Ethan Frome

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Scuola di Formazione Teologica
Ponte Ronca – 14.01.2016
I due volti di Cura: dal risentimento alla benevolenza
Nelle Fabulae il poeta Igino narra un antico mito latino sull'origine dell'uomo.
Mentre attraversava un fiume, Cura vi trovò dell'argilla e con essa si mise a
plasmare una statua che avesse le sembianze di un uomo. Inquieta sul risultato
del suo lavoro, chiese a Giove di soffiarvi l'anima. Quando si trattò di dargli un
nome, insorse Terra, che accampò alla pari di Giove un diritto sull'opera di
Cura, dal momento che il materiale, con cui essa era stata plasmata, era stato
preso dal suo corpo. Non riuscendo a dirimere la questione, i tre dei si rivolsero
a Saturno, che diede alla statua il nome di uomo, poiché era stato tratto dall'humus; e attribuì equanimemente alle tre divinità una giurisdizione parziale
su uomo. Alla sua morte Giove e Terra riavranno rispettivamente lo spirito e la
materia, mentre Cura eserciterà su di esso il potere durante tutta la vita, visto
che è stata lei a plasmarlo1.
Nel suo oggi terreno l'essere umano deve perciò sottostare a Cura. Cerchiamo ora di comprenderne i motivi profondi. Ci soffermiamo anche su alcune modalità concrete con cui oggi Cura ci plasma.
1. La Cura è nel corpo
Perché è corpo, l'uomo è sottoposto continuamente a un conflitto di poteri,
che si disputano la giurisdizione su di esso. È un prodotto sociale e simbolico al
tempo stesso, perché egli è nulla finché non ha un nome e un nume tutelare. Il
racconto di Igino propone il tema del corpo conteso, che attraversa il saggio di
M. Mauss sulle Tecniche del corpo (1936). «Il corpo è il primo e più naturale
strumento dell'uomo» non solo in senso attivo: come strumento di interazione
sociale2. Ma soprattutto in senso passivo: l'uomo socializza servendosi del proprio corpo e di quello altrui. Il corpo è una forma di esistenza socialmente ac-
1
Hyginus, Fabulae, LXXXIII.
M. Mauss, “Le tecniche del corpo”, in Id., Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino, 2000,
p. 392. M. Fusaschi, Corporalmente corretto. Note di antropologia, Meltemi, Roma, 2008, p. 22.
2
1
quisita3. Corpo non si nasce, ma si diventa; e sempre in questo o quel modo
modo di esserlo. In quanto sistema integrato di movimenti, di gesti e di azioni
che sottintendono e esprimono atteggiamenti e intenzioni, il corpo si presenta
come un oggetto culturale pensato e costruito entro schemi sociali, scelte politiche e operazioni di significato 4. È sopratutto nel rito che si compie questo addomesticamento sociale del corpo: secondo M. Douglas, i rituali collettivi di tipo
igienico sono decisivi nell'assunzione di comportamenti abitudinari collettivi 5.
La culturalizzazione del corpo va di pari passo con la sua istituzionalizzazione. Il
corpo, plasmato da Cura e eternamente conteso tra le divinità del cielo e della
terra, è il paradigma di ogni azione sociale: ne è lo strumento, ma anche il destinatario; ne è il luogo materiale e l'intenzione ideale.
L'analitica esistenziale della prima metà del Novecento ha colto un altro significato antropogonico del mito di Cura: l'essere umano è vulnerabile perché è
gettato nell'indeterminatezza della possibilità 6. Nell'interpretazione della Cura
in quanto finitudine radicale, il pensiero filosofico occidentale si dibatte tra due
tesi fondamentali. L'essere umano è libero perché fragile, capace di sfidare il rischio e il pericolo che sono congeniti alla sua condizione di possibile malato,
come propone la psichiatria esistenziale di K. Jaspers 7? Oppure, è fragile perché
è indeterminato, sottratto al domino dell'istinto e perciò libero, come pensa
l'antropologia filosofica di A. Gehlen 8? Non c'è una risposta a questo dilemma,
se non nell'accettazione dell'eterna dialettica tra padronanza di sé e espropriazione dell'altro, nella tensione tra difesa del proprio corpo e riconoscimento di
quello altrui.
Le grandi difficoltà incontrate dal processo di pacificazione delle società liberal-democratiche e della comunità internazionale, avviato nel secondo dopoguerra, rendono ancora più acuto l'odierno riemergere della violenza con il suo
3
M. Mauss, “Le tecniche del corpo”, p. 409: «Non è grazie all'inconscio che si ha un intervento della società, ma è grazie alla società che si ha un intervento della coscienza. È grazie alla società che si ha sicu rezza di movimenti pronti, dominio del cosciente sull'emozione e sull'inconscio».
4
A.M. Casella Paltrinieri, Prendersi cura. Antropologia per le professioni socio-sanitarie, Ed.It., Firenze,
2011, pp. 41-42.
5
M. Douglas, Purezza e pericolo. Un'analisi dei concetti di contaminazione e tabù, Il Mulino, Bologna,
2008, pp. 214-217.
6
M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano, 1988, pp. 227-245.
