Introduzione al volume
Come l’invidia e la gelosia, con cui spesso si accompagna e si confonde, il risentimento è uno stato
del sentire complesso e proteiforme che si insinua al di sotto del visibile e del dicibile. In quanto
odio impotente, esso è soggetto a processi di rimozione individuali e collettivi costituitivi della sua
stessa natura. A dimostrazione di un surplus di energia che trova sfogo improvviso, quando viene
alla luce si manifesta soprattutto attraverso episodi di violenza “eccedente” rispetto alle dinamiche
oggettivamente in gioco,. Per la maggior parte del tempo e nella maggior parte dei casi, la potenza
repressa del risentimento prende vie tortuose e trasversali assumendo configurazioni che, per
quanto rilevanti sulle dinamiche interpersonali e sociali, si esprimono prevalentemente come
sintomi, difficili da riconoscere e decifrare. Già Darwin, descrivendolo nel suo trattato sulle
emozioni umane, riteneva che il risentimento non potesse essere riconosciuto direttamente dato che
non si accompagna ad alcuni pattern comportamentale o espressivo specifico, ma possa essere solo
desunto da elementi contestuali (Bonfiglioli, Ricci Bitti, 2007, p. 191)
Carsica, e cioè tendente a venire alla luce in maniera discontinua e imprevedibile, è stata anche la
sua presenza come oggetto di analisi. Portato alla luce nelle sue conseguenze macrosociali e
culturali da Nietszche (1887) e Scheler (1912) ha ricevuto nuove attenzioni solo molti decenni
dopo attraverso la teoria mimetica del desiderio di Girard (1961; 1972), per scomparire poi di
nuovo fino agli anni più recenti in cui vi è stata una ripresa di interesse sul tema sia in ambito
sociologico che antropologico, psicologico e giuridico (Barbalet, 1992; Tomellieri, 2004; 2009;
Kancyper, 2003; Ansart, 2002; Mullet, 2007; Rizzi, 2007; Risi, 2009). Difficile resistere
all’impulso di interpretare questa discontinuità teorica come un effetto dei tratti costitutivi del
risentimento stesso e dei meccanismi di rimozione sopra accennati. In quanto “violenza impotente”
che cova nel desiderio di rivalsa avvelenando l’animo, il risentimento costituisce parte di quel
negativo che individui, culture e istituzioni tendono a occultare relegandolo in un rimosso del
quale, per altro, è impossibile liberarsi e con cui, prima o poi, si giunge inevitabilmente a fare i
conti. Ogni società, in ogni epoca, ha elaborato apparati simbolico-narrativi (miti, religioni,
ideologie, ecc.) e rituali con cui rappresentare, dare senso condiviso e legittimare la propria
architettura di potere. Compito di tali apparati è sempre stato anche quello di occultare la violenza
del negativo su cui le società stesse si basano e si riproducono: disparità di potere e possesso,
ingiustizie, umiliazioni, sofferenze, sopraffazioni, violenze, morti.
Interrogarsi sul risentimento da una prospettiva non riduttivamente intrapsichica e centrata sulla
“personalità risentita”, ma contestuale e culturale, significa, dunque, cercare di portare qualche
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rivolo di luce nei meandri del rimosso collettivo. Significa forzare la riflessività dello sguardo nel
tentativo di cogliere qualcosa della violenza oscura che, come esseri umani e collettività, ci agita e
ci agisce dal profondo (Bitetto, 2000).
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Le trame del risentimento
Guido Di Fraia
Introduzione (al mio pezzo)
Se è vero che tutte le emozioni hanno una componente relazionale, il risentimento (come l’invidia
o la gelosia), è uno stato del sentire prettamente sociale e “comparativo” dato che si produce
attraverso processi affettivo-congnitivi connessi con il confronto che il soggetto compie tra la
propria condizione e quella altrui, in relazione al possesso di risorse, attributi, qualità, status,
fortuna, ecc. Ma è anche uno stato “consapevole”, in quanto richiede al soggetto la capacità di
riflettere sul proprio comportamento e su quello altrui e di valutarlo in relazione alla morale che
regola i rapporti interpersonali e sociali del contesto in cui vive (Di Blasio, Miragoli. 2007). La
natura prettamente sociale del risentimento, induce a fare ipotesi tanto sulle sue funzioni adattive
rispetto all’evoluzione della specie, quanto su quelle sociali connesse con la distribuzione
disuguale delle risorse all’interno dei gruppi umani (famiglie, classi sociali, collettività, ecc.).
Questa stessa natura suggerisce soprattutto l’impossibilità di immaginare formazioni umane
liberate dal risentimento e dall’invidia. Dove due o più esseri umani convivono nello stesso spazio
sociale là albergano, più o meno intense e consapevoli, le trame sotterranee del rancore e dello
sguardo invidioso.
L’insieme di queste caratteristiche fanno del risentimento un fenomeno pluridimensionale che,
generandosi a livello intrapsichico, riverbera i propri effetti su processi interpersonali e sociali
anche di grande portata. Una sua trattazione efficace richiederebbe pertanto di affrontarlo
attraverso un approccio olistico e transdisciplinare (e dunque “irriverente” rispetto alle ripartizioni
disciplinari che continuano a vivere all’interno dell’accademia) in grado di rispecchiare la natura
complessa e stratificata di tale sentimento.
Nell’evidente impossibilità di condensare in questa sede un’analisi di tale portata può forse essere
utile proporre, come oggetto di dibattito, uno schema concettuale di lavoro e alcune considerazioni
di fondo.
In questa prospettiva, mi pare di poter dire che una possibile trattazione organica del risentimento
dovrebbe essere in grado di ricostruirne: 1) le manifestazioni fenomenologiche ed esperenziali; 2)
le dinamiche generative; 3) le forme di elaborazione, nel loro articolarsi a livello individuale e
sociale.
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Per mettere alla prova questo modello di analisi, cercherò di proporre, in modo inevitabilmente
sintetico e senza alcuna pretesa di completezza, alcune riflessioni su ciascuno dei punti sopra
ricordati.
Fenomenologia del risentimento
Da un punto di vista filologico, il riferimento imprescindibile per una discussione del risentimento,
nell’accezione di ressentiment è indubbiamente rappresentato dal modello Nietszche-Scheleriano.
Delineato da Nietszche in Genealogia della morale, tale modello ha l’indubbio merito di
individuare nel risentimento un concetto teorico straordinariamente efficace per tentare di
descrivere i processi socioculturali e simbolici che hanno portato all’affermazione della modernità
(Deleuze, 1962). Attraverso un approccio in cui la ricostruzione socio-antropologica dello sviluppo
di tale sentimento all’interno della religione giudaico-cristiana è condotta ad un livello di
astrazione dagli esiti indubbiamente semplificatori, Nietszche definisce il risentimento come “un
odio impotente”, un desiderio di rivalsa che, nell’impossibilità di trovare sfogo in un’azione in
grado di incidere effettivamente sulla realtà, finisce per avvelenare l’animo del risentito e
inquinare in modo tendenzioso i suoi processi di pensiero. Tra i tratti di fondo del modello vi è
un’antropologia astratta e dicotomica che scinde la realtà umana in due tipologie: i signori e i servi.
Dotati di desideri e di volontà autonome e in possesso della forza necessaria a esercitare un’attiva
capacità di dominio sul mondo esterno, i Signori sono i fondatori della morale nobile e risultano
immuni, “per natura”, al risentimento che invece rappresenta l’esito inevitabile dell’esistenza del
popolo dei Servi. Questi ultimi, privi di autonomia di pensiero e di volontà proprie, sono destinati
ad obbedire ma, parallelamente, anche a covare un sentimento astioso e risentito.
Nell’impossibilità di agire la propria rabbia repressa, il popolo dei servi incanalerebbe questa
energia in una forza reattiva in grado di agire a livello simbolico fino a sovvertire i principi
valoriali su cui si basa la morale dominante dei Signori. Il risultato storico di tale processo di
ribaltamento dei valori sarebbe riconoscibile, secondo Nietszche, nell’affermazione della morale
giudaico cristiana incarnata nel principio: “beati gli ultimi perché saranno i primi”. In questa
prospettiva, il risentimento, meccanicisticamente attribuito a una certa tipologia di umanità, è
immaginato da Nietszche come una forza che, per quanto reattiva, avrebbe avuto un ruolo decisivo
nella formazione della morale della modernità.
Scheler (1912), pur mostrando una maggiore attenzione alle dinamiche storico-sociali, riprende
sostanzialmente il modello nietzschiano per giungere a conclusioni divergenti. Anch’egli considera
il risentimento un prodotto dell’egualitarismo moderno o, meglio, della contraddizione moderna tra
principi egualitari e permanenza delle disuguaglianze sociali. Ma il risultato del sovvertimento dei
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valori prodotto dall’impotenza risentita di larghe masse di individui non sarebbe la religione
cristiana ma la morale borghese impregnata di umanitarismo e filantropia.
Pur nelle loro differenze (Meltzer, Musolf, 2002), ciò che è interessante rilevare è che entrambi gli
autori riconoscono al risentimento un ruolo cruciale nei processi costitutivi della modernità e nelle
trasformazioni storiche e culturali che l’hanno generata (Tomellieri, 2009, p. 25).
In anni più recenti, questa forma del sentire è stata oggetto di studio in ambito sociologico,
psicologico e psico-sociologico con lavori empirici che, distanziandosi dal concetto filosofico di
ressentiment (come tratto caratterizzante solo un certo tipo di umanità costitutivamente debole),
hanno consentito di giungere a definizioni decisamente più specifiche e analitiche di questo
sentimento (spesso concettalizzato come “rancore”) e delle sue caratteristiche fenomenologiche ed
esperienziali (Barbalet, 1992; Halsall, 2005; Feather & Nairn, 2005; Miceli, Castelfranchi, 2007;
Bonfiglioli, Ricci Bitti, 2007; Mullet 2007; D’urso, 2007).
Attingendo a questo genere di letteratura, possiamo dire che il risentimento è il ri-sentire
un’emozione negativa già provata in precedenza e dalla quale non si riesce a liberarsi. Tale
emozione originaria è costituita dal senso di frustrazione e di impotenza conseguenti un’azione
negativa che si è subito e alla quale non si è stati in grado di far fronte.
Un soggetto (S) ha ricevuto (o ritiene di aver ricevuto) un torto da parte di un altro (A) al quale
non ha saputo o potuto reagire. Tale episodio o situazione che si protrae nel tempo si radica nella
memoria del soggetto come un pensiero ricorrente che, “avvelenandogli l’anima”, incide
negativamente sul suo sviluppo a livello emotivo, cognitivo e comportamentale. Non a caso il
termine “rancore” (che, pur con qualche piccola forzatura, per i fini della nostra discussione
possiamo assumere come sinonimo di risentimento) deriva etimologicamente dal concetto di
“rancido” e, dunque, di un qualcosa, in questo caso un’emozione, che si è conservato male e che,
deteriorandosi, rischia di ammorbare l’ambiente e avvelenare l’anima di chi lo esperisce.
