Lezione P2 L`efficacia della legge penale nel tempo

Lezione P2
Lezione P2
L’efficacia della legge penale nel tempo
Sommario: 1. Le fonti nazionali che regolano la successione delle leggi penali nel tempo… – 2. …e le fonti
internazionali (contrasti sulla portata del principio di retroattività della legge più favorevole). – 3. La successione di leggi penali nel tempo e l’attività interpretativa della giurisprudenza: il fenomeno della “retroattività occulta” al vaglio dei giudici sovranazionali. – 4. Il discrimen tra abolitio criminis ed abrogatio sine
abolitione. – 5. I criteri di discernimento: il fatto concreto, la continuità del tipo di illecito ed il rapporto
strutturale tra norme. – 5.1. Il rapporto strutturale nel reato di falso in prospetto. – 6. L’evoluzione normativa dei reati tributari. – 6.1. Il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. – 6.2. Il reato di omessa dichiarazione. – 7. Il fenomeno della cd. espansione
normativa. – 7.1. Il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, anche alla luce della sua reintroduzione (art. 341bis c.p.). – 8. Il fenomeno del cd. innesto normativo: rapporti tra il delitto di appropriazione indebita ed il
delitto di infedeltà patrimoniale, anche al di là della successione tra le due norme. – 9. Successione di leggi
nel tempo e reato permanente: il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter del d.lgs. n. 286/1998. – 10. Successione di leggi nel tempo e reato abituale. – 11. Successione di leggi nel tempo e misure di sicurezza: la
compatibilità della disciplina nazionale con la CEDU. – 12. La successione nel tempo di norme integratrici
del precetto penale. – 12.1. La tesi della cd. specificazione. – 12.2. La tesi della cd. incorporazione. – 12.3.
La tesi del cd. restringimento operativo. – 12.4. La tesi che dà rilevanza al persistere o meno del disvalore
della fattispecie. – 12.5. Considerazioni sull’operatività delle tesi esposte. – 13. Applicazioni giurisprudenziali. – 13.1. L’adesione all’U.E. di nuovi Paesi: i riflessi sul reato di favoreggiamento dell’immigrazione
clandestina di cui all’art. 12 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. – 13.1.1. …e sul reato di omesso allontanamento dal territorio su ordine del questore ex art. 14, comma 5-ter del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (l’intervento delle Sezioni Unite). – 13.2. La modifica della nozione di piccolo imprenditore di cui all’art. 1, comma 1,
del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, e i riflessi sui reati fallimentari (l’intervento delle Sezioni Unite).
1. Le fonti nazionali che regolano la successione delle leggi penali nel
tempo…
La disciplina che regolamenta l’applicazione della legge penale nel tempo deriva da un coacervo di disposizioni normative evincibili non più soltanto dall’ordinamento nazionale, bensì anche da quello comunitario ed
internazionale in genere. Infatti, il fenomeno di crescente ed inarrestabile compenetrazione del diritto statuale con gli ordinamenti sopranazionali impone una trattazione della tematica in esame non più circoscritta
all’esegesi delle soli fonti interne.
È noto che l’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, sancendo
un principio valido per tutti i settori dell’ordinamento, statuisce che: «La
legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo», sì
da scolpire la regola universale dell’irretroattività della legge.
Il fenomeno successorio in materia penale riceve tuttavia una più
compiuta definizione nell’art. 2 c.p. Salvo quanto si puntualizzerà nel
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paragrafo seguente, per ora basta sottolineare che mentre il comma 1
ribadisce, per la legge penale, la regola generale appena enunciata, il
comma 2 prevede l’ulteriore principio dell’applicazione retroattiva della
norma penale favorevole, ed il comma 4 disciplina l’ipotesi della successione delle leggi modificative, imponendo, anche in questo caso, l’applicazione della legge più favorevole al reo tra le due che si avvicendano nel
tempo.
Tale disciplina, omogeneamente dettata in materia di reati e di pene, non trova conferma nel settore delle misure di sicurezza, rispetto al
quale vale il diverso canone della regolamentazione in base alla legge
vigente al momento dell’applicazione (infatti, l’art. 200 c.p. prevede al
comma 1 che “le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore
al tempo della loro applicazione” e al comma 2 che “se la legge del tempo
in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si applica la legge in
vigore al tempo della esecuzione”).
Del fenomeno della successione di leggi penali si occupa anche la Costituzione, che all’art. 25, comma 2, coniugando in un’unica norma il
principio della riserva di legge e quello di irretroattività, afferma: «Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso».