7
K. Jaspers, Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1964, p. 835: «Il pericolo della vita è la
conseguenza del suo costante tentare (...) L'essere malati non è solo un'eccezione che esclude dalla vita,
ma appartiene alla vita stessa come momento della sua ascesa, come pericolo superabile».
8
A. Gehlen, L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 56.
2
peso terrificante9. Di nuovo, l'immagine di Cura si sdoppia, consegnandoci il dilemma antropologico e educativo, in cui si dibattono i sistemi occidentali moderni di correzione sociale. Cura è disciplina del corpo per educare lo spirito all'obbedienza delle leggi? Oppure, Cura è rigenerazione delle relazioni sociali,
per riabilitare l'immaginazione affrancandola dal desiderio fantastico e riannodandola all'intelligenza progettuale? Mentre siamo obbligati a continue riletture
antropologiche dei mondi contemporanei, si deve registrare che nel contesto
della riabilitazione penale l'immagine bifronte di Cura dà vita a due modelli profondamente diversi tra loro, non solo per i contenuti etici, ma soprattutto per
l'immagine di corpo e per gli interventi educativi che prevedono su di esso. Li
ho chiamati rispettivamente: il modello del risentimento e il modello della benevolenza.
2. La Cura come risentimento
Il corpo non è solo il recipiente dello spirito, come pretenderebbe Giove nel
mito latino di Cura. È il legame con Terra, con le origini ancestrali dell'esistenza: essere di terra e essere dalla Terra è la stessa cosa. A questo paradigma si
rifanno le tecniche disciplinari del corpo di cui E. Goffman e M. Foucault sono
stati lucidi interpreti. La costrizione del corpo educa lo spirito, perché lo sottomette alla necessità ferrea della fame e del freddo, della forza e della violenza.
Solo l'uomo vulnerabile, divenuto cosciente della propria fragilità attraverso la
privazione della libertà, può essere un uomo docile a leggi che egli non ha scritto e che violano il suo istinto primordiale di sopravvivenza e di autoaffermazione. La «profanazione del sé» rende liberi: non perché apre nuovi orizzonti di
autocomprensione; ma perché li chiude, togliendo ogni possibilità di autotrascendenza nell'immaginazione e nell'azione rischiosa 10. Il massimo di culturalizzazione del corpo è quando esso viene percepito come totalmente naturale.
Allo stesso modo, il massimo della Cura si ha quando la violenza sul corpo si
9
Rimando qui alla mia trilogia sulla paura: “Per un'antropologia della paura. Abbozzo di riflessione filosofica”, in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione, 13/26 (2009), pp. 475-508; “Dall'insicurezza al terrore.
Per una fenomenologia sociale della paura”, Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione, 14/28, 2010, pp.
329-352 e 15/29, 2011, pp. 75-101; “Le religioni tra violenza e paura. A dieci anni dall'11 settembre
2001”, Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione, 15/30, 2011, pp. 387-411 e 16/31, 2012, pp. 49-73.
10
E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza, Einaudi, Torino,
2003, pp. 44- 50 e 71-76. M. Foucault, Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, Einaudi, Torino,
1993, pp. 26-33. Critico sulla dicotomia «sorvegliare e punire» è J. Dekker, “Michel Foucault et l'histoire
de l'éducation surveillée”, Societés et Représentations, 1996/3, pp. 257-268. Segnalo la tesi qui brevemente esposta secondo cui tra il centro e la periferia della società vi è una «zona intermedia», costituita
dallo «spazio della fragilità» (Ibid., p. 259).
3
presenta del tutto razionalizzata: è legittima perché trattiene gli istinti vendicativi; perché è sostenuta da finalità di risocializzazione; perché vuole rieducare e
così offrire un'altra possibilità di vita nella legalità; perché rinuncia a uccidere.
Insomma, è legittima perché si presenta come umanizzante.
Il legame ancestrale dell'uomo con la terra tramite il proprio corpo spiega anche perché la prima forma di Cura consiste nella restrizione dello spazio: il monastero e la prigione in questo (ma solo in questo) si assomigliano. Le celle, la
campana, il regime di sorveglianza rompono la convenzionalità dello spazio:
non luoghi di quotidianità, ma «eterotopie di crisi», dove l'elemento più eclatante è la sospensione delle routines spazio-temporali, tanto da diventare vere
e proprie «eterocronie»11. Un altro spazio e un altro tempo, che scorrono dentro
e di fianco allo spazio-tempo ordinari: separati solo da confine sottile, che però
rende i due mondi invisibili e impermeabili l'uno all'altro. Foucault ci ha avvertito del carattere fittizio e meramente convenzionale di questa distinzione, la cui
metafora è il muro carcerario12. Questa immagine e altre immagini simili sono
state spesso foriere di visioni fuorvianti di pulizia e sociale, dove la colpevolezza viene confusa con la mostruosità e la sporcizia è intesa come indicatore di
disumanità e di deficit etico.
