Introduzione al volume Come l’invidia e la gelosia, con cui spesso si accompagna e si confonde, il risentimento è uno stato del sentire complesso e proteiforme che si insinua al di sotto del visibile e del dicibile. In quanto odio impotente, esso è soggetto a processi di rimozione individuali e collettivi costituitivi della sua stessa natura. A dimostrazione di un surplus di energia che trova sfogo improvviso, quando viene alla luce si manifesta soprattutto attraverso episodi di violenza “eccedente” rispetto alle dinamiche oggettivamente in gioco,. Per la maggior parte del tempo e nella maggior parte dei casi, la potenza repressa del risentimento prende vie tortuose e trasversali assumendo configurazioni che, per quanto rilevanti sulle dinamiche interpersonali e sociali, si esprimono prevalentemente come sintomi, difficili da riconoscere e decifrare. Già Darwin, descrivendolo nel suo trattato sulle emozioni umane, riteneva che il risentimento non potesse essere riconosciuto direttamente dato che non si accompagna ad alcuni pattern comportamentale o espressivo specifico, ma possa essere solo desunto da elementi contestuali (Bonfiglioli, Ricci Bitti, 2007, p. 191) Carsica, e cioè tendente a venire alla luce in maniera discontinua e imprevedibile, è stata anche la sua presenza come oggetto di analisi. Portato alla luce nelle sue conseguenze macrosociali e culturali da Nietszche (1887) e Scheler (1912) ha ricevuto nuove attenzioni solo molti decenni dopo attraverso la teoria mimetica del desiderio di Girard (1961; 1972), per scomparire poi di nuovo fino agli anni più recenti in cui vi è stata una ripresa di interesse sul tema sia in ambito sociologico che antropologico, psicologico e giuridico (Barbalet, 1992; Tomellieri, 2004; 2009; Kancyper, 2003; Ansart, 2002; Mullet, 2007; Rizzi, 2007; Risi, 2009). Difficile resistere all’impulso di interpretare questa discontinuità teorica come un effetto dei tratti costitutivi del risentimento stesso e dei meccanismi di rimozione sopra accennati. In quanto “violenza impotente” che cova nel desiderio di rivalsa avvelenando l’animo, il risentimento costituisce parte di quel negativo che individui, culture e istituzioni tendono a occultare relegandolo in un rimosso del quale, per altro, è impossibile liberarsi e con cui, prima o poi, si giunge inevitabilmente a fare i conti. Ogni società, in ogni epoca, ha elaborato apparati simbolico-narrativi (miti, religioni, ideologie, ecc.) e rituali con cui rappresentare, dare senso condiviso e legittimare la propria architettura di potere. Compito di tali apparati è sempre stato anche quello di occultare la violenza del negativo su cui le società stesse si basano e si riproducono: disparità di potere e possesso, ingiustizie, umiliazioni, sofferenze, sopraffazioni, violenze, morti. Interrogarsi sul risentimento da una prospettiva non riduttivamente intrapsichica e centrata sulla “personalità risentita”, ma contestuale e culturale, significa, dunque, cercare di portare qualche 1 rivolo di luce nei meandri del rimosso collettivo. Significa forzare la riflessività dello sguardo nel tentativo di cogliere qualcosa della violenza oscura che, come esseri umani e collettività, ci agita e ci agisce dal profondo (Bitetto, 2000). 2 Le trame del risentimento Guido Di Fraia Introduzione (al mio pezzo) Se è vero che tutte le emozioni hanno una componente relazionale, il risentimento (come l’invidia o la gelosia), è uno stato del sentire prettamente sociale e “comparativo” dato che si produce attraverso processi affettivo-congnitivi connessi con il confronto che il soggetto compie tra la propria condizione e quella altrui, in relazione al possesso di risorse, attributi, qualità, status, fortuna, ecc. Ma è anche uno stato “consapevole”, in quanto richiede al soggetto la capacità di riflettere sul proprio comportamento e su quello altrui e di valutarlo in relazione alla morale che regola i rapporti interpersonali e sociali del contesto in cui vive (Di Blasio, Miragoli. 2007). La natura prettamente sociale del risentimento, induce a fare ipotesi tanto sulle sue funzioni adattive rispetto all’evoluzione della specie, quanto su quelle sociali connesse con la distribuzione disuguale delle risorse all’interno dei gruppi umani (famiglie, classi sociali, collettività, ecc.). Questa stessa natura suggerisce soprattutto l’impossibilità di immaginare formazioni umane liberate dal risentimento e dall’invidia. Dove due o più esseri umani convivono nello stesso spazio sociale là albergano, più o meno intense e consapevoli, le trame sotterranee del rancore e dello sguardo invidioso. L’insieme di queste caratteristiche fanno del risentimento un fenomeno pluridimensionale che, generandosi a livello intrapsichico, riverbera i propri effetti su processi interpersonali e sociali anche di grande portata. Una sua trattazione efficace richiederebbe pertanto di affrontarlo attraverso un approccio olistico e transdisciplinare (e dunque “irriverente” rispetto alle ripartizioni disciplinari che continuano a vivere all’interno dell’accademia) in grado di rispecchiare la natura complessa e stratificata di tale sentimento. Nell’evidente impossibilità di condensare in questa sede un’analisi di tale portata può forse essere utile proporre, come oggetto di dibattito, uno schema concettuale di lavoro e alcune considerazioni di fondo. In questa prospettiva, mi pare di poter dire che una possibile trattazione organica del risentimento dovrebbe essere in grado di ricostruirne: 1) le manifestazioni fenomenologiche ed esperenziali; 2) le dinamiche generative; 3) le forme di elaborazione, nel loro articolarsi a livello individuale e sociale. 3 Per mettere alla prova questo modello di analisi, cercherò di proporre, in modo inevitabilmente sintetico e senza alcuna pretesa di completezza, alcune riflessioni su ciascuno dei punti sopra ricordati. Fenomenologia del risentimento Da un punto di vista filologico, il riferimento imprescindibile per una discussione del risentimento, nell’accezione di ressentiment è indubbiamente rappresentato dal modello Nietszche-Scheleriano. Delineato da Nietszche in Genealogia della morale, tale modello ha l’indubbio merito di individuare nel risentimento un concetto teorico straordinariamente efficace per tentare di descrivere i processi socioculturali e simbolici che hanno portato all’affermazione della modernità (Deleuze, 1962). Attraverso un approccio in cui la ricostruzione socio-antropologica dello sviluppo di tale sentimento all’interno della religione giudaico-cristiana è condotta ad un livello di astrazione dagli esiti indubbiamente semplificatori, Nietszche definisce il risentimento come “un odio impotente”, un desiderio di rivalsa che, nell’impossibilità di trovare sfogo in un’azione in grado di incidere effettivamente sulla realtà, finisce per avvelenare l’animo del risentito e inquinare in modo tendenzioso i suoi processi di pensiero. Tra i tratti di fondo del modello vi è un’antropologia astratta e dicotomica che scinde la realtà umana in due tipologie: i signori e i servi. Dotati di desideri e di volontà autonome e in possesso della forza necessaria a esercitare un’attiva capacità di dominio sul mondo esterno, i Signori sono i fondatori della morale nobile e risultano immuni, “per natura”, al risentimento che invece rappresenta l’esito inevitabile dell’esistenza del popolo dei Servi. Questi ultimi, privi di autonomia di pensiero e di volontà proprie, sono destinati ad obbedire ma, parallelamente, anche a covare un sentimento astioso e risentito. Nell’impossibilità di agire la propria rabbia repressa, il popolo dei servi incanalerebbe questa energia in una forza reattiva in grado di agire a livello simbolico fino a sovvertire i principi valoriali su cui si basa la morale dominante dei Signori. Il risultato storico di tale processo di ribaltamento dei valori sarebbe riconoscibile, secondo Nietszche, nell’affermazione della morale giudaico cristiana incarnata nel principio: “beati gli ultimi perché saranno i primi”. In questa prospettiva, il risentimento, meccanicisticamente attribuito a una certa tipologia di umanità, è immaginato da Nietszche come una forza che, per quanto reattiva, avrebbe avuto un ruolo decisivo nella formazione della morale della modernità. Scheler (1912), pur mostrando una maggiore attenzione alle dinamiche storico-sociali, riprende sostanzialmente il modello nietzschiano per giungere a conclusioni divergenti. Anch’egli considera il risentimento un prodotto dell’egualitarismo moderno o, meglio, della contraddizione moderna tra principi egualitari e permanenza delle disuguaglianze sociali. Ma il risultato del sovvertimento dei 4 valori prodotto dall’impotenza risentita di larghe masse di individui non sarebbe la religione cristiana ma la morale borghese impregnata di umanitarismo e filantropia. Pur nelle loro differenze (Meltzer, Musolf, 2002), ciò che è interessante rilevare è che entrambi gli autori riconoscono al risentimento un ruolo cruciale nei processi costitutivi della modernità e nelle trasformazioni storiche e culturali che l’hanno generata (Tomellieri, 2009, p. 25). In anni più recenti, questa forma del sentire è stata oggetto di studio in ambito sociologico, psicologico e psico-sociologico con lavori empirici che, distanziandosi dal concetto filosofico di ressentiment (come tratto caratterizzante solo un certo tipo di umanità costitutivamente debole), hanno consentito di giungere a definizioni decisamente più specifiche e analitiche di questo sentimento (spesso concettalizzato come “rancore”) e delle sue caratteristiche fenomenologiche ed esperienziali (Barbalet, 1992; Halsall, 2005; Feather & Nairn, 2005; Miceli, Castelfranchi, 2007; Bonfiglioli, Ricci Bitti, 2007; Mullet 2007; D’urso, 2007). Attingendo a questo genere di letteratura, possiamo dire che il risentimento è il ri-sentire un’emozione negativa già provata in precedenza e dalla quale non si riesce a liberarsi. Tale emozione originaria è costituita dal senso di frustrazione e di impotenza conseguenti un’azione negativa che si è subito e alla quale non si è stati in grado di far fronte. Un soggetto (S) ha ricevuto (o ritiene di aver ricevuto) un torto da parte di un altro (A) al quale non ha saputo o potuto reagire. Tale episodio o situazione che si protrae nel tempo si radica nella memoria del soggetto come un pensiero ricorrente che, “avvelenandogli l’anima”, incide negativamente sul suo sviluppo a livello emotivo, cognitivo e comportamentale. Non a caso il termine “rancore” (che, pur con qualche piccola forzatura, per i fini della nostra discussione possiamo assumere come sinonimo di risentimento) deriva etimologicamente dal concetto di “rancido” e, dunque, di un