A primo acchito parrebbe che l’art. 2 c.p. e l’art. 25, comma 2, Cost.
prevedano una diversa regolamentazione dell’istituto in questione, poiché mentre la disposizione costituzionale sembra decretare l’irretroattività assoluta della legge penale, senza possibilità alcuna di deroghe, la
disposizione codicistica distingue espressamente il caso dell’introduzione
della norma incriminatrice o modificativa in peius, da quello della norma
abrogatrice o modificativa in melius, traendone conseguenze diverse in
punto di disciplina. In realtà, l’art. 25, comma 2 Cost. sancisce il divieto di
retroattività della norma penale successiva (incriminatrice o aggravatrice), ma nulla dispone circa l’ipotesi della sopravvenienza dalla norma più
favorevole alla condotta incriminata.
2. … e le fonti internazionali (contrasti sulla portata del principio di retroattività della legge più favorevole)
L’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel sancire
il canone nullum crimen, nulla poena sine lege, con una previsione più articolata rispetto all’art. 25, comma 2 Cost., statuisce che: «Nessuno può
essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui
fu commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o secondo il
diritto internazionale. Non può del pari essere inflitta una pena maggiore di quella che sarebbe stata applicata al momento in cui il reato è stato
commesso». Anche tale disposizione apparentemente non introduce il
principio dell’obbligatoria retroattività della norma penale più favorevole,
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ma si limita ad affermare il principio di legalità, nel senso che né la fattispecie né la pena più severa subentrate possono avere effetto retroattivo (così, Cass., sez. V, 14.7.2006, n. 24410).
Tuttavia, la Corte europea, non senza tentennamenti, ha inteso tale
disposizione nel senso che essa prevede la retroattività della legge penale più favorevole (Corte europea dei diritti dell’uomo sent. 17.9.2009,
ric. n. 10249).
Il caso sottoposto al vaglio del giudice sovranazionale si incentra sul
fatto di non essere stato applicato ad un soggetto riconosciuto colpevole
di omicidio e tentato omicidio il beneficio previsto dall’articolo 442 c.p.p.
prima che questo fosse modificato dal d.l. 341/2000. Precedentemente
a tale modifica il codice di rito tramutava l’ergastolo in trent’anni di reclusione per chi sceglieva il “processo breve”. Con il suddetto d.l. veniva
introdotto come obbligatorio il carcere a vita nel caso di concorso di reato
o delitto continuato, consentendo il solo beneficio di evitare l’isolamento
diurno.
Il ricorrente, riconosciuto colpevole, era stato in prima battuta condannato a trent’anni dal Gup in base a quanto previsto dall’articolo 442
c.p.p. ante riforma, ma entrato in vigore il d.l. menzionato la Corte d’assise di Roma aveva accolto la richiesta della Corte d’Appello di modificare
la decisione del Gup e condannato il ricorrente all’ergastolo. Tale decisione non è stata condivisa da Strasburgo che ha imposto all’Italia un risarcimento per aver violato l’art. 7 della Convenzione che stabilisce il principio “nessuna pena senza legge” e l’art. 6 sull’equo processo. Andando
oltre anche rispetto ai suoi precedenti orientamenti, con la pronuncia in
questione la Corte Europea ha affermato che l’art. 7 della Convenzione
non garantisce soltanto il principio di non retroattività della legge penale
più severa ma anche, implicitamente, il principio di retroattività della legge penale più favorevole al condannato (la Corte ha inoltre sottolineato
che la possibilità per uno Sato di ridurre unilateralmente i vantaggi derivanti dalla scelta di una procedura abbreviata è in contrasto con i principi
del giusto processo di cui all’art. 6 della Convenzione).
Quindi, vi è sintonia tra l’art. 7 della CEDU e la norma interna, ossia l’art. 2 c.p., poiché entrambe prevedono una soluzione di favore per
il reo, disponendo non solo l’irretroattività della nuova incriminazione e
della norma più sfavorevole, ma anche la retroattività della norma abrogatrice, nonché della lex mitior.
Si è visto, occupandoci del principio di legalità, che le disposizioni
contenute nella CEDU hanno efficacia cogente diretta nel nostro ordinamento ed impongono un’interpretazione del precetto interno conforme
al principio sancito nella Convenzione, salvo doverne dichiarare l’illegittimità costituzionale ex art. 117 Cost. per insuperabile contrasto con detto principio. Tuttavia, nel settore qui in esame, non è ravvisabile alcuna
contrarietà della norma interna, ossia l’art. 2, c.p., al dettato dell’art. 7
CEDU, indipendente dall’estensione che si intende dare alla portata del
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suo precetto, poiché, come riferito, l’art. 2 c.p. prevede la soluzione di
maggior favore per il reo, disponendo anche la retroattività della norma
abrogatrice, nonché della lex mitior. Il problema può, invece, porsi qualora il legislatore modifichi in meglio per il reo un istituto di diritto penale
sostanziale prevedendo la sua irretroattività o limitata retroattività, nel
qual caso la disciplina transitoria sarebbe in contrasto con la disposizione
di cui all’art. 7 della CEDU solo qualora si ritenga, seguendo la più recente
giurisprudenza della Corte europea, che contempla il principio della retroattività della legge più favorevole. La questione si fa ancora più intricata se si considera che la giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che il principio della retroattività della legge più favorevole non ha
copertura costituzionale e che quindi il legislatore interno non è tenuto a
prevedere la restrittività della norma favorevole introdotta.