«Occhio non vede, cuore non duole» è la pratica per eludere il risentimento
sociale contro chi ha infranto il patto legale e per evitare la spirale della vendetta. È la forma moderna e secolarizzata del rito espiatorio, che rievoca in
modo incruento il sacrificio originario 13. Questo è «l'altro volto della cura»: quello in cui gli uomini diventano soggetti solo perché prima sono oggettivati da un
potere totale che li domina e li posiziona nella struttura sociale e nella gerarchia biopolitica14. All'ordine spaziale della realtà intramuraria corrisponde un
preciso ordine etico e sociale. L'inclusione in esso presuppone alcune fondamentali esclusioni, che riguardano le sfere principali della vita personale: la sfera economica (il ristretto non lavora, lavoricchia); la sfera riproduttiva (non ha
relazioni con la famiglia, la incontra periodicamente a colloquio); la sfera comunicativa (non educa la propria immaginazione in relazioni di apprendimento,
viaggia solipsisticamente con la fantasia); la sfera ludica (non apprende le re11
A. Mele, Da un'altra vita. L'antropologia della cura, Guida, Napoli, 2000, p. 24.
M. Foucault, Sorvegliare e punire, p. 126.
13
R.Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 2005, pp. 117-127.
14
C. Palmieri, La cura educativa. Riflessioni ed esperienze tra le pieghe dell'educare, F. Angeli, Milano,
2000, pp. 60-61.
12
4
gole attraverso il gioco organizzato, va all'aria). La Cura come risentimento organizza una perfetta reciprocità tra inclusione e esclusione. Infatti, l'esclusione
dalla vita sociale quotidiana avviene in forza di un'inclusione che incasella entro il nuovo ordine etico-spaziale dell'istituzione penale15.
La Cura come risentimento separa, per allontanare dalla società degli uomini
liberi la minaccia della violenza. Elimina ogni elemento di arbitrio individuale.
Ripristina la legalità infranta, imponendo il dominio della ragione ordinatrice.
Disciplina la creatività annullandola, perché la interpreta come infrazione: il regolamento è l'icona della razionalità depersonalizzata, che tutela la persistenza
della libertà moderna, cioè dell'umanità in forma di società organizzata, attraversata da confini invisibili ma ben marcati, che dividono spazi, tempi, risorse
materiali e immateriali in base ai principi di proprietà e di rispetto e non a quelli
di relazione e di coappartenenza. Recentemente, la pratica della separazione si
è ulteriormente radicalizzata. Non si limita più a separare i criminali dagli innocenti, ma divide il corpo dall'anima, attraverso una progressiva assimilazione
delle pratiche penitenziarie di cura a quelle del trattamento psichiatrico: in entrambi i casi, «la “sedazione” è diventata oggi il grande internamento» 16. La
Cura produce ombre che camminano negli spazi incolori degli istituti di pena:
corpi senza storia e anime senza identità. Il regolamento penale sostituisce la
memoria: il passato non può e non deve essere recuperato, se non come figura
spettrale che rinforza il timore della punizione, su cui si erge il regime del controllo disciplinare. Il regolamento restituisce il ricordo confuso di una ferita sociale: non solo di quella inferta a altri con il reato, ma anche di quella reiterata mente subita con la reclusione.
Disciplinando i corpi secondo norme impersonali, costrittive, spesso percepite come meramente vendicative, si accende il risentimento, ma non si educa
l'immaginazione, che diventa sempre più surreale e prossima alla fantasia. Incapace di riprogettare la vita a partire dai principi di relazione sociale e di
coappartenenza, non si rigenera il senso di realtà. Piuttosto, si concepisce il futuro come il tempo della vendetta a ogni costo contro una società ingrata, incapace di realizzare i sogni che essa stessa ha acceso e alimentato, per lo più con
il flusso seduttore delle immagini mass-mediali. La reiterazione dei comporta15
16
M. Foucault, Sorvegliare e punire, pp. 256-259 e 267-271. A. Mele, Da un'altra vita, pp. 20-21.
A. Mele, Da un'altra vita, p. 26.
5
menti pregressi, l'escalation della violenza agita e l'assenza di autocoscienza
critica sono gli esiti della Cura come risentimento, che separa e disciplina. Non
si tratta di un fallimento. Anzi. La società della paura e della sorveglianza ha bisogno di alimentare il risentimento per legittimare se stessa e la propria organizzazione del potere come sicurezza. Come aveva lucidamente previsto S.
Freud, la Cura della società che deve difendere i principi civili di proprietà e di
rispetto si basa su un atteggiamento super-egotico di autocensura: barattare
una parte delle proprie possibilità di libertà e di felicità in cambio di un incremento della percezione di sicurezza sociale17.
Oggi noi sappiamo che questo baratto non è una strada socialmente vantaggiosa, anche se le politiche di sicurezza di molti stati – non solo europei –
van-
no ancora in questa direzione. Si produce un aumento della percezione dell’insicurezza sociale, a dispetto dei dati sulla diminuzione della criminalità diffusa.
