iana – sede, Seattle - Mill Pond Records, altri magari, in modo subliminale, grazie alla presenza di Make Right With You nell’episodio “Un nuovo inizio” dalla terza serie di Grey’s Anatomy. Non un novellino, insomma. Valgano in tal senso le parole spese da personaggi quali Ben Gibbard di Death Cab For Cutie(“La voce di Luke Temple, da sola, è così dannatamente bella…una delle più carine della scena indie, m’inchino”) e Sufjan Stevens (“Una delle voci più belle della musica pop”), definizioni che da sole farebbero la gioia di qualsiasi cartella stampa; metteteci poi i riconoscimenti da parte Uncut (“Suona come Neil Young e Sufjan Stevens. Delicato e dolce”) e Rolling Stone (“Le canzoni sono semplici, con delle melodie vicine a Simon & Garfunkel…il suo registro di voce così alto può ricordare un giovane Graham Nash, passato attraverso la lente deformante di Elliott Smith…ha sufficienti capaci8 / Turn On tà da surclassare uno come Conor Oberst”) e capirete che Luke, oltre a cantarle le manda, senza volere, pure a dire. Come avrete notato, tutti premono sulle corde vocali del Nostro. Un registro tendente al confidenziale il suo, prossimo, nel debutto, all’ugola gentile di Paul Simon (a conti fatti, la sua maggior influenza) laddove eloquenti paiono Make Right With You e Mr. Disgrace. Un folk d’altri tempi. Nella seconda prova, il canovaccio assume toni meno bucolici e la musica si fa più raffinata. Di tanto in tanto lo spauracchio di un altro new yorkese acquisito, Jeff Buckely, si manifesta sornione (sentite People Do e Serius e dite se non è così) e l’aria di un suono ancora in divenire si palesa. Come infatti, nel nuovo progetto Here We Go Magic c’è l’incontro “magico” tra nuovo suono di New York (Animal Collettive e Yeasayerin primis) e palpito negroide. Un gioco di specchi, poiché il rimando a Paul Simon - sempre e comunque - stavolta ripiega nei solchi etnici di Graceland. Tutto da solo - eccetto una traccia, l’ultima del disco - se non per il quattro piste e le mura del suo appartamento, tramutatosi in studio di registrazione per due mesi. Ora il suono ha groove e pulsa, nella vertiginosa Tunnelvision, dalla prima all’ultima nota. Pensate, potete pure ballarlo! L’avreste mai detto?! Gianni Avella Warriors, come out to play? Un immaginario variegato, tra psych rock acido, roots reggae e garage, con attitudine al collage, divertimento e autoironia. Commentare pubblicamente con divertimento le recensioni del proprio disco può apparire inconsueto. E’ quanto si può leggere sul myspace dei bristoliani Malakai, il cui album d’esordio - Ugly Side Of Love – è prodotto da Geoff Barrow (Portishead) per la sua label Invada. Quello che lì ci ha incuriosito sono le considerazioni anche ironiche su come la stampa finisca per interpretare intenzioni e influenze; la pagina si dimostra allora una lettura anche surreale piuttosto rivelatoria di certi meccanismi bilaterali di comunicazione. Per dire, si chiedono dove alcuni abbiano sentito il dubstep nell’album, come risulti scontato citare il trip hop associato a Barrow, e via di questo passo. L’incipit la dice lunga sulle intenzioni del gruppo in questione, formato essenzialmente dal cantante e songwriter Studio-Gee e dal musicista Scott, rispettivamente un dj e un MC che hanno unito le loro attività. E’ Gee comunque a mostrarsi come portavoce, facendo pensare erroneamente a un solista, mentre invece di collettivo trattasi, legato anche alla fervida scena artistica di Bristol. L’incontro con Barrow ha fatto sì poi che il progetto musicale si concretizzasse. Per fare un paragone immediato e generale sulla produzione, ci si potrebbe riallacciare a quanto ha realizzato negli ultimi anni uno come Danger Mouse, Gnarls Barkley inclusi. Ecco allora che la cifra stilistica del progetto Malakai si costruisce intorno a uno psych rock sixties piuttosto acido, venato di roots reggae, misto a garage di marca Nuggets, psichedelia rivisitata alla maniera di un Barrett hip hop, più alcuni influssi di marca portisheadiana (come potevano mancare dato il contesto?). E ancora qua e là coloriture funkadeliche e black. Il mood come si intuisce, è quello collagistico alla maniera di uno Zappa ’70, una propensione diremmo oggi verso un postmoderno cut up; l’ossatura per alcuni brani è costituita essenzialmente da basi e samples su cui via via si vengono a costruire e stratificare i pezzi. Beach Boys per la parte melodica, Zombies, Who, Kinks, Love. Ma anche il cantato del nume giamaicano Horace Andy e di Dose One. Un che di kraut dub nell’unico pezzo scritto con Geoff Barrow, Only For You. E ancora gli omaggi allo street combact di un film come I guerrieri della notte di Walter Hill (1979) campionato nell’opener Warriors, un garage rock acido. L’autoironia del progetto è evidente, il suo merito consiste nell’aver reso unitario un album così vario, che sfugge alle catalogazioni rimanendo piuttosto ispirato. teresa greco Turn On / 9 Mulatu Astatke Un altro mondo è possibile “Ho sempre desiderato inserire strumenti della mia cultura d’origine nell’Ethio-jazz, meglio se suonando musica occidentale in dodici toni. Sperimenteremo, perché questi strumentisti sono grandiosi e credo che ne verrà fuori un disco splendido.” Così si esprimeva la leggenda del jazz - non solo africano: mondiale - Mulatu Astatke prima di entrare in studio assieme agli Heliocentrics. In retrospettiva, possiamo affermare che sapeva bene a cosa stesse andando incontro e idem la formazione britannica. Un po’ meno noi, che, considerati gli esiti 10 / Turn On essenzialmente mediocri dei due precedenti tomi della collana Inspiration Information, attendevamo l’album al varco con pronto in mano un classico “non c’è due senza tre”. E invece niente, perché di rado in anni recenti smentita discografica è stata per noi più piacevole di quest’ora generosa che ci ha dapprima esaltato e poi - come sempre dovrebbe accadere - spinto ad approfondire. Lanciato dalla serie di album Ethiopiques, il nome del percussionista e orchestratore etiope ha rag- giunto un apice di successo più diffuso con due memorabili esibizioni tenute nel giugno 2008 a Londra e Glastonbury, capaci di mettere d’accordo gli intellettuali e quelli che amano sudare, chi insegue lo stimolo cerebrale e chi predilige la fisicità. Impresa non facile, in passato riuscita solo a calibri epocali come - giusto per citare i primi che vengono in mente - Can e Talking Heads, Art Ensemble Of Chicago e Miles Davis. Gente che travalicava etichette e distinzioni ferree, scavava una nicchia storica di propria pertinenza dalla quale indicava vie che sarebbero stati in legioni a percorrere. Ora: affermare lo stesso per questa collaborazione è molto probabilmente azzardato, e la causa della cautela è l’attuale panorama assurdamente frammentario e confuso, nondimeno ci sentiamo di scommettere su un album che resterà negli anni a venire. E non solo perché si tratta del primo in studio di Mulatu da due decenni in qua. È perché in esso si respirano intuito e talento, arguzia e genuinità. Perché ti piomba addosso una Musica splendida che fa della comunicazione un credo e dell’abbattere le barriere un vanto; che non si ripiega su se stessa ma scuote, induce a pensare e frattanto riempie di gioia. E dire che il progetto ha preso forma quasi per caso: lo scorso anno, in occasione di una serata al londinese Cargo, gli Heliocentrics funsero da lussuosa backing band per Mulatu, sciorinando la perfetta conoscenza di numerosi classici del loro (e nostro…) eroe. Qualcosa deve essere poi scattato, giacché il Nostro sul volo che lo riportava ad Addis Abeba custodiva in valigia un cd colmo di idee e “grooves” appositamente incisi con Malcom Catto e sodali. Nella rilassante atmosfera di casa, ha vergato le partiture di tastiere e vibrafono e s’è ingegnato al meglio per inserire sonorità che non avessero sapore alcuno di cartolina. Integrati sapientemente i contributi vocali e strumentali di suoi conterranei, si è poi deciso a ritornare nella capitale inglese. All’inizio dello scorso settembre, tra le mura dell’Eliocentrico - e analogico: si sen- te - Quatermass Studio, i due mondi si sono ulteriormente mescolati durante una settimana di registrazioni e aggiungendo gli strumenti tradizionali di Yezina e Mesafnit Nagash e Dawit Gebreab. Le parti di fiati sono state invece poste su carta da Joel Yennior della bostoniana Either Orchestra, a ennesima sottolineatura di come la grandezza di questo disco risieda nel coniugare antico e moderno senza sforzo, facendo leva sulla naturalezza di chi possiede idee chiare e sa come tradurle in realtà. Sulla manna che ne è derivata ci siamo dilungati sullo scorso numero di Sentireascoltare in una recensione dai toni entusiastici che confermiamo in pieno. In questa sede, ci preme rilevare come il valore di Inspiration Information vol. 3 sia addirittura cresciuto alla distanza, in ciò confermando la sensazione data dai primi ascolti. Un lavoro stratificato e adatto alla fruizione attenta, ma che non esclude l’impatto viscerale; nel quale anime e background degli artefici si fondono in modo indistinguibile. Lo stesso dicasi per la differenza - annullata lei e annichiliti noi - tra brani di fresca scrittura e standard: Addis Black Widow coniuga il funk classico e quello modernista, Blue Nile stende ponti tra il blues e accenni bristoliani, Live From Tigre Lounge fonde il senso di New York per un jazz intellettuale senza spocchia con le origini terzomondiste. E non sono che tre titoli pescati a caso tra quattordici. Abbiamo aperto con una dichiarazione di Mulatu e con le parole degli Heliocentrics vogliamo chiudere: “Non abbiamo cercato di rifare un disco in stile Ethiopiques: ci interessava piuttosto far collidere i nostri mondi sonori, completarli con influenze ed esperienze diverse in uno vero scambio di idee. Qualcosa di nuovo che avesse radici nel vecchio.” Definizione più indovinata per Inspiration Information vol. 3 non poteva esserci e, ve lo garantiamo, una volta tanto non si tratta di presunzione. È “solo” la forza di sapere dove stai andando senza starci troppo a pensare su. Giancarlo Turra Turn On / 11 scara. Gilles vive 3 mesi dell’anno in Colombia e poi torna a Nantes. Sam, lui, vive sempre a Nantes. Si suona poco quindi, ma quando si suona, c’è sempre un’eccitazione particolare che genera l’urgenza della nostra musica. passe montagne oh, mio satana In barba alla lontananza che ora li separa geograficamente Gilles Montaufray (chitarra, residenza ufficiale Colombia), Samuel Cochetel (chitarra, Francia) e Julien Fernandez (batteria, Italia) hanno avuto il coraggio d’asciugare ancor più una formula che, nel debutto Long Play (Ruminance, 2006) era già breve e ruvida. E’ la perfetta occasione per riparlare di loro, Oh My Satan; un nuovo e cocente assalto all’arma bianca ancor più secco e bastardo, ma che nasconde anche qualcosa di più, una autentica filosofia, non un semplice modo per guadagnar tempo. Il retroterra è sempre riconoscibilmente math-noise, ma gli innesti, i riferimenti, i passaggi strumentali sono lì a rimandare a dimensioni altre rispetto agli usuali scenari di genere. In particolare, alcuni momenti sembrano evidenziare il legame – mai troppo nascosto – tra il rock deturpatamente noise e quello più hard-oriented dei seventies. Pensare a certi momenti più (ehm) pomposi degli Shellac che non invecchiano facilmente non è né inutile, né azzardato. All’epoca del debutto i tre amavano sottolineare 12 / Turn On come il gruppo suona senza esistere ed esiste senza suonare. Era il 2004. Ora è come se il chiasma citato si perpetuasse. Come, cosa e quando ce lo ha spiegato il batterista Julien Fernandez, italiano d’adozione nonché titolare dell’etichetta che mette il sigillo a Oh My Satan, la African Tape. Julien vuoi raccontarci le evoluzioni del gruppo dopo l’uscita di Long Play? Sono passati quasi tre anni e sappiamo che siete sparsi per il mondo... Quando è uscito Long Play, era già un periodo strano per noi. Il gruppo si era appena formato come trio perché all’inizio Passe Montagne era un duo formato da me e Gilles. Sam è arrivato un po’ così, all’ultimo momento e suona su qualche pezzo di Long Play e Extended Play. Io avevo già un mezzo piede in Italia. Venivo spesso a Pescara e avevo la testa un po’ altrove. In quel momento volevo fare una pausa, prendere un po’ di distanza dalla musica e crearmi una nuova vita qui in Italia. Adesso, la situazione è sempre strana comunque. Io sono il 90% del tempo a Pe- E di urgenza ce n’è molta visto che bruciate in 20 minuti i 12 pezzi dell’album… un’urgenza quasi punk, direi. Siete molto essenziali, sbaglio? Il termine essenziali mi sembra giusto. Generalmente passiamo più tempo a togliere parti che ad aggiungerne. Vogliamo arrivare all’essenza dell’idea del pezzo. Senza farne troppo. Semplicemente limitare il pezzo a quello che è. Niente di più. Poi, mi chiedo sempre: ma perché i gruppi perdono tempo a ripetere diverse volte i riffs? Hanno paura di non essere sentiti bene? A me piace l’idea di una musica che si genera e subito, si mangia, si automutila. Una musica cannibale, pulsionale, immediata. Possiamo dire urgenza Punk, si…proprio urgenza Punk. Allora diciamo che appartenete di diritto alla scena math, anche se ne fornite una prova più essiccata, scarna ed esplosiva rispetto al genere… La scena math…Il termine math mi ha sempre fatto un po’ ridere perché da un aria un po’ intellettuale e superiore alla musica rock che secondo me è solo una musica viscerale, pulsionale e meccanica. Ho anche notato che fa molto figo durante le serate tra amici: Ascolto math rock o faccio musica matematica…ah ah! va di moda diciamo! In fondo, non credo che la musica rock di oggi sia più math di quella di Elvis Presley ai suoi tempi. La musica cerca solo soluzioni alla noia e cerca di evolvere. Comunque, è solo il mio parere. So che questo termine math è solo un modo per classificare un genere. Per tornare a Passe Montagne direi che è semplicemente un gruppo rock che fa la scelta di concentrare le cose all’estremo. Credo che la nostra musica sia, in fondo, una cosa molto semplice se prendi il tempo di ascoltare bene che cosa succede. Il disco da questa idea di esplosione forse perché tutto va velocemente e ci sono tanti cambiamenti in tempi molto stretti. Ma alla fine, noi suoniamo così per una ragione unica: cercare di non annoiarsi suonando senza cadere nella performance tecnica. Ok...l’idea di “math band” vi sta stretta e ciò si deduce pure all’ascolto del disco... emergono riferimenti oltre che al noise rock dei primi Novanta, anche quelli al rock pesante dei Settanta...insomma, guardate al futuro ma avete i piedi ben saldi nel passato, sbaglio? Le referenze Sessanta/Settanta sono molto presenti nel disco. Direi che a volte usiamo degli stereotipi della musica hard rock o garage degli anni Sessanta e Settanta cercando di inserirli in un discorso contemporaneo, come una sorta di riciclaggio. Tutto ciò crea un atmosfera che trovo molto divertente e controcorrente. Forse più che guardare al futuro, guardiamo semplicemente altrove. Pubblica la tua etichetta African Tape che ha già dato alle stampe l’ottimo nuovo album di Three Second Kiss e l’esordio di Aucan…parlacene… Ci sembrava naturale pubblicare il disco su Africantape perché l’identità del disco riflette quella dell’etichetta. Africantape è molto giovane e poco conosciuta, ma poco a poco cresce, soprattutto in Europa e in Giappone. È difficile per me parlarne in realtà; diciamo che la concepisco come una sorta di famiglia, di collettivo di persone, musicisti, artisti che guardano nella stessa direzione ma con punti di vista diversi. Non saprei cosa dire di più, tranne invitare i lettori a visitare il nostro sito africantape.com, ascoltare, documentarsi, andare ai concerti dei nostri gruppi ed anche ordinare dischi! Stefano Pifferi Turn On / 13 © saverio autellitano adriano modica Quello che (non) grida - Stefano Solventi Tra le “nuove proposte” che periodicamente si staccano dai formicolanti margini del rock italiano, quella di Adriano Modica è tra le più sconcertanti. Una poetica di tuffi al cuore e cervello in subbuglio, di nostalgie marinate nell’incubo della modernità, di memorie irrisolte che germogliano incantevoli angosce. Insomma: un formidabile casino. Per capirci qualcosa, lo abbiamo intervistato. C alabrese di Reggio, fatidica classe ‘77, Adriano Modica sembrerebbe un attore, visto il physique du role e la carriera cinematografica e televisiva intrapresa subito dopo il diploma conseguito all’Accademia di Arte Drammatica nel 2000. Qualcosa però covava nell’ombra della famosa cameretta, dove fin da ragazzino Adriano ha dato sfogo e smerigliato la passione per le sette note, imparando a suonare chitarra, pianoforte, batteria, basso e flauto traverso. 14 / Tune In Finché nel 2001 non licenziò Iano, un demo casalingo che provocò buone vibrazioni sulle testate più occhiute. In qualche modo, la breccia era ormai aperta. Quello stesso anno compone le musiche di uno spettacolo teatrale (Ingranaggi di Bernardo Migliaccio Spina), quindi - nel 2003 - allestisce La Terza Mano, un quartetto col quale inizia a dare vita alle proprie (stra)visioni. La cifra è il rock, ma stranito e sperso laddove lo portano l’estro, le allucinazioni, le rimembranze, le vampe e gli spasmi di una archeologia emozionale senza riguardo né remore. Ciò porterà ad Annanna (2005), lavoro che rimarrà inedito fino a dicembre 2008 (recensione nel n° 52 di SA), primo capitolo di una trilogia che proseguì con Il Fantasma Ha Paura del 2007 e si concluderà con La Sedia, rispettivamente dischi “di stoffa”, “di pietra” e “di legno”, secondo una simbologia tattile legata alle fasi della individuazione, della crescita, del farsi del sé. Nel frattempo Adriano suona con gli Ulan Bator, con Marco Parente, cogli Addamanera, coi Jennifer Gentle. È complice attivo in uno dei progetti più eccitanti che ci sia capitato di sentire recentemente, i Mimes Of Wine di Laura Loriga. Questo ragazzo di oltre trentanni è, insomma, una di quelle cose che ti auguri per ravvivare la scena, da troppo tempo - da sempre? - affamata di situazioni profonde, forti, significative. Alla luce di tutto ciò, per noi di SA intervistarlo era più o meno un dovere. Precedenza alle news: come procede la lavorazione de La Sedia? Hai già un’idea di quando uscirà? I lavori procedono, stiamo in questa fase lavorando alle apparecchiature per registrarlo in casa e soprattutto alla vecchia, cioè completamente in analogico. Non voglio più vedere un computer se non per il campo minato e il tetris; al limite un Commodore 64 per una rimpatriata con international soccer. Mi mancano i bei tempi dell’audiocassetta, il calore umano del nastro, l’oggetto fisico. Avrò un ospite speciale ed insolito ma non so dirti ancora quando uscirà. Per il momento questo è quanto. Al momento della pubblicazione de Il Fantasma Ha Paura - di fatto un capitolo due in assenza di capitolo uno - sono rimasto parecchio spiazzato... Come è successo che Annanna - disco splendido tra l’altro - sia rimasto senza una distribuzione ufficiale? Annanna l’ho registrato quando ancora fare il disco era l’unico motivo per farlo. Non ho mai cercato più di tanto dei riscontri. Quando ho deciso di fare le cose con un criterio più da azienda, cercare un confronto con un pubblico e trovato un’etichetta, i tempi erano già maturi per Il fantasma ha paura, così abbiamo deciso di pubblicare la cosa che mi rappresentava di più in quel momento e ristampare Annanna in un secondo momento. Una specie di citazione beatlesiana coatta... Debuttare con una trilogia in fieri in quest’epoca di dischi e discografie sempre più atomizzate, significa: puntare artisticamente in alto; togliersi subito il pensiero del suicidio commerciale; regolare i conti con l’ossessione di una vita... Cos’altro? Probabilmente cercare di mettere ordine in questo casino. In tutto ciò cosa ci azzecca - come direbbe quel tale - la carriera di attore? È semplicemente una cosa che ha fatto una delle persone che vivono dentro di me, ognuno di loro ha la sua vita, le sue passioni. Prevedi di ripetere l’esperienza delle colonne sonore per cinema o teatro in futuro? Sarei pronto a ripetere l’esperienza solo nel caso si dovesse verificare di nuovo la sinergia magica con l’altra parte. Guardando all’attualità, credi che in Italia esista un movimento, una scena (seppure carbonara o in embrione), un manipolo di cani sciolti visionari, qualcosa insomma in cui potresti oggi o domani trovarti annoverato? Tune In / 15 A proposito, qui in redazione siamo rimasti colpiti dall’esordio di Laura Loriga aka Mimes Of Wine, che tu conosci bene... Ci aspettiamo molto da lei. Ci stiamo sbagliando? Laura è brava. Ho accettato di partecipare al suo lavoro perché mi piaceva molto il suo gusto nello scrivere. Nelle sue musiche ho sentito da subito un mondo proprio. Ecco, Laura per esempio ha scelto di esprimersi in inglese, che tra l’altro padroneggia benissimo. Lo so, quella della lingua per il rock made in Italy è una vecchia diatriba, ma tu che dici? Io dico innanzi tutto che ognuno è libero di fare quello che gli va, lo diceva un grande che all’odio e all’ignoranza preferì la morte. A me piace l’idea di esprimermi con i miei mezzi, nella mia lingua ed è una cosa questa che mi piace vedere anche negli altri. Dipende da quello che uno vuole fare, dove vuole arrivare e soprattutto da dove vuole partire. Quello che non mi piace è l’esterofilia maniacale, quando cioè la scelta di un’altra lingua diventa una malattia da complessati o da incapaci. Quanto devi alla scuola romana dei De Gregori e del primissimo Venditti, quanto alla narrazione rock dei Massimo Volume, alle febbrili geremiadi del Ferretti e alle trasfigurazioni poetiche di un Marco Parente? Ti dico con sincerità che devo qualcosa a tutta la musica che ho ascoltato. Nello specifico Theorius Campus (album del 1972 a firma De Gregori e Venditti, ndi) l’ho scoperto quando un mio amico 16 / Tune In mi ha detto che sentiva molto di quel disco nei miei pezzi. I Massimo Volume li adoro, i CSI li ho ascoltati molto e con Marco Parente ci suono dopo esserne stato fan. Sono sicuramente cose che ho assimilato. Credi di rappresentare un possibile prototipo di cantautorato per il futuro prossimo? Direi piuttosto che sto cercando di lavorare all’essere un buon passato per il futuro prossimo. Nei La Terza Mano, che potremmo definire la tua band, ti occupi di chitarra e tastiere. Però sei stato anche batterista, pianista, bassista... Il fatto di padroneggiare tanti strumenti ti porta a concepire i pezzi a trecentosessanta gradi o per l’arrangiamento preferisci delegare? Mi è sempre piaciuto curare per intero i miei album e questa malattia sta degenerando al punto che come ti dicevo prima il prossimo lo voglio anche registrare. Per gli album passati ho sempre avuto un tecnico di riferimento ma una delle condizioni che mi sono imposto è che le prossime orecchie amiche dovranno essere attaccate a teste non fissate e che magari non sanno neanche cos’è un microfono o una chitarra. Riguardo il gruppo negli ultimi tempi si è affiatato molto così abbiamo lavorato insieme ai brani nuovi, cosa questa che ha dato ai brani un po’ di respiro e a me la sensazione di freschezza. Si tratta di grandi musicisti ma soprattutto di grandi persone che hanno capito quello che voglio fare. Sono Marco, Coci e Bruno. bientazioni sonore. Grumi mnemonici irrisolti, che non trovano soluzione nel divenire individuale. E che pure sono producono, fanno - l’individuo. Insomma, sembri voler dire: siamo i nostri mostri. Sto delirando? Si, stai delirando. Dunque direi che ti è arrivato il messaggio e mi fa piacere. In una vecchia intervista hai dichiarato di voler partecipare a Sanremo. Non m’importa se eri più serio o faceto, mi preme semmai sapere: ci hai veramente provato? Nel caso, non credi sia opportuno aspettare un’età - anagrafica e professionale più consona, tipo quella degli Afterhours? La domanda, ovviamente, è oziosa... Scusa se ti correggo, ho detto che avrei voluto presentarlo e per quello sinceramente non mi sento ancora pronto. Per i canoni nostrani - e tanto per rimanere nel gergo festivaliero - sei quel che si dice una “nuova proposta”. A 31 anni suonati (ehm...). Non te ne faccio certo una colpa, da noi le cose vanno così. Diversamente nei paesi anglosassoni i runners in genere esplodono a 20 anni (penso ad un Patrick Wolf o a Devendra Banhart). Sana pigrizia mediterranea, la nostra? No, pigrizia non direi proprio, è semplicemente che ho iniziato tardi perché prima mi occupavo di altro. Poi preferisco fare pochi dischi ma buoni, cioè quelli che voglio fare perché ho qualcosa da dire e non sempre ho qualcosa da dire. In quel caso preferisco stare zitto e ascoltare. Penso anche a che tipo di disco avrei potuto fare a 20 anni e penso che ho fatto bene a non farlo. Evidentemente ho sviluppato il buon senso prima della vena compositiva. Chiuderei con una curiosità: cosa succede, una volta conclusa la trilogia? Devo ancora decidere se mi sparo, se smetto semplicemente o se inizio il decalogo. Del progetto John Merrick - nome ispirato alla straziante vicenda del celebre Elephant Man - cosa puoi dirmi? È un progetto che si muove lentamente e soprattutto per il semplice gusto di fare musica. Nessuna mira espansionistica. Sono pieni di mostri i tuoi testi e le am- © saverio autellitano Cani sciolti? Mi piace quest’immagine. Direi che mi ritrovo a mio agio nel gruppo di quelli che non gridano e cercano di andare piano, sano e lontano il giusto. Tune In / 17 Animal collective ALL ROADS LEAD TO HEAVEN - Luca Collepiccolo “R agazzi vi faccio partecipi di questa cosa, sto registrando questa intervista su un vecchio nastro dei Butthole Surfers...”[Sorrisi] The Geologist prende la palla al balzo e dice: “sai che è un piacere tornare ai vecchi mixtape concepiti per l’autoradio? Ultimamente ho rimesso mano su dei vecchi nastri dei Pavement...”Conrad Deaken ha fatto le valigie, non sarà più il chitarrista degli Animal Collective, il gruppo di adozione newyorkese non rimedia alla dipartita, sarà Avey Tare a coprire parzialmente il ruolo vacante. Il caos è lontano, così come le danze della pioggia in ‘crosta’ moderna di Here Comes The Indian. È una tecnologia di basso profilo quella che informa Merryweather Post Pavillon, ultimo cimento su Domino e forse uno dei primi grandi dischi di questo 2009. Qualora sia lecito parlare di grandi dischi in questo decennio ed in questo secolo, sapete come vanno le cose...Cambia l’estetica ma non 18 / Tune In la forma, è il pop la finalità, canzoni con un bridge ed un ritornello, làddove fosse possibile ossessivo, vedi alla voce My Girls. Un disco che risente anche della benevola influenza di quel piccolo miracolo chiamato Person Pitch, edito da Paw Tracks e concepito nella sua disordinata cameretta in quel di Williamsburg da Panda Bear. È già in quel disco che si schiude la valvola creativa del complesso, un sommo anticipo, pur se ideato da un terzo dei cospiratori in azione. Più che parlare di addizione è bene soffermarsi sugli estremi, attratti da una filosofia che prevede agli antipodi reliquie sixties ed ombre da chimico dancefloor gli Animal Collective non sono altro che nuovi depositari di un malandrino gioco andato in scena a più riprese negli ultimi venti anni. Madchester, con gli eroi locali a rimpinzarsi di ecstasy sulle note del tridimensionale movimento acid house. Od anche i beffardi autori breakcore – da Venetian Snares in giù – che in un’altra vita si lasciavano andare nel circle pit al concerto crust punk di turno. Uno scambio che prevede un’appartenza, un’identità storicizzata. Se in Europa le camere di dialogo tra rock estremo e visionario – Inghilterra in primis ovviamente, mettete in relazione Crass, Ozric Tentacles e la cultura dei rave party – sono state da sempre trafficate a spron battuto, il fenomeno negli States è forse meno radicato e radicalizzato. Tentativi ve ne sono stati, ma sempre piuttosto timidi, laddove era semplice accostare indie, post-rock e l’esacerbante termine IDM. È stata probabilmente la DFA di James Murphy a rendere meno ovvia l’associazione, portando alcuni protagonisti della tarda scena post punk a cimentarsi con la musica da ballo, seppure attraverso dinamiche diverse. Perchése in Juan MacLean (ex chitarra dei Six Fingers Satellite, uno dei gruppi più alieni ad esser passato da casa Sub Pop) il ritmo è scandito, manifestando anche un certo gusto per italo disco ed house, è con i Black Dice che si compie il vero miracolo. Un altro trio di Brooklyn, anch’esso adottivo. E da tempo immemore legato alle stesse sorti degli Animal Collective. Lo stesso van, la stima reciproca, pur nella convinzione di muoversi ai lati opposti di un comune spettro. E come accaduto per i Black Dice di Repo, che definiscono in maniera ineluttabile il loro stato dell’arte - convogliando se possibile tutte le musiche ritmiche contemporanee – anche gli Animal Collective verranno ricordati per il loro strepitoso slancio tecnologico, laddove i sospiri acustici sono sostituiti da un robotico e consenziente ritmo cardiaco. Torniamo alla cronaca. Concerto che fa registrare il tutto esaurito quello dell’Auditorium in Roma, il gruppo ha il vento in poppa. Per loro è l’esordio europeo in un luogo che abbia le fattezze di un vero e proprio teatro. Sarà anche la prima volta per molti presenti, che del vizioso circolo lisergico del gruppo avevano sentito par- lare, distrattamente. Sono cambiate molte cose. Gli Animal Collective da beniamini di una scena underground divengono punto focale di un macrocosmo indipendente in disfacimento. Suonano di fronte ad una media di 1000 persone negli States e sono tra i primi ad ammettere che il viaggio in Europa non sia poi così conveniente, d’accordo per il cambio, ma il loro cachet negli States è sensibilmente più alto... Voglio focalizzare la mi attenzione sul vostro suono, che oggi è più indirizzato verso una certa elettronica. Volevo comprendere quale fosse il processo che vi ha portato a realizzare l’ultimo album, partendo dalle digressioni chitarristiche psichedeliche e dal sound percussivo che in qualche maniera avevano contraddistinto il vostro suono alle origini. Il dettaglio più importante credo sia nell’attenzione riservata ai bassi, ad una forma che appunto utilizzasse una forte componente ritmica. Ovviamente l’abbandono del nostro chitarrista ci ha spinto a scrivere e a pensare in maniera diversa, ed onestamente abbiamo tutti accolto con grande entusiasmo questo tipo di cambiamento. L’interesse suscitato in noi dalla musica techno, dall’ elettronica in salsa lo-fi e da una certa idea di ‘campionamento hanno accelerato questo processo. In tutto questo diviene più difficile riprodurre la vostra musica dal vivo Questo dipende dalla percezione che il pubblico ha dei nostri concerti dal vivo, dal loro stesso desiderio di vedere riprodotta esattamente quel tipo di composizione. Abbiamo un’idea piuttosto chiara di come debbano suonare i nostri pezzi. Ovviamente l’esperienza live va ad alterare certi processi generati in studio, nel nostro caso si tratta di aggiungere, piuttosto che di sottrarre. In tutto questo evitiamo anche di abusare di troppi suoni pre-registrati. Tune In / 19 Com’è cambiata la percezione del pubblico nei vostri confronti? Sicuramente possiamo dirti che il nostro pubblico è cresciuto progressivamente, si è ampliato il cerchio dei nostri ascoltatori. E ci sono molte persone presenti sin dalla prima ora che hanno apprezzato tutti i nostri piccoli cambiamenti stilistici. C’è anche una percentuale minore di sostenitori che ci ha abbandonati lungo la strada, magari non abbracciando completamente la nostra attrazione verso sonorità elettroniche. Ma il nostro desiderio non è mai stato quello di realizzare dischi rivolti ad una piccola nicchia. Un altro dato importante rappresenta l’età dei nostri sostenitori, ora sono mediamente più giovani, ed anche questo è un processo maturato nel corso degli anni. Come del resto possiamo affermare l’equilibrio tra i sessi, dato che ai nostri concerti il numero delle ragazze presenti sta quasi per pareggiare quello dei ragazzi. Ci sono stati cambi attitudinali? Spesso, nel periodo medio della vostra carriera, 20 / Tune In siete stati associati al movimento neofolk... Abbiamo iniziato a ricevere maggiori attenzioni dopo Sung Tones, che era un album che effettivamente spostava gli equilibri verso quel tipo di sonorità, quindi fu anche più semplice associarci a quel movimento. Era cambiato anche il tenore delle formazioni con cui solitamente giravamo, per dire, agli esordi abbiamo spesso diviso il palco con gruppi più ‘noise’, come i Black Dice ad esempio. Ma non ci piace pensare alla musica in termini esclusivi. È chiaro, esistono una miriade di micro scene, e ci sono persone non necessariamente disposte ad accettare il cambiamento, soprattutto quando inizi ad ottenere determinati riscontri. Ma in questo caso entriamo davvero nella sfera personale. Il nostro obiettivo, sin dagli inizi, è stato quello di raggiungere il maggior numero di persone, senza ovviamente cedere ad alcun tipo di compromesso. Non abbiamo mai chiuso ad altri suoni o ad altre idee per finalizzare il nostro programma. Non ci siamo mai chiusi rispetto alla possibilità di crescere pur muovendo la nostra ispirazione. L’altra influenza determinante sul disco è l’approccio vocale, che oltre a rimandare ai Beach Boys suggerisce paralleli con i gruppi vocali femminili dei sixties e le produzioni di Phil Spector... Per questo disco abbiamo parlato molto degli arrangiamenti vocali, quindi si è trattato di un pensiero conscio. Non abbiamo del resto mai fatto mistero di amare i Beach Boys od i Beatles. Non volevamo spingerci oltre come su alcuni album del passato, utilizzando le stesse armonie all’unisono con più persone atte a ripetere la stessa frase. Abbiamo invece riflettuto a lungo sul contrappunto, sull’utilizzo di voci in sottofondo che potessero andare in un’altra direzione, al fine di ottenere un effetto meno immediato e scontato. Non volevamo ripeterci in questo senso. Il risultato da ottenere su disco nasceva proprio dalla contrapposizione di quello stile vocale molto anni sessanta, affiancato ad una produzione in cui ci fosse una presenza importante della componente elettronica, anche se in ottica meno hi-tech, dato che abbiamo lavorato su campionatori molto basici (ed economici) e molti dei suoni che ascolti su disco sono stati proprio ricreati in studio, da fonti quindi autentiche. C’è poi l’influenza del dub, il modo incredibile da parte dei produttori giamaicani di gestire le proprie risorse. Siamo dei grandi ammiratori di gente come King Tubby, invidiamo la sua capacità di ricreare dei suoni anche con mezzi di autentica fortuna. Non pensate che la musica odierna abbia un impatto più timido sugli ascoltatori? È anche cambiato il modo di fruire e le cose accadono spesso in maniera più precipitosa... Certo, non spetta propriamente a noi determinare la bontà di un disco, in termini di storia. È un po’ prematuro eleggere i classici contemporanei e questo è un tipo di atteggiamento che ha conosciuto le sue conseguenze estreme con l’avvento di internet, dove le informazioni viaggiano in maniera estremamente veloce. Bisogna attendere per poter storicizzare anche un singolo movimento, non puoi decidere nell’immediato che tipo di impatto potrà avere quel disco sull’evoluzione della musica. I ragazzi di oggi non hanno le nostre stesse reazioni, se un disco come Nevermind ha in qualche maniera contribuito a plasmare la nostra generazione, magari potrebbe rappresentare un ascolto qualsiasi ai giorni nostri. Sta cambiando anche il modo di approcciarsi alla musica, penso anche alla miriade di blog che quotidianamente ci propongono dischi rari o misconosciuti in libero downloading... Definitivamente, sono le stesse cose che ci toccano da vicini. Magari proprio attraverso quei blog arriviamo a mettere ‘le mani’ su di un disco che alla fine finirà con l’influenzare la nostra musica. Personalmente preferiamo acquistare un vinile nei negozi appositi, del resto è un atteggiamento che ci ha sempre distinti, sin da quando ai tempi della high school ci ritrovavamo alla mostra del disco e ci confrontavamo coi nostri rivenditori di fiducia. Però è ovvio realizzare quali sono i meccanismi che oggi portano a questo tipo di ricerca, c’è una miriada di musica là fuori, ottenibile gratuitamente con un click. Non credo che oggi la musica sia divenuta più ‘popolare’, credo invece che siamo in una fase di produzione massificata. Tutti possono arrivare ad incidere con estrema semplicità oggi. Se riflettiamo anche sulle modalità in cui la gente interagisce, notiamo anche uno svilimento dell’aspetto sociale. Non penso che internet sia un mezzo necessariamente democratico. Tutta la marea di informazioni condivise, i forum, i message board, spesso rendono i contenuti più impersonali. È semplice dettare legge in queste condizioni, quando nessuno ci mette la faccia. Sono condizioni che sono cambiate drasticamente. Le opinioni volano, non vengono firmate e sottoscritte, e spesso è facile dubitare della natura di questi stessi interventi. Personalmente non ce ne curiamo troppo. Tune In / 21 Shinkei Lo Spazio del Suono/3 - Sara Bracco e Vincenzo Santarcangelo Legata intimamente alla percezione sonora, ai movimenti sull’orlo dell’udibilità, agli spazi e alla punteggiatura, la ricerca di David Sani in arte Shinkei pare giocare con fonti audio insolite (il computer brainwaves simulato, incisioni di segnali biologici, o la neve che precipita su un microfono) legandolo o liberandolo alla sperimentazione; da ascoltare in cuffia o in uno spazio scuro e in quiete. 22 / Tune In N el 2000 David Sani fonda Microsuoni, web shop attenta alle uscite e alla distribuzione di contemporary minimal music, lowercase, sound_art e digital glitch mentre, dopo l’incontro con il compositore Luigi Turra nel 2008, nasce Koyuki, etichetta che vedremo affezionata alle pubblicazioni e alle composizioni più minimali. L’esordio di Binaural Beats con l’artista Philip Lemieux risale a inizio 2008; più recenti Biostatics o Hidamari|Metrics con il compositore Fourm, mentre per la collaborazione con Luigi Turra bisognerà aspettare sino al 2009 - la recente uscita siglata NonVisualObjects dal titolo Yu Shinkei opera con precisa coscienza dei valori tra natura e materia: la sua ricerca, lungi dal ridursi a semplice gesto, è continua riflessione sonora su elementi primari come parte di un processo mutevole, quello definito da un segno preciso e calibrato, senza sbavature, ma teso come non mai tra sensibilità ed espressione. Una ricerca che punta dritto alle origini del suono, quelle che Toral individuava in monologhi autistici di macchine improvvisate e Shinkei identifica invece in quel non-suono che comprende l’ascolto di tutti i suoni, che oltrepassano il convenzionale (Binaural Beats- Koyuki 2008) per restituire memoria e significato (Yu-NVO 2009). Alvin Lucier sottolinea l’importanza del ruolo del soggetto ascoltatore, della sua attenzione e partecipazione all’evento sonoro. Le tue opere paiono sottostare alla funzione e alla condizione d’ascolto. Qual è il ruolo del contesto, del mezzo e del volume in tutto questo? Come scrive Steve Roden, la musica lowercase richiede attenzione ed una volontà di partecipazione attiva da parte dell’ascoltatore. Aggiungerei che la mia musica chiede quiete e pazienza.Purtroppo e paradossalmente (ma non troppo) l’era digitale ha portato un alto degrado nella qualità dell’ascolto musicale: si sono privilegiate velocità e quantità dell’informazione a danno della quali- tà. I formati killer di compressione musicale sono considerati di fatto lo standard dalle giovani generazioni (perdipiù spesso riprodotti attraverso il computer), e la fruizione codificata da myspace è superficiale come le relazioni che i nuovi media interattivi suggeriscono. Posso solo dire che la mia musica non può essere ascoltata al computer, molti suoni sarebbero coperti dal rumore di fondo delle ventole di raffreddamento...Per me l’ascolto rappresenta un momento di concentrazione e riflessione sui suoni e sulla struttura della composizione, una sessione di meditazione accompagnata dai suoni che amo. I termini di formato e grafica sia per i tuoi lavori che quelli in uscita per Koyuki, sembrano legarsi strettamente ai concetti di aesthetica e minimalismo.Perché questa scelta? Adoro il formato minicd! Anche per quanto dicevo prima, credo che la lunghezza intorno ai 20 minuti sia ideale per ascolti così impegnativi, dopo un certo periodo di tempo la soglia di attenzione decade inevitabilmente. Purtroppo spesso il minicd è considerato opera minore nella discografia di un artista e sinceramente trovo sbagliato che si valuti il valore della musica basandosi sulla durata di una composizione. Anche in questo caso, si tende a privilegiare la valutazione quantitativa su quella qualitativa. Per quanto riguarda invece l’immagine di Koyuki, è opera del genio grafico di Luigi Turra. Fin dai primi momenti di discussione sulle caratteristiche estetiche di Koyuki abbiamo concordato di dare un’impronta grafica molto rigorosa all’etichetta, che la rendesse immediatamente riconoscibile e che potesse indurre una sensazione positiva di quiete e concentrazione, preparando in qualche modo all’ascolto del contenuto sonoro. Questo riferimento grafico alla cultura zen sarà ancora più evidente nelle prossime uscite per le quali Luigi si è ispirato alla pittura ad inchiostro dei monaci pittori, i gasô. Le caratteristiche del sumi-e sono ben distinte da Tune In / 23 quelle della pittura ad inchiostro convenzionale eliminato ogni compiacimento estetico o stilistico, il dipinto zen trae il suo profondo significato e valore dall’essere espressione immediata di quella condizione di “non-mente” o “vuoto mentale” (mu-shin), che si genera nel satori. Spazio/Tempo, forme a priori proprie alla sensibilità umana, strettamente legate alla percezione e al centro dei maggiori dibattiti sull’estetica. Come e che ruolo hanno questi temi sul tuo comporre? La nostra percezione dello spazio esterno è una proiezione del nostro spazio interiore, ma il nostro spazio interiore viene a sua volta condizionato dall’ambiente esterno. La percezione della realtà può passare, a seconda delle caratteristiche individuali e del momento, attraverso il nostro emisfero cerebrale sinistro, analitico e temporale, oppure attraverso l’emisfero destro, che non 24 / Tune In conosce lo scorrere del tempo, che osserva le cose nel loro insieme, che è legato alla intuizione, all’emotività e all’affettività. Purtroppo la società moderna occidentale ha esasperato progressivamente l’utilizzazione delle facoltà legate al cervello sinistro, trascurando e soffocando una parte di noi stessi necessaria ed essenziale. Fino a quando il nostro io non trova un suo equilibrio nell’accettare ogni sua parte a livello cosciente, l’esasperazione di soddisfare i nostri bisogni emotivi (ricerca di identità, autoaffermazione, insicurezza, narcisismo, dipendenza) produce a livello inconscio una modificazione percettiva della realtà che viene percepita secondo i nostri desideri. Questo meccanismo costituisce il motivo principale per cui lo spazio in cui viviamo rispecchia nelle sue caratteristiche i nostri conflitti interiori, le nostre “nevrosi”. Al contrario, uno spazio semplice ed essenziale può avere un effetto positivo sulla psiche e sul corpo evocando nello spazio interno una sensazione di serenità e pace, di semplicità ed essenzialità, che invita ad una trasformazione interiore, permettendo così alla mente di superare anche i limiti spazio-temporali. Nella mia musica cerco di riprodurre queste caratteristiche di semplicità ed essenzialità. Evidente nell’architettura giapponese, come nell’arte della pittura ad inchiostro, l’importanza dello spazio, il valore dell’intervallo (vedi i lavori per pianoforte di “Piano Piece 10” di Stockhausen). Valori che perdono il legame con la funzionalità e lo stato fisico, relazioni simbiotica necessaria tra gli opposti. Sono importantissimi. I miei ultimi lavori soprattutto tendono ad essere costruiti su un susseguirsi di eventi discreti, mi piace esplorare lo spazio fra i suoni, reale o percepito, è un elemento essenziale della mia composizione. E’ un silenzio implicito, come lo definisce Richard Chartier, che in realtà non è silenzio. Mi trovo a mio agio tra i suoni che si muovono sulla soglia dell’udibile, è un mondo apparentemente statico che invece nasconde attività continua e rivela sorprese piacevoli. Per questo le mie composizioni dovrebbero essere ascoltate a basso volume o in cuffia, aumentare troppo il volume muta la natura del suono, ne distorce la percezione. Un silenzio fatto di strati sovrapposti, non assoluto ma relativo, una sorta di “suono colorato” lo definiva così Stockhausen… Nello Zen si definisce il silenzio come quel non-suono che comprende l’ascolto di tutti i suoni. Al contrario, la cultura occidentale insegna la paura del silenzio, il silenzio è vissuto come situazione di disagio ed imbarazzo, da coprire e annullare.Nel ritmo frenetico della nostra vita, siamo circondati, immersi, in un rumore di fondo continuo, distratti e catturati da suoni ingerenti, invasivi e da sollecitazioni visive che ci diseducano all’ascolto profondo. Solo se riusciamo a creare una pausa dal rumore che costantemente ci accompagna, possiamo rivalutare tutta la varietà di sensazioni acustiche che ci circonda e cambiare la ricettività dei suoni intorno a noi. Possiamo diventare più sensibili, più in risonanza con le vibrazioni del mondo. Allora anche il nostro modo di definire i suoni con le parole cambia con la nostra differente percezione: il rumore del vento e della pioggia diventa il suono del vento e della pioggia. I silenzi, oltre all’attenzione, richiedono una sorta di confronto con il rumore di fondo. All’inizio considerato vero e proprio conflitto, che diventa poi parte stessa della composizione, necessario quasi all’esercizio del microsuono. Come nascono i tuoi suoni: su carta bianca ed in cuffia, oppure sentono strettamente necessario proprio questo confronto? Ho la fortuna di vivere in un luogo molto silenzioso per cui la soglia del mio “rumore di fondo” è minima, se non inesistente. Ho saputo che molti ascoltano la mia musica ponendosi in una condizione di concentrazione e di silenzio estremo, preferibilmente di notte, ovviamente tutta questa attenzione mi rende molto felice! Certamente esiste anche la possibilità opposta, ricordo che gli Zelle suggerivano di non ascoltare il loro cd in cuffia ma di lasciarlo semplicemente interagire con i rumori d’ambiente. Lo stesso chiede spesso Steve Roden. Io sono abituato ad ascoltare e comporre in silenzio e in cuffia quindi per me è naturale questo tipo di esperienza, ma non escludo di poter comporre in futuro qualcosa per l’ascolto “d’ambiente”. Binaural Beats e la tua collaborazione con Lemieux, com’è nato questo lavoro? Qui affronti il tema dell’interazione tra fenomeni acustici e la percezione, tema caro ad esempio al Ryoji Ikeda di “+/-“… Binaural Beats nasce come studio sulle onde cerebrali. Il nostro cervello emette continuamente piccole cariche elettriche che mutano a seconda dello stato dell’attività cerebrale, dalle Beta che corrispondono allo stato di veglia attiva, fino alle Delta che sono prodotte nel sonno profondo. Esistono oggi molti software che permettono di ricreare frequenze audio nel tentativo inverso di “indurre” il cervello in uno di questi stati attraverso la trasmissione delle onde corrispondenti e quindi la sincronizzazione cerebrale. E’ lo stesso processo che si cercò di ottenere a livello visuale con le famose “dreamachines”. Nel mio caso ho utilizzato prevalentemente onde alpha e beta: queste sono comunemente associate con stati cerebrali di profonda concentrazione e “superlearning”. Devo aggiungere che il mio lavoro non è puramente scientifico ma “musicale” quindi ho utilizzato queste frequenze come materiale di partenza su cui operare un certo grado di processing e di composizione dei suoni e questo potrebbe ridurre la capacità di sincronizzazione cerebrale. Sulla materia, operi attraverso processi di sperimentazione ma anche di composizione; tra elettronica e strumenti tradizionali, confrontandoti con il campionamento, con il concetto di “paesaggio sonoro”, elementi cari alla cosiddetta musica concreta, quali Tune In / 25 sono state le influenze che maggiormente hanno suggestionato la tua scrittura? In realtà devo dire che oggi le influenze e le suggestioni che avverto maggiormente sono “extramusicali”. Ad esempio le lunghe camminate nella campagna senese in cui vivo. Oppure la visione del bellissimo film di Philip Groning “Il Grande Silenzio”, interamente girato in un monastero certosino, senza voci narranti o intrusioni esterne. O ancora una registrazione del Chanoyu, la Cerimonia giapponese del Tè. Questo tipo di esperienze si riflettono molto nella mia musica. Comunque per non eludere del tutto la tua domanda posso citare i nomi di 4 compositori con i quali sto lavorando attualmente e che mi hanno influenzato moltissimo: Pierre Gerard, Fourm, Richard Garet e ovviamente Luigi Turra. Nel tuo progetto con Fourm “Hidamari/ Metrics”, per la serie Archisonic, si colgono sentori del dibattito sull’architettura di Isamu Noguchi. Hidamari è infatti la piramide di vetro interna al Parco Moerenuma progettato dallo stesso Noguchi; perché la scelta di questa opera? Il parco Moerenuma a Sapporo fu progettato da Noguchi come una grande scultura ecofriendly, una zona di riposo e gioco, interamente costruito su un terrapieno di 2.7 milioni di tonnellate di rifiuti, nel contesto di un piano per un network di aree verdi nell’area di Sapporo. Comprende una montagna artificiale, la Moere Mountain, una Fontana con un programma di riduzione della CO2, la Tetra Mound che consiste di una piccola collina e una piramide triangolare di acciaio, varie aree gioco, la Forest of Cherry Blossoms con decine di sculture/giocattolo e la piramide di vetro Hidamari. Hidamari significa “trappola per il sole”, è una grande costruzione di vetro che in inverno si riscalda grazie all’esposizione totale al sole, in estate è raffreddata da un sistema di condizionamento che utilizza solo la neve accumulata in un ma26 / Tune In gazzino sotterraneo durante la stagione invernale.Penso che aree come questa dovrebbero essere un esempio nella progettazione delle città. Sempre a proposito di “Hidamari/Metrics”: qui i field recordings e i microsuoni sono trattati con rigore minimale. Un rigore dettato da un qualche tipo di regola? C’è un riferimento all’architettura, alle regole composite; quelle della geometria spaziale e della simbologia costruttiva, per esempio? In Hidamari ho cercato di esprimere la fragilità del rapporto uomo-natura, tra architettura artificiale e naturale, rappresentata dalla fragilità della grande piramide di vetro nel parco. I parchi nelle città sono fragili polmoni di vetro. Parlando del rapporto tra uomo e macchina, com’è il tuo legame con la strumentazione? Che strumentazioni hai usato e utilizzi di solito? Utilizzo software molto semplici, molto “immediati”. I software musicali oggi sono fantastici perché permettono di costruirsi uno studio semiprofessionale nel proprio laptop a costo zero. Tuttavia ci sono alcuni rischi da evitare, come la dispersività nel correre costantemente dietro alla plug-in di ultimissima generazione per avere il suono cool del momento; l’utilizzo eccessivo di effetti e plug-ins vista l’abbondanza di offerta a costi irrisori. Inoltre da parte mia ho sempre evitato di utilizzare Max oppure Reason o comunque i software più “in”, il fatto che li abbiano tutti è per conto mio buona ragione per non farlo. L’estrema ricerca di fonti sonore ai limiti dell’udibile, evidente nelle incisioni dei segnali elettrici di “Biostatics”, a cosa è dovuta? C’è relazione con il collettivo di “musicisti-scienziati” e la ricerca di quei punti di dissolveza da Toshiya Tsunoda, Minoru Sato, Mark Bain ecc.. Agli artisti da te citati devo aggiungere Michael Prime, autore di registrazioni bio-elettriche, an- che se nel suo caso gli esiti sonori sono del tutto differenti rispetto ai miei. Biostatics ha rappresentato una naturale estensione al mondo vegetale degli esperimenti di Binaural Beats. Anche in questo caso si tratta di segnali elettrici estremamente deboli che devono essere amplificati per essere uditi. E’ come ascoltare il fluire della linfa all’interno delle piante, o meglio ancora, il “rumore” prodotto dalle cellule nella loro frenetica attività. Certamente ci sono analogie con il lavoro del collettivo Wrk di Toshiya Tsunoda, nel loro caso l’attenzione è rivolta a rendere udibile la “vibrazione” della materia e dello spazio, nel mio ad organismi vegetali e animali ma dal punto di vista puramente fisico si tratta sempre di oscillazioni di particelle di materia. Nel progetto con Luigi Turra “Yu” , le scritture minimale e i micro suoni sperimentano nuovi e differenti spazi, tra le registrazioni di campo (voci umane, uccelli) o le intromissioni elettroacustiche (flauti e gong). Da dove arriva questa scelta, quasi una svolta? Cosa ispira la materia sonora? La “svolta” è stato l’incontro artistico con Luigi, si è creata subito un’intesa totale tra noi per cui collaborare insieme è stato naturale e molto stimolante. Yu è un termine zen che significa quiete. Anche gli altri capitoli sono espressione di concetti o luoghi della cultura orientale. Wa è l’armonia, Karesansui è il giardino Zen, Roji è il sentiero rugiadoso ovvero la strada nel giardino che conduce alla stanza del te’, mentre Kin-hin è un tipo di meditazione camminata. Credo che l’armonia e la quiete di un giardino zen rappresentino alla perfezione la nostra ricerca sonora attuale, in questo senso l’utilizzo di field recordings giapponesi e strumenti acustici orientali è stata una scelta del tutto naturale. In “Yu”, lo spazio è mutevole di registro Tune In / 27 e d’atmosfera, raccontato quasi in termini di narrativa, lo spazio è un elemento importante. Come è mutato nel tempo e con l’esperienza? E che cosa cerchi nei tuoi spazi sonori? Direi che è molto cambiato dalle mie prime produzioni ad oggi. In Binaural Beats e Biostatics era uno spazio artificiale, digitale, soprattutto mentale. Oggi è uno spazio aperto a tutte le possibilità, uno spazio mutevole in cui puoi ascoltare un bosco mattutino, un frammento di blues anni ‘30 o una marcia di protesta Tibetana. Secondo Tadao Ando, un superbo giardino giapponese non sarebbe mai immobile, bensì in continuo movimento. Attraverso una lenta trasformazione delle cose e senza interruzione creerebbe una nuova unità. Così gli spazi si affermano senza gerar- chie, si congiungono, ognuno con il proprio ruolo, il proprio colore, per partecipare all’unità del tutto.. Così è stato per il vostro approccio alla composizione? Molto bella questa definizione. E si applica totalmente al nostro modo di comporre Yu, è