qualcosa, in questo caso un’emozione, che si è conservato male e che, deteriorandosi, rischia di ammorbare l’ambiente e avvelenare l’anima di chi lo esperisce. Da un punto di vista narrativo, quella del risentimento è una “storia abortita”. Se lo schema prototipico di tutte le storie prevede un attore che, agendo all’interno di un certo contesto e utilizzando certi strumenti, persegue i propri obiettivi superando gli ostacoli che gli si oppongono, nel risentimento è lo schema stesso che finisce in stallo per l’incapacità del soggetto di dimostrarsi all’altezza del ruolo di protagonista della propria storia. Da qui il senso di inadeguatezza e di inconfessabilità che sono tra i principali vissuti del risentimento. Dichiararsi risentito, così come confessare di essere invidioso, significa, infatti, ammettere la propria debolezza, dichiarare apertamente di non essere (stato) all’altezza della situazione. E’ per questo che il risentimento può essere considerato una ferita narcisistica che, non potendo essere curata nel momento in cui si produce, si cronicizza divenendo parte del soggetto. Ciascun individuo cerca di costruirsi 5 un’immagine interiore che lo rappresenti come un soggetto in grado di agire sulla realtà per raggiungere i propri scopi e in possesso di qualità che lo facciano apprezzare dagli altri. Se tale rappresentazione viene negata da un’istanza esterna che lo mortifica in modo profondo, il soggetto può vivere il torto ricevuto come una svalutazione della propria rappresentazione del Sé che frustra il suo bisogno primario di sentirsi apprezzato dagli altri e attiva in lui strategie difensive finalizzate alla salvaguardia della sua autostima (Di Blasio, Miragoli, 2007, p. 110). Tra le possibili azioni messe in atto per riequilibrare il proprio stato interiore e ottenere giustizia può esservi, oltre il semplice ma difficilissimo gesto del perdono, il tentativo di ricevere le scuse o qualche forma di risarcimento morale da parte dell’artefice dell’atto malevolo; come pure il ricorso a istanze esterne deputate a garantire giustizia e a far rispettare le leggi. Solo quando queste due forme di elaborazione dell’offesa subita non sono perseguibili o falliscono, la ferita narcisistica può cronicizzarsi nella forma del risentimento. A livello dinamico, il risentimento si configura dunque come una sorta di “doppio scacco” del desiderio. Il primo scacco è rappresentato dall’ostacolo che si pone tra il soggetto e la possibilità di raggiungere il proprio scopo, sia esso un obiettivo da perseguire o una “risorsa” da conservare, come una condizione economica o uno status acquisiti. Di per sé, tale ostacolo non è sufficiente ad attivare l’esperienza del risentimento configurandosi, nella maggior parte dei casi, come il semplice concretizzarsi del principio di realtà cui va ad infrangersi la gran parte dell’energia desiderante degli esseri umani. La prima condizione psicologica affinchè la frustrazione subita possa orientarsi nella direzione del risentimento, è che tale impedimento sia percepito dal soggetto come il risultato di un’azione ingiusta perpetuata nei suoi confronti da un agente concreto o astratto. Ma anche tale condizione, per quanto necessaria, non è da sola sufficiente a tradursi in risentimento. Se chi ha esperito l’ingiustizia ha la possibilità di far valere le proprie ragioni, il processo può concludersi senza alcuno strascico rancoroso e persino generando un surplus di soddisfazione per colui che è riuscito a ottenere giustizia “facendosi valere”. Il soggetto rischia di finire nelle spire del risentimento solo quando anche questa possibilità gli è preclusa (da cui il secondo scacco!). Quando il suo tentativo di “ottenere giustizia” (ad esempio costringendo l’altro a riconoscere le proprie colpe e a porvi rimedio, magari anche solo scusandosi per il male arrecato) fallisce, per l’impossibilità del soggetto ad agire o per l’inefficacia delle istanze (istituzioni di tutela, di giustizia, ecc.) a cui egli si è rivolto per ottenere un aiuto. Quando ciò avviene, il desiderio di vendetta che viene a prodursi è orientato da tre diverse categorie motivazionali: 1. il desiderio di ripristinare un equilibrio morale infranto; 2. la volontà di “dare una lezione” all’artefice dell’offesa subita; volontà che sottende un’intenzione educativa per cui il gesto vendicativo agisce anche come atto simbolico in grado di testimoniare come i 6 comportamenti scorretti non possano rimanere impuniti; 3. il tentativo di “salvare la faccia” (Goffman, 1969, Heider, 1958, Castelfranchi, 1988) attraverso un’azione che consenta alla vittima di ristrutturare l’immagine di Sé presso colui che lo ha offeso e presso il “pubblico” di riferimento che è a conoscenza dell’accaduto (Di Blasio, Miragoli, cit.). Se non riesce ad esprimersi e a trovare giustizia, il risentimento si concretizza in una rabbia complessa e compressa che, non trovando sfogo immediato, continua a persistere nel tempo divenendo “serbatoio continuo per la rappresentazione del soggetto e del suo mondo” (Casadio, 2007, p. 46). Il ri-sentire l’affronto subito senza riuscire a superarne il “trauma” produce, infatti, un penoso strabismo astioso dello sguardo del risentito. Da una parte, esso rimane infatti ri-volto all’indietro, fissato sullo smacco subito a cui non è stato in grado di opporsi e dei cui esiti continua a soffrire. Dall’altra, questo stesso sguardo malevolo si proietta verso un futuro impredicibile, dipinto dai colori del riscatto e della vendetta. Bloccato nel proprio incedere da questo duplice scacco del sentire, imprigionato all’interno della gabbia emozionale che egli stesso ha costruito, il risentito vede il proprio pensiero e la propria progettualità confusi dal rimuginamento di ciò che avrebbe potuto fare e non ha fatto e dalle fantasticherie di ciò che un giorno potrà fare per ottenere giustizia. Il rimuginamento (rumination) è una reazione psicologica associata al risentimento che corrisponde al pensare in modo ossessivo e reiterativo a quanto successo, che aumenta le motivazioni sia ad evitare il contatto con l’offensore sia a cercare vendetta (Caprara, 1986). Alcune recenti ricerche psicologiche mostrano come la percezione dell’ingiustizia subita alla base del risentimento generi nel soggetto molteplici emozioni che si modulano a diversi livelli di intesità. Più in particolare, quando lo smacco subito viene vissuto come doloroso e mortificante prevalgono risposte emotive immediate di paura e ansia, seguite da vissuti depressivi; quando invece il soggetto interpreta la situazione di cui è stato vittima come oltraggiosa da un punto di vista morale, emergono soprattutto reazioni di rabbia (Worthington, 1998). Sono tali emozioni che, se non trovano “soddisfazione” immediata, possono cronicizzarsi stimolando nel soggetto le spinte alla vendetta, all’evitamento e alla formazione del risentimento (Di Blasio, Miragoli, cit., p 108). A un livello ancora più astratto, il risentimento è una situazione socio-relazionale triadica nella quale si trovano ad agire: una “vittima” (Soggetto = S), un oggetto o stato di valore (Oggetto = O), e una terza entità (Alter = A), non necessariamente un essere umano, che il soggetto reputa colpevole del proprio insuccesso nel raggiungimento dell’oggetto di valore. Esternamente alla triade è infine sempre possibile riconoscere il gruppo sociale di riferimento da cui originano i valori in gioco e sotto il cui sguardo giudicante si producono le dinamiche che danno origine al risentimento. 7 La colpa di A può essere stata il risultato di una sua azione deliberata ai danni di S (attacco, ostacolo), ma anche di un non intervento in aiuto ad S, (mancanza di supporto), come pure l’effetto di una sua totale indifferenza nei confronti di S e del suoi desideri (indifferenza). E’ evidente come il ruolo di A possa essere giocato da qualsiasi “agente” (esseri umani, ma anche gruppi, organizzazioni, istituzioni, sistemi astratti, ecc.) dotato di potere (inteso come capacità condizionante rispetto alle possibilità di S di raggiungere i propri scopi) e a cui possa essere attribuita una casualità “non innocente” rispetto all’episodio origine dell’elaborazione risentita. Altrettanto evidente è che non è affatto necessario che A sia davvero responsabile dello smacco subito da S, ma è sufficiente che quest’ultimo sia convinto che lo sia. Un aspetto cruciale da considerare per differenziare il risentimento da altri stati emozionali simili è che quello disputato al tavolo del risentimento è, “per definizione”, un gioco asimmetrico: dato che A è in grado di impedire al soggetto la possibilità di raggiungere un proprio scopo, egli ha sicuramente più potere di lui, per lo meno nello specifico campo su cui si gioca la relazione da cui il risentimento di S si origina. Inoltre, a differenza della gelosia, in cui l’oggetto desiderato è indivisibile e il suo possesso da parte di A si traduce in una mancanza per S, il risentimento è anche un gioco “a somma diversa da 0”, perchè il torto subito da S a causa di A non si traduce necessariamente in un vantaggio per quest’ultimo. Definire in modo così dettagliato la struttura formale del risentimento dovrebbe consentirci di intravederne meglio i contorni, rendendoci in grado di distinguerlo dall’invidia e dalla gelosia, con cui tende a confondersi e a sovrapporsi tanto nei vissuti individuali che nella trattazione teorica. Riferendoci in particolare all’invidia, possiamo notare come anch’essa sia un sentimento dalla struttura triangolare: S=invidioso; A=invidiato; O=oggetto di valore. La differenza, sottile sul piano concettuale, ma sostanziale a livello dinamico è che, mentre nel risentimento l’oggetto di valore è disponibile “sul mercato” e S può legittimamente aspirare ad ottenerlo (o a mantenerlo) e rivendicare diritti in tal senso, nel caso dell’invidia esso è invece risorsa posseduta/riconosciuta da A e l’invidioso non può rivendicare alcun diritto o aspirazione legittima rispetto ad esso. Inoltre, anche quella sottostante l’invidia è, almeno ad un primo livello fenomenologico, un’economia “a somma diversa da 0”: la simpatia o l’auto sportiva possedute da A, oggetti di invida da parte di S, non impediscono a quest’ultimo di possederli a sua volta1. Sul piano motivazionale e 1 In realtà le cose, anche se non possiamo approfondirlo in questa sede, sono ancora più complesse. Se dal piano degli infiniti oggetti di valore su cui possono attivarsi il risentimento e l’invidia, passiamo infatti a quello più astratto degli scopi che orientano il comportamento soggettivo in relazione ad alcuni macro-ordinatori comuni a tutti gli individui (come quello del bisogno di avere una buona immagine di sé -bisogno di autostima-, e di generare negli altri impressioni positive -bisogno di adozione-, ecc.), potremmo scoprire che in realtà anche l’invidia può configurarsi come un “gioco a somma 0”. Lo sguardo invidioso rispetto ad esempio alla bellezza di A può infatti derivare dallo scopo sovraordinato (rispetto allo specifico oggetto del contendere) di S di “essere superiore a A” o, per lo meno, di non “non 8 comportamentale, tuttavia, mentre lo scopo del risentito è di rivalersi per il torto subito e ottenere giustizia, obiettivo dell’invidioso è piuttosto quello di ridurre la disparità tra sé e l’invidiato attraverso strategie svalutative della sua persona e/o distruttive della risorsa oggetto di invidia secondo il principio per cui: “se non può essere mio, non deve essere di nessuno!”