Si trasformano le carceri in sovraffollate discariche umane. Esse diventano contenitori e amplificatori del disagio sociale e dello smarrimento culturale e etico,
che precedono la detenzione. Si vanifica così l'umanesimo giuridico del XX sec.
e la sua cultura dei diritti umani. In un sistema penale-giudiziario che vede nel
carcere praticamente l'unica forma di estinzione del reato, pare impossibile la
realizzazione di un'altra Cura che liberi la cultura dal ricorso obbligato al risentimento. Una società, che ancora affida l'attuazione della giustizia solo alla restrizione carceraria, rischia una profonda spaccatura tra giusti e ingiusti. Rischia soprattutto che tale frattura appaia in tutta la sua convenzionalità e sia
foriera di nuovi conflitti e di esclusioni senza fine.
3. La Cura come benevolenza
Il mito narrato da Igino non risolve il dilemma circa i due volti di Cura. Il racconto resta aperto circa l'interpretazione delle intenzioni di Cura: perché si
mise a plasmare quella statuetta a forma di essere umano? La preoccupazione
della somiglianza con gli esseri umani (l'anima, il nome) esprime un'attenzione
benevolente nei confronti dell'uomo costruito, culturalizzato. Cura vuole custodire la vita che essa stessa ha plasmato: imitare e riprodurre la vita naturale significa amarla. Il conflitto tra Giove e Terra, il ricorso al giudizio super partes di
17
S. Freud, “Il disagio della civiltà”, in Id., Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino,
2001, p. 250.
6
Saturno non introducono solo il tema della vulnerabilità, ma anche quello della
relazione tutelare, senza la quale l'essere umano non avrebbe né identità né
vita. Con la costruzione della statua d'argilla e con la successiva comparsa sulla scena di tre divinità del pantheon latino, il viaggio solitario di Cura s'interrompe e si popola di relazioni. Più che con lo spazio, in questo modello la Cura
ha a che fare con le dinamiche di quel viaggio comune che è il tempo. Qui si
mira allo sviluppo di capacità relazionali, piuttosto che alla costrizione spaziale
del corpo. La vulnerabilità muta il proprio significato. Da ferita che esige la rieducazione come condizione per il reinserimento sociale, essa si manifesta
come incompiutezza. Perciò richiede procedure di riconoscimento delle capacità personali, in forza delle quali individui fragili assumono entro il proprio ambito di vita l'atteggiamento di attori sociali consapevoli 18. Così la Cura trasforma
gradatamente le persone fragili da problema sociale in risorsa relazionale. Solo
se viene intesa nella sua fisionomia benevolente, alla Cura si può riferire in
modo appropriato la definizione manualistica corrente: «messa in atto di gesti
e azioni che abbiano lo scopo di conservare, custodire e proteggere tutto quanto è indispensabile per la vita» umana nel mondo 19. L'esistere-in assume la modalità dell'essere-con: la relazione originaria con il mondo si connota come responsabilità e interdipendenza nei confronti di altri esseri umani 20. La Cura costituisce così il superamento del concetto solipsistico di autonomia, perché a
motivo della sua vulnerabilità ogni essere umano necessita delle cure altrui per
poter sperare di persistere nella vita 21. C'è un'istanza empatica che può sostituire l'etica giuridica del “tale-quale”, su cui si basa la Cura come risentimento:
la benevolenza22. Il valore cognitivo della Cura consiste nella capacità di immaginazione, grazie a cui ci si riesce a collocare nella prospettiva dell'altro, senza
mai mettersi al suo posto. S'interpreta il mondo relativizzando il proprio punto
18
A. Mele, Da un'altra vita, p. 27.
A.M. Casella Paltrinieri, Prendersi cura, p. 11. Tutta l'esperienza umana nel mondo, caratterizzata dal
nesso inscindibile tra il linguaggio e l'utensile, sin dalle sue origini più arcaiche può essere descritta come
un prendersi cura: A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola. Tecnica e linguaggio. La memoria e i ritmi, Einaudi, Torino, 1977, vol. 1, pp.135-136.
20
M. Heidegger, Essere e Tempo, pp. 152-157.
21
L'esperienza sociale della vulnerabilità mette in crisi il concetto liberale secondo cui la società si fonda
su un patto tra parti «libere, uguali e indipendenti»: M. Nussbaum, Giustizia sociale e dignità umana. Da
individui a persone, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 108-122. La vulnerabilità conduce l'uomo a avere bisogno delle cure altrui. Si veda anche: A. MacIntyre, Animali razionali dipendenti. Perché gli uomini hanno
bisogno delle virtù, Vita e Pensiero, Milano, 2001, pp.3-5.
22
Preferisco il termine benevolenza a quello biblico di compassione impiegato da M. Nussabaum, Le nuove frontiere delle giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, Bologna, 2007, p.
173: non solo perché esso ha un significato più universale, ma anche perché richiama il primato dell'atto
noetico dell'immaginazione su quello immediatamente poietico.
19
7
di vista, ma non annullando la propria identità e la propria memoria. Laddove
l'empatia, o meglio l'«entropatia» ha il sopravvento sulla simpatia 23, la Cura assume la forma dell'alleanza: chi dona e chi riceve sono diversi, ma non necessariamente vivono in spazi separati da barriere e vivono tra loro relazioni oppositive. Pur non avendo i medesimi obiettivi, i loro orizzonti si fondono, almeno
in parte, a individuare e circoscrivere un bene tra loro comune, che li impegna
a unire le forze per raggiungerlo.