Da un punto di vista narrativo, quella del risentimento è una “storia abortita”. Se lo schema
prototipico di tutte le storie prevede un attore che, agendo all’interno di un certo contesto e
utilizzando certi strumenti, persegue i propri obiettivi superando gli ostacoli che gli si oppongono,
nel risentimento è lo schema stesso che finisce in stallo per l’incapacità del soggetto di dimostrarsi
all’altezza del ruolo di protagonista della propria storia. Da qui il senso di inadeguatezza e di
inconfessabilità che sono tra i principali vissuti del risentimento. Dichiararsi risentito, così come
confessare di essere invidioso, significa, infatti, ammettere la propria debolezza, dichiarare
apertamente di non essere (stato) all’altezza della situazione. E’ per questo che il risentimento può
essere considerato una ferita narcisistica che, non potendo essere curata nel momento in cui si
produce, si cronicizza divenendo parte del soggetto. Ciascun individuo cerca di costruirsi
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un’immagine interiore che lo rappresenti come un soggetto in grado di agire sulla realtà per
raggiungere i propri scopi e in possesso di qualità che lo facciano apprezzare dagli altri. Se tale
rappresentazione viene negata da un’istanza esterna che lo mortifica in modo profondo, il soggetto
può vivere il torto ricevuto come una svalutazione della propria rappresentazione del Sé che
frustra il suo bisogno primario di sentirsi apprezzato dagli altri e attiva in lui strategie difensive
finalizzate alla salvaguardia della sua autostima (Di Blasio, Miragoli, 2007, p. 110). Tra le
possibili azioni messe in atto per riequilibrare il proprio stato interiore e ottenere giustizia può
esservi, oltre il semplice ma difficilissimo gesto del perdono, il tentativo di ricevere le scuse o
qualche forma di risarcimento morale da parte dell’artefice dell’atto malevolo; come pure il ricorso
a istanze esterne deputate a garantire giustizia e a far rispettare le leggi. Solo quando queste due
forme di elaborazione dell’offesa subita non sono perseguibili o falliscono, la ferita narcisistica
può cronicizzarsi nella forma del risentimento.
A livello dinamico, il risentimento si configura dunque come una sorta di “doppio scacco” del
desiderio. Il primo scacco è rappresentato dall’ostacolo che si pone tra il soggetto e la possibilità di
raggiungere il proprio scopo, sia esso un obiettivo da perseguire o una “risorsa” da conservare,
come una condizione economica o uno status acquisiti. Di per sé, tale ostacolo non è sufficiente ad
attivare l’esperienza del risentimento configurandosi, nella maggior parte dei casi, come il
semplice concretizzarsi del principio di realtà cui va ad infrangersi la gran parte dell’energia
desiderante degli esseri umani. La prima condizione psicologica affinchè la frustrazione subita
possa orientarsi nella direzione del risentimento, è che tale impedimento sia percepito dal soggetto
come il risultato di un’azione ingiusta perpetuata nei suoi confronti da un agente concreto o
astratto. Ma anche tale condizione, per quanto necessaria, non è da sola sufficiente a tradursi in
risentimento. Se chi ha esperito l’ingiustizia ha la possibilità di far valere le proprie ragioni, il
processo può concludersi senza alcuno strascico rancoroso e persino generando un surplus di
soddisfazione per colui che è riuscito a ottenere giustizia “facendosi valere”. Il soggetto rischia di
finire nelle spire del risentimento solo quando anche questa possibilità gli è preclusa (da cui il
secondo scacco!). Quando il suo tentativo di “ottenere giustizia” (ad esempio costringendo l’altro
a riconoscere le proprie colpe e a porvi rimedio, magari anche solo scusandosi per il male arrecato)
fallisce, per l’impossibilità del soggetto ad agire o per l’inefficacia delle istanze (istituzioni di
tutela, di giustizia, ecc.) a cui egli si è rivolto per ottenere un aiuto.
Quando ciò avviene, il desiderio di vendetta che viene a prodursi è orientato da tre diverse
categorie motivazionali: 1. il desiderio di ripristinare un equilibrio morale infranto; 2. la volontà di
“dare una lezione” all’artefice dell’offesa subita; volontà che sottende un’intenzione educativa per
cui il gesto vendicativo agisce anche come atto simbolico in grado di testimoniare come i
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comportamenti scorretti non possano rimanere impuniti; 3. il tentativo di “salvare la faccia”
(Goffman, 1969, Heider, 1958, Castelfranchi, 1988) attraverso un’azione che consenta alla vittima
di ristrutturare l’immagine di Sé presso colui che lo ha offeso e presso il “pubblico” di riferimento
che è a conoscenza dell’accaduto (Di Blasio, Miragoli, cit.).
Se non riesce ad esprimersi e a trovare giustizia, il risentimento si concretizza in una rabbia
complessa e compressa che, non trovando sfogo immediato, continua a persistere nel tempo
divenendo “serbatoio continuo per la rappresentazione del soggetto e del suo mondo” (Casadio,
2007, p. 46). Il ri-sentire l’affronto subito senza riuscire a superarne il “trauma” produce, infatti, un
penoso strabismo astioso dello sguardo del risentito. Da una parte, esso rimane infatti ri-volto
all’indietro, fissato sullo smacco subito a cui non è stato in grado di opporsi e dei cui esiti continua
a soffrire. Dall’altra, questo stesso sguardo malevolo si proietta verso un futuro impredicibile,
dipinto dai colori del riscatto e della vendetta. Bloccato nel proprio incedere da questo duplice
scacco del sentire, imprigionato all’interno della gabbia emozionale che egli stesso ha costruito, il
risentito vede il proprio pensiero e la propria progettualità confusi dal rimuginamento di ciò che
avrebbe potuto fare e non ha fatto e dalle fantasticherie di ciò che un giorno potrà fare per ottenere
giustizia. Il rimuginamento (rumination) è una reazione psicologica associata al risentimento che
corrisponde al pensare in modo ossessivo e reiterativo a quanto successo, che aumenta le
motivazioni sia ad evitare il contatto con l’offensore sia a cercare vendetta (Caprara, 1986).
Alcune recenti ricerche psicologiche mostrano come la percezione dell’ingiustizia subita alla base
del risentimento generi nel soggetto molteplici emozioni che si modulano a diversi livelli di
intesità. Più in particolare, quando lo smacco subito viene vissuto come doloroso e mortificante
prevalgono risposte emotive immediate di paura e ansia, seguite da vissuti depressivi; quando
invece il soggetto interpreta la situazione di cui è stato vittima come oltraggiosa da un punto di
vista morale, emergono soprattutto reazioni di rabbia (Worthington, 1998). Sono tali emozioni che,
se non trovano “soddisfazione” immediata, possono cronicizzarsi stimolando nel soggetto le spinte
alla vendetta, all’evitamento e alla formazione del risentimento (Di Blasio, Miragoli, cit., p 108).
A un livello ancora più astratto, il risentimento è una situazione socio-relazionale triadica nella
quale si trovano ad agire: una “vittima” (Soggetto = S), un oggetto o stato di valore (Oggetto = O),
e una terza entità (Alter = A), non necessariamente un essere umano, che il soggetto reputa
colpevole del proprio insuccesso nel raggiungimento dell’oggetto di valore. Esternamente alla
triade è infine sempre possibile riconoscere il gruppo sociale di riferimento da cui originano i
valori in gioco e sotto il cui sguardo giudicante si producono le dinamiche che danno origine al
risentimento.
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La colpa di A può essere stata il risultato di una sua azione deliberata ai danni di S (attacco,
ostacolo), ma anche di un non intervento in aiuto ad S, (mancanza di supporto), come pure l’effetto
di una sua totale indifferenza nei confronti di S e del suoi desideri (indifferenza). E’ evidente come
il ruolo di A possa essere giocato da qualsiasi “agente” (esseri umani, ma anche gruppi,
organizzazioni, istituzioni, sistemi astratti, ecc.) dotato di potere (inteso come capacità
condizionante rispetto alle possibilità di S di raggiungere i propri scopi) e a cui possa essere
attribuita una casualità “non innocente” rispetto all’episodio origine dell’elaborazione risentita.
Altrettanto evidente è che non è affatto necessario che A sia davvero responsabile dello smacco
subito da S, ma è sufficiente che quest’ultimo sia convinto che lo sia.
Un aspetto cruciale da considerare per differenziare il risentimento da altri stati emozionali simili è
che quello disputato al tavolo del risentimento è, “per definizione”, un gioco asimmetrico: dato che
A è in grado di impedire al soggetto la possibilità di raggiungere un proprio scopo, egli ha
sicuramente più potere di lui, per lo meno nello specifico campo su cui si gioca la relazione da cui
il risentimento di S si origina. Inoltre, a differenza della gelosia, in cui l’oggetto desiderato è
indivisibile e il suo possesso da parte di A si traduce in una mancanza per S, il risentimento è
anche un gioco “a somma diversa da 0”, perchè il torto subito da S a causa di A non si traduce
necessariamente in un vantaggio per quest’ultimo.
Definire in modo così dettagliato la struttura formale del risentimento dovrebbe consentirci di
intravederne meglio i contorni, rendendoci in grado di distinguerlo dall’invidia e dalla gelosia, con
cui tende a confondersi e a sovrapporsi tanto nei vissuti individuali che nella trattazione teorica.