. E’ vero tuttavia che invidia e risentimento spesso si trovano uniti in un’unica esperienza affettiva che si produce quando S interpreta come un’ingiustizia perpetrata nei propri confronti il possesso dell’oggetto di valore da parte di A: “perché a lui si e non a me?”. Ingiustizia di cui lo stesso A o altre istanze esterne (spesso astratte e illusorie quali “la fortuna”, “il destino”, “il sistema”, ecc.), sono ritenuti responsabili, divenendo oggetto di risentimento. La promozione cui S aspirava, che viene invece data a B attiva insieme vissuti invidiosi (verso B) e risentiti (verso B ma anche verso chi ha deciso la promozione (A) sia esso una persona fisica o un’istanza astratta, come ad esempio, un sistema in cui contano più le raccomandazioni che i meriti. Propongo di chiamare “risentimento invidioso” quello che origina dal senso di frustrazione associato all’invidia generata da un oggetto di valore in possesso di A, per distinguerlo da quello che invece si attiva da situazioni in cui la responsabilità del torto subito che S recrimina ad A, non ha a che fare con tale possesso. Sempre a livello concettuale è necessario distinguere tra risentimento come stato circoscritto a specifiche esperienze frustranti di origine socio-relazionale cui qualsiasi soggetto va incontro nel corso della propria vita, e risentimento come tratto dominante della struttura psichica dell’individuo. Alla base di tali situazioni limite possono esserci processi di relazione primaria e di attaccamento con la madre di tipo disfunzionale, frustrante o vittimizzante (per violenza subita, ecc.), e persino, secondo alcuni, cause biologiche suggerite da alcune ricerche che rilevano come i soggetti risentiti mostrino concentrazioni plasmatiche di testosterone, cortisolo e norepinefrina superiori alla norma (Rizzi, 2007, p. 131). Per quanto sia difficile immaginare di poter distinguere tra stati emozionali risentiti aventi un’eziologia prevalentemente intrapsichica da quelli di natura più prettamente relazionale e sociale, è soprattutto a quest’ultima tipologia che si riferiscono le mie considerazioni. Gli esiti del risentimento In genere si tende a considerare il risentimento in termini esclusivamente negativi. Forse anche a causa del frame interpretativo proposto da Nietszche che lo definisce astio malevolo e distruttivo dei servi. Per quanto tale vissuto, tipico del risentimento invidioso, rappresenti una delle forme attraverso cui esso si presenta, non ne esaurisce tuttavia tutte le possibili manifestazioni. Come essere inferiore a A” nei confronti del gruppo di riferimento a cui entrambi i soggetti appartengono. Scopi che evidentemente possono essere soddisfatti solo a discapito dell’immagine di A (cfr. Castelfranchi, 1988). 9 detto, il risentimento invidioso nasce dalla ferita narcisistica prodotta dal desiderio mimetico di voler essere come l’altro e ha come scopo la supremazia perseguita con ogni mezzo, anche con l’annientamento dell’altro e/o dell’oggetto di valore. Ma il risentimento può attivarsi anche in presenza di un’ingiustizia effettivamente subita alla quale non si è nelle condizioni di ribellarsi. In questo caso, ciò che si cronicizza è la rabbia associata al desiderio di rivalsa e di giustizia le cui caratteristiche lo rendono contiguo all’indignazione. Il dizionario Hoepli Online definisce l’indignazione come <<vivo risentimento che si prova per ciò che si ritiene indegno, riprovevole, ingiusto>> e ne indica come esempio una frase che il Manzoni riferisce al sentimento provato da Fra Cristoforo per le angherie subite da Lucia <<...sentiva un'indegnazione santa, per la turpe persecuzione della quale era divenuta l'oggetto>>. Aristotele descrive l’indignazione attraverso il concetto di Nemesi, che è dea della vendetta ma anche della giustizia distributiva2, indicando con esso il sentimento di rabbia che si attiva negli uomini di fronte ai successi che altri hanno ottenuto immeritatamente. Aristotele, come faranno successivamente anche Cartesio e lo stesso Nietzsche, riconosce dunque all’indignazione la natura di “invidia giusta” per differenziarla dall’invidia classica che è <<sofferenza sempre e comunque di fronte al successo e alla fortuna dell’altro (o al proprio insuccesso o sfortuna)>> (Pulcini, 2011, pp. 96-97) Per distinguerlo dunque da quello invidioso, propongo di definire la declinazione del risentimento contigua all’indignazione: “risentimento giusto”, intendendo con esso la rabbia repressa per il male illegittimamente subito e a cui non si è avuto la possibilità di opporsi. Come la citazione manzoniana ci ricorda, la differenza principale tra l’indignazione e il risentimento è che mentre la prima si attiva anche in relazione a situazioni di ingiustizia che non riguardano direttamente il soggetto ed è quindi più facilmente comunicabile e condivisibile con gli altri, il risentimento, per quanto “giusto”, è invece sempre autoriferito e quindi anche meno facilmente confessabile perché rileva una condizione di inferiorità del soggetto. Tuttavia così come l’indignazione, il risentimento “giusto” ha a che fare con il sentimento di giustizia e con la percezione di un disequilibrio intervenuto all’interno dell’ordine morale o etico. Il soggetto che esperisce questo tipo di risentimento, infatti, vive il torto subito come il frutto di un’azione che, oltre a ferirlo personalmente, rappresenta un sopruso e dunque una trasgressione dell’universo valoriale di riferimento. In questa accezione, è evidente come esso possa rappresentare una forza positiva in grado di contribuire, conservando memoria dei soprusi avvenuti, alla moralizzazione delle società e della storia (Améry, 1987; Risari, 2002). 2 In questa forma, Nemesi era la dea che distribuiva agli uomini ricompense e castighi in relazione ai loro effettivi comportamenti e non “casualmente” come invece facevano le Moire (Pulcini, cit.). 10 Ma i vissuti emozionali e l’energia motivazionale connessi con la percezione delle disuguaglianze sociali e con la presa di coscienza che i soprusi di cui si è vittima sono di origine strutturale e colpiscono anche altri individui con cui si condividono certe caratteristiche, giocano certamente un ruolo decisivo anche nei processi di rivendicazione di classe e nei movimenti collettivi (Coser, 1957; Runciman, 1966; Barbalet, 1992, etc.). Per quanto vi siano pochi studi specifici sul ruolo giocato dalle emozioni (dimensione micro) sui processi di mobilitazione collettiva (dimensione macro), è nostra convinzione che il punto di vista interpretativo di tale tipo di fenomeni sia da collocarsi proprio nell’intersecarsi di dimensioni affettivo-cognitive, da un lato, e socio-strutturali (cfr. Alberoni, 1977, 1989, Melucci, 1982). Espressioni sociali del risentimento L’assenza di modalità espressive “fisiologiche”, caratteristiche delle emozioni fondamentali, e la sua stessa natura carsica di rabbia sordida che non riesce a trovare sfogo rendono particolarmente complessa l’identificazione delle manifestazioni comportamentali prodotte dal risentimento. In effetti, esso viene direttamente alla luce solo nel momento in cui il soggetto che lo ha “covato” riesce finalmente ad agire il proprio desiderio di giustizia o vendetta. Tuttavia, tanto l’elaborazione che passa attraverso il perdono quanto quella che si produce quando si ottiene giustizia per vie istituzionalizzate (legali o di altro tipo), si traducono in comportamenti poco manifesti e scarsamente visibili a livello sociale e mediatico. Ecco allora che gli effetti sociali del risentimento diventano direttamente visibili solo quando trovano sfogo in azioni che bruciano in un solo attimo tutta l’energia repressa per lungo tempo, dissipandola in gesti violenti quanto imprevedibili. Tra questi vi sono senza dubbio gli episodi criminosi non motivati da una reazione emotiva di rabbia immediata come ad esempio i parricidi, i matricidi, gli uxoricidi e i fenomeni di stalking di cui sono vittima prevalentemente le donne; come pure alcune forme di violenza giovanile che si traducono in atti vandalici o comportamenti aggressivi verso i compagni (Pulcini, cit. pp. 143145). Alla stessa origine possono essere ricondotte le esplosioni di rabbia eccedenti rispetto a quanto effettivamente avvenuto, come è il caso dell’aggressività che spesso accompagna banali contestazioni tra automobilisti, le liti giovanili per futili motivi, o le reazioni omicide di commercianti o semplici cittadini verso coloro che cercano di derubarli, soprattutto se appartenenti ad altre etnie. Come testimoniano molte dichiarazioni degli stessi protagonisti, sono deflagrazioni violente di risentimento anche i massacri nelle scuole che continuano a ripetersi in varie parti del mondo dopo il primo episodio verificatosi nel liceo Colombine di Denver nel 1999, nei quali la rabbia repressa per le angherie subite dai compagni è alla base delle devastanti azioni di vendetta dei ragazzi che colpiscono indiscriminatamente chiunque si trovi, in quel momento, sul loro 11 passaggio (ibid., p 145). Il risentimento, infatti, quando covato a lungo, avvelena l’animo del soggetto e il desiderio di vendetta finisce per estendersi ben oltre il soggetto all’origine dell’offesa subita andando a inglobare, nel vissuto del risentito, altri individui, gruppi, “razze” o la società intera. Espressioni altrettanto estreme, se pur meno eclatanti, di risentimento autolesionistico sono riconoscibili anche in fenomeni quali l’anoressia, e la bulimia che, con la depressione e gli attacchi di panico, rappresentano vere e proprie patologie sociali di tipo epidemico nelle società avanzate (Recalcati, 2010, pag. 134). L’anoressia, in particolare (forma perniciosa di quelle che Recalcati definisce “le patologie del legame) originerebbe dalla frustrazione costantemente rinnovata di una relazione autentica con l’“Altro” (la madre, in primo luogo, ma anche le altre figure con cui il soggetto ha relazioni significative, tra cui la