Modificando le tesi di M. Mauss sul dono, J. Godbout e A. Caillé sostengono
che il processo di restituzione è più lento di quello di donazione, perché conserva la memoria delle cure ricevute e le amplifica dirigendole verso persone ritenute più deboli di sé24. La metafora del ponte evoca in modo inadeguato questa
condizione antropologica, caratterizzata da una reciprocità asimmetrica e differita nel tempo. Può essere completata da un'altra immagine, quella della seconda gestazione: nella sua dimensione di relazione sociale la Cura trae il proprio fondamento dal riconoscimento della non-autonomia del proprio essere
corporeo e della fragilità dell'essere altrui. La Cura come benevolenza mette in
condizione di superare la visuale etnocentrica e il pregiudizio etico centrati sul
sé, e apre a sguardi transculturali quanto mai necessari in un mondo in cui anche la Cura è divenuta meticcia25.
Questo sforzo empatico si sostanzia di tre ordini di procedure, a cui corrispondono altrettanti atteggiamenti della razionalità. Sul piano dell'interpretazione, è necessario «comprendere il mondo culturale» del debole e la sua esperienza di fragilità. Sul piano della decostruzione, occorre sottoporre a critica i
«costrutti culturali» su cui si basano l'istituzione di cura e le sue procedure riabilitative. Infine sul piano del giudizio, si deve «facilitare un processo di riflessività» da parte di tutti gli agenti di cura sul proprio modo di operare 26.
4. Conflitto e mediazione: la giustizia come riparazione
23
A. Ales Bello, “La questione dell'Altro: movendo da Edmund Husserl”, in D. Iannotta, Pensare la differenza. Incontri, Effata, Grugliasco, 2004, pp. 74-75: «L'entropatia è un vissuto presente in tutti i soggetti umani e ha un carattere eminentemente conoscitivo,
stabilisce una trama di rapporti omogenei per quanto riguarda la trama degli atti entropatici, i quali possono o meno essere attivati,
raggiungendo in qualche caso l'obiettivo di vivere ciò che vive l'altro, ma senza mai potersi veramente immedesimare nell'altro».
24
J.T. Godbout, A. Caillé, Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 31.
25
A.M. Casella Paltrinieri, Prendersi cura, pp. 12-19.
26
A.M. Casella Paltrinieri, Prendersi cura, p. 20.
8
Il principio germinativo del modello di Cura come benevolenza è il concetto
di mediazione, a cui corrisponde una determinata antropologia: l'essere umano
come homo mediator27, che si contrappone all'homo pugnans28.
L'idea di mediazione presuppone due o più parti che vivono il conflitto come
condizione sociale di partenza, che tende a cronicizzarsi e a divenire insuperabile. È una situazione frequente anche nel nostro tempo: il conflitto si autoalimenta, forte di quelle situazioni di paura e disagio, che soprattutto nella vita
metropolitana sono la fonte del risentimento e dell'odio. Il filosofo britannico T.
Hobbes – uno dei padri delle moderne teorie del conflitto – sosteneva che esso
nasce da un presupposto antropologico di per sé positivo: l'illimitatezza del desiderio di felicità, che però si corrompe immediatamente nell'incontro con l'altro, poiché tra esseri umani è inevitabile entrare in competizione. Infatti nessuno è disposto a rivedere la propria immagine di vita felice e dunque a autolimi tare la pretesa di realizzare i propri sogni29.
Nella prospettiva delineata da Hobbes è impossibile rimuovere il conflitto,
perché la struttura cognitiva dell'essere umano, fatta di immaginazione e desiderio, non è modificabile. Dove c'è uomo, lì c'è conflitto. È la versione antropologizzata di un'antica concezione greca, che troviamo magistralmente espressa
da Eraclito di Efeso: «La guerra è madre di tutte le cose e di tutte regina» 30.
Così pensava Hobbes: siccome non si può eliminare il conflitto, la Cura consiste
nel contenerlo attraverso una rigida regolamentazione della vita civile, costruita sul presupposto che le verità e i beni pubblici sono decisi autoritariamente
dallo stato (il Leviatano), il quale agisce super partes, sulla base di una delega
unanime. Sottomettendosi al potere dello stato, i cittadini rinunciano a desiderare, immaginare, competere sulla scena pubblica. In cambio, viene tollerata
dallo stato la sopravvivenza di queste capacità nella sfera privata 31. Nella prospettiva di Hobbes, la Cura è una prerogativa esclusiva del potere politico statuale. Viene attuata eliminando dalla vita pubblica le fonti dei conflitti, attraver27
J. Duss-von Werth, Homo mediator. Geschichte und Menschenbild der Mediation, Klett-Cotta, Stuttgart
2005.
28
S.
Bernini,
Filosofia
della
guerra.
Un
approccio
epistemologico,
www.sintesidialettica.it/guerra/saggio_stefano_bernini.pdf, pp. 41-74.
29
T. Hobbes, Leviatano. O la materia, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile, Laterza, Roma-Bari, 1992, pp. 78-79.