Riferendoci in particolare all’invidia, possiamo notare come anch’essa sia un sentimento dalla
struttura triangolare: S=invidioso; A=invidiato; O=oggetto di valore. La differenza, sottile sul
piano concettuale, ma sostanziale a livello dinamico è che, mentre nel risentimento l’oggetto di
valore è disponibile “sul mercato” e S può legittimamente aspirare ad ottenerlo (o a mantenerlo) e
rivendicare diritti in tal senso, nel caso dell’invidia esso è invece risorsa posseduta/riconosciuta da
A e l’invidioso non può rivendicare alcun diritto o aspirazione legittima rispetto ad esso. Inoltre,
anche quella sottostante l’invidia è, almeno ad un primo livello fenomenologico, un’economia “a
somma diversa da 0”: la simpatia o l’auto sportiva possedute da A, oggetti di invida da parte di S,
non impediscono a quest’ultimo di possederli a sua volta1. Sul piano motivazionale e
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In realtà le cose, anche se non possiamo approfondirlo in questa sede, sono ancora più complesse. Se dal piano degli
infiniti oggetti di valore su cui possono attivarsi il risentimento e l’invidia, passiamo infatti a quello più astratto degli
scopi che orientano il comportamento soggettivo in relazione ad alcuni macro-ordinatori comuni a tutti gli individui
(come quello del bisogno di avere una buona immagine di sé -bisogno di autostima-, e di generare negli altri
impressioni positive -bisogno di adozione-, ecc.), potremmo scoprire che in realtà anche l’invidia può configurarsi come
un “gioco a somma 0”. Lo sguardo invidioso rispetto ad esempio alla bellezza di A può infatti derivare dallo scopo
sovraordinato (rispetto allo specifico oggetto del contendere) di S di “essere superiore a A” o, per lo meno, di non “non
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comportamentale, tuttavia, mentre lo scopo del risentito è di rivalersi per il torto subito e ottenere
giustizia, obiettivo dell’invidioso è piuttosto quello di ridurre la disparità tra sé e l’invidiato
attraverso strategie svalutative della sua persona e/o distruttive della risorsa oggetto di invidia
secondo il principio per cui: “se non può essere mio, non deve essere di nessuno!”.
E’ vero tuttavia che invidia e risentimento spesso si trovano uniti in un’unica esperienza affettiva
che si produce quando S interpreta come un’ingiustizia perpetrata nei propri confronti il possesso
dell’oggetto di valore da parte di A: “perché a lui si e non a me?”. Ingiustizia di cui lo stesso A o
altre istanze esterne (spesso astratte e illusorie quali “la fortuna”, “il destino”, “il sistema”, ecc.),
sono ritenuti responsabili, divenendo oggetto di risentimento. La promozione cui S aspirava, che
viene invece data a B attiva insieme vissuti invidiosi (verso B) e risentiti (verso B ma anche verso
chi ha deciso la promozione (A) sia esso una persona fisica o un’istanza astratta, come ad esempio,
un sistema in cui contano più le raccomandazioni che i meriti. Propongo di chiamare “risentimento
invidioso” quello che origina dal senso di frustrazione associato all’invidia generata da un oggetto
di valore in possesso di A, per distinguerlo da quello che invece si attiva da situazioni in cui la
responsabilità del torto subito che S recrimina ad A, non ha a che fare con tale possesso.
Sempre a livello concettuale è necessario distinguere tra risentimento come stato circoscritto a
specifiche esperienze frustranti di origine socio-relazionale cui qualsiasi soggetto va incontro nel
corso della propria vita, e risentimento come tratto dominante della struttura psichica
dell’individuo. Alla base di tali situazioni limite possono esserci processi di relazione primaria e di
attaccamento con la madre di tipo disfunzionale, frustrante o vittimizzante (per violenza subita,
ecc.), e persino, secondo alcuni, cause biologiche suggerite da alcune ricerche che rilevano come i
soggetti risentiti mostrino concentrazioni plasmatiche di testosterone, cortisolo e norepinefrina
superiori alla norma (Rizzi, 2007, p. 131). Per quanto sia difficile immaginare di poter distinguere
tra stati emozionali risentiti aventi un’eziologia prevalentemente intrapsichica da quelli di natura
più prettamente relazionale e sociale, è soprattutto a quest’ultima tipologia che si riferiscono le mie
considerazioni.
Gli esiti del risentimento
In genere si tende a considerare il risentimento in termini esclusivamente negativi. Forse anche a
causa del frame interpretativo proposto da Nietszche che lo definisce astio malevolo e distruttivo
dei servi. Per quanto tale vissuto, tipico del risentimento invidioso, rappresenti una delle forme
attraverso cui esso si presenta, non ne esaurisce tuttavia tutte le possibili manifestazioni. Come
essere inferiore a A” nei confronti del gruppo di riferimento a cui entrambi i soggetti appartengono. Scopi che
evidentemente possono essere soddisfatti solo a discapito dell’immagine di A (cfr. Castelfranchi, 1988).
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detto, il risentimento invidioso nasce dalla ferita narcisistica prodotta dal desiderio mimetico di
voler essere come l’altro e ha come scopo la supremazia perseguita con ogni mezzo, anche con
l’annientamento dell’altro e/o dell’oggetto di valore. Ma il risentimento può attivarsi anche in
presenza di un’ingiustizia effettivamente subita alla quale non si è nelle condizioni di ribellarsi. In
questo caso, ciò che si cronicizza è la rabbia associata al desiderio di rivalsa e di giustizia le cui
caratteristiche lo rendono contiguo all’indignazione.
Il dizionario Hoepli Online definisce l’indignazione come <<vivo risentimento che si prova per ciò
che si ritiene indegno, riprovevole, ingiusto>> e ne indica come esempio una frase che il Manzoni
riferisce al sentimento provato da Fra Cristoforo per le angherie subite da Lucia <<...sentiva
un'indegnazione santa, per la turpe persecuzione della quale era divenuta l'oggetto>>. Aristotele
descrive l’indignazione attraverso il concetto di Nemesi, che è dea della vendetta ma anche della
giustizia distributiva2, indicando con esso il sentimento di rabbia che si attiva negli uomini di
fronte ai successi che altri hanno ottenuto immeritatamente. Aristotele, come faranno
successivamente anche Cartesio e lo stesso Nietzsche, riconosce dunque all’indignazione la natura
di “invidia giusta” per differenziarla dall’invidia classica che è <<sofferenza sempre e comunque
di fronte al successo e alla fortuna dell’altro (o al proprio insuccesso o sfortuna)>> (Pulcini, 2011,
pp. 96-97)
Per distinguerlo dunque da quello invidioso, propongo di definire la declinazione del risentimento
contigua all’indignazione: “risentimento giusto”, intendendo con esso la rabbia repressa per il male
illegittimamente subito e a cui non si è avuto la possibilità di opporsi.
Come la citazione manzoniana ci ricorda, la differenza principale tra l’indignazione e il
risentimento è che mentre la prima si attiva anche in relazione a situazioni di ingiustizia che non
riguardano direttamente il soggetto ed è quindi più facilmente comunicabile e condivisibile con gli
altri, il risentimento, per quanto “giusto”, è invece sempre autoriferito e quindi anche meno
facilmente confessabile perché rileva una condizione di inferiorità del soggetto.
Tuttavia così come l’indignazione, il risentimento “giusto” ha a che fare con il sentimento di
giustizia e con la percezione di un disequilibrio intervenuto all’interno dell’ordine morale o etico.
Il soggetto che esperisce questo tipo di risentimento, infatti, vive il torto subito come il frutto di
un’azione che, oltre a ferirlo personalmente, rappresenta un sopruso e dunque una trasgressione
dell’universo valoriale di riferimento. In questa accezione, è evidente come esso possa
rappresentare una forza positiva in grado di contribuire, conservando memoria dei soprusi
avvenuti, alla moralizzazione delle società e della storia (Améry, 1987; Risari, 2002).
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In questa forma, Nemesi era la dea che distribuiva agli uomini ricompense e castighi in relazione ai loro effettivi
comportamenti e non “casualmente” come invece facevano le Moire (Pulcini, cit.).
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Ma i vissuti emozionali e l’energia motivazionale connessi con la percezione delle disuguaglianze
sociali e con la presa di coscienza che i soprusi di cui si è vittima sono di origine strutturale e
colpiscono anche altri individui con cui si condividono certe caratteristiche, giocano certamente un
ruolo decisivo anche nei processi di rivendicazione di classe e nei movimenti collettivi (Coser,
1957; Runciman, 1966; Barbalet, 1992, etc.). Per quanto vi siano pochi studi specifici sul ruolo
giocato dalle emozioni (dimensione micro) sui processi di mobilitazione collettiva (dimensione
macro), è nostra convinzione che il punto di vista interpretativo di tale tipo di fenomeni sia da
collocarsi proprio nell’intersecarsi di dimensioni affettivo-cognitive, da un lato, e socio-strutturali
(cfr. Alberoni, 1977, 1989, Melucci, 1982).
Espressioni sociali del risentimento
L’assenza di modalità espressive “fisiologiche”, caratteristiche delle emozioni fondamentali, e la
sua stessa natura carsica di rabbia sordida che non riesce a trovare sfogo rendono particolarmente
complessa l’identificazione delle manifestazioni comportamentali prodotte dal risentimento. In
effetti, esso viene direttamente alla luce solo nel momento in cui il soggetto che lo ha “covato”
riesce finalmente ad agire il proprio desiderio di giustizia o vendetta. Tuttavia, tanto l’elaborazione
che passa attraverso il perdono quanto quella che si produce quando si ottiene giustizia per vie
istituzionalizzate (legali o di altro tipo), si traducono in comportamenti poco manifesti e
scarsamente visibili a livello sociale e mediatico. Ecco allora che gli effetti sociali del risentimento
diventano direttamente visibili solo quando trovano sfogo in azioni che bruciano in un solo attimo
tutta l’energia repressa per lungo tempo, dissipandola in gesti violenti quanto imprevedibili.
Tra questi vi sono senza dubbio gli episodi criminosi non motivati da una reazione emotiva di
rabbia immediata come ad esempio i parricidi, i matricidi, gli uxoricidi e i fenomeni di stalking di
cui sono vittima prevalentemente le donne; come pure alcune forme di violenza giovanile che si
traducono in atti vandalici o comportamenti aggressivi verso i compagni (Pulcini, cit. pp. 143145). Alla stessa origine possono essere ricondotte le esplosioni di rabbia eccedenti rispetto a
quanto effettivamente avvenuto, come è il caso dell’aggressività che spesso accompagna banali
contestazioni tra automobilisti, le liti giovanili per futili motivi,
o le reazioni omicide di
commercianti o semplici cittadini verso coloro che cercano di derubarli, soprattutto se appartenenti
ad altre etnie. Come testimoniano molte dichiarazioni degli stessi protagonisti, sono deflagrazioni
violente di risentimento anche i massacri nelle scuole che continuano a ripetersi in varie parti del
mondo dopo il primo episodio verificatosi nel liceo Colombine di Denver nel 1999, nei quali la
rabbia repressa per le angherie subite dai compagni è alla base delle devastanti azioni di vendetta
dei ragazzi che colpiscono indiscriminatamente chiunque si trovi, in quel momento, sul loro
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passaggio (ibid., p 145). Il risentimento, infatti, quando covato a lungo, avvelena l’animo del
soggetto e il desiderio di vendetta finisce per estendersi ben oltre il soggetto all’origine dell’offesa
subita andando a inglobare, nel vissuto del risentito, altri individui, gruppi, “razze” o la società
intera.