famiglia e la società). Un Altro che, fraintendendo sistematicamente il suo desiderio di amore lo interpreta come un bisogno che può essere soddisfatto con oggetti e beni materiali, di cui il cibo costituisce il referente simbolico. Non riuscendo a reagire diversamente, il soggetto finisce per riversare sul proprio corpo la rabbia che tale relazione non corrisposta gli provoca, chiudendosi in esso e rifiutando qualsiasi relazione con l’esterno, prima tra tutte proprio quella associata all’”oggetto” cibo in quanto “pappa” proposta da un “Altro” asfissiante di cure materiali ma incapace di amarlo veramente (ibid.). Tali fenomeni rappresentano alcune delle forme attraverso cui si esprime il risentimento, ma non esauriscono certamente gli effetti sociali dell’energia che inevitabilmente cova nei vissuti degli individui delle nostre società “falso democratiche”. Pare anzi di poter dire che gli episodi in cui il risentimento viene alla luce come violenza vendicativa e dissipativa rappresentano esiti circoscritti di falle prodottesi nei ben oliati meccanismi di elaborazione della rabbia impotente presente nel sociale. Meccanismi che, contribuiscono a tenere sotto controllo l’energia distruttiva che le disfunzionalità del capitalismo ipermoderno producono, e costituiscono, questa è la mia ipotesi, uno dei fondamenti su cui esso si basa e si riproduce. Meccanismi generativi In quanto sentimento che deriva dalla convinzione di aver subito un’ingiustizia alla quale non è stato possibile reagire, il risentimento è una costante, più che un'eccezione, dell'esperienza di una soggettività umana che deve piegare il proprio desiderio alle costrizioni sociali e ai vincoli che le proprie risorse (fisiche, economiche, culturali, sociali, ecc.) gli consentono. Un modo efficace per coglierne le dinamiche generative, nel loro articolarsi sul duplice piano individuale e sociale, è 12 forse quello di affrontare il risentimento “per negativo”, interrogandoci su quali possono essere i fattori in grado di ridurre la probabilità soggettiva di esperirlo. Avendo la sua genesi nella frustrazione di un desiderio, è evidente come le condizioni inibitrici il sorgere del risentimento non devono essere ricercate, per lo meno in prima istanza, nei processi di generazione dell’energia desiderante che, per definizione, non possono essere totalmente ridotti al silenzio. Una tale condizione può essere invece rappresentata dalla possibilità che il soggetto non percepisca l’ostacolo che ha incontrato nel raggiungimento del proprio scopo come frutto di ingiustizia. Tale percezione può presentarsi al soggetto in modo del tutto irriflesso, affondando le proprie radici tanto nella configurazione più profonda della sua psiche (l’auto-percezione delle proprie possibilità, il senso del limite; ecc.), quanto nell’ordine socioculturale e simbolico all’interno del quale la sua esperienza psicologica si trova ad agire. Rispetto a questo livello, si danno sostanzialmente due modelli idealtipici. Il primo è quello in cui la percezione del sé e del proprio ruolo nel mondo e nella società sono percepiti come “dati”, risultati cioè inevitabili di un ordine cosmico-religioso che non contempla la possibilità di uno scarto rispetto a ciò che “il fato” ha previsto per l’individuo. E’ questo il modello delle società arcaiche e tradizionali in cui le forti dissimmetrie presenti in strutture sociali relativamente semplici e scarsamente articolate erano legittimate da apparati simbolici di tipo magico-religioso fortemente interiorizzati e capaci di rendere gli individui in grado di “tollerare” la propria condizione, per quanto umile e svantaggiata essa fosse. Al lato opposto di uno stesso continuum idealtipico troviamo invece le società compiutamente democratiche in grado di esprimere appieno il portato di giustizia distributiva che dovrebbe informarle. Portato fondato, tra l’altro, sull’allocazione delle risorse e dei ruoli sociali basati sul riconoscimento dei meriti e dei bisogni individuali. Se nel modello precedente, la percezione d’ingiustizia associata all’impossibilità di raggiungere il proprio scopo è bloccata all’origine in quanto contraria all’ordine cosmico, nelle società pienamente democratiche tale pur possibile eventualità finirebbe per essere bonificata grazie al riconoscimento della correttezza dei meccanismi premianti che restituiscono al soggetto la certezza di aver ricevuto né più né meno di quanto effettivamente meritava. Un modello sociale idealtipico di questo genere includerebbe anche i necessari meccanismi correttivi in grado di intervenire nelle situazioni di ingiustizia che potrebbero comunque generarsi al suo interno. Meccanismi riconducibili ad un sistema articolato di organi di vario livello e natura (di rappresentanza, di mediazione, giudiziari, ecc.) ai quali il soggetto potrebbe rivolgersi certo di ottenere giustizia in tempi consoni con la natura e la gravità del danno subito. 13 I due modelli idealtipici possono offrire spunti di riflessione anche rispetto ai processi di elaborazione della quota di frustrazione e aggressività originate dall’impossibilità di raggiungere i propri obiettivi che individui appartenenti ai due contesti verrebbero ad esperire. Nella società democratica perfetta, ad esempio, la legittimità riconosciuta ai meccanismi premianti dovrebbe agevolare notevolmente gli individui ad accettare le “sconfitte” subite nelle competizioni per il conseguimento di obiettivi e risorse (economiche, lavorative, di reputazione, ecc.). L’interpretazione di tali sconfitte come il giusto riconoscimento conseguito attraverso le proprie performance dovrebbe facilitare il soggetto a riconoscere e accettare i propri limiti, inducendolo a canalizzare gli sforzi verso obiettivi effettivamente perseguibili e alla sua portata. In questo modo, la canalizzazione dell’energia psicologica, anziché rivolgersi “all’indietro” verso lo scacco subito, finirebbe probabilmente per orientarsi verso il conseguimento di altri obiettivi e dunque avere uno sbocco costruttivo e valorizzante per l’individuo e la società, depotenziando radicalmente l’invidia e il risentimento in essa circolanti3. Queste considerazioni sul rapporto tra risentimento e società democratica sono piuttosto divergenti rispetto alle visioni “classiche”. Il ragionamento che caratterizza tali visioni muove dalla corretta constatazione che i sentimenti mimetici (invidia, gelosia, risentimento) si attivano soprattutto nei confronti di coloro rispetto a cui esso appare ragionevolmente possibile e dunque con persone simili e vicine a noi, piuttosto che distanti e diverse: si invidia il vicino di casa o il collega di lavoro ma non il sovrano, che incute invece timore e rispetto, o la rock star che si ammira e nella quale, eventualmente, ci si identifica. Da tale constatazione l’interpretazione classica afferma che le società moderno-democratiche, rendendo tutti gli individui liberi e uguali “per legge” aumenta a dismisura le possibilità di confronto attivando processi orizzontali di invidia e risentimento che tendono ad attivarsi dalle più piccole differenze. “Ognuno da secondo le proprie possibilità e riceve secondo i propri meriti”. Libertà e uguaglianza (progetto 89 Ma noi atto di fede dato che è quanto di meglio possiamo immaginare Non si può certo auspicare la disuguaglianza Questo è tra l’altro il convincimento di Ralws mentre altri autori, tra cui Žižek, sostengono che una società perfettamente equa negherebbe alla maggior parte degli individui la possibilità di trovare giustificazioni e carpi espiatori per la propria condizione di inferiorità aumentando ulteriormente l’insoddisfazione sociale e la rabbia repressa circolante. 3 14 Risentimento e società ipermoderna? Il ragionare a livello ideale per individuare le condizioni (simbolico-culturali e sociali), in grado di ridurre la probabilità soggettiva di esperire risentimento e, dunque, la quantità complessiva di questo vissuto rancoroso circolante nella società, può essere un buon espediente per cogliere, per contrasto, quanto l’era contemporanea ne sia invece potente generatrice e quali eventualmente siano gli effetti della sua diffusa presenza nel sociale. Come già ricordato, Nietzsche e Scheler individuano nelle strategie sociali di controllo e dislocazione simbolica del risentimento messi in atto nella transizione alla modernità un ruolo strutturante rispetto all’evoluzione delle forme sociali della convivenza. Appare dunque legittimo interrogarsi, da una prospettiva macrosociale, su quali siano le relazioni che la società ipermoderna intesse con il risentimento individuale e collettivo. Quali, in altri termini, gli effetti che le strutture economico-sociali e le concrete forme di vita nelle società occidentali avanzate hanno rispetto alla probabilità soggettiva di subire esperienze potenzialmente generative di questo vissuto. In estrema sintesi, l’ipotesi qui tracciata, che riprende e articola alcuni recenti lavori sul tema (Tomellieri, 2004; 2009; Risi 2009), è che le società occidentali contemporanee siano intrinsecamente generatrici di risentimento e ne costituiscano il terreno ideale di cultura. E’ vero, infatti, che esse riconoscono a tutti gli individui un’uguale legittimità a desiderare tutto e a perseguire qualsiasi obiettivo per realizzare le proprie aspirazioni (o quelle che sono ritenute tali, in un mondo dominato dal desiderio mimetico su cui più avanti torneremo). Ma è anche vero che la crescente disuguaglianza economico-strutturale nega sistematicamente tali promesse condannando la grande maggioranza degli individui a un mancato appagamento delle proprie aspirazioni e a una risentita voglia di rivalsa che, pur rimanendo latente, non trova riposo (Tomellieri, 2009, p. 12). Per tracciare almeno la struttura argomentativa di fondo a supporto di questa ipotesi possiamo ricordare, limitandoci a enunciarli, alcuni dei tratti più caratterizzanti della società ipermoderna a cui può essere riconosciuto un ruolo rispetto alle dinamiche di generazione del risentimento. Tra questi ricordiamo, tra gli altri, l’estremizzarsi dell’individualismo (Lipovetsky, 2006) che, portando alle estreme conseguenze il processo di emancipazione del soggetto dai vincoli delle appartenenze (religiose, tradizionali, di classe, ecc.), consegna all’individuo la responsabilità totale del proprio destino e, quindi, anche dei propri possibili fallimenti. Il soggetto, scopertosi forzatamente libero di forgiare la propria esistenza, finisce sempre più spesso per scoprire sulla 15 propria pelle l’impossibilità di raggiungere gli obiettivi (lavorativi, di reddito, di consumo, di felicità, ecc.) che egli stesso si era dato sollecitato da un contesto iper-competitivo