un tutto così unico che ad oggi sarebbe impossibile specificare quali parti sono state create da me e quali da Luigi. Lo spirito che anima la concezione del giardino zen è completamente diverso da quello riscontrabile nei nostri giardini. Questi infatti rispecchiano fedelmente la tendenza dell’uomo occidentale a dominare la natura, a vedere nel giardino un’ennesima possibilità di esprimere la propria razionalità nelle forme geometriche precise, nelle simmetrie quasi ossessive.Al contrario, nel giardino giapponese troviamo un profondo rispetto per la natura, per l’equilibrio e le proporzioni dei suoi elementi, una concezione taoista, improntata al rispetto e all’integrazione del mondo naturale piuttosto che al tentativo di modificarlo.Penso che questo atteggiamento sia lo stesso che guida me e Luigi nella composizione. Il tuo rapporto con il visuale e le installazioni? Le installazioni sono un aspetto che mi piacerebbe molto approfondire prossimamente, tempo permettendo. Al momento sto lavorando ad un progetto insieme a Luigi per una installazione audio-video autogenerativa, Shizen. In assenza di ogni gesto volontario che ne determini la direzione e la creazione, i loop audio e video si strutturano autonomamente in combinazioni casuali sempre differenti, generando infinite possibilità di ascolto e visione. Shizen, che significa naturalezza, è una delle caratteristiche fondamentali dell’estetica Zen, poiché è il riflesso del processo creativo: la realizzazione di un’opera d’arte il cui contenuto sia la visione illuminata dell’esistenza, deve avvenire senza scopo, in totale assenza di volontà, del sé e di qualsiasi tipo di artificio; tutto ciò che viene prodotto trovandosi in questo stato sarà di conseguenza simile alla spontaneità della natura, meravigliosamente armonioso, fresco, libero, fluido. Tutti i suoni originali sono registrazioni di neve e ghiaccio, riprocessate da Luigi Turra e Shinkei. Ci sembrava interessante mettere a confronto alcuni temi emersi intervistando, per la rubrica “Lo Spazio del Suono” artisti provenienti da esperienze diverisficate...Ralph Steinbruechel, con Mit Ohne, documento sonoro di un’installazione di Yves Netzhammer, mette in gioco attraverso le leggi della riflessione e l’utilizzo di un sistema multicanale , esperienze spaziali e sonore, ponendo estrema attenzione al concetto di spazio in sé e alla percezione del suono nello spazio. Per la realizzazione di Shizen, che ruolo giocherà la scelta del- 28 / Tune In lo spazio e del contesto? Si tratterà di elementi che entreranno in stretta relazione con il naturale evolversi della composizione audio/video, o parte di un fondale a cui la stessa opera d’arte darà forma e significato… La versione che abbiamo pensato è a 5 schermi, per una esperienza il più possibile immersiva. In questo caso lo spazio installativo dovrebbe essere il più neutro possibile. Installaziani site-specific, come Mit Ohne, richiedono invece uno studio preventivo approfondito dell’ambiente installativo, per poter ottenere gli effetti desiderati con le frequenze sonore e l’interazione con la location. Per questo motivo questo tipo di installazioni è pensato in rapporto ad uno spazio ben definito, o comunque è adattato all’ambiente previsto tramite uno studio accurato sulle qualità sonore del posto. Rafael Toral considera la performance “come quell’attività in grado di coinvolgere il corpo del musicista e stimolare una gestualità-una serie di gesti- all’interno di uno spazio” cosa ne pensi? Sono totalmente d’accordo. Anzi credo che ogni artista lowercase dovrebbe sforzarsi di studiare delle forme di performance che superino il limite del semplice laptop set, che spesso risulta noioso e poco significativo per il pubblico. A questo proposito mi viene in mente una bellissima performance a cui ho assistito questa estate a Piombino Experimenta di Xavier Quérel della Cellule d’Intervention Metamkine. Xavier amplifica e “suona” i meccanismi interni del proprio proiettore 16mm, accompagnando i suoni a immagini astratte su un microschermo posto sul tavolino. Tutto molto intimo e delicato.Anche in questo caso la gestualità dell’artista che opera in tempo reale sul proiettore è elemento essenziale alla performance, è chiaro che quei medesimi suoni riprodotti da un laptop non avrebbero lo stesso fascino. Tune In / 29 Madlib M adlib è un mistero. O forse no. Forse è semplicemente un drogato. Un drogato di musica che può permettersi di non uscire dal tunnel. Un bimbo che può giocare quanto vuole coi suoi giocattoli preferiti: ritmi, note, suoni. Eccone un profilo essenziale, possibile guida per cominciare a orientarsi nella sua personale giungla discografica. Il mad libs è un gioco per bambini tipicamente americano, come tale figlio del dopoguerra, inventato dalla premiata ditta Stern & Price, la stessa dei droodle. Al contrario di questi ultimi però, indovinelli grafici dai titoli che sono le loro surreali soluzioni, il mad libs è un word game, in pratica la versione popular del cadavere squisito: si devono elencare una serie di parole senza conoscere il contesto in cui verranno poi inserite. L’effetto finale è quasi sempre spiazzante, ora divertente ora inquietante. Mad libs allude ad un folle ad libitum, “a piacere”, “a volontà”, “all’infinito”. Tutto questo giro per dire: potenziale infinità, improvvisazione e gusto del momento. Non è solo una trovata giornalistica, davvero nel suo moniker Madlib ha sintetizzato compiutamente la sua essenza più profonda e vera. [g.m.] D a O tis The clever nerd - Gabriele Marino contributi di Gaspare Caliri 30 / Drop Out a M adlib La storia oggi come oggi è stranota. Cercheremo quindi l’estrema sintesi biografica, giusto un paio di date, per soffermaci sui punti principali di una produzione discografica vastissima. Madlib nasce Otis Jackson Jr. nel 1973 a Oxnard, sessanta chilometri sopra Los Angeles. Come direbbe qualcuno, nasce spacciato: immerso nella musica fino al collo. Il padre, Otis Sr., è un cantante e studio man molto richiesto della scena soul californiana, la madre, Dora Sinesca Faddis, è autrice di canzoni, e il fratello di lei, Jon, è un trombettista che collabora con tanti pezzi grossi e piace soprattutto a Gillespie. Il piccolo Otis cresce immerso nel jazz, nel funk e nel soul (ma ascolta anche rock), segue il padre nel suo lavoro di studio: lo affascinano quelle leve, quei bottoni, quei cursori, e poi le cuffie, il piatto dei dischi, tutto ciò che registra, manipola, diffonde musica. Diventa ben presto un curioso totale del mondo dei suoni, ma soprattutto un fanatico del vinile, un suo amante, cultore e collezionista senza appello. Madlib prende il virus quando ancora adolescente non è ancora Madlib, e sarà per sempre felicemente affetto. E anche contagioso. Dato che il fratello minore Michael, come già lui dal padre, prenderà il gusto di armeggiare ancora ragazzino nel suo studio di registrazione e intraprenderà poi la sua stessa carriera col nome di battaglia di Oh No (autoironico gesto di sdegno per il suono del proprio nome e cognome: Michael Jackson). Otis Jr. scopre poi il mondo della nuova musica nera, l’hip-hop, quella musica che come strumenti utilizza i suoi amati vinili, ed entra nella scena locale con un actdi talentuosi, i Lootpack. Siamo a fine anni Ottanta. Otis diventa Madlib, come detto sopra gioco di parole tra mad, mad libs e ad libitum. Ma anche acronimo mascherato di Mind Altering Demented Lessons In Beat. Arrivano le prime produzioni underground, primi anni Novanta, e poi la scoperta da parte di Chris Manak aka Peanut Butter Wolf, deus ex machina della label Stones Throw e suo fan istantaneo, che si innamora di un suono di cui intuisce le potenzialità ancora inespresse. Siamo nel 1999. Accadono tante cose. Fino al 2003, quando arriva la consacrazione definitiva nel mondo della musica senza aggettivi (né musica nera, né bianca, né hip-hop, né jazz, né altro: musica): esce Shades Of Blue. [g.m.] C hi è M adlib Mica facile rispondere. Uno dei produttori più importanti di sempre? Ma poi, uno? Uno, nessuno, centomila. Madlib è Madlib, ma anche e soprattutto Beat Konducta, Quasimoto, Yesterdays New Quintet. E restiamo così sui fondamentali, dato che ognuno di questi alias se ne trascina appresso altrettanti. Lui stesso si descrive in maniera molto semplice: «prima di tutto un dj, poi un Drop Out / 31 produttore, per ultimo un rapper». Ma è davvero difficile tracciare un profilo unitario di una personalità artistica tanto ricca e debordante da aver bisogno di una decina di pseudonimi e decine di dischi per esprimersi. La produzione di Madlib è una vera giungla, e rischia ormai di superare le umane possibilità di assorbimento. Basta dare un’occhiata a discogs.com, siamo sui livelli di Zappa, Zorn o Sun Ra (personaggi coi quali Madlib condivide ben più della semplice prolificità). Madlib è un workaholic, ma non è per lui una questione di stacanovismo, si tratta piuttosto di biologia, metabolismo, sopravvivenza, carne: Madlib fa musica come mangia, dorme e va di corpo. Con tutti i pregi e i difetti del caso. La sua non è una vocazione, è un istinto, non è una benedizione, è una condanna. Madlib ha fatto delle proprie ossessioni il proprio pane quotidiano: come i meglio creatori di cose artistiche della storia, ha deciso di esorcizzarle non combattendole ma abbandonandovisi completamente. Anche solo per questo merita il titolo di eroe, eroe dei nerd musicali: un nerd non guarito, ma santificato anzi nella sua diversità. Vinyl junkie totale, ascoltatore ossessivo, maniaco del digging (la ricerca spasmodica di vinili, anche e soprattutto nei negozi e cestoni più scrausi; stanno qui il divertimento e il virtuosismo più grandi, nel cercare la chicca, il “solco magico” dove meno te lo aspetti). Vinyl junkie totale, 32 / Drop Out lui che nel 2004 dichiarava di fare i dischi, ma si tratta quasi certamente di un’esagerazione, con soltanto un sampler e un registratore otto piste, niente computer. Puro integralismo analogico in epoca pro-tools. Girano leggende forse non troppo lontane dal vero sulla sua personalità schiva e monomaniacale: la sua compagna lo avrebbe addirittura mollato perché esasperata dal suo stare tutto il giorno chiuso in studio a registrare suonare ascoltare. Quante ore di musica sono già pronte e ancora inedite, quante lo resteranno? Sicuramente una montagna. Purtroppo e per fortuna. Peanut Butter Wolf, il suo mecenate, dice che Mad produce più o meno un album al giorno, sicuramente tra i dieci e i venti pezzi fatti e finiti, e che lavora a più progetti contemporaneamente. Insomma, al di là di una figura anche oculatamente costruita per “fare personaggio”, quello dell’artista totalmente votato alla musica, logorroico su vinile ma reticente su tutto il resto e per tutto il resto (interviste col contagocce e sempre meno negli ultimi anni, due parole appena su qualsiasi cosa che non siano musica e dischi, riservatissimo sulla vita privata), sfuggente in tutto, già sfumato in mito come da un alone di incolmabile distanza, di alterità, cristallizzato, è certo insomma che Madlib davvero viva di musica e per la musica. Dall’hip-hop alle sue fonti primarie, nel tempo la sua voracità ne ha fatto ampliare a diDrop Out / 33 smisura il campo d’azione: produzioni, rapping, remix, musica suonata; hip-hop cantato, strumentale, “free-form”, una sorta di jazz funk latin soul; gruppi veri, gruppi fantomatici, progetti solisti, collaborazioni. Per questa sua versatilità, unita a una riconoscibilità immediata, PBW lo ha paragonato a Quincy Jones. Mad fa dischi con naturalezza, per riflesso condizionato, non potrebbe non farli. Ed essendo per lui fare dischi una questione innanzitutto fisiologica, è normale che di fisiologico abbia anche dei cali: non dischi brutti, semmai minori, forse superflui, note a margine che nulla aggiungono a quanto già detto. Dischi magari frettolosi, dai quali ci si sarebbe aspettati di più, mai però davvero brutti. Madlib quando produce, è risaputo, va “in automatico”, come fosse già tutto lì, già tutto scritto: il suo felice (?) autismo diventa automatismo. È musicista tutto fuorché cervellotico, è anzi istintivo, tutto pancia, si fissa su certe cose e poi brucia questo suo interesse, e le intuizioni orientate in quel senso, in brevissimo tempo, famelicamente. Questo suo chiamiamolo “disturbo dell’attenzione” spiega tanto i dischi monotematici (vedi i tributi targati Yesterdays New Quintet) quanto quelli votati al contrario all’eclettismo più sfrenato (certe cose Beat Konducta e molte sue produzioni per altri artisti), giù fino alle tracce sincretiche, fatte di scarti netti, di momenti che (lo) stancano subito e allora via avanti il prossimo, come in uno zapping (vedi i pezzi di Quasimoto e Madvillain). Madlib fa coi suoi dischi un elogio del frammento (fin dal titolo del suo discone hip-hop, Soundpieces), e la sua è spesso una poetica dell’accostamento brutale, della cozzatura, della frizione. Frammenti che sono magari immaginati come cinematografici: i primi due volumi della serie Beat Konducta hanno come sottotitolo Movie Scenes, il terzo e il quarto sono calati nell’immaginario bollywoodiano; i pezzi del primo Quasimoto vengono descritti come piccole gag di un film demenziale; tra i miti assoluti di Mad ci sono Melvin Van Peebles, regista di 34 / Drop Out con esplosioni di groove micidiali). [g.m.] L a S tones T hrow film orgogliosamente negri, picareschi, grotteschi, e Galt MacDermot, l’autore di Hair. Questa sua dichiarata consacrazione al momento, all’intuizione volante, questa sua istintività viscerale ne fanno sopra ogni cosa un produttore riconoscibilissimo. Capace soprattutto di fare di vizi di forma virtù: perché la sua connaturata (e comunque voluta, ricercata) imperfezione diventa tocco, la sua naturale propensione alla confusione (si vedano anche le foto del suo Bomb Shelter, lo studio di registrazione preferito) diventa stile. Il suo suono è quello tra mille: granuloso, ruvido, fragrante. Se fosse un colore sarebbe marrone caffè. Un filo conduttore poi, una linea che crea continuità: un’attitudine intimamente funk. Ora trascinante ora profondamente rallentato asson- nacchiato impigrito. Madlib è un grandissimo fumatore d’erba, si definisce anzi in un suo disco come «il più fumato d’America», ed una delle sue foto più famose lo ritrae con in mano un cespuglietto di marijuana. Coerenti con l’estetica del frammento, lo definiremmo con due indizi (o due flash), due video che acciuffano l’inafferrabilità di Madlib e ne restituiscono allo stesso tempo con la migliore sintesi l’immagine canonica: il videoclip per la Slim’s Return estratta dal già citato Shades Of Blue (Madlib impegnato in un ossessivo e immaginifico djing e digging) e il video contenuto nel dvd Stones Throw 101 (2004) girato durante l’afterhour di uno dei primissimi concerti del progetto Jaylib (Mad alla batteria che improvvisa da solo per ore, occhi chiusi, ingessatissimo ma Due parole su quella che è la principale responsabile del catalogo madlibiano. La Stones Throw è l’indie black oriented, baricentro decisamente nel funk, fondata dal bianchissimo Peanut Butter Wolf, altro nerd del vinile niente male, nel 1996. Dal 2000 la sacra trimurti ST è completata da Egon, il nerd “riuscito” che tutti i nerd vorrebbero essere (maniaco del funk terzo e quartomondista, ma che, per capirci, tiene anche corsi universitari), tuttofare a tuttocampo e titolare delle dependance di “archeologia musicale” Now-Again e Soul-Cal, e Jeff Jank, fumettista underground promosso a grafico e webmaster. Una label fichissima fatta da nerd senza speranza: che bello. Con questa estetica ostentata, che prima ancora che estetica è etica, del vinile, con gli album che vengono pubblicati prima in questo formato e solo in un secondo momento in cd o digital download. Anche fuori da facili entusiasmi per quello che appare un clima positivamente cameratesco e un meccanismo perfettamente oliato, la ST resta una delle fucine più interessanti del panorama musicale contemporaneo. In scuderia campioni del rap come Percee P, Med(aphoar), Guilty Simpson e MF Doom, artisti (per accorciare) funk e/o soul come Dudley Perkins, Georgia Anne Muldrow, Heliocentrics, Breakestra, produttori superstar assolute come il compianto J Dilla e nuove promesse come Koushik e lo stesso Oh No. E ovviamente Madlib, che della ST è un po’ il figlio prediletto ma anche il padrepadrone spirituale. Senza l’amore incondizionato per la sua musica da parte di PBW difficilmente oggi Madlib sarebbe il Madlib che conosciamo, con tutti questi dischi, questa libertà, questa autorevolezza, e senza di lui la ST non sarebbe la piccola grande potenza indie che è oggi, capace di attirare musicisti di fama anche dal mondo rock&dintorni, vedi John McEntire e Omar Rodriguez Lopez. Drop Out / 35 L ootpack La culla di Madlib musicista è la sua crew tardoadolescenziale di Oxnard, i Lootpack, nata ai tempi del liceo: Mad dichiara di avere iniziato a “fare sul serio” già nell’87. Nei Lootpack lui produce le basi, Wildchild rappa e Dj Romes scratcha. La primissima traccia del trio sarebbe sull’introvabile 12 pollici Throw ‘Em Up degli Hood 2 No Good, 1992, etichetta Phat Wrekards, feat che però alcuni attribuiscono al solo Romes. Nel ‘93 il primo feat riconosciuto, due pezzi sul disco 21 & Over degli Tha Alkaholics. Nel ’96 l’esordio a nome proprio con un EP stampato dalla Crate Diggas Palace, etichetta effimera creata ad hoc dal padre di Mad. Queste e altre piccole produzioni, nulla comunque per cui strapparsi i capelli (scheletriche rispetto ai barocchismi futuri, scratch in primo piano e batteria secca secca, molto old school), attirano l’attenzione di Peanut Butter Wolf, che mette i Lootpack sotto la sua ala nella neonata Stones Throw. Esce così nel 1999 il mastodontico Soundpieces: Da Antidote!, doppio, addirittura triplo in edizione limitata. E’ la visione hardcore old school di Madlib, il suo manifesto hip-hop nel suo periodo hiphop. Emergono già quel suono ruvido che sarà la sua caratteristica di base e 36 / Drop Out il suo eclettismo (condito da un sano pizzico di ostentata follia) in quanto a referenti musicali. Due inni alle sue due ossessioni, l’erba e il digging, feat di Declaime (moniker usato da Dudley Perkins nelle vesti di rapper), Alkaholics, Quasimoto (vedi sotto). Non c’è un solo riempitivo. Summa della summa, i nove intensissimi minuti della conclusiva Episodes. [g.m.] M adlib “ solista ” Il nome Madlib, fuori dai crediti dei Lootpack, compare per la prima volta in Subtext (1999), compilation di underground hip-hop prodotta dallo Strenght Magazine di casa Sire. Mad firma gli skit. Il primo progetto a nome proprio è Invazion (2000), mini con sei pezzi brevissimi, una piccola chicca. Feat di Wildchild, Medaphoar, Oh No, Declaime, Godz Gift, Kazi (sempre giro Lootpack) e scratch di Romes. Quasi un’appendice dell’esperienza Lootpack, ma che, nonostante la durata ridotta (in totale meno di dieci minuti), conferma la solidità di Mad produttore. I cantati poi sono una vera bomba. Per trovare il nome Madlib sulla copertina di un disco importante bisogna aspettare il 2003. Si tratta di uno dei picchi di Mad e del suo miglior disco nato fuori dalla tana ST: Shades Of Blue. Abbiamo visto come Mad sia stato battezzato alla musica dal jazz, non abbiamo però specificato come sia letteralmente cresciuto a pane e Blue Note. A fine anni Novanta si sente pronto per dire la sua, per fare jazz. Nasce lo Yesterdays New Quintet (vedi sotto). Quei dischi, e i suoi remix di materiali reggae-dub Trojan per la Antidote (Blunted In The Bomb Shelter, 2002), convincono i capoccia Blue Note a dare nuova forma a quel progetto già abbozzato nel 1996 e confluito nel disco The New Groove, in cui nomi hot del mondo cut’n’mix intervenivano su vecchi materiali della prestigiosa label. Stavolta il nome hot è Madlib. Un cerchio si chiude. A lui onore ed onere di scegliere cosa e come passare al suo trattamento. E la scelta cade su cose più e (soprattutto) meno note del catalogo jazz funk soul metà anni Settanta: il suono di cui Madlib è figlio. Il sottotitolo del disco recita Madlib invades Blue Note, ma sappiamo essere stato il contrario, è stato Mad a farsi invadere. Lo immaginiamo intento ad ascoltare vecchi nastri commuovendosi nel sentire errori o voci che confabulano su questo o quell’arrangiamento. La devozione per quel suono tanto amato traspare anche dalla dedica di uno dei pezzi al padre, responsabile del virus jazz del figlio. Mad è qui nella sua dimensione ideale di dj plenipotenziario (ricordiamo la sua icastica autodefinizione), remixa, taglia, cuce, risuona alcune cose. Il risultato è un vellutato, elegantissimo disco d’atmosfera. Inutile rincorrere la tracklist, basta citare l’iniziale instant tormentone Slim’s Return, esercizio micidiale su un pezzo del pianista Gene Harris, scelto non a caso per il video rivelatore di cui si è già detto. La resa impeccabile di questo progetto canonizza Mad nel mondo della musica e della musica che conta. [g.m.] Q uasimoto Quasimoto è uno dei progetti di Mad più amati dal suo pubblico. Culto già prima che ne uscissero i dischi, almeno per quei fortunati della crew Lootpack e di casa ST che ne hanno visto in diretta la nascita e ne hanno testato per primi gli effetti. Metà anni Novanta, per puro gusto del cazzeggio e, come lui stesso ha dichiarato, strafumato, Mad si chiude nel suo Bomb Shelter e si mette a fare freestyle su basi a mezza velocità. E’ stanco del suo vocione profondo e stranegro, «alla Barry White», vuole qualcosa di diverso, di divertente, fa strani esperimenti: di questo cantato innaturalmente lento raddoppia la velocità, che torna quindi normale, e ottiene così una voce deformata. Mad fa sentire alcune di queste cose a PBW, così per farsi due risate, e PBW impazzisce: quella roba va assolutamente pubblicata. Quasimoto è la bomba freak di Madlib, il suo alter ego supersballato (il che è quanto dire). Un personaggio a tutti gli effetti, creato visivamente da Dj Design e sviluppato dal grafico di fiducia della ST Jeff Jank, con le fattezze di un alieno nasone e peloso, sorta di Alf anni Duemila. La gobba cui allude il moniker non è però somatica, sta invece tutta nelle storture di questa voce all’elio, sorta di joker rap, con un cantato allucinato, appiccicoso, inaudito, che può ricordare forse certe cose dell’Eminem più acido o meglio ancora il Sir Nose D’voidoffunk immaginato da George Clinton nel 1977. Il tono è quello di una perenne Drop Out / 37 irritante lamentela. Il contenuto non-sense, slang e tante parolacce, un frullatone di underground pop, immaginario adolescenziale, fumetti, film di serie B e vita di strada. L’esordio su disco è su un pezzo del one shot di PBW, My Vinyl Weight A Tons (1998). Il disco a nome Quasimoto esce nel 2000, titolo The Unseen. Su tutto domina un senso di rintronamento, di torpore. I pezzi sono delle mini sceneggiate vocali e, lo abbiamo det38 / Drop Out to, Madlib li immagina come estrapolati da un film squinternato. Le basi sono funk soul geneticamente modificato con inserti dei più vari, ma la musica è tutta al servizio del cantato: questo è prima di tutto un disco di rapping. Omaggio ai jazzisti preferiti di Mad, citati (e campionati) nel lungo elenco che è Jazzcats Part 1. Egon definisce Unseen «il più incredibile album di alternative hip-hop di tutti i tempi». Sicuramente, un disco alieno. Checché ne dica poi lo stesso autore («niente di nuovo, niente di vecchio, solo la stessa roba in un momento diverso»), la seconda uscita a nome Quasimoto, The Further Adventures Of Lord Quas(2005), supera addirittura la prima. Le coordinate sono chiare fin dalla copertina, in due indizi chiave: in un angolo il baloon (che esce dalla bocca di J Dilla) che recita Freak Out, “campionato” dalla copertina dell’omonimo esordio zappiano; in un altro angolo la sagoma di Wild Man Fischer, il personaggio più out degli anni Sessanta, presa dal suo An Evening With, discoculto che da Zappa fu prodotto. Siamo in pieni territori “fuori di testa”, e Further risulta così ancora più sballato della prima prova. Soprattutto, adesso il progetto non intriga soltanto per la sua eccentricità intrinseca, ma per meriti anche più squisitamente musicali (sotto questo profilo Unseen era un disco quasi spartano). Il risultato è più cartoonesco e giocoso, sempre grottesco, ma meno inquietante. Tantissimi campioni vocali dai film di Van Peebles, basi più ricche e varie, anche caotiche, ma di un caos che giova. Torna l’idea dell’omaggio ai maestri, questa volta hip-hop, nella bellissima Rappcats Part 3. Ultimissima diapositiva sulla coolness ST: il 19 febbraio è uscita la action figure di Quasimoto, prodotta dalla Kid Robot. 50 dollari. Superflua e fichissima. [g.m.] J aylib e M advill ain Le due più importanti joint venture madlibiane sono accomunate da alcune interessanti similitudini “strutturali”. Entrambe nate come onesong-project, poi dilatatesi fino alla forma-album, entrambe strapubblicizzati incontri tra “pesi massimi”, attesissimi, vendutissimi. Due dischi molto belli, diciamolo subito, ma per i quali alcuni non hanno risparmiato (e non a torto, nel primo caso), il classico “mi aspettavo di più”. Champion Sound (2003), a nome Jaylib, è la collaborazione tra i due massimi beat maker black indie del momento, Mad e Jay Dee/J Dilla: i due si conosco a distanza per le rispettive produzioni, si stimano, decidono di fare qualcosa assieme. Il disco in effetti delude in partenza, proprio a livello progettuale, perché non presenta nessuna produzione a quattro mani, ma soltanto pezzi “montati a distanza”, con Dilla che rappa sulle produzioni di Mad e viceversa (Mad anche nelle vesti di Quas). Ospiti Talib Kweli, Percee P, Guilty Simpson. Il disco ha però un suo interesse estetico e perfino antropologico: è l’incontro tra due visionari music junkie che declinano questa loro ossessione attraverso poetiche diverse, qui perfettamente sinottiche. Semplificando molto, un suono urgente, incoerente, granuloso, funk, di pancia, per Mad, un suono più studiato, asciutto, vellutato, hip-hop-soul, cerebrale, per Dilla. Più che un incontro, in effetti è uno Drop Out / 39 showcase di lusso di due grandi personalità, ma va comunque registrato come soprattutto Dilla mimi spesso e volentieri certe sporcature madlibiane. Madvillainy (2004), a nome Madvillain, è l’incontro tra Mad e uno dei rapper più eccentrici e misteriosi di sempre, la “primadonna” MF Doom. Si tratta di una delle migliori produzioni di Mad per altri. L’immaginario sci-fi b-movie e fumettistico, attraversato da una tensione come da fine del mondo, rintracciabile nel flow melmoso e arrancante di Doom è servito da una parte musicale che mescola ruvidamente soul, jazz, funk e influenze latine (Curls), probabile retaggio queste ultime di un viaggio di Mad in Brasile (leggenda vuole che il disco sia stato prodotto tutto durante quel viaggio, in pochi giorni, a partire da vinili locali). Il disco profuma di una eccentricità che non può non ricordare Quasimoto (citato nei testi e “presente” in due brani), ma virata in maniera più compatta ed essenziale. Molte le perle, da Raid a All Caps. Feat di Med e Wildchild. Nel 2008, in attesa di un annunciato e sempre rinviato capitolo secondo, Mad si è esercitato con un remix del disco (disponibile solo in un cofanetto limitato) che ne è una vera e propria virtuosistica e intrigante ri-produzione. [g.m.] T he B eat K onducta Beat Konducta è Madlib senza veli, ne espone il cuore della tecnica produttiva, con l’aggravante di un altissimo tasso di sperimentazione, nel senso proprio etimologico di “esperimento” e “prova”. L’intera serie, finora sei volumi in vinile raccolti su tre cd, porta all’estremo quell’estetica del frammento e dell’intuizione e quel gusto per 40 / Drop Out l’accumulazione barocca di cui si diceva. Caratteristiche che sono una lama a doppio taglio, suo maggior pregio e suo maggior difetto. BK è Madlib che salta di pala in frasca, è nel bene e nel male una marmellatona. La serie viene inaugurata in sordina da una specie di numero zero nel 2001, un doppio 7 pollici a nome The Loop Digga, titolo The Beat Conducta (noto anche come Earth Sounds). Il disco, tredici tracce ultrabrevi, caratteristica questa che resterà in tutte le altre uscite, si discosta però per tutto il resto dai BK di là da venire, perché molto omogeneo, giocato su un soft funk soul trattenuto e asciutto, vicino alle cose più lineari degli Yesterdays. La prima vera uscita del progetto BK è datata allora addirittura 2006, BK Vol. 1-2: Movie Scenes (anche se il primo dei due vinili che lo compongono esce già nel settembre dell’anno precedente). Eclettismo esagerato al contrario del volume zero, tracce sempre brevissime, qui massimo due minuti, ma dalla struttura interna brutalmente spezzettata. Il disco dovrebbe essere letto come raccolta di estratti da colonne sonore di film immaginari, e proprio per questo sorprende la non totale aderenza in alcuni casi delle musiche ai titoli loro appioppati. Questione veniale comunque. Predominano a inizio e fine disco citazioni funk soul (esplicito l’omaggio alla Stax e a James Brown), ma in mezzo c’è di tutto, found voices, un paio di suggestioni africane, i Kraftwerk di Trans Europe, Raymond Scott, roba più grassamente gangsta rap, ipnotismi da “terzo orecchio”, perle sbilenche che potrebbero stare su Quasimoto (e infatti usano materiali dei Residents). Tutti esercizi di stile, tutti possibili intermezzi di dischi “altri”, tutte mini-intuizioni che, quando lo spunto iniziale è ricco, lasciano all’ascoltatore mille suggestioni, ancora più forti proprio perché mai compiute, mai risolte. I volumi BK Vol. 3-4: In India (2007), sono introdotti da un annuncio programmatico: «Come on let’s journey». E il viaggio è in India, come da titolo, alla base ancora suggestioni cinematografiche, focus sulla Bollywood anni Settanta, protagonisti assoluti una quantità di campioni vocali tratti dalle pellicole di genere. Il disco è frutto di una fascinazione magari momentanea ma totale, come spesso per Madlib, e l’idea è molto intrigante, ma il risultato è come sospeso a mezzo volo. Ovviamente, ci sono anche qui le perle che regalano momenti intensissimi, e comunque il disco può suonare più o meno interessante a seconda della familiarità che si ha con questi suoni. Ma quelli che riescono meglio sono soprattutto quei pezzi dove Mad rifà quella Bollywood che più si allontana dalla tradizione e più si butta nell’esotismo caricaturale e fumettistico, e che più guarda all’America e a Hollywood, in un divertente cortocircuito (Piano Garden). Fin qui insomma, abbiamo visto un BK come progetto interessantissimo e coi suoi picchi, ma non del tutto riuscito, non al cento per cento, con le imperfezioni costitutive del modus madlibiano forse lasciate troppo sbrigliate, troppo scoperte, e quindi destabilizzanti. E’ da poco stato pubblicato su cd (10 febbraio, già esaurito) quanto contenuto nei due BK volumi 5 (The Dil Cosby Suite) e 6 (The Dil Withers Suite), al solito usciti prima su vinile, e separatamente, nell’agosto e ottobre 2008. BK Vol. 5-6 è, come recita il sottotitolo, A Tribute To J Dilla, il produttore black scomparso nel 2006 a causa di una malattia degenerativa pochissimo tempo dopo la pubblicazione del suo capolavoro immenso Donuts(fuori da ogni banalità della formula, con ogni parola che pesa un macigno, funk-soul per il nuovo millennio). Il tributo è voluto dai suoi colleghi-amici Madlib e J Rocc, dj e producer sempre accasato ST, che qui scratcha. Alla base del disco c’è la solita miscela di funk modificato e maltrattato usata da Mad, ma con percentuali soul decisamente più alte del solito, e soprattutto un suono più vellutato ed etereo. E’ Madlib che cerca di avvicinare il suono di Dilla. Il disco è il più omogeneo, organico e compatto della serie, basi più asciutte, meno sconnesse, sia del solito Mad che dei precedenti BK. Tanti gli inserti vocali, e decisamente più rap. Pezzi ipnotici, si direbbe da club spettrale (c’è anche uno shuffle electro con inserti da videogame). Su tutto aleggia una spiritualità urbana, tra abbandono (vedi la citazione del dio rasta Jah) e disperazione, la sensazione è quella di un’ultima spiaggia guardata da lontano ma non troppo. L’atmosfera è intrisa di emotività, ora drammatica (uno dei picchi è in Sacrifice: Beat-a-holic Thoughts, ma anche in Anthenagin’) ora semplicemente epica (The String). E’ probabilmente il migliore BK finora. Rispetto al primo stock, ha dietro un vero tema-progetto che dà un senso al tutto e ha forse fatto muovere meglio in partenza lo stesso Mad. Rispetto al secondo, presenta una selecta di intuizioni semplicemente più ricche, centrate, curate. Così è anche il BK più bello da ascoltare. Un disco mosso da una motivazione forte, con uno spettro che vi aleggia sopra, quello dell’impossibilità di altri incontri musicali con Dilla, pittato qui come una specie di Coltrane dei beat. Ed è forse qui che avviene davvero quell’incontro che era mancato su Champion Sound: Mad avvicina Dilla non per timore reverenziale, ma per fare un sentito omaggio ad uno dei pochissimi che lo vedevano come suo pari. Breve menzione a parte per la dependence extra-ST del progetto BK, WLIB AM: King Of The Wigflip, settembre 2008, pubblicato nella serie Beat Generation di Rapster/ Barely Breaking Even. E’ un disco diversissimo dagli altri BK, di cui condivide soltanto la sigla e la natura eclettica, o meglio, l’eterogeneità. E’ strapieno di feat vocali (Oh No, Guilty Simpson in due pezzi, Prince Po, Talib Kweli, Med, la Muldrow, Kariem Riggins) e ogni pezzo è diverso dall’altro, ma con risultati alterni, che diDrop Out / 41 pendono soprattutto dall’aderenza del rapper di turno al mondo musicale di Mad. Le produzioni sono spesso sorprendentemente pulite, si direbbe quasi mainstream. Da prendere soprattutto come spettro delle molte facce black, e soprattutto hiphop, di Madlib oggi. [g.m.] Y estardays N ew Q uintet Tra il 1999 e il 2000, Madlib, drogato di jazz e devoto a figure come Sun Ra e Thelonius Monk, si comincia ad interessare alla musica suonata. Da performer, non più solo da ascoltatore o dj. La folgorazione avviene causa un incontro ravvicinato con un Fender Rhodes, il piano elettrico responsabile di quei suoni da lui tanto amati in certo jazz anni Settanta. Madlib decide che si metterà a fare jazz, e intende fare tutto da solo. Come un bravo papà che non può tarpare le ali al figlioletto che profuma di genio, PBW esce di casa e va a comprare i giocattoli nuovi. Coi quali Mad mette in piedi un quintetto (Yesterdays New Quintet, con tutte le varianti grafiche tra plurale, singolare e genitivo sassone) così composto: Monk Hughes al basso, Otis Jackson Jr. alla batteria, Joe McDuphrey alle tastiere, Malik Flavors alle percussioni, Ahmad Miller al vibrafono. Ognuno di questi musicisti immaginari (ma Otis Jackson è il vero nome di Mad) sarà intestatario di almeno un disco “solista” del progetto, senza contare i dischi “collettivi” e altri progetti collaterali: una vera valanga di pubblicazioni, di cui è impossibile rendere qui conto. Mad comincia a studiare, autodidatta, non ha mai toccato strumento prima, ma è un ossessivo, lo sappiamo, e non è diffici42 / Drop Out le immaginarlo mentre suona tutto il santo giorno cercando di rifare a orecchio questo o quel pezzo preferito, riuscendo a raggiungere livelli impensabili per qualsiasi altra persona. In meno di un anno registra ore di materiale, dice PBW qualcosa come 20 cd-r, per lo più improvvisazioni, motivetti, esercizi sui timbri. La prima uscita discografica a nome YNQ è un mini, Elle’s Theme, 2001. Nello stesso anno arriva anche il primo album, Angels Without Edges, che di quella pila di cd presentati a Peanut è praticamente un best of. Le batterie sono qui ancora quasi tutte campionate (e va comunque sfatato il mito che il cento per cento del materiale YNQ sia suonato e non campionato) e l’enfasi, fin dalla copertina, è tutta sulle tastiere. Il carattere sperimentale del progetto (ancora, in senso etimologico) è lampante per come alle volte cozzano tra loro certe parti strumentali: è lampante che si tratti di un one man show. Con ancora molto da affinare. Ma il gusto del suono e un appeal funk sottopelle riscattano anche le tracce meno ispirate. Perché si, è molto semplice, per i caratteri con cui nasce questa musica (musica suonata da uno che non sa suonare), qui l’ispirazione è la chiave di tutto e il discrimine tra il materiale interessante e quello francamente superfluo (come molti dei dischi di cui non tratteremo). Angels, ma a ben vedere tutta l’avventura YNQ , ha anche questa caratteristica, come dire, antropologica da non sottovalutare: YNQ è un uomo già “arrivato” che si mette alla prova inseguendo il sogno di una vita, è il bambino che gioca ipnotizzato col fuoco, è Madlib che cerca di suonare quella musica che finora ha sem- pre e solo “subito” (di cui ha subito il fascino da ascoltatore). Che questi dischi esistano è un vero miracolo di commovente umana ostinazione. Angels è solare e placido, un funk soul jazzato con influenze latine: è il suono YNQ al suo nascere, ancora acerbo. Unico brano fuori da questa direttrice, ma che non stona, è il casino totale di Last Day. Da questo disco si spargono i semi del progetto, che ossessionerà Mad per anni e lo porterà ad una prolificità, come detto, sconcertante. E anche dissennata. Si va così dalle intuizioni annegate in una decina di mini qualitativamente altalenanti sparsi tra il 2001 e il 2008, ai due tribute album, il primo di cover da Stevie Wonder (Stevie, pronto già nel 2002, pubblicato nel 2004), sostanzialmente deludente, il secondo con brani ispirati al jazzista Irvine Weldon, suicidatosi nel 2002 (A Tribute To Brother Weldon, 2004), disco invece riuscito, forse il disco free di Mad, molto interessante perché insolitamente torbido e meditativo, fino all’ubriacatura carioca di Sujinho (Kindred Spirits, 2008), collaborazione a distanza con Ivan “Mamao” Conti degli Azymuth, un po’ troppo stiracchiato e di maniera. Sempre ascrivibile all’universo YNQ (e pubblicato infatti con la dicitura YNQ presents Sound Directions), The Funky Side Of Life (2005) presenta un numero incredibile di collaborazioni di musicisti in carne e ossa, da Catto degli Heliocentrics a turnisti e arrangiatori di area jazz funk che hanno lavorato anche con Beck Hansen e Stevie Wonder. La musica è appunto un jazz funk marcatamente funk, che sa tanto di colonna sonora Seventies. L’iniziale Directions è una delle possibili intro definitive della storia. L’atmosfera è vividamente urbana, ora serena e impigrita, da passeggiata (Wanda Vidal), ora minacciosa e concitata, da inseguimento (Ivory Black). Forse non tutti i pezzi hanno la stessa incisività o restano allo stesso modo, ma il disco è uno dei musicalmente più compiuti e accattivanti di tutta la discografia madlibiana. Cover della classica Forty Days di Billy Brooks e di A Divine Image del mito David Axelrod. Chiudiamo questa nostra scrematura della discografia YNQ col disco che del progetto rappresenta sintesi, summa e (pare) requiem, Yesterdays Universe: Prepare For A New Yesterday Vol. 1 (2007). Si tratta di una compilation delle ultime produzioni YNQ , un contraltare di Angels insomma, con materiale edito (pezzi presi dai vari satelliti YNQ) e inedito. Il suo pregio, la varietà, è anche il suo difetto. Si va dal pianismo alla George Duke di Umoja, al free alla Art Ensemble di Slave Riot, alla fusion alla Chick Corea di One For The Monica Lingas Band, al funk d’assalto di Street Talkin’ e Free Son. E’ il disco ultra-jazz, e più megalomane, del Quintetto: frammentario, stordente, ma davvero capace di aprire squarci su tanti mondi possibili. In apertura, una rispettosissima Bitches Brew, opportunamente accentuata in melmosità. Piccola nota: assurda la scelta di fare di una chicca come Summer Suite un promo allegato solo ad alcune tirature di Universe, quando si tratta invece di una delle prove più riuscite, fluide, musicali, belle Drop Out / 43 del YNQ. La durata (quaranta minuti), la varietà e allo stesso tempo la cifra stilistica limpida e riconoscibile, ne fanno anzi un vero piccolo compendio, un bignami di tutto il progetto. Doveroso elenco di release importanti ma di cui, per motivi di spazio e di coerenza tematica (per non rendere dispersivo un discorso già così amplissimo), dobbiamo qui tacere: la take madlibiana su deephouse e breakbeat a nome DJ Rels, Theme For A Broken Soul (2004); le produzioni per Dudley Perkins (dalla sue cose rap come Declaime fino a A Lil’ Light, 2003, e Expressions, 2006), Wildchild (Secondary Protocol, 2003), Percee P (Perseverance, 2007), Talib Kweli (Liberation, 2007), Med (11 pezzi di Push Comes To Shove, 2005), Guilty Simpson (5 pezzi di Ode To The Ghetto, 2008), Erykha Badu (2 pezzi di New Amerykah, Universal/Motown, 2008), Mos Def (2 pezzi di Ecstatic, Downtown, 2009), più pezzi sciolti per De La Soul, Planet Asia, Prince Po, Oh No, MF Doom; i pezzi sui due volumi collettivi ST/ Adult Swim, Chrome Children(2006, 2007), e su Hella International (2007), triplo 12 pollici celebrativo; i (finora) sette volumi no-label di mixremix per il solo mercato giapponese Mind Fusion(2004-2009); il progetto “percussion + djing” della Mochilla confluito nel dvd Brasilintime (2006); alcuni remix one shot come la Nuclear War di Sun Ra sulla compilation The Other Side Of Los Angeles (Time Out, 2007). [Grazie a Mirko “DaBeast” Andreassi, Marco “Wolf” Iacono, David “LittleTonyNegri” Nerattini] 44 / Drop Out Il culto dei frammenti Come concludere – provvisoriamente - una cavalcata su un mare di produzione e “dispersione” musicale? Si parlava sopra, appena prima di intraprendere il viaggio tra i moniker, di una chiave di lettura del fenomeno ad libitum del Madlib. Si accennava al culto del frammento, dell’attimo colto e riportato, del potere di immortalare i particolari che consente la stanza che Otis Jr. conosce meglio; quella dei bottoni. Da qui ripartiamo, alla luce delle sfaccettature musicali del ritratto, per fare un’ipotesi di massima un po’ più generale, che abbracci quei frammenti come un taccheggiatore maldestro tiene visibilmente sotto l’impermeabile tutta la merce da portare a casa. Innanzitutto quel potere di immortalità che Madlib detiene con la massima autorità è in realtà un mero strumento di un compito molto impegnativo ma per lui naturale; non uno scettro evidenziato. Madlib coglie i frammenti e li trascina con sé, nella sua musica, nel mare magnum della sua produzione; e però nel farlo lascia a quelli la natura di frammenti; li usa ma solo nel flusso continuo di qualcosa che quei tocchi, piano piano, e nel loro insieme, costruiscono con un non ben definito senno del di poi. Basta ascoltare l’ultimo Beat Konducta, per capire un po’ meglio quanto si cerca qui di focalizzare invano, a parole. I pezzi sono presi e mai isolati; il loro soul e il loro funk sono adoperati per un obiettivo a scala più ampia; certo la cosa pare scontata, se si pensa che si parla di un episo- dio dedicato al mito di molti J Dilla. Ma Madlib coglie sempre le occasioni come pretesti, le priva di un’essenza individuale per rendere conto di un costrutto che sta prendendo corpo e anima; nei dischi di Madlib si sentono anche quelle cose che il nostro conserva ancora nel cassetto (negli infiniti cassetti della sua stanza bottoniera). Nelle produzioni ufficiali entrano in risonanza indiretta e inspiegabile i cdr che mai ascolteremo. Basterebbe dire forse che il frammento di Madlib sussiste solo in quanto parte di un flusso; ma ancora manca qualcosa, a questa area di decompressione tra l’ascolto e la visione critica. Il confronto con J Dilla a cui ci presta il fianco l’ultimo BK è un piatto d’argento ossidabile; è vero che entrambi hanno una natura una e trina, ma non solo; ciò che li accomuna è un’attenzione alla cultura nera in toto che si riflette nel lavoro di produzione e di repertorio della loro attività. I mille moniker di Madlib non sono solo il risultato di un delirio ipertrofico; sono il tentativo, spasmodicamente rilassato, di fare tutta la musica che fa parte della sua cultura. Pensiamo a cuor leggero a quel che Madlib ha fatto; con Yesterdays New Quintet ha affronta- to dal be-bop al free jazz; con Beat Konducta è passato da J Dilla fino addirittura a catalogare il kitsch bollywoodiano, senza darne un giudizio o estetizzarlo, ma semplicemente prendendone la fattezza di seconda mano, come può arrivare in una black California, fake del fake. Quello che fa Madlib è spersonalizzarsi per fare una catalogazione della black music, dal funk, al jazz, alle sonorità in arrivo. Il culto del frammento discende allora forse dalla volontà di sciogliere le (sue) molteplici individualità nel corpo frizzante della cultura musicale di cui fa parte. Detto con una formula: Madlib non è un produttore di musica nera, è colui che si è preso la briga di abbracciare tutte le diramazioni della matrice; siamo nel 2009, l’hip-hop si ritrova storicizzato all’interno della cultura nera, parte essenziale accanto alle altre… E allora Madlib è il produttore della musica nera in genere, con le dirette conseguenze di “atlantificazione” che una tale occupazione comporta. Mad ad libitum, ma produttore, catalogatore, repertorio di un mondo intero; in questo, qui lo si dice e lo si nega, personaggio assolutamente ’00. 10 dischi per avvicinare Madlib [tutti Stones Throw, eccetto ove indicato]: • Lootpack [Madlib, Wildchild, Dj Romes] – Soundpieces: Da Antidote! (1999) • Yesterdays New Quintet – Angels Without Edges (2001) • Madlib – Shades Of Blue: Madlib Invades Blue Note (Blue Note, 2003) • Jaylib [Madlib & J Dilla] – Champion Sound (2003) • Madvillain [Madlib & MF Doom] – Madvillainy (2004) • Quasimoto – The Further Adventures Of Lord Quas (2005) • Yesterdays New Quintet presents Sound Directions – The Funky Side Of Life (2005) • Madlib – Beat Konducta Vol. 1-2: Movie Scenes (2006) • Yesterdays Universe – Yesterdays Universe: Prepare For A New Yesterday Vol. 1 (2007) [+ bonus promo The Last Electro-Acoustic Space Jazz & Percussion Ensemble – Summer Suite] • Madlib – Beat Konducta Vol. 5-6: A Tribute To J Dilla (2009) Drop Out / 45 Mutoid motown il Suono della Detroit ‘00 A Detroit la crisi è arrivata prima; ma per quanto ci riguarda ciò che ci ha visto lungo nella motown degli ultimi dieci anni è una scena che sotto l’etichetta mutantpunk raccoglie stupefacenti creatività musicali e artistiche. Ecco a voi una schizo- - Stefano Pifferi, Gaspare Caliri e Massimo Padalino mappatura di band veterane, come Human Eye e Piranhas, nuove attesissime conferme, vedi Druid Perfume, etichette, persone e compile che levano il fiato e il dubbio. Il suono della motor city dei Duemila è mutoid motown! D etr - oid D i cosa si compone una scena? Di storie individuali e di storie collettive, che si intrecciano senza soluzioni di continuità. E di un contesto. Quello che oggi fa da quinta teatrale alla scena di cui vi si vuole parlare non è dei migliori; la città dei motori era di fatto una delle capitali mondiali dell’automobile, e sicuramente era negli Stati Uniti città sinonimo di quattro ruote e di motorizzazione di massa, al punto che quando negli States qualcuno si compra un’auto, gli si dice proverbialmente “buon acciaio detroitiano”. Quasi due milioni di persone – oggi dimezzate – lavoravano nelle catene di montaggio di Ford, Chrysler, Dodge, Cadillac. Cose di cui ci si accorge veramente, forse, quando non ci sono più, come in questi anni. Ma se di crisi si parla fin troppo, di fervido gorgoglio si parla sempre troppo poco. A Detroit noi di SA non ci siamo certo avvicinati per cogliere i frutti acerbi della recessione; ma per gustarci e farvi gustare il marciume vitalissimo che sprizza dalla motor city da ormai almeno dieci anni. Per introdurlo ci ri46 / Drop Out facciamo solo un poco a quel rumore macchinico e ai clangori ripetuti come sezioni ritmiche figli delle catene di montaggio. Le macchine infernali che animano la scena detroitiana oggi sono androidi e informi; perennemente ancorate nel punk più sanguigno, spiccano voli pindarici di un mutantismo alieno; questi i due elementi con cui definiremmo il core della motown odierna; questi i tratti distintivi musicali che ci fanno parlare oggi – nella nostra schizo-mappatura della città che fu “soulful” e degli Stooges – di mutoid-punk. L’etichetta è densa e stringente, ma non deve esclude- re una quantità di sfumature di cui faticosamente cercheremo di rendere conto. C’è, dietro ogni angolo android punk, del free-jazz incontrollabile; c’è l’eccentricità del sottobosco post-punk/new wave americano; ci sono artwork ed etichette che confezionano un’estetica irresistibile. E se una scena è fatta di storie di individui e di gruppi di persone, c’è anche da dire che nella Detroit dei Duemila ciò che sembra funzionare particolarmente bene è la trasversalità di quell’approccio punk mutante, che fa sì che nel discorso che sta avendo la sua introduzione si mescolino e Drop Out / 47 si intreccino luoghi delegati alla musica – anche la più violenta – e all’arte – da piccole gallerie al museo cittadino di arte contemporanea. Ma, fedeli alla ripercussione spaziale figlia dell’estetica android-retro-sci-fi dei Chrome, è là tra gli astri che spariamo il colpo, per poi catapultarci in caduta libera nella città dei motori mutanti… [g.c.] H uman E ye . E ye A m T he H uman A lien ! Nell’immensità del cosmo, su immense distese spaziotemporali, i gas vanno alla deriva: le scorie di diecimila soli, un diffuso miasma di esplosioni oramai soffocate, di fuochi infernali oramai morti e le furie di centinaia di milioni di formidabili macchie solari...Informi, senza scopo. Al centro di questo uragano emerge, portandosi dietro un manipolo di creature mostruose a vedersi, la città della macchina, Detroit, Motor City per eccellenza. Il drappello di esseri mutanti che, imbracciata l’usuale strumentazione rock, riesce a varcare le soglie dell’Universo punk sgattaiolando via dalle casematte psych’n’heavy ha per guida lui, Timmy “Vulgar” Lampinen. Biondo, stravagante, cultore dell’improbabile, amante della grafica e devoto asservito al rock’n’roll sguaiato. Lo dicono, innanzitutto, i lavori dei Clone Defects. La Detroit del gruppo è stata quella di Jim Diamond, proprietario della Ghetto Recorders, mitico studio di registrazione analogico, anima e core del suono vintage. Goddamn, Easy Action, Valentinos, Death In Custody, I Accuse, H8 Inc e Amino Acids sono stati gli eroi di questa scena. Discontinua assai la carriera di Lampinen, Wild Mid Wes, Chuck Fog e Fast Eddie, che ancor’oggi, nel 2008, si esibiscono live. Dapprima il 7” eponimo (Addition Records/Tom Perkins Records, 1999), registrato e prodotto da Jack White dei White Stripes e stampato in mille copie; poi singoletti quali Scissors Chop (Italy Records, 2000), The Lizard Boy (2000) e Shapes Of Venus (In The Red, 2003). Il primo e il terzo 48 / Drop Out prodotti da Jim Diamond: garanzia di qualità! Così come i piatti forti della casa. Due LP – Blood On Jupiter (Tom Perkins Records, 2001) e Shapes Of Venus (In The Red, 2003) – saturi del sound di Stooges, MC5, Stones e Damned. Ancora nulla al confronto di quanto sarebbe venuto. Billy Haffer (aka Billy Tornado o Hurricane Williams) Tim lo incontra nel backstage di un concerto dei Defects, al Magic Stick. Così come Johnny Lzr. Nascono gli Human Eye. Alla chitarra c’è lui, l’alieno biondo che fa impazzire il mondo delle sette note: Timmy Vulgar! L’estetica della band sarà ancor più punk che quella dei Defects. Beefheart, Germs, Chrome, Soupy Sales, Residents, Hendrix, Boredoms, Hawkwind, Screamers, Electric Eels, le influenze dello psicotico combo. Esso autodefinisce la propria human eye musica “alien punk” o “experimental psychedelic punk”. Esce l’esordio, per la In The Red, a confermare la veridicità dell’assunto. Siamo nel 2005. L’LP contiene 12 canzoni, scritte per intero da Lampinen, mixate da Tim assieme a Ryan Sabatis dei Piranhas ed eseguite da Johnny Lazer (‘alien pianos’), Thommy Hawk (basso), Timmy Vulgar Lampinen (voce, chitarra, tromba) e ben due batteristi ad alternarsi (Billy Hafner, anche allo xilofono, e Jimmy Vomits). Human Eye, brano apripista, risale le correnti astrali per andarsi a posizionare davanti a quel geoide sonoro che fu abitato dal primo Helios Creed solista (The Last Laugh, 1989). Distorsioni senza posa, chitarre filtrate, interferenze rumorose abbandonate a se stesse, velleitarie ed arty eppure spastiche. Una gran devastazione di generi “classici” (blues, rockabilly, garage, hard rock, scum-punk ecc.) dominata dalla voce, assolutamente non filtrata (Timmy è miglior cantante che non Creed), di Lampinen (Episode People, Girl Named Trouble, Extraterrtrial March, Car Was Alive... durata media due minuti o poco più). I testi, poi, sono altrettanto caustici. Eccovi qui Kill Pop Culture: “Have an alien lazer kill you all! Wanna ufo invasion I wanna help em shut it down i can hear the new culture call”. Intanto i Nostri partecipano al Gonerfest 2 nel 2005 a Memphis (ma non vengono inclusi nel relativo DVD/CD) e pubblicano un po’ di cose su 7” ed affini (Dinosaur Bones, Spiders And Their Kin, Rare Little Creature, il cd-r Serpent Shadow). Tim, dal canto suo, si perfeziona nel disegnare poster sempre più visionari (vedi le copertine della band, ma non solo quelle!) e si lancia in tour scalmanati – pure in Europa (Madrid, Marsiglia, Firenze) – durante i quali leggenda vuole i musicisti gettino sul pubblico, travestiti da marziani dei b movie, rane, anguille elettriche, serpenti, polpi...Un album nuovo viene incubato nel mentre. La In The Red decide di passare la mano. Billy Tornado (anche al sax stavolta), Johnny Lzr, Brad Hales (Lamps Bass guitar) e Timmy Vulgar suonano nel nuovo Fragments Of The Universe Nurse (Hook Or Crook) sfornando un’epidemia di suoni aliena e virulenta, denunciabile quale spacejazz-noise. Perfetto surrogato di quell’electroshock che mai aveste a patire! [m.p.] X! R ecs , T asty S oil , O dd C louds , J imbo E aster ; tra rumore e arte . Uno dei centri propulsori della Detroit underground ha sede poco fuori dalla motor city più famosa del mondo. È un’etichetta e risponde al nome di X! Recordings; la gestisce Scott Dunkerley e ha il proprio quartier generale in quel di Ferndale, poche miglia a nord di Detroit, in quel dedalo ortogonale di sobborghi e cittadine che formano l’immensa suburbia tipica delle metropoli americane. Poche uscite quelle contraddistinte dal marchio X! e spesso in formato vinilico minore a testimonianza di un approccio diy mai domo, come conferma Scott via mail: […] Idea e nome della label risalgono al 2003 quand’ero ancora alla high school e volevo far uscire i dischi delle band con cui suonavo (Skinny Fists e Yarbles), poi la cosa è cresciuta: prima qualche cd-r, poi i primi 7” e via via lp e cd. L’incontro con spiriti affini come Terribile Twos mi ha fatto rendere conto che c’erano molte band simili al mio approccio che sarebbe stato