Espressioni altrettanto estreme, se pur meno eclatanti, di risentimento autolesionistico sono
riconoscibili anche in fenomeni quali l’anoressia, e la bulimia che, con la depressione e gli attacchi
di panico, rappresentano vere e proprie patologie sociali di tipo epidemico nelle società avanzate
(Recalcati, 2010, pag. 134). L’anoressia, in particolare (forma perniciosa di quelle che Recalcati
definisce “le patologie del legame) originerebbe dalla frustrazione costantemente rinnovata di una
relazione autentica con l’“Altro” (la madre, in primo luogo, ma anche le altre figure con cui il
soggetto ha relazioni significative, tra cui la famiglia e la società). Un Altro che, fraintendendo
sistematicamente il suo desiderio di amore lo interpreta come un bisogno che può essere
soddisfatto con oggetti e beni materiali, di cui il cibo costituisce il referente simbolico. Non
riuscendo a reagire diversamente, il soggetto finisce per riversare sul proprio corpo la rabbia che
tale relazione non corrisposta gli provoca, chiudendosi in esso e rifiutando qualsiasi relazione con
l’esterno, prima tra tutte proprio quella associata all’”oggetto” cibo in quanto “pappa” proposta da
un “Altro” asfissiante di cure materiali ma incapace di amarlo veramente (ibid.).
Tali fenomeni rappresentano alcune delle forme attraverso cui si esprime il risentimento, ma non
esauriscono certamente gli effetti sociali dell’energia che inevitabilmente cova nei vissuti degli
individui delle nostre società “falso democratiche”. Pare anzi di poter dire che gli episodi in cui il
risentimento viene alla luce come violenza vendicativa e dissipativa rappresentano esiti circoscritti
di falle prodottesi nei ben oliati meccanismi di elaborazione della rabbia impotente presente nel
sociale. Meccanismi che, contribuiscono a tenere sotto controllo l’energia distruttiva che le
disfunzionalità del capitalismo ipermoderno producono, e costituiscono, questa è la mia ipotesi,
uno dei fondamenti su cui esso si basa e si riproduce.
Meccanismi generativi
In quanto sentimento che deriva dalla convinzione di aver subito un’ingiustizia alla quale non è
stato possibile reagire, il risentimento è una costante, più che un'eccezione, dell'esperienza di una
soggettività umana che deve piegare il proprio desiderio alle costrizioni sociali e ai vincoli che le
proprie risorse (fisiche, economiche, culturali, sociali, ecc.) gli consentono. Un modo efficace per
coglierne le dinamiche generative, nel loro articolarsi sul duplice piano individuale e sociale, è
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forse quello di affrontare il risentimento “per negativo”, interrogandoci su quali possono essere i
fattori in grado di ridurre la probabilità soggettiva di esperirlo.
Avendo la sua genesi nella frustrazione di un desiderio, è evidente come le condizioni inibitrici il
sorgere del risentimento non devono essere ricercate, per lo meno in prima istanza, nei processi di
generazione dell’energia desiderante che, per definizione, non possono essere totalmente ridotti al
silenzio. Una tale condizione può essere invece rappresentata dalla possibilità che il soggetto non
percepisca l’ostacolo che ha incontrato nel raggiungimento del proprio scopo come frutto di
ingiustizia. Tale percezione può presentarsi al soggetto in modo del tutto irriflesso, affondando le
proprie radici tanto nella configurazione più profonda della sua psiche (l’auto-percezione delle
proprie possibilità, il senso del limite; ecc.), quanto nell’ordine socioculturale e simbolico
all’interno del quale la sua esperienza psicologica si trova ad agire. Rispetto a questo livello, si
danno sostanzialmente due modelli idealtipici.
Il primo è quello in cui la percezione del sé e del proprio ruolo nel mondo e nella società sono
percepiti come “dati”, risultati cioè inevitabili di un ordine cosmico-religioso che non contempla la
possibilità di uno scarto rispetto a ciò che “il fato” ha previsto per l’individuo. E’ questo il modello
delle società arcaiche e tradizionali in cui le forti dissimmetrie presenti in strutture sociali
relativamente semplici e scarsamente articolate erano legittimate da apparati simbolici di tipo
magico-religioso fortemente interiorizzati e capaci di rendere gli individui in grado di “tollerare” la
propria condizione, per quanto umile e svantaggiata essa fosse.
Al lato opposto di uno stesso continuum idealtipico troviamo invece le società compiutamente
democratiche in grado di esprimere appieno il portato di giustizia distributiva che dovrebbe
informarle. Portato fondato, tra l’altro, sull’allocazione delle risorse e dei ruoli sociali basati sul
riconoscimento dei meriti e dei bisogni individuali. Se nel modello precedente, la percezione
d’ingiustizia associata all’impossibilità di raggiungere il proprio scopo è bloccata all’origine in
quanto contraria all’ordine cosmico, nelle società pienamente democratiche tale pur possibile
eventualità finirebbe per essere bonificata grazie al riconoscimento della correttezza dei
meccanismi premianti che restituiscono al soggetto la certezza di aver ricevuto né più né meno di
quanto effettivamente meritava. Un modello sociale idealtipico di questo genere includerebbe
anche i necessari meccanismi correttivi in grado di intervenire nelle situazioni di ingiustizia che
potrebbero comunque generarsi al suo interno. Meccanismi riconducibili ad un sistema articolato
di organi di vario livello e natura (di rappresentanza, di mediazione, giudiziari, ecc.) ai quali il
soggetto potrebbe rivolgersi certo di ottenere giustizia in tempi consoni con la natura e la gravità
del danno subito.
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I due modelli idealtipici possono offrire spunti di riflessione anche rispetto ai processi di
elaborazione della quota di frustrazione e aggressività originate dall’impossibilità di raggiungere i
propri obiettivi che individui appartenenti ai due contesti verrebbero ad esperire. Nella società
democratica perfetta, ad esempio, la legittimità riconosciuta ai meccanismi premianti dovrebbe
agevolare notevolmente gli individui ad accettare le “sconfitte” subite nelle competizioni per il
conseguimento
di
obiettivi
e risorse (economiche, lavorative, di
reputazione, ecc.).
L’interpretazione di tali sconfitte come il giusto riconoscimento conseguito attraverso le proprie
performance dovrebbe facilitare il soggetto a riconoscere e accettare i propri limiti, inducendolo a
canalizzare gli sforzi verso obiettivi effettivamente perseguibili e alla sua portata. In questo modo,
la canalizzazione dell’energia psicologica, anziché rivolgersi “all’indietro” verso lo scacco subito,
finirebbe probabilmente per orientarsi verso il conseguimento di altri obiettivi e dunque avere uno
sbocco costruttivo e valorizzante per l’individuo e la società, depotenziando radicalmente l’invidia
e il risentimento in essa circolanti3.
Queste considerazioni sul rapporto tra risentimento e società democratica sono piuttosto divergenti
rispetto alle visioni “classiche”. Il ragionamento che caratterizza tali visioni muove dalla corretta
constatazione che i sentimenti mimetici (invidia, gelosia, risentimento) si attivano soprattutto nei
confronti di coloro rispetto a cui esso appare ragionevolmente possibile e dunque con persone
simili e vicine a noi, piuttosto che distanti e diverse: si invidia il vicino di casa o il collega di
lavoro ma non il sovrano, che incute invece timore e rispetto, o la rock star che si ammira e nella
quale, eventualmente, ci si identifica. Da tale constatazione l’interpretazione classica afferma che
le società moderno-democratiche, rendendo tutti gli individui liberi e uguali “per legge” aumenta a
dismisura le possibilità di confronto attivando processi orizzontali di invidia e risentimento che
tendono ad attivarsi dalle più piccole differenze.
“Ognuno da secondo le proprie possibilità e riceve secondo i propri meriti”.
Libertà e uguaglianza (progetto 89
Ma noi atto di fede dato che è quanto di meglio possiamo immaginare
Non si può certo auspicare la disuguaglianza
Questo è tra l’altro il convincimento di Ralws mentre altri autori, tra cui Žižek, sostengono che una società
perfettamente equa negherebbe alla maggior parte degli individui la possibilità di trovare giustificazioni e carpi espiatori
per la propria condizione di inferiorità aumentando ulteriormente l’insoddisfazione sociale e la rabbia repressa
circolante.
3
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Risentimento e società ipermoderna?
Il ragionare a livello ideale per individuare le condizioni (simbolico-culturali e sociali), in grado di
ridurre la probabilità soggettiva di esperire risentimento e, dunque, la quantità complessiva di
questo vissuto rancoroso circolante nella società, può essere un buon espediente per cogliere, per
contrasto, quanto l’era contemporanea ne sia invece potente generatrice e quali eventualmente
siano gli effetti della sua diffusa presenza nel sociale. Come già ricordato, Nietzsche e Scheler
individuano nelle strategie sociali di controllo e dislocazione simbolica del risentimento messi in
atto nella transizione alla modernità un ruolo strutturante rispetto all’evoluzione delle forme sociali
della convivenza. Appare dunque legittimo interrogarsi, da una prospettiva macrosociale, su quali
siano le relazioni che la società ipermoderna intesse con il risentimento individuale e collettivo.
Quali, in altri termini, gli effetti che le strutture economico-sociali e le concrete forme di vita nelle
società occidentali avanzate hanno rispetto alla probabilità soggettiva di subire esperienze
potenzialmente generative di questo vissuto.
In estrema sintesi, l’ipotesi qui tracciata, che riprende e articola alcuni recenti lavori sul tema
(Tomellieri, 2004; 2009; Risi 2009), è che le società occidentali contemporanee siano
intrinsecamente generatrici di risentimento e ne costituiscano il terreno ideale di cultura. E’ vero,
infatti, che esse riconoscono a tutti gli individui un’uguale legittimità a desiderare tutto e a
perseguire qualsiasi obiettivo per realizzare le proprie aspirazioni (o quelle che sono ritenute tali,
in un mondo dominato dal desiderio mimetico su cui più avanti torneremo). Ma è anche vero che
la crescente disuguaglianza economico-strutturale nega sistematicamente tali promesse
condannando la grande maggioranza degli individui a un mancato appagamento delle proprie
aspirazioni e a una risentita voglia di rivalsa che, pur rimanendo latente, non trova riposo
(Tomellieri, 2009, p. 12).
Per tracciare almeno la struttura argomentativa di fondo a supporto di questa ipotesi possiamo
ricordare, limitandoci a enunciarli, alcuni dei tratti più caratterizzanti della società ipermoderna a
cui può essere riconosciuto un ruolo rispetto alle dinamiche di generazione del risentimento.