e da un sistema simbolico culturale inneggiante all’edonismo. L’ideologia stessa della competizione sfrenata e l’attenzione alla performance, a fronte di meccanismi premianti che solo raramente sono effettivamente basati sul merito e sulle capacità personali (Sennet, 2006) finiscono per lasciare strascichi emozionali d’invidia per “chi ce l’ha fatta” e di risentimento per le ingiustizie che si ritiene di aver subito. Parallelamente: lo sviluppo economico in un contesto globalizzato accentua le differenze e le disuguaglianze sociali sia a livello globale che all’interno di ciascun paese, decuplicando la massa dei soggetti che vengono a esperire situazioni di deprivazione relativa (Tajfel,, Turner, 1979). E questo mentre l’entrata in crisi dei sistemi di welfare che hanno accompagnato il consolidamento della modernità ha ridotto drasticamente i meccanismi di tutela sociale e di attenuazione del disagio, depotenziando quelli che per una buona parte del XX secolo erano stati gli ammortizzatori sociali delle differenze, e dunque anche del risentimento. Infine: l’abbandono dei modelli aziendali piramidali tipici della modernità (Sennet, 2006) in grado di accompagnare, contenere l’esperienza di vita dei dipendenti e garantire per il loro futuro; la diffusione del lavoro flessibile; i processi di delocalizzazione della manodopera dai paesi avanzati in quelli in via di sviluppo; la mancanza di meccanismi efficaci di riqualificazione e ricollocamento dei lavoratori messi in mobilità o licenziati; la scarsa consequenzialità tra i percorsi scolastici formativi e i relativi sbocchi occupazionali; le sempre più ampie sacche di lavoro precario sotto-retribuito più o meno istituzionalizzato che, in particolare in Italia, interessa quote rilevanti di giovani e lavoratori intellettuali, sono tutti meccanismi che tendono a diffondere, come è stato ampiamente teorizzato e discusso (Bauman, 1997; Beck, 1997; Giddens, 1999), un clima generalizzato di incertezza e timore per il futuro. E’ evidente come questi stessi meccanismi costituiscano anche condizioni oggettive per il verificarsi di esperienze di vita penose e frustranti, vissute come ingiuste rispetto ai propri meriti, al proprio comportamento, alle proprie aspirazioni e di cui il soggetto può sentirsi, spesso del tutto legittimamente, vittima. Situazioni rispetto alle quali, per una serie di ragioni, può essere difficile reagire. Tra queste vi sono, ad esempio: l’impossibilità di individuare un “vero colpevole” verso cui orientare la propria aggressività, come avviene rispetto a istanze decisionali impersonali, sovranazionali e globalizzate come i consigli di amministrazione delle multinazionali globali; la carenza di istituzioni legittimate attraverso cui canalizzare un’eventuale protesta (crisi dei sistemi di rappresentanza e sfiducia verso l’azione politica e sindacale); o, ancora, l’evaporarsi di una cultura della protesta rivendicativa, tramontata insieme al tramonto delle ideologie e dei partiti di massa in 16 grado di mobilitare le persone e di generare narrazioni condivise capaci di veicolare, nel bene o nel male, sogni di cambiamento e progetti collettivi. Per quanto riguarda lo specifico italiano, a questi fenomeni trasversali ai paesi più avanzati, se ne aggiungono altri derivanti dall’anomalia del sistema paese e dal decadimento istituzionale e culturale che ne ha caratterizzato il più recente sviluppo, tra cui: l’affermarsi di un sistema premiante dichiaratamente non meritorcaratico ma basato su logiche familistiche e clientelari 4. Lo svuotamento simbolico e di legittimazione cui sono andate incontro alcune istituzioni centrali rispetto al senso stesso della giutizia, prima tra tutti la magistratura la cui imparzialità e politicizzazione sono ormai da anni oggetto di discussione politica e mediatica. I privilegi “osceni”, se confrontati alle condizioni di vita della grande maggioranza dei cittadini lavoratori, di una classe dirigente divenuta casta autoreferenziale e inamovibile; un’evasione fiscale assolutamente abnorme rispetto a quella degli altri paesi avanzati, che lascia nel sommerso e nell’economia criminale un flusso immenso di denaro5, facendo ricadere il peso della tassazione e degli aggiustamenti necessari a compensare il saldo negativo di bilancio, prevalentemente sull lavoro dipendente. Ma la stessa mancanza di un’alternanza di governo, impedita da una legge elettorale perversa e da un sistema mediatico viziato dal conflitto d’interessi, tende a configurarsi come un elemento di radicalizzazione del confronto politico-istituzionale e a tradursi nella diffusa percezione di un sistema della rappresentanza ingiusto e generatore d’ingiustizie. L’insieme di queste situazioni, sia di natura strutturale che contingente, costituiscono indubbiamente potenti moltiplicatori della probabilità soggettiva di vivere esperienze di ingiustizia e quindi di risentimento giusto. Per comprendere sino in fondo i rapporti tra ipermodernità e risentimento, oltre alle dimensioni strutturali e culturali sopra ricordate, è tuttavia necessario approfondire anche i tratti distintivi del soggetto che all’interno di tale contesto si trova a nascere e ad agire. Un soggetto spesso caratterizzato da una personalità ambivalente e narcisistica, scisso tra la profonda insicurezza tipica di un Io debole e fragile e un irrealistico senso di illimitata potenza che gli fa percepire il mondo e le proprie possibilità in maniera distorta. Una serie di istanze proprie della post-modernità riducono, infatti, drasticamente la capacità di controllo che il soggetto può esercitare sulla realtà, rendendolo insicuro su tutto. Tra queste vi è la “liquidità” dell’esperienza, che fa evaporare ogni riferimento stabile (in un mondo in cui la velocità del cambiamento è superiore a quella adattiva degli individui), e trasmette un senso generalizzato di aleatorietà e mancanza di pur provvisorie 4 Logiche, vale la pena di ricordare, nemmeno più generate da un sitema politico desideroso di mantenere il proprio potere (come avveniva con il sistema politico gravitante intorno alla Democrazia Cristiana), ma diventata cultura diffusa di scambio relazionale, riproducibile a tutti i livelli (economici, sociali, istituzionali, ecc.) per il perseguimento dei propri interessi personali (economici, sessuali, ecc.). 5 Stimato per il 2010 intorno ai 137 miliardi di euro. Fonte KRLS Network of Business Ethics. 17 certezze. Il senso di spaesamento è ulteriormente esacerbato dalla percezione di una serie di minacce, reali o presunte, enfatizzate dal sistema mediatico e spesso cavalcate dalla politica, tra cui: la possibile catastrofe ecologica, il rischio nucleare, il terrorismo, i “pericoli” portati dall’arrivo delle masse dei diseredati all’interno dei nostri territori, la crescente violenza dei centri urbani, ecc. Minacce in gran parte dubbie a livello di portata reale, ma certe negli effetti di chiusura e arroccamento sul sé per individui sempre più spaventati e incapaci di farsi un’idea autonoma sulla realtà. D’altra parte, tuttavia, il predominio della tecnica, con la sua certezza di avere una soluzione per ogni problema e del mercato che ne traduce i risultati in prodotti che promettono una felicità senza residui, trasferiscono al soggetto un senso di onnipotenza che va a compensare illusoriamente la sua fragile struttura psicologica (Pulcini, cit., p. 134-136). Sottoposto a queste due opposte istanze e impossibilitato ad ancorare la propria soggettività alle istituzioni stabili come avveniva nella “modernità solida”, quello ipermoderno è un Io: <<confuso, smarrito, insicuro, da un lato, edonista, grandioso, e illimitato dall’altro. Privo di certezze conferite da istituzioni affidabili, e allo stesso tempo avido di una libertà insofferente di ogni vincolo, esso presenta quella paradossale consistenza di vuoto e onnipotenza da cui trae origine e alimento la sua struttura ansiosa e desiderante, carente, e inappagabile>> (ibid. p. 136). Questo tipo di soggettività, che prova un senso di onnipotenza e si sente nel diritto di aspirare ad ogni cosa e che, proprio per la sua fragilità, spesso non ha le risorse interiori necessarie a tradurre le sue aspirazioni in progetti perseguibili, appare strutturalmente destinato al risentimento. Se tale sentimento pare dunque rappresentare la principale energia emozionale circolante al di sotto delle società occidentali avanzate, la domanda diventa allora di come esse possono sopravvivere senza frantumarsi sotto la spinta centrifuga di tale energia astiosa. Come possono arginare gli effetti potenzialmente distruttivi originati dalle frequenti frustrazioni del desiderio prodotto dall’incapacità del sistema di mantenere le infinte promesse di benessere, autorealizzazione e felicità che esso tende a generare negli individui? E come riescono a non finire travolte dagli effetti dell’enorme quantità di risentimento che il modello di sviluppo e le contingenze socio-economiche di questi ultimi anni tendono a generare? O, detto in altro modo, quali sono i meccanismi attraverso cui la quantità di risentimento eccedente rispetto a quella tollerabile e funzionale al sistema viene elaborata e dissipata in qualche forma? 