Il problema può essere analizzato con riguardo al regime transitorio
della disciplina sulla prescrizione del reato introdotta dall’art. 10, comma
3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251. Su tale disciplina la Corte delle
legge con la sentenza del 12.3.2008, n. 72, ha dichiarato la ragionevolezza della scelta legislativa con il suddetto art. 10, co. 3, di non applicare
retroattivamente i più brevi termini di prescrizione introdotti ai processi pendenti in grado di appello e Cassazione. Rinviando alla lettura della
sentenza in dispensa per quanto riguarda le ragioni per cui tale disciplina è stata ritenuta conforme al richiamato principio costituzionale, non
si può non evidenziare un contrasto tra quanto assunto dal giudice delle
leggi, per cui la regola della retroattività della legge più favorevole non
ha rilevanza costituzionale e per cui la sua deroga è possibile in conformità al principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), e quanto assunto dalla
Corte Europea. Si è visto infatti che quest’ultima, con il recente arresto
del 17.9.2009, ha sancito la valenza di principio fondamentale proprio del
principio della retroattività della legge più favorevole, al quale dunque,
stante il carattere sovraordinato della CEDU, deve sottostare anche il
legislatore interno. Ne discende che le deroghe a tale ultimo principio ritenute possibili dalla Corte Costituzionale in conformità al principio di ragionevolezza sembrano cozzare con la perentorietà di quanto affermato
dalla Corte Europea circa la necessarietà del principio della retroattività
della legge più favorevole.
A livello internazionale il principio delle retroattività della norma più
favorevole é consacrato nell’art. 15, n. 1, terzo periodo del “Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici” adottato a New
York il 16.12.66, ratificato e reso esecutivo in Italia con l. 25 ottobre
1977 n. 881, il quale stabilisce che: «Nessuno può essere condannato
per azioni od omissioni che, al momento in cui venivano commesse, non
costituivano reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Così pure non può essere inflitta una pena superiore a quella applicabile
al momento in cui il reato sia stato commesso. Se, posteriormente alla
commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più
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lieve, il colpevole deve beneficiarne». Tale disposizione è stata traslata
nell’art. 49, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre del 2000, che quindi, ancorché
non definitivamente approvata da tutti gli Stati membri e pertanto non
ancora vincolante, consacra anch’essa il principio di retroattività della
legge più favorevole.
Riguardo al Patto di New York la Corte Costituzionale ha sostenuto che
le sue previsioni non possono essere assunte come parametri nel giudizio
di costituzionalità delle leggi interne, sicché non si può trarre l’illegittimità costituzionale di una norma interna in contrasto con una disposizione
del Patto, come quella che sancisce il principio di retroattività in discussione, ma solo un’interpretazione adeguatrice (Corte Cost., 23.11.2006,
n. 393). Inoltre, nessuna forza cogente, ma soltanto orientativa, può essere attribuita alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
poiché, come detto, non ancora approvata da tutti gli Stati membri.
Infine, va menzionato l’art. 6, comma 2, del Trattato sull’Unione Europea (nel testo risultante dal Trattato sottoscritto ad Amsterdam
il 2 ottobre 1997 e ratificato con la legge 16 giugno 1998, n. 209). Tale
articolo prevede che «L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono
garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e
quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri,
in quanto principi generali del diritto comunitario». Secondo la costante
interpretazione della Corte di Giustizia delle Comunità Europee siffatti
diritti fondamentali sono parte integrante dei principi generali del diritto
che essa garantisce. In particolare, si ritiene che nel diritto comunitario trovi piena cittadinanza anche il principio dell’applicazione retroattiva
della legge più favorevole al reo quale principio riconosciuto negli ordinamenti dei vari Stati membri (illuminati risultano le affermazioni contenute nella sentenza del 3 maggio del 2005 C-387/02, ad avviso della
quale: «secondo una giurisprudenza costante, i diritti fondamentali costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto di cui la Corte
garantisce l’osservanza. A tal fine, quest’ultima si ispira alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e alle indicazioni fornite dai trattati
internazionali in materia di tutela dei diritti dell’uomo, cui gli Stati membri
hanno cooperato o aderito. Orbene, il principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite fa parte delle tradizioni costituzionali comuni degli
Stati membri. Ne deriva che tale principio deve essere considerato come
parte integrante dei principi generali del diritto comunitario che il giudice
nazionale deve osservare quando applica il diritto nazionale adottato per
attuare il diritto comunitario»).