Tra questi ricordiamo, tra gli altri, l’estremizzarsi dell’individualismo (Lipovetsky, 2006) che,
portando alle estreme conseguenze il processo di emancipazione del soggetto dai vincoli delle
appartenenze (religiose, tradizionali, di classe, ecc.), consegna all’individuo la responsabilità totale
del proprio destino e, quindi, anche dei propri possibili fallimenti. Il soggetto, scopertosi
forzatamente libero di forgiare la propria esistenza, finisce sempre più spesso per scoprire sulla
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propria pelle l’impossibilità di raggiungere gli obiettivi (lavorativi, di reddito, di consumo, di
felicità, ecc.) che egli stesso si era dato sollecitato da un contesto iper-competitivo e da un sistema
simbolico culturale inneggiante all’edonismo. L’ideologia stessa della competizione sfrenata e
l’attenzione alla performance, a fronte di meccanismi premianti che solo raramente sono
effettivamente basati sul merito e sulle capacità personali (Sennet, 2006) finiscono per lasciare
strascichi emozionali d’invidia per “chi ce l’ha fatta” e di risentimento per le ingiustizie che si
ritiene di aver subito.
Parallelamente: lo sviluppo economico in un contesto globalizzato accentua le differenze e le
disuguaglianze sociali sia a livello globale che all’interno di ciascun paese, decuplicando la massa
dei soggetti che vengono a esperire situazioni di deprivazione relativa (Tajfel,, Turner, 1979). E
questo mentre l’entrata in crisi dei sistemi di welfare che hanno accompagnato il consolidamento
della modernità ha ridotto drasticamente i meccanismi di tutela sociale e di attenuazione del
disagio, depotenziando quelli che per una buona parte del XX secolo erano stati gli ammortizzatori
sociali delle differenze, e dunque anche del risentimento.
Infine: l’abbandono dei modelli aziendali piramidali tipici della modernità (Sennet, 2006) in grado
di accompagnare, contenere l’esperienza di vita dei dipendenti e garantire per il loro futuro; la
diffusione del lavoro flessibile; i processi di delocalizzazione della manodopera dai paesi avanzati
in quelli in via di sviluppo; la mancanza di meccanismi efficaci di riqualificazione e
ricollocamento dei lavoratori messi in mobilità o licenziati; la scarsa consequenzialità tra i percorsi
scolastici formativi e i relativi sbocchi occupazionali; le sempre più ampie sacche di lavoro
precario sotto-retribuito più o meno istituzionalizzato che, in particolare in Italia, interessa quote
rilevanti di giovani e lavoratori intellettuali, sono tutti meccanismi che tendono a diffondere, come
è stato ampiamente teorizzato e discusso (Bauman, 1997; Beck, 1997; Giddens, 1999), un clima
generalizzato di incertezza e timore per il futuro.
E’ evidente come questi stessi meccanismi costituiscano anche condizioni oggettive per il
verificarsi di esperienze di vita penose e frustranti, vissute come ingiuste rispetto ai propri meriti,
al proprio comportamento, alle proprie aspirazioni e di cui il soggetto può sentirsi, spesso del tutto
legittimamente, vittima. Situazioni rispetto alle quali, per una serie di ragioni, può essere difficile
reagire. Tra queste vi sono, ad esempio: l’impossibilità di individuare un “vero colpevole” verso
cui orientare la propria aggressività, come avviene rispetto a istanze decisionali impersonali, sovranazionali e globalizzate come i consigli di amministrazione delle multinazionali globali; la carenza
di istituzioni legittimate attraverso cui canalizzare un’eventuale protesta (crisi dei sistemi di
rappresentanza e sfiducia verso l’azione politica e sindacale); o, ancora, l’evaporarsi di una cultura
della protesta rivendicativa, tramontata insieme al tramonto delle ideologie e dei partiti di massa in
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grado di mobilitare le persone e di generare narrazioni condivise capaci di veicolare, nel bene o nel
male, sogni di cambiamento e progetti collettivi.
Per quanto riguarda lo specifico italiano, a questi fenomeni trasversali ai paesi più avanzati, se ne
aggiungono altri derivanti dall’anomalia del sistema paese e dal decadimento istituzionale e
culturale che ne ha caratterizzato il più recente sviluppo, tra cui: l’affermarsi di un sistema
premiante dichiaratamente non meritorcaratico ma basato su logiche familistiche e clientelari 4. Lo
svuotamento simbolico e di legittimazione cui sono andate incontro alcune istituzioni centrali
rispetto al senso stesso della giutizia, prima tra tutti la magistratura la cui imparzialità e
politicizzazione sono ormai da anni oggetto di discussione politica e mediatica. I privilegi
“osceni”, se confrontati alle condizioni di vita della grande maggioranza dei cittadini lavoratori, di
una classe dirigente divenuta casta autoreferenziale e inamovibile; un’evasione fiscale
assolutamente abnorme rispetto a quella degli altri paesi avanzati, che lascia nel sommerso e
nell’economia criminale un flusso immenso di denaro5, facendo ricadere il peso della tassazione e
degli aggiustamenti necessari a compensare il saldo negativo di bilancio, prevalentemente sull
lavoro dipendente. Ma la stessa mancanza di un’alternanza di governo, impedita da una legge
elettorale perversa e da un sistema mediatico viziato dal conflitto d’interessi, tende a configurarsi
come un elemento di radicalizzazione del confronto politico-istituzionale e a tradursi nella diffusa
percezione di un sistema della rappresentanza ingiusto e generatore d’ingiustizie. L’insieme di
queste situazioni, sia di natura strutturale che contingente, costituiscono indubbiamente potenti
moltiplicatori della probabilità soggettiva di vivere esperienze di ingiustizia e quindi di
risentimento giusto.
Per comprendere sino in fondo i rapporti tra ipermodernità e risentimento, oltre alle dimensioni
strutturali e culturali sopra ricordate, è tuttavia necessario approfondire anche i tratti distintivi del
soggetto che all’interno di tale contesto si trova a nascere e ad agire. Un soggetto spesso
caratterizzato da una personalità ambivalente e narcisistica, scisso tra la profonda insicurezza tipica
di un Io debole e fragile e un irrealistico senso di illimitata potenza che gli fa percepire il mondo e
le proprie possibilità in maniera distorta. Una serie di istanze proprie della post-modernità
riducono, infatti, drasticamente la capacità di controllo che il soggetto può esercitare sulla realtà,
rendendolo insicuro su tutto. Tra queste vi è la “liquidità” dell’esperienza, che fa evaporare ogni
riferimento stabile (in un mondo in cui la velocità del cambiamento è superiore a quella adattiva
degli individui), e trasmette un senso generalizzato di aleatorietà e mancanza di pur provvisorie
4
Logiche, vale la pena di ricordare, nemmeno più generate da un sitema politico desideroso di mantenere il proprio
potere (come avveniva con il sistema politico gravitante intorno alla Democrazia Cristiana), ma diventata cultura
diffusa di scambio relazionale, riproducibile a tutti i livelli (economici, sociali, istituzionali, ecc.) per il perseguimento
dei propri interessi personali (economici, sessuali, ecc.).
5
Stimato per il 2010 intorno ai 137 miliardi di euro. Fonte KRLS Network of Business Ethics.
17
certezze. Il senso di spaesamento è ulteriormente esacerbato dalla percezione di una serie di
minacce, reali o presunte, enfatizzate dal sistema mediatico e spesso cavalcate dalla politica, tra
cui: la possibile catastrofe ecologica, il rischio nucleare, il terrorismo, i “pericoli” portati
dall’arrivo delle masse dei diseredati all’interno dei nostri territori, la crescente violenza dei centri
urbani, ecc. Minacce in gran parte dubbie a livello di portata reale, ma certe negli effetti di
chiusura e arroccamento sul sé per individui sempre più spaventati e incapaci di farsi un’idea
autonoma sulla realtà.
D’altra parte, tuttavia, il predominio della tecnica, con la sua certezza di avere una soluzione per
ogni problema e del mercato che ne traduce i risultati in prodotti che promettono una felicità senza
residui, trasferiscono al soggetto un senso di onnipotenza che va a compensare illusoriamente la
sua fragile struttura psicologica (Pulcini, cit., p. 134-136).
Sottoposto a queste due opposte istanze e impossibilitato ad ancorare la propria soggettività alle
istituzioni stabili come avveniva nella “modernità solida”, quello ipermoderno è un Io: <<confuso,
smarrito, insicuro, da un lato, edonista, grandioso, e illimitato dall’altro. Privo di certezze conferite
da istituzioni affidabili, e allo stesso tempo avido di una libertà insofferente di ogni vincolo, esso
presenta quella paradossale consistenza di vuoto e onnipotenza da cui trae origine e alimento la sua
struttura ansiosa e desiderante, carente, e inappagabile>> (ibid. p. 136).
Questo tipo di soggettività, che prova un senso di onnipotenza e si sente nel diritto di aspirare ad
ogni cosa e che, proprio per la sua fragilità, spesso non ha le risorse interiori necessarie a tradurre
le sue aspirazioni in progetti perseguibili, appare strutturalmente destinato al risentimento.
Se tale sentimento pare dunque rappresentare la principale energia emozionale circolante al di
sotto delle società occidentali avanzate, la domanda diventa allora di come esse possono
sopravvivere senza frantumarsi sotto la spinta centrifuga di tale energia astiosa. Come possono
arginare gli effetti potenzialmente distruttivi originati dalle frequenti frustrazioni del desiderio
prodotto dall’incapacità del sistema di mantenere le infinte promesse di benessere,
autorealizzazione e felicità che esso tende a generare negli individui? E come riescono a non finire
travolte dagli effetti dell’enorme quantità di risentimento che il modello di sviluppo e le
contingenze socio-economiche di questi ultimi anni tendono a generare? O, detto in altro modo,
quali sono i meccanismi attraverso cui la quantità di risentimento eccedente rispetto a quella
tollerabile e funzionale al sistema viene elaborata e dissipata in qualche forma?
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L’elaborazione del risentimento
Consapevoli dell’energia negativa potenzialmente disgregante del risentimento e dello sguardo
invidioso che la convivenza umana inevitabilmente produce, le società hanno da sempre elaborato
dispositivi simbolici, pratiche rituali e istituzioni finalizzate a dare voce, incanalare e contenere tali
forze oscure. Dispositivi, pratiche e istituzioni che si sono evolute con l’evolversi delle forme
storiche delle società umane (Elias, 1976).