18 L’elaborazione del risentimento Consapevoli dell’energia negativa potenzialmente disgregante del risentimento e dello sguardo invidioso che la convivenza umana inevitabilmente produce, le società hanno da sempre elaborato dispositivi simbolici, pratiche rituali e istituzioni finalizzate a dare voce, incanalare e contenere tali forze oscure. Dispositivi, pratiche e istituzioni che si sono evolute con l’evolversi delle forme storiche delle società umane (Elias, 1976). In quelle arcaiche, ad esempio, caratterizzate da risorse scarse, ridotta complessità sociale e relazioni interpersonali dirette, il risentimento e l’invidia erano percepite come forze dominanti sulle dinamiche relazionali. Immerse in universi simbolici interpretativi incentrati sulla magia e la superstizione, tali società riconducevano la maggior parte delle esperienze negative che colpivano gli individui e la collettività alle energie malefiche prodotte dallo sguardo risentito e invidioso di altri componenti del gruppo. In questo modo, qualsiasi evento infausto (una malattia, un cattivo raccolto un periodo infelice nella caccia, ecc.) veniva ricondotto all’interno di narrazioni secondo cui la fortuna e il benessere materiale di qualcuno avrebbe attivato l’invidia e il risentimento astioso di altri, il cui sguardo malefico (talvolta canalizzato in precise pratiche magiche) si sarebbe tradotto in influssi negativi in grado di portare disgrazia a chi aveva osato essere o avere più degli altri (Schoeck, 1966). Al di sotto di questo tipo di pensiero, vi è evidentemente una visione del mondo sociale (tipica di società dominate dalla scarsità), regolate da dinamiche economico-distributive “a somma zero”, in cui la quantità complessiva di qualsiasi bene (possessi materiali, salute, potere, felicità o buona sorte) era immaginata finita e, conseguentemente, ogni acquisizione individuale era ritenuta possibile solo a spese di qualcun altro (Foster, 1965). Per contenere la rivalità astiosa e il pericolo contenuto nell’energie malefica dello sguardo risentito e invidioso, le società di sussistenza prevedevano tutta una serie di pratiche rituali e comportamentali, alcune delle quali, per altro, sono sopravvissute nelle zone rurali dell’Italia fino ad alcune generazioni fa (De Martino, 1959). Si pensi, per fare solo qualche esempio, alla regola di buona educazione che consigliava di non vantarsi della propria buona sorte; di vestire i figli in maneria un po’ inferiore di quanto non si sarebbe potuto; di nascondere la gravidanza sin quando possibile, parlandone poi con tono dimesso quasi fosse una disgrazia; o, ancora, astenersi dal fare complimenti e lodi eccessive alla sorte o ai possessi altrui, in quanto interpretabili come possibili espressioni di tendenze invidiose (Lipovetsky, 2006, p. 263). La stessa usanza di chiudere gli occhi ai defunti deriverebbe dal timore che le società arcaiche avevano dello sguardo invidioso e potenzialmente malefico che i morti possono avere nei confronti di chi è rimasto in vita. 19 Oltre a queste pratiche di contenimento dell’aggressività invidiosa, di natura simbolico culturale, l’elaborazione persecutiva e quella depressiva rappresentano due potenti forme di imbrigliamento e dislocazione del risentimento, di tipo psico-sociale, particolarmente efficaci e “transculturali” (Alberoni, 1989). Attraverso l’elaborazione persecutiva, l’individuazione di un nemico, interno o esterno al gruppo, cui attribuire le colpe d’ogni male trasformandolo in capro espiatorio consente di convogliare l’aggressività risentita degli individui rinsaldando al contempo i legami di appartenenza dei suoi membri. Il processo di vittimizzazione indicata da Girard alla base delle società arcaiche (1961); la giustificazione ideologica di gran parte delle guerre che hanno funestato e funestano la storia dell’umanità (Tomellieri, 2009); la montante ondata di intolleranza presente in molti paesi occidentali nei confronti dei migranti (Bauman, 2005), le azioni criminali dei tanti gruppi neonazisti attivi in diversi paesi del mondo, sono tutti esempi di forme persecutive di elaborazione sociale del risentimento attraverso cui la rabbia socialmente prodotta viene dislocata all’esterno del gruppo su di un capro espiatorio, individuale o collettivo. L’elaborazione depressiva, probabilmente più “moderna” in quanto possibile solo all’interno di una visione del mondo che riconosce al soggetto la capacità di autodeterminarsi, è invece il meccanismo attraverso cui il soggetto è indotto a prendere su di sé la colpa della propria condizione negativa, anche quando essa ha origini sociali e strutturali. Sono esempi di questo tipo di elaborazione tanto la ricerca di soluzioni personali a disfunzioni sistemiche descritta da Beck (1992), quanto l’attuale grande diffusione di forme depressive nelle società complesse. Incapace di riconoscere la natura strutturale e sociale dell’ingiustizia vissuta e, dunque, di indignarsi legittimamente per essa, il soggetto narciso e fragile della contemporaneità finisce per ritenersi responsabile di tutte le cose che, nella sua vita, non vanno come vorrebbe. Se quelli persecutivo e depressivo sono due meccanismi “classici” attraverso cui le società si proteggono dagli esiti potenzialmente distruttivi dell’aggressività che esse stesse producono, più complesso appare ricostruire i meccanismi dissipatori propri della contemporaneità. Per una trattazione esaustiva di tali meccanismi sarebbe necessario indagare come i principali tratti socio strutturali della società ipermoderna possano agire su ciascuno dei diversi elementi costituivi le dinamiche del risentimento, amplificandoli o dissipandoli. Nell’impossibilità di svolgere qui tale compito, ci limitiamo a proporre alcune considerazioni su alcuni di tali aspetti. Dato che il risentimento è un vissuto relazionale originato dal confronto, è sulle opportunità di confronto con gli altri tipiche della contemporaneità che si deve innanzitutto indagare. In questo senso è evidente come il sistema mediatico, principale costruttore di rappresentazioni della realtà e generatore di senso delle società avanzate, sia il sistema maggiormente in grado di offrire agli 20 individui infinite possibilità di conoscenza su situazioni, esperienze di vita, successi e fortune altrui. Conoscenze che possono offrire potenti sollecitazioni al risentimento invidioso: “perché a loro sì e a me no?”. Ma lo stesso sistema veicola anche contenuti che spingono gli stati emozionali soggettivi in direzione opposta, facilitando cioè un’elaborazione attenuatoria e dissipatoria del risentimento. Le logiche di agenda attraverso cui sono costruite le news ci servono ogni giorno quantitativi impressionanti di sofferenza, dolore e morte in un progressivo gioco al rialzo in cui sempre più spesso il diritto all’informazione sfocia nel voyerismo più osceno. Tali immagini, che coinvolgono sempre gli “Altri” (lontani nello spazio, più umili, più cattivi, più arretrati o, se non altro, più sfortunati di noi), saturano i nostri bisogni di sollecitazione emozionale, generando un meccanismo di desensibilizzazione progressiva che, anziché stimolare l’indignazione collettiva, tende piuttosto a narcotizzarla insieme alle coscienze. In questo modo, come efficacemente riconosce Bauman (2005) la visione di queste immagini, così come la presenza degli ultimi nelle nostre città svolgono un ruolo consolatorio e di contenimento dell’insoddisfazione ricordando ai cittadini dei paesi avanzati di appartenere comunque a una minoranza di privilegiati. Tuttavia, se c’è un genere che, rappresentando l’oggetto specifico di un intero settore del sistema mediatico, appare particolarmente connesso con il tema del risentimento e dell’invidia (????, questo è il gossip il cui tema narrativo è quello di scrutare la vita intima dei personaggi dello star system. Sottoposta allo sguardo indiscreto dei teleobiettivi indugianti su ventri molli e cellulite e al pettegolezzo spacciato come scoop, l’aurea che circonda tali personaggi quando sono “on stage“, finisce inevitabilmente per evaporare. Perché invidiare personaggi che, visti da vicino, sono come noi e hanno problemi simili ai nostri, se non peggiori? Gli effetti di senso complessivi di questo genere mediale sono quelli di un “abbassamento” simbolico delle figure dello star system in un processo che replica, a livello collettivo, il gioco linguistico tipico del risentimento invidioso e contribuisce, sul piano della più generale macro-economia emozionale, a dissipare tali vissuti convertendoli in un incessante, quanto innocuo, pettegolezzo collettivo. Anche il successo delle trasmissioni televisive che sfruttano il desiderio di protagonismo dei partecipanti trova le proprie radici nel risentimento che deriva dal desiderio di distinzione dalla massa e riscatto dalla propria condizione. Il loro format prevede quasi sempre un qualche tipo di competizione (Pulcini, 2011) che mette di fronte persone di ogni genere disposte a tutto pur di poter concorrere all’assegnazione del monte premi ma, soprattutto, di godere di qualche secondo di visibilità mediatica. Visibilità che, interpretata come notorietà e quindi come “successo”, gonfia la componente grandiosa della loro personalità narcisistica, nascondendone, anche solo per qualche istante, l’intima fragilità. Tali trasmissioni svolgono un ruolo ambivalente rispetto alle macrodinamiche di flusso del risentimento. Per un verso, infatti, esse generano aspettative elevate negli 21 individui che aspirano a entrare nel mondo dello spettacolo contribuendo così a produrre importanti quote di emozioni risentite verso il sistema da parte di coloro che ci hanno provato senza successo, e invidiose nei confronti dei pochissimi che ce l’hanno fatta. Per contro, veicolando il meta-messaggio che tutti possono partecipare al grande circo mediatico e aspirare a un successo basato non sui meriti ma sulla notorietà ottenibile a basso costo, tali programmi svolgono anche una funzione potentemente attenuante di questo genere di sentimenti negativi. La complessità del rapporto tra sistema mediatico broadcasting e risentimento appena descritta si riproduce, in forme diverse, anche nel caso dei social media. Essi offrono, infatti, la possibilità di entrare in relazione con gli altri in maniera svincolata dai limiti spazio temporali rendendo l’incontro e il confronto interpersonale più facile di quanto non sia mai avvenuto in passato. Negli spazi della rete, le relazioni si generano spontaneamente sulla base di motivazioni condivise. Questo ha reso possibile lo svilupparsi di comunità in grado di riunire soggetti portatori dei più diversi interessi, da quelli più esoterici e faceti a quelli più seri e “impegnati” come, ad esempio, quelle di persone accumunate da una stessa situazione disagiata (ex. gruppi di mutuo aiuto, network spontanei di lavoratori precari, ecc.) dei net activist o dei cittadini che cercano di ribellarsi a uno stato tirannico. Offrendo agli individui la possibilità di confrontarsi con altri che condividono la loro stessa condizione, questi spazi possono aiutarli a prenderne consapevolezza da una prospettiva meno individualistica e persino a coglierne le origini strutturali e sistemiche. In questo modo, le comunità online si configurano come spazi potenzialmente privilegiati di elaborazione della rabbia e del risentimento individuale che, socializzandosi e riconoscendosi in quello degli altri, potrebbero essere elaborati assumendo la forma di indignazione e azione collettiva. Le ricerche sino a oggi condotte sul tema, una delle quali riportata in questo stesso volume (Cfr. Risi) non sembrano tuttavia offrire conferme univoche in questo senso. Forse anche a causa della relativa novità di tali forme di relazione, le dinamiche che vi si sviluppano sembrano più in grado di riprodurre meccanismi dissipativi di “ruminamento” della rabbia repressa, che non consentire quei processi di fusione emozionale e di auto-organizzazione alla base dei processi collettivi. Se dunque il sistema dei media agisce con effetti ambivalenti sulle opportunità di confronto con l’altro da cui possono scaturire fenomeni di invidia e di risentimento, altri meccanismi strutturali allo sviluppo attuale