Emerge dunque come a livello di fonti internazionali, ma ancor più comunitarie, accanto al principio di divieto di applicazione retroattiva della
legge incriminatrice, trova spazio il principio di applicazione retroattiva
della legge più favorevole, poiché, quand’anche la disposizione normativa
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volta per volta considerata non preveda espressamente l’ulteriore garanzia della retroattività in melius della legge penale o addirittura escluda
tale retroattività, è il diritto comunitario a sottolineare la necessità del
suo riconoscimento.
3. La successione di leggi penali nel tempo e l’attività interpretativa della
giurisprudenza: il fenomeno della “retroattività occulta” al vaglio dei
giudici sovranazionali
Come già esposto, l’art. 2 c.p. disciplina, a livello di legge ordinaria, la
successione delle leggi penali nel tempo. Le disposizioni di cui al citato
articolo prevedono (ad eccezione che per le leggi di cui al quinto comma)
essenzialmente due regole ispirate al favor rei: quella della irretroattività
della legge sfavorevole, regola di valenza costituzionale (cfr. art. 25, co.
2, Cost), e quella della retroattività della legge favorevole. Tale ultima regola, a differenza della prima, secondo i più, non ha copertura costituzionale, sicché la sua introduzione nel nostro ordinamento è stata una libera
scelta del legislatore ordinario.
In particolare, il primo comma dell’art. 2 c.p. prevede il fenomeno
della nuova incriminazione, ossia dell’introduzione di una nuova figura di reato ovvero dell’estensione della portata precettiva di una norma
incriminatrice già esistente, e sancisce la regola della irretroattività della
legge sfavorevole.
Il secondo comma del medesimo articolo contempla il fenomeno
della abolizione di una norma incriminatrice (cd. abolitio criminis),
che comporta una deroga al principio processuale dell’intangibilità del
giudicato, nel senso che la condanna definitiva per il reato abrogato viene meno. Tale comma contempla la regola della retroattività della legge
favorevole.
Il quarto comma riguarda il fenomeno della successione di leggi
modificative, nel senso che il fatto continua ad essere considerato come reato, senza alcuna variazione della fattispecie astratta ovvero con
delle modifiche non essenziali, anche se muta la disciplina sanzionatoria.
In questo comma convivono la regola della irretroattività della legge sfavorevole, non potendo essere applicata retroattivamente la modifica sfavorevole, e la regola della retroattività della legge favorevole, dovendo
applicarsi retroattivamente la modifica più favorevole. In tal caso resta
fermo il giudicato di condanna, ad eccezione dell’ipotesi di cui al nuovo
comma 3 dello stesso articolo.
Dunque, nel nostro ordinamento vige il divieto di applicare retroattivamente una nuova incriminazione ovvero un trattamento sanzionatorio
penale più severo. Tuttavia, accade talvolta che il mutamento in malam
partem di fattispecie penali sia l’effetto dell’attività interpretativa della
giurisprudenza che considera come reato, in base ad una diversa inter-
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341-bis c.p. risponderà di ingiuria aggravata, essendo questa punita meno gravemente della nuova figura di oltraggio (art. 2, co. 4, c.p.).
Tuttavia, essendo l’ambito di operatività della nuova norma incriminatrice (come visto, speciale) più ristretto di quella precedente (come
detto, generale), se il fatto commesso anteriormente all’introduzione
dell’art. 341-bis c.p. non rientra esattamente nell’ambito di operatività
della norma ivi prevista (ad es. perché non commesso in un luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone) si deve ritenere che,
limitatamente a tale fatto, vi sia un’abolitio criminis (art. 2, co. 2, c.p.).
8. Il fenomeno del cd. innesto normativo: rapporti tra il delitto di appropriazione indebita ed il delitto di infedeltà patrimoniale, anche al di là
della successione tra le due norme
Si è parlato nel secondo paragrafo del fenomeno del cd. innesto normativo e si è visto che esso si è verificato con l’introduzione del reato di infedeltà patrimoniale ex art. 2634 c.c. rispetto al reato di appropriazione
indebita di cui all’art. 646 c.p.
Il rapporto tra tali reati viene in rilievo rispetto alle condotte degli amministratori di società che utilizzino illecitamente riserve di denaro extrabilancio, costituite appositamente, per distrarle, a danno della società, in
favore di terzi per scopi illeciti o comunque estranei alle finalità sociali. La
giurisprudenza prima dell’entrata in vigore dell’art. 2634 c.c., introdotto
dal d. lgs. n. 61/2002, riteneva in via prevalente che tali condotte integrassero gli estremi del reato di appropriazione indebita, interpretando
estensivamente la relativa norma e facendovi così rientrare anche la condotta di distrazione appartenente come specie al genere appropriazione
(chi distare si comporta uti dominus senza esserlo ed ciò che la norma
sull’appropriazione indebita sanziona).