30
Eraclito, Sulla natura, Frammento 53, in H. Diels, W. Kranz, I presocratici. Testimonianze e frammenti,
Einaudi, Torino, 1976, 22 B 126.
31
T. Hobbes, Leviatano, pp. 139-144.
9
so una severa sorveglianza sui comportamenti pubblici degli individui e dei corpi sociali.
Nel ciclo mitologico di Oreste narrato da Eschilo, la neutralizzazione preventiva del desiderio e la repressione della trasgressione non sono l'unica possibilità
per gestire i conflitti, e quel particolare conflitto che produce l'unico danno veramente irreversibile: la morte di un proprio congiunto. Non sarebbe vera giustizia, se l'unica riparazione al male subito comportasse arrecare al corpo sociale nuovi mali, accanendosi fisicamente e moralmente contro il reo. La via alternativa alla vendetta prevede l'attivazione di procedure che portano l'autore
e la vittima del crimine al vicendevole riconoscimento. Senza ciò, il conflitto
non viene estinto, ma soltanto momentaneamente rimosso. Il rinvio è il preludio di una nuova e improvvisa riapparizione di esso. Alla giustizia basata sul
sangue si sostituisce quella fondata sul riconoscimento dell'altrui fragilità. Vi
corrispondono due concezioni molto differenti di bene pubblico: totalitario e repressivo nel primo caso; plurale e cooperativo nel secondo.
Questa idea alternativa di giustizia ispira Eschilo nella tragedia Eumenidi32.
La spirale della vendetta s'interrompe solo quando la sapienza (Atena) riesce a
convincere il risentimento-rimorso (Erinni) a trasformarsi in benevolenza (Eumenidi). Questa trasformazione non avviene per produzione naturale e neppure per azione soprannaturale 33. È un processo umano, storico, che presuppone
tra reo e vittima l'intervento di un terzo: un tribunale di saggi (sul modello dell'Areopago ateniese) che rappresenti la comunità ferita dalla violenza del reato
e crei un luogo di dialogo e di riconciliazione. Il reato non è una questione privata, tra due individui o clan. L'infrazione delle leggi produce sempre un vulnus
nel corpo della polis. Nella Cura come benevolenza non è solo il reo che deve
rigenerarsi, ma tutta la comunità civile è chiamata a ritrovare se stessa. Si supera l'idea di una giustizia retributiva basata sulla legge del taglione e si entra
nella giustizia benevolente, basata invece sulla funzione riabilitativa della pena.
Rinunciando alla vendetta, anche se parte lesa essa stessa, la comunità civile
agisce nel processo come il mediatore tra le parti in conflitto. La benevolenza
non è arrendevolezza, rinuncia all'uso della forza. Ma è ricorso alla forza della
razionalità, che impone una visione pragmatica e contrattualista della vita pub32
Eschilo, Tragedie e frammenti, UTET, Torino, 1987, pp. 555-619.
Eraclito, Sulla natura, Frammento 51, 22 B 111: «Ciò che è differente concorda con se medesimo: armonia dei contrari, come l'armonia dell'arco e della lira».
33
10
blica. La polis si ritrova suo malgrado lacerata dalla violenza e dalle conseguenze che essa produce nei cittadini: paura, risentimento, vendetta, insicurezza
sociale. Perciò ha tutto l'interesse alla composizione pacifica dei conflitti. La
conciliazione dei contrari, in cui consiste la verità ultima del mondo e il senso
della vita umana, non è una questione di necessità, ma di libertà e di benevolenza. Richiede una trasformazione interiore di tutte le parti coinvolte nel processo di ristabilimento della giustizia.
La giustizia è però anche più che il raggiungimento del punto d'equilibrio tra
l'accertamento dei fatti e la sentenza penale. Ogni riconciliazione tra il reo e la
vittima è un chiaro e efficace segnale della volontà generale, che pervade le
società umane: mantenere la coesione del tessuto sociale. Questa dimensione
arcaica della Cura non ha perduto la sua attualità. Mediare i conflitti per ricomporre pacificamente il tessuto sociale è un compito ineludibile. Risponde alla
necessità di mantenere l'ordine nelle odierne società complesse e frammentate, senza riaccendere la contrapposizione ottocentesca tra giustizia pubblica e
libertà individuale e senza dover far ricorso al fobos come movente interiore
che spinge all'osservanza della legge.
5. La Cura come benevolenza nell'odierna società frammentata
Le riflessioni antropologiche suggeritemi da due miti dell'antico mondo greco-latino raccontano l'esigenza di conoscere l’altro, cogliendone e rispettandone le diversità, ma anche di interpretarlo riconoscendo quegli elementi che il
nostro sguardo percepisce tanto somiglianti e attraenti da indurre alla mimesi.
Questa istanza di attualizzazione sociale e politica conduce chi riflette antropologicamente a uno sguardo genetico. La conoscenza delle origini ha una funzione euristica. È come un «grande specchio», che da una parte «permette di osservare nella sua molteplice varietà» il fenomeno umano e, dall'altra, consente
di «vedere meglio» se stessi34.