del capitalismo paiono agire sui contenuti di tali confronti con effetti prettamente dissipativi e di contenimento dell’energia negativa. Sono tutti quei dispositivi che, per spingere i consumi, hanno offerto soluzioni in grado di “dopare” innaturalmente il reddito effettivo dei consumatori e delle famiglie consentendo loro, e intere nazioni con loro, di vivere al di sopra delle proprie effettive possibilità economiche. Almeno sinché la crisi non ha dimostrato la nudità 22 dell’imperatore. E’ quanto è successo con la diffusione abnorme del credito al consumo, delle carte di debito e di credito o con i mutui offerti a tutti, compresi coloro che non sarebbero mai stati in grado di restituirli, da cui ha preso origine il fenomeno dei mutui subprime alla base della crisi globale. Negli stessi anni in cui in tutti i paesi avanzati andava allargandosi a dismisura la forbice economica tra l’elite sempre più esclusiva dei super ricchi (sempre più ricchi) e la massa crescente dei più poveri (sempre più poveri, e tra i quali sono state risucchiate fasce importanti della classe media. Cfr. Wilkinson, R., Picket, K.,2009)), tali dispositivi economico-finanziari, necessari ad alimentare il livello dei consumi di cui il capitalismo aveva bisogno, offrivano l’illusione, a chi in realtà si stava impoverendo, di poter far parte della massa dei turbo consumatori. Questo meccanismo, democratizzando falsamente i consumi e rendendo accessibile a tutti l’edonismo voluttuario stimolato dal sistema, ha potentemente contribuito a contenere le possibilità di insorgenza di invidia e risentimento presso le masse di coloro che in precedenza erano esclusi dai processi di consumo. Ma quando anche l’allettante proposta del “consuma adesso, pagherai in futuro” pare insufficiente ad offrire il livello di vita a cui il soggetto aspira, egli può sempre cercare una possibilità di riscatto tentando la sorte! E’ il tipo di promessa offerta dalle lotterie, dai concorsi a premi, dalle scommesse e dalle slot machine che hanno avuto in Italia una diffusione straordinaria negli ultimi anni muovendo un volume di denaro verso le casse dello Stato e della malavita organizzata calcolabili in punti percentuali di Pil. Prima ancora che diventi patologia da dipendenza, dietro il comportamento ossessivo che vede un numero crescente di persone giocarsi quote significative del proprio reddito non è difficile riconoscere una volontà di riscatto risentito che aspira a una promozione sociale desiderata quanto impossibile da raggiungere in altri modi. Il rinnovarsi continuo della speranza di una vittoria che potrebbe cambiare la vita del giocatore contiene sempre dentro di sé un riferimento ad “altri” (datori di lavoro, amici, parenti, vicini di casa, ecc.) da cui riscattarsi facendoli “schiattare d’invidia”. E in questo alternarsi di rinnovate speranze pagate a caro prezzo e inevitabili delusioni non è difficile riconoscere il meccanismo del “ruminamento” che accompagnando l’elaborazione psicologica del risentimento contribuisce al contenimento della sua potenziale forza distruttiva. Una forma di appagamento del desiderio acquisitivo è dato anche dal “malaffare” che, soprattutto in Italia, costituisce una vera e propria economia parallela a quella ufficiale. Più che alla malavita organizzata mi riferisco al “malaffare” diffuso, fatto di evasione ed elusione fiscale, corruzione, contraffazioni, truffe, disonestà nel condurre il proprio lavoro, desiderio di “fregare l’altro” per ottenerne vantaggio, ecc. Il malaffare ha fatto sempre parte delle società umane. Ciò che tuttavia differenzia quello presente oggi in Italia, oltre alla sua endemica diffusione (sicuramente più vasta 23 di quanto non si riesca a immaginare se riesce a smuovere, come indicano alcune stime, un volume di denaro pari a circa il 7% del Pil!6), è il fatto che venga giustificato sulla base di una più o meno esplicita legittimazione sociale che tende a farsi cultura dominante. Legittimazione sul cui istaurarsi non poco ha contribuito la classe politica al potere negli ultimi due decenni. Chi si arricchisce illegalmente, evade le tasse o semplicemente arrotonda la propria condizione economica al di fuori delle norme, non solo si assicura la possibilità di accedere a uno stile di vita e di consumo superiori a quelli che il suo status non gli consentirebbe, ma riceve anche l’approvazione di coloro che condividono la sua stessa “etica”. Un’etica secondo cui: “il denaro giustifica i mezzi” e sotto la cui luce egli appare non come un delinquente, ma come “un furbo”, “uno che ha saputo destreggiarsi” in un mondo dove “tanto nessuno è onesto”. L’economia del malaffare, immettendo sul mercato un flusso considerevole di denaro, contribuisce sensibilmente alle dinamiche del consumo e al successo delle sue logiche. Allo tesso tempo, tale economia, (insieme agli altri fenomeni sopra ricordati che aumentano le possibilità degli individui di soddisfare la propria sete di consumo o promettono di farlo) contribuisce a dissipare negli individui le cariche di aggressività che potrebbero derivare loro dal doversi “accontentare” di ciò a cui possono aspirare contando solo su quanto guadagnato onestamente. In questo modo, in mancanza di un universo etico in grado di orientare i comportamenti individuali, la possibilità di partecipare al banchetto del consumo nel tavolo dei più fortunati, indipendentemente dal modo in cui questo è stato ottenuto, diminuisce notevolmente la possibilità di esperire sentimenti di invidia e di risentimento sia di tipo invidioso che “giusto”. Ma il meccanismo di dissipazione della violenza prodotta dalle dissimmetrie (progressivamente crescenti) e dalle ingiustizie sociali delle attuali società falso-democratiche passa soprattutto attraverso le logiche stesse del mercato. In un mondo dominato dall’etica del consumo, i confronti tra individui da cui prendono origine le emozioni comparative (gelosia, invidia e risentimento), avvengono soprattutto in relazione alle possibilità di spesa e al possesso di beni acquistabili sul mercato. Già Simmel aveva teorizzato il ruolo dissipativo e di contenimento dell’energia invidiosa operato dalla moda (1895). Il suo ragionamento si basa sulla costatazione che, se da una parte la moda introduce elementi di distinzione sociale tra chi “può permettersela” e chi invece non ha le risorse per farlo, e dunque moltiplica le occasioni di stimolo al risentimento invidioso, dall’altra, essa Cfr.: “Mafia crime is 7% of GDP in Italy, group reports”, The New York Time, Monday, October 22, 2007. I ricercatori dell’CSC nello studio pubblicato il 13 Settembre 2010 scrivono: «C’è una parte dell’economia italiana che non ha subito recessione: il sommenso». In effetti di tratta di un incremento di almeno tre punti di PIL rispetto ai dati Istat con un balzo che raggiunge nel 2010 il 20 per cento del Prodotto interno lordo e una pressione fiscale effettiva ben oltre il 54 per cento del PIL, pari a più di 125 miliardi di euro, l’evasione più elevata in Europa. In: Confesercenti - Le 6 mani della criminalità sulle imprese. Roma, maggio 2010. 24 svolge anche un ruolo omologante dato che tutti coloro che la seguono finiscono poi per “assomigliarsi”. Ma soprattutto, sostiene ancora Simmel, la moda e, potremmo aggiungere, il consumo più in generale attivano dinamiche competitive comunque più “democratiche” (rispetto ad esempio a quelle basate sullo status) e certamente potenzialmente meno distruttive rispetto all’ordine sociale7. Le considerazioni simmelliane vanno tuttavia contestualizzate alla società solido-moderna, e dunque gerarchica e piramidale, a cui egli si riferiva. Da allora, il fenomeno della moda e dei processi di consumo si sono enormemente specializzati, soprattutto per l’azione delle pratiche di marketing succedutesi nel tempo in maniera funzionale allo sviluppo delle economie e dei mercati. Grazie alla potenza del marketing e ai suadenti messaggi delle sue “Sirene” pubblicitarie, i riferimenti di classe, tipici di un mondo solido e basato sulla produzione, si sono liquefatti in una diaspora infinita di stili di vita incentrati sul consumo, all’interno dei quali il soggetto poteva riconoscersi. Questo processo di artificiosa differenziazione sociale si è ulteriormente sviluppato negli ultimi anni giungendo, attraverso il marketing relazionale e una personalizzazione sempre più spinta dei prodotti, ai suoi limiti oggettivi costituiti da un consumatore non più visto come parte di un target, ma come singolo individuo con cui entrare in relazione diretta anche grazie alle tecnologie della rete. E’ il singolo individuo quello di cui le aziende si propongono oggi di soddisfare le brame di consumo con prodotti pensati solo per lui (o fatti credere tali). Il risultato di questo processo, finalizzato a gonfiare la domanda di un mercato in cui i processi di acquisto sono orientati da valori immateriali, è quello di un aumento, almeno in apparenza, della differenziazione sociale e dunque degli spazi simbolici entro cui i diversi individui si trovano a confrontarsi. Non essendoci un’unica moda e un unico mercato su cui competere, ogni individuo può sentirsi “alla moda” secondo innumerevoli modelli e riferimenti simbolico-culturali, in un processo che ha ormai da tempo una funzione espressiva e identitaria piuttosto che ostentativo-emulativa. La merce contraffatta, i discount, gli outlet, i mercatini dove si trovano prodotti firmati a prezzi bassissimi, sono tutte ulteriori possibilità che democratizzano il mercato e consentono a molti di accedere, o anche solo simulare, una condizione di consumo superiore alle proprie reali possibilità. Tali processi di democratizzazione e differenziazione pur essendo sono in larga misura solo apparenti in quanto non fondati su un’effettiva redistribuzione più egualitaria dei redditi, contribuiscono tuttavia a depotenziare ulteriormente l’intensità complessiva dell’invidia e del risentimento in circolo nel sociale. 7 E’ ben noto, per altro, il ruolo compensativo e riparatorio che un acquisto voluttuario può svolgere rispetto alla rabbia e alla frustrazione accumulata, ad esempio, sul posto di lavoro. 