Con l’entrata in vigore dell’art. 2634 c.c. si è dunque verificato un innesto normativo, poiché da un lato, per il futuro, le condotte sopra descritte confluiranno nel reato di infedeltà patrimoniale, e dall’altro il reato
di appropriazione indebita continua ad operare anche se dal suo ambito
sono state sottratte, senz’altro per il futuro, le predette condotte. Non c’è
dubbio che la fattispecie di infedeltà patrimoniale sia speciale rispetto a
quella generale di appropriazione indebita. Gli elementi che la caratterizzano sono: il fatto che è un reato proprio degli amministratori, che è necessario un conflitto di interessi cui deve seguire il compimento diretto di
un atto di disposizione o la partecipazione alla deliberazione di un tale atto, che deve sussistere l’evento del danno patrimoniale alla società, che è
necessario il dolo specifico oltre al dolo intenzionale.
La Suprema Corte ha affermato il carattere speciale del nuovo precetto penale e, nel comparare i due disposti ha sostenuto che “il reato
di infedeltà patrimoniale di cui all’art. 2634 c.c., introdotto dal d. lgs. 11
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aprile 2002, n. 61, ha carattere speciale rispetto al reato di appropriazione indebita previsto dall’art. 646 c.p. che, proprio per la sua natura
generica, è inidoneo a tutelare il patrimonio societario dagli abusi degli
amministratori, ed oggi anche dei direttori generali e dei liquidatori. Ne
consegue che, per effetto dell’entrata in vigore della nuova disciplina sui
reati societari, non possono ritenersi depenalizzati i fatti appropriativi
commessi in precedenza (nella specie per finanziare illecitamente partiti
politici) sulla base della mera aspettativa che quegli stessi fatti fossero
finalizzati a procurare un vantaggio per la società” (Cass., n. 38110/2003,
in dispensa; per Cass. 13 luglio 2004, n. 30546 il reato di appropriazione
indebita e quello di infedeltà patrimoniale, introdotto dal d.lgs. 11 aprile
2002 n. 61, modificativo dell’art. 2634 c.c., si pongono in rapporto di specialità reciproca, in quanto il citato art. 2634 c.c. configura un reato proprio dell’amministratore, direttore generale o liquidatore e, sotto il profilo oggettivo, richiede un qualsiasi danno patrimoniale per la società, non
necessariamente consistente nell’appropriazione di beni da parte dell’autore del fatto, e sul piano soggettivo prevede, in alternativa all’ingiustizia
del profitto perseguito, il fine di conseguire «altro vantaggio » così estendendo l’ambito di punibilità: fattispecie in cui la Corte ha confermato l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che aveva respinto l’istanza di revoca
della sentenza di condanna per il reato di appropriazione indebita aggravata, formulata dalla difesa sull’assunto dell’intervenuta abolitio criminis
del reato di cui all’art. 646 c.p. a seguito dell’introduzione, ad opera del
D.L.vo 61/2002, modificativo dell’art. 2634 c.c., del reato di infedeltà patrimoniale, norma penale successiva piú favorevole in rapporto di specialità con la norma generale).
Muovendo dall’esistenza di un tale tipo di rapporto tra le due norme, si
devono tenere distinte due ipotesi: a) l’ipotesi in cui il fatto è stato commesso prima dell’entrata in vigore dell’art. 2634 c.c., e, in tale evenienza, distinguere ulteriormente tra l’ipotesi in cui il fatto rientra sia nella
vecchia che nella nuova previsione ritenuta speciale, poiché sussisto gli
elementi specializzanti, da quella in cui la fattispecie pur posta in essere
sotto il vigore della norma generale difetta degli elementi specializzanti
di quella (nuova) speciale; b) l’ipotesi in cui il fatto sia stato posto in essere già nella vigenza dell’art. 2634 c.c.
Nell’ipotesi sub a), nel primo caso appare corretto ritenere, come ha
fatto la Cassazione con la predetta sentenza, che non vi sia stata un’ abolitio crimins, ma che operi la norma più favorevole ex art. 2, co. 4, c.p.
Più problematico è invece il secondo caso in cui la fattispecie di infedeltà patrimoniale è stata commessa prima dell’introduzione del reato
di nuovo conio, ma è priva degli elementi specializzanti di quest’ultimo.