Verrei meno a questa funzione politica della scienza antropologica, se non mi
chiedessi – anche a titolo di controprova delle argomentazioni sviluppate sopra
– quale Cura benevolente sia possibile in un contesto sociale come il nostro, segnato dalla frammentazione degli interessi e dal progressivo impoverimento
34
U. Fabietti, R. Malighetti, V. Matera, Dal tribale al globale. Introduzione all'antropologia, B. Mondadori,
Milano, 2002, pp. 14-17.
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delle reti relazionali. Si indeboliscono i legami civili, sia nell'ordine dei valori
dell'etica pubblica e del loro riconoscimento, sia nel campo della psicologia sociale, dove si registra l'aumento della rassegnazione e il riaccendersi di pulsioni
etniche e discriminatorie. La crescita dei conflitti è il banco di prova della Cura.
Sapremo attingere a essa per la costruzione di una nuova cultura della benevolenza, che metta a tema i conflitti sociali più critici, mediando specialmente
quelli che sono fattori patogeni di illegalità?
Il bisogno, diffuso tra molti cittadini dei paesi occidentali, di forti istituzioni
pubbliche capaci di suturare le ferite aperte nel tessuto sociale esprime l'esigenza di dare soluzioni efficaci ai conflitti e ai loro effetti violenti e destabilizzanti; soluzioni capaci di garantire ciascuna delle parti in conflitto, sanandole
nell'aspetto di maggiore vulnerabilità. Tuttavia, la ricomposizione dei conflitti
non può avvenire, se non entro un modello che consideri il conflitto non come
la totalità, ma come una dimensione fragile e tuttavia necessaria di quell'intero
che è la relazione sociale. L'altra parte è appunto quella della benevolenza.
A ciascun volto della Cura appartiene una modalità di pensiero e una di giustizia: il pensiero prescrittivo e la giustizia retributiva per la Cura in quanto risentimento; il pensiero progettuale e la giustizia riparativa per la Cura in quanto benevolenza35. In quest'ultima prospettiva, il reato non è da considerare un
atto di violazione della legge chiuso in se stesso, a cui rispondere con un altro
atto – il giudizio penale – ugualmente compiuto in se stesso. In una società
frammentata, in cui le relazioni e non già le istituzioni sono l'elemento connettivo dell'agire sociale, anche il reato è una relazione: prima di trasgredire la legge, il reo ha violato l'umanità (anche la propria), colpendola nei sentimenti e
nella ragione. Infatti, il reato non è un'azione compiuta una volta per tutte,
chiusa nel passato e diretta contro un'unica vittima; ma i suoi effetti negativi lo
rendono continuamente presente e tendono a replicarsi indefinitivamente nel
futuro, moltiplicando i colpevoli e le vittime: alla fine la stessa comunità civile,
complessivamente presa, è tanto vittima quanto colpevole.
35
H. Zehr, Changing lenses. A new focus for crime and justice, Herald, Scottsdale, 1990, p. 181: s'intende
con «giustizia riparativa [...] un paradigma di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella
ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo».
In questa definizione s'incontrano tre attori, come nel paradigma antropologico della tragedia greca: «la
vittima, il reo e la comunità». Sono accomunati nel perseguimento del medesimo obiettivo: la riconciliazione. La vittima domanda «riparazione» del danno ricevuto, soprattutto per quanto riguarda la ferita affettiva. Il reo attende la «riconciliazione» con la parte lesa, da cui dipende quella con se stesso. La comu nità civile chiede di uscire dal ruolo di spettatore giudicante dell'azione delittuosa di un suo membro e
vuole mettere in atto dei processi relazionali che rafforzino «il senso di sicurezza collettivo».
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Nell'esecuzione della pena la Cura è chiamata a prendere in considerazione
la totalità delle dimensioni umane coinvolte nella situazione di trasgressione e
di conflitto. Deve compiere un cammino di ricostruzione della sfera relazionale,
passando attraverso l'umanità ferita dei tre attori sociali coprotagonisti: la vittima, il reo, la comunità. Rancore e desiderio di vendetta da parte della vittima;
reiterazione del crimine da parte del reo; insicurezza sociale della comunità civile: questi sono i segni più evidenti del carattere quasi indelebile del vulnus
procurato dal reato. Uscire dalla passività, che è la culla della ripetizione del
negativo, e acquisire un ruolo attivo nel processo di Cura benevolente richiede
una lunga concatenazione di scelte condivise, frutto di una riflessione razionale
e di una paziente e realistica concertazione.
In una società frammentata, caratterizzata dall'abbondanza di spazi anonimi
e dall'assenza di luoghi di vicendevole riconoscimento 36, mancano luoghi dedicati al riconoscimento del conflitto e alle procedure di Cura benevolente. Una
lettura comparata dei miti di Cura e di Eumenidi mi pare indicare una strada
possibile. La fragilità dell'uomo fatto di argilla non può in alcun modo essere
tolta; ma se ne può trasformare il senso, quando la vulnerabilità viene compresa come principio di benevolenza, invece che sentimento di colpevolezza. Grazie alla mediazione di Atena, dea della sapienza, il cuore del reo Oreste diviene
capace di ospitare il bene. Questo è il senso della Cura: chi riceve benevolenza,
ne viene pervaso fino a diventare egli stesso benevolo verso altri. Questa sorta
di ossimoro – la fragilità del bene e la bontà della vulnerabilità – si regge grazie
alla capacità di ospitare in sé ciò che non si è più (o ciò che non si è ancora).