giusto riunire sotto lo stesso tetto e promuovere come un unicum. Una tendenza all’aggregazione che ha dato i suoi frutti proprio in questo ultimo periodo. Due eventi organizzati dalla X! hanno caratterizzato la scena proprio mentre scriviamo questo articolo. In primis l’uscita della compilation Shitfless Decay, programmaticamente sottotitolata New Sounds Of Detroit, in cui fanno bella e spavalda mostra di sé molti dei gioielli di città e dintorni: i veterani Terrible Twos, Tyvek, Human Eye, Frustrations, le nuove leve The Mahonies, Johnny Ill Band, Heroes & Villains, l’ala più freak (Odd Clouds) e out (Tentacle Lizardo), qualche “prestito” (Little Claw); tutte bands stilisticamente diverse ma accomunate dalla trasversalità dell’approccio alle musiche punk. È, però, nelle liner Drop Out / 49 frustrations notes dell’album che risiede lo spirito ultimo che ha mosso la X! Recs, nella persona del suo unico titolare Scott Dunkerley, alla compilazione in oggetto. Shiftless Decay racchiude musicalmente il suono che ha definito la scena di Detroit nel periodo 2005-2009, ma anche sociologicamente una riflessione sullo stato della città e della sua suburbia e sulla possibile rinascita culturale attraverso l’arte e la musica. Il secondo evento è diretta emanazione del primo. Nei martedì del mese di febbraio quasi tutte le band della compilation hanno partecipato a due a due agli Shiftless Decay Thursdays, serate intese per promuovere la compilation omonima ma in realtà, immaginiamo, sorta di mappatura degli scompigli che il sottobosco mutoid-punk della città sta creando: La compilation e la label stessa sono focalizzate principalmente sulle band di Detroit, ma non è che sia contrario a pubblicare gruppi di altre scene, come ad esempio Michael Yonkers. Il fatto è che, solo a Detroit, c’è un tale fermento da documentare e approfondire che non mi restano tempo e soldi per band di altre aree. 50 / Drop Out Ad inaugurare l’accoppiata Frustrations/Mahonies; a chiudere Terribile Twos e Fontana; in mezzo Tyvek/Johnny Ill Band e Human Eye/ Heroes & Villains. Il tutto rigorosamente free al PJ’s Lager House, ennesimo punto di ritrovo di una geografia musicale cittadina che ormai non fa più distinzione tra gallerie d’arte sui generis e localacci maleodoranti e lerci, tra esposizioni di arti visive e approccio diy scalcinato e raw. Proprio nella serata iniziale era di scena il capo della combriccola X!, Scott Dunkerley col suo attuale progetto Frustrations. Trio considerato di punta in questa nuova alien noise wave cittadina – appropriata definizione fornita da Victim Of Time – i Frustrations sono giovani white trash inquieti e devastanti, in fissa con Birthday Party, post-punk e alienati suoni post-Chrome. Dopo il 7” Nerves Are Fried è stata la volta del disco lungo Glowing Red Pill, concentrato di postpunk in overdrive e reiterazione indiavolata. Instancabile nonostante l’aspetto low budget, Scott/X! Recs ha già pronto un nuovo asso nella manica: la release del secondo volume della compilation “itinerante” Tarantismo Summit che, come indica il nome, è un inno al tarantolismo. Il primo volume è da poco uscito per l’etichetta di Chicago Rampage e vedeva in scena Smegma, K.K. Rampage, Insect Joy e Ghost Moth. Roba che esula dal contento del presente articolo ma rende sempre l’idea della trasversalità che si respira da quelle parti. [s.p.] Non solo Ferndale e non solo X! Recs infiammano il sottobosco detroitiano. A ben vedere è tutto il circondario di Detroit a brulicare di personaggi enigmatici e di suoni spigolosi. Senza tirare in ballo la vicina Ann Arbor, basterebbero pochi nomi ultranoti per comprendere quanto l’aria della motor city e delle zone limitrofe sia allo stesso tempo malsana e fertile per personaggi borderline: Stooges, Dirtbombs, White Stripes, giusto per rimanere in ambiti garage-punk. Prendete Royal Oak, ad esempio; sempre un sobborgo e sempre ad un tiro di schioppo in direzione nord-est dal cuore della città. Lì agisce Chris Pottinger: artista grafico, musicista, “discografico”. Tutto questo (e molto altro ancora) non rigorosamente in questo ordine. Sul versante prettamente artistico Pottinger è grossomodo un illustratore: armato principalmente di pen & ink ama dilettarsi con una sorta di deturpata art brut fumettistica da applicare indistintamente a cover di dischi, pins, manifesti e ovviamente disegni in formati diversi e alternativamente a colori o b/n. Nulla di dilettantesco, sia chiaro. Il nostro espone pure in circuiti convenzionali e, pare, anche con un certo successo. Pottinger, come nella miglior tradizione del nerd del terzo millennio, non si fa mancare la classica etichetta homemade da nerd 2.0. Il nome scelto è Tasty Soil e nelle rade ma interessanti uscite si premura di pubblicare le weirditudini più off non solo dei progetti di casa – Odd Clouds, Cotton Museum, Slither, tutti ruotanti intorno alla sua figura – o di quelli limitrofi – i Sick Llama del sodale Heath Moerland – ma anche di spiriti affini più o meno noti come Sixes e Thurston Moore. Tasty Soil – ci conferma Chris telematicamente – è nata sul finire del 2004 perché volevo pubblicare la mia musica e quella dei miei amici, e nello stesso tempo avere il controllo sull’artwork delle uscite. È importante per me che ogni disco che pubblico abbia un artwork interessante che lo accompagni. Voglio pubblicare dischi che la gente, pur ignorandone il contenuto, prenda in mano e guardi anche solo per la copertina. Tasty Soil deve perciò essere molto più di una semplice etichetta: voglio che si focalizzi su poster, magliette, libri, dvd e tutto ciò che mi permetta di disegnare più possibile. Da che ho memoria sono sempre stato interessato dal dipingere creature deformi e bestie. L’arte, perciò, e l’interazione di questa con la musica sembrano essere al centro dell’universo artistico di Pottinger. Non vi sfuggono le sue attività più strettamente musicali che, a dirla tutta, si svolgono prevalentemente in solitaria coi progetti Cotton Museum e Slither. Slither – in combutta con l’amico Moerland – mortifica il “free-jazz” a base di droni in bassa frequenza, elettronica garbage e sax/clarinetto in modalità improv tanto da far esclamare tempo addietro a Bull Tongue – invero esagerando un po’ – che la musica del duo sia Today’s jazz for today’s playboys; Cotton Museum invece è il progetto onanistico-rumorista di Pottinger armato di theremin + synth + oscillatori ed elettronica sfatta: lunghi drones di rumore bianco nella migliore (peggiore?) tradizione della vicina Ann Arbor in cui riemerge il legame arte visuale/musica: Cotton Museum è partito come progetto harsh crudo e grezzo, ma negli anni si è spostato verso una maggiore complessità focalizzandosi su suoni fuori asse. Ho sempre sentito i suoni CM come provenienti direttamente dalle bestie e dai mostri che ritraggo nelle copertine, come se fossero i field recordings dei luoghi immaginari dove quegli esseri vivono. Entrambi i progetti hanno uscite indifferentemente in k7, vinile, cd-r per etichette come Fag Tapes, Not Not Fun e la nostrana Qbico, a testimonianza della credibilità in certi giri underground più o meno free, più o meno grezzi. Drop Out / 51 slither È però il progetto Odd Clouds ad attirare la nostra attenzione. Sorta di collettivo/supergruppo aperto – per quanto la seconda definizione possa risultare bizzarra visto che si parla di musiche decisamente “di nicchia” – Odd Clouds ruota intor52 / Drop Out no a mr. Tasty Soil e ad altri svitati come il già citato Heath Moerland aka Sick Llama e Jamie Jimbo Easter. Più la degenerazione weird del suono psych che la trasfigurazione del suono della Detroit dei 60s, in realtà, ma è impossibile evitare di parlarne in questa sede, in quanto parte integrante di quel sottobosco mutoide – si veda la compilation-manifesto da cui siamo partiti – cui facciamo riferimento. Tra i tanti progetti di Pottinger, Odd Clouds sembra quello più intento a “mutare” dal di dentro gli stilemi di una tradizione; che in questo caso abbia poco a che vedere con quella genericamente raw-rock di altri gruppi esaminati qui, poco importa. È il modus operandi che conta. Nella frantumata discografia Odd Clouds spicca, insieme all’omonimo vinile per Qbico, il cd-r Cleft Foot Of The Woods. Vera e propria summa dell’operato del collettivo è nelle parole di Pottinger una sorta di tributo alla vita delle foreste attraverso rumorismo e jazz libero, stralci weird-folk e percussività ossessiva, spesso in modalità impro che si muove come un monolite lungo 11 tracce untitled e 74 minuti di puro delirio/ deliquio. Legato a doppia mandata con la Tasty Soil e con Pottinger è un altro personaggio della Detroit più out & weird. Il suo nome è già noto a quanti siano avvezzi a frequentare le melmose paludi dell’underground Usa. Voce e automutilazioni punk per i seminali Piranhas e membro (futuro o passato, a titolo definitivo o meno non è dato sapere) di Little Claw, Jamie “Jimbo” Easter è l’ennesimo personaggio inquietante prodotto dalla Detroit degli ultimi anni a meritare un posto d’onore nella presente indagine perché anche lui cortocircuita punk e arte, come ricorda Pottinger: Posso affermare tranquillamente che siamo diventati amici attraverso la musica e l’arte. Il mio rapporto con lui risale al 2002, quando dopo una performance che tenni come Cotton Museum all’annuale festival Noise Camp organizzato dai tipi di Time Stereo (gente del giro Ufo Factory/His Name Is Alive, nda), rimanemmo a parlare della nostra ossessione per i ritratti di bestie e mostri. Da quella chiacchierata, complice anche lo scioglimento dei Piranhas, nasce il sodalizio che avrebbe portato a Odd Clouds – sorta di comune musicale primi anni 70, la definisce sempre Pottinger – e a numerosi travasi, prestiti, collaborazioni in campo strettamente artistico. Personaggio chiave, dicevamo questo James Easter, per comprendere il sottobosco arty-alienpunk di Detroit. C’è lui infatti dietro i fantastici Druid Perfume – di cui leggerete più avanti – ma ultimamente Jimbo si è riciclato come il più weirdo performance artist della città dal punto di vista meramente artistico: scultore, illustratore, pittore sempre sul filone artbruttista più mongoloide. Cosa questa che ci viene confermata da Scott della X! Recs: Non solo Jamie Easter ma anche Timmy Vulgar (Human Eye) hanno sempre fatto arte e un po’ meno artshows; è però pur vero che entrambi con le rispettive band hanno sempre considerato molto l’aspetto visuale dei live, molto più della media delle band da queste parti. Qualcosa che si può definire mutoid-punk e che si può considerare come outsider art che va di pari passo con le loro musiche da outsider. Una retrospettiva/omaggio/celebrazione delle opere di Jimbo Easter è proprio in questi giorni ospitata da un altro luogo famoso per i cortocircuiti tra esposizioni d’arte e musiche off, la UFO Factory gestita da Davin Brainard, Dion Fisher e quel Warren Defever fondatore di His Name Is Alive. È nei programmi schedulati da posti come questa art-gallery che risiede forse il senso ultimo del suono mutoide e mutante della scena detroitiana: art-shows in cui collidono la pop-art trasfigurata di Dion Fischer e le asperità di Wolf Eyes, la concettualità buddista e post-postmoderna del progetto HNH – Humanities Not Heroes di Trong G. Nguyen (obbligatorio approfondire) - e il postpunk alieno dei Druid Perfume di Easter. L’Ufo Factory – continua sempre Scott via mail – ha fatto molti ottimi show in passato, sia d’arte che di musica…c’è inoltre uno studio di registrazione gestito da Warren di His Name Is Alive. I Druid Perfume ad esempio hanno registrato tutto lì, così come si accingono a fare Terrible Twos e i miei Frustrations. Un luogo minuscolo, con le pareti completamente color argento che ricordano giocoforza quelle di una astronave aliena. Una TAZ (le zone temporaneamente autonome teorizzate da Hakim Bey, a.k.a. Peter Lamborn Wilson) nel cuore dismesso della città, l’Easter Market district, riconosciuta perfino dal Mocad, il Museo di Arte Contemporanea di Detroit che ha ospitato una installazione che riproduceva in cardboard gli spazi della galleria. Un luogo in cui ha sede la Church Of The Infinite gestita dal reverendo Dion Fischer e disponibile per matrimoni, funerali, battesimi e quant’altro; in cui si organizzano concerti/proiezioni/colazioni all’alba incentrate sul 2012 (Silver Sunrise) o Drop Out / 53 eventi musicali per festeggiare il piano argentato appena acquisito. Insomma, qualcosa che tende a motivare e smuovere la fantasia della Detroit underground. A playhouse for arty outsiders, in definitiva. A dirla tutta, Chris Pottinger sembra però scettico sulla sopravvivenza di questa ondata a metà tra punk alieno e arte concettuale: La scena mutoidpunk di Detroit è molto interessante, ma credo che qualche anno fa fosse veramente eccitante. Oggigiorno è difficile trovare uno spazio in cui organizzare weirdo-music show tanto che credo sia sempre più arduo iniziare per le nuove band. Realisticamente, la Ufo Factory gestita dalla crew di Time Stereo è una delle poche art-venues che organizza concerti regolarmente. Cosa che apparentemente stride col nostro articolo, tanto e tale il fermento che agita la città e i suoi sobborghi in questo periodo. [s.p.] I diseredati Infatti intorno ai poli di cui ci siamo occupati, c’è una intera genia in fermento continuo che diviene impossibile focalizzare in qualsivoglia compilation, per quanto lungimirante fermoimmagine di un suono tentacolare in continuo mutamento essa possa essere. Ecco così che accanto a quei nomi già (ehm) noti, si aggirano per i basement metropolitani o in scalcinati bar disposti a tutto pur di attirare movimento, bands di furibondi capaci di declinare in varie forme il concetto di (dopo)punk, zozzo e garagey o deviante e mutoide poco importa. Spesso, al centro di questo vorticoso riprodursi di mutanti dopo-punk – mutante mutandis, verrebbe da pensare – si ritrova lui, Timmy Vulgar (de)mente di Human Eye/Clone Defects. Alieno visionario e volgare, sboccato quanto completamente folle, spalma le sue perversioni tra vari moniker. I Reptile Forcefield innanzitutto; sorta di Devo psychodelic più raw e rissosi, strutturati as usual nella sacra triade rock (Vulgar a chitarra e voce, Ben alla batteria e Sean al basso) con un 7” in uscita per Solid Sex Lovie Doll Records e una 54 / Drop Out quanto mai appropriata traccia disponibile sul myspace dall’eloquente titolo Alien Creeps. Oppure nella incarnazione più zozza, sguaiata e garagey del solo project Timmy’s Organism, in cui a raggiungerlo è spesso il sodale Fast Eddie. A far compagnia al volgare per antonomasia, ci sono però degni compari. Ad esempio i Tentacle Lizardo e Tentacle Saxophone, misteriosi e scarsamente prolifici – per usare un eufemismo, dato che la pubblicazione di dischi sembra essere giusto un optional – duetti batteria/basso e batteria/sax ruotanti intorno al drummer Christmas Woods. Uno che cambia ragione sociale come cambia le mutande; uno che dichiara a chiare lettere I am not human anymore su uno dei suoi infiniti myspace; uno che sembra capace di sondare l’intero spettro delle musiche larvatamente rock passando con nonchalance dalle declinazioni noise a quelle post-punk abbrutite, dal black metal sintetico da immaginario Dungeons&Dragons di Fantastic Dungeon alla onanistica art-brut del collettivo E.A.R. Immortal, per finire con l’electro-pop deviato di Ill Tongue o con la lounge da cabaret satanico del progetto omonimo. L’elenco potrebbe realmente continuare, tanti e tali sono i moniker sotto i quali si rifrange la musica di Woods, ma giusto per inquadrarne la follia latente, basta leggere ciò che scrive di sé: I am a creature of habit seeking myth, might and magic. I am child of the living dead who happily plays in the blood and bile of slayed beasts of lore. I tell stories with harsh noise to warn the coming of the TENTACLE. BEWARE foolish humans for your existence is but a mere teardropped stain on my cape of terror. I am TENTACLE LIZARDO! Roba che proprio nell’ascolto di Tentacle Lizardo risulta essere piuttosto affine alla realtà delle cose. Accompagnato dal basso di Chris Fusion, Tentacle Lizardo sembra uno spin-off di Hella e Lightning Bolt in fissa col metal e con i giochi di ruolo. Il sax di Ryan Sabatis che lo accompagna in Tentacle Saxophone invece ne propone una variante (ehm) jazz ancor più schizoide e aliena. Da dissociati, insomma. Ma credo che questo sia ben chiaro ormai. Intorno a questi veri e propri personaggi ruota ancora un microcosmo sfaccettato e lurido che assume di volta in volta connotati musicali diversi: giusto per rimanere sul versante garage-rock Lee Marvin Computer Arm e Mahonies, ad esempio. I primi, un sestetto aperto dagli umori fortemente sixties, sono addirittura additati come The future of Detroit Rock dalla stampa locale e hanno un nuovo album in dirittura d’arrivo per Italy Records, altra realtà che andrebbe investigata a fondo, se solo ci fosse lo spazio. I Mahonies, invece, sono un duo form a t o under the influence of many beers, e si dilettano a sputapiranhas re fuori grezze minuterie rock con piglio punk e dissacratorio come d’ordinanza nel loro unico 7” per X!. Più articolati sono i suoni prodotti da altri nomi sconosciuti ai più, magari già sciolti e riformati sotto altri nomi come Mountains & Rainbows – al confine tra psych, impro e rock grezzo –, Gardens, trio in fissa pesante coi Velvet o gli oramai incensati ovunque Tyvek che dopo aver mutato per ragioni di copyright il moniker in Tivjk ed esser stati inseriti praticamente ovunque nel filone shitgaze, continuano imperterriti a produrre vinili su vinili di garage storto e spastico. L’attualizzazione mutata del rock, in definitiva. [s.p.] P iranhas Si diceva sopra di Jamie “Jimbo” Easter e del fermento che si raccoglie intorno al suo convincente nuovo progetto, i nascenti Druid Perfume, che ha proposto di mettere in piedi all’amico Bryan Wade all’inizio del 2008; una summa e parziale pretesto per questo articolo di mappatura della città dei motori. In effetti il brivido che corre lungo la schiena mentre si ascolta il loro recentissimo self titled è qualcosa che raccoglie una sommatoria di unghie che per anni hanno minato e scavato la nostra pelle e le nostre orecchie – tutte provenienti dai suoni lontani da noi, ma vicini tra loro, di una città decadente ma fervidissima. Per arrivare ai Druid Pe r f u me, è di piacevole obbligo parlare innanzitutto della formazione da cui la band di oggi ha preso corpo, se non altro per il passaggio massivo dei componenti da un gruppo all’altro. Stiamo parlando dei Piranhas, formazione leggendaria che per ferocia punk-oriented e per estetica seminalmente deviata e mutante è stato un sicuro pilastro della Detroit di cui vi parliamo. Chris Pottinger probabilmente si riferiva infatti a loro e a Human Eye, quando faceva cenno, durante la nostra conversazione via mail, ai bei tempi andati (qualche anno fa, non di più) in cui la scena mutoid-punk detroitiana era veramente fresca e frizzante. E se la sfilza di nomi che oggi Drop Out / 55 druid perfume vi proponiamo lo contraddice di facto, è la facilità di impatto dei piccoli ferocissimi pesci che pensiamo avesse in mente Chris quando chiosava così il lustro passato. I Piranhas sono brutti sporchi e cattivi, sono il cuore punk (ma anche garage) della faccenda, ma soprattutto sono agitatori. Non agitatori sociali, niente agit prop, ma agitatori fisici. È la massa la chiave del suono dei Piranhas. Lo si intuisce fin dalle due primissime uscite, ancora non assestate nella formazione: il 56 / Drop Out singolo d’esordio Garbage Can (Addition Records/Tom Perkins Records, 1999) e il 12 pollici Piranhas Attack (Tom Perkins Records, 2000) – che fa guadagnare alla band la copertina di Maximum Rock n’ Roll – vero spasmo punk (sentite Hard To Do) dove però il suono è ancora memore della dirompenza del garage più puro. Tutto aggredisce della carica dei Piranhas; tutti e cinque i componenti – Nai, Ami, Jamie, Brian, Karl, Ryan – ce lo dimostrano nel vero debutto full-length, Erotic Grit Movies, uscito nel 2002 per la In The Red, etichetta in cui i pesci sembrano nuotare con la disinvoltura di casa, e per cui faranno uscire anche il successivo sguaiato canto del cigno Piscis Clangor, del 2004. Ma non andiamo troppo di fretta, resistiamo alla tentazione di seguire i folli binari del combo. Se ci sono due cose che dei Piranhas rimangono tatuate nelle orecchie, sono la voce smaccatamente eccessiva di Jamie e l’organo impazzito di Ami, che trascina i riff della chitarra verso velocità supersoniche o gorgoglii infernali. Pare ovvio parlare di denti e tagli; quella tastiera – rubata alle spiagge della West Coast – rende scellerato e ancor più tagliente il sound di Erotic Grit Movies, dove inizia a prendere una maggiore autorità rispetto agli esordi. Ma un altro elemento da non dimenticare è il sax, strumento che ci traghetterà verso i druidi. Lo suonerà Bryan Wade, e si fa sentire già da Soft Mold Prisons (in Piscis Clangor), traccia che prima occhieggia al jazz modale e lo trasfigura in una visione quasi sci-fi a bassissima definizione, melmoso ma sempre e comunque inevitabilmente dentato. Sempre in Piscis, i latrati della title-track ci fanno pensare a qualcosa che lentamente si allontanano dalla veemenza punk per raggiungere uno statuto di declamazione sgolata; nascono probabilmente qui i timbri vocali di Jamie che poi sentiremo nel nuovo gruppo che sa di druido. Certo un riassunto sulla vicenda Piranhas non potrebbe finire qui; si dimenticherebbe di singoli come Dictating Machine Service (Rocknroll Blitzkrieg, 2002) ma soprattutto di quella che forse è la vera dimensione totale dei piranha della città dei motori. Si è detto dell’attenzione all’aspetto visivo e performativo di Jamie “Jimbo” Easter; e se i dischi sotto la ragione sociale Piranhas non mancano di farci sballottare la carne, è anche vero che fanno immediatamente pensare alla foga che questi cinque potevano esprimere dal vivo. Una delle loro ultime apparizioni è stata sotto il natale scorso, in un concerto proprio a Detroit di cui si fa menzione da qualche parte nella rete. La vera testimonianza a portata di tutti è però raccolta e consegnataci nel Live On WFMU, registrazione di un concerto del 24 gennaio 2003 in una radio del New Jersey; purtroppo neanche qui possiamo cogliere la carica visiva del combo – ma un’idea ce la si può fare sentendo il modo in cui risolvono decomprimendone in successive esplosioni il riff della finale Isolation – presente appunto in Dictating…, il 7” sopra menzionato. In definitiva il punk dei Piranhas è fatto di addizione e di continua esplosione. È uno sfogo sulla lunga distanza con fortissimo potere aggregativo – e quindi anche in questo fondamentale per la scena mutoide di Detroit. Ascoltandoli non vengono certo in mente Chrome – paradossalmente risuonano più i Deerhoof e i loro discepoli, comunque spazzati da quella voce anti-indulgente e da quella velocità supersonica figlia della velocizzazione del punk. Ma anche, per tornare alla chiave garage di cui sopra, viene in mente quella psichedelia di metà Sessanta – ascoltate la versione del live di My Desease per avere un’idea di quello di cui stiamo parlando. E, esagerando un poco, si pascola fino nella no-wave nel lato B di Dictating…, come nel caos intollerabile di cui raccontano i testimoni della sala prove in cui i primi PF provavano liberi Interstellar Overdrive. E, infine c’è l’ironia dalla loro; quella con cui rubano a un luna-park i jingle di Piranhas Attack, facendoli diventare anthem deturpati. [g.c.] D ruid P erfume Insomma, una la costante nei Piranhas; trattare con foga qualsiasi riferimento. In questo i Druid Perfume non sembrano figli loro; e però l’anagrafe ci smentisce. Nei Druid confluiscono infatti tre dei cinque piranha della formazione dei dischi su In The Red – per l’esattezza Jamie “Jimbo” Easter, Ryan Sabatis e Bryan Wade. E sicuramente i druidi hanno ancora in bocca il sapore del sangue delle razzie acquatiche del gruppo di provenienza. Eppure l’esperienza della storica band Drop Out / 57 In The Red in qualche modo è svanita. Brian, da noi intervistato in proposito, si prende poco sul serio e minimizza: “Riguardo al nostro rapporto con Ian e Ami, chitarra e tastiere dei Piranhas, siamo ancora buoni amici. Quella band ha semplicemente finito il suo corso, agli occhi di tutte le persone che ne erano coinvolte. Parlando invece di cosa è cambiato musicalmente, posso dire che i Druid Perfume sono una cosa del tutto diversa. Il modo in cui scriviamo è molto più “sciolto”, quasi sfilacciato, ognuno di noi contribuisce, e soprattutto nessuno di noi pensa a cosa facevano prima i Piranhas e a cosa fanno ora i Druid Perfume. L’unica cosa rimasta uguale è che ci sono ancora cinque idioti che si mostrano le terga a vicenda”. Comunque sia, se dovessimo trovare dietro ai DP un albero genealogico immanente (quindi basato solo sulla musica come testo) e tutto interno a Detroit, forse approcceremmo più Human Eye che Piranhas. Di fatto, non smettiamo di dirlo, è una matrice intera che schizza le sue linee storte verso la vicenda dei Perfume. Storia che inizia acusticamente solo qualche mese fa, con la pubblicazione dello splendido self titled, che qui su SA vi abbiamo presentato il mese scorso. Il 2008 aveva già partorito un altro supergruppo dalle parti della motor city. Si chiamavano Fashion e pescavano da Terrible Twos, The Mahonies, Tentacle Lizardo e ovviamente Piranhas. Ma i protagonisti dell’anno rimarranno innegabilmente i Druid. Del loro album di debutto dà notizia il co-proprietario della piccola etichetta Pigs, per cui uscirà a dicembre 2008, su un forum, un paio di mesi prima dell’uscita – specificando di non accettare pre-order, e sotto sotto già sapendo di fare il botto. Certo i Druid Perfume sono innanzitutto dei maestri nel sapersi scegliere i riferimenti, che disposti su un tavolo uno affianco all’altro, come carte, fanno venire davvero voglia di giocare. La prima cosa di cui ci si stupisce, dato il paragone con la band di provenienza, è la trasformazione del piglio vocale di Jamie. Non più un ossesso punk ma un maturo – post-hippy – declamatore con 58 / Drop Out l’ugola in fiamme. C’è innanzitutto, dietro al suo nuovo modo di prevalere, la raucedine cadenzata di Captain Beefheart; ma non solo. Tutto il suono Druid Perfume è in qualche modo figlio dell’attitudine free dei Sessanta. La voce risente dei happening, dei jukebox idrogenati di Allen Ginsberg, e solo da lì partendo – e sopra tornando – del para-blues/anti-blues delle folli armonie di Don Van Vliet. A piè pari si va nel terreno che in suolo vicino al nostro ricorda ovviamente gli Zu, e cioè il freejazz fragoroso del sax. I Perfume però sono in grado di fare di più, cioè di riuscire ad avvicinare le modalità jazz, quei riff sostenuti dal sassofono di Wade e poi lasciati andare come cani liberati dal guinzaglio verso accidentate lande free – lande in cui lo strumento a fiato spesso rincorre o si fa rincorrere dalle macchine analogiche. L’estetica anche qui è insomma l’accrescimento smodato, a volte. Ma più a parole che ai fatti – come invece facevano i Piranhas. Si legga l’autodescrizione sul loro MySpace per avere conferma (www.myspace.com/druidperfume); proprio lì si menziona la componente circense, altra chiave espressa nel sound dei druidi, che li avvicina alla parabola di Laughing Clowns, oltre che ai Lubricated Goat del nuovissimo mondo, e, ancora su beefheartiana memoria, a Stu Spasm. Si pensi poi anche a una leggendaria band postpunk/newwave che proveniva anch’essa da territori lontani dalle metropoli LA e NY, ovvero i Debris; un viaggio fino a metà Settanta fatto forse per arrivare all’ultimo tassello per così dire “naturale” da citare, parlando della creatura detroitiana. Parliamo dei Pere Ubu, per almeno un paio di buone ragioni. La prima risiede in una sorta di suddivisione interna del sound dei DP, che riesce a miscelare gli elementi pur mantenendo una scissione coerente e sinergica tra sezione ritmica rock e dada-follia free. Una scelta che già David Thomas, a suo tempo, sanzionava, durante i live dei figli di Jarry, segnando con un gesso sul palco la riga che divideva la parte intellettuale della band da quella primordialmente rock. Ego Death dei DP è la traccia che forse si espone meglio a questo paragone, con quel suo rapporto tra synth/ theremin-sassofono da un lato e batteria-bassochitarra dall’altro, con la voce e la decelerazione che fanno da collante dell’assurdo. Di micro in macro, e per finire, c’è poi un confronto possibile tra la Clevedruid perfume land di allora con la Detroit di oggi; due città industriali in crisi, due realtà che devono raccogliere i pezzi del capitalismo che vedono a pezzi; due posti dove la musica in determinati momenti ha fatto versare litri di inchiostro. Insomma nei Druid Perfume c’è tutta l’arte del florilegio che ha in sé la scena di Detroit. Chiamiamo a testimone anche l’ancor più recente 7” Goat Skin Glue (Italy Records, 2009), ma soprattutto il DVD appena uscito sulla parabola Perfume, che ci sembra un po’ chiuda il cerchio con musica e immagini della motor city druida e mutoide. I diretti interessati glissano ironicamente in proposito: “Il DVD è solo una compilation di pezzi di show dell’anno scorso. C’è un po’ di gente che ha girato dei video durante i nostri live e poi li ha condivisi con noi. Il nostro amico Davin Brainard ha editato il tutto e l’ha infiocchettato, art work compreso. Ma non siamo tanto soddisfatti; su video non abbiamo la fisicità che vorremmo, sapete, ci piacerebbe avere dei fisici scolpiti e oleati tipo quelli dei Manowar. Fortunatamente abbiamo tutta la primavera davanti per rinnovare a fondo la nostra immagine… “A proposito di Detroit, poi, sì, la puoi sicuramente chiamare “scena”, ma la cosa non significa poi molto per noi. Abbiamo attorno grandissime band con cui suonare, e tante delle persone che le compongono sono nostri grandi amici da tanto tempo. Ciò detto, nessuno si preoccupa di stare dentro “generi” o “scene”. Facciamo solo la musica che ci piace, vogliamo che le nostre orecchie siano colpite dal suono di una navicella spaziale che si scontra con il vertice della classifica di Billboard. Davvero.” Ma forse dietro questa scrollata di spalle c’è una forma sottile “di autoconsapevolezza”. Di fatto, a far cortocircuitare più parti di questo articolo, a brevissimo usciranno due 7” dei DP, uno su X! Records e uno su M’Lady’s Records. Non si può poi non menzionare uno degli strumenti per così dire “interni” di Detroit più efficaci di auto-rappresentazione. Per concludere il sopralluogo sul mutoidismo di Detroit, andate a visitare il sito Detroit Art Space (www. detroitartspace.10eastern.com). E, come suggerisce il gestore, “Stay Tuned for Fut! ure Events!” [g.c.] Drop Out / 59 quietudine consolata da un profluvio di carezze, ben vengano le malinconie ma come potrebbe un ibrido tra Abba e Bangles (The Crowning), scomodando al limite un Brian Wilson senza follia (Love Has Left the Room) o delle Ronettes circuite Goldfrapp (Here Are Many Wild Animals). Il senso di aurea piattezza si dissolve ascolto dopo ascolto, rivelando lievi ma significative oscillazioni come il country-soul esotico della conclusiva The Weed Had Got There First (Mark Linkous alla slide), una Golden Teeth And Silver Medals tra mollezze Rufus Wainwright e lalleggio da cartoon (in duetto con Nicolai Dunger) e una fastosa Chinatown pervasa di effluvi Steely Dan e scenografie Andrew Lloyd Webber. Disco innocuo come da copione ma smerigliato con cognizione di causa, per chill out senza sensi di colpa. (6.1/10) ►►►►recensioni ►► ►► aprile cryptacize Matteah Baim 1990s - Kicks (Rough Trade, Mar 2009) G enere : I ndie rock Se pensate che il titolo assomigli a quello del precedente Cookies, non avete sentito il disco. I 1990s sono un gruppo degli anni 00s (in realtà, sotto altre vesti è attivo fin dal decennio del nome), che contrariamente ai contemporanei non suona tanto 80s ma piuttosto un po’ 70s e un po’ 60s. Nonostante ciò, si comporta come quei gruppi dei 00s che hanno introiettato il no future e sparano tutto subito in un debutto magari non originale ma vivace, magari uno o più singoli assassini, anche piacevole come viaggio nel suono del momento, ma alla seconda tornata già non proprio a secco di idee ma quasi. Accantonarli dopo il primo disco verrebbe quasi automatico, se non bisognasse recensirli: e allora scopriamo che la lunga esperienza ha dato ai 1990s una professionalità per cui non si può dire che queste canzoni siano 60 / recensioni particolarmente “brutte”, e nemmeno “noiose”: solo che non prendono mai vita più di tanto. Né d’altra parte, l’esperienza ha impedito loro di cedere a quella legge (misteriosa nell’epoca del cd) per cui i pezzi più interessanti si trovano verso la fine dell’album (con l’eccezione dell’iniziale Vondelpark la quale faceva sperare meglio, almeno quanto a verve). Ne consegue che, dopo aver vagato tra maniera rock appena sporcata di modernità, un po’ di grinta congenita allo stile ma senza la freschezza del primo, qualche whoo-whoo, e un singolo irritante e prolisso come 59, Kicks si anima solo in occasione della morbidezza 60s di Local Science (ma allora le sapete scrivere…), e un po’ nei brani successivi. Per cui alla fine non è tanto questione di ordine delle canzoni, ma di poche idee e vivacità addomesticata: no, non somiglia a Cookies. (5.7/10) Giulio Pasquali A Camp - Colonia (Pias, Gen 2009) G enere : pop Otto anni dopo Gran Turismo torna il side project di Nina Persson, l’intrigante frontwoman dei The Cardigans, fiancheggiata dall’ex chitarrista degli Shudder To Think - nonché marito - Nathan Larson e da Nicolas Frisk degli Atomic Swing, più alcuni ospiti ragguardevoli come la poliziotta Joan Wasser, il redivivo James Iha e la violoncellista Jane Scarpantoni. Strana personaggia Nina, che non sai bene dove voglia andare a parare, sia quando beccheggia tra pop ammiccante e fregola alternativa, sia quando come in questo Colonia si concede tutta intera alle più accomodanti situazioni, morbidezze radiofoniche pervase di languide sofisticherie, con una onnipresente venolina country a pulsare un po’ Chrissye Hinde e un po’ Sheryl Crow (vedi il singolo Stronger Than Jesus ). La scaletta è una pulitissima dozzina che mira ad ingraziarsi i melomani a bassa intensità, poca in- Stefano Solventi AA. VV. - Dillanthology 1 (Rapster Records, Mar 2009) G enere : hip hop Ciò che più spiace del povero James Yancey a.k.a. Jay Dee/J Dilla/Jaylib è che, ad anni dalla pre- matura dipartita per arresto cardiaco, ancora non abbia ottenuto il posto che gli spetta nel gotha dell’hip-hop. Dotata di peso pari a quella di altri grandi produttori e stile acuto e riconoscibile, la sua opera resta patrimonio dei più avvertiti e non aiuta che, mentre era tra noi, James mantenesse un basso profilo pubblico: per lui poco glamour e molta sostanza, la musica a parlare eloquente in numerose produzioni, sovente nemmeno accreditate. Poiché tuttavia il tempo è galantuomo siamo certi che la riscoperta non tarderà, e nel frattempo appuntiamo il contributo offerto alla causa da questo primo tomo della serie Dillanthology. Ideale per il neofita, la raccolta alterna note gemme (una Stakes Is High che per qualche minuto sottrasse De La Soul dal ruolo di decaduti; lo scintillio donato a Common in The Light; Didn’t recensioni / 61 Highlight Cryptacize - Mythomania (Asthmatic Kitty Records, Apr 2009) G enere : mes sindiepop È possibile decidere, la domenica mattina, di tenersi le ciglia attorcigliate tra loro, il viso assonnato, di mantenere quello stato, quel torpore per tutta la giornata, per tutta la settimana seguente? E, variatio, per un album intero? Bisogna saper costruire un pop trasognato, canzoni che vagano in testa dopo averle sentite come i neuroni nel cervello di quella Sunday Morning. Difficilissima più che innocente l’operazione dei Cryptacize di Mythomania, perché condotta senza sbagliare un colpo, senza farci rinsavire né cedere ai richiami di Morfeo. Sentite What You Can’t See Is, il modo in cui i diversi passi ritmici dei tamburi discreti, del basso, della voce, creano layer di relazioni soffuse; chiuse da un accenno melodico sospeso nel vuoto.I responsabili di questo album azzeccatissimo sono Chris Cohen (vecchia conoscenza seminale Deerhoof, e poi Curtains) e Nedelle Torrisi. Si chiamano fuori se interpellati da un mondo del passato pop che chiamano in causa in tanti modi diversi, ma prima di tutto per il loro modo di costruire le canzoni. Sostengono di aver scritto solo un disco “romantico”. Ma hanno un’evidente coda di paglia. C’è una sensazione che cresce negli ascolti ripetuti di questo album. Qualcosa che inizialmente ci fa pensare, senza un preciso raziocinio possibile, a Raincoats e Young Marble Giants, magari – anzi sicuramente – passando dalla breccia creata dai Beach House l’anno scorso. Dopo un po’ si focalizza un’ipotesi; riguarda l’intera messthetics del primo periodo Rough Trade – ancora torpore, dolce confusione, niente di violento o effettivamente derivante dal caos. L’idea è insomma che i Cryptacize stiano traghettando l’atteggiamento – che agiva per punti – della messthetics alla struttura armonica delle canzoni (Gotta Get Into That Feeling), cosa che del resto faceva anche Barrett, ancor prima che la messthetics esistesse, con quel gioco ai dadi tra un accordo e l’altro. Quindi messthetics applicata all’intera struttura della canzone, sopra la levità di tastiere chitarre pelli di tamburo. E per fare questo ci sono le pause. Quelle che interrompono Blue Tears prima della conclusione, giusto per citare il primo esempio del disco. Nella delicatezza della composizione è contemplato l’attimo del silenzio. Ci sono tecniche che eludono la bellezza di sapersi sovrapporre al pop anni Sessanta, e quindi dall’esercito di persone che hanno già condotto quella azione. E, per concludere, arriviamo a una constatazione abbastanza basilare, forse la prima da fare, qui però non a caso messa alla fine; in Mythomania non c’è un brano che metteremmo da parte – forse anche grazie al testimone equilibratissimo che si passano le due voci di Chris e Nedelle. C’è una continuità impressionante, la stessa che ci aveva impressionato nei Beach House; quella che semplicemente appartiene ai grandi dischi.(7.5/10) Gaspare Caliri Cha Know, pura sensualità carnosa che avvolge Erykah Badu), classici favolosi che a metà dei ’90 lanciarono il Nostro nell’empireo - Runnin’ e la citazionista Drop a beneficio dei Pharcyde; il Busta Rhymes snodato in Show Me What You Got - e ma- teriale da intenditori. Nel quale spiccano le curve pericolose di una Fall In Love appartenuta ai suoi Slum Village che stenti a credere abbia due decenni sul groppone, oppure le deformazioni di una levità prossima al subliminale che fecero la grandezza dell’uomo di Detroit, evidenti in Hip Hop Quotable (AG & Aloe Blacc) e nella più tarda Dolla di Steve Spacek. Assapori il gusto sommo per l’intarsio e il trattamento inusuale dei campioni, i dettagli che emergono alla distanza e lo sdrucciolare obliquo della ritmica che hanno indicato una via percorsa da moltitudini. Figura di Genio e modestia pari solo alla sfortuna che lo bersagliò, Yancey ci manca. Ogni giorno di più. (7/10) Nello specifico, spiccano le schermaglie lui vs. lei in F Your Ex (Sway più Stush), il contorto Joker con Retro Racer e l’orientaleggiante Standard Vip di Jme. Il resto lo fanno tinte soul mutanti (Dva e Alanha con I’m Leaving; Ps Vip di Lauren Mason e Dok) e il pioniere Dizzee Rascal con la satura I Luv You, una sensazionale contaminazione electro-folk (!!) come I Don’t Smoke architettata da Dee Kline e il rhythm & horror Interested intestato a Terror Danjah. Materia un poco ardua da maneggiare se non respirata sul campo e ciò nonostante perfetto specchio dell’epoca in cui viviamo, tutta frenesia di vita e consumo che influenza tanto la fruizione della musica che la sua concezione. Ne consegue un loop sonoro vivace, per quanto livellato verso il basso dall’eccesso di offerta. E ciò a prescindere dall’ambito di riferimento, come da qualsiasi futura crisi che ci aspetta dietro l’angolo. (6,6/10) Giancarlo Turra Giancarlo Turra AA. VV. - Rinse:07 Spyro (Rinse, Apr 2009) G enere : ragga , grime La Rinse è l’etichetta fondata dai Klaxons qual- cosa come tre anni e rotti or sono con l’appoggio della Polydor e consacrata a tracciare una mappa della proliferazione britannica di ragga e grime. Che sono qui proposti in ogni possibile variante attraverso uno stordente assemblaggio di assalti e storture ritmico-verbali in tracce che di rado superano i due minuti di durata (bizzarro che l’unica volta in cui ciò accade si tocchi il vertice della raccolta: la splendida Shadow Boxing di Spyro è robotica sinfonietta dal passo stralunato e cinematico). Poiché i brani scorrono uno dentro all’altro a comporre un mix frammentato e collagistico, i maniaci non esiteranno a mandarlo giù tutto d’un fiato. Tutti gli altri possono piluccare il meglio, ossia quanto trascende i confini di due sottogeneri tra i più “pompati” dell’ultimo lustro al presente dati come ampiamente digeriti. AA. VV. - Iberico Jazz (Vampisoul, Gen 2009) G enere : jazz lounge Dopo aver ampiamente indagato certe stramberie “cool” fuori da casa propria, la Vampisoul punta con quest’uscita i riflettori verso la patria: Antoliano Toldos fu pioniere spagnolo del jazz indipendente con la sua etichetta Calandria, attiva sul mercato dei 45 giri tra il 1967 e il 1972. Da buoni latini sottomessi a un regime militare, il loro concetto di jazz era disteso e groovy, specialmente nei brani dei primi anni ’70 prossimi all’estetica “acid” poi riscoperta dalla Talkin’ Loud (si vedano la title track del Quinteto Montelirio, o la funky Modulo Jazz opera dell’ensemble di Toldos stesso); altrove dedita invece a solare e scorrevole gradevolezza in cui il Davis degli “schizzi di Spagna” perde ogni drammaticità e lentezza a favore della componente ritmica (Opaco, sempre dei Montelirio). La qual cosa non significa necessariamente mancanza di spessore, semmai un po’ troppa oleograrecensioni / 63 fia nel cercare la gioia in musica per sfuggire la realtà, di conseguenza bandendo uno sperimentalismo “free” dalle eccessive connotazioni sociopolitiche. Ecco dunque una vena leggera e festaiola farsi largo, tanto nell’indiavolata Tom Jazz a firma Conjunto Estif che nella sorniona Nocturno Jazz (sempre farina del padrone di casa), in una Jazz A Las Tres (Conjunto Segali) da commedia leggera e una Improvisando del Quinteto Diamont altrettanto. A conti fatti e in considerazione dell’epoca, niente più di una pagina destinata agli amanti di musiche incredibilmente strane. Che in verità strane lo sono poco e anzi nulla. (6.3/10) Giancarlo Turra AA. VV. - Real Authentic Reggae Compiled By David Rodigan Vol. 2 (BBE, Mar 2009) G enere : reggae Bella maniera per David Rodigan di festeggiare il trentennale della sua attività di dj radiofonico: appassionato e collezionista di reggae sin da giovane, si affacciò infatti nell’etere dai prestigiosi microfoni della BBC nel 1979, passando poi alla Capital Radio cantata dai Clash col popolarissimo show Roots Rockers, nel quale ospitò numi tutelari tipo Bob Marley e Burning Spear. Nel frattempo consolidava la sua reputazione nei club, acquisendo popolarità finanche in Giamaica grazie anche alle competizioni coi titolati colleghi locali. Questo il sintetico curriculum che offre il destro a festeggiamenti e doverose celebrazioni giunte al secondo capitolo, dove la scaletta è improntata a un mellow mood che della musica in levare raccoglie il senso di gioiosa e vitalistica indolenza, e - eccezion fatta per il godereccio Macka B - allo stesso tempo redime e critica una realtà sociale drammatica. Non manca nulla da questo punto di vista e acuto è l’alternarsi tra nomi noti (Melodians, Sugar Minott) e di nicchia (Jimmy London, Leo Hall): dall’anello di congiunzione tra rocksteady e dub della fiatistica This Is Another Festival 64 / recensioni (Jackie Edwards) a un Gregory Isaacs che caracolla su basi primi Ottanta, dalla ruffianeria sorridente di Chakademus & Pliers alle dilatazioni sornione del maestro di melodica Augustus Pablo in No Entry si gode, sempre e comunque. Altri momenti memorabili? Eccovi serviti: Brent Dowe e la distesa innodia tra country e Sandinista! di Deh Pon Di Wicked; perle lovers innervate di soul come Do You Love Me e My Confession, rispettivamente dal repertorio di Johnny Clark e Cornel Campbell; uno svagato Delroy Wilson sospeso tra funk, jungla e bassi gommosi; Wayne Wade, la cui fluviale meraviglia Billy Red diresti madre sia di Bankrobber che della facciata B di Combat Rock. Meglio fermarsi qui con le citazioni, sia della ditta Strummer-Jones che delle tracce di Real Authentic Reggae. Il rischio sarebbe di elencarle tutte, tanto quest’antologia si racconta ottimamente assemblata. Fateci un pensiero. (7/10) Giancarlo Turra AA. VV. - Soul Jazz Singles 2008-2009 (Soul Jazz Records, Apr 2009) G enere : urban sounds Non lascia ma raddoppia, Soul Jazz, approntando un nuovo tomo di brani sparsi sui 12” pubblicati lo scorso anno, replicando così la felice iniziativa dedicata alle annate 2006-2007. A dire il vero triplica, giacché a questo giro la raccolta è un’autentica abbuffata di tre dischetti - uno dei quali mixato e disponibilie solo in tiratura limitata - venduti però al prezzo di un singolo. Senso acuto per il commercio in tempi di crisi, e va bene, rafforzato però dal rispetto nei confronti di acquirenti e appassionati che è una delle caratteristiche fondanti della griffe londinese. La quale, come ben sappiamo, è per lo più attiva nella riscoperta di materiali dimenticati ancorché degnissimi infondendo la medesima passione di quando preferisce tastare il polso del “qui e ora”. All’attualità sonora, peraltro edificata su cento e più ieri, Soul jazz destina principalmente le uscite in vinile di durata medio/breve qui recuperate. Se siete dell’opinione scettica che non sempre quantità rimi con qualità, sappiate che a questo giro c’è da scartare giusto un pugno di brani “dopo disco” poco incisivi e qualche ridondanza stilistica eccessiva. Quasi non vi si fa caso, avendo l’opportunità di affondare i denti nel meglio del dubstep (i classici Kode 9, Digital Mystikz e Cult Of The 13th Hour a.k.a. Kevin Martin sono all’apice della forma) e segnare sul taccuino nomi meno noti epperò di rilievo: su tutti il Ramadanman aereo di Carla e profondamente ambient-dub di Dayrider, per quanto non siano certo da meno un nervoso Kutz o le venature post-industriali escogitate da Kalbata. Altrove si gioca di baile-funk screziato wave (Tetine remixati da CSS: I Go To The Doctor è da sfracello su qualsiasi pista), il ragga(muffin) urbano della fenomenale Warrior Queen (sia nella rutilante Things Change che nel martello Shooting Range) e ibridi assortiti come Pinch, la cui Fighting Talk distilla orrore in frammentato ralenti techno. Nondimeno, la palma di capolavoro assoluto se l’aggiudica Simplex di Subway, otto minuti in decollo dall’electro e planata su paesaggi alla Blade Runner attraverso la Germania dipinta da Harmonia e Cluster. La festa, avrete inteso, è grande: di quelle che il mattino seguente lasciano, per svariate ore, un benefico cerchio alla testa. (7.4/10) Giancarlo Turra AA. VV. - Shiftless Decay: New Sounds Of Detroit (X! Recs, Feb 2009) G enere : alien - punk Eccola qui la compilation che fotografa il suono della/nella motor city degli ultimi anni. Una doz- zina di gruppi che sferragliano principalmente su chitarre e ampli, sporcando i suoni d’origine a seconda delle proprie inclinazioni e perversioni sono stati reclutati da mr. X! Recs, al secolo Scott Dunkerley, qui presente coi suoi Frustrations. Passato e presente, nomi (ehm) noti e iper-underground, veterani della scena e pivellini all’esordio come in una compila che si rispetti, insomma. A far la differenza – si veda anche lo speciale Mutant Motown – c’è il fatto che Shiftless Decay non è solo un programmatico e lungimirante fermo-immagine sull’attualità musicale cittadina, ma anche una indagine/riflessione sociologica sul sottobosco “artistico” detroitiano come mezzo per il superamento del decadimento che sta attanagliando (un po’ tutte a dir la verità) le ex città dell’automobile mondiale. Quasi che la compila stessa sia un tentativo – seguito dall’esecuzione live on stage negli Shiftless Decay Thursdays di febbraio – di cementare la scena cittadina, di compattarla per poter dare un calcio in culo alla crisi dei finanzieri e rinascere nel segno dell’arte. Sul versante musicale – che è poi quel che ci interessa in sede di recensione – la meglio/peggio gioventù di Detroit sciorina pezzi quasi tutti esclusivi eccezion fatta per un paio: dentro ci trovate lo shit-rock-gaze di Tyvek (Flashing Lights in versione demo), il fuzz distorto e robotico di Frustrations (Psychedelic Motorcrash più che un titolo è una dichiarazione d’intenti), il lightningbolt-goes-to-forest sound di Tentacle Lizardo, l’ossessione alien-punk dei fantastici Human Eye, il twee-pop talmente datato da apparire fake di Heroes & Villains, quello horror-wavey di Johnny Ill Band e quello ipervitaminico e in totale overdrive punk di Mahonies, il lamentoso e ossessivo grido no-wave di Little Claw. Palma del miglior pezzo del lotto va indubbiamente a Odd Clouds. Gum Coup Follicle è as usual una escursione free (rock, psych, jazz e chi più ne ha più ne metta) che più free non si potrebbe. (7/10) Stefano Pifferi recensioni / 65 Highlight Agaskodo Teliverek - Psycho Goulash (Midfinger, Feb 2009) G enere : noise - pop - rock Di lui avrete forse apprezzato l’esordio Ash Wednesday (XL / Self, 13 luglio 2007), celebrato fin dall’uscita come uno dei migliori album di stampo folk sfornato da questi anni zero. Probabilmente ricorderete anche qualche particolare biografico, vista l’assoluta peculiarità: classe ‘76, Elvis è figlio del grande attore hitchcockiano Anthony Perkins (morto di AIDS nel ‘91) e della fotografa Berry Berenson (morta nell’attacco alle Twin Towers dell’undicisettembre), nonché nipote della stilista Elsa Schiaparelli e pronipote dell’astronomo Giovanni Schiaparelli. Casomai non bastasse, dall’albero genealogico potreste cogliere nobili, atleti, diplomatici, teosofisti... Come da tutto ciò sia uscito un folksinger fa parte dei misteri che rendono gustosa l’esistenza, fatto sta che Mr. Perkins e i suoi Dearland sono una band dal ragguardevole impatto, il cui approccio alla materia suona febbrile e generoso, sottilmente esotico e inguaribilmente balzano. Con questo omonimo secondo lavoro dimostrano almeno d’aver smaltito quell’inevitabile retrogusto luttuoso vagamente Eels, spostandosi dalle parti d’un M. Ward colto da nevrastenia Okkervil River. Anche la voce sembra più sbrigliata, echeggiando ora nuances Roy Orbison (nella processione a cuore bigio di Hours Last Stand), ora l’appassionato flemma di Paul Simon (soprattutto in I Heard Your Voice In Dresden) oppure la devozione strascicata d’un Jeff Magnum (nella malinconica 123 Goodbye). Quanto ai pezzi, beh, sono folli e trepidi, improbabili frenesie capaci di svolte incantevoli e striscianti ripescaggi mnemonici (che spaziano dal Dylan più grifagno al Van Morrison più estatico), tirando in ballo spesso e volentieri ebbrezze sgangherate da brass-band (Doomsday, Send My Fond Regards To Lonelyville). Tra una Shampoo che ti spiazza col passo epico e le analogie stralunate, una I’ll Be Arriving che trascina blues in un bitume d’hammond e la struggente levità di Chain Chain Chain, si consumano gli estremi poetici di un album forse non all’altezza del predecessore, se volete meno intenso e un pizzico più giocoso (casomai fosse una colpa), ma dalla statura indubbiamente elevata. (7.3/10) Torna il “cavallo rampante” – questa grossomodo la traduzione del nome Agaskodo Teliverek – col suo concentrato di noise-rock convulso e schizzato. Per chi non avesse incrociato l’omonimo esordio di un paio d’anni fa, si tratta di un quartetto multietnico di base a Londra formato da due chitarristi d’origine ungherese (Miklos “Miki” Kemecsi e Tamas “Tomi” Szabo), una tastierista/cantante made in japan (Hiroe Takei) e un batterista new entry apparentemente autoctono (Pharoah S. Russell al posto del dimissionario Thomas R. Fuglesang). Psycho Goulash è esattamente quello che vi viene in mente da titolo e copertina. Svisate skingraftiane e ritmi spasticcore coloratissimi uniti a cavalcate ipercinetiche capaci di macinare e masticare indie-rock d’annata, potente noise-rock sboccato, immaginario da video game impazzito, attitudine ludica retrofuturista virata dance e gusto pop a tutto tondo. E così melodie (strumentali e vocali) si appiccicano al cervello mentre giri grassi di tastiere/chitarre fanno muovere le chiappe che è un piacere, mentre non cessa mai la voglia schizoide e fanciullesca di rompere, mischiare, sovrapporre pezzi e suoni come fossero tasselli di un meccano surrealista. Quando a tutto ciò si uniscono le fascinazioni da “oriente in disarmo” dei due chitarristi come in Mousy, si rischia la potenziale hit del sottobosco. Forse non supereranno il limite del culto ristretto, ma sarebbe un peccato visto anche che – vedasi foto online – sono brutti come la fame. Potrebbero, si spera, essere l’ennesimo schiaffo in faccia all’indie fighetto e laccato. (6.8/10) Stefano Solventi Stefano Pifferi Elvis Perkins - Elvis Perkins In Dearland (XL Recordings, Mar 2009) G enere : folk rock Airportman/Tommaso Cerasuolo Weeds (Lizard, Mar 2009) G enere : cover album C’è poco da aggiungere sui dischi di cover, dato 66 / recensioni che molto – a torto o a ragione – è stato già detto. Alla fin fine, quale che sia la motivazione dietro una scelta del genere, c’è solo una unica grossa, innegabile quanto banale verità: che piacciano o meno. Che riescano cioè a toccare le corde dell’animo dell’ascoltatore. Che le facciano vibrare. Tutto qui. Semplicissimo. Tanto quanto affermare che questo Weeds, nato dalla joint-venture tra Airportman e Tommaso Cerasuolo, voce dei Perturbazione, le corde dell’animo dell’ascoltatore le tocca eccome. Sarà molto probabilmente per affinità elettive con chi ascolta, piacevolmente “costretto” ad un percorso a ritroso nella propria genesi musicale. O forse molto probabilmente sarà perché queste prove di pura poesia vengono fuori dal cuore di chi le ha volute omaggiare. Ci piace immaginarceli in una casa calda. D’inverno. Di lunedì. Lì a provare pezzi di memoria in compagnia. Lì riuniti a tracciare una sorta di autobiografia artistica più che un tributo agli autori tirati in ballo (dai Cure a PJ Harvey, passando per That Petrol Emotion, Porno For Pyros, The The, Echo & The Bunnymen, ecc.). Ci piace immaginarceli come quattro amici che si raccontano l’un l’altro a botte di pezzi e accordi, melodie e ritornelli; e che attraverso la musica si raccontano all’esterno. In punta di plettro. Delicatamente. Senza