In questo caso, applicando il criterio della specialità (per aggiunta) tra
le due norme (si è già riferito che dall’esame delle due disposizioni in discussione l’art. 2634 c.c. contiene degli elementi specializzanti rispetto
all’art. 646 c.p.) non si può ritenere, come hanno fatto le Sezioni Unite del
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26.3.2003, n. 25887, con riferimento al reato di bancarotta fraudolenta
impropria, che vi sia una limitata continuità normativa e dunque l’abrogazione parziale di tutti quei fatti che, pur rientrando nella norma generale
venuta meno, sono privi degli elementi specializzanti, in quanto l’area di
punibilità riferibile alla norma generale precedente viene ad essere circoscritta dalla norma speciale successiva. Invero, nel caso in esame non
si è verificata neppure un’abrogazione parziale, poiché le fattispecie che
non rientrano esattamente nel nuovo art. 2634 c.c. continuano ad essere
punite ex art. 646 c.p. che, lo ricordiamo, è norma generale.
Tuttavia, una parte della dottrina ha sostenuto che siffatta soluzione
contrasta con l’intenzione del legislatore di circoscrivere con esattezza
la condotta tipica dell’infedeltà patrimoniale, prevedendo un’apposita e
precisa norma, e che la stessa darebbe vita ad una soluzione irragionevole, poiché se si ritiene che i fatti che vanno al di fuori dell’art. 2634 c.c.
rientrano nell’art. 646 c.p., ricorrendo l’ipotesi aggravata di cui all’art.
61, n. 11, c.p., tali fatti, meno gravi, sarebbero procedibili d’ufficio ex art.
646, comma 2, c.p., mentre quelli più gravi che rientrano nella prima norma (perché realizzati in conflitto di interessi e con causazione di danno
patrimoniale intenzionale alla società) sarebbero procedibili a querela.
Nell’ipotesi sub b) ovviamente non viene in rilievo un problema di successione di leggi nel tempo visto che il fatto è stato commesso nell’attuale vigenza delle due norme incriminatici. Si tratta, pertanto, di stabilire
quale tra le due norme debba applicarsi (si rinvia all’apposita lezione la
trattazione del tema del concorso apparente di norma incriminatici). La
Suprema Corte, in questo ambito, ha sostenuto che le due norme incriminatici sono in rapporto di specialità reciproca. L’infedeltà patrimoniale
tipizza la necessaria relazione tra un preesistente conflitto di interessi,
con i caratteri dell’attualità e dell’obiettiva valutabilità, e le finalità di profitto o altro vantaggio dell’atto di disposizione, finalità che si qualificano in termini di ingiustizia per la proiezione soggettiva del preesistente
conflitto. L’appropriazione indebita presenta caratteri di specialità per la
natura del bene (denaro o cosa mobile), che solo ne può essere oggetto, e per l’irrilevanza del perseguimento di un semplice “vantaggio” in
luogo del “profitto”. L’ambito di interferenza tra le due fattispecie è dato
dalla comunanza dell’elemento costitutivo della “deminutio patrimonii” e
dell’ingiusto profitto, ma esse differiscono per l’assenza nell’appropriazione indebita di un preesistente ed autonomo conflitto di interessi, che
invece connota l’infedeltà patrimoniale. La Corte ha, dunque, ritenuto
che ove non ricorra l’ipotesi di cui all’art. 2634 c.c. per mancanza nel fatto appropriativi dell’amministratore di uno dei suoi elementi specializzanti, ricorrerà il reato di cui all’art. 646 c.p. (Cass. 40921/2005).
In dottrina, pur aderendo alla soluzione proposta dalla Cassazione, si
è osservato che più che di specialità reciproca tra le due norme ricorre un
rapporto di eterogeneità, nel senso che ciascuna copre un’area autonoma di illiceità penale.
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Si è anche ritenuto che, in realtà, nel caso in cui manchino gli elementi
specializzanti propri della fattispecie di cui all’art. 2634 c.c. (ed, in particolare, il conflitto di interessi dell’amministratore), non ricorre alcun illecito penale poiché ragionando diversamente si arriverebbe all’irragionevole conclusione che un fatto meno grave (appropriazione patrimoniale
in assenza di conflitto di interessi o senza l’intenzione di causare un danno patrimoniale intenzionale alla società) sarebbe procedibile d’ufficio ex
art. 646, comma 2, c.p. (ricorrendo l’ipotesi aggravata di cui all’art. 61, n.
11, c.p.), mentre quello più grave (ove cioè vi sia un conflitto di interessi
con causazione di danno patrimoniale intenzionale alla società) sarebbe
procedibile a querela, applicandosi l’art. 2634 c.c. (si tratta delle stesse argomentazioni viste in precedenza per negare l’ultravigenza dell’art.
646 c.p.).
9. Successione di leggi nel tempo e reato permanente: il reato di cui
all’art. 14, comma 5-ter del d.lgs. n. 286/1998
Il reato permanente si caratterizza per il fatto che l’offesa al bene giuridico tutelato perdura a causa del persistere della condotta del soggetto
attivo. Dunque, il reato permanente dura nel tempo e cessa solo nel momento in cui viene meno la situazione antigiuridica quale effetto del venir
meno della condotta dell’agente (si pensi al sequestro di persona ovvero
all’associazione per delinquere).