In quelle arcaiche, ad esempio, caratterizzate da risorse scarse, ridotta complessità sociale e
relazioni interpersonali dirette, il risentimento e l’invidia erano percepite come forze dominanti
sulle dinamiche relazionali. Immerse in universi simbolici interpretativi incentrati sulla magia e la
superstizione, tali società riconducevano la maggior parte delle esperienze negative che colpivano
gli individui e la collettività alle energie malefiche prodotte dallo sguardo risentito e invidioso di
altri componenti del gruppo. In questo modo, qualsiasi evento infausto (una malattia, un cattivo
raccolto un periodo infelice nella caccia, ecc.) veniva ricondotto all’interno di narrazioni secondo
cui la fortuna e il benessere materiale di qualcuno avrebbe attivato l’invidia e il risentimento
astioso di altri, il cui sguardo malefico (talvolta canalizzato in precise pratiche magiche) si sarebbe
tradotto in influssi negativi in grado di portare disgrazia a chi aveva osato essere o avere più degli
altri (Schoeck, 1966).
Al di sotto di questo tipo di pensiero, vi è evidentemente una visione del mondo sociale (tipica di
società dominate dalla scarsità), regolate da dinamiche economico-distributive “a somma zero”, in
cui la quantità complessiva di qualsiasi bene (possessi materiali, salute, potere, felicità o buona
sorte) era immaginata finita e, conseguentemente, ogni acquisizione individuale era ritenuta
possibile solo a spese di qualcun altro (Foster, 1965). Per contenere la rivalità astiosa e il pericolo
contenuto nell’energie malefica dello sguardo risentito e invidioso, le società di sussistenza
prevedevano tutta una serie di pratiche rituali e comportamentali, alcune delle quali, per altro, sono
sopravvissute nelle zone rurali dell’Italia fino ad alcune generazioni fa (De Martino, 1959). Si
pensi, per fare solo qualche esempio, alla regola di buona educazione che consigliava di non
vantarsi della propria buona sorte; di vestire i figli in maneria un po’ inferiore di quanto non si
sarebbe potuto; di nascondere la gravidanza sin quando possibile, parlandone poi con tono dimesso
quasi fosse una disgrazia; o, ancora, astenersi dal fare complimenti e lodi eccessive alla sorte o ai
possessi altrui, in quanto interpretabili come possibili espressioni di tendenze invidiose
(Lipovetsky, 2006, p. 263). La stessa usanza di chiudere gli occhi ai defunti deriverebbe dal timore
che le società arcaiche avevano dello sguardo invidioso e potenzialmente malefico che i morti
possono avere nei confronti di chi è rimasto in vita.
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Oltre a queste pratiche di contenimento dell’aggressività invidiosa, di natura simbolico culturale,
l’elaborazione persecutiva e quella depressiva rappresentano due potenti forme di imbrigliamento
e dislocazione del risentimento, di tipo psico-sociale, particolarmente efficaci e “transculturali”
(Alberoni, 1989).
Attraverso l’elaborazione persecutiva, l’individuazione di un nemico, interno o esterno al gruppo,
cui attribuire le colpe d’ogni male trasformandolo in capro espiatorio consente di convogliare
l’aggressività risentita degli individui rinsaldando al contempo i legami di appartenenza dei suoi
membri. Il processo di vittimizzazione indicata da Girard alla base delle società arcaiche (1961); la
giustificazione ideologica di gran parte delle guerre che hanno funestato e funestano la storia
dell’umanità (Tomellieri, 2009); la montante ondata di intolleranza presente in molti paesi
occidentali nei confronti dei migranti (Bauman, 2005), le azioni criminali dei tanti gruppi neonazisti attivi in diversi paesi del mondo, sono tutti esempi di forme persecutive di elaborazione
sociale del risentimento attraverso cui la rabbia socialmente prodotta viene dislocata all’esterno del
gruppo su di un capro espiatorio, individuale o collettivo.
L’elaborazione depressiva, probabilmente più “moderna” in quanto possibile solo all’interno di
una visione del mondo che riconosce al soggetto la capacità di autodeterminarsi, è invece il
meccanismo attraverso cui il soggetto è indotto a prendere su di sé la colpa della propria
condizione negativa, anche quando essa ha origini sociali e strutturali. Sono esempi di questo tipo
di elaborazione tanto la ricerca di soluzioni personali a disfunzioni sistemiche descritta da Beck
(1992), quanto l’attuale grande diffusione di forme depressive nelle società complesse. Incapace di
riconoscere la natura strutturale e sociale dell’ingiustizia vissuta e, dunque, di indignarsi
legittimamente per essa, il soggetto narciso e fragile della contemporaneità finisce per ritenersi
responsabile di tutte le cose che, nella sua vita, non vanno come vorrebbe.
Se quelli persecutivo e depressivo sono due meccanismi “classici” attraverso cui le società si
proteggono dagli esiti potenzialmente distruttivi dell’aggressività che esse stesse producono, più
complesso appare ricostruire i meccanismi dissipatori propri della contemporaneità. Per una
trattazione esaustiva di tali meccanismi sarebbe necessario indagare come i principali tratti socio
strutturali della società ipermoderna possano agire su ciascuno dei diversi elementi costituivi le
dinamiche del risentimento, amplificandoli o dissipandoli. Nell’impossibilità di svolgere qui tale
compito, ci limitiamo a proporre alcune considerazioni su alcuni di tali aspetti.
Dato che il risentimento è un vissuto relazionale originato dal confronto, è sulle opportunità di
confronto con gli altri tipiche della contemporaneità che si deve innanzitutto indagare. In questo
senso è evidente come il sistema mediatico, principale costruttore di rappresentazioni della realtà e
generatore di senso delle società avanzate, sia il sistema maggiormente in grado di offrire agli
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individui infinite possibilità di conoscenza su situazioni, esperienze di vita, successi e fortune
altrui. Conoscenze che possono offrire potenti sollecitazioni al risentimento invidioso: “perché a
loro sì e a me no?”. Ma lo stesso sistema veicola anche contenuti che spingono gli stati emozionali
soggettivi in direzione opposta, facilitando cioè un’elaborazione attenuatoria e dissipatoria del
risentimento. Le logiche di agenda attraverso cui sono costruite le news ci servono ogni giorno
quantitativi impressionanti di sofferenza, dolore e morte in un progressivo gioco al rialzo in cui
sempre più spesso il diritto all’informazione sfocia nel voyerismo più osceno. Tali immagini, che
coinvolgono sempre gli “Altri” (lontani nello spazio, più umili, più cattivi, più arretrati o, se non
altro, più sfortunati di noi), saturano i nostri bisogni di sollecitazione emozionale, generando un
meccanismo di desensibilizzazione progressiva che, anziché stimolare l’indignazione collettiva,
tende piuttosto a narcotizzarla insieme alle coscienze. In questo modo, come efficacemente
riconosce Bauman (2005) la visione di queste immagini, così come la presenza degli ultimi nelle
nostre città svolgono un ruolo consolatorio e di contenimento dell’insoddisfazione ricordando ai
cittadini dei paesi avanzati di appartenere comunque a una minoranza di privilegiati.
Tuttavia, se c’è un genere che, rappresentando l’oggetto specifico di un intero settore del sistema
mediatico, appare particolarmente connesso con il tema del risentimento e dell’invidia (????,
questo è il gossip il cui tema narrativo è quello di scrutare la vita intima dei personaggi dello star
system. Sottoposta allo sguardo indiscreto dei teleobiettivi indugianti su ventri molli e cellulite e al
pettegolezzo spacciato come scoop, l’aurea che circonda tali personaggi quando sono “on stage“,
finisce inevitabilmente per evaporare. Perché invidiare personaggi che, visti da vicino, sono come
noi e hanno problemi simili ai nostri, se non peggiori? Gli effetti di senso complessivi di questo
genere mediale sono quelli di un “abbassamento” simbolico delle figure dello star system in un
processo che replica, a livello collettivo, il gioco linguistico tipico del risentimento invidioso e
contribuisce, sul piano della più generale macro-economia emozionale, a dissipare tali vissuti
convertendoli in un incessante, quanto innocuo, pettegolezzo collettivo.
Anche il successo delle trasmissioni televisive che sfruttano il desiderio di protagonismo dei
partecipanti trova le proprie radici nel risentimento che deriva dal desiderio di distinzione dalla
massa e riscatto dalla propria condizione. Il loro format prevede quasi sempre un qualche tipo di
competizione (Pulcini, 2011) che mette di fronte persone di ogni genere disposte a tutto pur di
poter concorrere all’assegnazione del monte premi ma, soprattutto, di godere di qualche secondo di
visibilità mediatica. Visibilità che, interpretata come notorietà e quindi come “successo”, gonfia la
componente grandiosa della loro personalità narcisistica, nascondendone, anche solo per qualche
istante, l’intima fragilità. Tali trasmissioni svolgono un ruolo ambivalente rispetto alle macrodinamiche di flusso del risentimento. Per un verso, infatti, esse generano aspettative elevate negli
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individui che aspirano a entrare nel mondo dello spettacolo contribuendo così a produrre
importanti quote di emozioni risentite verso il sistema da parte di coloro che ci hanno provato
senza successo, e invidiose nei confronti dei pochissimi che ce l’hanno fatta. Per contro,
veicolando il meta-messaggio che tutti possono partecipare al grande circo mediatico e aspirare a
un successo basato non sui meriti ma sulla notorietà ottenibile a basso costo, tali programmi
svolgono anche una funzione potentemente attenuante di questo genere di sentimenti negativi.
La complessità del rapporto tra sistema mediatico broadcasting e risentimento appena descritta si
riproduce, in forme diverse, anche nel caso dei social media. Essi offrono, infatti, la possibilità di
entrare in relazione con gli altri in maniera svincolata dai limiti spazio temporali rendendo
l’incontro e il confronto interpersonale più facile di quanto non sia mai avvenuto in passato. Negli
spazi della rete, le relazioni si generano spontaneamente sulla base di motivazioni condivise.
Questo ha reso possibile lo svilupparsi di comunità in grado di riunire soggetti portatori dei più
diversi interessi, da quelli più esoterici e faceti a quelli più seri e “impegnati” come, ad esempio,
quelle di persone accumunate da una stessa situazione disagiata (ex. gruppi di mutuo aiuto,
network spontanei di lavoratori precari, ecc.) dei net activist o dei cittadini che cercano di ribellarsi
a uno stato tirannico. Offrendo agli individui la possibilità di confrontarsi con altri che
condividono la loro stessa condizione, questi spazi possono aiutarli a prenderne consapevolezza da
una prospettiva meno individualistica e persino a coglierne le origini strutturali e sistemiche. In
questo modo, le comunità online si configurano come spazi potenzialmente privilegiati di
elaborazione della rabbia e del risentimento individuale che, socializzandosi e riconoscendosi in
quello degli altri, potrebbero essere elaborati assumendo la forma di indignazione e azione
collettiva. Le ricerche sino a oggi condotte sul tema, una delle quali riportata in questo stesso
volume (Cfr. Risi) non sembrano tuttavia offrire conferme univoche in questo senso. Forse anche a
causa della relativa novità di tali forme di relazione, le dinamiche che vi si sviluppano sembrano
più in grado di riprodurre meccanismi dissipativi di “ruminamento” della rabbia repressa, che non
consentire quei processi di fusione emozionale e di auto-organizzazione alla base dei processi
collettivi.