essere invadenti. Proprio come i pezzi omaggiati in questo Weeds, roba che cresce a “lievitazione naturale”. A noi ha dato immenso piacere lavorare insieme, stare insieme, suonare insieme, concludono i quattro nella presentazione del disco. A noi da immenso piacere starvi ad ascoltare, ci sentiamo di aggiungere. (7/10) Stefano Pifferi Alessandro Benvenuti - Capodiavolo .01 (Materiali Sonori, Mar 2009) G enere : canzone d ’ autore Attore di cinema ma soprattutto di teatro, Alessandro Benvenuti non ha certo bisogno di presenrecensioni / 67 tazioni. Parlano per lui i trent’anni e più di carriera spesi sui palchi di tutta Italia e le numerose pellicole a cui ha prestato corpo e anima. Poche persone, tuttavia, conoscono il musicista che si nasconde dietro a quel sorriso un po’ ironico da toscanaccio di provincia. A porre rimedio pensa allora questo Capodiavolo .n1, prima uscita ufficiale del Nostro nel mondo della discografia adulta e raccolta di brani scritti per l’omonimo spettacolo teatrale/concerto. Sette episodi prodotti da Arlo Bigazzi che richiamano in toto la tradizione della canzone d’autore, pur con un’impronta piuttosto personale. Non tanto dal punto di vista musicale, dal momento che per tutta la mezz’ora di programma si viaggia tra arrangiamenti acustici, folk leggermente jazzato e qualche accento etnico comunque in linea con una certa istituzionalità formale della scuola di appartenenza. Quanto dal punto di vista dei testi: ironici, intimisti, ma anche disillusi e disposti a schierarsi. La Capodiavolo che dà il titolo al disco è forse la track più significativa, con i suoi parallelismi commoventi tra Italia e famiglia Benvenuti, ma anche il resto del programma, diviso tra impegno e sentimenti, non dispiace affatto: Professione: terza vittima parla di stragi di Stato e servizi segreti deviati, Cretini dentro riflette sui nostri tempi con fare quasi bandistico, Incantevole caduta sa di autobiografia, Souvenir d’Alassio è uno strumentale di pregevole fattura. Il tutto filtrato dai caratteri tipici del personaggio Benvenuti, che non sono né l’esistenzialismo lucido di De Andrè né l’alto lignaggio di Fossati. Semmai la leggerezza e l’orgoglio di un Guccini sui generis, con la voglia di prendersi sul serio ma anche di ridere – amaro – della vita. (7.1/10) Fabrizio Zampighi Aliftree - Clockwork (Compost Records, Mar 2009) G enere : downtempo A volte ti domandi chi glielo faccia fare, a certa 68 / recensioni gente, di pubblicare dischi. Nell’anno in cui Tosca tornano a calcare le scene, uno sarebbe portato a dire che il downtempo si stia sollevando dalla polvere; che, testimoniato lo svilimento in cui è finito, qualcuno ne tenti la riabilitazione. Non è così, poiché ormai siamo andati ben oltre la decadenza a mera tappezzeria sonora di qualcosa che - per quei proverbiali quindici minuti - fresco e nuovo lo fu. Poveri Massive Attack e Kruder & Dorfmeister: per quanto incolpevoli, a osservare l’inettitudine della loro figliolanza devono sentirsi non poco male. Ebbene, c’è da sperare che nessuno consigli loro l’ascolto di Clockwork, settanta minuti che si destreggiano negligenti tra lati b degli Hooverphonics (Timestretched), becero soul-pop (Never Be The Same) e sigle televisive da anni Ottanta (Not Gonna Waste My Time). Grande cura formale e peso specifico scarsissimo in questo trip-hop atmosferico senza un briciolo di personalità o ironia, in grado di smuovere moderatamente l’attenzione solo quando sulla battuta rallentata innesta pulito pianismo jazz alla Keith Jarrett e soluzioni cameristiche come nell’iniziale Aurevoir e nel felpato congedo Dead Flowerz. Per il resto, soltanto sbadigli e noia. I salatini, prego. (5.5/10) Giancarlo Turra Art Brut - Art Brut vs. Satan (Cooking Vinyl UK, Apr 2009) Rakes (The) - Klang! (V2 Music, Apr 2009) G enere : I ndie rock A quanto pare cominciano ad essere vecchi anche i “gruppi nuovi”: non è arrivato solo per i Franz Ferdinand il momento del “difficile ter- zo disco”, infatti, ma è tempo di bilanci anche per Art Brut e Rakes che lo pubblicano in contemporanea (e siccome quando toccò ai capostipiti Strokes poi seguì il silenzio, allora il passaggio è cruciale davvero). Per entrambi, l’opera seconda era stata l’occasione di fare un passetto in avanti rispetto agli esordi, specialmente per i Rakes che, pur pagando qualcosa in freschezza, si erano allontanati dai ristretti canoni del genere mostrando progressi di scrittura e di varietà e definizione del suono. Nei nuovi dischi, invece, le cose cambiano. Gli Art Brut si dimostrano molto più fedeli alla linea di Ferretti continuando con l’autoironia (Am I Normal) e lo spirito postmoderno con cui si parla di fumetti ed altri elementi della contemporaneità (DC Comics and Milkshakes) compreso il rock, satireggiato come sempre nei furti di Mysterious Bruises, nel culto di The Replacements (gruppo omaggiato anche da Fiumani, sempre parlando più dell’oggetto disco che della musica dei Mats) e nella resurrezione del conflitto Beatles/Stones in What A Rush, ma anche giocando con i titoli delle canzoni (I Will Survive e Jealous Guy nel precedente, qui abbiamo Twist and Shout). Sempre scherzando a 300 all’ora, con melodie che pur non incocciando il singolo memorabile sembrano uscire senza sforzo, con un Argos che insieme ironizza su/adotta il cantato venato di ansia da ortodossia angular e uno stile che indulge all’essenzialità degli esordi e rinuncia ad eventuali esperimenti e strade nuove. I Rakes, invece, operano una restaurazione ancora più netta di una formula iniziale che già si distingueva poco da quella di molti coevi: sezione ritmica a tavoletta anche qui, un cantato che più che altro recita, chitarre con abuso di mignolino sulle quarte, stop and go, qualche bella distorsione ogni tanto, ironia/citazioni quanto richieste dal genere, qualche pezzo efficace e l’unica variante di un piano in The Woes of The Working Woman e nella nevrotica Muller’s Ratchet, non a caso tra le migliori del lotto. Un passo indietro per entrambi, insomma, anche se gli Art brut continuano a farsi preferire perché il discorso di scardinare un genere dall’interno a suo modo può anche tornare, e perché l’intelligenza continua a tenerli un passo più in là di quella stretta osservanza emul che porta i Rakes al paradosso di una musica tanto energica e frizzante quanto ormai immobile. Poi i dischi divertenti e gradevoli lo sono, non sono la verve, la grinta e l’arguzia a mancare, non è l’ironia: è che anche il divertimento può evolversi, e in prospettiva di carriera forse sarebbe meglio. (6.3/10) Giulio Pasquali, Edoardo Bridda Bat For Lashes - Two Suns (Parlophone, Apr 2009) G enere : songriting , avant pop La sintesi postmodernista operata dalla multistrumentista e artista visiva anglopakistana Natasha Khan, alias Bat For Lashes con il secondo album ci colpisce favorevolmente. L’avevamo vista l’anno scorso di spalla ai Radiohead e in quell’occasione il live avrebbe meritato una sede più tranquilla e consona agli input che mandava. Il debutto del 2007 (Fur And Gold) ci era sembrato un po’ dispersivo, ancorché ricco di spunti interessanti, sulla scia di un songwriting tra espressività Bjork e tentazioni anche folk rock. Two Suns opera invece una riuscita mediazione tra il suo cantautorato classico ed umori che oscillano tra psych, gospel, dance e pop di marca prettamente Eighties. Nell’ultimo anno e mezzo infatti Natasha è volata a New York, dalle parti di Brooklyn, dove ha convissuto con la scena artistica locale, tra Gang Gang Dance, TV on the Radio, MGMT e gli Yeasayer, titolari l’anno scorso della psichedelia pop di All Hour Cymbals. Proprio il gruppo in questione, per mano di Chris Keating and Ira Wolf Tuton, fornisce le basi e il basso per due dei pezzi del cambiamento del disco, il singolo Daniel, pop dance autoironica come recensioni / 69 potrebbe suonare oggi una Kate Bush sintetica, e Pearl’s Dream, brano che è concettualmente il cardine del concept che è Two Suns. Altrove è mediazione tra la sua anima più normalizzata di songwriter, nelle ballad soprattutto, e quanto c’è di nuovo, come il gospel psych tribale di Peace Of Mind tra Yeasayer e Vampire Weekend, l’incedere ultimi Portishead dell’opener, la solenne Glass, la bjorkiana Two Planets. Con un ‘attitudine mistica di cui l’album è permeato, una base concettuale e una miriade di citazioni tra letteratura, cinema e musica, l’artista cosmopolita rivela così un eclettismo di fondo che avevamo solo supposto. Non ultimo, il contributo di Scott Walker nell’ultimo pezzo, The Big Sleep, un duetto breve ma intenso su una ballad minimal sulla scia delle ultime cose dell’autore americano. (7.2/10) Teresa Greco Bill Callahan - Sometimes I Wish We Were An Eagle (Drag City, Apr 2009) G enere : indie - folk Lungi dal voler negare all’artista il sacrosanto diritto a rinnovarsi, bruciare il suo stesso passato, ridimensionarlo. Tuttavia la seconda prova del Callahan ex-Smog, oltre a scordare nell’armadio la magia dei tempi andati, non aggiunge nulla di sostanziale oltre ai titoli di 9 canzoni nuove, che poi tanto ‘nuove’, a ben guardare, non sono. Mica infastidisce l’operazione di pulizia, la quale alle imprecisioni esecutive del periodo lo-fi qui preferisce un rigore ben arrangiato, evidente nella notturna The Wind And The Dove. Il fatto è che la voce del nostro, ingabbiata all’interno di ritmini metronomici e orchestrazioni leccate, subito dopo il primo ascolto, si 70 / recensioni aggiudica per un secondo tentativo come mero sottofondo. E allora ai voglia a giocare agli autocitazionismi (i 2 secondi della chitarra sgangherata in Rococo Zephyr, l’iconografia degli animali, il timbro inconfondibile del cantato/ recitato), giusto per tenersi stretta la frangia nostalgica del proprio pubblico. Fa rabbia e ci si chiede il perchè dello sfacciato riciclaggio della struttura (già debitrice a Satellite Of Love di Reed) di Sycamore, che puoi riascoltare in Too Many Birds ben più flaccida e risaputa. Poi è logico che, sparando in aria, qualcosa la puoi anche colpire, e la conclusiva Faith/ Void, lungi dalla pretesa di divenire un classico, ti smuove dentro una fisiologica delicatezza, sussurrando sconsolata “It’s time/ to put God away”. Non stupirebbe insomma che oggi Bill centrasse la classifica, magari grazie a un bel videoclip a promozionarlo con un’acustica sdrucita e un cappellino di traverso, per aggiungere un tocco di mistero e un vezzo di vanità nei quali l’ascoltatore si possa riconoscere. (6.3/10) Filippo Bordignon Black Dice - Repo (Paw tracks, Apr 2009) G enere : spastic - dance - dice Cosa rimane oggi dei Black Dice? Bjorn Copeland, Eric Copeland e Aaron Warren veleggiano sempre più distanti da quelle Beaches & Canyons presso cui amavano dar prova del loro masculino coraggio sonoro. Questa non è più, o solo, la band che animò la Brooklyn d’inizio decennio, insieme ad altre amiche per la pelle, quali Animal Collective o Gang Gang Dance, facendoci conoscere uno dei migliori live act dell’epoca. Questa non è più, o solo, la band che ha a che fare con la visual art (DFA Records, Picturebox Inc, Fusetron) e che pubblica curati libri in collaborazione col fotografo Jason Frank Rothernberg (Gore) atti a testimoniare l’incontenibile verve espressiva dei Nostri. E, certamente, non è più o solo il gruppo che ci donò Load Blown non molto tempo fa, per darsi al divin-repellente gioco della decostruzione dancey. Repo, quinto studio album dei Dice, si compone di home recordings e sessioni registrate presso gli studi Rare Book Room della Grande Mela. L’artwork, 20 pagine di libro in cui pullula la solita immaginatività della band, ricorda il summenzionato Gore. La musica, invece, riparte da quanto detto in Load Blown. Nite Creme è un frullato appiccicoso di Tutu di Miles Davis con una band che fosse passata dall’hardrock alla Cher per vocoder. Una versione ‘taragna’ e spasticoide delle movenze da dancefloor già sublimate nel disco precedente. Ogni pezzo declina la propria antinomia stilistica: il ‘collage-invasione degli ultracorpi’ di Glazin, le coglionerie hip-hop di Earnings Plus Interest, l’On The Corner-frullato che qui si intitola La Cucaracha. Inanellando il bizzarro al futuribile, i Renaldo And The Loaf a Moroder, DAF ai Butthole Surfers, i Black Dice hanno individuato l’orticello in cui piantare, annaffiare e poi raccogliere le stravaganze stilistiche di cui da sempre capaci. Spesso il tutto sa di bubble gum alieno, o di critica sociologica mal digerita. Non tutti gli incastri reggono perfettamente il puzzle in Repo. Seppure ogni tessera, presa di per sè, palesi più pregi che difetti. (6.5/10) Massimo Padalino Bliss - No One Built This Moment (Music For Dreams, Apr 2009) G enere : N ew A ge Se il genere new age partito musicalmente e discograficamente negli anni Settanta s’è via via trasformato e adattato alle mode e alla società, l’ultimo lascito di quel sentire, almeno a livello di immaginario condiviso, sono stati gli Enigma. Quei canti gregoriani e break beat ultra patinati erano la più funzionale contropartita spirituale dell’elettronica di ‘consumo’ dance. All’epoca erano il ‘nuovo’ per l’ascoltatore già troppo vecchio per i rave ma affamato di suoni chic con quel che di ‘profondo’. Oggi. Nel 2009. Quel nuovo si traduce in chimiche soniche differenti solo per la facciata. Nella nuova produzione dei danesi Bliss (avvezzi a comparire in infinite compilation simil-Buddha Bar) quei synth stiracchiati e quelle voci calde e esotiche sono un filo diretto con le antiche glasse. La scuola mainstream adult pop exotic è sempre la stessa. Due glitch, qualche risciacquo ritmico molto white à la Everything But The Girl, buoni inserti di chitarra e archi figli di una qualità del registrato più alla portata delle tasche se non di tutti ma di tanti e ci siamo. Da segnalare Stop Me, traccia ambient house versione 2.0 con ritornello appiccicoso per il chill after (nu) rave. Da sconsigliare per chi vuole entrare nel groove da dancefloor. Sarà apprezzato invece da qualsiasi locale e ascoltatore pro chill-out. Se un disco può essere onesto, i Bliss lo hanno prodotto. (6.1/10) Marco Braggion, Edoardo Bridda Bonnie “Prince” Billy - Beware (Domino, Mar 2009) G enere : indie country Da che ha raggiunto il proprio abbagliante zenit con Arise, Therefore prima e Now I See A Darkness poi, Will Oldham ha genialmente peregrinato attorno al nucleo del suo stile di fresca consolida, così antico e in ragione di ciò attuale. Dall’ascesa nell’empireo dei classici, l’uomo del Kentucky si è così concesso il lusso di rileggere se stesso, indagare felici accenni di modernità e immergersi in benefici bagni tradizionali mai tradizionalisti. recensioni / 71 Ciò che seguita a stupire, nondimeno, è la qualità elevata di una discografia-fiume dalla quale toglieresti giusto quel paio di pleonastici live; senza dimenticare l’abilità di mescolare continuamente le carte e lasciarci in positivo confusi circa la natura della sua musica. Non fa eccezione Beware che, dopo lo splendore folk a lievi tinte visionarie offerto meno di dodici mesi or sono, abbraccia forme country-rock lontane tanto dall’ingessata Nashville quanto dalla controcorrente di Steve Earle. I clichè sono irrisi e superati alla stregua del Townes Van Zandt maturo, ma ancora non ci siamo, perché il disco è spesso avvolto da un’indolenza traslucida, lontana parente del falso sereno di Harvest se Neil Young l’avesse registrato con la testa di On The Beach. Il che significa che il conto di nuovo un po’ torna e un po’ no. Che la penna scintilla e gli arrangiamenti puntano l’intarsio, ricchi di cori e fiati, marimba e organi, violini e plettri assortiti senza imporsi su brani il cui lignaggio, alto come d’abitudine, emerge alla distanza. C’è una sequenza finale splendida da ascrivere tra le cose oldhamiane migliori di sempre, un viaggio che dai fantasmi metà celtici e metà del border della sublime There Is Someting I Have To Say introduce al sensazionale commiato Afraid Ain’t Me, galoppo di luci del Van Morrison “astrale” e tentazioni Calexico sciolte in puro stile Oldham. Per giungerci attraversi l’innodica malinconia senza pari di I Am Goodbye e il passo da sardonico e anticato jazz anni ’20 di Without Work, You Have Nothing. Qui il nucleo significativo di un’opera che per il resto sgorga con la naturalezza di chi non deve dimostrare niente a nessuno, perciò si prende i rischi che gli aggradano. Canone del più fragrante e cristallino offrono - pescate quasi a caso, 72 / recensioni sappiatelo - Death Final, My Life’s Work e Heart’s Arms, ché nella vita occorrono anche e soprattutto sicurezze. Continua a camminare, Will. (7.5/10) Giancarlo Turra Broken Family Band (The) - Please And Thank You (The Track & Field Organisation, Apr 2009) G enere : pop rock Quinto album in sei anni per questo quartetto inglese che sembra aver scoperto il trucco per tracciare la linea più breve tra rock alternativo britannico e americano, così da togliere di mezzo ogni intralcio alla verve, libera così di sbrigliarsi frizzantella e passionale. Chitarre, basso e batteria - non si scappa - fanno una quadratura inattaccabile, solida, carezzevole. Il passo è fresco e vigoroso e fresco con implicazioni malinconiche, le ruggini che senti sono scosse d’assestamento da linea d’ombra, le melodie spacciano trepidazioni senza mai mollare la briglia dell’entusiasmo. Ecco quindi una St Albans che stempera ugge Steve Wynn ed estro Blue Aeroplanes, ecco Don’t Bury Us come potrebbero dei Pavement impelagati Blur, oppure una Stay Friendly come degli Oasis strattonati Uncle Tupelo. E poi altre combinazioni di sapori sempre sul filo tra alternativo d’Albione e il dirimpettaio Americana, scomodando Neutral Milk Hotel in Cinema vs. House, Gomez e Sebadoh in Son Of The Man, certi Stereophonics in orbita Malkmus in Old Wounds, e via discorrendo. Disco di cose semplici e banali ma convinto e perciò - convincente. Come dire: il segreto del buon pop-rock. (6.9/10) Stefano Solventi Bruce Peninsula - A Mountain Is A Mouth (Bruce Trail, Feb 2009) G enere : G ospel post - punk 2nd 4th World War è semplicemente i 16 Horsepo- Highlight Here We Go Magic - Self Titled (Western Viny, Apr 2009) G enere : indie pop Era dai tempi dei Lemonheads, quando questi riadattarono il classico Mrs. Robinson nel lontano 1992, che il nome di Paul Simon non circolava in ambienti indie. Tutto merito, prima, dei Vampire Weekend e del loro lavoro echeggiante, in diversi tratti, la world music di Graceland, e ora di Luke Temple nelle vesti di Here We Go Magic. Da New York, come lo stesso Simon. Da New York, come Animal Collective e Yeasayer. A detta di qualcuno, non poteva essere altrimenti. Vero. In Here We Go Magic c’è tutto quello di cui sopra: world music e pop sghembo. Due mesi di lavoro homemade con un quattro piste al seguito. Punto. Only Pieces e Fangela sembrano provini “andati a male” di Graceland: voce salmodiante e musica intrisa d’umori etno. In Ahab, il canovaccio ripiega in lidi ipnotici. strana sensazione: Sting nei solchi di Remain In Light? Strano, ripetiamo, ma credibile. Poi lei, Tunnelvision, il singolo ideale in un mondo migliore: prendete A Paw In My Face di The Field, privatela del beat minimale e immaginatela nelle mani di un busker new yorkese. Se escludiamo le digressioni “cosmiche” di Ghost List, Babyohbabyijustcantstanditanymore e Nat’s Alien, Temple non fa che prendere il pop di traverso, come se gli Animal Collective giocassero a fare Yeasayer o viceversa (I Just Want To See You Underwater) oppure alla stregua di un cantore off di Broadway (il valzer di Everything’s Big). True magic. (7.5/10) Gianni Avella wer di Heel On The Shovel, accompagnati da un coro gospel, nero come la pece, paccaminoso come la notte, perduto come l’anima vostra, se una ne avete. Ci voleva una band così. Il vecchio e il nuovo che, in maniera né vecchia né nuova, si danno la mano. Ispirazione, la parola chiave. I Bruce Peninsula vengono da Toronto, Canada. E portano con sé “singers, yellers, whisperers, whiners, garglers, gentles and goons”. Una folla suona questo disco. Tre batteristi, un coro, composto di 5 donne... Ne esce fuori una sorta di “ghostly choral music” che beve il sangue a Nick Cave e ai 16 Horsepower. Leon Taheny (batterista coi Sebastien Grainger & The Mountains e tecnico con i Final Fantasy) è un po’ l’anima dell’operazione. Due i traditional presenti. Il primo, Satisfied, è il pezzo che, così riletto, Cave anela di rileggere la notte: una tempesta gospel disperata e una danza senza veli, sfrenata, lubrica e impudica al contempo. Musica del diavolo, la recensioni / 73 chiamano. Anche se passa attraverso quella degli angeli. L’altro, Drinking All Day, un inno gospel reso ‘progressivamente’. Il lavoro raccoglie le atmosfere dei posti in cui è stato registrato: la chiesa St. George The Martyr, uno scantinato presso la Toronto University e sei altre stanze sparse per Toronto. Il lamento febbrile del call’n’response Crabapples, l’impressionista Weave Myself A Dress o ancora il pow wow Steamroller prendono forza dalla debolezza umana ivi cantata. Forza oscura, mai oscurante (7.5/10) Massimo Padalino Camera Obscura - My Maudlin Career (4AD, Apr 2009) G enere : indie pop I Belle & Sebastian odierni, molto più che un’affermazione. Il gruppo scozzese in passato ha collaborato non a caso con Stuart Murdoch ed ha avuto tra i suoi fan il fu John Peel, e dopo l’affermazione nel 2006 con il “difficile terzo album” Let’s Get Out Of This Country fa ora il suo ritorno. E’ più che una conferma, questo My Maudlin Career. La consueta mistura di indie pop e orchestrazioni, con il gusto per ritmi jazz, non dissimilmente da Broadcast, Stereolab e compagnia. In aggiunta qui c’è la presenza, molto più che in passato, di elementi di soul (il cantato Al Green dell’opener French Navy, per esempio e un dichiarato amore per Van Morrison tra le altre cose), di ispirazioni al cantautorato USA seventies, pensiamo in particolare a Paul Simon, citato in The Sweetest Thing con la sua frase “50 ways to leave your lover”e Lou Reed; e persino accenni di country nella svenevole Away With Murder. Nel complesso c’è un buon equilibrio tra gli ele74 / recensioni menti strutturali dell’album, e le aggiunte arricchiscono piuttosto che dividere. La voce suadente di Tracyanne Campbell sia quando rimanda all’altro nume tutelare Lloyd Cole, sia quando si apre a piena voce e si strugge di malinconia, è un lasciapassare per il calore e l’intensità che riesce a sprigionare il disco. Bentornati. (7.1/10) Teresa Greco Capital - Days And Nights Of Love And War (Fierce Panda UK, Apr 2009) G enere : new wave Quella dei Capital è una wave dal taglio enfatico, tra Echo & The Bunnymen, The Sound e Cure altezza Pornography. Il debutto degli inglesi di Eastbourne, Days And Nights Of Love And War, è un ep di sei tracce dal cuore epico/romantico come lo sapeva essere il compianto Adrian Borland (Ruin) oppure il Robert Smith di un tempo (in Public Square e Easier To Leave vi ascolterete quei gloriosi giorni). Si respira una brezza simile alla Liverpool di primi eighties (la cadenza Echo & The Bunnymen di Broken Glass) per via di quei ricami di chitarre e tastiere retrò, e menzione particolare va al vocalist Nick Webb il cui registro, seppur reazionario, cesella alla perfezione un lavoro dove la sola Earphones – scialba ballad electro – funge da elemento fuori contesto. Chissà, forse ci troviamo al cospetto dei nuovi Interpol. Le potenzialità ci sono. Altro che Metric. (6.5/10) Gianni Avella Casiotone For The Painfully Alone Advance Base Battery Life (Tomlab DE, Mar 2009) Casiotone For The Painfully Alone Vs. Children (Tomlab DE, Apr 2009) G enere : R aw synth pop Nel mentre avevo in testa ogni concetto e sfumatura, introduzione e conclusione di Advance Base Battery Life, album di ben quindici a me inediti brani di Owen Ashworth, venivo a scoprire con ugual imbarazzo e soddisfazione che il promo già stramacinato all’incirca due mesi fa non era il nuovo lavoro d’inediti del tweepopper a stelle e strisce più amato di Sentireascoltare, bensì una raccolta di singoli e tracce compilation only registrate tra il 2004 e 2007, periodo in cui il Nostro aveva portato Etiquette in giro per il mondo e oltre. Reset dunque per una recensione già scritta che si concludeva nel più roseo dei modi. È il “migliore disco e l’ideale compendio di quanto scritto e arrangiato finora” ...e dunque sotto con le aspettative, maggiorate chiaramente, per Vs. Children, l’album scritto e pensato per essere un tutt’uno. Sono le peggiori premesse psicologiche per affrontare il nuovo lavoro, soprattutto quando si rivelerà il classico disco minore o l’altrettanto proverbiale retroguardia. Più interessante a questo punto spostare il ragionamento su uno dei più classici paragoni che in questi casi si applicano in ambito indie pop. Visti i tempi e la nostra retrospettiva, la produzione di Casiotone è idealmente vicina a quella degli Smiths: l’immediatezza e l’impatto sono una questione di febbrili, emozionanti, lacrimevoli singoli (ancora meglio se scritti e arrangiati ad hoc in occasioni differenti), e di contro album mai così belli o così insostituibili. Dunque canzoni sparse come veicolo espressivo ideale sia per la freschezza del risultato (si ascoltino i registri alti del già classico Old Panda Days con Nick Krgovich dei No Kids oppure il carezzevole twee pop di White Corolla) sia per arrangiamenti (il vocoder della cover di Springsteen Born in the USA, le drum machine WARP della menzionata Old Panda Days), e seguendo questo ragionamento il passato di Ashworth ti torna come pugno di Advance quando il nuovo lavoro ha qualcosa di ex post pensato e scritto in un recinto. Probabile un piccolo momento di stanchezza classica di quando sai di ripeterti, di contro non è il caso di affondare colpo alcuno quando i nuovi brani non portano con sé pesanti stanchezze. Eppure, la magia di una Holly Hobby, ritratto dalla disarmante potenza, non la troverete in Vs. Children, e neanche la seconda cover del Boss in scaletta Streets Of Phildadelphia. A proposito di ques’ultimo brano: importante sottolineare come sia stereotipico, in pratica un pre, di ogni Casiotone song. Nel pezzo del Boss comprendi tutto il succo della faccenda: ritmo filo hip hop in richiamo alla strada, crooning da sconfitto appena accarezzato di romanticismo, quel trascinarsi della melodia che significa accettazione di una condizione impossibile da convertire ma soltanto da accettare. È una grande cover. Cover che significa pure quanto l’uomo sia oltre il confronto con i miti appesi in cameretta. Che sia un se stesso che dentro al Casiotono cresce e mantiene onestà d’intenti. Quindi niente paura se Graceland di Simon viene detronizzata da una marcetta e da un vocoder. Lui che ha sempre amato l’hip hop ha capito che prendere e rifare non è vergogna ma un vanto. E ancora di Advance parliamo e non di Vs. Children. Allora (7.3/10) al primo e (6.0/10) al secondo. Edoardo Bridda Celer/Mathieu Ruhlmann - Mesoscaphe (Spekk, Mag 2008) G enere : elettroacustica minimale L’incontro tra acustico e digitale si fanno in Mesoscaphe mezzo di memorie di viaggio, quelle dell’itinerario lungo 30 giorni che nel 1969 il sottomarino a propulsione Ben Franklin fece per esplorare le correnti del Golfo. Memorie che, grazie al lavoro degli artisti Celer (Danielle Baquet Long & Will Long) e Mathieu recensioni / 75 Highlight Malakai - Ugly Side Of Love (Invada, Apr 2009) G enere : psych rock , reggae , garage Un duo psych reggae garage di Bristol all’esordio, prodotto da Geoff Barrow (Portishead) per la sua label Invada incuriosisce abbastanza? I Malakai sono il cantante e songwriter Studio-Gee e il musicista Scott, rispettivamente un dj e un MC che hanno ricombinato le rispettive attività per questo gruppo. Una miscela variegata è la loro, con un’attitudine prettamente collagistica, e una base acida, che va dal reggae giamaicano rivisto in salsa dub, allo psych rock sixties mischiato al garage di marca Nuggets, e ancora gli influssi portisheadiani, la psichedelia rivisitata di un Barrett hip hop, il Frank Zappa dei ’70, gli influssi Funkadelici. Di base in Ugly Side Of Love c’è quindi un’attitudine al cut up post-tutto, che parte dall’uso di basi e samples (si comincia con una citazione da Warriors alias I Guerrieri della notte di Walter Hill nel pezzo omonimo – campionando Warriors, come out to play? suono di bottiglie di vetro compreso che si sviluppa in un garage rock sanguigno) per ricomporsi in un unicum, con nel sottotesto un’anima melodica evidente (Fading World) di marca Beach Boys, Zombies (Another Sun dove sembra di sentire anche i primi Who e Kinks), e Love. Con più di un omaggio nella vocalità di Studio-Gee al nume giamaicano Horace Andy. Barrow ha supervisionato l’album e partecipato alla stesura di Only For You, un kraut virato dub nel quale si avvertono non pochi echi dei Portishead; per il resto molto garage aggiornato al funk dei ’70 USA passando per un’attitudine zappiana, non dissimilmente da quanto fatto negli ultimi anni da Gnarls Barkley e Danger Mouse. E Ugly Side Of Love si può anche accostare idealmente a quanto fatto da Beck in Mellow Gold. Il senso di divertimento e autoironia insito nell’operazione è tanto e si percepisce, con il pregio di aver reso unitario un album così vario e a rischio di dispersione, merito anche di un produzione ineccepibile da questo punto di vista. Il disco convince quindi per coesione ed ispirazione, riuscendo a sfuggire in ultima analisi a una catalogazione ben definita, gran pregio quest’ultimo. (7.2/10) Teresa Greco Ruhlmann diventano suono, ottenuto con le registrazioni di campo dello stesso sottomarino, strumenti acustici (pianoforte, archi, theremin) 76 / recensioni ed elettronica - quest’ultimi a simboleggiare l’elemento umano. Morbidezza, fluidità e lentezza sono certo espe- rienze linguistiche tipiche dei lavori di Celer, che di recente (Nacreous Clouds-and/Oar 2008) avevamo visto adagiate in loop, velocità e stasi. Estremamente puntuale l’arte della rappresentazione, dal realismo acustico nonostante occultata sia la fonte d’origne. E’ un viaggio, quello di Mesoscaphe, da non intendersi solo come esperienza poetica, ma anche come operazione relazionale, quella che nelle tre tracce gli artisti strutturano con estrema naturalezza e narrativa. Scultoreo, legato agli umori più scuri o in stati di grazia, preso in prestito ma non per questo privo d’espressione, intrappolato o soffocato, concesso alle derivazioni e ai capricci del tempo tempo, il suono, qui,. sia per gesto che creatività, è un ambiente liquido nel quale immergersi, pratica sensibile e sapiente. (7.1/10) Sara Bracco Chain And The Gang - Down With Liberty... Up With Chains (K Records, Apr 2009) G enere : N ew - aavv -Y ork Ian Svenonius è un gatto accorto che si aggira da vent’anni ormai nell’area di Washington DC. Prima ha fatto le pulci all’hard-core con i Nation Of Ulysses, poi ha iniziato – oltre a suonare con altri gruppi - a teorizzare e a parlare come opinionista musicale. E ora esce con un progetto che una volta di più lo mette a fuoco nella sua astuzia. I Chain And The Gang sono anzitutto un pouy pourri della musica rock a New York, praticamente dalla fine dei Sessanta a quindici anni fa. Ma c’è solo quello che della musica uscita dalla Grande Mela è più efficace a primo impatto, comunque e sempre piacevole e poco impegnativa da ascoltare. Un esempio è fin dall’inizio la mutant asciugata e secca di Chain Gang Theme (I See...); oppure il Lou Reed più semplice e più ingagliardito di Trash Talk. I Chain & The Gang potrebbero chiamarsi insomma più onestamente Cool & The Gang. Non solo perché il funk di James Brown a volte sembra esplicito riferimento – anzi tutto quel funk volontariamente filtrato dai fichissimi anni della New York Noise repertoriata dalla Soul Jazz. Può darsi che l’omaggio sia esplicito ma ascoltando Cemetery Map abbiamo già un’altra cosa. Lo scenario scorre e il fuoco si spiana sulla risaia del Sud. Schiavitù gospel. Slaker vocale e controcanto call & response al femminile – e del resto Ian ci aveva già provato a metà Novanta, a fare del “Gospel YehYeh”. C’è quindi il nero fatto dal bianco, che vuole ostentare i suoi occhiali da sole Nwe York Dolls (e Lou Reed) e lo fa probabilmente scegliendo la via più facile. Non nascondiamo che il risultato ci piaccia – come in Interview With The Chain Gang, una wave che gira NO, Un giochino alla Murphy DFA chef, una automitologia applicata; come non diciamo certamente no alla motown di Room 19, alle marcette basic ((Lookin’ For A) Cave Girl), ai Blues Bros. tirati all’osso sotto confettura Zappa (Unpronouceable Name). Davanti a tante scenografie – o forse di tante versioni della stessa - c’è da rimanere sedotti da Down With Liberty... Up With Chains!. Rimane quel senso di prodotto in vitro, perchè alla fine il gioco è spersonalizzante. I Chain rimangono incatenati alla loro astuzia cool, Ian alla sua parlantina facile. Che sia questa una nuova chiave di interesse? (6.5/10) Gaspare Caliri, Edoardo Bridda recensioni / 77 Chapelier Fou - Darling, darling, darling (Ici d’ailleurs, Dic 2008) G enere : elettronica / elettroacustica In fondo a volte il gioco sta anche nel non prendersi troppo sul serio, concedendosi all’estro piuttosto che alle affinate armi del mestiere, senza per questo perdere in credibilità o valore. E’ il caso del giovane musicista e compositore francese Chapelier Fou e del suo Ep Darling, darling, darling. Un’elettronica che fa parlare di sè tra laptop, ambient e rumori più o meno frenetici, quelli che giocano con i riferimenti alle sonorità di scuola Warp senza cadere nel rischio del derivativo. Anche se è con il violino che tutto è cominciato, nelle aule di un conservatorio, dove il giovane artista si confrontava con i repertori del ‘900 (Ravel, Debussy o Bartok) e il Jazz, strumenti come tastiere, mandolino e chitarra hanno sempre rappresentato il contraltare folk di un apprendistato musicale curioso e variegato. Convivono entrambe le attitudini, senza forzatura ma con consapevolezza di spazi e colore, affini alle sonorità di uno Yan Tiersen ma senza dimenticare la raffinatezza della cosiddetta nuova musica. Malinconiche ma amichevoli le corde, le voci campionate e le armonie della title trak, abili i giri di giostra e gli intermezzi di Horses, i cambiamenti di registro ritmico (Le grand n’importe quoi). Sei tracce certo non di passaggio, che non chiedono nulla in cambio ma dispensano ispirati e creativi motivi fiabeschi. (6.7/10) Sara Bracco Cheater Slicks - Bats In The Dead Trees (Lost Treasures Of The Underworld, Feb 2009) G enere : experimental garage - rock La saga dei fratelli Shannon si arricchisce di un nuovo capitolo, il nono per la precisione, se consideriamo soltanto i dischi in studio; forse nove album in vent’anni (il primo è esattamente dell’89) 78 / recensioni possono sembrare pochi eppure è forse proprio l’aver evitato le frenesia produttiva che sembra invece caratterizzare certi gruppi d’oggi (Wavves, Blank Dogs e compagnia ipertrofica) che ha consentito al gruppo di Columbus, OH di costruire una parabola tanto avveniristica quanto degna di essere seguita passo per passo. Non da meno è dunque questa nuova release, che dalla sua può vantare anche un’altra componente; se infatti la scena garage-punk americana (la stessa in cui pure loro hanno sempre sguazzato) è attualmente presa dai suoni ludici dei vari progetti bedroom synth, questo Bats in the Dead Trees rilancia e raddoppia la posta in gioco schiacciando senza remore il pedale della sperimentazione. Ciò che ci perviene sono dunque quattro pezzi strumentali, non titolati, totalmente improvvisati e non ritoccati successivamente in cui il trio da sfogo alla sua vena più cacofonica e, appunto, impro. L’unica effettiva continuità con i picchi più weird della precedente discografia può essere riscontrata nel garage psichedelico a base di corde rotte e piatti brutalizzati di Pt. II, il brano più classicamente Cheaters del disco; i pezzi restanti sono tutto un lato caratteriale del gruppo che non conoscevamo finora. Apre una Pt. I che si protrae per quasi quindici minuti a soli colpi di feedback, senza riff, senza batteria, senza rock e già manca l’aria; dopo il breve cameo di Pt. II si gira lato e cala la scure. Pt. III è ancora un incubo asfittico di un quarto d’ora, mentre il pezzo conclusivo è una suite di synth e flanger che ricorda certe follie kraut dei ’70 tedeschi. Il tutto è stampato in sole 300 copie, un numero esiguo ma comprensibile dato l’indelebile punto di sperimentazione che il gruppo marca con que- sto nuovo lavoro; se infatti la radicalità della proposta non lascia spazio a mezzi giudizi, i motivi per cui si può amare o detestare un disco come questo sono esattamente gli stessi. (7/10) Andrea Napoli Cheer-Accident - Fear Draws Misfortune (Cuneiform, Gen 2009) G enere : prog - artrock La prima informazione è che non sono cambiati, i Cheer-Accident. Chi avrà apprezzato le loro scorribande tra generi negli altri (ultimi) dischi, probabilmente apprezzerà anche queste. La seconda informazione – un po’ meno informativa, un po’ più dubitativa – è che è sempre più difficile discernere ciò che è valido da ciò che non lo è in formule così impastate di abilità strumentale e gioco di generi musicali. Se c’è una cosa di cui i Cheer-Accident di oggi sono maestri è ubriacare con la storia della musica (del Novecento e non solo) chi li ascolta. L’alternativa è enucleare l’elenco o sbatterli – metaforicamente – al muro. Il loro scegliere generi e non atmosfere, generi come fini e non mezzi, questo è quello che convince meno. Così la seconda traccia del disco (Mescalito) può anche – ancora, per l’ennesima volta – stupire per la capacità con cui si va dal math ad accenni Primus alla solita leziosità prog. C’è un’attenzione ai temi sicuramente maggiore del 90% dei gruppi in giro, e il loro numero migliore è forse quello grazie al quale riescono a nascondere un tema dietro a un riff. Oppure il modo in cui sfuma lentamente il tema melodico in coda alla penultima traccia, Humanizing The DIstance. Ma per il resto sono passaggi di linguaggio ed estetica. Mai reali ibridazioni; e il connettore è la capacità tecnica – e qui a primeggiare c’è la voce effettivamente validissima della violinista Carla Kihlstedt. Ma qual è la base, l’idea di fondo? Ne avete ancora una, Thymme Jones, tu e/o i quindici ligi musicisti che ti si raccolgono spetta- colarmente attorno per Fear Draws Misfortune? (5.8/10) Gaspare Caliri Chris Robley - Movie Theatre Haiku (Cutthroat Pop Records, Mar 2009) G enere : art pop Coi due album precedenti il prode Chris Robley è riuscito a guadagnarsi - pensate un po’ che roba - l’epiteto di “Stephen King of indie-pop”, vuoi per la pronunciata verve letteraria e vuoi per i drammatici azzardi musicali. Insomma, se eravamo in attesa di stupirci con un terzo album carico di effetti speciali, Movie Theatre Haiku non delude, semmai rilancia strutturando ulteriormente la calligrafia (elettricità ed elettroniche, archi e ottoni, armonica, flauti e kazoo...), disegnando traiettorie sempre meno prevedibili, tese e distese, toste ed eteree, accattivanti e scontrose. Tutto ciò accade centrifugando senza indugio brit e power pop (una Concrete & Nails tutta inquieti turgori Badfinger, una Premiere tipo Damien Rice in fregola Raspberries, una User-Friendly Guide to Change che sposa i Blur più trafelati a dei Suede imbizzarriti Elton John), misticismo folk psych con apparizioni Morricone (Baltimore Fugitives Buried in Brownsville, TX) o glauca febbre Waterboys (Atheist’s Prayer), per non dire degli XTC avariati tra miraggi di pop sinfonico in Permanent Fixture of Regret, degli ectoplasmi vaudeville bitòlsiani nel robofunk strinito di Solipsist In Love oppure del neo-prog innestato sui palpiti acustici di My Life in Film Festivals. Insomma tanta roba, Mr. Robley. Per quanto mi riguarda, lo classifico tra coloro che hanno molto da dire ma lo fanno con troppa frenesia e poco freno, senza quella capacità di economizzare che spesso decide l’efficacia di un linguaggio. Lo metterò quindi sullo stesso scaffale su cui lascio a farsi compagnia i Conor Oberst, i Decemberists, i Secret Machines e i British Sea Power, tanto per fare qualche nome di recensioni / 79 traverso ai generi. Con la speranza di una futura congrua decantazione. (6.7/10) Stefano Solventi Crippled Black Phoenix - 200 Tons Of Bad Luck (Invada, Apr 2009) G enere : D ark P sych R ock Nati quattro anni fa dalla mente del batterista degli Electric Wizards Justin Greaves, gli inglesi Crippled Black Phoenix rappresentano una sorta di crocevia per alcuni musicisti che, provenienti tutti da esperienze musicali parallele, si sono incontrati a metà strada per dare vita a questo progetto. Tra questi il bassista dei Mogwai, Dominique Aitchison, due membri della band doom Pantheist e il cantautore folk (!) Joe Volk (che milita anche nella band heavy rock Gonga). Insomma uno zibaldone di stili musicali a confronto che, dopo l’esordio discografico del 2006, partorisce il secondo album in studio per la Invada, etichetta di Geoff Barrow dei Portishead. I presupposti a tutto farebbero pensare tranne che ai Pink Floyd. Già, cosa c’entrano Gilmour e Waters con il doom? Apparentemente niente. Eppure non può non saltare all’occhio, ascoltando 200 Tons Of Bad Luck, la miriade di riferimenti, più o meno diretti ai Floyd. Come ascoltare l’iniziale Burnt Reynolds senza farsi venire in mente all’istante il riff di Sorrow (A Momentary Lapse Of Reason, 1987)? Come non cogliere, nella successiva Rise Up And Fight, la citazione di One Of These Days (Meddle, 1971)? E come definire la parte intermedia della suite Time Of Ye Life / Born For Nothing / Paranoid Arm Of Narcolectic Empire, se non una copia spiaccicata di Pigs 80 / recensioni (Animals, 1977). Quando poi comincia a cantare Joe Volk, con la sua voce sottile ma decisa, verrebbe da contattare Gilmour in persona per fargli ascoltare la sua imitazione più fedele mai eseguita. Roba che manco la buonanima di Gigi Sabani… Per fortuna non c’è solo questo. Anzi, gli stili messi in campo, anche se non amalgamati a dovere, (tanto da creare un semplice accostamento, più che una fusione) sono numerosi. Ma sembrano tanti ingredienti messi a caso, alla puttanesca, per usare un termine di paragone culinario. Le atmosfere poetiche degli Slint, il metal dilatato degli Isis, il dark doom dei My Dying Bride e (rimanendo in campo floydiano) i lavori solisti di David Gilmour (Little Step potrebbe essere una bonus track di About Face), sono gettati nella mischia senza un collante che li tenga uniti. Molto meglio quando la band si abbandona ad una versione più personale del rock psichedelico, velata di noise (A Lack Of Common Sense) e ambient (I Am Free, Today I Perished). Consigliato a chi, almeno una volta, ha immaginato i Pink Floyd vestiti di nero e con lo sguardo tenebroso. (6.3/10) Daniele Follero Cult Of Youth - A Stick To Bind, A Seed To Grow (Dais, Gen 2009) G enere : ( garage ) neo - folk Dopo un primo interessante singolo su Axiomata, il progetto del newyorkese Sean Ragon arriva al debutto sulla lunga distanza per Dais, etichetta che si è fatta recentemente conoscere per la pubblicazione dell’apprezzato EP dei Cold Cave. Con questi ultimi e con tutta l’attuale scena synth/wave però i Cult Of Youth di Brooklyn non hanno molto da spartire, se non la decadenza di certe atmosfere che si respirano qua e la tra i brani dell’LP in questione; non senza qualche affinità con quanto detto tempo addietro per Yussuf Jerusalem, infatti, il nostro propo- Highlight Mariposa - Self Titled (Trovarobato, Mar 2009) G enere : avant pop rock Quattro anni dopo il doppio Proffiti Now!, i Mariposa tornano con un album di inediti che promette di far parlare di sé. Soprattutto per l’equivoco che si porta dentro. Difatti, come è chiaro fin dalla opening track, la proverbiale scelleratezza formale dei Nostri - beffardamente spacciata per “musica componibile” - rincula entro fattezze che quasi quasi diresti pop. Intendiamoci: pur sempre roba che sui palchi sanremesi sembrerebbe piovuta da Marte. Per dire, in Specchio sembra di scorgere dei Perturbazione allampanatri Wyatt e carburati Grandaddy, in Notel Hotel ti figuri Sergio Endrigo contagiato di bizzarria Wayne Coyne, mentre Vattene pur via è praticamente un Gino Paoli sul punto di decollare Mercury Rev. Per non dire di quella Clinique Veterinaire che manda allo sbaraglio uno sciroccatissimo Daevid Allen - proprio il santone canterburiano - tra fregole wave e synth-pop che frullano i primi XTC con Men At Work e - chessò - Kajagoogoo(!). In realtà è una strategia subdola, quella dei sette pseudo bolognesi: strizzare l’occhiolino, ammorbidire le difese per inoculare il germe dello spaesamento, dell’amarezza, dell’impotenza culturale e sentimentale. Depistaggi sonici e testuali - prendete le genialoidi impertinenze bifronte da Panella battistiano nella cupa Sudoku, oppure la tiritera ossessiva sulla beghina seriale in Zia Vienna - che ti circuiscono scioccarelli e poi ti foderano con l’angoscia ed il senso di perdita annidati tra memoria e quotidiano. Se un ruolo importantissimo lo gioca il canto laconico di Alessandro Fiori - nella cui felpata rassegnazione indovini una tensione inafferrabile e alla lunga stordente - il circo sonoro (registrato live in studio, ché il gusto ci guadagna) possiede la turgida sbrigliatezza che ben sappiamo, capace di misurarsi senza tema con guizzi Capossela (nella bislacca Piero, dedicata al grande Ciampi) e deliri pataprog (una Can I Have Bon Bon? che centrifuga Crimson, Generator e Stranglers in un brodo anfetaminico), inneschi kraut e valzerini fanciulleschi, soul funkadelico e irradiazioni cinematiche (vedi la cavalcata vintage di 81 Guerra Atomica, 84 Confronto Rivoluzione). Talentuosi e cazzoni, concettuali e istintivi, profondi e sbrigliati, talmente avanti da mordere i polpacci della tradizione sul punto di doppiarla, i Mariposa confermano di essere una delle più solide realtà indipendenti italiane. Ossia, una grande band. (7.6/10) Stefano Solventi recensioni / 81 ne un pagan (neo) folk piuttosto ruvido che, se di certo presenta qualche inflessione goticheggiante, trova nelle ballate più vitalistiche ed energiche i suoi punti di maggior forza. Mentre pezzi come The Final Myth e Love Will Save Us ricordano esplicitamente i Death In June di Rose Clouds of Holocaust, sono brani come la title-track a segnare in maniera più personale e convincente un esordio che, se non può far gridare al miracolo per originalità ed innovazione, si fa comunque ascoltare con piacevolezza (cosa non sempre così scontata, specialmente oggigiorno), tra chitarre acustiche suonate senza paura di far male alle corde (Cold Black Earth, A New Dawn), intermezzi militareschi (To the Floor!, cmIII) e nenie tribali come We Will Rise, pezzo che chiude l’album nonché vero e proprio jingle per i bambini della nuova alba. (7.2/10) Andrea Napoli Cursive - Mama, I’m Swollen (Saddle Creek, Mar 2009) G enere : indie rock La band di Omaha continua sulla strada della maturità imboccata magistralmente da The Ugly Organ e continuata fedelmente da Happy Hollow. Questo sesto album non fa che adagiarsi su quell’indie rock aspro ma allo stesso tempo melodrammatico, ammorbidendo ancor più le sonorità. Ma, se quei succitati lp avevano ancora un costruttivo legame con certe sfuriate emo(hard)core – caratteristiche della prima metà discografica dei Cursive -, Mama, I’m Swollen sembra ora recidere ogni radice, almeno dal punto di vista rumoristico. Infatti, esclusion fatta per l’elettricità noise dell’iniziale In The Now, le restanti tracce si muovono su ambienti più quieti e rilassati. Certo, non mancano quei peculiari saliscendi strumentali e improvvisi cambi di tempo che il malinconico cantato di Tim Kasher valorizza oltremodo, ma il risultato finale è quello di una morbidezza 82 / recensioni musicale mai raggiunta prima. E, anche se tale scelta stilistica può esser scambiata apparentemente per manieristica piattezza, dobbiamo ammettere che non dispiace affatto, anzi. Se a tutto ciò si aggiunge la sempre ottima lucidità lirica di Kasher, Mama, I’m Swollen si fa ben apprezzare rivelando la giusta misura adottata dai Cursive. (6.8/10) Andrea Provinciali Cut In The Hill Gang - Cut Down (Stag-O-Lee, Apr 2009) G enere : punk - blues Suonano blues del delta con piglio punk. Arrischiano svisate di slide insieme a tamburi pestati a sangue, stomp blues cacato dall’inferno e rock’n’roll vecchio come l’invenzione delle chitarre. Roba già sentita, vero? Eppure se mettete sul piatto Cut Down, scommetto che lo toglierete con enorme difficoltà per quanto gira alla perfezione. Cut In The Hill Gang è un trio americano, questo è il loro primo album ma hanno la storia alle spalle (e si spera anche davanti): dietro le pelli siede Lance Kaufman, mentre Brad Meinerding e Johnny Walker si dividono le chitarre, acustiche ed elettriche, oltre a vari altri ammennicoli a corda. Quest’ultimo in particolare non è di primo pelo, visto che era lui il leader dei Soledad Brothers, storica formazione di punk-blues di cui i CITHG ereditano ruvidezze stooges-oriented (in certi momenti vicini alla prima Blues Explosion, ma non ditelo a Walker) e amore per la tradizione a stelle e strisce, anche se più interessati – parole sempre del leader – agli aspetti più bluegrass e alle screziature country. Cut Down è la riedizione di un vinile split chia- mato Hung Up, ai cui 5 pezzi si aggiungono quelli di nuova composizione, inclusa una cover dai primissimi passi di White Stripes, amici per la pelle di Walker. Insomma, se siete in vena di chitarre urlanti e sing-along indimenticabili, bandiere sudiste e rock marcio e sudato fate vostro questo disco. (6.8/10) Stefano Pifferi Dan Zimmerman - Cosmic Patriot (Sounds Familyre, Apr 2009) G enere : folk blues L’uomo è di quelli strani, figlio incredibile d’un Paese scellerato e meraviglioso, percorso in lungo e in largo nei sessanta e rotti anni di esistenza terrena da Mr. Dan Zimmermann, dalla California all’Arizona, dall’Oregon al New Jersey, dove infine grazie ai buoni uffici di Daniel Smith della Danielson Famile ha concretizzato un’attitudine covata dai tempi di Elvis e lasciata macerare tra vicissitudini parecchio randage. Prima del contratto con Sounds Familyre, il buon Dan ha avuto modo di covare meditazioni filosofico/esistenziali nonché di affinare l’estro pittorico, talento che può constatare chi assiste ai suoi concerti, durante i quali le sue suggestive raffigurazioni vengono proiettate sullo sfondo a mo’ di light show. Questo Cosmic Patriot è il terzo album solista, quasi un decennio dopo Great Small (Sounds Familyre, 1999), ed è opera carezzevole e intensa, colma di sguardi da hobo saggio senza alterigia, di sentenze e profezie che non perdono la tenerezza, suonate come potrebbe un fratello parecchio stagionato che si è fatto la storia del pop-rock più o meno tutta intera, restandone ai margini, ovviamente sul lato americano del marciapiede. Ragion per cui quella voce chioccia e generosa da baritono stradaiolo si aggira tra ballate folk blues asperse gospel, soul e vaga psichedelia, coprendo in maniera ondivaga ma piuttosto puntuale l’arco emotivo/espressivo che va - poniamo - dai Crazy Horse più beceri (Lost My Technique) ai palpiti Tim Hardin (Steady Plodder). Nel mezzo capitano ballatine Hazlewood illanguidite Tindersticks (Everyday In My Heart), rumbe stregate da ipnosi cameristiche (Silence Is A Golden Mountain) oppure tentate da fregole tex-mex tipo Lanegan strattonato dai Calexico (Twilight Romance), per non dire delle ugge Roy Orbison felpate Lambchop di Lonely Way, del country-blues circa Tom Petty di Symbols In This World o dello sdrucciolare jazzy vagamente Tim Buckley di The Thing Itself. Archi, organini e fisarmoniche come le quinte di una pantomima arguta e struggente, bassi e contrabbassi a riempirti l’addome di spessa tensione, chitarre che non disdegnano il graffio e lo spasmo, il sospetto di uno scherzo freak sempre dietro l’angolo: Cosmic Patriot è un disco che non sembra vero eppure ci credi, proprio come il suo autore. (7/10) Stefano Solventi Dario De Filippo - Excès D’Identitè (Improvvisatore Involontario, Apr 2009) G enere : etno - jazz Un progetto per certi versi inedito quello curato da Improvvisatore Involontario con la pubblicazione di Excès D’Identitè, disco accreditato al duo Dario De Filippo (percussioni) e Misato Hayashi (marimba) Registrato dal vivo presso il conservatorio Erik Satie di Parigi a cavallo tra il 4 ed il 7 di aprile del 2008, l’album è uno spaccato di musica exotica contemporanea. Delizioso sin dai primi passi, si arricchisce di volta in volta di piacevoli accortezze, come nella sentita cover di Rumba Di recensioni / 83 Livorno dell’immortale Piero Ciampi. Grande la morbidezza nel tocco dei due interpreti e la loro grande abilità nel dialogare, ponendo le basi per un progetto che oltre a riconciliarsi con i padri dell’easy listening – Les Baxter su tutti – punta anche in direzioni moderne, sollevando dall’oblio l’opera impareggiabile di un personaggio off quale Richard Crandell (esegeta della mbira africana) che spesso ha collaborato con un autentico mago dell percussioni quale Cyro Baptista. Altrove – di soppiatto – si insinua l’idea globale di ritmo così come architettata da Max Roach coi suoi M’Boom. Del resto la comunione artistica tra un’artista giapponese ed uno siciliano non poteva che generare un visibilio di ritmi, assottigliando le distanze tra oriente e mediterraneo, in uno scambio materiale rispettoso ed immediato. Delizia. (7.2/10) Luca Collepiccolo Decemberists (The) - The Hazards Of Love (Rough Trade, Apr 2009) G enere : folk revival , protometal , pop Ci sono band che hanno raggiunto nel corso degli anni una sicurezza e un’esperienza tale, nel loro percorso artistico, che viene loro naturale immetterla in quello che fanno. È il caso della carriera decennale dei Decemberists e del deus ex machina Colin Meloy, il quale centra con l’ultimo The Hazards Of Love la sua quadratura del cerchio. Il pretesto per la scrittura dell’album è giunto da un vecchio EP di Anne Briggs dal medesimo titolo. Meloy se ne innamora e decide di scriverne una title track, dato che nell’EP mancava. Da qui l’incipit per il resto del disco, che oramai aveva preso la forma del concept intorno a quella song. Musicalmente The Hazards Of Love prende ispirazione dal british folk revival ibridato con il proto metal (echi di Led Zeppelin e Black Sabbath) accomunati secondo il Nostro da un medesimo senso della narrazione e dell’ambien84 / recensioni te, e dal superamento della scrittura in prima persona. Sperimentare con lunghezze importanti e temi espansi non è in realtà una novità per la band, che già da The Tain (2004) aveva usato il mito irlandese, mentre nel precedente The Crane Wife si era trattato di un antico racconto giapponese. Qui il valore aggiunto è il risultato mai barocco ma molto equilibrato, ambizioso