Attesa l’unitarietà del reato permanente, il tempus commissi delicti,
ai fini dell’individuazione della norma incriminatrice da applicare, è quello
in cui cessa la permanenza, poiché è solo in tale momento che viene meno la carica lesiva della condotta. Pertanto, se nel perdurare della situazione antigiuridica, ossia tra l’inizio e la fine del reato permanente, viene
modificata la norma incriminatrice che lo sanziona non si è in presenza di
un fenomeno di successione di leggi penali, atteso che solo nel momento
della consumazione del reato permanente va individuata la norma da applicare (la norma di cui all’at. 2, co. 4, c.p. parla infatti di reato “commesso”, da intendersi come consumato). Un fenomeno successorio sussiste
ovviamente qualora la norma che prevede un siffatto tipo di reato venga
modificata dopo il suo esaurimento.
Tali principi sono stati di recente ribaditi dalla Suprema Corte con riferimento al reato di cui all’art. 14, comma 5-ter del d.lgs. n. 286/1998,
qualificato come reato permanente la cui condotta inizia decorsi 5 giorni
dall’ordine di espulsione emesso dal Questore e fino a quando l’extracomunitario non abbandona il territorio o viene arrestato. Pertanto, la nuova disposizione contenuta in tale comma (quella introdotta dalla legge
n. 271/2004) che ha trasformato il reato da contravvenzione in delitto,
richiedendo la condotta dolosa e reintroducendo l’obbligatorietà dell’arresto, va applicata a tutti i casi in cui la condotta non fosse già cessata
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Lezione P2
prima dell’entrata in vigore della nuova disposizione (quella introdotta
dalla suddetta legge n. 271/2004), ossia in tutti i casi in cui lo straniero
destinatario dell’ordine di allontanamento del Questore venga trovato nel
territorio dello Stato italiano (cfr. Cass. 10.11.2005).
Con tale decisione la Cassazione ha pure sostenuto la continuità normativa tra la precedente versione dell’art. 14, co. 5-ter, e la nuova, cioè
quella introdotta dalla legge n. 271/2004, ribadendo, come già fatto in
altre occasioni con riferimento ad altre ipotesi di criminose (come per
l’omessa dichiarazione ex art. 5 del d.lgs. 74/2000 ovvero per le false
comunicazioni sociali), che la modifica della natura del reato, da contravvenzione in delitto, non fa venite meno la continuità normativa tra
la vecchia e la nuova norma evincibile dalla struttura delle due norme,
pressoché identica.
10. Successione di leggi nel tempo e reato abituale: il reato di stalking
A proposito dei reati abituali, che si caratterizzano per la reiterazione
nel tempo di condotte analoghe o della stessa specie (ad esempio, i maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli di cui all’art. 572 c.p.), secondo
l’opinione dominante è decisivo per l’individuazione del tempus commissi delicti il momento in cui il reato si perfeziona, ossia viene in essere, il
che accade quando si compie l’atto che, unito al precedente, conferisce
la particolare rilevanza giuridica agli episodi. Pertanto, secondo taluni,
allorché intervenga una legge che introduca una nuova disciplina sanzionatoria del reato abituale, essa dovrà applicarsi soltanto alle condotte
poste in essere nella sua vigenza, purché le stesse abbiano già concretato il reato abituale. In tal modo si ha una scissione del reato abituale ai
fini punitivi.
Secondo altri autori, invece, in ossequio all’unitarietà dl reato abituale
(figura che deroga a quella del concorso di reati per i singoli episodi delittuosi qualora costituiscano già autonomamente reato), è rilevante l’ultima condotta espressiva del reato abituale, anche perché fino a questo
momento la norma penale continua ad esercitare la sua funzione deterrente.
Nel caso in cui viene introdotta una norma incirminatrice che prevede
ex novo un reato abituale (si pensi a quella di cui all’art. 612-bis c.p. sullo
stalking) è da chiedersi se le condotte antecedenti l’entrata in vigore della norma possano essere prese in considerazione ed utilizzate per ritenere sussistente il reato abituale.
In dottrina, l’orientamento prevalente ritiene che nel caso di successione di norma creatrice di una nuova tipologia di illecito abituale potranno essere ricondotte entro la nuova disciplina solo le fattispecie concrete
realizzate sotto la sua vigenza, se complete sotto il profilo costitutivo,
senza possibilità di cumulo con le condotte anteriori, salvo incorrere, di-
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LEZIONI E SENTENZE DI DIRITTO PENALE – PARTE GENERALE
versamente, nell’applicazione retroattiva della norma creatrice del reato abituale. Tale orientamento si riferisce senz’altro al reato abituale c.d.
proprio, laddove la norma di nuova creazione considera reato la reiterazione di condotte che, se isolatamente valutate, possono anche non avere rilevanza penale. Nel caso di reato abituale c.d. improprio, ove i singoli
atti, di per sé, possono costituire autonome figure di reato, la soluzione
dovrebbe essere la stessa, salvo considerare l’autonoma rilevanza penale delle singole condotte penalmente illecite poste in essere.