Se dunque il sistema dei media agisce con effetti ambivalenti sulle opportunità di confronto con
l’altro da cui possono scaturire fenomeni di invidia e di risentimento, altri meccanismi strutturali
allo sviluppo attuale del capitalismo paiono agire sui contenuti di tali confronti con effetti
prettamente dissipativi e di contenimento dell’energia negativa. Sono tutti quei dispositivi che, per
spingere i consumi, hanno offerto soluzioni in grado di “dopare” innaturalmente il reddito effettivo
dei consumatori e delle famiglie consentendo loro, e intere nazioni con loro, di vivere al di sopra
delle proprie effettive possibilità economiche. Almeno sinché la crisi non ha dimostrato la nudità
22
dell’imperatore. E’ quanto è successo con la diffusione abnorme del credito al consumo, delle carte
di debito e di credito o con i mutui offerti a tutti, compresi coloro che non sarebbero mai stati in
grado di restituirli, da cui ha preso origine il fenomeno dei mutui subprime alla base della crisi
globale. Negli stessi anni in cui in tutti i paesi avanzati andava allargandosi a dismisura la forbice
economica tra l’elite sempre più esclusiva dei super ricchi (sempre più ricchi) e la massa crescente
dei più poveri (sempre più poveri, e tra i quali sono state risucchiate fasce importanti della classe
media. Cfr. Wilkinson, R., Picket, K.,2009)), tali dispositivi economico-finanziari, necessari ad
alimentare il livello dei consumi di cui il capitalismo aveva bisogno, offrivano l’illusione, a chi in
realtà si stava impoverendo, di poter far parte della massa dei turbo consumatori. Questo
meccanismo, democratizzando falsamente i consumi e rendendo accessibile a tutti l’edonismo
voluttuario stimolato dal sistema, ha potentemente contribuito a contenere le possibilità di
insorgenza di invidia e risentimento presso le masse di coloro che in precedenza erano esclusi dai
processi di consumo.
Ma quando anche l’allettante proposta del “consuma adesso, pagherai in futuro” pare insufficiente
ad offrire il livello di vita a cui il soggetto aspira, egli può sempre cercare una possibilità di riscatto
tentando la sorte! E’ il tipo di promessa offerta dalle lotterie, dai concorsi a premi, dalle
scommesse e dalle slot machine che hanno avuto in Italia una diffusione straordinaria negli ultimi
anni muovendo un volume di denaro verso le casse dello Stato e della malavita organizzata
calcolabili in punti percentuali di Pil. Prima ancora che diventi patologia da dipendenza, dietro il
comportamento ossessivo che vede un numero crescente di persone giocarsi quote significative del
proprio reddito non è difficile riconoscere una volontà di riscatto risentito che aspira a una
promozione sociale desiderata quanto impossibile da raggiungere in altri modi. Il rinnovarsi
continuo della speranza di una vittoria che potrebbe cambiare la vita del giocatore contiene sempre
dentro di sé un riferimento ad “altri” (datori di lavoro, amici, parenti, vicini di casa, ecc.) da cui
riscattarsi facendoli “schiattare d’invidia”. E in questo alternarsi di rinnovate speranze pagate a
caro prezzo e inevitabili delusioni non è difficile riconoscere il meccanismo del “ruminamento”
che accompagnando l’elaborazione psicologica del risentimento contribuisce al contenimento della
sua potenziale forza distruttiva.
Una forma di appagamento del desiderio acquisitivo è dato anche dal “malaffare” che, soprattutto
in Italia, costituisce una vera e propria economia parallela a quella ufficiale. Più che alla malavita
organizzata mi riferisco al “malaffare” diffuso, fatto di evasione ed elusione fiscale, corruzione,
contraffazioni, truffe, disonestà nel condurre il proprio lavoro, desiderio di “fregare l’altro” per
ottenerne vantaggio, ecc. Il malaffare ha fatto sempre parte delle società umane. Ciò che tuttavia
differenzia quello presente oggi in Italia, oltre alla sua endemica diffusione (sicuramente più vasta
23
di quanto non si riesca a immaginare se riesce a smuovere, come indicano alcune stime, un volume
di denaro pari a circa il 7% del Pil!6), è il fatto che venga giustificato sulla base di una più o meno
esplicita legittimazione sociale che tende a farsi cultura dominante. Legittimazione sul cui
istaurarsi non poco ha contribuito la classe politica al potere negli ultimi due decenni. Chi si
arricchisce illegalmente, evade le tasse o semplicemente arrotonda la propria condizione
economica al di fuori delle norme, non solo si assicura la possibilità di accedere a uno stile di vita
e di consumo superiori a quelli che il suo status non gli consentirebbe, ma riceve anche
l’approvazione di coloro che condividono la sua stessa “etica”. Un’etica secondo cui: “il denaro
giustifica i mezzi” e sotto la cui luce egli appare non come un delinquente, ma come “un furbo”,
“uno che ha saputo destreggiarsi” in un mondo dove “tanto nessuno è onesto”. L’economia del
malaffare, immettendo sul mercato un flusso considerevole di denaro, contribuisce sensibilmente
alle dinamiche del consumo e al successo delle sue logiche. Allo tesso tempo, tale economia,
(insieme agli altri fenomeni sopra ricordati che aumentano le possibilità degli individui di
soddisfare la propria sete di consumo o promettono di farlo) contribuisce a dissipare negli
individui le cariche di aggressività che potrebbero derivare loro dal doversi “accontentare” di ciò a
cui possono aspirare contando solo su quanto guadagnato onestamente. In questo modo, in
mancanza di un universo etico in grado di orientare i comportamenti individuali, la possibilità di
partecipare al banchetto del consumo nel tavolo dei più fortunati, indipendentemente dal modo in
cui questo è stato ottenuto, diminuisce notevolmente la possibilità di esperire sentimenti di invidia
e di risentimento sia di tipo invidioso che “giusto”.
Ma il meccanismo di dissipazione della violenza prodotta dalle dissimmetrie (progressivamente
crescenti) e dalle ingiustizie sociali delle attuali società falso-democratiche passa soprattutto
attraverso le logiche stesse del mercato. In un mondo dominato dall’etica del consumo, i confronti
tra individui da cui prendono origine le emozioni comparative (gelosia, invidia e risentimento),
avvengono soprattutto in relazione alle possibilità di spesa e al possesso di beni acquistabili sul
mercato.
Già Simmel aveva teorizzato il ruolo dissipativo e di contenimento dell’energia invidiosa operato
dalla moda (1895). Il suo ragionamento si basa sulla costatazione che, se da una parte la moda
introduce elementi di distinzione sociale tra chi “può permettersela” e chi invece non ha le risorse
per farlo, e dunque moltiplica le occasioni di stimolo al risentimento invidioso, dall’altra, essa
Cfr.: “Mafia crime is 7% of GDP in Italy, group reports”, The New York Time, Monday, October 22, 2007. I
ricercatori dell’CSC nello studio pubblicato il 13 Settembre 2010 scrivono: «C’è una parte dell’economia italiana che
non ha subito recessione: il sommenso». In effetti di tratta di un incremento di almeno tre punti di PIL rispetto ai dati
Istat con un balzo che raggiunge nel 2010 il 20 per cento del Prodotto interno lordo e una pressione fiscale effettiva ben
oltre il 54 per cento del PIL, pari a più di 125 miliardi di euro, l’evasione più elevata in Europa. In: Confesercenti - Le
6
mani della criminalità sulle imprese. Roma, maggio 2010.
24
svolge anche un ruolo omologante dato che tutti coloro che la seguono finiscono poi per
“assomigliarsi”. Ma soprattutto, sostiene ancora Simmel, la moda e, potremmo aggiungere, il
consumo più in generale attivano dinamiche competitive comunque più “democratiche” (rispetto
ad esempio a quelle basate sullo status) e certamente potenzialmente meno distruttive rispetto
all’ordine sociale7. Le considerazioni simmelliane vanno tuttavia contestualizzate alla società
solido-moderna, e dunque gerarchica e piramidale, a cui egli si riferiva. Da allora, il fenomeno
della moda e dei processi di consumo si sono enormemente specializzati, soprattutto per l’azione
delle pratiche di marketing succedutesi nel tempo in maniera funzionale allo sviluppo delle
economie e dei mercati. Grazie alla potenza del marketing e ai suadenti messaggi delle sue
“Sirene” pubblicitarie, i riferimenti di classe, tipici di un mondo solido e basato sulla produzione,
si sono liquefatti in una diaspora infinita di stili di vita incentrati sul consumo, all’interno dei quali
il soggetto poteva riconoscersi. Questo processo di artificiosa differenziazione sociale si è
ulteriormente sviluppato negli ultimi anni giungendo, attraverso il marketing relazionale e una
personalizzazione sempre più spinta dei prodotti, ai suoi limiti oggettivi costituiti da un
consumatore non più visto come parte di un target, ma come singolo individuo con cui entrare in
relazione diretta anche grazie alle tecnologie della rete. E’ il singolo individuo quello di cui le
aziende si propongono oggi di soddisfare le brame di consumo con prodotti pensati solo per lui (o
fatti credere tali). Il risultato di questo processo, finalizzato a gonfiare la domanda di un mercato in
cui i processi di acquisto sono orientati da valori immateriali, è quello di un aumento, almeno in
apparenza, della differenziazione sociale e dunque degli spazi simbolici entro cui i diversi
individui si trovano a confrontarsi. Non essendoci un’unica moda e un unico mercato su cui
competere, ogni individuo può sentirsi “alla moda” secondo innumerevoli modelli e riferimenti
simbolico-culturali, in un processo che ha ormai da tempo una funzione espressiva e identitaria
piuttosto che ostentativo-emulativa.
La merce contraffatta, i discount, gli outlet, i mercatini dove si trovano prodotti firmati a prezzi
bassissimi, sono tutte ulteriori possibilità che democratizzano il mercato e consentono a molti di
accedere, o anche solo simulare, una condizione di consumo superiore alle proprie reali possibilità.
Tali processi di democratizzazione e differenziazione pur essendo sono in larga misura solo
apparenti in quanto non fondati su un’effettiva redistribuzione più egualitaria dei redditi,
contribuiscono tuttavia a depotenziare ulteriormente l’intensità complessiva dell’invidia e del
risentimento in circolo nel sociale.
7
E’ ben noto, per altro, il ruolo compensativo e riparatorio che un acquisto voluttuario può svolgere rispetto alla
rabbia e alla frustrazione accumulata, ad esempio, sul posto di lavoro.