ma non autoreferenziale. Ben arrangiato e strutturato in sezioni, con i temi concettuali e musicali che vengono ripresi e nel finale si mescolano come ogni rockopera che si rispetti. Quindi folk, elementi protometal e prog ma anche pop a fare da collante all’intera struttura musicale, che ruota concettualmente intorno al racconto che vede protagonista una donna, Margaret, che rimane vittima di una bestia proteiforme, il suo amato William, la regina della foresta e un libertino pericoloso. Classici temi da leggenda quindi, come era naturale. Il disco è stato realizzato con l’aiuto di numerosi ospiti, che vanno da Shara Worden (My Brightest Diamond) e Becky Stark (Lavender Diamond), per le parti cantate femminili, a Jim James dei My Morning Jacket e Robyn Hitchcock in alcuni brani. Prevale il senso narrativo, l’ampiezza da suite, ben resa dalle ospiti femminili, sia quando riprendono Anne Briggs nella vocalità (Becky Stark in Margaret In Captivity che sa dell’ariosità di una Kate Bush), sia quando si sente l’impeto Arcade Fire come nell’articolata The Wanting Comes in Waves / Repaid cantata dalla Worden. (7.4/10) Depeche Mode - Sounds Of The Universe (Mute, Apr 2009) G enere : S ynth P op Dresda - Pequod (Marsiglia Records, Dic 2008) G enere : post - rock / ambient La discreta maturità dei Depeche ’00 continua con Sound Of The Universe, dodicesimo album a praticamente trent’anni dall’esordio (del 1980), e nuovo sforzo in studio a riprendere l’ormai inossidabile format dello spiritual synth pop che li accompagna dai tempi di Violator. Abbandonata la componente noiseggiante, e gli aspetti cyber rivisti laptop, il nuovo lavoro converte in oscurità e meditazione la spettacolarità emozionale del fortunato predecessore: se la giocano testi morbosi e visioni notturne ma sono gli arrangiamenti ’70, grazie al recupero – sbandierato a stampa e dispacci – di synth analogici, vecchi sequencer e drum machine, a far parlare di sé. Nonostante le dichiarazioni di Gahan in perfetto stile U2, non è una svolta “sperimentale” bensì il proverbiale aggiustamento di produzione su quanto consolidato nel recente passato. L’eccezione di Peace, un curioso mix tra Jarre e Kraftwerk filtrato certe cose Kraut non sposta quanto detto, salvo ammettere una scrittura automatica in oltre metà della scaletta: standard i brani scritti da Gahan (meglio forse quelli dell’ultimo solista), soprattutto poca ispirazione per Gore, nonostante una Jezebel a galleggiare nell’Oxygen jarriano. Una botta e via infine per le liriche di Wrong, singolo gothic tra blues e gospel dal clip decisamente più sperimentale e arty, contraltare di un sound che, non dimentichiamolo, sta vivendo una seconda giovinezza in una manciata di gruppi 00s (Bloc Pary, Tv On The Radio fino a, perché no, Interpol e Peter Bjorn And John). Lo spiritual (synth) pop è uno stile che può dare ancora molto ma le tentazioni uber tech à la Trent Reznor/Nine Inch Nails sono sempre il monito perfetto per questi casi. E’ il desiderio d’immortalità la base di ogni decadenza. (6.5/10) Li si potrebbe liquidare dicendo che fanno una via di mezzo tra un post-rock etereo e certa ambient ricca di field recordings, ma sarebbe sminuire la valenza artistica di questi Dresda da Genova. Che invece si guardano bene dal non cadere preda dei maneggi auto-distruttivi tipici di chi traffica coi suddetti generi generando spesso prolissi intellettualismi autoindulgenti, per scegliere una terza via. Quella delle suggestioni a vocazione cinematica, delle indolenze torbide e malinconiche, delle dinamiche ariose ma al tempo stesso misurate, nell’ottica di un suono che segue le asperità del terreno senza barcollare e favorisce il naturale evolversi della melodia. Lo scotto per amori giovanili non ancora sopiti si paga solo con l’ultimo dei cinque brani in scaletta – Attraverso lenti colorate, post rock, certo, ma imponente e di ottima caratura – mentre tutto il resto del programma si traduce in esplorazioni di pianoforte su torpori scenografici vagamente industriali (Città di vetro), rumori su chitarre minimali (Il grande macchinario della notte), incombere tribale a metà strada tra Joy Division e For Carnation (L’eterno ritorno dell’uguale), reading à la Massimo Volume con velleità spacey (La stanza e l’orologio). è l’estrema varietà stilistica e la cura maniacale per il dettaglio a salvare dal limbo delle produzioni mediocri questo Pequod e a trasformarlo in un lavoro brillante – il disco è scaricabile gratuitamente dal sito dell’etichetta che ne cura la pubblicazione, all’indirizzo www.marsigliarecords.it/m030.php –, sulle basi anche di una scrittura che fa della lentezza un marchio di fabbrica e dell’intensità una questione di vita o di morte. (7.2/10) Teresa Greco Edoardo Bridda Fabrizio Zampighi Droning Maud - The World Of Make Believe (Udu Records, Ago 2008) G enere : new wave Bravi a contestualizzare senza cadere nel tranello recensioni / 85 della scopiazzatura, bravi a gestire uno stile ispirato ma non invadente, bravi a suonare al disco d’esordio come una band con dieci anni di storia alle spalle. Droning Maud da Rieti, ovvero lirismo new wave senza tanti orpelli abbonato a chitarre elettriche, basso, batteria. Una formula che dal punto di vista della varietà strumentale forse non promette molto, ma che riesce a dare il meglio di se quando si tratta di lavorare di cesello sulle melodie. Queste ultime sempre puntuali, spiccatamente anni ottanta, armonicamente elaborate. Tanto che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare osservando il peso specifico dei fattori in gioco, non sono soltanto i soliti Joy Division a emergere dalle sette stazioni di The World Of Make Believe, ma una serie di rimandi diversissimi tra loro. Tra i tanti, i R.e.m., le chitarre di The Edge, gli Smiths, ma anche inaspettati accenti melodici new romantic. Materiale comunque, in linea con l’immaginario di riferimento e capace di conquistare credito senza grosse difficoltà. (6.9/10) Laisse Nous La Mer e Je Dors Debout, così come la trepidazione tesa di Monsieur Paul). Come avrete intuito, quello che nell’esordio sembrava un vezzo o una più o meno estemporanea bizzarria, diventa qui un elemento basilare: i testi difatti sono vergati in francese, tutti ad eccezione della conclusiva Nessuno Mi Risponde, che poi è uno strumentale col suo cinematico incedere d’archi, piano e tastiere. L’effetto è un pizzico straniante ma in fondo tutto si tiene, non sembra affatto la posa posticcia di chi vuole distinguersi ad ogni costo, ragion per cui forma ed espressione sono libere di travolgerci senza intoppi. Può dirsi riuscita anche la metabolizzazione dei retaggi postpost à la Giardini Di Mirò, un effluvio che aleggia ad esempio nelle inquietudini seventies di Qu’est-Ce Que Vous Voulez?, mentre in Mémoire Aide Moi ne resta appena traccia omeopatica sotto la fiabesca trama di glockenspiel, archi e flauto. Disco che convince per urgenza, personalità ed ispirazione, cui fanno buon gioco gli interventi di Davide Arneodo (violino nei Marlene Kuntz), Francesco Di Bella (chitarra e voce dei 24 Grana) e soprattutto di Luca Fadda coi fraseggi irrequieti della sua tromba, ingrediente quest’ultimo tanto prezioso da sembrare - da augurarci - organico. (7.4/10) Wasn’t The Time) à la Pretenders, lubrificando una rumba di mescalina sixties (I Love Planet Earth) oppure di miele come certa Feist (Tiny Waist) per poi imbastire con Don’t Let It Happen una plausibile e garbata nipotina della stoniana Beast Of Burden. Il tutto senza mai perdere il polso della situazione, la padronanza di una calligrafia che non smette di somigliare all’autriceu2s ezzevtenders Stefano Solventi Fabrizio Zampighi El-Ghor - Merci Cucù (Seahorse Recordings, Mar 2009) G enere : rock Due anni dopo il bel debutto Dada Danzé, i partenopei El-Ghor ribadiscono le buone impressioni con Merci Cucù, album che li vede stringere più saldamente le redini (non a caso si producono da sé, coadiuvati dal “solito” Paolo Messere e da Alessandro D’Aniello) cavalcando una fregola wave che strattona l’estro autoriale sempre rivolto alle vicende d’oltralpe e anche più sù, scomodando cioè trafelati anelli di congiunzione tra Noir Desìr e dEUS (si prenda il lirismo febbrile di 86 / recensioni Eleni Mandell - Artificial Fire (Make My Day, Feb 2009) G enere : pop rock C’è un motivo preciso per cui Eleni Mandell, cantante e chitarrista californiana con già un pugno di album alle spalle per l’indipendente Zedtone, mi sembra la tipica cavallina di razza. Ed è questo: nelle quindici tracce di Artificial Fire si permette di sciorinare marcette brass carezzevoli e argute come una Norah Jones corrotta da Cat Power (Right Side), brusche sgarberie da cuginastra disinvolta di Liz Phair (Cracked), allusiva ruvidità errebì (la title track), scorrerie frizzantelle (Bigger Burn) e sdilinquimenti dolciastri (It recensioni / 87 cimenta anche al canto in Ukimwi) e la star del Benga Opiyo Bilongo, frontman carismatico che offre una prestazione superlativa in questa nuova fatica da studio. La bontà degli Extra Golden risiede nella personale interpretazione dei canoni occidentali ed africani, làddove le musiche vengono sovrapposte in un gioco di specchi sempre intelligente ed autentico. Non ci sono tentazioni afro-funk o numeri propriamente soul, i suoni vengono sovrapposti in espansivi incastri che uniscono mirabilmente blues ed highlife, complesse figure ritmiche ed anticaglie del paese nero. Meravigliosi anche i brani in lingua yankee come la title track o Fantasies Of The Orient a disegnare una via oltre le schermaglie del black-rock. Deliziosi connubi analogici, che riproducono la sostanziale attitudine live della band. Che proprio nel mese di marzo ha reso omaggio ai suoi padri spirituali imbarcandosi in un tour inglese a nome African Soul Rebels, dividendo il palco con Baaba Maal e Oliver Mtudkudzi introduceva le magie del combo ora a tutti gli effetti multirazziale. (7.4/10) Luca Collepiccolo Fabio Mercuri - Di tutto quello che c’è (Novunque, Mar 2009) G enere : songwriting Arriva al disco di debutto il salentino Fabio Mercùri, dopo una lunga attività nella scena musicale italiana come chitarrista e numerose altre collaborazioni. Tra musica d’autore e pop, psichedelia e una cinematicità di fondo, gli undici brani dell’album colpiscono per un senso della spazialità sonora e per arrangiamenti molto curati; la suggestione è di fatto la chiave di volta per accedere nell’universo del musicista. Suggestione nascosta nelle pieghe dei testi, piccoli affreschi di quotidianità (Accade), riflessioni sul senso del nostro essere (la title track), evocazioni tra archi e batteria appena accennata (il singolo Alti88 / recensioni tudini), il senso anche delle piccole cose (Particolari), del riappropriarsi del tempo a dimensione umana (l’appello contro la velocità ne L’invasione delle biciclette). Un universo compiuto e suggestioni sparse che ci hanno ricordato le immagini dei migliori Baustelle, Afterhours e Perturbazione, la musicalità di Morgan e Moltheni, oltre che il senso dell’immaginifico di Tricarico, con cui Mercuri ha collaborato. Con la partecipazione di diversi artisti protagonisti della scena indie rock italiana, da Paolo Agosta produttore del disco, a Roberto Dellera, Enrico Gabrielli (Aftehours) e Paolo Iafelice (produttore tra gli altri di Pacifico). (7/10) Teresa Greco Fabrizio Consoli - Musica per ballare (Novunque, Apr 2009) G enere : songwriting , rock Con all’attivo una lunga e variegata carriera di session man sin dagli Ottanta e poi in proprio dal decennio successivo, Fabrizio Consoli approda ora all’ultimo Musica per ballare. La sua cifra stilistica si nutre di suggestioni per una musica contaminata colma di racconti visivi (Una rosa, Musica per sordi), nei quali l’amore profondo per il racconto si fonde alla musica. Un misto tra jazz, canzone d’autore e Sud America, in cui la base jazz rock si contamina via via di elementi diversi mantenendo una propria unità. Tra Paolo Conte e Vinicio Capossela per l’affabulazione, con storie anche autoironiche, con alla base anche un senso profondo di malinconia “sudamericana”; l’album raccoglie bozzetti in bilico tra voglia e desiderio, nostalgia ed esperienze più colorite. Da segnalare un omaggio a Cochi e Renato con il classico La canzone intelligente, ballad rallentata che mostra tutta la dolenza profonda e l’ironia di Consoli. (6.8/10) Highlight Matteah Baim - Laughing Boy (DiCristina Stair Builders, Apr 2009) G enere : cantautoriale dil atata Matteah Baim ha la capacità di essere delicata e altera allo stesso tempo. Ci sono dei dischi che appena li si inizia ad ascoltare preannunciano l’impegno che dovremo dedicare loro; Matteah ci chiede un impegno con grande discrezione, quasi a bassissimo volume. Laughing Boy è un album chiaro/oscuro e raffinato, come se Nico avesse tentato una dimensione più pop, in qualche modo AOR. Come se Cale semplificasse le sue tecniche compositive e di messa a sistema di uno stato d’animo avvicinandole alla canzone d’autore. E forse il succo di questa musica è cantautoriale, nulla di più. In realtà tutto, produzione, arrangiamento, quello che contiene questo album è fatto da Matteah, ex membra dei Metallic Falcons, pittrice, originaria del Wisconsin, oggi newyorkese - e qui al suo secondo disco solista, ricco di archi e di ambienti, di pelli simili alla batteria dei Dirty Three di …Apollo – che ci figureremmo ad accompagnarla – e di avventure in qualche modo spirituali (Big Cat). Il terreno su cui si lavora di cesello e atmosfere è la dilatazione, l’arrangiamento, l’incastro di carezze attorno alla voce calda e però mai riscaldatrice della Baim. La delicatezza, il tocco di Birthdays, traccia 4, sono spiazzanti, quando ci aspettavamo un’oscurità crescente, anticipata dalle lande di Pagoda, confermata del resto dai brani seguenti – a volte con trovate armoniche davvero riuscite, come la piccola dissonanza del refrain di Wildness. Questa Nico più dolce replica il fascino teutonico della freddezza con melodie e scenari sonori che nulla hanno della durezza degli zigomi della algida nibelunga di Desertshore. Lo fa, cosa che stupisce data la lunghezza del disco, catturando a diversi stadi lo stupore dell’ascoltatore; lo fa isolare, gli fga abbandonare le attività che stavano avendo corso mentre iniziava l’ascolto; rubando il tempo al tempo, da un certo punto di vista, sicuramente slegandosi da un’idea di brevitas o di lunghezza. Le canzoni appaiono e poi scompaiono, senza che le si riesca a quantificare, per numero e tempo di ciascuna; senza annoiare; scolpendo nella freddezza del ghiaccio delle forme avvolgenti, accoglienti, quasi amichevoli. Un risultato già di per sé abbastanza sorprendente. (7.3/10) Gaspare Caliri Teresa Greco recensioni / 89 Filastine - Dirty Bomb (Soot, Feb 2009) G enere : fragment hip - hop Sembra stare al mondo per simbolizzare il villaggio (post) globale, Grey Filastine: nato a Seattle, risiede attualmente a Barcellona, ma la sua è un’attitudine da eterno giramondo. La quale finisce, inevitabilmente, per influenzare questo suo secondo lp, in cui coabitano Arabia e Bollywood, dubstep e baile funk, tecnologia e tribalismo. Che esso veda la luce per la Soot, etichetta di DJ/Rupture, offre ulteriori conferme circa l’assenza di frontiere geopolitiche e mentali che si respira in questi quarantotto minuti. Al loro posto troviamo una vitale urgenza di raccontare - e denunciare - cosa accade nel mondo, scegliendo di volta in volta il panorama sonoro più coerente all’insegna del meticciato stilistico. Non fosse troppo spesso appesantito da tracce strumentali che faticano a trovare autonomia (eccezione gli archi “falsi” dell’apertura Singularities, l’ipnotica Blung e la Spagna orrorosa raffigurata da The Sinking Ship) di Dirty Bomb andrebbe senz’altro consigliato l’acquisto. Così non è e purtroppo spiace, perché quando la messa in scena è ben focalizzata, Filastine ostenta idee che buona parte dei colleghi può sognare: in Con Las Manos En La Masa un loop sudamericano funge da sfondo al rap efficace dell’argentina Malena D’Alessio e From The South To The West... sparge paranoia orientaleggiante; Fitnah è un flamenco mutante e Hungry Ghosts conduce il two-step lungo allucinate camere d’eco. Ben vengano comunque dischi come questi, perfettibili contributi al dibattito sull’estetica del frammento. Nel bene e nel male, s’intende. (6.5/10) Giancarlo Turra Fischerspooner - Entertainment (Lo Records, Mag 2009) G enere : retrofuture dance pop Una nuova avventura sonica e remi in barca per 90 / recensioni i due amanti del synth. Se qualche anno fa i ragazzi avevano missato i mondi del pop e del floor con hit del calibro di Emerge, oggi non si scrollano di dosso il passato, anzi ci annegano con un misto di citazioni proverbiali à la Depeche Mode (Money Can’t Dance, e ricordiamoci pure le maldestre prove dei Bloc Party), estetiche 80 (In A Modern World), e altrettanto istituzionali copia-incolla man machine e Moroder (Supply & Demand) quando non auto riproporre se stessi tuot court (The Best Revenge). Che questa ennesima ondata di retrofuturismo si stia facendo sentire forte in un determinato electropop d’autore è ormai assodato (vedi il ritorno di Miss Kittin & The Hacker, Röyksopp, Client, Dat Politics e altri), tuttavia come difendere un progetto che si è ridotto a una raccolta di cliché primi Duemila? Non sarà qualche singoletto accattivante a convincerci del contrario come è piuttosto scoperta la mossa del come back proprio sull’onda dello stesso revival che a primi 00s avevano (e meglio) contribuito a istituzionalizzare. Prodotto scaduto. (5/10) dai preziosi lavori in catalogo. Materiale registrato sul campo, per essere precisi in alcune fabbriche asiatiche, prese dirette successivamente concesse alla tattile lettura spaziale e all’abilità in risonanza dell’artista Gendreau; mentre a Lopez, sempre attento al profondo ascolto del mondo, spettano i soggetti e le fonti trattate con unidirezionalità e stasi; certamente distanti le origini sonore dei lavori più recenti del compositore, ma non per questo prive di vibrante sensorialità. Uno spazio, quello di Gendreau, inseguito tra cambi di volume e tonalità, che attinge al riverbero tra assenze di fondo o ciclicità in eco, quelle proprie delle macchine o dinastro trasportatore (T921); senza mai spogliarle d’identità sonora, l’artista le consegna a nuova vita attraverso un certo naturale senso del “ritmo”(M928). Atteggiamenti decisamenti più sommessi quelli di Lopez, tra oscillazioni, circolarità o pulsazioni (D156). Lettura ambient per D138, che tra fruscii, abissi di profonda privazione sonora e brusche rotture, riesce con maniacale e ipnotica semplicità a ottenere molto. Nonostante il quadro sonoro e gli elementi primari siano già conosciuti, si tratta di un lavoro interessante per l’indagine sul rapporto tra spazio e suono. (6.5/10) Sara Bracco Marco Braggion Francisco Lopez/Michael Gendreau - Tddm (Sonoris, Set 2008) G enere : minimalismi ambient Facciamo un passo indietro per soffermarci su Tddm, collaborazione del portoghese Francisco Lopez con il noto compositore elettroacustico Michael Gendreau. Risalgono ai periodi tra 1992 e il 2004 i quattro elementi del doppio CD pubblicato nel 2008 per la label Sonoris, sempre prodiga di attento riguardo alle uscite proposte, come si può notare Full English Breakfast - Self Titled (Scratchy, Apr 2009) G enere : A vant lo - fi pop E’ probabile che se scrivete Full English Breakfast su google vi appaiano proprio le immagini del booklet di quest’album omonimo degli omonimi in questione che, badate bene, non sono quelli di Itchy Fingers (un’altra cosa, altri anni) ma una one man band. Parliamo dell’esordio di progetto in solitaria strampalato e low fi, strambo e tradizionale come ci piacciono certe produzioni made in UK. Fate conto humour à la Beta Band misto certe pose chitarristiche del Coxon di Park Life e, sempre dai “suoi” Blur, troviamo pure biscotti analog vintagetronici e una bella teiera alle erbe space della citata band ora defunta. Naturalmente sono english e, in questi casi, dell’avant spettacolo non possono fare a meno. Naturale che le cose migliori vengano fuori proprio da questo box. Spetz farcisce di vaudeville cazzone e fumato alcune scorribande da Sergente peperone nello spazio ficcando una riuscitissima Cake Stand, praticamente come sentire la Beta Band post punk. Altrove una Duster piglia da Snakefinger proprio quell’anello di congiunzione con tutto questo, il dada rock. Chitarra eccentrica e voce filtrata, entrate e uscite di effetti e non solo: Duster è anche una glam song perché un inglese non può fare il punk senza rinunciare al Duca come dire: glam e avant-straccione sono la stessa cosa, l’una l’aggiornamento dell’altra. Zappa? L’uomo ama pure lui figuriamoci, quando non si diverte a citare Canterbury con quei moog all’ora del Tea ti spara una Fish Tank Bubbles (Shining On), salvo poi ritornare a giocare nel naif prendendo in giro i francesi (Winder Kills The Clock). Niente male l’arte del collage se l’ispirazione e l’erba regalano un prodotto come questo. (7/10) Edoardo Bridda Giancarlo Frigieri/Mosquitos - In Love (Black Candy, Feb 2009) G enere : rock Tu chiamali se vuoi outsider. Oppure, semplicemente, Giancarlo Frigieri e i Mosquitos sono gente che ama fare rock prima che stare nel cono di luce, ragion per cui questo incontro - piuttosto imprevedibile a dire il vero - alla fine suona parecensioni / 91 recchio naturale. Ascolti In Love e ti immagini l’atmosfera nello studio, il riconoscersi a pelle indovinando la direzione delle vibrazioni nel momento stesso in cui sterzano, chiudendosi in un compartimento stagno dove regna un’intensità che è l’unica cosa che conta, scrigno che si basta col suo inafferrabile tesoro di sincerità liberatoria. In ragione di ciò, non stupisce che il principale riferimento sia Mr. Howe Gelb, non tanto per lo stile e il mood (comunque talora immediatamente riconducibili al menestrello di Tucson, vedi Courage In Thrift Account e la title track) quanto per quel senso di calda frugalità, per quel fare che si nutre di rapporti umani prima che professionali, e siano benvenute le imperfezioni nel caldo intreccio delle corde (una Rickenbacker, una Gibson, una Gretsch e un basso Fender: una quadratura timbrica che non si fa mancare nulla). Capita così che per ogni gravità (il ballatone Neil Young a cuore nero di A Ship) ci sia una sbrigliatezza (quella Mr. Carelesness che spedisce i Lambchop sul furgoncino del jingle jangle), ad ogni ombroso languore (il Lou Reed immerso nel vernel di She Sticks Like Glue) faccia eco un guizzo ruvidello (una Pravda che rimesta da qualche parte tra Sebadoh e Steely Dan), espiando - si fa per dire - le dolciastre evasioni La’s (The Matchless Dream Of An Unsuitable Romeo) e Blue Ash (Horoscopausen) con l’ovattato profluvio psych della conclusiva Like Aliens. Gran bel disco. Che fa ben sperare anche per il prossimo lavoro solista di Frigieri. Imminente e gosh! - in italiano. (7.2/10) Stefano Solventi Ginevra Di Marco - Donna Ginevra (Materiali Sonori, Apr 2009) G enere : traditional folk Dopo il riuscito Puerto Libre per la Di Marco ancora un viaggio nel profondo delle tradizioni e dei margini, recuperando brani come frammenti 92 / recensioni di Storia più o meno sommersa e dimenticata. Passando da Napoli a Cuba, dalla Bretagna al Lazio, dalla Toscana al Cilento e ai Balcani, la voce di Ginevra sposa con trasporto e generosità il vitalismo delle proteste popolari (l’ottocentesca ma attualissima - fin dal titolo - Il crack delle banche), le doglianze e le meditazioni sulla difficile arte di stare al mondo (una struggente In Maremma, il malanimo ipnotico di La Maza), i volti diversi e complementari dell’amore (la trascinante Usti Usti Baba, la serrata Au Bord De La Fontaine), rivelandosi interprete a tutto tondo nella screanzata M’aggia curà e nella fervida Le figliole. La produzione artistica del “solito” Francesco Magnelli determina arrangiamenti ingegnosi ma essenziali, rispettosi delle radici ma senza timore reverenziale, valga per tutti ciò che accade in Ali Pasha, canto storico albanese avviluppato in ubriacante trama gitana con venature jazz. Da sottolineare infine l’inclusione in scaletta di due pezzi firmati Tenco (una Io sì dalle azzeccate derive sirtaki) e Pino Daniele (una trepida - e non potrebbe essere altrimenti - Terra mia), di fatto poste sullo stesso piano delle altre, quasi si intendesse riannodare e un po’ rimpiangere quel legame tra canzone d’autore e vita ad altezza d’uomo un tempo saldissimo e oggi parecchio più labile. Prendetelo come un affascinante, a tratti divertente, grido d’allarme. Se vi pare. (7.1/10) Stefano Solventi Grand Duchy - Petits Fours (Cooking Vinyl UK, Feb 2009) G enere : I ndie pop rock Ancora lui? Sì, ancora lui: Black Francis, il Grandepixies. Ma stavolta non è in solitaria come le sue recenti uscite: è sua moglie Violet Clark ad accompagnarlo in questa avventura ispirata al Granducato del Lussemburgo (eh?!!), Grand Duchy. Comunque, ragione sociale a parte, paradossalmente è proprio la componente femminile a rappresentare il valore aggiunto dell’album. Infatti, Petits Fours si muove su un elettrico indie rock contrappuntato da un elettronica mai invasiva ma strutturale, dando ampio spazio alle melodie. E quest’ultime, quando assumono le coordinate vocali di Violet, riescono a coinvolgere con la loro graziosa morbidezza: come avviene per esempio in Lovesick, in Seeing Star e in The Long Song. Anche se i risultati migliori vengono raggiunti quando le due dolci metà si fondono duettando: Fort Wayne, l’episodio più riuscito, è emblematico di ciò. Petits Fours non sconvolgerà le sorti del rock, ma solo per il fatto di evocare Stereolab, Grandaddy e Star con in filigrana la genialità dei Pixies e per la sua capacità di contagiare morbidamente è da annoverare come una delle migliori produzioni post-Pixies del capofolletto. (7/10) Andrea Provinciali Gui Boratto - Take My Breath Away (Kompakt, Mar 2009) G enere : minimal deep IDM Le strade deep di Boratto si fanno anima. Dopo il non troppo entusiasmante Chromophobia, il ragazzo Kompakt si riporta nella scia del clubbismo chic che Andy Stott e Apparat hanno reso un marchio per il nuovo millennio. La sua proposta è fatta di casse dritte senza scrupoli, di bassi caldi e di stanze ossessive, al limite della catarsi. Questo sentimento che cola dai solchi del nuovo CD è una dichiarazione d’amore al minimalismo da dancefloor e anche se i patterns ritmici non hanno l’impertinenza dell’hardcore o la poshyness del retrofuturismo nu-rave, l’ortodossia tutta Berlino paga. Vedi le bordate acide in coda ad Atomic Soda, gli echi melo à la Circlesquare di Opus 17, il vocoder che richiama i primi esperimenti di Erlend Øye (No Turning Back), le tastierine 80 dei Depeche Mode (Azurra) e altri esercizi di stile che contribuiscono a creare una deep cameristica, ai confini molte volte con l’IDM (Les Enfants, Besides). Un ritorno -per vie meno battute dai più- alle estetiche dei novanta del dopo-E, trafitto dall’identità berlinese. La via è tracciata, accomodiamoci in poltrona. (7/10) Marco Braggion I Monster - A Dense Swarm Of Ancient Starsdh (Dharma, Apr 2009) G enere : pop rock Col fortunato nonché palindromo secondo album NeveroddoreveN (Dharma Records, 2004), gli inglesi (di Sheffield) I Monster ribadirono quanto già palesato col singolo Daydream In Blue (Cercle Records, 2001): una straordinaria propensione per i pezzi da soundtrack pubblicitaria, avvincenti e adesivi malgrado la - anzi forse grazie alla - irriducibile stranezza che li pervadeva. Col terzo album A Dense Swarm Of Ancient Stars la calligrafia se possibile si frammenta ulteriormente, pur obbedendo ad una strisciante ma tangibile maturazione. Ne esce un pop che, pur sprimacciato da influssi vaudeville, fregole electro, languori filmici e ciondolamenti onirici, suona più solido, lasciando intravedere una sarabanda di rimandi ubriacanti per varietà ma fin troppo riconoscibili. Ferma restando la brillantezza delle intuizioni e l’estro frizzantino delle soluzioni soniche, alla lunga l’eccitazione lascia il posto ad un compiacimento auditivo gradevole ma tutto sommato privo di sussulti. Privo di mistero, aggiungerei. Detto del dadaismo scenografico vagamente Beatles che informa l’introduttiva The Circus Of Deaf e Dear John, il programma scomoda sovente rimandi alle angolose bizzarrie Blur (She’s Giving recensioni / 93 Highlight Qemists (The) - Join The Q (Ninja Tune, Feb 2009) G enere : electrodub mesh - ravecore Quando meno te l’aspetti esce qualcosa di necessario. Il disco dei Qemists è quello che si dice una rappresentazione fedele dello zeitgeist 09 che rivendica la tradizione hardcore. E se qualcuno l’ha già rispolverato nei territori più affini al ballo e al dubstep (Zomby), qui ci si sposta sul drum’n’bass mescolato con il rock. Gocce di sudore e pogo, cose che ricordano la stagione dei RATM e che innestano le lezioni di Roni Size e dei suoi Reprazent per la presenza live. Quei draghi che suonavano tutto dal vivo si sentono nelle batterie di questo disco che ti spara in faccia tutto senza mediazioni, la copertina che ti ricorda la Washington dell’altro sentire hardcore (Youth of Today tanto per fare un nome), le chitarre che ritornano e che si mescolano con il drum. Non più solo bass insomma. Qua si spara alto e si rompe il muro del sintetico con una vitalità nuova, non ci si scandalizza più se la palette sonora proviene alternativamente dall’analogico o dagli spippolamenti di macchine da nerd occhialuti. La lezione di Missil e dei Prodigy è stata metabolizzata (il crescendo di svisate acide di When Ur Lonely), ma non solo. Qui si rivanga anche la stagione degli Asian Dub Foundation (Got One Life), che è come dire roots giamaicane innestate con il techno-dub. Insomma una presa di posizione che mescola mescola mescola e dipinge ancora una volta un quadro mutante, un’identità globale e meticcia già profetizzata da The Bug. Ninja Tune, chi l’avrebbe mai detto. (7.5/10) Marco Braggion Me The I), alle caligini dream pop stile Ooberman e Delgados (vedi la Sickly Suite), al glam cibernetico di stampo Goldfrapp (le screanzate A Sucker For Your Sound e Lust For A Vampyr), bazzicando neo psichedelia screamedelica (Escape From New Yorkshire) e spasmi wave balcanizzati (Insects), mentre Cool Coconuts trasfigura bossanova con lasciva disinvoltura e Goodbye Sun a tratti sembra ipotizzare un Jens Lekman rapito dagli Air (!). Una intrigante sarabanda di espedienti, certo, 94 / recensioni però il guizzo più sbalorditivo arriva con la conclusiva The Best, cover quasi irriconoscibile del celeberrimo pezzo di Tina Turner, spianato da un talkin’ androide tipo la Fitter Happier radioheddiana dopo un overdose di prozac. Questi I Monster insomma sono così divertenti e così tutto sommato evitabili. State certi che li ribeccherete in qualche spot. (6.3/10) Stefano Solventi Il Maniscalco Maldestro - Panna, polvere e vertigine (A Buzz Supreme, Mar 2009) G enere : A rt rock Durante gli anni trascorsi dal giustamente lodato esordio, il Maniscalco Maldestro è diventato una statua d’alabastro (opera dell’artista concittadino Alessandro Marzetti), ha cambiato bassista e, dopo un 2008 onusto di vittorie (Heineken Jammin’ Contest, Italia Wave Band Toscana e Contest del MEI), ora dà alle stampe il suo secondo disco, pubblicizzandolo con una caccia al tesoro virtuale dispiegata sui vari Facebook, YouTube, MySpace ecc... a dimostrazione che lo spirito che animava il precedente lavoro è rimasto lo stesso. Rispetto all’esordio, però, non sono cambiati solo i colori della mascotte: l’ensemble volterrano ha infatti ripulito il cantato da alcune occasionali sbavature vibrazionsubsonicoidi (con annesso eccesso di sdrucciole) che inficiavano qua e là la riuscita dei brani, portandolo più vicino semmai alla bella impudenza del Teatro degli Orrori; mentre musicalmente ha preso più saldamente in mano il tourbillon di stili che è ormai il suo marchio di fabbrica centrandolo su un robusto rock classico virato QOTSA da cui partire con destinazione ovunque. Dal boogie sulfureo dell’iniziale La mia vita in ozio alla conclusione con una versione “estesa” e molto più folle di Sorridi al muro, i nostri trovano il modo di mantenere la rotta passando per ribollii Alice in Chains, valzer un po’ francesi un po’ Capossela (spesso anche nella stessa canzone), una Ogni giorno che mette insieme Gogol Bordello e Bobo Rondelli, spiegandoci anche che la jungle e lo ska non sono così lontani (la citata Sorridi al muro) e che se Les Claypool collabora da anni con Tom Waits un motivo c’è (Filastrocca scirocca). Panna, polvere e vertigine è il disco di un gruppo in piena salute e maturità artistica, con le quali padroneggia efficacemente la lezione dei campioni della follia rock rimanendo a modo loro “cantabili”, quasi una versione Stones dei “Beatles” Mariposa. Un confronto cui si assiste con estremo piacere... (7.2/10) Giulio Pasquali Jackie ‘O Motherfucker - The Blood Of Life (Fire Records, Apr 2009) G enere : psych folk I Jackie O’ Motherfucker debuttano su Fire Records con una sorta di live registrato negli studi della Radio VPRO di Amsterdam. In scaletta alcuni classici recenti della band, un traditional intitolato The Lost Jimmy Walen e un brano nuovo che è quello che dà il titolo al disco chiudendolo in piena gloria psichedelica con i suoi 17 minuti abbondanti. E’ un piglio morbidamente bucolico, quasi hippie, certamente psych-folk quello di questa session live, che si allinea evidentemente al corso nuovo intrapreso a partire da Flags of the Sacred Harp. Qui semmai si aumenta sensibilmente il tocco folk. Le chitarre acustiche pizzicate con arpeggi circolari e un canto da folkster della buona per Tom Greenwood rileggono brani chiave degli ultimi dischi come Valley Of Fire o Hey! Mr. Sky, rendendo la scaletta forse un po’ troppo monocromatica. Potremmo a questo punto dire che tutto è un po’ fine a se stesso o che questo disco può essere considerato come una fotografia unplugged della band, laddove America Mystica ne riprendeva il lato elettrico. Alla fine quello che si ottiene è un’oretta scarsa di buon folk psichedelico, di quello che a Matt Valentine sembra non interessare più (6.8/10) Antonello Comunale recensioni / 95 James Orr Complex - Com Favo (Rock Action, Apr 2009) G enere : folk - blues Immaginatevi un John Fahey in gita a San Paolo, in Brasile. O per essere più precisi, immaginatevi uno scozzese di Glasgow innamorato del fingerpicking in gita a San Paolo. Come dire, il blues che incontra il tropicalismo e mescola la tradizione nera anni ‘30 e ‘40 a una saudade tutta sudamericana, il folk più scarno a un’insolita ampiezza di vedute armoniche. Nulla di ostentato, nessuna raffinatezza d’autore per palati finto-intellettuali e nemmeno strutture troppo riconoscibili, ma una naturalezza espositiva che si limita ad accennare il cognome della famiglia adottiva, senza descriverne la quotidianità. Lasciando invece che le redini del comando rimangano a vecchi hobo nostalgici (Angry Mob e Man-O-War Way) o a paladini di un folk arpeggiato su accordature personalizzate (Balisada). Christopher Mack e la sua Martin D15 acustica sono al secondo episodio a nome James Orr Complex ma l’impressione è che nonostante le buone capacita tecniche messe in mostra e le ottime motivazioni di fondo, ancora non si vada oltre il “buon disco canonico”. Dotato di uno stile personale, godibile, colorato da una leggerezza strumentale che appassiona senza stancare, ma poco adatto a farsi psicanalizzare per scovare significati troppo profondi. (6.7/10) Fabrizio Zampighi Jeniferever - Spring Tides (Monotreme Records, Apr 2009) G enere : post rock Secondo album per gli svedesi Jeniferever a distanza di tre anni dal loro debutto Choose A Bright Morning. Il raggio su cui si muove Spring Tides è sempre il medesimo: etereo e melenso post rock aperto tanto a sospensioni shoegaze quanto a esplosioni emozionali e inflessioni slowcore, a metà strada tra Slowdive, Mogwai, Early 96 / recensioni Day Miners e Cure. La malinconia è la regina incontrastata di queste dieci tracce, e la voce di Kristofer Jonson non fa che evocarla, ora con sfuggenti traiettorie ora con una profondità new wave in puro stile Robert Smith (Ox-Eye sembra una delle ballad strappalacrime di Bloodflower). La languidezza delle chitarre e la delicatezza delle tastiere creano dilatazioni sonore al limite della commozione, ma finiscono anche per sfiorare la narcolessia pura. Il minutaggio medio troppo elevato e una produzione eccessivamente fredda e laccata appesantiscano l’ascolto dell’intero album, mettendo in secondo piano la non banale ricerca emozionale del quartetto. Questa sì da evidenziare. Siamo certi che una cura meno formale e una formula artistica meno cerebrale farebbero uscire i Jeniferever dal cono d’ombra in cui si trovano. (5.5/10) A testimonianza, brani come Spin Me Around o Don’t Lay Your Head On My Shoulder, New Day Dawning o Singing In The Brain, abbuffate elettriche in linea con l’immaginario chiamato in causa tuttavia sostanziate da una scrittura che mantiene tutte le promesse di naturalezza e organicità. Come del resto le parentesi aliene di Puddles o Soft As Breeze, in cui si mescolano pacatezze alt-country/folk e derive melodiche inaspettate in bilico tra R.e.m. e Neil Young. Ci si accorge sin dal primo ascolto che tutto è in ordine nei quarantacinque minuti che vanno a compilare questo nuovo capitolo della storia musicale dei Jenny’s Joke, dalla sicurezza che traspare dai passaggi strumentali, ma soprattutto da un programma che rimane godibile pur non rinunciando a una certa voglia di osare. (7/10) Andrea Provinciali Joe Bataan - King Of Latin Soul (Vampisoul, Mar 2009) G enere : l atin Jenny’s Joke - Self Titled (Seahorse Recordings, Mar 2009) G enere : rock Basso in evidenza, brani strutturati e in crescendo, chitarre elettriche sfibrate capaci di sciogliersi in arpeggi liquidi come di trasformarsi in cavalcate elettriche urticanti. C’è il marchio dei dEUS nelle undici tracce di questo secondo disco a nome Jenny’s Joke – il primo, Ninth Scene, risale al 2005 -, nella cura che viene riservata ai suoni come nei picchi di intensità raggiunti la musica grazie alla stratificazione degli strumenti. Un legame di parentela che metterebbe su chi va là chiunque, vista la complessità della materia trattata e le vette qualitative raggiunte dai padri putativi, ma che non preoccupa più di tanto la band di Cremona. Capace, invece, di sfruttare i caratteri dell’ereditarietà a proprio vantaggio, per un disco estremamente equilibrato che gioca con i canoni estetici di riferimento senza farsi prendere eccessivamente la mano dalla “sindrome della fotocopia”. Fabrizio Zampighi Per far capire con efficacia e rapidità l’aria che si respira in questi tre quarti d’ora basterebbe chiamare in causa il titolo di un’antologia dedicata anni or sono a Joe Bataan dalla stessa casa madrilena che pubblica questo suo nuovo lavoro: latin funk brother. Ecco, sta tutto in quelle tre magiche parole il succo - caldo e invitante, va da sé - del discorso sonoro, esemplificato alla perfezione da una Mestizo tutta saliscendi di fiati sottratti da Move On Up e “call and response” di vitalità quasi impossibile. Ti chiedi che cos’abbia da essere così allegro señor Bataan, con i tempi che corrono; ci rifletti sopra un attimo, a mente serena e televisione spenta, e aferri quanto alla fin fine una risata seppellirà ogni cosa e chi vuol esser lieto, lo sia. Ancor di più se il Nostro gioca sul sicuro in questo ritorno coi validissimi catalani Los Fullanos, rileggendo The Bottle di Gil Scott-Heron a passo torrenziale e ripescando il cavallo di battaglia della mayfieldiana Gipsy Woman; alternando classici e chicche sulle ali di una classe eccelsa con pochissime rughe (soltanto in I Wish You Love l’ugola non è all’altezza, ma la si sostituisce al volo con una The Prayer registrata dal vivo). Impossibile restare fermi, insomma, che si abbia a che fare con l’incalzante Johnny’s No Good o con la sorniona Special Girl, con una Rap-o-clap-o 2008 da infiammare pista e onde FM o con le gustosamente tautologiche Latin Soul Square Dance e Puerto Rico Me Llama. Uscita di rilevanza storica essenzialmente nulla, questa, ciò nonostante baciata da una godibilità assoluta e non solo in barba ai lievi acciacchi dell’età del Fratello. Muchas gracias, Joe! (6.9/10) Giancarlo Turra Juan MacLean (The) - The Future Will Come (DFA, Apr 2009) G enere : disco The Future Will Come è un lavoro quadrato. Nostalgico, come di costume alla Dfa. Disco, come di costume Juan MacLean. Euro-pop al silicio stile Human League, vertiginoso a là Moroder. John MacLean a tutti noto come Juan apre e chiude, il nuovo parto, con due bombe targate 2008. Una, The Simple Life, muove un groove pregno di rimandi high energy disco. Il cantato è questione a due, laddove spicca la felina Nancy Whang (in prestito da Lcd Soundsystem) a cesellare la traccia nei suoi spigoli sexy. L’altra, Happy House, è puro garage New York: sempre lei, Nancy, sugli scudi a puntellare un canovaccio forte di un piano ipnotico reiterato sino allo sfinimento. Una vera supernova. Nel mentre, otto tracce. The Future Will Come parafrasa Regiment di Eno/Byrne alla stessa marecensioni / 97 niera del James Murphy di Yr City’s A Sucker. The Station – e in misura minore One Day - parla la lingua degli ’80, quando la congrega di Philip Oakey, dopo gli austeri esordi, partiva alla volta delle hit parade. Accusations acumina il taglio sexy di cui sopra: space funk da manuale. Tonight, tutta campanacci e synth epici, vi trascinerà sul serio lontano; No Time è un marziale funk da autostrada mentre Human Disaster, piece per piano e voce mesta, è l’unico momento dove la cassa dritta si defila. Lo ballerete tutto dall’inizio alla fine. Feeling e groove garantiti. (7/10) Gianni Avella K-Branding - Facial (Humpty Dumpty, Mar 2009) G enere : impro - noise industrial Una sorpresa inattesa, questi K-Branding, trio belga passato per peripezie varie e stabilizzatosi come tale solo in occasione di questo esordio Facial. Che, tanto per mettere in chiaro subito le cose, è un gran bel disco. Equilibrato, ben calibrato, ottimamente prodotto. Ma è anche un disco tosto, difficile da assimilare dato che si muove sui territori paludosi dell’improvvisazione industrial-noise. Vincent Stefanutti (sax, macchine e percussioni), Sebastien Schmit (batteria) e Grégory Duby (chitarra, effetti) sono a proprio agio nella miscela, invero esplosiva e radicale, di noise primigenio e industrial made in UK, improvvisazione da freejazz deturpato e no-wave claustrofobica e compatta. Con l’aggiunta di un altro elemento da sempre caro alle derive industrial: il tribalismo organico e metallico che fu di acts come Test Dept e Einsturzende Neubauten. Non c’è mai però efferatezza né tanto meno parossismo fine a se stesso nei dieci pezzi di Facial, il cui pregio, anche nei momenti più schizoidi (Nieu-Latyn), è quello di risultare sempre sotto controllo. Quasi represso. Dopotutto è nel canone del genere tendere alla cupezza e pezzi come 98 / recensioni Der Morgen Kommt – nenia post-industriale che si avvita su un tribalismo ossessionante – stanno lì a dimostrarcelo. Il paragone più immediato, sia per consonanza geografica che per libertà e mobilità stilistica, sono i Kong, collettivo aperto olandese capace di farsi apprezzare per alcuni dischi nei ’90 e, pare, sul punto di ritornare in pista; ma i K-Branding sopravvivono del loro. (6.7/10) Stefano Pifferi Kashiwa Daisuke - 5 Dec (Noble, Mar 2009) G enere : elettronica A seguire Program Music 1, album interamente strumentale dell’artista giapponese Kashiwa Daisuke risalente al 2007, ecco le marcate esposizioni al contrasto di 5 dec. Le gestualità espressive di ritmica e dinamica aggiungono qui una nuova formula d’intrecciati piani conoscitivi (Drum&Bass, Techno, Elettronica ambient, progressive, glitchy o avanguardia) che attingono al suono senza negare espressione e differenza. Nessuna violenza a forma o tecnica, disposte al fluire o a policromie in ritmo che mettono in moto campioni, drones, battiti o strumentazione più o meno acustica. La commissione a tratti isterica o estrema non è rigorosa negli accostamenti: ecco allora che in coda ai minimali loop in pianoforte di Red Moon si trovano le destrutturate incuriosi di Requiem, una batteria dat bpm sostenuta tra sospensioni e glissati (Taurus Prelude), l’elettronca particellare di Siler Moon o le gocce in cinematografica elttroacustica di Broken Device. 5 dec è allora un laboratorio di sintesi e scrittura a cui prestare particolare attenzione, guardando oltre le metamorfosi figurative, per riscoprire il valore del ritmo e delle geometrie. (7/10) Sara Bracco Kill The Vultures - Ecce Beast (Autoprodotto, Apr 2009) G enere : A vant H ip H op Sono rimasti in due. L’anima musicale della band, l’alchimista dei suoni Anatomy, e il rapper la cui voce ha rappresentato meglio lo spirito avant del combo di Minneapolis, Crescent Moon. Dopo un tour mondiale, che li ha riportati qui in Italia, dove la stima di pubblico e critica non gli è mai mancata, i Kill The Vultures ritornano a far parlare di loro con il terzo lavoro in studio, Ecce Beast, presentato e venduto in anteprima dal vivo e su myspace. La trasformazione (chissà quanto definitiva?) del quartetto in un duo, non ha stravolto le linee guida stilistiche della band, ma ne ha inevitabilmente accentuato alcuni aspetti a scapito di altri. Rispetto ai due lavori precedenti, Ecce Beast è costruito tutto sul rapping flemmatico e poetico di Crescent Moon che, lasciato solo, occupa tutti gli spazi a disposizione, trascinando la musica verso i beats lenti e profondi del Tricky prima maniera (ascoltare l’ipnotica Searchlights And Suspects per credere). Dal canto suo, Anatomy, si sbizzarrisce nella scelta dei samples, spesso e volentieri tratti dal repertorio jazzistico, con fraseggi di trombe e sax in primo piano e profonde linee di basso (sia elettrico che acustico) a costruire la base ritmica in cooperazione con la battuta lenta e non sempre regolare della drum machine.A completare un panorama piuttosto essenziale ed omogeneo, se confrontato con le prove precedenti della band, si insinuano qua e là languide melodie di archi (Walk On Water) e flauti atonali (Cherish My Desease), geniali trovate che donano un tocco di raffinatezza al minimalismo degli arrangiamenti. In questa cornice di suoni jazz e ritmiche ten- denti al dub (ma pronte a sconfinare addirittura verso i territori dell’afro beat di Crownfeathers), che si spinge fino all’avant più destrutturato (Heat Of The Night) l’hip hop non è più al centro della scena, scomparendo dietro una coltre di influenze, ormai ben amalgamate, ma lasciando residui ben visibili nell’uso dei samples e nella costruzione dei testi, recitati da Crescent Moon con il suo ormai inconfondibile stile declamatorio. (7.7/10) Daniele Follero Kinetix - Absolute Grey (Koyuki sound, Gen 2009) G enere : sintesi minimali Chi segue da tempo il percorso artistico di Gianluca Becuzzi, conoscerà sicuramente il suo lato più sperimentale, quello legato alle ricerche sul sound processing digitale con il quale l’artista già si cimentava all’inizio degli anni ‘80 con il moniker Kinetix. Absolute Grey è la nuova uscita di Kinetix per l’etichetta Koyuki, che stiamo imparando a conoscere ed apprezzare viste le uscite dal carattere decisamente intrigante nell’ambito dell’universo dei microsuoni. Fatta esperienza con la materia, quella che Becuzzi ha dimostrato di saper maneggiare con grande mestiere nei dischi pubblicati con la Small Voices, tra esperienze in lettura spaziale (White Rooms, 2004) e dinamiche d’ascolto (Gestaltsystem01, 2006), in Absolute Grey ci si concentra sul metodo per poi concedersi alla monotraccia, tra sfumature in sintesi minimali ed affinata estetica dei microsuoni. Le traiettorie sono quelle atmosferiche, che non si negano a paesaggi più oscuri, riprodotti con fondali in drones e rumbligs ai quali si legano modularità, oscillazioni e pulsioni più o meno sottili, in ritmo o in frammento. Ritorno in grande stile. (6.9/10) Sara Bracco recensioni / 99 Kinny - Idle Forest Of Chit Chat (Tru Thoughts, Apr 2009) G enere : P op Idle Forest Of Chit Chat, la canzone non l’album, parte come una Lauryn Hill d’annata che si sia, abbastanza prepotentemente, invaghita di certi passaggi del Bowie americano, quello di Young Americans (1975). Caitlin Simpson - nata e cresciuta in Canada, mistura delle più impure nel crogiolo di razze in quell’angolo di mondo (Native Canadian Indian, radici svedesi ed anche francesi) - ama definirsi come una “freestyle improv vocalist”. Una specie di Erykah Badu che fonda attitudini vocali da mezzo-soprano ai tipici stilemi vocali del moderno (e cosiddetto r’n’b). Adesso non collabora più con Espen Horne, col quale aveva dato vita a Kinny And Horne, al quale va attribuito l’album del 2005 Forgetting To Remember. Adesso Kinny corre da sola, e in questo primo disco tutto a suo nome, gioca stratificando il suono e porta la produzioni a livelli barocchi di complessità, come da manuale dell’ottima starlette r’n’b dei giorni d’oggi. Ci son campionamenti, svisate electro, squarci a metà fra West Coast e Rod Stewart (Water For Chocolate), che per quanto strani funzionano. Bel disco. Un disco a cui riservare almeno più di un ascolto. Magari consecutivo. E magari non troppo distratto! (6.5/10) Massimo Padalino Land Of Kush - Against The Day (Constellation Records, Mar 2009) G enere : avant E’ sulla via della commistione di generi, culture, 100 / recensioni suoni e visioni che si è sempre mossa la mano di Sam Shalabi, uno dei più fini pensatori del giro canadese della Constellation. Un disco come questo dei Land Of Kush si inserisce perfettamente nella traiettoria dello Shalabi pensiero al punto da rappresentare una sorta di summa teoricomusicale di quanto detto fino ad ora. L’artista, lo ricordiamo, ha sempre cercato di muoversi con astuzia ed intelligenza sul crinale tra oriente e occidente, lavorando spesso e volentieri su composizioni che travalicassero gli stretti confini di genere. Gli episodi migliori sono, ad oggi, quelli firmati con il nome di Shalabi Effect e quelli su Alien8 a proprio nome, compreso il controverso Osama del 2003 pensato come collezione di “canzoni di protesta contro l’Arabofobia”. Quella che sta dietro al nome Land Of Kush, che in realtà sarebbe una regione del nord Africa, è una vera e propria orchestra modellata sugli ensemble egiziani degli anni ’50 dell’epoca di Nasser e la musica è al tempo stesso sinfonica, jazzata e psichedelica con una costante fortemente orientale. In pratica una via di mezzo tra Sun Ra e gli Shalabi Effect con una magniloquenza degna delle premesse. Ricalcato sull’omonimo libro di Tomas Pynchon, al punto che sembra quasi una colonna sonora (5 composizioni con lo stesso titolo dei 5 capitoli del libro), il disco si muove come una rappresentazione e ha il carattere della registrazione live con le voci al centro dell’opera. Gli episodi centrali sono quelli forse più accessibili. Jason Grimmer canta carismatico allungandosi sulle scale arabe della cadenzata Iceland Spar, mentre Molly Sweeney si cimenta con il pop medio-orientale di Bilocations. Quello che si ottiene alla fine è un disco strano. Al tempo stesso desueto e ovvio, demodé e attuale, semplice e complesso. Shalabi si riconferma una delle penne più originali e creative di oggi, anche se il suo capo d’opera non è arrivato nemmeno questa volta. (7/10) Antonello Comunale Lawrence English - A Colour For Autumn (12k, Apr 2009) G enere : A mbient /D rone Registrato tra il 2007 e il 2009, A Colour For Autumn è il secondo episodio di una serie di album dedicati da Lawrence English al transito delle stagioni, ai loro segni (e ai relativi stati d’animo indotti) - For Varying Degrees of Winter era stato pubblicato da Baskaru a inizio 2007. In quello che è il suo primo album per la 12k, l’australiano si conferma una volta di più maestro nel maneggiare suoni di dimensioni ambientali e al tempo stesso fine cesellatore di frequenze microscopiche - esemplare la chiusa liminare al silenzio di ...and Clouds For Company. E’ un suono umorale, quello di A Colour For Autumn, metereopatico, come d’altra parte questa sorta di concept ciclico gli impone di essere: il colore dell’autunno qui inseguito - o meglio le sfumature che caratterizzano il corredo cromatico tipico dell’autunno - è una serie tonalità soffuse, che animano tanto esempi di maestosa drone music - Galaxies of Dust, l’iniziale Droplet, insufflata da quel soffio vitale che è la voce di Dean Roberts mista al rumore del Maestrale registrato a Marsiglia - quanto i più canonici esercizi di elettroacustica Watching It Unfold e The Surface of Everything (riconoscibilissimo, in quest’ultima, il tocco digitale dell’altro ospite Fennesz) dai quali, pure, riesce ad emerge uno stile personale ed elegante che è ormai cifra peculiare del sound artist di Brisbane. (7.2/10) e Mathieu Cournoyer tornano a deliziarci. Lo smalto progressivo, che prende magari dagli Ange dei medi Settanta, si ibrida, pasticcia, perde la linea retta del segmento filamentoso di dna da cui fu generato; ne nasce una cosa curiosa curiosa, che ha a che vedere con i Beatles, i Raspberries, Chris De Burgh, il bubblegum più in generale, ma anche con i Broken Social Scene, ad esempio, e molto, tanto, denuncia in termini di influenze alla psichedelia classica (Pink Floyd), a quelle dei tempi del britpop (i Radiohead più intellettuali), ai lambiccati e siderei battistrada astrali su cui beati hanno passeggiato i Sigur Ros più metafisici. Tutto condensato, compresso, ridotto ad infinitesimale mondo-canzone. Appena tre, quattro, cinque, più spesso sei minuti. Ogni brano è consumato come in una mini-sinfonia pop che non conosca movimenti, intesi nel senso di ripartizioni della traccia-brano. Tutto si perde e poi ritrova in un marasma di chitarre, cori incantati, armonie sofisticate. Ma non è roba pallosa questo Layrinthes. E’ un demone furbo e giocoso, che prende per la coda il gatto del pop e lo fa roteare, roteare, roteare intorno al proprio capo. Ingannevole è il pop...più d’ogni cosa. (7/10) Vincenzo Santarcangelo Massimo Padalino Malajube - Layrinthes (City Slang, Apr 2009) G enere : P op Marmaduke Duke - Duke Pandemonium (14th Floor Records, Mag 2009) G enere : talkin ’ neowaves Il giochino à la Nine Inch Nails falsettati – che è I Malajube stanno crescendo esponenzialmente. Del loro pop, tutto cantato in francese ed incubato al freddo e al gelo del Québec, ce ne eravamo già occupati un paio di annetti, scarsi, fa. Ora Julien Mineau, Thomas Augustin, Francis Mineau anche proto-EBM synhtipop, o funky singers su tappeti Kid A (Heartburn) - convince poco e insospettisce. Sculettare divini è una facoltà di pochi recensioni / 101 su questa terra e i Marmaduke Duke che giocano d’angoli con gli Autechre nel taschino non sembrano