Diversamente, in tema di stalking (che è un reato abituale improprio,
poiché l’art. 612-bis c.p. considera reato condotte che generalmente costituirebbero, anche se isolatamente valutate, illecito penale, come minaccia, molestia, ingiuria, violenza privata, ecc.) qualche pronuncia di
merito, emessa in sede cautelare, si è orientata nel qualificare sotto l’art.
612-bis c.p. anche condotte persecutorie realizzate sia prima che dopo
l’entrata in vigore della stessa, non ravvisando contrasti con il divieto di
irretroattività della nuova fattispecie, sostanzialmente sulla base dell’assunto secondo cui essa, in quanto reato abituale, è da ritenersi applicabile anche se solo una parte della condotta sia stata posta in essere dopo
l’entrata in vigore della norma meno favorevole (Trib. Pistoia n. 2651/09;
Trib. Pistoia, n. 607/08).
11. Successione di leggi nel tempo e misure di sicurezza: la compatibilità
della disciplina nazionale con la CEDU
La nostra Costituzione ha recepito il sistema del c.d. doppio binario, contemplando, accanto alle pene propriamente dette, apposite misure di sicurezza specialpreventive da irrogarsi sul duplice presupposto della commissione di un reato o di un quasi-reato e della pericolosità sociale del
suo autore. Nel sancire che “nessuno può essere sottoposto a misure di
sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”, l’art. 25, comma 3, Cost.,
costituzionalizza, anche con riguardo alle misure di sicurezza, il principio
di riserva di legge, che, a livello legislazione ordinaria, è previsto negli
artt. 199 e 236 c.p.
La Carta fondamentale non contiene per contro alcun espresso riferimento al principio di irretroattività. Ciò nonostante, la dottrina pressoché
unanime esclude che il costituente abbia inteso sottrarre le predette misure all’applicazione di un principio centrale nel moderno stato di diritto.
Infatti, la ratio garantista ad esso sottesa induce a ritenere che non solo
le pene stricto sensu intese ma anche le misure di sicurezza siano inapplicabili in relazione a condotte che al tempo del commesso reato non
erano penalmente rilevanti. Analogamente, in ossequio all’art. 2, co. 2
c.p., non potrà applicarsi una misura di sicurezza ad un fatto reato che
sia stato abolito in forza di una legge entrata in vigore successivamente
alla sua commissione.
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Schema di svolgimento P2
TRACCIA P2
La successione di leggi nel tempo in materia di misure di sicurezza, anche alla
luce dell’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali.
SCHEMA DI SVOLGIMENTO
– Descrivere il sistema del c.d. doppio binario esistente nel nostro ordinamento,
distinguendo tra pene e misure di sicurezza (v. anche art. 25 Cost.).
– Enunciare nozione e caratteri della misura di sicurezza e distinguere tra quelle
personali e quelle reali.
– Analizzare l’art. 200 c.p. Fare riferimento alla tesi tradizionale per cui tale articolo consente di applicare una misura di sicurezza anche a reati o quasi-reati per i
quali non era inizialmente prevista alcuna misura ovvero era prevista una misura diversa, salva la sussistenza di una norma che preveda il fatto come reato al
momento in cui viene applicata la misura di sicurezza.
– Fare riferimento alla tesi minoritaria più garantista che, muovendo dal carattere afflittivo di talune misure di sicurezza sia personali che reali, ritiene che le
misure di sicurezza sono assoggettate al vincolo di irretroattività ex art. 2 c.p.
non solo in relazione al profilo della norma incriminatrice, ma anche in relazione
a quello del tipo e della durata della misura stessa. Pertanto, l’art. 200 c.p. deve
essere interpretato in maniera restrittiva, nel senso di riferirsi alla sola eventualità nella quale possano mutare le leggi che regolamentano la mera modalità
esecutiva di una misura di sicurezza, già però legislativamente prevista al momento della commissione del fatto.
– Tale tesi è oggi suffragata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo per cui le misure di sicurezza personali che hanno carattere restrittivo
della libertà personale, e talune di quelle reali, come la confisca, ex art. 7 CEDU
hanno natura di “sanzione penale” e come tali soggette in toto al principio di irretroattività della legge sfavorevole, desumibile dal predetto articolo (esaminare i
criteri elaborati dalla Corte europea per qualificare come penale ex art. 7 cit. un
a data misura personale o patrimoniale).
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