25
Anche la pubblicità, e più in generale, la comunicazione aziendale, il cui scopo è quello di rivestire
di significati e valori immateriali e simbolici brand e prodotti, svolgono un ruolo decisivo nel
sistema dell’iper-consumo sollecitando quel meccanismo mimetico del desiderio descritto da
Girard (1961). L’intero meccanismo relativo alla generazione mimetica del desiderio attraverso
l’intermediazione dell’altro messo a fuoco dall’autore pare una descrizione efficace delle
dinamiche emozionali sottostanti l’attuale sistema della moda e della pubblicità.
Ma tutti questi fenomeni e dispositivi in grado di incidere sulle macrodinamiche emozionali,
contenendo e dissipando le cariche invidiose e risentite che le disfunzionalità sistemiche
incessantemente producono, resterebbero largamente inattivi se non andassero ad incardinarsi sul
meccanismo primario su cui si basa il successo globale dell’iperconsumo. Un meccanismo in
grado di agire direttamente sulle coscienze individuali e sui processi intrapsichici di generazione
del desiderio. Per cogliere tale dinamica è necessario ripensare a come esso si presenti
originariamente.
La psicoanalisi ci ha insegnato che il desiderio è l’energia emozionale alla base del comportamento
umano. Ci ha anche spiegato che tale energia può orientarsi in modo creativo verso obiettivi
costruttivi e in grado di generare relazioni di valore, solo se si incontra e si scontra con la legge,
ricevendone il suo sostegno simbolico (Recalcati, p. 8). Se non si infrange contro i limiti della
norma, l’energia libidica, che si manifesta primariamente come ricerca di godimento immediato,
non può trasformarsi in desiderio. Per questo, il “programma della Civiltà”, con il suo apparato
normativo e valoriale, si è sempre opposto al dispiegamento in-mediato dell’impulso al godimento,
“castrandolo” e permettendo in questo modo l’attivazione di processi di sublimazione attraverso
cui tale energia diventa desiderio creativo e risorsa per la collettività (ibid. p. 31).
Nelle società occidentali avanzate, questo meccanismo pare oggi essere entrato in stallo.
Embricandosi su processi socioculturali che, pur avendo le proprie origini in periodi ben più
remoti, sono giunti a compimento negli ultimi decenni (ma che non è possibile qui approfondire8),
il programma iperedonistico del capitalismo contemporaneo “liquida”, insieme a molto altro,
anche le forze normative in grado di imporre agli individui i necessari processi di sublimazione
dell’energia libidica. Così facendolo il capitalismo contemporaneo sembra portare a compimento
quel meccanismo, apparentemente paradossale, di de-sublimazione repressiva acutamente
delineato da Marcuse (1955, cfr. Recalcati, cit. p. 30).
Mi riferisco, in particolre, all’evaporazione dell’istanza paterna (???) alla ridefinizione dei processi educativi infantili
secondo modelli finalizzati al benessere totale del bambino e all’annullamento della benché minima esperienza
traumatica; alla ridefinizione della marca affettiva della famiglia _______; all’incapacità delle generazioni post-68 di
assumere appieno il ???????; ecc.
8
26
La necessità di promuovere un consumo sempre più famelico ed eccedente si è concretizzata in
un’ideologia che prima ha riconosciuto a tutti il diritto all’edonismo e a un consumo liberato dalle
resistenze morali o religiose che lo penalizzavano sino a qualche decennio fa; poi ha imposto
questo stesso edonismo, inteso come diritto al godimento, come imperativo di massa. In questo
modo, è lo stesso neocapitalismo che legittima e incita gli individui a liberarsi dai vincoli della
norma per poter soddisfare, senza alcun limite “subliminante”, il proprio impulso al piacere
attraverso i beni acquistabili sul mercato.
Così facendo: <<il sacrificio pulsionale viene negato nel nome di una falsa liberazione della
pulsione che si svincola da ogni forma di sublimazione, promettendo un godimento immediato, de
sublimato, appunto, senza mediazione simboliche e senza più limiti>> Recalcati, cit. p. 9)
Questo tipo di de-sublimazione non corrisponde affatto a un aumento della libertà individuale, ma
piuttosto alla più sottile ed efficace forma di controllo sociale messa in atto dal sistema.
Penalizzando il movimento del desiderio, esso annulla infatti <<ogni dissimmetria critica nei
confronti della realtà alla quale, invece, il soggetto tende ad adeguarsi sempre più passivamente>>
(ibid.).
Se il capitalismo descritto da Marx alienava il soggetto riducendolo alla sua sola forza fisica
trasformata in lavoro, nel neocapitalismo dell’iperconsumo l’alienazione ha assunto la forma di <<
una riduzione del soggetto alla spinta mortifera del godimento>> (ibid. p. 34).
Oltre che sul piano ideologico, la frammentazione e trasmutazione del desiderio in volontà di
godimento è prodotta anche da un altro tipo di dinamica. Da un punto di vista psichico, è la
mancanza dell’oggetto ciò che anima il desiderio e lo vitalizza sospingendolo in avanti. Viceversa,
quando l’oggetto ha assunto la forma di merce e si presenta, come avviene oggi, oscenamente
sovrabbondante, è lo stesso desiderio che finisce per annichilirsi sotto l’effetto “intasante”
dell’eccesso. Un eccesso di beni e opportunità di godimento che annulla la mancanza necessaria a
muovere la spinta desiderante e impedisce la creazione di legami autentici con gli altri (ibid. pag.
35). In questo modo, è il rapporto con l’oggetto ad assumere le caratteristiche di una nuova forma
di schiavitù favorendo l’insorgenza delle sempre più diffuse dipendenze patologiche, non più solo
“da sostanze”, ma anche dal gioco, dall’uso della rete, dal sesso mercificato, dal fitness, ecc.
Favorendo questo tipo di processo, il neocapitalismo ha di fatto generato un progressivo
svaporamento del desiderio (almeno come istanza psicologica dominante gli individui)
iperframmentandolo e trasmutandolo in ricerca di godimento immediato che ricorda
drammaticamente l’esito parossistico cui è destinata l’evoluzione della mimesi girardiana.
27
Il desiderio presume del resto progettualità, creatività, impegno, incontro con l’altro, e tempi
lunghi per potersi esprimere. Tempi poco compatibili con quelli necessari a un mercato che può
mantenersi solo contando sulla frenesia di individui divenuti turbo-consumatori. Solo la ricerca
immediata del godimento soddisfacibile con le merci può invece assicurare la temporaneità
istantanea del qui ed ora in grado di rendere i comportamenti di acquisto sempre più frenetici e in
sintonia con il parossismo a cui è giunto il tempo di deperimento segnico delle mode e delle merci.
Questo processo di de-sublimazione e trasmutazione dell’energia desiderante ha evidentemente
effetti molteplici a vari livelli. Interagendo potentemente con il movimento del desiderio esso
genera, innanzitutto, una diffusa adesione acritica ai modelli di vita dominanti. Ma tale processo ha
un effetto decisivo anche sulle dinamiche macroeconomiche di dislocazione del risentimento. La
conversione del desiderio in ricerca di godimento istantaneo stempera infatti notevolmente
l’intensità della frustrazione che l’incapacità di soddisfare tali bisogni comporta. Inoltre, mentre
l’oggetto del desiderio è unico e insostituibile, il godimento ottenibile attraverso il consumo può
essere soddisfatto con oggetti molteplici e facilmente sostituibili (prodotti, servizi, corpi, ecc.).
Infine, questo stesso meccanismo di trasmutazione operato dal capitalismo contemporaneo e
supportato dalle pratiche di marketing “one to one”, estremizza gli esiti dell’individualismo
contribuendo alla monadizzazione del soggetto che finisce per ritrovarsi quasi del tutto incapace di
coinvolgersi in relazioni e basate sull’eros (in senso psicanalitico) e quindi sulla capacità
desiderante. L’incapacità del soggetto “liquido” di impegnarsi “per sempre”, come si diceva una
volta credendoci, sono esempi in questa direzione (cfr. tra tutti, Bauman???).
Da questa progressiva incapacità a entrare in relazione autentica e ad “amare” l’altro, derivano
tanto i fenomeni di iper-centratura sul sé, ampiamente descritti dalla letteratura sul soggetto postmoderno, quanto le diverse patologie del legame di cui parla Recalcati (2010).
La monadizzazione narcisistica della soggettività corrisponde, di fatto, a una progressiva scissione
del legame sociale e a una chiusura narcisistica auto centrata. Tale disposizione induce l’individuo
a ricercare soluzioni personali a fenomeni che sono invece il risultato di disfunzionalità e
ingiustizie socio-strutturali del sistema. Lo sguardo rivolto al proprio caso personale impedisce il
soggetto di riconoscere le vere cause del proprio stato. In questo modo, nel tentativo di “cavarsela
da solo preoccupandosi solo di se’” è molto probabile che entri in conflitto con altri individui che
condividono la sua stessa situazione e che competono orizzontalmente tra loro per accaparrarsi
risorse scarse, in una estenuante “lotta tra poveri”. Una lotta che, anziché essere combattuta tutti
insieme per ottenere quello che spetterebbe loro di diritto (un lavoro stabile, servizi sociali
funzionanti, una tassazione equa, un adeguato sistema sociale di tutela dei soggetti più deboli e
svantaggiati, ecc.) finisce per frantumarsi in un’infinità di micro-conflitti latenti e risentiti in cui
28
soggetti-monadi si scontrano simbolicamente tra loro spinti da un bisogno acquisitivo di origine
mimetica che solo il consumo sembra poter placare. In questo modo, quello che potrebbe assumere
la forma di risentimento giusto per le ingiustizie sociali subite e che, incontrandosi con quello degli
altri, potrebbe concretizzarsi in movimento di protesta per ottenere un mondo più giusto, si
trasforma in risentimento invidioso e malevolo verso coloro con cui ci si trova, orizzontalmente, a
competere.
Da un punto di vista macroeconomico, dunque, la produzione dell’energia libidica necessaria a
sostenere l’iperconsumo di cui l’attuale capitalistico necessita, contribuisce anche alla dissipazione
delle cariche potenzialmente distruttive del risentimento invidioso che le disfunzioni sistemiche
producono. E lo fa incanalandole nella camera di combustione del mercato che li riconverte nella
ricerca del godimento da cui si originano i drive motivazionali al consumo. Così il cerchio si
chiude, in un meccanismo perfetto e in grado di autoalimentarsi attraverso l’energia emozionale
che esso stesso produce; in un moto perpetuo destinato a continuare nel tempo almeno fino a
quando nuove formazioni sociali e movimenti non si dimostreranno in grado di scardinarne le
fondamenta.
29
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