certo camminare sospesi. Neanche stupido lo facciamo tuttavia, questo duo scozzese composto da The Dragon (JP Reid dei Sucioperro) e The Atmosphere (Simon Neil dei Biffy Clyro); e però nel volersi comprare un posto al sole si rischia di giocare scoperti; e tasti bianco neri in stile Talking Heads bombati di amfetamine ’90 (Everybody Dance) non sono proprio l’ultima moda in fatto di ‘00s. In certi casi poi bisogna astrarre dalle cose che ci piacciono di default. Se veniamo sempre scossi e riscaldati dalle scoppiettanti chitarre etnoritmiche direttamente prese da Fear Of Music (Everybody Dance) non possiamo caldeggiarne automaticamente l’ascolto. Specie se questo significa far carovana synth-wave d’ordinanza. Eppure senza stupide girate di coltello da blogger, Duke Pandemonium è un disco che, al pari del primo Telefon Tel Aviv, mette d’accordo diversi personaggi e soprattutto palati che sonorità di questo tipo le vedono con il binocolo. Lo sanno pure i due ed è logico aspettarsi la ballata synth pop che accomoda la platea. In questo caso si chiama Kid Gloves e ti vedi dei Tv On The Radio che invece di spremere Gabriel ci duettano assieme altezza fine Ottanta. Logico poi vedersi sfumare track by track le cose più ardite per stemperamenti compiaciuti e compiacenti (Pandemonium). Come prevedibile è quel fare ondivago ma sempre effettato (il rap di Erotic Robotic, di nuovo il funky ma discomusic di Je Suis Funky Homme). Probabilmente giocare ai cow boy postmoderni nei duemila vorrà dire qualcosa del genere. Una chiave per la quasi-sufficienza se la sono guadagnata dunque ed è dal vivo che si gioca il senso del progetto. Intanto, divertimento usa, gira in tondo e getta… (5.9/10) Edoardo Bridda, Gaspare Caliri 102 / recensioni Maserati/Zombi - Split (Temporary Residence, Gen 2009) G enere : new kraut Con un lungo passato post rock alle spalle, i Maserati siglano il loro patto con il delay e si apprestano a confondersi tra gli esegeti del suono kraut. Il problema è che costoro, a dispetto dei nuovi corrieri cosmici, restano saldamente ancorati a terra. L’entrata nel combo di Jerry Fuchs (primo batterista dei !!!) ha contribuito a traghettare il loro sound verso una sorta di krautdisco (ascoltare Monoliths per credere), inframmezzata da residui post-rock sparsi qua e là con quel tanto di ripetitività e prevedibilità che provoca entusiasmi facili a sfumare. Se la cavano meglio gli Zombi nella long-track Infinity, dove l’anima prog si esprime in un assolo di batteria ribelle ai loop krauti e le atmosfere epiche a cui ci hanno abituati sono sacrificate all’oscurità di una notte del terrore. Lo split, uscito su Temporary Residence, risulta piacevole all’ascolto e scivola giù rapido e indolore, qualora si voglia perdonare al quartetto di Atene (Georgia) una certa banalità. Là dove gli Zombi coniugano cosmogonia e fascinazione horror, i Maserati sembrano dei turisti arrivati in Germania da un paio di giorni. Si rimanda al futuro per eventuali aggiornamenti con un voto che fa media. (6.5/10) Highlight Shipwreck Bag Show (The) - Il Tempo…Tra Le Nostre Mani, Scoppiaaaaaaaaaaaaa! (Wallace Records, Apr 2009) G enere : avant - blues Non si può prescindere dagli antecedenti. È impossibile. Ché la musica di questo album è larvatamente memore di percorsi precedenti, di traiettorie ormai decennali tracciate su percorsi sconnessi e fuori mano. Xabier Iriondo (chitarra, mahai metak, taisho koto, electronics, ecc.) e Roberto Bertacchini (batteria ridotta all’osso e voce mesmerica) si rimanifestano in jointventure dopo il cd 3” omonimo sempre su Wallace, col loro tentativo di esplorare l’avant-blues più spettrale e il rock più destrutturato e afasico. Come se le parallele A Short Apnea e Sinistri avessero trovato un loro neanche troppo lontano punto di congiunzione. Un punto che fa tornare a galla, alla memoria di chi ha avuto modo di seguirli, non solo la frammentata dilatazione di A Short Apnea e il blues in eterno soundcheck dei Sinistri ma anche l’urlo primigenio degli Starfuckers al confine tra Brodo Di Cagne Strategico e Sinistri. Il tempo…tra le nostre mani, scoppiaaaaaaaaaaaaa! però non vive di ricordi, né si culla su allori passati. È infatti un album di canzoni; storte, sghembe, monche, in alcuni casi; complete nella loro convulsa destrutturazione e addirittura cantate in altri. Più d’uno i picchi di eccellenza: Scoppia, aritmica ballad incendiaria e insurrezionale; Tempo, in continuo fluttuare impro tra vuoti passatisti e concreti e pieni in overdrive; Tuamare devastata da clangori post-industriali limitrofi a musiche estreme, o ancora la sinistra, tesa, sospesa Tra Le Nostre Mani, incudine e martello di un suono ancora molto avanti. Ma è il senso generale a lasciare a bocca aperta per la naturale coabitazione e congiunzione tra musica concreta e improvvisazione più o meno radicale, sapienza da blues anteguerra e rumorosità asincrona e disturbante. Dicono di essere naufraghi nell’oceano del pop, rifugiati su di un’isola fuori dal tempo…ma a noi mai sembrò tanto dolce, il naufragar in questo mare. (7.5/10) Stefano Pifferi Francesca Marongiu Maurizio Bianchi - Dekadenz (Young Girls Records, Mar 2009) G enere : minimal - ambient 8 tracce che fluiscono in realtà in un unico filo di luce sospeso tra la veglia e il sonno. Più prosaicamente, la decadenza omaggiata da Bianchi in questa nuova prova in proprio (“Dedicated to my own terminal decadentism” recita una nota nel retro copertina), consta di una serie di sali-e-scendi pianistici con il pedale della risonanza pigiato dalla prima all’ultima nota.Ne consegue una semplificazione di certi tour de force minimalisti (su tutti The Harp Of New Albion di Terry Riley) capaci di tratteggiare con la vibrazione di un suono collettivo lo stupore della propria stessa creazione, omaggio recensioni / 103 all’atto creativo per eccellenza, l’atto del nascere. Qui Bianchi torna alle investigazioni ambient della trilogia Colori/ First Day Last Day/ Dates ma in formato acustico, operazione comunque già testata in M.I.Nheem Alysm.La risultante, dilatata nell’arco di 71 minuti, suonerà pretenziosa per molti e preziosa per alcuni, quegli stessi ‘alcuni’ che sanno addolcire la gravità di una pessima giornata ascoltando un cinguettio provenire da chissà dove. (7/10) Filippo Bordignon Metric - Fantasies (Last Gang Records, Apr 2009) G enere : new wave Morfologicamente, Emily Haines sembra una Aimee Mann dal taglio più vizioso. Di sicuro la sua silhouette compensa la sterilità dei Metric. Canadesi con un passato nella grande mela dove tra l’altro è nato il gruppo -, i Metric muovono dalle parti dei Killers, quindi una new wave dall’appeal ruffiano e pacione. Fantasies mostra refrain a presa rapida (Help I’m Alive, Sick Muse, Gimme Sympahy) e sortite elettroniche a là Crossover senza lattice (Twilight Galaxy), chitarre voluminose prive di sostanza (Gold Guns And Girls) e un leggero bagliore, Blindness, evidenziato solo ed esclusivamente dalla pochezza del contesto. Tuttavia lei, la Haines, è veramente carina. (5/10) Gianni Avella Mokira - Persona (Type Records, Apr 2009) G enere : elettronica Un nuovo album di Mokira, ovvero Andreas Tilliander, è davvero un’apparizione imprevista nel catalogo Type. Il suo precedente Album aveva in qualche modo plasmato la stessa identità creativa della prima Type, ovvero quella di un etichetta giovane che riusciva ad intercettare le ipotesi migliori in circolazione su argomenti musicali come 104 / recensioni ambient, glitch, elettronica. Una via mediana per passare indenni e con una propria personalità tra due estremi come Kranky e Warp. Il metodo di Tilliander, nel corso del tempo, sembra poi essere stato messo in secondo piano per tutta una serie di ragioni e in primis per gli orientamenti di Twells sempre più diretto ad accantonare per la tua Type un esclusivo profilo da elettro label. Per la serie: diversifichiamo il portafoglio. E’ per questo che fa un effetto strano vedere dopo cinque anni di nuovo Mokira sulla label inglese. Persona è un titolo impegnativo già di per se, con tutto il suo fascino bergmaniano, di contro la musica in esso racchiusa svela il Tillandier pensiero a proposito di ambient salottiera e glitch fantasmatici provenienti dal passato. In altre parole se avete apprezzato gli ultimi lavori di Fennesz, Pan American o Tim Hecker potrete aggiungere un ulteriore tassello al mosaico. Non che Mokira si allinei ai modelli suddetti a testa bassa. L’apertura con i dieci densissimi minuti di About Last Step And Scalein piena coltre boschiva stile GAS sono più che convincenti. Mentre lo sono assai di meno i tentativi retrò di allinearsi alla nuova moda kraut quando si citano Cluster ed Harmonia nelle ellissi centrali di Valla Torg Kraut e Oscillations And Tremolo. Il finale chiude in cerchio virando verso una appena accennata malinconia neo-classica che non sembra per niente la strada da seguire. A conti fatti un ritorno importante, ma con risultati altalenanti. Il problema semmai è tornare non riuscendo a portare con se argomenti sufficienti ad elevarsi al di sopra della media. (6.5/10) Antonello Comunale Mono - Hymn To The Immortal Wind (Conspiracy Records, Mar 2009) G enere : D ream R ock O rchestrale Una storia d’amore, ambientata nei paesaggi fantastici della memoria. Una storia di tenerezza, malinconia e speranza. Un inno al vento, metafo- ra dell’anima, l’unica essenza capace di attraversare dimensioni spazio-temporali inaccessibili al corpo. Una storia, insomma, che indaga il limite tra sogno e realtà, tra vita e morte. E’ ciò che sta alla base del quinto album della band giapponese Mono, un concept strumentale, strutturato sulla sequenza dei paragrafi dell’omonimo racconto, che fa un tutt’uno con il disco. Un’operazione, quella di comporre la musica traducendo le sensazioni derivate da un testo letterario, che ricorda il poema sinfonico ottocentesco. Anche in quel caso il testo scritto diveniva pre-testo, punto di partenza, origine dell’ispirazione. Ma i paragoni si limitano alle premesse. Accompagnato da un’intera orchestra, il quartetto costruisce il suo inno con un linguaggio tipicamente post-rock: dilatazione temporale (quasi tutti i brani superano i dieci minuti) e impiego di strumenti estranei alla gamma timbrica impiegata convenzionalmente nel rock (glockenspiel, archi, flauti). Lo stile, gli arrangiamenti e le continue variazioni di intensità giocate su lunghi crescendo, ricordano in molti casi i Mogwai, anche se al sound non si risparmiano virate verso atmosfere più cupe e ruvide in stile Goodspeed You! Black Emperor e Isis (The Battle To Heaven) o verso paesaggi sonori più distesi, colorati e fiabeschi. Hymn To The Immortal Wind potrebbe essere anche interpretato come una lunghissima suite, con i singoli brani a rappresentare le parti della storia. Una storia languida, da groppo in gola, così come la musica, spesso tesa verso la lacrimuccia. In realtà, però, l’impronta monolitica che assume il lavoro, non aiuta a cogliere le sfumature del testo e si allontana dalle sue esigenze drammatiche. I brani ripetono più o meno tutti la stessa struttura, basata su una progressiva intensificazione del tessuto sonoro, sostenuta a sua volta da semplici giri armonici in tonalità minore e da una melodia essenziale. Una formula che, ripetuta ad libitum non può che condurre, inesorabilmente, alla noia. Il languore è una sensazione molto esposta al rischio di sfociare nel patetismo. (5.8/10) Daniele Follero MSTRKRFT - Fist Of God (Pias, Mar 2009) G enere : fidget minimal acid La moda del sound acido virato fidget ogni tanto ritorna e con essa siamo inevitabilmente costretti a rispolverare i 90 dei Daft, le connessioni con il french touch e la deriva da dancefloor che Aoki, Oizo, Crookers e Bloody Beetroots ripropongono da un po’ di anni a questa parte. Il percorso del duo canadese formato da Jesse F. Keeler (ex Death From Above 1979) e Al-P si inserisce in questa corrente dance che nei 90 ha la sua radice, fatta di distorsioni e di filtraggi progressivi, cose che vibrano acidità. Il tutto condito con una tonnellata di break, la sapiente arte del taglia e cuci in stile Scuola Furano (Fist of God), i laser che tagliano la gola in distorsioni tarate sugli 8 bit (Click Click), le casse drittissime di derivazione Jack con il featuring dei campioni dell’hiphop (sua maestà Ghostface Killah in Word Up), l’inevitabile scorcio tastierato midi 90, cose che neanche Sabrina Salerno si sogna di fare col vocoder (Breakaway) e in generale un sentire retrofuturistico che con i Justice ha ritrovato ragion d’essere (citazioni a profusione in 1000 Cigarettes). Il secondo disco che fa muovere il culo con gli ingredienti necessari, senza strafare ma nemmeno stravolgere. Per chi si sveglia da un lungo sonno potrebbe alzare la libidine auditiva; per chi è avvezzo a queste sonorità basta una sufficienza stiracchiata. (6/10) Marco Braggion recensioni / 105 Nana April Jun - The Ontology Of Noise (Touch Music UK, Feb 2009) G enere : D rone Obits - I Blame You (Sub Pop, Apr 2009) G enere : garage - rock Piuttosto soddisfacente da un punto di vista percettivo, quella di The Ontology Of Noise rimane nondimeno un’esperienza musicalmente povera, in grado di disilludere aspettative generate da un titolo altisonante e premesse teoriche sulla carta altamente promettenti. Nana April Jun è il progetto sonoro dello svedese Christofer Lämgren (Goteborg, 1974), artista visuale, compositore ed editor dell’ottimo art magazine YKKY. The Ontology Of Noise ambirebbe, nelle intenzioni dell’autore - previo un riferimento piuttosto di maniera al Burzum di Filosofem a collocarsi in quello spazio interstiziale nel quale sembrano oggi confluire l’eredità del black metal classico e alcune delle esperienze più estreme in ambito di elettronica e harsh noise. Non ci riesce - è riuscito invece, di recente, agli GNAW di This Face (Conspiracy, 2009) - e l’esperimento si esaurisce in uno scurissimo ed estenuante drone (per convenzione suddiviso in cinque tracce) di frequenze generate con l’esclusivo utilizzo di filtri digitali. L’approccio alla composizione è, per stessa ammissione dell’autore, di tipo intuitivo, essendo qui il suono (o meglio, il rumore) trattato alla stregua di una serie di flussi di diversa portata volumetrica da convogliare nello spazio. Ma nessuna intuizione particolare permette a un brano, piuttosto che a un altro, di emergere da una situazione di stasi che, prima che tonale (o timbrica, o dinamica) è, ci pare di capire, creativa. Il ricorso esclusivo a tecniche di processing e mastering digitali, in questo senso, non aiuta affatto. Nota di demerito per i titoli delle composizioni che, quelli sì - The One Substance, Process Philosophy, Space-Time Continuum, Semantic Shift - fanno pensare ai filosofemi di Burzum. Un mezzo passo falso per la Touch. (5.5/10) Obits, ovvero evviva la tradizione! Nel senso che essere innovativi può anche essere considerata una stronzata immensa da chi suona rock’n’roll di viscere e stomaco. Television, Wipers, Gun Club cita la press-sheet ma – aggiungiamo noi – punk-wave, grunge e r’n’r più mille altre note ancora che hanno segnato le nostre vite si scontrano e incontrano nei 12 pezzi d’esordio di questo quartetto americano, tanto che solo abbozzare riferimenti diviene arduo. Dopotutto Rick Froberg (chitarra, voce), Sohrab Habibion (chitarra, voce), Greg Simpson (basso) e Scott Gursky (batteria) non sono educande né tanto meno pivellini, visto che hanno alle spalle esperienze come Pitchfork, Drive Like Jehu, Hot Snakes, Edsel, Shortshack. E I Blame You lo dimostra appieno, in quanto porta con sé come eredità della scena punk sperimentale di San Diego l’attitudine a scartare il banale per tentare vie personali, anche quando come in questo caso si è in presenza di garage-rock tradizionale e sudicio. Zero novità, si diceva, perciò solo rock cristallino nelle sue infinite variabili e accezioni. Piglio retrofuturista alla Man Or Astroman?, chitarre suonate con grazia punk’n’roll, virate surf-garage da urlo, strambi esercizi da art-wave mutante, adrenalina a go-go, sing-a-long irresistibili come da consuetudine rock. Siamo grossomodo sul terreno calcato dagli ultimi Black Lips o da Jay Reatard, per dare due coordinate spicciole e labili, ma in I Blame You c’è molto, molto di più. A voi scoprirlo attraverso 12 piccole gemme in cui tutto suona al posto giusto e al momento giusto. (6.8/10) Vincenzo Santarcangelo Stefano Pifferi Omar S - Fabric 45 (Fabric, Mar 2009) G enere : deep D etroit techno Più che una compilation questo è un album 106 / recensioni dell’uomo Omar S. Direttamente in fiero stile detroitiano. Un all man show per l’ennesimo volume del club londinese. E non c’è presunzione quando scopriamo che tutte le tracce hanno uno stesso autore. Qui si tratta di una celebrazione del suono di una città e di una scuola che ancor oggi spacca. Senza l’aiuto di nuovi software o sample ereditati dai vari angoli del mondo. Si viaggia direttamente al cuore del ritmo: le spiagge delle varie Oasis, i tocchi da maestro in cassa dritta sempre con quel nonsoché di onirico e quindi balearico (U), gli affondi nel magma deep (Simple Than Sorry), le escursioni nel funk (Psychotic Photosynthesis) e nel tribale (Blade Runner): sono solo alcune delle sensazioni che si riescono a tradurre su carta da questa bomba che risuona nella mente per poco più di un’ora ma che ci ricorda come la Motor City sia ancora lì a pulsare. Senza nostalgia. Qui solo anima in ebollizione. Ed è lo stesso Omar che ci consiglia di ascoltare la compilation a volume molto molto molto alto. Provare per credere. Handz up for Detroit again! (7/10) Marco Braggion One’s (The) - The Debut Of Lady June (Forears, Gen 2009) G enere : folk pop Giovani, carini (in senso indie) e napoletani. Di Quarto, per la precisione. Ok, i debuttanti The One’s fanno un folk rock parecchio risaputo e aggiungerei abboccato, dalle evidentissime filiazioni, ma ci mettono cuore, devozione e quel certo brio che non è il caso di fargliene una colpa. Alla fine la quadratura del cerchio è inattaccabile, chitarre, piano, organo e armonica si spalmano come burro sulle fragranti basi ritmiche, la voce è una marmellatina trepida per melodie tutto sommato felici. E, quindi, ci siamo. Ok, ok, l’inglese non è proprio madrelingua, mentirei sostenendo che non conta nulla, ma l’entusiasmo investito dai quattro aiuta a soprassedere. Entusiasmo che pervade l’estro Counting Crows di Midnight’s Talker, l’impeto Tom Petty tra vampe di ottoni di All Night Bar, quella I’ll Disappear che sembra i Wilco più garruli in fregola Mellencamp, il ciondolare dello Young harvestiano in Brown-haired Girl e quello della spiaggia desolata nella lunga Roads. C’è poi da dire che se l’intensità piano-voce di Shine In The Wind accoglie echi del primo Springsteen, desta un filo di sconcerto la distrazione iperromantica di Kathy & Me, come potrebbe - chessò - un Elton John crepuscolare. Se ci sono attitudini diverse e non del tutto armoniche in seno alla band, speriamo siano nutritive. Staremo a vedere, e ben volentieri. (6.4/10) Stefano Solventi Orka - Livandi Oyða (Ici d’ailleurs, Feb 2009) G enere : I ndustrial folk L’origine atavica del suono e il gusto per l’arcaico sono spesso elementi che attraggono il compositore. Direttamente alle origini del suono sembra andare Livandi Oyða, esordio discografico degli Orka, gruppo che arriva dalle remote Isole Faroe; esordio che nasce sotto il segno di una attenzione, minuziosa, rivolta al materiale - strumenti autocostruiti con materiali provenienti dalla fattoria in cui è stato registrato il disco - e di una dovuta presa di distanza dalle più riscontrate forme melodiche e tecniche. Non conoscono evidenti ritorni tematici, le undici sembianze sonore e questo finisce per conferire loro un’ampia caratterizzazione. I suggerimenti sembrano arrivare dall’industrial, per intenderci, quelle alienate dissonanze dei tedeschi Einstürzende Neurecensioni / 107 bauten, arricchite con suggestione sonore tra antologie urbane o rurali e nitidi contributi vocali in lingue difficilmente comprensibili.Quello che cambia è il registro, aspro, graffiante come quello di Volmar, concordato con l’ipnosi (Heilabruni), le tensioni (Inni) dal formato limitato, tra elasticità in corde, prestazioni ambientali e in percussione (Livandi oyða). Brutali, inquiete o temerarie le peculiarità timbriche di Livandi Oyða, non fanno a meno neppure delle stesure alla The Third Eye Foundation, Oktopus/Deadverse o Data-Com, preziosi giochi di elementi che si concedendono alle parvenze tribali, elettro, arabeggianti o psichedeliche. Il principio di una nuova arte, quella distante dalle implicazioni, libera di esistere, aperta all’insolito, ma mai priva di significato e comunicazione. (6.8/10) Sara Bracco Ozric Tentacles - The Yumyum Tree (Snapper Music, Apr 2009) G enere : S pace R ock Durante i venticinque anni trascorsi dai loro esordi, attorno alla metà degli anni ’80, gli Ozric Tentacles ai cambi di formazione ci hanno fatto davvero il callo. Eppure, l’abbandono di un simbolo della band, il flautista John Egan, non deve essere stato molto facile da metabolizzare. Champignon (questo il suo nomignolo), aveva da sempre rappresentato l’anima più hippie del gruppo, anche nell’aspetto, e il timbro del suo flauto traverso aveva accompagnato tutti i passaggi del tortuoso cammino degli Ozric. L’assenza di Egan toglie respiro e poesia a Ed Wynne (unico superstite del nucleo originario) e compagni, costretti a reinventarsi uno stile. La musica, in ogni caso, non cambia poi granché, nonostante tutto e in perfetta sintonia con l’evoluzione della band, da sempre molto lenta e statica. E’ dai tempi di Strangeitude (1991) e Jurassic Shift (1993) che la band, dopo un periodo di grande creatività (e perfino qualche 108 / recensioni riconoscimento da classifica, il colmo per dei fricchettoni come loro), sembra essersi fermata, come incantata negli stessi paesaggi fantastici che aveva creato. Luoghi lisergici dove le sonorità progressive incontrano la techno, l’ambient, la trance, la fusion e il dub su uno sfondo psichedelico, precursore di quella che oggi comunemente viene denominata Goa Trance. Il tutto, tenuto insieme dalla batteria e dall’inconfondibile stile chitarristico di Wynne, ormai praticamente rimasto solo a tenere alta la bandiera del rock. Senza il flauto gli Ozric guardano molto più da vicino la dance (Magick Valley, Plant Music) e il dub (Mooncalf, con i suoi passaggi dal funk al reggae sembra un brano dei Police rovesciato nell’LSD), ma senza stravolgere il sound complessivo. C’è tutto (o quasi) quello che c’era prima e niente aggiunge, questo Yum Yum Tree, a ciò che già sapevamo sul combo britannico: ottima qualità, idee e sound un bel po’ datati e tanta psichedelia. (6/10) Daniele Follero Passe Montagne - Oh My Satan (Africantape, Apr 2009) G enere : math - noise Jupiter apre con un interplay furibondo; di quelli che solo gli Oneida di Each One, Teach One erano capaci. Una corsa a mille all’ora a cassa dritta e ampli in fiamme che brucia in un minuto e mezzo, con un solo refrain nel mezzo giusto per prendere una boccata d’aria. Si presenta così, senza mezzi termini Oh My Satan, ritorno dei Passe Montagne, costola degli Chevreuil – in coabitazione c’è Julien Fernandez alla batteria – e ennesima dimostrazione della vitalità della scena grossomodo math-noise d’oltralpe. Diciamo grossomodo per il semplice fatto che, se innegabili sembrano i referenti di partenza dietro le 12 tracce dell’album (tutta la costellazione del rock rumoroso da Shellac a Don Caballero), è pur vero che il trio innesta qua e là, quasi in una sorta di riciclaggio (pro)positivo schegge soniche che tornano indietro fino agli anni 70. Le battute iniziali di 98% Cuir 2% Sky, l’assolo di Traga Maluca, la (apparentemente) slide di Made In China lo dimostrano appieno, anche se i tre restano sempre fedeli ad un ideale di musica scarna e scarnificata, priva di orpelli e depurata da ogni inutilità, esplosiva e furiosamente essenziale. (7/10) Stefano Pifferi Peter Bjorn And John - Living Thing (Wichita Recordings, Mar 2009) G enere : pop Un passato lontano appena tre anni (e spesso poco più di quattro minuti) eppure così ingombrante. Diciamocelo, un po’ tutti, dal metallaro all’hiphopper, dall’indie rocker all’elettroacustico, hanno canticchiato Young Folks. O meglio, fischiettato. Fare i conti con quella perla di singolo, per Peter Morén, Björn Yttling e John Eriksson, non sarà stato facile. Andare oltre, un obbligo. Il nuovo Living Thing agisce alla pari se non di più Writer’s Block. Ne è funzionale, senza dubbio. Non si colgono fischi, ma lo stato d’arte del trio svedese prosegue alla volta del (loro) disco perfetto. L’armamentario dei Nostri, che guarda al pop tradendone la stessa lettera, riesce ad arrivare, per esempio, là dove gli Hot Chip falliscono, ovvero: stupire. Stay This Way è di parsimonia quasi Beatles-iana: oltre la voce - tanto Lennon - è la cura del dettaglio (leggasi arrangiamento) a fare la differenza. Blue Period Picasso, seppur priva di fischiettio, farà breccia per la disinvolta combine tra appeal friendy e disegno astruso. Poi - sarà pure un caso, ma ormai cominciamo a farcene una ragione - anche qui, come per Vampire Weekend e Here We Go Magic, lo spauracchio del Paul Simon di Graceland si manifesta, in minima parte, nella tropicale Living Thing e appieno nell’ariosa I Want You!. Nothing to Worry About, il singolo, ha molto del Beck di un tempo; Just the Past, invece, tanto dei Depeche Mode. The Feeling scivola come una danza sinistra, It Don’t Move Me ha una verve tutta ’80. Nessun hit ma tanti probabili hit, in prospettiva. Virtù o difetto? (6.5/10) Gianni Avella Peter Doherty - Grace/ Wastelands (EMI, Mar 2004) G enere : R etro P op Si va presto in saturazione con gli egomaniaci così come loro sono saturi di se stessi e dei loro vizi. Soprattutto è Pete a scocciare, lui mai pago, un disco all’anno e tournée. Tournée e poi l’album e noi, a ogni nuova recensione, non poter prescindere dal personaggio. Da quello pubblico e privato e dal fardello di tutto ciò. Mi sono scocciato di parlare di Pete, di leggerne sulle riviste di critichella ancor di più, ma è in sostanza il vincolo a cui ti lega che devasta: droga e talento. Talento e droga. Ti annoi a far mitologia punk ogni santa volta. Sei patetico. Kate e coca. Questo e quello. Con condanna finale: ti rimane da dire che è bravo. Ha personalità. Sa interpretare le sfumature della madida e translucida persona amplificata qual è ecc. tanto che alla terza volta preferiresti fare tutt’altro. Odi farlo quanto lui odi o ami se stesso a seconda di quello che lo addiziona. Il nuovo album in proprio non lo smentisce, Grace / Wastelands è un’uscita acustica con il piglio un po’ Conor Oberst. La raccolta adulta del ragazzo adulto che si confronta con la tradizione da dove il suo esser giovane proviene. Dunque rhythm’n’blues, giamaica crooning, accordi blues, quelle cosine avant spettacolo dei Liberrecensioni / 109 tines portate a salotto buono, il ragtime con gli amati anni trenta e tante storie di girls. C’è pure un ensemble d’archi in una paio di occasioni a tingere di raffinata decadenza le ballate come piacerebbe a un Lou Reed. Proprio come lui, pure Pete adora quanto di nero e reietto abita in un’anima rock che ci piace pur sempre prostituta, decadente e egomaniaca. Non ci piace parlarne, ma siamo così, trasferiamo nel solito nero laido e bianchissimo Syd like i nostri reconditi desiderata. E Pete, più forte, o perlomeno meglio consigliato dei soliti martiri rock, sorprende per costanza e argomenti in fiammella. Ruffiano come sa cambia arrangiamenti e amicizie e il sempre più scaltro piglio produttivo rafforzano un’indole sempre più musicata e musicabile (qui l’ormai sodale Street ai bottoni e niente meno che Coxon che di nome fa Graham alla chitarra, fanno un lavoro da veri professionisti). E tutto torna nei nuovi pezzi a spina staccata, senza pretese di far generazione, ideali esercizi di stile da portare, chitarra a braccio (…meglio se di Coxon), davanti a un teatro. Pete o Peter (che fa più serio) interprete fa propria la tradizione. E in sostanza è così: ancora bravo o bravino e poco c’importa. A non annoiare è questo vestito da hobo rock quattro stagioni, quattro generazioni e più. E quanto bene ci si muova dentro. E quanto ci piaccia il Novecento. E l’Europa vecchia e decadente. (6.9/10) 2009 con un graffio che ci obbliga a ripensare all’eredità del rave. Loro e la loro eredità ardkore UK, il loro successo planetario, l’influenza su tutta la scuola nu- (Justice, Soulwax, etc.): oggi con qualche ruga in più si ripresentano alle platee di tutto il globo. E come i sempreverdi Oasis, conoscono bene le folle oceaniche sotto il palco. Da quel 2004 in cui hanno cristallizzato al mainstream l’esperienza underground degli esordi (con quel simbolo che è The Fat Of The Land) ne sono passate di mode. Oggi Liam, Keith e Maxim riprendono gli ingredienti che li hanno resi famosi e li rivisitano con sapienza produttiva: le tastierine acide del singolo Omen, i bassi e le voci robotiche di Take Me To The Hospital, il punkettino di Run With The Wolves, l’elio nelle strofe di Warriors Dance e altri ingredienti classici che definiscono un sentire definitivamente rave innestato nei binari del rock. La mutazione mainstream è ormai compiuta da tempo. Questo ritorno conferma che la storia completamente infusa di DIYness e di vinili white label buoni per 4 o 5 parties si è consolidata e ha cambiato il nostro modo di sentire la musica d’intrattenimento. Perché qui non siamo dalle parti della ricercatezza della Werk. Qui si punta al(la) pop(olarità). E ancora una volta si sbanca. Una conferma per chi è stato bruciato dal fuoco di Firestarter e una sorpresa per i nuovi adepti. Rave is here to stay. (6.5/10) Marco Braggion Edoardo Bridda Prodigy (The) - Invaders Must Die (Cooking Vinyl UK, Mar 2009) G enere : rave rock Il ritorno dei Prodigy segna la carrozzeria del 110 / recensioni Pumajaw - Curiosity Box (Fire Records, Mar 2009) G enere : folk Al secondo disco come Pumajaw, l’ormai storico duo anglo-scozzese di Pinkie Maclure e John Wills trova finalmente la quadratura del cerchio. L’ultima volta che li avevamo sentiti era stato con una traccia apparsa nella già di culto compilation curata da Mark Coyle sul dark folk britannico e intitolata John Barleycorn Reborn (ultimo parto per Whoven Wheat Whispers che chiuderà i battenti poco dopo causa conclamato insuccesso del suo database sul folk. Un peccato davvero…). Per tornare ai Pumajaw, loro sono un esempio perfetto di folk britannico degli anni 2000, che tiene tanto in considerazione il passato illustre quanto le mode attuali. Con tutto il trend sul weid-folk e le ristampe dei classici, questa prima decade del nuovo millennio è stata un perfetto terreno di sviluppo per formazioni come queste, che fanno del loro essere retrò la ragion d’essere della loro attualità. Quello di Pinkie Maclure e John Wills è un repertorio quanto mai classico mosso prima di tutto dalla voce di Pinkie, una brava e carismatica novella Sandy Denny e dalle chitarre effettate e calibrate dall’ex batterista dei Loop. Con loro non dobbiamo pensare agli eccessi americani Sono inglesi, l’eleganza è il metro di giudizio delle loro composizioni e si rimane sempre ancorati alla forma canzone, anche se timidi accenni verso una deriva più propriamente psichedelica non mancano come si evince dal bellissimo attacco delle due parti di Visiting Hour. A marcare ulteriormente gli angoli entro cui si muove il disco i due ospiti illustri nelle persone di James Yorkston e Alasdair Roberts. Il risultato è un concentrato di astuzia e sincerità, malizia compositiva e perfezione esecutiva. Un prodotto con tutte le cose che ti aspetti e forse privo di quel quid che ti può sorprendere. Le canzoni comunque ci sono e questo per un gruppo come loro è la cosa fondamentale. (7/10) Antonello Comunale Remember Remember - Self Titled (Rock Action, Apr 2009) G enere : chamber music Rimarrete abbagliati, tramortiti. Inermi e plagiati, una volta pigiato il play del lettore cd, al cospetto di The Dancing: l’anello mancante tra I Zimbra dei Talking Heads e il debutto dei Glissandro 70. una danza etno-funk radiosa che rima con primavera. Occhio però, giacché di contro alla meraviglia seguirà, subito dopo, il depistaggio. La musica dei Remember Remember, infatti, sfila come una partitura di Glass e/o Reich rivisitata dai Mice Parade. Lasciatevi rapire quindi, ma non ingannare, dall’episodio di cui sopra: accomodatevi in salotto e calate le palpebre. Genie (For Amaya), How Did You End Up Like This?, Imagining Things (i), Imagining Things (ii) e Up In A Blue Light sono mirabili esempi di policroma chamber music orchestrata da un unico uomo, Graeme Ronald, diviso, tra le tante cose, fra glockenspiel, chitarra, kalimba, e-bow e sorretto da uno stuolo di compari delegati ai violini, fiati e batteria. Il lato quieto dei Mogwai a braccetto con le architetture di Sufjan Stevens e Jens Lekman. Menzione finale serbata a Fountain e Mountain: unica traccia, in origine, rieditata ora per l’occasione. Danza epica, prima arpeggiata poi incalzante, pari ad un alba in piena. Garantisce la Rock Action. E pure noi! (7/10) Gianni Avella Rodolfo Montuoro - Orfeo (Believe, Feb 2009) G enere : pop rock Che le mitologie radicate nel contemporaneo rappresentassero un’ossessione per Rodolfo Montuoro lo sapevamo, del resto già il precedente Hannibal portava come sottotilo un Mythologies 1 che lasciava intuire ulteriori sviluppi sulla stessa falsariga. Eccoci quindi ad Orfeo, ep distribuito digirecensioni / 111 talmente dedicato alla ricca, complessa, ambigua figura della semidivinità tracia. Tema che il Nostro affronta col consueto aplomb intenso e sfuggente, procedendo per allusioni evocative, in virtù di visioni come squarci e depistaggi, cui il tipico fraseggio pastoso conferisce un’aura spiazzante, da allucinazione demodé, da altrove fieramente e un po’ bizzarramente magico. Prosegue il processo di ispessimento della trama sonora, oramai quasi un muro di chitarre effettate, archi, synth, theremin e loop, un affastellamento di segni che costeggia l’impeto misticista posticcio del Battiato altezza Caffé de la Paix nella title track, l’epica roboante e allarmata dei Floyd periodo The Division Bells ne La Svolta, disperdendo tracce e coordinate con la conclusiva Giorni messicani, il violino quale contraltare romantico al clamore delle sovrastrutture, gli inserti spettrali e la spossata risolutezza del canto (al limite del talkin’).Montuoro segue un percorso poetico peculiare, in bilico tra mainstream e alternativo, pericolosamente e gustosamente alieno ad entrambe le dimensioni. (6.5/10) Stefano Solventi Röyksopp - Junior (Astralwerks, Mar 2009) G enere : E lectro D ancey P op 80 Il duo che viene dal freddo e che dopo i Gus Gus ha fatto risorgere il mondo di paillettes un po’ melo degli 80. Loro al terzo album tornano bambini. Ancora una volta: retrofuturismo. Dopo aver sentito il ritorno di Miss Kittin & The Hacker il mese scorso, anche qui si rispolverano tonnellate di progressività moroderiane e sciccosissimi riff di plastica. Un percorso che ne112 / recensioni gli ultimi tempi sembra essere tornato à la page. E allora per rinnovare (?) l’estetica now pop si usano quei trucchetti di filtering che ci hanno insegnato i Daft (Vision One), i crescendi del buon visionario Lindstrøm (This Must Be It nuovo inno europop) o le retoriche passatiste degli Abba (You Don’t Have A Clue). Non è di sicuro Melody A.M., ma Svein Berge e Torbjørn Brundtland sanno ancora parlare al popolo della classifica. Speriamo che questo processo di ringiovanimento non li porti pericolosamente vicini all’infanzia. (6/10) rimpiangere quei primi Devics dove malinconia faceva rima con layout commoventi, con un sentirsi avvolti che permeava la mente e andava dritto al cuore. Persino nei momenti in cui il compare d’avventure Dustin O’Halloran si aggiunge alla partita (e sono ben 3 su 10), manca lo spunto, la virgola decisiva, il candore necessario ad aumentare l’interesse in ciò che si ascolta. Quando un passo solista sembra raccogliere le bside anoressiche del gruppo madre, c’è da preoccuparsi. (5/10) Alessandro Grassi Marco Braggion Sara Lov - Seasoned Eyes Were Beaming (Nettwerk Music Group, Apr 2009) G enere : indie pop , S adcore Malinconico e dimesso, questi gli aggettivi migliori per descrivere le atmosfere raccolte in questa prima avventura solista di Sara Lov, famosa per essere la vocalist degli americani Devics. Prerogativa di un certo indie pop “autoriale” è quello di giocare con canoni di costruzione melodica classicissimi che diventano trampolini di lancio negli olimpi della bellezza quando la scrittura è veramente ottima. La cifra stilistica di questo Seasoned Eyes Were Beaming è un sadcore emotivamente genuflesso che perde inesorabilmente la sfida di abbracciare l’ascoltatore e trascinarlo dentro ai suoi paesaggi desolati principalmente per il fatto che il canovaccio utilizzato nella forma canzone è supportato da un livello solo mediocre di scrittura che ahimè mostra il lato proprio nello scorrere monocorde e senza passione del disco. Ci mancherebbe, la voce della cantante è sempre meravigliosa ma la sensazione è la stessa di osservare un oggetto bello ma senza alcun scopo: si pensa a quanto sia esteticamente carino ma altrettanto soprassedibile e inutile. E quando manca la brillantezza e ti rendi conto di quanto queste dieci canzoni scorrano senza colpire, viene da Schiele - Pictures Of Mountains (Autoprodotto, Dic 2008) G enere : noise - post grunge Ne parliamo con evidente ritardo. Colpa – in parte – della miriade di uscite discografiche propagandata da etichette di ogni genere che di mese in mese affolla la nostra casella postale e che ci costringe a relegare in secondo piano autoproduzioni come questa. Anche se il livello qualitativo del secondo disco degli Schiele non è certamente quello di una demo improvvisata ma di un’opera compiuta e già matura, come testimonia il nome di Giulio Favero del Teatro degli Orrori dietro al mixer. Nel caso della band vicentina, infatti, ci sono tutti i presupposti per “fare bene”, a cominciare da una formula musicale vibrante fatta di nevrotiche cavalcate elettriche rubate ai Jesus Lizard (We Don’t Want To Be Your Fiends) e post-rock dall’ardito fragore noise (Spider VS Spider), bassi compatti e riverberi claustrofobici. In un disco che attrae per un’asprezza dei suoni fuori dai canoni mediata da una scrittura capace di aggredire gli spazi senza sbavature. Poco glamour e molta sostanza, insomma, qualche vocalizzo in odore di Chris Cornell (My Death) e la voglia di farsi guidare dal “manico” senza stare a guardare alle simmetrie o alle convergenze stilistiche. Un aspetto, quest’ultimo, che garantisce a Pictures Of Mountains un quasi sette lasciando tuttavia presagire un processo evolutivo ancora da ultimare. (6.9/10) Fabrizio Zampighi Seaworthy - 1897 (12k, Apr 2009) G enere : C hitarra minimale / A mbient Composto a partire da materiale registrato a Newport, Australia, negli spazi interni e nei luoghi circostanti un vecchio deposito di munizioni solo recentemente dismesso, 1897 è il secondo album di Seaworthy, terzetto ruotante attorno al genio multiforme di Cameron Webb, a uscire per la 12k di Taylor Deupree. Un lungo e meticoloso lavoro di post-produzione - il cui ritmo, peraltro, è stato rallentato dalla recente paternità di Webb - è servito al trio per manipolare l’ingente quantitativo di registrazioni realizzate in tre mesi di sedute finanziate da una borsa di studio del Sydney Olympic Park Authority’s Arts Program - per il quale Webb è stato Artist in Residence. Loop di chitarra acustica di lontana ascendenza folk, field recordings e delicati intermezzi drone: le tinte, qui, sono ancora quelle acquerellate e tenui che, già ai tempi di Map in Hand (12k, 2006) avevano fatto tornare la memoria agli Hood pastorali di Outside Closer. Senonché, in 1897, quelle tinte sono utilizzate per la realizzazione di un quadro astratto, anti-figurativo, recalcitrante ai richiami della forma. Quello di Seaworthy è un suono minimale, sparuto, che non sembra seguire nessuna traiettoria, se non quella indicata a tentoni dalla chitarra di Webb (la lunga Ammunition 3, quasi epicentro dell’intero album): pur cristallizzandosi talvolta in grumi armonici o melodici, è un flusso a-direzionale, si direbbe quasi improvvisato, a condurlo. La meta è, il più delle volte, un senso di quiete che recensioni / 113 pare essere il corrispettivo in musica di quei luoghi ritratti dalle splendide fotografie (a opera dello stesso Webb) che corredano, in pieno stile 12k, la ricca limited edition disponibile in sole cinquanta copie. (6.8/10) Vincenzo Santarcangelo Shinkei - Biostatics (Transparent Radiation, Gen 2009) G enere : sintesi minimali Biostatics è il nuovo lavoro dell’artista minimalista David Sani (Shinkei) per la Transparent Radiation. Se nella collaborazione con Philip Lemieux Binaural Beats (Koyuki 2007), il collettivo stabiliva un certo interesse per fonti sonore provenienti da registrazioni bio-elettriche in quel caso i file sonori nascevano come studio delle onde cerebrali - costituiti, o meglio sarebbe dire catturati, grazie all’utilizzo di un brainwave software; con Biostatics, si sposta l’attenzione verso i segnali emessi dal mondo vegetale (foglie, piante, fiori), resi udibili attraverso processi audification. Un delicato e impercettibile risveglio di fondo, concesso alle sommesse e fluttuanti puntualità, ai tepori e agli sfrigolii di particelle: la sottile proporzione delle cinque tracce e l’arte della scrittura garantiscono trasparente bellezza a elementi limitrofi al silenzio. Sicure ma mai imposte le stesure del silenzio, naturali estensioni a cui l’artista detta le condizioni in minimali contesti ai limiti dell’udibile. Oltre il puro significato scentifico, attraverso le vibrazioni della materia. (6.8/10) Sara Bracco 114 / recensioni Shinkei/Luigi Turra - Yu (Non Visual Objects, Feb 2009) G enere : F ield recordings Interessante capire a questo punto della traiettoria artistica di Luigi Turra e Shinkei, quello che succede intorno a un percorso certo fatto d’affinità stilistica e d’intesa - il linguaggio minimale, le fonti sonore al limite dell’udibile, l’attenzione ai silenzi e agli spazi - ma pure costantemente in bilico tra ricerca sonora e naturale devozione al suono e, proprio perciò, libero di accadere e mutare. Ciò che avviene nella recente collaborazione dei due artisti per la label NVO: Yu, termine zen che significa quiete, affianca alla tecnica in field recordings, strumenti acusici, per una fonetica che prende ancora una volta spunto dalla cultura giapponese, intrappolandone i dettagli in primi piani, assenze, rumori di fondo, di spazio o di paesaggio. Scorci di vita, quelli ambientali rasenti l’armonia (Wa), tra sfumature e mutate forme di un giardino zen (Karesansu), condotti al silenzio, ad uso di cerimonie (Roji), meditazione (Kin-hin), distribuiti nello spazio tra frammenti di un blues anni ‘30 o istanti di quotidianità (Nagoya Koen). Arte del dettaglio e scelte incolore che sembrano andare oltre la naturale tonalità del reale, distruggere la figurazione per abbracciare in pieno l’astratto. (7/10) Sara Bracco Squartet - Uwaga! (Jazzcore Inc., Mar 2009) G enere : jazzcore È tempo di rinascite jazz-core dalle parti di Roma. Prima il nuovo lavoro dei tre Zu in (quasi) perfetta solitudine; roba che non si ascoltava – se non andiamo errati – dall’epoca di Igneo. A quanto pare, a breve sarà la volta di altri loschi figuri imparentati o semplicemente spiriti affini ai qui presenti, come Neo e Testa De Porcu (sempre Storsveit Nix Noltes - Royal FamilyDivorce (Fat Cat Records, Apr 2009) G enere : balkan - folk su Jazzcore Inc.). Ora invece è la volta di Squartet, power-trio + 1 formato da Fabiano Marcucci (basso), Marco Di Gasbarro (batteria) e Manlio Maresca (chitarra) con l’aggiunta del sound man Francesco Fazzi, fomentare visioni schizzate in forma di canzone.Disco corposissimo, questo Uwaga! Muscolare e atletico, ma non come quei coatti della periferia romana soliti lustrare pettorali in estenuanti sedute di palestra. Il suono che esce dagli 11 pezzi dell’album pubblicato per Jazzcore Inc. è tanto possente quanto fitto di ricami e intarsi di matrice rock, quanto jazz, prog e fusion, ottimamente rodato da ben tre anni di lavoro in studio e on stage. Proprio nella coabitazione di furente rock di matrice math e/o punk (core, come da suffisso) e virtuosistica ricerca libera e fruttuosa (jazz, come nel prefisso) risiede la forza di quest’album. Che a dirla tutta un tempo si sarebbe detto hardcore evoluto e che invece oggi, metabolizzate influenze e rimandi non si può che dire necessariamente e pienamente rock, pur nelle sue geometrie e percorsi intricati e funambolici. Dentro si ritrovano infatti in un ordine casuale schegge di Sharrock e NoMeansNo, claudicante andamento alla Primus e Iceburn Collective, vertiginose scale ascendenti e drumming furibondo, partiture degne dei primi Don Caballero e attacchi (quasi)metal, prog-noise come degli adolescenti King Crimson de noantri e funkettoni agili e ritmatissimi che sconfinano in fusion ebete. We are not fool! We are old school! chiosano nel loro myspace. E noi siamo completamente d’accordo. (7/10) Islanda. No, per un attimo concentratevi su una sarabanda, su uno di quegli sketch a rotta di collo che fecero la fortuna di una pellicola come Gatto Nero, Gatto Bianco di Emir Kusturica. Nonostante Storsveit Nix Noltes sia una formazione nord europea con ben 11 elementi in campo – Storsveit sta per big band nell’idioma locale – il loro bacino d’influenza è da ascriversi in toto al folk balcanico. Suonato ovviamente con piglio poco tradizionalista, tant’è che scampoli d’improvvisazione, alchimie neo-classiche e squarci poco meno che rumorosi fanno di Royal Family-Divorce un disco infine originale. Non propriamente dalle parti dei due meravigliosi album dei Kletka Red, anche se a livello epidermico tracce di quello stentoreo esperimento possono ritrovarsi in Krivo Sadovsko Horo o Kopanitsa. L’accademia non ha fatto male ai nostri, musicisti che nonostante il pedigree di razza riescono a muoversi con piglio decisamente aggressivo nei meandri della musica popolare, che -come dicevamo in apertura – non è il folk del proprio paese. Alla festa partecipano membri assortiti di Mum, Benni Hemm Hemm, Lost In Hildurness, Numer Null, Rùnk, Kanada, Hestbak e Kria Brekkan. Dopo l’esordio del 2005 con Orkideur Havai – accolto da uno stuolo di fans niente male tra cui vale la pena citare Animal Collective, Emiliana Torrini e Mice Parade – per 12 Tonar è la volta del secondo cimento su lunga distanza, che viene realizzato localmente in piena autonomia sul finire del 2007, per poi essere licenziato a livello globale da Fat Cat nel 2009. Un disco da balera alternativa, scoppiettante, ma anche struggente, come molte delle storie che quotidianamente giungono dall’Europa orientale. Un album che trasuda umanità, sfrenato e dissacrante nel suo essere. (7/10) Stefano Pifferi Luca Collepiccolo recensioni / 115 Super Furry Animals - Dark Days / Light Years (Rough Trade, Apr 2009) G enere : psych pop A quel paese la maturità. I Super Furry Animals non ci tengono proprio a diventare grandi, a cullarsi nello status di band pop semiclassica (per quanto ancora obliqua, ci mancherebbe) fieramente conquistato sul campo con le prove recenti. Tutto sommato, dopo tre lustri di carriera, sarebbe stato anche piuttosto naturale accontentarsi di una sorta di equilibrio, pur mantenendo quell’inconfondibile attitudine curiosa, storta e onnivora che ha fatto dei gallesi uno tra i segreti meglio custoditi di Albione. E invece no. Tanto il precedente Hey, Venus! era – infine conciso, ordinato e coerente, quanto questo Dark Days / Light Years ritorna anarchico, debordante e allegramente fracassone. Galeotte le liberatorie escursioni di vari membri in progetti alternativi (Gruff Rhys nei Neon Neon, Dafydd Ieuan e Guto Pryce nei Peth, Cian Ciaran negli Acid Casualties), si è ritornati all’approccio mangiatutto e ipercazzone di una decina d’anni fa, i tempi di Guerrilla, Mwng e Ice Hockey Hair. Un colpo di mano fortemente voluto (banditi dallo studio lap steel e sassofoni, nonché le ballatone), che inevitabilmente si porta dietro tutti i pro e i contro del caso. Di certo, la band sentiva disperatamente il bisogno di togliersi le briglie, di sconfinare dal recinto della canzone; una mossa per quanto gratificante (vedi i fantastici viaggi cosmici di Cardiff In The Sun - ovvero i Primal Scream più krauti che ci siano - e della conclusiva Pric), comunque rischiosa (l’iniziale macigno trash-freak di Crazy Naked Girl, divertente ma non poi così tanto). D’altro canto, cose come Mt., White Socks / Flip Flop e Inconvenience (trascurabili quando 116 / recensioni non irritanti), Moped Eyes e The Very Best Of Neil Diamond (usuali e stuzzicanti ibridi electrofunkpsychpoptrance, forse con un po’ di pepe in meno del solito) denotano la ricerca di quella vena amabilmente bastarda, ironica e contaminata dei loro lavori ante-2000. Fortunatamente, il risultato viene salvato da quattro superclassici SFA del calibro di Inaugural Trams (un singolone poppissimo, ma così crucco e autobahn-ico da figurare un esilarante rap tedesco di Nick McCarthy dei Franz Ferdinand), Helium Hearts (meraviglioso pastiche ELO-soul ’70, l’erede di Juxtaposed With You) e le speculari Where Do You Wanna Go? / Lliwiau Llachar (stessa base ritmica per un sixties pop appiccicosissimo, che pare tirato fuori da Radiator). Insomma, pur nella loro ritrovata incontinenza, sembra comunque impossibile non continuare a voler bene agli animalozzi (soprattutto in patria, complice una critica che deve perdonarsi il fatto che una band così sia destinata a un perenne stato di culto). E’ ok cascare in piedi, però, uhm, attenzione a non sottovalutare certi scivoloni. (6.7/10) Antonio Puglia Sweet Billy Pilgrim - Twice Born Men (Samadhi Sound, Apr 2009) G enere : avant - pop C’è la benedizione dell’ex Japan Steve Jansen per il debutto su Samadhisound dei londinesi Sweet Billy Pilgrim, che al meglio rappresentano l’avanguardia pop inglese del momento, con solidi link ai Talk Talk della svolta storica di Spirit Of Eden. Un sound che più che muovere dalle barocche derive di certa new wave, sembra portare in dote la passionalità di certo romantico rock come del tardo e meno esasperato progressive. In questo Twice Born Men è disco inequivocabilmente britannico, vuoi per l’immaginario di riferimento, vuoi per i contenuti espressamente musicali. Non sempre l’elettricità recita un ruolo preponderante, spesso sono infatti gli strumenti acustici a rendere ancora più spessa la coltre ove i tre si muovono, come vecchi fantasmi da palcoscenico. C’è il clarinetto basso di Alphonse Elsenburg – già collaboratore dello stesso David Sylvian, al quale Sweet Pilgrim debbono proprio l’ingaggio – ad aumentare la profondità di brani come Truth Only Smiles, cartoline da Canterbury col Wyatt solista in somma ammirazione, e There Will It End, dove unitamente ai suoni processati e ad un piano in distanza si consuma un pastorale numero di sinfonico pop. Altrove sembrano più minimali le scelte del trio – guidato dalla magnetica voce di Tim Elsenburg – quando incrociano la folktronica in punta di piedi di Longshore Drift, solo screziata dal drammatico volteggiare degli archi. Questo è il loro secondo album e suona come il lavoro di una band di veterani, ancora cosciente delle potenzialità della forma canzone, eppure affascinata da tanti innovativi scenari d’alto borgo. Se è lecito parlare di pop aristocratico... (6.9/10) Luca Collepiccolo Syntheme - Lasers ‘N’ Shit (Planet Mu Records, Feb 2009) G enere : wonky acid breakz Già dal titolo lo capisci che quei laser mentali la fanno da padrone. Dopo Volume 1 (sempre sull’etichetta di Paradinas) e Lov3, torna Louise Wood da Brighton (qualcuno dice sia Global Goon...). La ricetta si accoda all’esplosione della supernova breakbeat con l’esperimento di Zomby. Solo che qui, dato che siamo su Planet Mu, non si viaggia sulle spiagge del dubstep: qua ci si va direttamente di acido. E se state aspettando il nuovo disco di Aphex, accomodatevi. Un bel giro in pista a base di perversione synth (i laseroni e i colpi maranza di Csiris), i ricordi della primissima Warp a base di 303 (una Scotch Paper da nostalgia), le visioni acidissime della scuola Jack detroitiana in salsa Autechre (Qarth, Frf3k Up!, Heat), qualche accenno al sound gaming a 8 bit IDM (144a Acacia Overdrive e la tripletta nerdy Easy Medium Hard) e il catalogo è completo. Niente di nuovo? Alle volte non serve. Il passato trasforma il presente. E se lo scavo non può prescindere dalla motor city, chissenefrega. Quello che conta è come viene riletta la tradizione. Lasciamoci trafiggere dai laser. (7/10) Marco Braggion Takeo Toyama - Etudes (Karaoke Kalk, Apr 2009) G enere : avanguardie ( elettro ) acustiche A segnare un altro punto a favore per la label Karaoke Kalk, a poco più di un mese dalla notevole uscita firmata Dakota Suite, ci pensano le undici tracce del giapponese Takeo Toyama. Etudes, terzo album del giovane compositore di Osaka, oltrepassa i limiti del pianoforte preparato, tra nuova musica, avanguardie jazz, svisate classiche e una massiccia carica melodica di fondo. Alle registrazioni sul campo (Tremolo), agli strumenti preparati (Tuner) - pianoforte, tastiere, archi e percussioni - è lasciata totale libertà di agire con o senza concessione d’improvvisazione: in progressioni (Gauche), disarmonie, rime o ridondanze (Leo). Raggiunta metà album (Drawing), si rivelano le stesure più ludiche, complici le filastrocche di una diamonica e un violoncello (Bobbin), fantasie e lustrini ritmiche (Troll), le inattese derive sintetiche (Odd) o le punteggiatura di tasti e archetto (Drops). C’è estro e metodo nelle fiabe sonore di Takeo Toyama, a cui non manca retroterra culturale (da Bartòk, Reich o Glass) e un senso di freschezza tipico del Sol Levante. In fondo anche se si parla di combinazioni sonorecensioni / 117 re, c’è comunque da fare i conti con la fantasia, l’interpretazione, le formule narrative, i luoghi indefiniti, la magia o l’allegoria. (7.2/10) Sara Bracco Tellaro - Jars, Jams & You (2nd Rec, Dic 2008) G enere : indietronica Non si chiamano né Radiohead né Yuppie Flu, ma la formula che adottano i siciliani Tellaro per presentare la loro terza fatica è la stessa già sperimentata dalle due formazioni citate: vendere il disco on-line in formato mp3 lasciando che siano gli utenti a stabilire il prezzo da pagare. Per farlo, è sufficiente andare sul sito dell’etichetta che ne cura la pubblicazione – la 2nd Records, all’indirizzo www.2ndrec.com/ blog – decidere quanto spendere e scaricarsi Jars, Jams & You, per ritrovarsi sul lettore un buon disco di indietronica