La Cura benevolente non può essere ridotta a procedure dettate da esigenze
di funzionalità organizzativa: la sorveglianza, l'esecuzione di pratiche educative, il loro controllo, il reinserimento sociale, ecc. Richiede di passare dall'idea di
un servizio a cui attendono esclusivamente operatori qualificati e che si rivolge
a un'utenza socialmente marginale e minoritaria, all'idea di un progetto rispetto al quale tutti i partecipanti sono a vario titolo ospiti: un progetto di Cura benevolente capace di risignificare il risentimento di coloro che vi prendono parte. Così da preoccupazione per la propria sicurezza e incolumità la Cura del reo
36
M. Augé, Non Luoghi. Introduzione a un'antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano, 1993, pp.
85-89.
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si trasforma in urgenza per la guarigione delle ferite sociali inferte dal reato e
dalle sue molteplici e incontrollabili conseguenze.
6. La Cura come ospitalità
L'attuazione della Cura richiede pratiche di ospitalità: esige di passare dall'anonimato della prigione alla familiarità della casa. Ciò implica una serie di trasformazioni anche sul piano simbolico e non solo funzionale: dal muro e dalle
inferriate si passa alla porta e alle finestre spalancate sulla città; dalla relazione
di cura alla Cura come relazione.
L'ospitalità e la cultura dell'ospite sono l'obiettivo fondamentale a cui tende
la Cura benevolente37. Oreste è l'ospite (nel senso di ospitato) in tutta la sua
carica di pericolosità sociale; è l'hostis, il nemico; è colui che può reiterare il crimine da un momento all'altro. La benevolenza delle Erinni lo ha liberato dalla
condanna morale (e dal pregiudizio) di essere un pericolo per sempre. L'hospes
(l'ospite nel senso di ospitante) è la polis degli uomini liberi, il cittadino-individuo che si sforza di vivere in conformità alle regole vigenti e perciò reclama il
diritto alla sicurezza sociale e all'incolumità personale. Assumendo la Cura benevolente come proprio stile di vita, sceglie di stare anch'egli in una condizione
di precarietà, fino a rimettere in discussione le proprie sacrosante ragioni. Quale è il vantaggio sociale di far posto a chi vive la vulnerabilità come precarietà
sociale cronicizzata e ne paga il fio, per aver scelto la violenza come regola di
una vita senza benevolenza? L'ospitalità non nasconde i problemi, ma li rivela.
L'hospes – la vittima del reato, ma anche la comunità ferita dalla violenza – si
trova così continuamente nella condizione di esercitare la benevolenza, immaginando vie percorribili per trasformare la vulnerabilità individuale in risorsa sociale. Incrementando i legami basati sulla fiducia, ha la possibilità di rendere
umanamente più coesa e dunque più libera la propria società.
Ciò che il mito di Eumenidi non dice è a quali condizioni si compia questa
trasformazione di Oreste da reo a ospite. È difficile pensare che ciò avvenga
automaticamente: gli auspici di Atena non sono rivolti al reo, ma alle misteriose
forze spirituali che abitano in lui. Quando l'hostis diventa hospes, quando Oreste si apre a accogliere Eumenidi, è avvenuto qualcosa di straordinario: è stato
gettato un ponte, che collega tra loro più mondi, altrimenti troppo distanti e in37
É. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Jaka Book, Milano, 1998, pp. 39, 49, 308.
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compatibili. Il fattore di cambiamento è la reciprocità pura, senza calcoli e libera da strumentalizzazioni. Si tratta di quell'atteggiamento totalmente immateriale, che si attua in una relazione di dono: è la gratuità in quanto orizzonte a
cui tendere sempre, anche quando appare una chimera irraggiungibile. Dove
c'è reciprocità, è impossibile distinguere un'azione solo ricevente da un'altra
solo offerente. Le parti in causa fanno sempre l'una cosa e l'altra.
Quando la Cura benevolente si trasforma in ospitalità, diviene un metodo efficace di mediazione dei conflitti, che apre la via verso una società riconciliata.
Il suo obiettivo, quello eticamente e giuridicamente più realistico, non è la
sconfitta della violenza e l'eliminazione del conflitto dalla scena sociale. Il suo
obiettivo è piuttosto alimentare continuamente il lento e faticoso processo della riconciliazione sociale: la creazione di legami di vicendevole attenzione tra
gli individui e i gruppi in una società altrimenti sbriciolata. Oggi abbiamo ben
poche altre strade percorribili per tentare di attenuare gli effetti della violenza
materiale e simbolica, che rischia di oscurare in molti di noi il sentimento pro fondo della dignità di tutti gli esseri umani, che è poi il principio giuridico fondativo di ogni comunità autenticamente civile.
Paolo Boschini
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