25 Anche la pubblicità, e più in generale, la comunicazione aziendale, il cui scopo è quello di rivestire di significati e valori immateriali e simbolici brand e prodotti, svolgono un ruolo decisivo nel sistema dell’iper-consumo sollecitando quel meccanismo mimetico del desiderio descritto da Girard (1961). L’intero meccanismo relativo alla generazione mimetica del desiderio attraverso l’intermediazione dell’altro messo a fuoco dall’autore pare una descrizione efficace delle dinamiche emozionali sottostanti l’attuale sistema della moda e della pubblicità. Ma tutti questi fenomeni e dispositivi in grado di incidere sulle macrodinamiche emozionali, contenendo e dissipando le cariche invidiose e risentite che le disfunzionalità sistemiche incessantemente producono, resterebbero largamente inattivi se non andassero ad incardinarsi sul meccanismo primario su cui si basa il successo globale dell’iperconsumo. Un meccanismo in grado di agire direttamente sulle coscienze individuali e sui processi intrapsichici di generazione del desiderio. Per cogliere tale dinamica è necessario ripensare a come esso si presenti originariamente. La psicoanalisi ci ha insegnato che il desiderio è l’energia emozionale alla base del comportamento umano. Ci ha anche spiegato che tale energia può orientarsi in modo creativo verso obiettivi costruttivi e in grado di generare relazioni di valore, solo se si incontra e si scontra con la legge, ricevendone il suo sostegno simbolico (Recalcati, p. 8). Se non si infrange contro i limiti della norma, l’energia libidica, che si manifesta primariamente come ricerca di godimento immediato, non può trasformarsi in desiderio. Per questo, il “programma della Civiltà”, con il suo apparato normativo e valoriale, si è sempre opposto al dispiegamento in-mediato dell’impulso al godimento, “castrandolo” e permettendo in questo modo l’attivazione di processi di sublimazione attraverso cui tale energia diventa desiderio creativo e risorsa per la collettività (ibid. p. 31). Nelle società occidentali avanzate, questo meccanismo pare oggi essere entrato in stallo. Embricandosi su processi socioculturali che, pur avendo le proprie origini in periodi ben più remoti, sono giunti a compimento negli ultimi decenni (ma che non è possibile qui approfondire8), il programma iperedonistico del capitalismo contemporaneo “liquida”, insieme a molto altro, anche le forze normative in grado di imporre agli individui i necessari processi di sublimazione dell’energia libidica. Così facendolo il capitalismo contemporaneo sembra portare a compimento quel meccanismo, apparentemente paradossale, di de-sublimazione repressiva acutamente delineato da Marcuse (1955, cfr. Recalcati, cit. p. 30). Mi riferisco, in particolre, all’evaporazione dell’istanza paterna (???) alla ridefinizione dei processi educativi infantili secondo modelli finalizzati al benessere totale del bambino e all’annullamento della benché minima esperienza traumatica; alla ridefinizione della marca affettiva della famiglia _______; all’incapacità delle generazioni post-68 di assumere appieno il ???????; ecc. 8 26 La necessità di promuovere un consumo sempre più famelico ed eccedente si è concretizzata in un’ideologia che prima ha riconosciuto a tutti il diritto all’edonismo e a un consumo liberato dalle resistenze morali o religiose che lo penalizzavano sino a qualche decennio fa; poi ha imposto questo stesso edonismo, inteso come diritto al godimento, come imperativo di massa. In questo modo, è lo stesso neocapitalismo che legittima e incita gli individui a liberarsi dai vincoli della norma per poter soddisfare, senza alcun limite “subliminante”, il proprio impulso al piacere attraverso i beni acquistabili sul mercato. Così facendo: <<il sacrificio pulsionale viene negato nel nome di una falsa liberazione della pulsione che si svincola da ogni forma di sublimazione, promettendo un godimento immediato, de sublimato, appunto, senza mediazione simboliche e senza più limiti>> Recalcati, cit. p. 9) Questo tipo di de-sublimazione non corrisponde affatto a un aumento della libertà individuale, ma piuttosto alla più sottile ed efficace forma di controllo sociale messa in atto dal sistema. Penalizzando il movimento del desiderio, esso annulla infatti <<ogni dissimmetria critica nei confronti della realtà alla quale, invece, il soggetto tende ad adeguarsi sempre più passivamente>> (ibid.). Se il capitalismo descritto da Marx alienava il soggetto riducendolo alla sua sola forza fisica trasformata in lavoro, nel neocapitalismo dell’iperconsumo l’alienazione ha assunto la forma di << una riduzione del soggetto alla spinta mortifera del godimento>> (ibid. p. 34). Oltre che sul piano ideologico, la frammentazione e trasmutazione del desiderio in volontà di godimento è prodotta anche da un altro tipo di dinamica. Da un punto di vista psichico, è la mancanza dell’oggetto ciò che anima il desiderio e lo vitalizza sospingendolo in avanti. Viceversa, quando l’oggetto ha assunto la forma di merce e si presenta, come avviene oggi, oscenamente sovrabbondante, è lo stesso desiderio che finisce per annichilirsi sotto l’effetto “intasante” dell’eccesso. Un eccesso di beni e opportunità di godimento che annulla la mancanza necessaria a muovere la spinta desiderante e impedisce la creazione di legami autentici con gli altri (ibid. pag. 35). In questo modo, è il rapporto con l’oggetto ad assumere le caratteristiche di una nuova forma di schiavitù favorendo l’insorgenza delle sempre più diffuse dipendenze patologiche, non più solo “da sostanze”, ma anche dal gioco, dall’uso della rete, dal sesso mercificato, dal fitness, ecc. Favorendo questo tipo di processo, il neocapitalismo ha di fatto generato un progressivo svaporamento del desiderio (almeno come istanza psicologica dominante gli individui) iperframmentandolo e trasmutandolo in ricerca di godimento immediato che ricorda drammaticamente l’esito parossistico cui è destinata l’evoluzione della mimesi girardiana. 27 Il desiderio presume del resto progettualità, creatività, impegno, incontro con l’altro, e tempi lunghi per potersi esprimere. Tempi poco compatibili con quelli necessari a un mercato che può mantenersi solo contando sulla frenesia di individui divenuti turbo-consumatori. Solo la ricerca immediata del godimento soddisfacibile con le merci può invece assicurare la temporaneità istantanea del qui ed ora in grado di rendere i comportamenti di acquisto sempre più frenetici e in sintonia con il parossismo a cui è giunto il tempo di deperimento segnico delle mode e delle merci. Questo processo di de-sublimazione e trasmutazione dell’energia desiderante ha evidentemente effetti molteplici a vari livelli. Interagendo potentemente con il movimento del desiderio esso genera, innanzitutto, una diffusa adesione acritica ai modelli di vita dominanti. Ma tale processo ha un effetto decisivo anche sulle dinamiche macroeconomiche di dislocazione del risentimento. La conversione del desiderio in ricerca di godimento istantaneo stempera infatti notevolmente l’intensità della frustrazione che l’incapacità di soddisfare tali bisogni comporta. Inoltre, mentre l’oggetto del desiderio è unico e insostituibile, il godimento ottenibile attraverso il consumo può essere soddisfatto con oggetti molteplici e facilmente sostituibili (prodotti, servizi, corpi, ecc.). Infine, questo stesso meccanismo di trasmutazione operato dal capitalismo contemporaneo e supportato dalle pratiche di marketing “one to one”, estremizza gli esiti dell’individualismo contribuendo alla monadizzazione del soggetto che finisce per ritrovarsi quasi del tutto incapace di coinvolgersi in relazioni e basate sull’eros (in senso psicanalitico) e quindi sulla capacità desiderante. L’incapacità del soggetto “liquido” di impegnarsi “per sempre”, come si diceva una volta credendoci, sono esempi in questa direzione (cfr. tra tutti, Bauman???). Da questa progressiva incapacità a entrare in relazione autentica e ad “amare” l’altro, derivano tanto i fenomeni di iper-centratura sul sé, ampiamente descritti dalla letteratura sul soggetto postmoderno, quanto le diverse patologie del legame di cui parla Recalcati (2010). La monadizzazione narcisistica della soggettività corrisponde, di fatto, a una progressiva scissione del legame sociale e a una chiusura narcisistica auto centrata. Tale disposizione induce l’individuo a ricercare soluzioni personali a fenomeni che sono invece il risultato di disfunzionalità e ingiustizie socio-strutturali del sistema. Lo sguardo rivolto al proprio caso personale impedisce il soggetto di riconoscere le vere cause del proprio stato. In questo modo, nel tentativo di “cavarsela da solo preoccupandosi solo di se’” è molto probabile che entri in conflitto con altri individui che condividono la sua stessa situazione e che competono orizzontalmente tra loro per accaparrarsi risorse scarse, in una estenuante “lotta tra poveri”. Una lotta che, anziché essere combattuta tutti insieme per ottenere quello che spetterebbe loro di diritto (un lavoro stabile, servizi sociali funzionanti, una tassazione equa, un adeguato sistema sociale di tutela dei soggetti più deboli e svantaggiati, ecc.) finisce per frantumarsi in un’infinità di micro-conflitti latenti e risentiti in cui 28 soggetti-monadi si scontrano simbolicamente tra loro spinti da un bisogno acquisitivo di origine mimetica che solo il consumo sembra poter placare. In questo modo, quello che potrebbe assumere la forma di risentimento giusto per le ingiustizie sociali subite e che, incontrandosi con quello degli altri, potrebbe concretizzarsi in movimento di protesta per ottenere un mondo più giusto, si trasforma in risentimento invidioso e malevolo verso coloro con cui ci si trova, orizzontalmente, a competere. Da un punto di vista macroeconomico, dunque, la produzione dell’energia libidica necessaria a sostenere l’iperconsumo di cui l’attuale capitalistico necessita, contribuisce anche alla dissipazione delle cariche potenzialmente distruttive del risentimento invidioso che le disfunzioni sistemiche producono. E lo fa incanalandole nella camera di combustione del mercato che li riconverte nella ricerca del godimento da cui si originano i drive motivazionali al consumo. Così il cerchio si chiude, in un meccanismo perfetto e in grado di autoalimentarsi attraverso l’energia emozionale che esso stesso produce; in un moto perpetuo destinato a continuare nel tempo almeno fino a quando nuove formazioni sociali e movimenti non si dimostreranno in grado di scardinarne le fondamenta. 29 Bibliografia Alberoni, F., 1977 Movimento e Istituzioni. Bologna, Il Mulino. Alberoni, F., 1989 Genesi. Milano, Garzanti. Améry, J., 1966 Jenseits von Schuld und Sühne. Bewältingungversuche eines Ǘberwaltigten, ed E. Klett, Stuttgard, (trad. it. Intellettuale a Ansart, P., Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1987. 2002 Le ressentiment, Paris, Bruylant. Barbalet J. M., 1992 “A Macrosocioly of Emotion: Class Resentment”, in: Sociological Theory. Vol 10, n° 2. Bauman, Z., 1982 Resentment. From Nietzsche, Scheler, Freud. Løgstrup and Lévinas to the globalized world of consumers (trad. It. In: Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi. 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