nostrana. Materiale, per intenderci, in linea con certe produzioni dei Tunng ma al tempo stesso capace di de-localizzarsi rispetto alla miriade di uscite sul genere grazie a una quadratura di fondo e a qualche brillante intuizione. Come, ad esempio, i campionamenti vocali di The Divorce, le voci fuori campo dagli accenti “regionali” di Maria, i controtempo di Zaurdetto, le evanescenze della conclusiva Things Are Tired Of Being Desired. Fragili stratificazioni di superficie e suoni elettro-acustici capaci di donare dignità a un disco che, ne siamo certi, avrebbe raccolto apprezzamenti maggiori fosse uscito soltanto due o tre anni fa quando certe sonorità erano la regola. (6.8/10) Fabrizio Zampighi 118 / recensioni The Sweet Vandals - Lovelite (Differ-Ant, Mar 2009) G enere : soul Thelema - La Sangre Real (Black Light District, Mar 2009) G enere : dark - folk - rock Quando dici che la musica è un autentico esperanto: gli Sweet Vandals provengono da Madrid e sono di etnia mista. La qual cosa non influenza minimamente la musica che fanno, fedele alla linea di quella riscoperta del “vintage soul” in corso da grossomodo un triennio. In Lovelite, loro secondo lp, maneggiano la materia black con disinvoltura e adeguata padronanza tecnica dei fondamentali, impastano con vigoria da live band (ambito dove daranno senz’altro il meglio) robustezza errebì e groove funky. Intinta nel gospel l’ugola di Mayka Edjole - fate conto una Bettye LaVette senza pathos da vita vissuta… - ed esperti gli accompagnatori, su tutti Santiago Vallejo allo sfrigolante, incontenibile organo Hammond. Si guarda indietro sin dalla registrazione, che coerentemente odora di antico cercando di ripetere la concisione della Stax attraverso il calore degli strumenti anni ’60. Non fanno insomma del male a nessuno gli Sweet Vandals, misoneisti che tra revival e attualizzazione sanno bene dove schierarsi e sin qui nulla di male. Avessero, oltre a solido mestiere e scolastico zelo, anche l’abilità di scrivere brani capaci di fissarsi nella mente in modo duraturo, per loro fioccherebbero le lodi. Così non è se non sporadicamente, tuttavia, con apici affatto disprezzabili nel gioco di pieni e vuoti Thank You For You e nella divertita Funky Children, in una Let’s Have Some Fun dalle parti di Mustang Sally e, soprattutto, nella vibrante What About Love. Gradevole ancorché poco incisivo il resto e Vandali assolti con una pacca sulla spalla, finché di questo ennesimo recupero non ne avremo tutti le tasche piene. A meno che per qualcuno già non sia così. (6.5/10) La Sangre Real – terzo comeback della band modenese – segna l’esordio di Black Light District, ennesima etichetta folk-dark oriented a nascere dalle parti del tacco dello stivale, quasi che l’influenza delle leggende legate a Castel del Monte allungasse la propria ombra sul pentagramma. Questo di Thelema è un ottimo disco dal mood dark-rock, come si conviene al genere, ma riesce a schivare le soluzioni di genere più scontate per allargare confini e vedute anche verso una tipologia di rock più (ehm) solare. Si prenda ad esempio Yet To Come: ballata darkfolk quanto si vuole, ma l’emergere nella parte finale di armonie vocali in pieno stile primo Wyatt, in un crescendo umorale ed emotivo di altissimo spessore. Il cuore della questione, però, batte ovviamente per le lande più oscure e apparentemente demodé del rock gotico e tinto di nero: Inquisition, mesmerica ballad folk apocalittica pronta a disintegrarsi in sfuriate elettriche limitrofe a certo indie-wave movimentato e urlato. O ancora l’ossianica e conclusiva title-track, ossessivamente corale; o In Arcadia, impreziosita dalla viola dell’ospite Pino Dieni (anche alla tromba in un paio di episodi) che disegna paesaggi pastorali limitrofi a certo dark-folk inglese. Esempi che la dicono lunga sull’ampio orizzonte musicale del quartetto e sulla sua capacità di gestire la materia sonora con cura, attenzione e passione. Non meno importante è il fondamento teorico alle spalle di La Sangre Real, sorta di concept sulla figura del cristo storico, elaborato dal nucleo fondatore Massimo Mantovani (voce) Giancarlo Turra e Giorgio Parmigiani (basso, tastiere) con le new entry Gianluca Artioli (chitarre acustiche e elettriche) e Alex Facciolo (batteria). (6.7/10) Stefano Pifferi Tosca - No Hassle (!K7, Apr 2009) G enere : L oungetronica D owntempo Ogni tanto il downtiming ritorna. Anche se l’apice di quel movimento che ha sbancato le nostre menti alla fine dei 90 non è più molto in auge - se non per l’insonorizzazione di qualche locale a tema o per rinfrancare qualche nostalgico - c’è ancora qualcuno che ci crede. E la parabola creativa di Richard Dorfmeister ci narra con il suo progetto Tosca (assieme al fido Rupert Huber) la storia di questa estetica. Lui assieme al compagno Kruder è stato il promotore (complice l’impeccabile produzione !K7) di una minirivoluzione che inesorabilmente ha riportato i danceclub di mezzo mondo sull’onda lounge. Questo nuovo album non è deputato a dire niente di nuovo, dato che difficilmente ci si può discostare dai cliché del genere. Lo stile c’è sempre e comunque: tra elettronica e soul (My First), ballad jazzy (Elitsa, Birthday), accenni alla deep house (Springer, Oysters In May) e al latin funky (Fondue) si riesce ad intrattenere l’orecchio per un’ora. Senza strafare e nemmeno stupire Tosca porta avanti il testimone di un’epoca passata, che sporadicamente ci può ancora far rilassare. Piacevole ‘e mai niente di più’. (6/10) Marco Braggion Uochi Toki - Libro Audio (La Tempesta Records, Feb 2009) G enere : rap esistenziale Era inevitabile che Uochi Toki arrivassero alla propria Spoon River. Così come era inevitabile che i centri concentrici delle loro (ehm) narrazioni/investigazioni si allargassero fino ad includere, oltre che l’attualità come al solito causticamente recensioni / 119 indagata, anche passato e futuro. Libro Audio, serie di racconti e/o aneddoti più o meno verosimili incastrati come al solito su basi crude, è strutturato in due parti: dal vero/reale/ credibile dei primi 6 pezzi all’immaginario/impossibile/incredibile dei secondi 6. In mezzo, a fungere da spartiacque L’osservatore: 10 minuti di sludge-core organico e slabbrato sputato fuori dalle macchine di Rico, sotto l’occhio clinico ed inquisitorio dell’osservatore Napo, grillo (s)parlante di una generazione di vuoti cosmici. Sono però tutte le composizioni ad essere pervase da una sorta di filosofia della genealogia in divenire; cercare un (non)autoritratto in forma di corrosiva cantilena che mette a nudo il re del quotidiano di ognuno di noi. Libro Audio tenta la mappatura dell’esistente attraverso gli occhi (a voler essere ottimisti) disillusi, di uno come tanti, ma nello stesso tempo scarta lateralmente l’obbiettivo dei precedenti lavori: nulla è più riconoscibile e evidente come nelle passate ridicolizzazioni della presunta “scena alternativa”, bensì diventa classico, nel senso più letterario del termine. Capace cioè di sopravvivere al proprio tempo e rendendosi immortale al passare delle situazioni. Uochi Toki è come al solito un Joyce senza pretese letterarie e cresciuto nella provincia denuclearizzata del post-moderno che si accompagna ad un misto nudo e crudo di beats rovinosi e rovinati, metà Einsturzende Neubauten, metà The Bug. E come al solito è un successo. (7/10) Stefano Pifferi 120 / recensioni Various Production/Gerry Mitchell - The Invisible Lodger (Fire Records, Mar 2009) G enere : spoken word electronica Gerry Mitchell – artista e poeta da Glasgow – non è nuovo al muoversi in appoggio ad altre entità. Lo avevamo ascoltato salmodiare le sue litanie poetiche sull’art-rock da camera di Little Sparta in un disco di un paio di anni fa; ora lo ritroviamo in joint venture con Various Production, coppia di semianonimi musicisti inglesi che definire prolifici è eufemistico (almeno una dozzina di singoli ed ep al loro attivo). Se al tempo di The Ragged Garden, lyrics & vocals di Mitchell si adagiavano sulle progressioni cameristiche del “gruppo spalla”, ora applicate sulla sorta di colonna sonora immaginaria e horror aggregata da Various Production acquistano ancor più spessore evocativo. The Invisibile Lodger è composto da 17 sketches più o meno brevi strumentalmente a metà tra le ambientazioni grigio-weird-industriali dell’Eraserhead lynchiano e i momenti più cupi e meno orchestrali della filmografia di Jarman. Le divagazioni e gli sconfinamenti verso folkerie albioniche varie (cornamuse, violini e quant’altro, tutto rigorosamente processato) con addirittura soluzioni latamente grime segnano il gusto per una elettronica raffinata e bastarda, non a caso definita (con molta fantasia) folk-dubstep. L’apporto di Mitchell è invece immolato ad una sorta di “scream of consciousness”, per usare le parole della casa madre, in cui i timbri e le atmosfere gloomy ricordano i momenti più ispirati di Coil et similia, ben sposandosi con l’immaginario evocato dal duo elettronico. Collaborazione decisamente riuscita per un al- bum indubbiamente notturno da catalogare sotto il termine spoken-word electronica. (7/10) Stefano Pifferi Veils (The) - Sun Gangs (Rough Trade, Apr 2009) G enere : P op The Runaway Found (2004) rimane la migliore delle tre uscite maggiori a nome The Veils. Il neozelandese di stanza a Londra Finn Andrews (voce, chitarra, piano), figlio di quel Barry Andrews già negli XTC e negli Shriekback, non si regge in piedi stavolta. Non si reggono in piedi le sue canzoni. Il sound è ancora quello dell’opera prima datata 2004, con vaghi passi à la Coldplay. Ma tranne rarissime eccezioni (vedi alla voce The Letter), questo tripudio indie-gaze di svavillanti e profonde armonie, tristi-amare, non trova nessun nerbo scrittorio ‘importante’ a sorreggerne l’enfasi. Il peggio lo fa forse Sit Down The Fire in apertura, ballata busona e dalla grandeur troppo troppo pronunciata. Segue Sun Gangs ed è anche peggio: uno strazio di pezzo pianistico e confidenziale ad alto tasso di noia incorporata. In generale, quando il quartetto accelera i tempi, e si smuove dalle paludi del brit-rock più vetusto, riesce ancora a lasciare il segno (i Big Country in versione gaze di Three Sisters). Ma è troppo poco per rivalutare un album, nel complesso, assai carente e debole. (5.5/10) Massimo Padalino Wau Y Los Arrrghs - ¡¡¡Viven!!! (Munster, Apr 2009) G enere : garage - beat Non si chiede innovazione per certi tipi di musica. Non si chiede la luna quando si tratta di macinare garage, beat, rock a forti tinte fuzz…Si chiede energia, velocità, sudore. E si chiede passione. Punto e basta. In occasione del comeback dopo l’ottimo Cantan En Español su Voodoo Rhythm, il quintetto di Valencia ci mette pure sarcasmo e (auto)ironia. Ergo, cosa chiedere di più? Cantato quasi interamente in castellano, l’album su Munster – vera e propria autorità in ambito garage, beat e psychobilly, con in catalogo l’universo mondo – inanella gemme da un paio di minuti o poco più equamente divise tra pezzi originali e cover; da urlo tra le seconde l’opener Delincuente, in origine degli Hatfields, così come No Mientas Màs di Pereira & Hirschfeld, tarantinata al punto giusto. Tra gli originali, Bli, Blu, Bla (bla bla bla) merita il podio in virtù di un testo tra i più divertenti ascoltati ultimamente, così come la conclusiva dichiarazione d’amore Viva Link Wray!!!. In ¡¡¡Viven!!!, insomma, troverete divertimento e 60s garage, Nuggets e farfisa a manetta, melodie poppissime e completi mod iper-stilosi, brillantina per capelli e punk sarcastico da sparare al massimo del volume. Come, dopotutto, recita lo sticker in copertina. Possibile esimersi? (6.8/10) Stefano Pifferi Whitest Boy Alive (The) - Rules (Bubbles Records, Mar 2009) G enere : M inimal E lectrosoulful P op Dopo Circlesquare, ritorna uno dei campioncini della minimal electro pop. Lui si chiama Erlend Øye, e di secondo nome fa Kings Of Convenience. Questo suo secondo album col progetto parallelo TWBA (dopo l’esordio Dreams del 2006) sembra essere diventato più di un passatempo. Come il canadese di cui sopra, anche qui la realness gravita attorno a Berlino, la grande incubatrice microhouse, minimal e glitch. Il ragazzo occhialuto non segue tanto le direzioni recensioni / 121 di Basic Channel o di nerd da camera techno. Lui con quella spocchia da Loser con la L maiuscola ci va di soul. E quindi ecco il ritorno dei suoni che avevamo imparato a conoscee con Kruder & Dorfmeister. Stavolta tutto quasi senza elettronica, il trionfo dell’analogica calda, senza vocoder, senza orpelli che ammiccano all’effetto acido, senz’anima. Questa tendenza al calore la senti anche nei pochissimi crescendi vagamente DFA (Courage), nelle pennellate che rievocano il tropicalismo dei 70 brasiliani (Intensions) o il p-funk di scuola New York (Timebomb). Insomma l’elettronica di domani è ancora una volta sulla via del retrofuturismo. E quasi quasi anche noi ci innamoriamo di queste perle che di electro ormai hanno pochissimo, ma che comunque crescono ascolto dopo ascolto, orgogliose della loro purezza pop. Un po’ di rhodes, un po’ di lounge (ritorna per qualche istante lo spettro di Tellier) e per chiudere il melo pastello dei paesi nordici. Erlend: conosce e detta le regole del gioco. (7.1/10) Marco Braggion Who Made Who - The Plot (Gomma, Mar 2009) G enere : minimal post - p - funk La compilation tripla del 2004 della DFA (#2) ha segnato più di qualche mente ritmica. Murphy non lo si vede molto in giro in questi ultimi anni, ma il quasi ragazzo è personaggio scaltro. Viaggia nell’ombra. E la sua eredità la senti anche in questo nuovo disco partorito dalla berlinese Gomma. Who Made Who che rifanno il sound newyorchese in levare con la cadenza krauta. 122 / recensioni Cose robotiche mescolate alle vibrazioni più rock di Franz Ferdinand e affini (This Train e The Plot con quell’incedere da gangsters), l’inevitabile minimalismo condito da qualche effettino tribale à la Talking Heads (Small Town City, Motown Bizarre), o da qualche coro pieno di falsetti che riportano l’analogico già richiamato da Circlesquare qualche mese fa (Keep In My Plane). Ma se vai un po’ più indietro senti come la componente wave sia predominante. Wall Of Voodoo, Fripp e altri nomi cardine 80. Che purtroppo sono citati involontariamente. Un peccato, dato che l’album migliora le sorti del precedente, sia per un impegno maggiore negli arrangiamenti, sia per scelte più oculate nei chorus, lontani dunque dai falsetti à la Sommerville e di converso più intarsiati nel legno (vedi lo stile di un certo Gahan). Oculati sono pure gli inserimenti Kraftwerk versante ultima prova, quel Tour De France che non brillava d’inventiva ma raffinava certa robo-tech all’ennesima potenza. Questa materia è la sostanza di un buon disco mancato che per tanti versi sceglie mezze misure: due o tre canzoni sulla scia dei proverbiali Franz, altrettante soluzioni p-funk ancora in derivata, tocchi Depeche che spingono paragoni pericolosi, etc. Sono le ultime due canzoni (Raveo e Working After Midnight) a rappresentare il clou del disco. Una coda del genere ci fa capire che se gli Who Made Who insistono, magari scrivono un bel pezzo. Magari lo arrangiano pure con consapevolezza dei loro riferimenti. Dal vivo sono già una certezza, d’accordo, ma quando si decideranno ad applicare la pratica allo studio di registrazione ci faranno ballare la testa. (6.5/10) Marco Braggion, Edoardo Bridda Wooden Birds (The) - Magnolia (Morr Music, Apr 2009) G enere : I ndie slow pop Vi dice niente il nome American Analog Set, band texana che in nove anni di carriera – dal ’96 al 2005 – ha conquistato il cuore di molti con sei album in equilibrio perfetto tra post rock e indie pop? Ecco, Andrew Kenny, colui che si celava dietro quella sigla, torna con una nuova creatura: i Wooden Birds. Cambia il nome ma non il contenuto. Quest’ultimo si connette direttamente a Set Free, l’ultimo lavoro degli American Analog Set, l’unico griffato Morr Music. Non una novità, non un miglioramento: la sensazione è quella di trovarsi dinnanzi sempre alla stessa canzone. Si gira intorno a fragili e repetitive melodie circolari tra intimistiche palpitazioni folk e morbidezze pop, sulle quali la voce del Nostro plana a bassa quota. Come se i Mojave 3 incontrassero Elliott Smith e decidessero di fare canzoni in formato tascabile basate sulla circolarità della medesima melodia, senza picchi emotivi o deflagrazioni sonore. Non un demerito, anzi: proprio la sommessa ripetitività è sempre stata la peculiarità di Andrew Kenny. Ma ci aspettavamo qualcosa in più, anche solo un piccolo cambio di rotta che invece non è stato effettuato, se non nel nome. (5.8/10) genza questi ascendenti, che pervadono ma non prevaricano il sound. In altre parole, tengono le redini della bestia conducendola con mansueta veemenza - se mi consentite - lungo nove tracce piuttosto ispirate. Meglio le prime, oserei dire, ché nel finale di scaletta si azzardano cincischi psych non troppo a fuoco (la spersa Greta, l’estatica Then She Came) oppure più fragore che altro (Now What It Seems), laddove Selfish Man se la cava mesclando ballad uggiosa e turgore come talvolta abbiamo sentito fare a Mr. Lou Barlow. Di contro ci sono episodi come Spiders, febbricitante anello di congiunzione tra i migliori Foo Fighters e i Fugazi, una Her Flattery che spedisce Husker Du nell’alcova Mark Kozelek, oppure gli sfrigolanti spigoli di Tubchair, più o meno una mischia Polvo-Dinosaurs Jr e ho detto tutto. Tolto un retrogusto nostalgico di cui non s’avverte il bisogno - troppo freschi e definitivi i nineties per meritarsi rimpianto - questo Frames è disco energico, fresco, teso e intenso. Di pronta beva. (6.8/10) Andrea Provinciali Stefano Solventi Zenerswoon - Frames (Nowherez, Apr 2009) G enere : indie rock E’ passato quasi un lustro - un’era geologica in ambito rock - dall’esordio There In The Sun, non c’è più Francesco Frilli alla batteria ma Stefano Tamborrino, ma a parte ciò constatiamo intatte la convinzione e l’attitudine per ciò che è uscito vivo dagli anni novanta. Post, emo-core, tardo grunge, math-rock: i fiorentini Zenerswoon se ne sono evidentemente nutriti e non fanno nulla per nasconderlo, però vivono con intellirecensioni / 123 il dvd il libro Hugh Barker/Yuval Taylor (Isbn, 2009) - Musica di plastica Mission (The) - The Final Chapter (SPV, aprile 2009) Due DVD celebrativi dell’addio alle scene dei Mission e del relativo tour del febbraio-marzo 2008, colti nei quattro concerti finali allo Shepherds Bush Empire di Londra più un terzo di interviste, prove e backstage assortiti. Questo il sunto di quello che ci si appresta a vedere con The Final Chapter, che sin dal titolo richiama The First Chapter, raccolta del primo materiale del gruppo inciso su etichette indipendenti, subito dopo l’uscita di Wayne Hussey e Craig Adams dai Sister Of Mercy nel 1985. Attenzione però che il marchio The Mission ruota ormai da anni intorno al solo Hussey, impegnato anche con altro (il Nostro si è trasferito in Brasile dove ha uno studio di registrazione), per cui la band è tutta nuova. I pezzi eseguiti appartengono principalmente ai primi quattro album – The First Chapter, Children, God’s Own Medicine e Carved In Sand - più altri brani sparsi, segno che il periodo d’oro è stato essenzialmente il primo, su questo non ci sono dubbi. La formula della band d’altronde è rimasta più o meno immutata negli anni, un granitico goth rock con tentazioni da stadio, immune da qualsiasi evoluzione musicale posteriore. Hussey è un frontman carismatico e comunicativo (si vede anche dai vari backstage) e la band si muove bene, nonostante il suono della batteria suoni piuttosto ovattato. La mescolanza di basso e chitarre fa il suo lavoro e i pezzi rendono come devono rendere, con tutta l’enfasi del caso, va da sé. D’altra parte assistiamo a una celebrazione e un addio e l’esagerazione e la retorica ci sta tutta, per carità. Sembrerebbe strano il contrario. Tirando le somme sappiamo che il gruppo non è stato tra i capisaldi del genere, tutt’altro, ma un onesto ensemble che ha avuto i suoi meriti e il suo breve momento d’oro, e che visto oggi ha il pregio (tutto quanto va ovviamente riferito a a Wayne Hussey) di portare bene gli anni e saper far fruttare l’esperienza acquisita sul palco. (6.8/10) Teresa Greco Due le domande che è lecito porsi a proposito di questo libro. La prima: quanto è importante la questione dell’autenticità per gli appassionati di pop(rock)? Molto, a giudicare da quanto viene presa a metro di giudizio nelle recensioni e nelle diatribe che infiammano regolarmente i forum. La seconda: è un caso che qualcuno abbia avuto l’idea di scriverlo oggi e non - poniamo - quaranta anni fa quando la questione era già all’ordine del giorno? Forse no. Forse l’autenticità è un dilemma che pervade più aspetti del vivere di quanto non sia mai stato, ci attende al varco in ogni momento, mediando la percezione di base, annidandosi nella catena dei pensieri che riteniamo più nostri, scavando tunnel insidiosi nella terra su cui poggiamo fiduciosi piedi. Ragion per cui questo Musica di plastica (titolo originale: Faking It) scritto a quattro mani dal filosofo e compositore londinese Hugh Barker e dal musicologo chicagoano Yuval Taylor, cianciando di pop in senso ampio (blues, folk, rock, disco, wave, hip hop...) dal punto di vista della produzione e della fruizione, finisce per sondare il denso e complesso rapporto tra i media e noi, che ai media dedichiamo sempre più energie, conformandoci ad essi nei più insospettabili modi. Ne esce un affresco che, tra paradossi e rivelazioni, tra miserie ed eroismi, abbraccia John Mississippi Hurt e Kurt Cobain, Elvis Presley e Diana Ross, Neil Young (protagonista di un capitolo che sfiora l’agiografia, ma come biasimarli?) e Moby, Ry Cooder e John Lydon, con inevitabili accenni a personaggi di contorno - si fa per dire - quali Mick Jagger e Malcolm McLaren, Giorgio Moroder e Ibrahim Ferrer, Lennon e Frank Sinatra, Paul Simon e Nick Cave. Alla fine del quale esci con la sensazione che il nodo non sia stato sciolto, che il dilemma si ripresenterà sempre e ancora perché l’autenticità (o l’inautenticità, se preferite) non conosce altra unità di misura che l’importanza che siamo disposti a tributarle secondo i casi e le situazioni. Certo, meglio essere consapevoli di quanto sia facile farsi gabbare quando i parametri in gioco sono tanto aleatori, con l’esperienza accumulata in quasi un secolo dall’industria discografica, tenendo in debita considerazione che gettare l’acqua sporca e il bambino può essere un esercizio di mediocre masochismo. Forse per esprimere il succo bastava un articolo lungo, ma la lettura scorre godibile, condita da anedottica intrigante e chiose acuminate. Stefano Solventi 124 / recensioni recensioni / 125 live report B.Fleischmann C ittà del T eatro , P isa Nell’ambito della rassegna Fosfeni, giunta al suo quinto anno, arriva in Italia l’austriaco Bernard Fleischmann, sull’onda dell’apprezzato Angst is not a Weltanschauung!. In un teatro dalle pareti nere che favorisce l’immersione nelle atmosfere della musica, il palco ospita un grande tavolo con le apparecchiature del dj, una Les Paul nera e altri due microfoni destinati alle ugole di Marilies Jagsch e Sweet Wil- B.Fleischmann 126 / Rearview Mirror liam Van Ghost, già voci del disco e occasionalmente alla chitarra; nonché uno schermo bianco sul quale vengono proiettati dei video, rigorosamente in b/n, di rielaborazioni da vecchi film. Se si eccettuano i due momenti in cui il leader lascia la scena in solitaria prima all’una e poi all’altro, in realtà della chitarra ci sarebbe relativo bisogno: bastano il suo computer e le tastiere a creare un paesaggio sonoro che l’alto volume dell’impianto contribuisce a rendere nei dettagli. La scaletta è centrata sul materiale più recente, quello della svolta verso la forma canzone, e su qualche anticipazione del materiale futuro, e la resa fuga eventuali perplessità sulla riuscita live di musica creata al laptop. Non solo perché la voce di Van Ghost non risulta così Nick Cave come sul disco, ma anche perché la situazione consente un ascolto avvolgente, difficile da ottenere altrove a questo livello, che permette di cogliere le nuances e i dettagli delle canzoni. Dal laptop poi esce la quarta voce della serata, il Daniel Johnston presente, anche lì digitalmente, già nella versione su disco di Phones, Machines and King Kong, col leader che appunto ringrazia il suo pc per avergli consentito di fare musica insieme a Johnston (il fatto che le iniziali del cantante americano siano DJ è curioso ma probabilmente non vuol dire nulla). Come tutti gli altri brani in scaletta anche questa canzone risulta in qualche modo più calda e potente che in studio: segno che, elettronica o meno, Fleischmann suona, confermando non solo la bontà del disco ma, col materiale nuovo, anche la salute della sua musa al momento. Giulio Pasquali musicale. Decisivi, tuttavia, nel convertire le pause in attese spasmodiche ma soprattutto nell’esaltare i momenti più sognanti del film. Secondo un copione che prevede un piccolo stravolgimento all’interno della band, dal momento che il cavallo di Troia chiamato ad eccitare le sinapsi non è più la voce di Emidio Clementi – nessuna parte vocale vocale è prevista - ma la chitarra elettrica di Egle Sommacal. Bravo, quest’ultimo, a distendere una ragnatela di fraseggi pressoché infinita, ad auto campionarsi per donare profondità ai suoni, a giocare con pedali ed effetti per sottolineare i crescendo della trama. Con a destra un Clementi pulito ed essenziale al basso e a sinistra una Vittoria Burattini puntuale nel compensare i vuoti della chitarra con coloriture ritmiche ampie e spaziose. Un’esperienza audiovisiva inedita, questa di casa Usher, che convince, emoziona e lascia il segno. Fabrizio Zampighi Massimo Volume T eatro di B udrio , B ologna Più che questa versione cinematografica del racconto di Edgar Allan Poe, chi vi parla conosceva la trasposizione resa celebre da Roger Corman negli anni 60, con l’irraggiungibile Vincent Price a fare da mattatore. Una colpa, più che un vanto, dal momento che il film protagonista della sonorizzazione in oggetto ci è parso assai più visionario e inquietante della pellicola di Corman. Sarà stato per il bianco e nero sdrucito o magari per certi fuori fuoco disturbanti, per i grandangoli quasi distorti o per quei ralenti così eloquenti, ma il film girato nel 1929 da Jean Epstein ha mostrato una modernità di linguaggio superiore alla media degli horror e dei thriller di ultima generazione. Grazie anche all’espressionismo fascinoso del muto, in cui ogni gesto, per quanto banale, assume significati profondi e teatrali. Certo buona parte del merito va anche ai Massimo Volume, qui chiamati a dare spessore alle vicende narrate con una successione di scambi strumentali non lontani dalla propria tradizione Bachi Da Pietra D iagonal C lub , F orlì Trovare una chiave di lettura per la nostra passione per i Bachi da Pietra, non è facile. E’ un po’ come chiedersi per quale motivo in Italia si continui a suonare – e a scrivere di - musica indipendente senza avere a disposizione risorse di alcun genere, nonostante una politica imbarazzante e completamente insensibile, a dispetto di una crisi che prima che essere economica è sociale e culturale. Autolesionismo? Forse, o più probabilmente necessità. Di comunicare, ma anche di condividere esperienze, sensazioni, conoscenze, che nell’altro mondo – l’esterno, il quotidiano, la realtà del paese, direbbe il signor Agnelli - sarebbero precluse. In questo social network di disperati a parametro zero non valgono le lauree o la rispettabilità, il lavoro che fai o i soldi, ma quello che sai dare. La moneta di scambio è l’onestà, il porti senza mediazioni verso chi ti ascolta, l’integrità umana, prima che artistica. E in questo senso i Bachi da pietra sono esemplari, che li si ascolti su disco – Rearview Mirror / 127 andate a riprendervi l’ultimo Tarlo Terzo dalle classifiche di fine anno di Sentire Ascoltare – o su un palco. Merito di una formula musicale che fa dell’essenzialità e del rigore un punto d’orgoglio, di un blues of consciousness ipnotico ma artigianale, di un mostrarsi senza vergogna evitando stupide coloriture modaiole. Un godere comune che sa quasi di filosofia, umorale e sotterraneo, ruvido e reiterato, per certi versi intransigente. E in grado anche, nella pratica, di cortocircuitare col proprio peso specifico quel chiacchiericcio menefreghista ormai consuetudine del localino di provincia come del club metropolitano, scavando in profondità, toccando gli estremi dello stile, trovando un senso logico solo in sé stesso. Succi continua a rimanere quel chitarrista istintivo e viscerale che era ai tempi del primo Tornare nella terra, senza filtri, come il cantato gorgogliante che sputa fuori nell’ora circa di concerto. Dorella è Dorella, rapito dai tamburi, con gli occhi perennemente chiusi, in uno stato di abbandono che richiama – come del resto la scritta sulla maglietta nera indossata dal Nostro – la ritualità dell’altro brand di cui è depositario, gli Ovo. Entrambi interconnessi, i due musicisti, l’uno all’altro, e entrambi ugualmente persi in una trance fatta di automatismi inconsci e puro feeling. Poetica cadenzata che lavora per sottrazione in cui nulla è superfluo e ogni piccola variazione di temperatura colpisce dritta allo stomaco. Ecco perché parlare ancora e bene dei Bachi da Pietra. Perché è uno dei progetti più potenti dello “stivale”. Ennesimo aggiornamento di quel rock “declamato” - per chiarimenti, c’è SA n. 50 – che recuperando idealmente il passato dei Madrigali Magri e dei CCCP, si affianca a Offlaga Disco Pax e Massimo Volume. In un cammino che col rock di scuola americana mantiene giusto un legame di parentela ma che è anche e soprattutto, “roba nostra”. Fabrizio Zampighi 128 / recensioni Lara Martelli C ircolo C aracol , P isa Viso da diva del cinema, si comporta come tale rimanendo per tutta la durata dello show con un impermeabile, benché senza maniche, all’interno di un Caracol-fornace perché “è il mio costume di scena”: e considerate che mentre il disco dava un’idea di tranquillità quasi invernale dal vivo le canzoni acquistano calore e passione soltanto intravisti nella versione registrata, cosa che insieme alla grande affluenza di pubblico aumenta ulteriormente la temperatura del locale. Accompagnata da una formazione a tre (l’alterego musicale Pierfrancesco Aliotta a computer, tastiere e basso, Marco Marzo alla chitarra e Claudia Della Gatta al violoncello) ridotta ma estremamente efficace, Lara Martelli conferma per l’ennesima volta la misteriosa legge per cui i dischi in Italia sono anche belli, anche fatti bene, ma il 95% dei gruppi e cantanti italiani è meglio dal vivo. Lei dice che è perché le canzoni portate in tournée nel tempo vengono rilavorate, migliorando arrangiamenti ed esecuzioni, ma quale che sia la causa, il viaggio nella versione live di Cerridwen ha qualcosa di magico davvero nella compiuta padronanza con cui si ribadisce che il trip-hop che domina l’album è un genere fatto di freddo nord, è lunare come la dea che lo intitola, ma è fatto anche di passione bruciante ed aperture stordite da cielo estivo. Una dicotomia nella quale la nostra si trova bene forse grazie anche alla doppia origine, tra il sole di Roma e il freddo della Finlandia, e che viene resa efficacemente anche dalle morbide movenze con cui la cantante trattiene la tensione e poi la fa esplodere qua e là in improvvisi abbandoni a danze frenetiche. Dopo aver recuperato nei bis qualcosa dal precedente Orchidea rossa e dintorni (anche qui la cottura degli anni ha agito in meglio), tocca all’omaggio “al più grande amore della mia vita, non corrisposto” di una sommessa e intensa There’s A Light That Never Goes Out e a quello alla raffi- l ara martelli nata leggerezza dei Beatles di Blackbird chiudere l’esibizione di un talento in grado di affermarsi bene all’interno di un genere che sta tornando in auge. Giulio Pasquali Blixa Bargeld T eatro R asi , R avenna Nonostante l’età e il panciotto del completo nero tenuto sollevato da un tono addominale non proprio fulgido – un po’ alla Horst Tapper, lasciatecelo dire – Blixa Bargeld fa ancora la sua porca figura. Sarà forse per quel caschetto liscio che fa tanto direttore d’orchestra o per lo sguardo da pluriomicida con cui ti osserva, ma provare nei suoi confronti riverenza mista a timore viene quasi naturale. Del resto stiamo parlando di un terrorista del pentagramma, un artista che ha sorpassato da destra Nick Cave lasciandolo con un palmo di naso e decretandone, nei fatti, l’oblio creativo. Quando te lo ritrovi su un palco, da solo, senza strumenti, con un microfono di fronte e qualche pedale vicino alle casse spia, non sai proprio cosa aspettarti ma hai il sospetto che sarà comunque qualcosa di grandioso. Lo spettacolo si chiama Rede Speech e in soldoni si tratta di uno studio sull’emissione, il campionamento, la sovrapposizione della voce, per ottenere spaccati sonori vicini all’ambient, al noise, al rumorismo, all’elettronica. Detta così potrebbe sembrare poca cosa e probabilmente, se a fare gli onori di casa ci fosse stato un musicista mediocre, lo sarebbe stata davvero. Invece davanti a noi c’era il deus ex-machina degli Einstürzende Neubauten, uno a cui carisma, presenza scenica ed esperienza non mancano di certo. Virtù che non si comprano al supermercato ma sono diretta conseguenza di un percorso artistico ben preciso, nel caso di Bargeld, costellato di razionalismo, intransigenza, rifiuto per i compromessi, voglia di spingere il concetto di musica oltre le barriere del comune sentire. Tutta roba che viene fuori durante la performance, nella sana follia che regge il discorso, nella voce inquietante che regola l’intensità delle suggestioni, nelle urla criminali che rimandano ai tempi gloriosi di Stagger Lee menando fendenti per tutta la platea. Lo scopo è creare veri e propri brani o magari descrivere con i suoni un ideale processo di ricombinazione del DNA; dare forma a pensieri e sensazioni sconnesse o tornare alla preistoria collezionando grugniti animaleschi persi nel tempo. Per sapere fino a che punto può arrivare la voce, quando è foraggiata da una creatività che è un misto di metodo scientifico e devianza. Alla fine uno spettacolo disturbante e sorprendente, questo Rede Speech, personificazione perfetta del suo creatore. Fabrizio Zampighi recensioni / 129 WE ARE DEMO #35 I migliori demo giunti nelle nostre cassette postali. Assaggiati, soppesati, vagliati, giudicati dai vostri devoluti redattori di S&A. Testo: Stefano Solventi, Fabrizio Zampighi. Ear - Asfodeli da conservare (Autoprodotto, Feb 2009) G enere : F olk pop Trio acustico dall’Emilia Romagna, due chitarre e un violino, l’onda lunga e sorniona del NAM si sfalda di delicatezze pop in italiano (e quindi un po’ italiane), coglie sdilinquimenti cameristici e si fa cogliere da ebbrezze vagamente psych, per poi concedersi jazz-folk nella sbrigliata Cose, tra flauti, cornamuse, fisarmoniche, clarinetti e un’enfasi che arrivano a scomodare il Van Morrison bucolico. Decisamente e programmaticamente fuori dal tempo, ma in fondo sembrano suggerirti - con una certa convinzione cui finisci per credere - che la loro calligrafia sta alla base di tanto poprock più o meno evoluto che ci capita di ascoltare. Li aiutano in questo i bravi Martinicca Boison e Sara Piolanti. (6.5/10) SS Lam - Wild (Autoprodotto, Feb 2009) G enere : post rock cinematica Duo cosentino attivo dal 2001, i Lam si sono fatti venire un’idea mica male: riempire la desolazione atmosferica del post rock con le palpitazioni emotive e - è proprio il caso di dirlo - cinematiche dei Badalamenti, dei Vangelis e dei Morricone. Claustrofobie tra i landscapes sconfinati. Strane angosce t’inchiodano al suolo eppure cammini. Ciò che ha gli ha guadagnato la partecipazione a Poison Ochs, compilation-tributo al grande Phil Ochs licenziata nel 2003 dall’etichetta statunitense Wood Records, esperienza doppiata un paio di anni più tardi con I’ll Never Leave You (dedicata stavolta a Harry Nilsson). Insomma, hanno questa capacità di allestire scenografie ipnotiche e minacciose, come una marcia in un deserto senza tempo o forse post-atomico, le venature dark della chitarra e i panneggi eterei delle tastiere s’impastano con un certo languore 130 / recensioni rimagliati da drum machine, tramestii sintetici e occasionali apparizioni d’archi. Non troppe le idee, la cui reiterazione ossessiva non sempre si fa bastare. Resta la validità dell’intuizione di partenza. Che sia una partenza, però.(6.6/10) SS Magpie Wedding - Torches EP (Autoprodotto, Feb 2009) G enere : psych folk Sono in quattro, tre italiani (alle prese con chitarre, piano, batteria, sega e banjo) e una inglese (la cantante, chitarrista e fisarmonicista Grace), e fanno perno nella sonica Bologna dal 2007. Questo Torches, il loro ep d’esordio, mette in mostra una fibra folk perturbata di tremori elettrici e torpori emozionali, qualcosa come un impasto spugnoso della Sinead O’Connor più inafferrabile e i Bardo Pond più affabili, strizzando l’occhio ai sentieri traditional più o meno anomali di una Vashti Bunyan e impelagandosi senza tema nella brumosa solennita di certo post-rock. Quando cedono sul versante Strawbs è solo per rimarcare la melmosa inquietudine quasi Arcade Fire che li anima, e che potrebbe portarli lontano se saranno bravi a non smarrirsi nella loro stessa caligine.(7/10) SS My Speaking Shoes - Wow, Introspection! (Autoprodotto, Feb 2009) G enere : indie stoner Tornano i quattro My Speaking Shoes da Sassuolo, età media vent’anni, cui non manca certo il carattere né una certa versatilità nel disimpegnarsi tra spurghi stoner, guizzi indie-wave e repentine parentesi psych-blues in derapage noise. Chitarre ghignanti, casomai effettate, basso e batteria che se la intendono, una cantante senza timore reverenziale. Resta da capire quanto queste capacita Claudia Is On The Sofa - Sweet Daisy (Autoprodotto, Feb 2009) G enere : folk rock Claudia sul suo sofà sogna di fare la folk singer il che significa tutto e niente se non ti scegli la scia da annusare, inseguendola come si fa coi sogni di gloria o con certe infatuazioni che ti rivelano chi sei. In questo caso, la ragazza bresciana guarda al country però dall’angolazione affabile e polverosa dell’ultima Cat Power, con le sue movenze devote sopra la polpa di una perdizione che nel caso della cara Chan gli anni hanno sedato e smarrito (bontà sua), qui invece presumo si tratti di dolcezza fisiologica unita all’impudenza tipica di chisa ciò che vuole. Insomma, i quattro pezzi di Sweet Daisy sono ballate dal passo caldo e disinvolto, capaci di una strana, solenne saggezza (vi basti la palpitante Apple Tree) cui fa eco il puntuale contorno di piano e chitarre (slide e steel) per arrangiamenti che ti lasciano di stucco tanto è l’equilibrio tra inventiva e misura (prendi la title track, con nulla da invidiare a certe delizie Norah Jones). Molto brava: presto il sofà le starà stretto. (7.1/10) SS e questa energia sapranno darsi una forma, come dire, propria, inconfondibile. E’ il prossimo passo ragazzi. Quello decisivo. (6.6/10) SS Novalium - Self Titled (Autoprodotto, Apr 2009) G enere : rock Si parte con il blues di Sangue e piombo nell’omonimo EP dei Novalium, sonorità hard applicate alla musica del diavolo che, crediamo, sarebbero piaciute molto allo Slash periodo Snakepit. Per poi imboccare un percorso non necessariamente retto che cita i Timoria di 2020 (Amaro), si attarda tra Alice in Chains e stoner (Nuovo documento di testo), mostra di gradire crossover e affini (Generazione), cede il passo a qualche momento di riflessione (Il volo). Il risultato finale piace pur senza sconvolgere e mostra una band impegnata a cercare una proprio linguaggio partendo da una formazione musicale piuttosto convenzionale. Talkbackparrot - Rewiring (Autoprodotto, Apr 2009) G enere : ambient - field recordings Tra armoniche a bocca e quintali di field recordings, atmosfere distese ed elettronica casalinga, timide chitarre e rumori dal fondo, ci si imbatte, con questo Rewiring, in un’opera che valorizza il sentire dimesso, il lento fluire dei suoni, le sonorità concrete, ma anche la musica contemporanea. Un carattere introspettivo vagamente ambient dietro cui si nasconde Fabio Damiani, deus ex machina del progetto nonché polistrumentista col vizio dei suoni sintetici. Che in questa sede certifica una collezione di umori, più che un disco a sé stante, sorta di museo delle microvariazioni assemblato con un gusto e in grado di esaltare le idee di fondo del padrone di casa. (6.8/10) FZ (6.2/10) FZ recensioni / 131 our electro friend - Giancarlo Turra R evolutions at 33 A costo di risultare noiosi, lo rimarchiamo di nuovo: frammento e ritmo mostrano una delle vie odierne plausibili della musica infinita, a partire dal rock citazionista per giungere a chi, dei due elementi, fa uso più strutturale. Al proprio meglio, questa contemporaneità che profuma di infiniti ieri indica percorsi degni di interesse, perché sa dove pescare nell’infinito mare della tradizione e, di quel che sale nelle reti, fa poi buono se non 132 / Rearview Mirror ottimo uso. Sui “beats and pieces” già discussi in precedenza vogliamo tornare per indagarne alcune radici: breakbeat sempre protagonista, ma colto ai primi vagiti quando non addirittura nei giorni di gestazione e concepimento; ed electro, anche, ad esso saldata sul solido tronco dell’hiphop old school. Di Mantronix tesseremo le lodi e lo faremo soprattutto guardando allo ieri: poiché se è vero che il buon Kurtis è tuttora in circolazione, non vi sono dubbi che sia la via indicata due decenni or sono a renderlo importante. Nel ruolo di “originatore”, svela l’influenza esercitata nell’avvertire il mondo già come un rizoma infinito, un frattale all’ennesima potenza cui fornì colonna sonora adeguata. Beat e bit in lui si fondono e spezzano (break) per ricomporsi secondo potenzialità inesauribili degne di mattoncini lego compatti e basilari; elementi accostati l’un l’altro e ricchi di forza sincretica superiore alla somma delle parti. Umano e tecnologico, strada e club, pop e sperimentazione: nessuna differenza, giacché gli anni Ottanta mostrarono che si poteva mescolare non solo “alto” e “basso” o passato e presente, ma soprattutto culture tra loro distanti. Nasce qui il suono del villaggio globale, quello spirito progettato da Remain In Light e Sandinista! oramai dato per scontato o quasi: fate scorrere i Massive Attack che rivedono Musstt Musstt del divino Nusrat Fateh Ali Khan in coda al remix marca Coldcut di Paid In Full (Erik B. & Rakim: epocale in origine e ancor più dilatata a sette minuti preconizzatori del breakbeat) e - immersi nell’energetico suono del 33 d’esordio dei Mantronix - sarà autentica rivelazione. Allorché i M/A/R/R/S smerceranno milioni di esemplari di puro cut-up “state of art” con Pump Up The Volume, l’avanguardia sarà nelle case e nelle teste di ognuno; tuttavia, siffatta rivoluzione e quelle che seguirono non avrebbero potuto essere - o sarebbero state certo diverse - senza l’apporto di chi certi passi stilistici li aveva saputi anticipare. I mille e uno trafficanti del frammento sonoro arrivati da lì in poi, la lezione l’hanno senz’altro assimilata. “This is a journey into sound!”, e per davvero. T he man machine “We got two turntables and a microphone.” (Mantronix) C’è da restare abbagliati da come gli afroamericani si siano costruiti un epos che della cruda realtà di sofferenza secolare è sia esorcismo che reazione. Basta pensare a Sun Ra e George Clinton, a Rammelzee e Drexciya per rendersi conto di come certe cosmogonie oscillino costanti tra fantascienza e riscrittura della storia. Di come cerchino di unire - così spingendosi già oltre il postmoderno - tecnologia e umanità, giungla africana e d’asfalto. Pochi hanno maneggiato circuiti e fili elettrici mettendo al loro centro un cuore palpitante e, su tutti e per primi, i visi pallidi crucchi Kraftwerk, al punto da diventare padri di techno(pop), house e hip-hop. Caso unico di bianchi che influenzano la musica dei neri e non viceversa, generarono moltitudini di seguaci e Mantronix spiccava tra questi. Chiaro fin dal principio, Kurtis Mantronik, circa le sue intenzioni, sin da un nome di battaglia crasi eloquente di man ed electronics in omaggio a Ralf e Florian (ma che ne dite dell’avveniristico Herbie Hancock di Sextant?), non oggetto di imitazione ma rivisti alla luce della cultura hip-hop in via di definizione. Inscena così una rivoluzione nella rivoluzione, giacché a quest’uomo dobbiamo l’uso non accessorio di sintetizzatori e campioni (eccoli già qui, i pezzetti!) che tramutano il silicio in carne e - raccogliendo il testimone dalla Planet Rock di Afrika Bambaata - riportando anima e Soul nei territori di appartenenza. Partiva da una cultura sonora concreta, lui, e non dalle asettiche camere di un laboratorio; possedeva sensibilità verso una musica che fosse fortemente ritmica e la sapienza di tesserla melodicamente. Coerente e sincero, cambiò strada allorquando l’innovazione stava scadendo nel clichè. Alla novità arrivò, come del resto Grandmaster Flash e svariati altri Padrini, da immigrato, partito dalla Giamaica che lo vide nascere Kurtis Khaleel e ritrovatosi, uomo giusto al momento e luogo giusti, dentro al calderone della Big Apple di fine ‘70. Di nuovo, al pari del Granmaestro, Mantronik inizia presto a far girare Technics in giro per la città mentre lavora al negozio di dischi - e dove, sennò - Downtown Records di Manhattan. Si imbatte in MC Tee, ovvero l’haitiano Rearview Mirror / 133 Touré Embden, col quale si intende al volo e confeziona un demo. Talmente ben fatto che il capoccia della Sleeping Bag William Socolov mette seduta stante quelli che ora si chiamano Mantronix sotto contratto. Il singolo di debutto dice tutto nel titolo, Fresh Is The Word, e nel 1985 è la gomma attaccata sotto le suole di mezza metropoli e sale al sedicesimo posto delle classifiche dance di Billboard. Altrettanto epocale l’album che lo contiene, Mantronix (Sleeping Bag, 1986; 8,0/10), arrampicatosi al fondo dei Top 50 R&B: innovativa sarabanda funky ballabile di poliritmi arcaici ricreati a colpi di Roland e Korg, ugola vocoderizzata con gusto e ondate di sintetizzatori che gettano il ponte tra old school e new jack. Avveniristico, nonostante una delle tracce s’intitoli Hardcore Hip-Hop, parte dalla strada e la conduce per mano un passo oltre con gemme del calibro di Needle To The Groove e Mega-mix in barba allo storcere di naso dei b-boys. Questa bomba influentissima sarà tesoro dei più avvertiti e spesso apertamente ossequiata, ad esempio dal Beck di Where It’s At e dai Beastie Boys in Jimmy James. Altri caucasici, come avrete notato: gli stessi che, in Inghilterra, apprezzano e recepiscono le basi di una discendenza tramite Ladies e Basslines, Capolavori che vedono la luce su singolo e suscitano un certo clamore nelle lande albioniche. Frattanto Kurtis è stato promosso talent scout e produttore della Sleeping Bag (dal fiuto niente male: assolderà EPMD e Just-Ice…), la qual cosa non impedisce a Music Madness (Sleeping Bag, 1986; 7,0/10) di mantenere caldo il nome e scalare altre posizioni in classifica. MC Tee seguita a snocciolare rime secondo la voga dell’epoca, tuttavia il suono risponde alla durezza Def Jam e guarda avanti, svoltando in parte verso il club e la scena go-go e house di Chicago, cavando dal cilindro un crocevia tra dance, hip-hop ed elettro-funk. Il tutto, beninteso, accanto a brani che proseguono il piglio futurista del debutto come Scream e Who Is It. Bontà che cagiona fama crescente e, nell’87, una relativa caccia all’uomo 134 / Rearview Mirror vinta dalla Capitol in ragione di un contratto a sette cifre sette. In Full Effect (Capitol, 1988; 7,2/10) farà storcere il naso ai “duri e puri”, con la sua mistura non banale di errebì e dance che preconizza la hip-house. Curatissimo per produzione e taglio dei suoni (è il primo disco in assoluto a essere ricavato da un DAT), semplifica le strutture ritmiche e rinuncia in parte al funk, portando un passo avanti le tematiche del predecessore ma con polso più solido e maggior sicurezza. Resterà il massimo successo commerciale del duo ed è il commiato di MC Tee, che da forfait per arruolarsi in aviazione. Senza l’amico dei primi tempi e soprattutto esauritosi l’effetto sorpresa, i dischi successivi si sviluppano secondo logica abbracciando ulteriormente l’orientamento morbido di cui sopra, mentre oltremanica si risponde al messaggio in modo forte e chiaro attraverso la già citata Pump Up The Volume, il Bomb The Bass in vertigine di Beat Dis e il martello nazionalpopolare Theme From S’Express. Poi arriveranno i Coldcut col botto di cui si dice in apertura, e il resto è storia. I rimpiazzi al microfono si chiamano Bryce Luvah e il cugino di Kurtis, DJ Dee, coi quali si appronta Rearview Mirror / 135 Ristampe AA. VV. - German Funk Fieber Vol. 2 (ShowUp, Dic 2008) G enere : retro easy funk La domanda sa di barzelletta, ma tant’è: possono i tedeschi essere funk? Sì, purché dalla parola si tolgano sensualità e groove: ne resta l’abito sonoro, lo scheletro su cui incastrare un fare spiritoso e disimpegnato nei confronti della materia. Non solo: permane nell’aria quel sentore fragrante da film di serie B che siamo soliti associare a questo genere di sonorità frizzanti e sorridenti, che proprio di prendersi sul serio non sono capaci neanche se lo volessero. Si prenda il groove succoso - nondimeno inevitabilmente bianco quanto a piglio ed esecuzione - High Snobiety di Siegfrid Schwab, strategicamente collocato in apertura: le chitarre sono acide ma gli inserti di fiati ricordano l’orchestra di un’ipotetica Canzonissima del ’74 e il trucco sta esattamente lì. Lo stesso valga per la chiusura, affidata a Evening Air, sensazionale onomatopea strumentale da far impallidire gli Air e viceversa opera risalente alla metà dei Settanta di Peter Thomas (culto già oggetto, a fine del secolo scorso, di un tributo con dentro gente come Stereolab…) O, ancora, gli svariati tormentoni che - a colpi di hammond sfrigolante e rombar d’ottoni - farebbero furore su qualsiasi dancefloor “retrofuturista” o (per assurdo, ma mica tanto) potrebbero provenire da qualche compilation acid jazz di un ventennio fa. Va meno bene quando ascoltia136 / Rearview Mirror mo del vibrante hard funk cantato nella lingua di Schiller e Goethe: l’effetto ve lo potete immaginare. Il problema di queste operazioni risiede nel sottile confine tra l’interesse, per così dire, “scientifico” e la reale consistenza artistica; una linea che non è affatto facile districare e presenta più d’un problema di definizione. Fortuna vuole che in quest’ora scarsa i momenti di dubbio gusto si contino sulle dita di una mano: funk über alles, ma con moderazione e senza perdere di vista l’angolatura amorevolmente “artigianale” che ci fa apprezzare questa fetta di immaginario sonoro. (6.7/10) Giancarlo Turra AA. VV. - Nigeria ‘70 The Definitive Story Of 1970’s Funky Lagos (Strut Records, Apr 2009) G enere : world Un autentico pozzo senza fondo: ecco cos’era la scena musicale della Nigeria negli anni Settanta. Ci puoi scavare e scavare senza mai estrarre pirite, no; solo oro per quanto di caratura variabile ma, in ogni caso, capace di raccontare una cultura sonora sfaccettata e rivelatrice. Accade anche in questa antologia, finalmente ripubblicata dopo che l’originale collocò nel 2001 le musiche nigeriane sotto i riflettori come raramente era accaduto in precedenza. Capimmo subito che non di solo afrobeat o juju - cioè di Fela Kuti e Sunny Ade, ovviamente inclusi noblesse oblige - si campava laggiù; fu chiaro quanto nomi all’occidente sconosciuti come Monotono Tire, Ofo The Black Company e Lijadu Sisters possedessero appuntite frecce in grado di centrare il bersaglio. Concepita in modo da fornire una panoramica delle diverse varianti regionali sonore, la raccolta si premura di levar via polvere da materiale raro e nondimeno esaltate - la gassosa ma agitata ma gassosa Chant To Mother Earth di Blo, un’ipnosi afro-disco come Agboju Logun a firma Shina Williams - nel mentre spazia agile dallo stile igbo allo hausa, oppure accosta la savana elettronica evocata da Bala Miller alla possanza yoruba di Segun Bucknor & His Revolution. C’è dentro di tutto e il suo armonizzato contrario: jazz restituito alle proprie tribali origini e funk altrettanto, echi di Can e Miles Davis, anticipi di Talking Heads e finanche di Lcd Soundsystem, poliritmi stratificati all’inverosimile e uso falsamente ingenuo della tecnologia. E’ tuttora una giostra di atavismo e futuro alle porte, noi le scimmie che tocchiamo li monolito e ne siamo illuminati. Un ben degli dei andato fuori catalogo sei anni or sono e da allora conteso in rete a cifre assai elevate: ora non avete più scuse per inserirlo negli scaffali in caso sprovvisti, annotando la solita, enorme cura profferta nell’operazione e considerando che il libretto recupera le note al tempo vergate dal giornalista John Armstrong e dal boss della Strut, Mr. Quinton Scott. Al quale il sottoscritto sta seriamente pensando di erigere un monumento. (8/10) Giancarlo Turra Cécile Le Prado - Le Triangle d’Incertitude (césaré, Set 2008) G enere : F ield recordings Lodevole, tra le intenzioni della Césaré (Centro Nazionale per la Creazione Musicale) quella atta a mantenere vivo e rendere di conseguenza più accessibile, attraverso la ristampa discografica, ciò che si può ben considerare un importante patrimonio di memoria e di creatività artistica. E’ il caso della ritrovata pubblicazione della compositrice francese Cécile Le Prado, Le Triangle d’Incertitude, rilasciato in una prima edizione tra il 1995-1996 dal rinomato Istituto Francese di Ricerca e Coordinamento di Musica Acustica (IRCAM) e concessa, per questa nuova ristampa, ad una notevole attenzione di formato, tra digipak, grafica curatissima e un mastering di tutto riguardo. Esporsi ai paesaggi d’ambientazione acustica della compositrice francese, è come sempre, un’esperienza del tutto inedita, merito non solo dell’interazione o delle condizioni d’ascolto, ma anche di quell’attenta capacità di catturare tra memorie sonore e identicazione lo spazio, a tratti puramente immaginato, a tratti, in certi bagliori, inaspettatamente familiare, ma allo stesso tempo incerto. Quasi tridimensionali, le suite de Le Triangle d’Incertitude, prendono forma in field recordings ad alta definizione che Cecile Le Prado registra in tre località differenti tra Irlanda, Bretagna e Spagna. Tre località di mare, rotte di navigazione e fonti sonore legate da un unico, immaginato, percorso d’unione, a formare un triangolo, un non luogo foriero d’incertezza, in cui sostare e porsi a confronto con un suono plasmato ma lasciato libero agire nello spazio. Ed ecco che i luoghi si rivestono di un nuovo siRearview Mirror / 137 gnificato: grazie a fotogrammi vocali (Triangle), di acqua, barche o campane (Passages),di gabbiani e vento (Nocturne2), delle chiacchere di porto (Portuaire) o all’orizzonte (Nocturne3). Arte di un paessaggio per guardare al quale non basta certo uno sguardo: bisogna camminarvi incontro per conoscerlo ancora più a fondo ed ecco che ne scoprirete la metafora più profonda. (6.9/10) Sara Bracco lounge di Tosca e di gran parte della !K7 (stupende le aperture di Fukumachi), le stanze lo-fi della Basic Channel vicina di casa (L.o.9.v.e.) e le atmosfere di Pole (Evil Dub inno cosmico). Tutto con un piglio deciso, personale e scaltro. Il rimescolo in chiave positiva dei Novanta prima della decadenza o se preferite della ‘svolta pop’. Swayzak al 200%. Obbligatoria per chiunque ascolti electro(-dub). (7.5/10) Marco Braggion Swayzak - Snowboarding In Argentina (Kompakt, Apr 2009) G enere : deep minimal dub Nel 98 tirava un’altra aria. I personaggi che si cimentavano col ritmo non avevano a disposizione la pletora di materiale che oggi, dopo 10 anni, ci sommerge. E quindi forse i dischi erano più curati. O per lo meno prima di pubblicare si meditava. Ci ricapita tra le mani uno di quei dischetti che inconsapevolmente hanno scolpito le nostre orecchie ritmiche. E suona come se fosse adesso. Già dalla copertina non la diresti un’uscita ufficiale: quella foto scattata quasi per caso ti fa pensare a come a quei tempi l’elettronica fosse una questione più rilassata; e anche se Snowboarding In Argentina è un disco sostanzialmente deep, la profondità emerge in modo caldo dai bassi, senza troppi problemi di convoluzioni glitch. In una parola: anima. Qui c’è ancora tutta la lezione post-balearic che sarebbe poi confluita nelle mani della FCommunications del maghetto Garnier. Da queste lunghe tracce (tutte intorno alla decina di minuti) senti il caldo di Ibiza (Speedboat, LowRez Skyline), le visioni vicine al dub cosmico degli O.R.B. (Burma Heights), i discorsi deep138 / Rearview Mirror Sylvain Chaveau - The Black Book of Capitalism (Type Records, Ott 2008) G enere : avanguardia Clamorose furono le scritture dello Chauveau del Libro Nero del Capitalismo, originariamente uscito nel 2000 e successivamente riedito, nel 2003, dalla Disques Du Soleil et de l’Acier. A sei anni di distanza eccoci con l’attesa ristampa firmata Type Records, che siamo certi non mancherà di concedere più visibilità alle tredici tracce del compositore francese. La fermezza del mirabile post-minimalismo di The Black Book of Capitalism (originariamente intitolato in francese) era venuta un po’ a mancare nelle più recenti parentesi del 2007 (Nuage, Type/ Wide 2007), senza comunque perdere identità nelle concessioni soliste al post-rock (S, Type/ Wire 2007). La lunga distanza non ha fatto male alle note di pianoforte di Et peu à peu les flots respiraient comme, alle contemporanee jazz di Hurlements en faveur de Serge T. o alle introspettive fughe in violoncello di Le marin rejeté par la mer. Anche se il passar del tempo non ha sfiorato l’inconfondibile plasticità e la tenuta di scrittura, a tratti pure finisce per Highlight Death - …For The Whole World To See (City Slang, Mar 2009) G enere : garage - rock Corsi e ricorsi storici, verrebbe da dire; oppure una di quelle strane coincidenze che ci fanno apprezzare l’esistenza. Proprio nel mese in cui approfondiamo il nostro sguardo sulla scena di Detroit ecco che da un buco spazio-temporale emerge un pezzo tra i più sconosciuti della storia passata del rock della motor city. O riemerge, si potrebbe dire, a seconda del punto di vista col quale si guarda la questione. Perché …For The Whole World To See, unico album postumo del trio Death – pubblicato oggi dalla City Slang per un caso decisamente fortuito – è considerabile anche come una ristampa, visto che venne composto, suonato e registrato un trentennio fa senza mai vedere la luce. La storia è nota e se non lo fosse basterà farsi un giro online per scoprirla. Oggi, a quasi 35 anni di distanza il black rock a forti tinte garage dei tre afro-americani folgorati sulla via degli Stooges suona insieme datato e avanguardistico, col quel suo mescolare in maniera semplice, genuina, entusiasta sonorità nere non scontate su un tessuto rock pesante, proto-punk, inficiato da pulsioni prog-psichedeliche come è giusto che fosse a quell’altezza ma totalmente libero nell’approccio. Crossover prima che il termine venisse coniato; attitudinalmente punk nella sostanza – chi fu più no future di loro? – quando i semi della rivoluzione punk erano sul punto di essere gettati; sgraziatamente glam prima ancora che quella potenzialità vocale si ergesse a stilema classico. I Death erano un gruppo potenzialmente avanguardistico e dall’ascolto della scarsa mezzora dell’album emerge il grosso rammarico di cosa sarebbe potuto accadere se la loro parabola non si fosse esaurita prima ancora di cominciare. (7.5/10) Stefano Pifferi decontestualizzarsi, se si considerano i mutevoli seguiti del più recente Chauveau. Una certezza da riscoprire per chi aveva saputo carpire i segreti di questa gemma nascosta all’epoca del suo comparire e un buon punto di partenza per chi decidesse solo ora di avventurar- si tra i mille sentieri dell’universo sonoro di questo artista. (7/10) Sara Bracco Rearview Mirror / 139 (GI)Ant Steps #26 classic album rev Charles Mingus Rollins Band The Black Saint And The Sinner Lady (Impulse!, Gen 1963) The end of silence (imago, 1992) «Credo che per spiegare la musica che c’è qui dentro non ci sia altro da dire se non: gettate via tutti gli altri miei dischi». Così, inequivocabile, brutale, esagerato, Mingus sul suo Black Saint. Potremmo anche chiudere qui. Con la consapevolezza di avere davanti la summa di tutta un’esperienza umana e musicale, la summa di un’esperienza eccezionale. Potremmo chiudere qui perché Black Saint è nell’Olimpo del jazz e della musica tutta, e per capire come mai basta ascoltarlo. Perché è un disco tanto bello e importante da sconfinare nella mitologia. Le note di copertina scritte dallo psichiatra di Mingus, il dr. Edmund Pollock. Le ossessive, maniacali session di sovrincisione. La nascita di quella che il suo stesso autore ha definito «ethnic-folk-dance music». L’immagine potente del Santo Negro e della sua Peccatrice. In quel manifesto filosofico che è Psychotic Reactions, Lester Bangs descrive Black Saint come una delle massime esperienze sonore, uno di quei dischi che ti cambia la vita, una di quelle esperienze che da’ un senso alla vita, la rende degna di essere vissuta. Ecco, potremmo anche chiudere qui. Ma cerchiamo comunque di dire due paroline. Suggestionato dalle suite di Ellington, e da sempre ossessionato dall’idea di fare della propria musica una ritrattistica antropologica di portata universale, anche Mingus decide di dipingere la propria epopea negra. Lui che al contrario del “Duca” la tragedia di essere un diverso, un (auto)emarginato l’ha vissuta tutta sulla propria carne. Lui che si sente «peggio di un bastardo». Prende così di peso la sua visione e la sublima sbattendola su spartito, per poi farla suono, intrecciando orgoglio negro e storia d’amore, in un concept in forma di bal140 / Rearview Mirror letto, sei movimenti, affidato ad un’orchestra jazz di undici elementi. Il risultato è un’opera gigantesca, il capolavoro di Mingus, uno dei punti più alti del jazz. Un disco di una intensità, di una ricchezza, banalmente, di una bellezza travolgenti, ogni volta sorprendenti, traboccante di una emotività esagerata, teatrale, quasi espressionista. E’ un jazz “post-bop”, intriso di blues, a tratti caricaturale, che ha metabolizzato certi modi latini, soprattutto flamenco, e certe veemenze free. Il capolavoro di Mingus, per intensità e compattezza. Che pure sorprende per la varietà di strutture compositive, per i crescendo e le accelerazioni parossistiche, metafore perfetta della lotta, per i bruschi stop, per gli intrecci e i cluster turgidi di fiati, mozzafiato. L’atmosfera: ci si immagina i luoghi di questa storia d’amore estenuata e maledetta, bastarda, fatta di peccato, impossibilità, ansia di redenzione. Un club fumoso e i bassifondi più alcolizzati e drogati, ma pittati qui con eleganza e misura, tanto che i momenti caotici non si fanno mai confusione, le sfuriate strumentali non si fanno mai sbracatura. Citare i singoli movimenti non ha alcun senso. Solo una piccola noticina. Quando si sente Duet Solo Dancer, con quella tromba parlata e maltrattata, probabilmente ubriaca, e quel motivo lì, non si può non pensare a Taxi Driver. C’è la stessa indolenza di fondo, quella stessa lotta stanca, quella stessa sofferenza soffocata. (8/10) Gabriele Marino Con molta probabilità, quando ideò il festival itinerante Lollapalooza, nel 1991, l’ex Jane’s Addiction e Porno For Pyros Perry Farrell, non avrebbe mai immaginato che su quel palco sarebbe nata la storia musicale degli anni ’90. Così come, con altrettanta probabilità, l’ex cantante della band hardcore Black Flag, Henry Rollins, non era neanche sfiorato dal pensiero che quel festival lo avrebbe imposto a livello internazionale come uno dei punti di riferimento del magma musicale che stava prendendo forma sotto l’ombrello del crossover. Nel nome della contaminazione, musicisti provenienti da esperienze finora tenutesi a debita distanza (l’hip hop, il metal, l’hardcore), cominciavano ad incrociarsi e a contemplare nuove soluzioni possibili. Basta dare un’occhiata al cartellone di quella prima edizione del Lollapalooza per rendersi conto di quale fosse la portata dell’evento nella prospettiva delle future evoluzioni del rock: Jane’s Addiction, Ice-T con i Body Count, Living Colours, Nine Inch Nails, Butthole Surfers, Rollins Band, Siouxie And The Banshees e Violent Femmes. Il palco di Lollapalooza ’91 lanciò nell’immaginario collettivo dell’ultimo decennio del XX secolo (e nel cielo stellato di MTV), la figura di Henry Rollins, personaggio al tempo stesso chiaro ed enigmatico, poeta e violento urlatore, intellettuale e palestrato. Ma, soprattutto, un grande animale da palcoscenico, perfetto in una fase di grande ritorno della dimensione live del rock. A livello discografico, il seguito di questo successo si esprime con una virata stilistica in linea con i nuovi principi del rock fin de siècle. In cabina di regia c’è Andy Wallace, uno che di crossover se ne intende (già dai tempi della pionieristica collaborazione tra Run DMC e Aerosmith). Il sound della Rollins Band, ancora legato ai canoni del post-hardcore dopo i primi due dischi in studio, si lascia travolgere dal metal, dal funk e dal power rock. Ne viene fuori qualcosa di assolutamente nuovo, che accomuna, come per magia, i Pearl Jam e i Rage Against The Machine, gli Alice In Chains e i Nine Inch Nails e che esprime il nuovo sentire di una generazione spinta verso il buio di una società in piena crisi ideologica e della quale Kurt Cobain è inconsapevolmente divenuto eroe e martire. The End Of Silence è un disco duro, urlato, ma anche pronto a concedersi il lusso di un singolo (Low Self Opinion). Diretto come un pugno allo stomaco (You Didn’t Need), ma anche acido e psichedelico come nella lunghissima Blues Jam e negli infuocati finali di Another Life e di Just Like You, un vortice sonoro che culmina in quell’urlo disperato sulla parola “Rage” (rabbia), ripetuto fino allo stremo. Una rabbia, quella di Rollins, che si esprime in un cantato quasi declamato, che sfiora l’hip hop (Low Self Opinion) o in vocalizzi a metà tra il cantato e il parlato tipici dell’hardcore punk (Tearing ricorda il debito del Nostro nei confronti di band come Bad Brains e D.R.I.). Ma Rollins sa anche far venire i brividi, come nei sussurri di Obscene, che sfociano in urla strozzate su uno sfondo musicale quasi doom metal. Non ci sono confini che tengano in questo terremoto di metamorfosi che più che distruggere, però, costruisce. Una trasformazione figlia di una stagione felicemente creativa che ha segnato irreversibilmente il nuovo corso del rock. Daniele Follero Rearview Mirror / 141 Yakuza di Sydney Pollack (USA, 1975) The night is lovely, dark and deep, but I have promises to keep and miles to go before I sleep, miles to go before I sleep. Robert Frost (Stopping By Woods On A Snowy Night) La fortuna critica di Pollack è stata incostante. La mia Africa, che pure vinse sette Oscar, in patria è piaciuto a pochi e altrove è sempre stato considerato un gran drammone romantico/turistico. I film successivi, Havana e Il socio, hanno provocato reazioni alterne sia di critica che di pubblico. Sabrina è stato stroncato e gli ultimi due - a parte l’interessante documentario Frank Gehry - sono passati alquanto inosservati. Pochi testi anglo-americani sulla New Hollywood – periodo nel quale Pollack inizia la sua carriera cinematografica, dopo essere passato dalla recitazione e dalla regia televisiva - lo citano e, sia in Francia che in Italia, i critici hanno cominciato ad occuparsene solo dal suo quinto film, Non si uccidono così anche i cavalli? per motivi del tutto ideologici. Eppure ci sarebbero ben altri motivi per rivalutarlo e riscoprirlo a partire, magari, da Yakuza. La storia è quella di Kilmer (Mitchum), ex poliziotto che ha combattuto in Giappone durante la seconda guerra mondiale, costretto a ritornarvi, passati venti anni, per un debito di riconoscenza con Tanner, un amico americano di lunga data che ha seri problemi con la yakuza, una spietata organizzazione malavitosa giapponese. Kilmer deve coinvolgere Tanaka (Takakura Ken), anch’egli uno yakuza, per cercare di sbrogliare la matassa in cui si è cacciato Tanner. Anche Tanaka, per altro, è legato a sua 142 / Cult Cinema volta da un debito d’onore verso Kilmer che negli anni della guerra gli ha salvato la sorella Eiko, essendosene del tutto innamorato. Ci sarà poi un colpo di scena che disegnerà un classico triangolo d’amore di cui non dico nulla per non rovinare le cose. Sempre accade nel cinema di Pollack che il nucleo del film emerga fin dalle prime immagini e dai titoli di testa. Come dice la prima nota che scorre sul titolo del film, l’ideogramma Ya-ku-za da pronunciare con l’accento sul primo ‘fonema’ - è costituito dalle tre cifre 8, 9 e 3 la cui somma è 20, numero che indica il concetto di “perdente” nel gioco d’azzardo giapponese. Ma, appunto, yakuza è anche il nome che venne attribuito a questo antico gruppo di gangster come segno di palese sfida alle avversità, manifestazione di orgoglio e, forse, di destino segnato. Questo senso di perdita è un primo riferimento importante. Infatti, la logica dell’obbligazione (giri, il debito di riconoscenza di cui si parlava nella trama) che sottende tutto il film rappresenta il nucleo del codice d’onore della yakuza e l’ottemperanza ad un sentimento che non può essere spiegato perché non è scritto da nessuna parte se non dentro al proprio animo (…if you don’t feel it, you don’t have it, dice il fratello di Tanaka a Mitchum, come a dire: è scritto nelle stelle e dentro di te…). Ma questa obbligazione sta anche nel saper fronteggiare le sue estreme - inevitabili - conseguenze: perdita, sconfitta, sacrificio, abnegazione. Questioni di natura morale soprattutto più che religiosa o mistica; non si tratta, infatti, di un atto di fede o di ricerca della salvezza ultraterrena quanto, invece, del senso morale più puro, quello che appartiene all’individuo e a lui solo, come singolo, essere pensante che agisce secondo un dettato interiore, una forma intima di persuasione, in un certo senso, intuitiva. Il risultato di un’azione rimanda, quindi, all’assunzione di una responsabilità verso se stessi principalmente e questo risultato rappre- senta sempre una perdita o una sconfitta. Qui la salvezza come premio ultraterreno non c’entra nulla: è solo un fatto individuale che nasce dalla coscienza di un singolo e che disdegna il fatto di essere la manifestazione di un destino superiore. In sostanza da questa scelta non ci si aspetta nulla in cambio: è quello che è e basta, qualsiasi conseguenza comporti. È tipico, si sa, della tragedia Cult Cinema / 143 (classica) fare cose inopportune e a me non convenienti, con sfregio di qualsivoglia conseguenza strumentale. Ma è qualcosa che deve pur essere fatto se, a monte, esiste una colpa, una tara morale. Non è, in questo senso, una forma di pura ipocrisia la scappatoia cristiana della confessione? Come può un banale ‘chiedo scusa’ riparare ogni cosa? La primissima immagine che compare rossa su sfondo nero, è l’immagine del “crisantemo” e della “spada” che già costituivano il titolo di uno studio antropologico commissionato dal governo americano a Ruth Benedict sulla cultura giapponese (La Polla). Non a caso questo riferimento potrebbe essere interessante dal momento che il film di Pollack è il risultato di un accurato studio delle usanze e dei codici di una subcultura, quella della mafia giapponese e, più in generale, delle regole di comportamento estremamente formali dell’intera popolazione. Il film, infatti, non è solo un racconto umanistico sull’obbligo morale e sull’integrità, quanto anche, in modo pienamente pollackiano, un incontro/scontro di culture differenti affrontato con occhi davvero affascinati. La sequenza dei titoli di testa, per esempio, è un ossequio, anche se un po’ ingenuo, all’arte del tatuaggio: sono riflessi d’inchiostro rosso immersi nell’acqua. I giapponesi hanno un vero e proprio culto per la forma, i colori e l’aspetto esteriore dei concetti con cui danno senso alla realtà. Per trovare un corrispettivo visivo a questo mondo Pollack ha potuto contare su due presenze molto importanti in molti suoi film: la musica di Dave Grusin e la scenografia di Stephen Grimes. Il primo è riuscito a mescolare note jazz, piacevoli all’orecchio occidentale e molto amate in Giappone ad elementi esotici: note sparse nel flauto basso intervallate da colpi in Pianissimo del gong (Comuzio) di grande efficacia quando contrapposte alle veloci scene d’azione violenta. Ma anche Grimes, instancabile production designer di Pollack, ha realizzato il décor e le scenografie secondo un approccio estetico tipicamente giapponese 144 / Cult Cinema pur senza mai sconfinare nel documentarismo. Il fatto che poi Pollack si avvalesse di un direttore della fotografia giapponese (col quale riusciva a comprendersi tramite un codice con sei valori di grigi dal più chiaro al più scuro) ha ulteriormente spinto nella direzione di un’estetica orientale. I direttori della fotografia giapponesi lavorano, infatti, costruendo l’ambiente come se fosse un quadro, partendo dall’angolo basso a sinistra e costruendo punti e fasci di luce. Al contrario gli americani lavorano sull’ambiente generale per creare un’atmosfera di fondo. Ma diremo subito, a scanso di equivoci, che Yakuza è un film profondamente americano. Non solo perché la focale è questa e si orienta su un oggetto altro, il Giappone, ma anche perché è intriso di stilemi tipicamente americani. Certo il punto di partenza è il genere giapponese del film di yakuza (scene al cimitero, coreografia basata sul katana, famosa spada affilatissima, vicende che vedono il protagonista, in genere appena uscito di prigione, ritornare all’azione per vendicarsi) ma è anche virato su modi e temi che, oltre ad essere classicamente presenti nel gangster film americano, sono anche molto pollackiani: la violenza principalmente che fiorisce dalla più lunga tradizione e la riflessione sul tempo che, invece, è un marchio di fabbrica del cinema di Pollack. Sul primo tema. Il fatto che l’originaria sceneggiatura fosse di Paul Schrader (Hard Core, Il bacio della pantera, Mishima, Affliction) avrebbe portato il film in una direzione diversa; direzione che Scorsese avrebbe ben voluto alimentare, dimostrando, come fece, il suo interesse per lo script. Ma la Warner decise di ripiegare su Pollack che era allora un regista più conosciuto. La violenza – tema classicamente americano – non è un ambito nel quale il nostro si sente completamente a suo agio. Il suo, è stato detto, è un cinema che affronta in modo obliquo gli argomenti, è ellittico, allegorico, eufemistico (La Polla) e spesso solo apparentemente parla di una cosa, in realtà sta affrontando tutt’altro. Questo è il suo ‘tocco’. Tant’è che nelle sue mani la sceneggiatura subì una diversa sorte passando prima sotto un’opera di rimaneggiamento fatta da Robert Towne. Il risultato fu che la violenza estrema dai toni pulp di Schrader subì un arresto e - come accadde per il film Corvo rosso e poco dopo per I tre giorni del Condor - si appoggiò quasi interamente sugli stacchi di montaggio. Lo si nota, per esempio, quando Kilmer spara all’ex amico traditore Tanner in una scena che deve molto, tra l’altro, ad una analoga del film di Boorman, Senza un attimo di tregua. È pur vero che nel primo scontro c’è persino un braccio, armato di pistola, che viene letteralmente mozzato ma è l’unica concessione in un contesto in cui la brutalità viene trasfigurata in una dimensione culturale, antropologica quasi. È lo scontro fra due tipi molto diversi di azione e di lotta che a Pollack interessa: quello giapponese, elegante, agile, felino, a volte persino erotico, ripreso come se fosse una danza (cosa che, di fatto, è) e quello americano fatto di esplosioni e pistole, rozzo, sbrigativo, goffo e iperbolico. Non è, quindi, la violenza di Scorsese, che è molto spesso di natura estetica e formalmente perfetta, scientifica, non è nemmeno quella di Peckinpah, che ha una natura ‘ideologica’ ed è sempre segnata dal tema anarchico/romantico. La violenza di Pollack è ellittica e, in questo caso, pretesto per mettere in scena ciò che veramente lo riguarda: l’incontro con l’altro. Cosa che ci porta al secondo tema pollackiano di cui volevo parlare: il tempo. Quasi sempre i suoi film ruotano attorno ad una specie di casuale incontro, un incrocio di destini che sono destinati a consumarsi nel breve arco temporale, a volte, come ne I tre giorni del Condor, si tratta addirittura di poche ore trascorse prima di lasciarsi definitivamente. Più spesso succede che gli amanti s’incontrino di nuovo ma il destino di separazione non cambia e, comunque, si deve sempre scontrare con una forma ideale. Tempo passato (come eravamo), la nostalgia, il ricordo: qualcosa di definitivamente perduto e ugualmente presente. Il più delle volte è un sentimento d’amore ma non è sempre così. In un certo senso i suoi protagonisti sono sempre sfasati rispetto ad un eventuale presente e vivono nell’ossequio di un codice antico, di un amore idealizzato, di un momento felice della vita ormai consumato (in questo Pollack si rivela davvero il Truffaut americano). Mitchum, in Yakuza, torna in Giappone per un vero e solo motivo di fondo: l’amore perduto ma sempre vivo verso una donna. E, in questo senso, è davvero esemplare la sequenza di montaggio - di cui Pollack è sempre stato grande esecutore - in cui Kilmer ed Eiko si scambiano gesti d’amore e di dolcezza di fronte ad un vecchio album di fotografie. Qui - di fronte ad un passato che, ripresentatosi, non sembra (mai) all’altezza delle aspettative, degli anni passati a sognarlo, a cercare di riviverlo - la sensazione di vuoto lasciata dal consumarsi del tempo si mescola al dubbio su di sé, sulla propria inadeguatezza, sul fatto di non essere più capaci di cambiare insieme alle cose che il tempo ha irrimediabilmente cambiato. Mi sembra un fatto molto importante questo dal momento che, chiudendosi così il cerchio che questo film disegna, anche l’obbligazione di cui si parlava all’inizio, vive in questa contraddizione: la responsabilità si assume solo grazie ad una riflessione sul passato e, nello stesso tempo, si trasforma in un’ipoteca sul futuro che ti costringerà per sempre ad essere quello che sei, nonostante la perdita (Dedico questa mia recensione a Franco La Polla, l’uomo cui devo tutto quello che presumo di sapere sul cinema). Costanza Salvi Cult Cinema / 145 Gran Torino C lint E astwood (U.S.A. 2009) La Ford Torino venne prodotta dalla Ford Motor Company per il mercato americano tra il 1968 e il 1976 (Wikipedia). Il nome ‘Torino’ deriva appunto dalla città di Torino che era considerata la Detroit italiana. Nel 1972 subì modificazioni e fu disegnata secondo uno stile che enfatizzava quella configurazione definita ‘long hood, short deck’ (ovvero cofano lungo, tettuccio corto). Come molte delle ‘muscle car’ - macchine a due porte di grande cilindrata e capaci di alte performance – anche la Gran Torino era dotata di forma aerodinamica con paraurti curvi verso l’esterno e la parte centrale più stretta. Se osservata dall’alto ricorda le forme a clessidra di una donna o della bottiglia della Coca Cola. ‘Coke-bottle styling’ è, infatti, lo stile di automobili come la Pontiac Gto o la Dodge Charger, uno stile che aiuta l’aerodinamica dell’auto e ne conferisce un disegno accattivante: simboli di forza, aggressività, velocità. Certamente di mascolinità, con i loro becchi adunchi protesi all’esterno per fendere bene l’aria, auto da maschi, massicce e taglienti, auto veloci, per scappare, inseguire o rimorchiare. Se la Citroen Déesse, nei miti analizzati da Barthes, è femmina, levigata – auto da toccare, farci scorrere la mano nei larghi solchi di gomma – la Ford Gran Torino, invece, è cattiva, con quella sua griglia frontale per proteggere il radiatore (la calandra) che sembra disegnata come il muso dell’orca assassina. Se, ancora, i finestrini della Déesse sono pannelli d’aria e di vuoto, con la bombatura delle bolle di sapone, la Gran Torino ha eroici squarci di vetro a forma di fiamma sull’acciaio surriscaldato che ne costituisce la superficie in massima parte. La Déesse è casalinga, ispirata, cioè, al design sobrio e confortevole che ne sublima l’utilità; la Gran Torino va all’avventura, è scomoda, è prestante. Se la Déesse è l’auto piccolo borghese, di certo la Gran Torino è l’auto del ribelle. Quanti film americani negli anni 70 hanno celebrato (o decostruito, fatto a pezzi, esaltato, demistificato…) 146 / La Sera della Prima il mito dell’auto: la Chevrolet truccata e la Ferrari Gto di Strada a doppia corsia, le gare di velocità in Punto Zero, le fughe ribelli sulle quattro (a volte due) ruote - tutto poi ripreso da Tarantino. Anche solo nel serial, l’auto rappresenta un appeal indiscusso: Starsky and Hutch in testa con una Gran Torino e Hazzard con il Generale Lee (una Dodge Charger). Ora voi vi chiederete, magari, cosa caspita starà facendo e dicendo la Salvi? Perché mi sta parlando di macchine invece di parlarmi di film? Perché questa Ford Gran Torino che dà il titolo al film di Eastwood è, in un certo senso, una metafora. A volte si è portati ad intendere una cosa pur indicandone un’altra: Eastwood è maestro di understatement (quel suo carattere sommesso e trattenuto che adesso che è vecchio gli sta anche meglio) di cui il sottinteso è un importante corollario. E allora di cosa è metafora? Se mi concedete l’azzardo è addirittura metafora di tre ordini di cose differenti. Prima di tutto di Kowalski stesso, in lotta col mondo, che nutre superbamente il suo disgusto per gli altri; costretto a marcire dentro uno spazio chiuso di un nitore inquietante, come la macchina, lucida e senza un graffio, è costretta a consumarsi dentro un garage. Ma è anche la metafora di un momento del cinema americano (ecco di nuovo i 70) visto con gli occhi di chi lo ha fatto, chi lo ha vissuto in prima persona. Callaghan ne è l’esponente principale: lui è la carogna (Dirty Harry), il giustiziere che segue una sola legge intima di fronte ai soprusi e alla violenza; la sua giustizia è quella brutale che riporta l’ordine facendosi beffe della legge - quando corrisponde a burocrazia - e che si cura solo di picchiare più duro, di sparare prima, di anticipare l’avversario. Nell’ordine morale, se il bene non appartiene del tutto a Callaghan, di certo il male sta sempre dall’altra parte. Infine la Gran Torino è anche una metafora dell’America nella sua fase di passaggio e di rinascita. Nel corso del film la macchina esce fuori dal suo garage - dove gia- ce coperta quando sta per essere rubata da Thao - e comincia ad ammorbidirsi, diventa quasi più luminosa. Viene lucidata, esce sul vialetto di casa. Viene addirittura prestata, per essere, infine, ereditata con l’obiettivo di riprendere la sua strada. Tre forme e aspetti diversi di violenza, giustizia, morale, Storia, rappresentati da una macchina americana, maschile, aggressiva, sportiva, ribelle, individualista (e che funziona anche come una pubblicità tra il pop e il cultivé). Gran Torino è un film che ha una cura dello spazio estrema anche se sembra sommessa, sotterranea. La cura è talmente grande da diventare geografia. Ci sono le villette a schiera, separate nettamente, ciascuna col proprio giardino. Fermo sul suo prato Kowalski impugna il fucile contro pericolosi sconfinamenti (ricordate l’inquadratura top shot della gang che sta importunando Thao? Kowalski, con un’ironia verbale che arriva dritta dritta da Callaghan, punta il fucile contro il nemico e lancia anatemi e minacce). C’è, poi, un front door con un portico dove Kowalski si scola le birre e manda al diavolo i Hmong considerandoli alla stregua dei sorci. Mentre sventola la bandiera americana arriva il reverendo che cerca di dargli una lezione su come i veterani riescano con fatica a superare le angosce e le ansie provocate dalla guerra (lui ha combattuto in Corea) ma come possono i semplici precetti di un ragazzo fare breccia nella sua corazza? Nel suo portico, è stato scritto, Eastwood assomiglia un po’ ad un vecchio Wyatt Earp ormai macerato dalla rabbia per il mondo che gli cambia attorno. A volte Kowalski si prende in giro (il se stesso di prima? Il guerrigliero? O la marmaglia della gang?) e al posto del fucile usa indice e pollice. Poi c’è il giardino degli altri abbandonato all’incuria o, comunque, selvaggio. Selva da attraversare per entrare in una casa di estranei, guardarsi in uno specchio e scoprirsi diversi da se stessi e, magari, ironicamente simili agli altri. Intanto la Gran Torino viene fuori dal garage. E mentre lei viene fuori le cose che prima erano inconciliabili appaiono più vicine. Ci sono, poi, due basements, quello di Kowalski e quello della scalcagnata famiglia di Thao. È in La Sera della Prima / 147 questo luogo un po’ sotterraneo, dell’inconscio, dei ricordi, della memoria che Kowalski trova un modo per fare da padre al ragazzo e Thao trova il padre che non ha mai avuto. Poi c’è il back yard dove si fa il barbecue, la Gran Torino brilla alla luce e il padre dimostra la sua fiducia al figlio. Sembra tutto il risultato di una costante divagazione, è meraviglioso come Eastwood centri tutti i bersagli facendo finta di niente, come se fosse una specie d’indifferente passeggiata che inaspettatamente porta dritto dritto alla meta. Eccoli lì, infatti, tutti i suoi motivi: la civiltà e l’individuo, i rapporti padre/figlio non genetici, la denuncia della sofferenza degli innocenti, una chiara e netta posizione contro i soprusi di qualsiasi forma e colore. È nitida l’operazione attraverso cui Eastwood riesce a trovare esatte metafore – oggetti, spazi, note – che possono concentrare un pensiero. In un certo senso la stessa cosa accadeva in Changeling, giudicato da alcuni farraginoso, sbilenco, con una sceneggiatura che metteva troppa carne al fuoco; anche lì quella divagazione e obliquità poteva dare l’impressione d’inesattezza, malformazione della messa in scena. In realtà, mi sembra, Eastwood è un abile traduttore: traduce la realtà in una forma che veicola un pensiero. Per cui è entrambe le cose: diretto, nel senso che i rapporti fra oggetto e pensiero sono diretti, precisi; obliquo, nel senso che pensa per metafore visive. Un esempio è la scena dal barbiere italiano: allenta la tensione, dilata il ritmo, si concede la divagazione. Cinema di costume o dramma? Denuncia sociale o analisi sulle differenze etniche? Ma chissenefrega! Kowalski è sul suo camioncino e ha appena salvato Sue Lor dalle grinfie di un gruppetto di negri minorati – dovremo pur chiamare le cose con il loro nome - in vena di scherzare. Chiacchiera sulla sua provenienza etnica: i Hmong sono una minoranza sino-vietnamita che stava dalla parte degli americani durante la guerra, poi, quando questi ultimi stremati se ne andarono, i Hmong abbandonati a loro stessi, iniziarono l’esodo, cac148 / Tune In ciati dal loro paese (esame di coscienza degli americani, conseguenze delle proprie azioni, denuncia dell’oblio della Storia). Eastwood non è più il mitografo della nazione quanto invece l’esegeta, l’interprete, l’analista (Menarini, ‘Segnocinema’ 155). È inutile incanalarlo in uno schieramento politico, in un’ideologia. Inutile fargli dire qualcosa di sinistra per servire un sistema. Tanto lui fa cinema civile lo stesso anche senza essere un liberal. Continuando sempre a chiamare le cose col loro nome. Senza ipocrisie. Costanza Salvi The Wrestler D arren A ronofsky (U.S.A, 2009) Per molti il wrestling non è nemmeno ascrivibile alla categoria dello sport. Puro show business costruito sugli istinti bassi della cultura americana, o per dirla in modo più elegante, moderno colosseo pop-corn dove finti gladiatori fanno finta di darsele di buona ragione. Forse anche per questa sua natura impura il wrestling al cinema è un tema assai poco praticato. Il periodo d’oro è quello degli anni ’80. Dalle macerie di quella decade riescono a tirarsi fuori in pochi. In quegli anni Hulk Hogan diventa un simbolo dello spettacolo U.S.A. e getta come i videoclip di Madonna e George Michael, come la pepsi e Michael Jackson. Hogan fa in tempo anche ad avere un suo minimo percorso cinematografico. Dà una mano a Mr.T contro Stallone in Rocky 3, poi lo avvistiamo in film di cassetta che vanno dritti nel mercato home video. Robe con alieni, commedie demenziali e via di questo passo. Altrimenti il wrestler che meglio ha fatto al cinema è quel Roddy Piper messo da Carpenter contro l’invasione aliena in Essi Vivono e presto caduto, anche lui, nella trappola della serie B. Il film di Aronofsky fa i conti anche con questi esempi di vita, così come con i casi eclatanti di morti illustri del settore: Chris Benoit, Owen Hart, il recentissimo caso di Test. Non ultimo, questo film si pone per forza di cose il problema di rappresentare an- cora una volta, al cinema, lo slancio e la caduta dell’atleta, quando gli anni sono diventati troppi e il corpo non ce la fa più. Sotto questo punto di vista, il pugilato è lo sport cinematografico per eccellenza, da Rober Wise a Stallone passando per Scorsese. Cinema sportivo con una lente socio esistenziale. Un modo per narrare dei vinti e mettere in campo tutte gli stratagemmi retorici del melodramma. E’ a questo punto che il film di Aronofsky evita per un pelo (e non sempre) l’aria viziata del già visto e si salda in un tutt’uno con il suo protagonista, un altro residuato bellico degli eighties: Mickey Rourke. Pare che quest’ultimo abbia collaborato per più di qualche riga anche alla sceneggiatura e c’è da crederci. Quando a Venezia Wenders si è lamen- tato per le assurde regole del concorso che impediscono di dare contemporaneamente un premio sia al film che al suo protagonista, ha implicitamente ammesso che il film è il suo protagonista e niente più. Da un punto di vista strettamente registico facciamo in tempo ad osservare un Aronofsky in crescita rispetto al disastro di The Fountain, con uno stile che si sta lentamente asciugando di tutti i precedenti virtuosismi videoclip da cinema giovanil-indie. Non che si potesse scegliere un registro diverso per un film classico come questo, ma per la storia di “The Ram” non dobbiamo sorbirci gli iperrealistici effetti con tanto di split screen De Palmiani di Requiem For A Dream. Il film a questo punto diventa puro Mickey Rourke. Sulla spiaggia, in lacrime, davanti ad una figlia che non lo riconosce più come padre (una bravissima Evan Rachel Wood) narra il manifesto di se stesso, come “pura carne putrefatta” con addosso i morsi della solitudine. Il film è quindi un dramma esistenziale per un uomo che non riesce ad uscire vivo dagli anni ’80, perché totalmente ancorato al suo passato ai suoi anni giovani. La misura della distanza rispetto all’oggi è anche la colonna sonora del film tutta a base di glam metal (Cinderella, Motley Crue)… con un battuta che resterà negli annali: “Quel frocetto di Cobain… non ho mai potuto digerire quella roba anni ’90. Noi volevamo soltanto divertirci…”. The Ram per fuggire alla solitudine, da un mondo che lo relega ad un marginale angolo in una salumeria cerca la compagnia di una spogliarellista (una Marisa Tomei, ancora una volta da Oscar…) per chiudere tutto sulle note di Sweet Child O’ Mine dei Gun’s N’ Roses. Alla fine c’è sempre qualcuno che ci rimane sotto. Antonello Comunale Tune In / 149 Lo sciopero ruba la Gazza al Comunale. Radu Lupu inaugura il Bologna Festival Un sciopero degli orchestrali blocca le prime quattro recite della Gazza Ladra di Rossini al Comunale di Bologna, con il primo cast costretto ad esordire l’ultimo giorno. Esordio senza macchia invece, per il Bologna Festival, che apre i battenti con un concerto tutto romeno: il grande pianista Radu Lupu accompagnato dalla Filarmonica George Enescu di Bucarest, diretta da Cristian Mendeal. Di Daniele Follero La Stagione operistica del Teatro Comunale di Bologna non trova pace. Neanche dopo l’annullamento di ben due opere dal cartellone, sembrano finiti gli incubi per il sovrintendente Tutino, contestato da una parte degli orchestrali per sua la gestione del teatro felsineo, a detta dei manifestanti fallimentare e deficitaria. La polemica, però, pur prendendo in considerazione una particolare situazione, nasce dalla paura più generalizzata per il sistema dei Teatri-Fondazioni, di cui si cominciano a percepire le conseguenze. E così, dopo tante polemiche, con tanto di striscioni di protesta del personale del teatro, sulla testa di Tutino è caduta anche la scure di uno sciopero che ha bloccato le prime quattro recite della Gazza Ladra di Rossini, uno degli spettacoli più attesi della stagione. Saltate le serate principali, la ripresa dei lavori, in maniera alquanto inconsueta, è caduta in una delle due serate che prevedevano la presenza del secondo cast. Un gruppo di giovani cantanti che si è trovato inaspettatamente ad esordire ancor prima dei protagonisti principali (tra cui spiccava il nome del tenore Lawrence Brownlee nel ruolo di Giannetto). Una “prima” alquanto anomala, che si porterà dietro non pochi strascichi, considerato il fatto che il conflitto tra le parti in causa non pare affatto risolto. Un vero peccato, perché lo spettacolo, con la regia del giovane Damiano Michieletto avrebbe meri- tato ben altra sorte. Non foss’altro che per l’importanza dell’evento: il ritorno a Bologna della Gazza dopo centosettantasette anni (!), ovvero da quel 18 ottobre 1832, quando sul palco del Gran Teatro di Bologna la grande Maria Malibran vestì i panni di Ninetta. Una rivisitazione, quella di Micheletto, nata due anni fa per il Rossini Opera Festival di Pesaro e già pluripremiata, grazie alla carica innovativa che il regista veneziano ha provato ad infondere alla rilettura dell’opera. A partire dal personaggio della gazza, trasformata in una ragazzina sognatrice e monella, inserita costantemente nell’azione, alla quale partecipa con i sentimenti di un umano più che di un uccello, fino a pentirsi delle proprie azioni al momento di ristabilire la giustizia nei confronti dell’abominevole condanna a morte di Ninetta.L’attualizzazione della messa in scena trasforma i personaggi, pur mantenendo inalterati i loro ruoli all’interno del dramma. Così, Giannetto diventa un marinaio, innamorato ma con poca personalità, mentre il Podestà è un criminale mafioso e colluso con il potere, contrastato dal padre di Ninetta, un disertore alla Rambo, che, solo contro tutti, prova a combattere l’ingiustizia, ma ne diviene vittima egli stesso. Una chiave di lettura che non evidenzia abusi e in cui le forzature al testo e il poco rispetto per le didascalie originali (l’opera comincia e finisce con un’invenzione di sana pianta del regista, con la ra-gazza a letto a tu per tu con i suoi sogni e il mondo fantastico dei giochi) dimostrano sempre di avere una loro coerenza interna e non stravolgono in nessun caso il senso dell’opera. Il lavoro registico va di pari passo con la scenografia, che si sviluppa insieme all’azione attraverso lo spostamento di enormi colonne cilindriche (le quali, rappresentano di volta in volta, in base alle esigenze sceniche, una casa, poi delle enormi bocche di fucile, infine una prigione) e le variazioni cromatiche degli sfondi (il rosso del primo atto in contrapposizione al blu del secondo, che sfocia, nel finale, in un chiaro e limpido azzurro). La musica, dal canto suo, si incastra bene nel dramma, anche se non sempre risulta efficace nei momenti cruciali. Mariotti, comunque, che con Rossini se la cava molto bene, continua a guadagnare consensi in un ambiente che pure si aspetterebbe un direttore stabile di una certa fama. Se non altro per una mera questione di prestigio. Se il Comunale vive momenti di estrema difficoltà, il Bologna Festival, come ha dimostrato l’apertura della XXVIII edizione, sembra godere di ottima salute. Ad inaugurare un cartellone di grande interesse, che, diviso in tre sezioni (Grandi Interpreti, Talenti e Il Nuovo L’antico) si estenderà fino ad Ottobre, un esecutore d’eccezione. O forse sarebbe meglio definirlo una vera e propria celebrità. Già perché il pianista romeno Radu Lupu, entrato ormai nell’alveo dei grandi artisti della tastiera, è ormai qualcosa di più di un semplice interprete. Accompagnato dalla Filarmonica George Enescu di Bucarest, diretta da Cristian Mandeal, il sessantaquattrenne pianista di Galati, ha dato ancora una volta prova delle sue grandi doti interpretative del repertorio classico-romantico, pur non essendosi sprecato tanto. Oltre all’esecuzione del Concerto Per Piano E Orchestra n.3 di Beethoven, Lupu ha concesso al pubblico che ha affollato il Manzoni, solo due intensi bis, costretto ad uscire di scena solo dopo una decina di “chiamate” degli applausi. Il suo è un tocco inconfondibilmente delicato, fluttuante, ma che sa essere deciso e duro, senza perdere la tenerezza, teso senza che i numerosi interventi personali c o m p ro mettano in qualche modo il rapporto tra il solista e l’orchestra. Ma è negli episodi più intimi, quando è solo, che Lupu da il meglio di se (la cadenza del I Movimento e i bis) giocando con il tempo a proprio piacimento e concentrandosi su ogni singolo suono come se fosse un’entità a se stante, un momento emozionante da vivere intensamente. L’orchestra Enescu, dotata di un timbro deciso e denso si è dimostrata all’altezza della situazione, diretta in maniera impeccabile da Mandeal, sempre attento a seguire le “licenze poetiche” del pianista per controllare gli attacchi. Peccato siano passate in secondo piano l’esecuzione iniziale dell’Overture di Egmont, sempre di Beethoven e della Sinfonia Fantastica di Berlioz. Ma la richiesta del bis anche per l’orchestra, dopo due ore e mezza piene di concerto, è lì a dimostrare il gradimento del pubblico al di là della presenza di Radu Lupu. Un gradimento ripagato con la Seconda Rapsodia Rumena di Enescu (compositore al quale Mendeal è particolarmente affezionato), scelta un po’ simbolica, un po’ identitaria, ma, in ogni caso, felice, per salutare il pubblico italiano. Daniele Follero a night at the opera / 151 Sant’Andrea degli Amplificatori Musica in cantina Nei bassifondi del centro medievale di Bologna, nascosta in una cantina di una nota strada del capoluogo emiliano, vive una realtà musicale estremamente interessante, dove la musica si esegue per un piacere comune a pubblico, artisti e organizzatori. E dove l’unico grande escluso è il mercato. Benvenuti nel mondo dei concerti domestici di Sant’Andrea degli Amplificatori. Di Daniele Follero “Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo.” (Giorgio Agamben) Esiste un luogo, nel cuore della Bologna medievale, dove la musica si libera dai vincoli del business e del mercato che lo regola; dove la musica diventa una faccenda privata e l’aggettivo “cameristico” riacquista il suo senso più letterale; e dove la SIAE non è riuscita a stringere la sua morsa tentacolare nel nome di un diritto d’autore sempre più in discussione. Un luogo come ce ne sono tanti. “Di queste esperienze in Europa e nel mondo ce ne sono diverse da molti anni. Quella dei concerti privati è una realtà ormai consolidata” mi spiega Luciano, che insieme a Domenico e Dominique è l’ideatore del progetto Sant’Andrea Degli Amplificatori. Già, perché basta una cantina, un impianto di amplificazione senza grandi pretese e tanta passione per la musica, per realizzare il progetto che i tre “bolognesi” hanno deciso di mettere su quasi due anni fa. “Nell’agosto del 2007” continua Luciano (disponibilissimo, come anche gli altri due “colleghi” a soddisfare la mia sete di informazioni su una realtà così realmente underground) “ricevetti una mail da Z’ev, che chiedeva se fosse stato possibile organizzare un suo concerto qui a Bologna per settembre. Allora, una sera parlandone con Domenico e Dominique, nacque l’ipotesi di organizzare concerti con una programmazione casuale”. E’ così che nasce Sant’Andrea, dalla volontà e la voglia di tre giovani artisti provenienti dall’Accademia di Belle Arti, di creare un posto dove poter fruire della musica che interessasse prima di tutto loro. Questo posto è lo studio di Domenico, una cantina nel centro del capoluogo emiliano, adibita a sala da concerto quando si riesce a contattare qualche artista, preferibilmente di passaggio in Italia, se non autoctono. La mia prima curiosità riguarda il nome. Cosa c’entra l’apostolo Andrea, figlio di Giona e fratello minore di San Pietro, con la musica contemporanea? Nulla, ovviamente. Andrea, come mi spiega Dominique, “è un nostro caro amico che alla notizia del progetto si è offerto di prestarci l’amplificazione. Il minimo era intestargli la faccenda”. Tutto qui, niente di sofisticato, così come non è per niente complicata l’organizzazione dei concerti, che non seguono una particolare cadenza e dipendono unicamente dalla disponibilità dei musicisti. “Normalmente veniamo contattati dai musicisti che si trovano a passare in Italia o nei pressi. Il lavoro d’organizzazione è variabile ma mai nulla di troppo impegnativo, dipende sempre dalle richieste che fa il musicista e da quello che necessita per il concerto che propone. Per quanto riguarda la programmazione –mi spiega Luciano-, fino ad ora siamo riusciti a rispettare due tacite regole che ci eravamo preposti:1) non fare più di due concerti al mese; 2) fare in modo che questa cosa non diventasse un lavoro/un peso.” Una volta ingaggiati gli artisti, ci si accorda con il pubblico tramite una mailing list, alla quale chiede di iscriversi chi è riuscito a venire a cono- scenza delle performance (spesso con un semplice passaparola) e ci si incontra tutti dove “già si sa”, all’esterno dell’isolato. I tempi di tolleranza non sono rigidi, basta presentarsi ad un orario “decente” rispetto a quello prefissato e il gioco è fatto. Il resto viene da sé e quando il gruppetto di ascoltatori è più o meno sostanzioso (si parla di decine di persone) si scende tutti giù in cantina e ci si adagia dove capita: divani, tappeti e quant’altro possa servire a stare comodi. Ad allietare i partecipanti, ai quali viene chiesto un contributo a dir poco simbolico (che ha lo scopo di rimborsare le spese ai musicisti), c’è anche del vino e qualche birra, come se ci si trovasse ad una festa. Insomma, l’atmosfera è di quelle che si trovano negli ambienti intimi, tra amici e conoscenti che condividono una passione con gli stessi organizzatori, i quali un secondo dopo le presentazioni di rito, diventano essi stessi appassionati fruitori. A pl ace for contemporary music La rassegna ha come sottotitolo “A place for contemporary music”, un luogo per la musica contemporanea. Ma qui l’aggettivo “contemporaneo” non fa riferimento ad un filone storicostilistico, anche se, come sostiene Luciano, “non si può non riconoscere che un debito, nei confronti di compositori come Varèse, Cage, Stockhausen, Reich. Io, però, personalmente mi sento più legato all’esperienza ‘non scritta’ delle avanguardie, soprattutto alla musica concreta e acusmatica, che vede tra i propri capifila Pierre Schaeffer, Luc Ferrari, Robert Ashley, Alvin Lucier..”. Per Domenico, invece, l’aggettivo contemporaneo, riferito a Sant’Andrea, vuole essere “una semplice identificazione dell’oggi, che non ha nessuna pretesa di essere sinonimo di innovativo e, di conseguenza, negare il passato”. Nessuna connotazione storica, né vincoli stilistici, dunque. Contemporaneo è il qui ed ora della musica. Punto e basta. i cosiddetti contemporanei / 153 nere, giurano gli organizzatori, in coro. Anche se, ci tiene a precisare Dominique “sia ben inteso che questo nostro modo di fare, non è un atteggiamento, un rifiuto o una negazione delle istituzioni o cose del genere. Non c’è nessuna volontà politica nel carattere della nostra, chiamiamola così, impresa. Solo una naturale inclinazione: un approccio che soddisfa immediatamente la nostra aspettativa”. La O meglio, Punto e a capo. Perché qui parte la musica e comincia il bello.. Ciò che accomuna gli artisti che hanno risposto all’appello non è un genere musicale, uno stile, né una posizione politica rispetto al mercato musicale, quanto un’attitudine alla sperimentazione radicale, che non prevede limiti, se non logistico-strutturali. Per quasi due anni, fino ad ora, si sono alternati sul “palco” di Sant’Andrea musicisti più o meno noti, italiani e stranieri, tutti disposti ad offrire un’oretta della propria arte in cambio di attenzione e buona disposizione all’ascolto. Tra questi, spulciando nella programmazione, si ritrovano anche nomi di una certa fama, come lo statunitense John Duncan, il giapponese Toshimaru Nakamura (che può vantare collaborazioni con il fondatore del collettivo AMM Keith Rowe) e il chitarrista chicagoano David Daniell, noto ai più per aver partecipato al progetto 100 Guitars di Rys Chatam e aver collaborato con gente come Thurston Moore. A questi personaggi “accreditati” si sono alternati, in nome di un’assoluta parità di spazio e attenzione, musicisti altrettanto interessanti anche se meno noti, come il suonatore di tuba Robin Hayward, Katsura Yamauchi, attivo nella scena free jazz giapponese e i “nostrani” Francesco Cavaliere, Stefano Pilia (di ¾ Had Been Eliminated), Salvatore Arangio, Renato Rinaldi, Claudio Rocchetti (ma l’elenco dovrebbe essere molto più lungo). Glitch, computer music, audio-installazioni, fields recordings, noise, free improvisation, acusmatica: tante, diverse modalità di approccio alla sperimentazione, più che generi musicali comunemente intesi, che creano il substrato sul quale si costruiscono le performance dei singoli artisti. Performance quasi sempre individuali, anche se in alcune occasioni i musicisti si sono esibiti anche in duo (come nel caso di Seijiro Murayama e Renato Rinaldi). Una modalità che ricorda, rimanendo sempre in territorio bolognese, i concerti di Angelica. Ma, attenzione, “nessun rapporto” con istituzioni del ge- necessità artistica dell ’ intimo Per le caratteristiche descritte fin qui, Sant’Andrea potrebbe rappresentare l’estremo opposto degli eventi di massa: nessun interesse commerciale, nessuna rigidità nella programmazione, assoluta libertà di scelta degli artisti e, da parte loro, nessun vincolo alla performance, tranne quello dello spazio a disposizione. Una scena già vista negli ambienti più underground e avant-garde, spesso accusati di un elitismo che esclude il grande pubblico creando delle nicchie autocratiche. Accuse spesso ingiuste, se si tiene conto del fatto che la musica e il suo messaggio non sono necessariamente giudicabili in base al consenso. Da questo punto di vista i tre organizzatori hanno le idee chiare nel negare qualsiasi tipo di contrapposizione tra i due piani, quanto piuttosto, una distinzione netta, una chiara e pacifica alterità di due modi completamente diversi di concepire la musica. “Credo che alcune cose vadano assorbite in un determinato contesto. La massificazione di qualsiasi forma di cultura, non è necessariamente cultura. D’altra parte, non credo neanche all’elitarismo come ad un modo di preservare qualità o libertà di sorta” mi spiega Dominique, mentre Luciano sposta l’attenzione sulla necessità di certa musica di vivere in contesti performativi di dimensioni ridotte: “credo sia fondamentale il rispetto che si traduce in compostezza, silenzio e concentrazione, condizione che è sempre utile al musicista ai fini della sua ricerca, così come al pubblico per un ottimale ascolto. Se alla base della fruizione c’è questo, c’è anche libertà espressiva. C’è da dire, inoltre, che quando si propongono musicisti che effettuano spesso operazioni al limite del silenzio, probabilmente mille persone e uno stadio non sono il miglior posto per fruire qualcosa del genere”. E se Sant’Andrea uscisse dalla sua nicchia? Se ad un certo punto riuscisse, seppure involontariamente, ad uscire dagli argini, a superare i limiti della cantina di Domenico e di eventi organizzati per puro piacere? Viene da chiedersi cosa ne sarebbe di un’esperienza del genere se, come è successo in altre occasioni, l’attenzione si allargasse. Perderebbe la sua natura? Metterebbe in discussione i suoi principi di base? Dominique mi rigira la domanda: “Un allargamento dell’esperienza, porta ad una necessaria trasformazione dell’esperienza stessa. Tutto è possibile, anche cambiare. Ma fino a che punto è possibile farlo, senza snaturare e dimenticare il punto da dove tutto è incominciato?” Già, fino a che punto? Ai posteri l’ardua sentenza. Intanto, nell’atteggiamento degli organizzatori non c’è nulla che faccia presagire ad un’intenzione di espandersi. Tutt’altro. “Facciamo un uso centellinato dei mezzi di comunicazione. Questo non deriva da un rifiuto o da strane manie primitiviste. Cerchiamo di non esagerare con pubblicità e cose del genere perché non troviamo siano necessarie per la buona riuscita di una serata; anzi troviamo che la cosa sia alquanto controproducente. Lo spazio che abbiamo a disposizione non può contenere un gran numero di persone, dunque sarebbe inutile dire a mille persone dove si trova un luogo che può ospitarne cinquanta”. Basta uno spazio su Myspace e un indirizzo email per venire incontro alle necessità di tutte le parti in causa. Il futuro, com’è ovvio in un contesto che vive della logica del qui ed ora, è incerto. “Il futuro lo conosce solo il veggente” scherza Dominique. Non un nome né un’idea. Nessuna certezza, solo un’importante sicurezza: che Sant’Andrea continuerà a proporre ottima musica… almeno fin quando Luciano, Dominique e Domenico ne avranno voglia. Daniele Follero i cosiddetti contemporanei / 155 ULTIMI ABBONAMENTI IN VENDITA. DISPONIBILI BIGLIETTI GIORNALIERI. 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