Postmodernità e educazione
Cristian Celaia
Università degli Studi Roma Tre
Department of Education
Via Manin, 53 - 00185 Roma
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1. Dalla torre al Partenone
Un sistema filosofico, ci dice il filosofo analitico
Nozick, assume spesso la forma di una torre1: da pochi
principi di base, che si presentano come assiomi intuitivamente fondati, si deducono tutta una serie di enunciati e di concezioni filosofiche che restano validi finché
non si riesce a dimostrare la parzialità o l’erroneità dei
primi principi. Una volta crollata la base, il sistema si
sgretola e della costruzione maestosa resta ben poco. Alla
torre, ossia alla filosofia, “fondazionalista”, Nozick contrappone il Partenone, una struttura architettonica che si
regge su tante colonne, ossia su molteplici intuizioni filosofiche che, collegandosi tra loro, sorreggono, a loro volta, un architrave di principi o temi generali. In questo caso, se anche una parte della struttura crollasse, resterebbe
ancora qualcosa di bello e di interessante.
Il cambio di paradigma implica il passaggio dalla
filosofia, intesa come coercizione, alla filosofia intesa
come spiegazione. Infatti un filosofo, in ultima analisi,
1
Cfr. R. Nozick, Spiegazioni filosofiche, Milano, Il Saggiatore, 1987.
EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, IV, 1 (2015), pp. 69-90.
ISSN 2280-7837 © 2015 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
DOI: 10.14668/EDUCAZ_4105
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è un costruttore di argomenti, e un argomento è tanto
più solido quanto più è inattaccabile dal punto di vista
dell’inferenza logica e della solidità concettuale o empirica. In questo caso l’interlocutore, se non vuole essere accusato di irrazionalismo, è obbligato, suo malgrado, ad essere d’accordo e ad accettare l’argomentazione.
La costrizione nasce dal rapporto che si crede di stabilire
con la “verità”, ossia dalla presunzione che la nostra argomentazione abbia i caratteri assoluti dell’oggettività e
della stabilità.
La “verità”, però, è qualcosa di estremamente aleatorio, e la riflessione filosofica attuale (ermeneutica, decostruttivismo, epistemologia post-popperiana, post-modernismo) ha espresso con forza il sospetto verso questa
categoria, e ha evidenziato la pluralità, la debolezza e la
storicità di ciò che si indica con questo termine. Inoltre,
obbligare qualcuno ad essere d’accordo appare più un atto violento di dominio che una possibilità di edificazione
personale. Da qui la proposta di Nozick di rinunciare alla filosofia fondazionale e di proporre, invece, delle
spiegazioni filosofiche in grado di fornire ragioni convincenti a sostegno di un certo punto di vista, che non
si presenta, però, come univoco, ma come tentativo di
coinvolgere l’interlocutore nella ricerca.
Come si vede, si tratta di un intento pedagogico
che mira alla formazione e all’edificazione della persona. La pedagogia, del resto, si presenta già con questo
carattere di problematicità e di storicità dei suoi assunti. Infatti, la pedagogia come sapere assomiglia molto
di più al Partenone che alla torre, perché ha un assetto
multi-paradigmatico e interdisciplinare, e trae molte
delle sue categorie, ossia delle sue colonne portanti, da
diverse discipline (filosofia, scienza, scienze sociali,
politica). Anzi, il problema per la pedagogia è stato, ed
è tuttora, quello di trovare un suo specifico status epi70
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stemologico e disciplinare capace di garantirne la sopravvivenza come branca autonoma del sapere2.
Dal secondo dopoguerra ad oggi, però, il tentativo
di rendere la pedagogia una scienza ha concorso, di fatto,
alla dissoluzione della disciplina nelle altre scienze sociali di più affermata tradizione (sociologia, psicologia sociale), oppure ha prodotto la sua frammentazione in
una molteplicità di scienze dell’educazione il cui orizzonte limitato e il tecnicismo spinto ne hanno depotenziato la portata e la complessità. Si è tentato perciò, per
converso, di ricondurre la pedagogia alla filosofia. Tuttavia, tale tentativo se da un lato ha riaffermato il carattere critico e dialettico del discorso pedagogico, volto
all’emancipazione del singolo e della società, tramite
lo smascheramento dell’ideologia e la prefigurazione
di una società rinnovata e più giusta (utopia), dall’altro
ha eliminato quelle componenti tecniche e scientifiche
che hanno consentito alla pedagogia di rivendicare la
propria autonomia nei confronti della stessa filosofia.
In questo contesto, perciò, ritengo non inutile cercare di chiarire il rapporto della pedagogia con il post-moderno, ossia con quei cambiamenti socio-culturali che
hanno caratterizzato l’Occidente negli ultimi trent’anni e,
in maniera più specifica, con quella corrente filosofica
che più di altre sottolinea l’impossibilità della fondazione
ultima di ogni sapere3. Infatti, i post-modernisti, pur nell’ambito di una pluralità di posizioni, riconoscendo l’inconsistenza dei grandi racconti e l’eteromorfia dei giochi
linguistici, esprimono la loro sfiducia nei confronti dei
2
Cfr., in proposito, F. Mattei, Discorso pedagogico e riflessione
epistemologica, in «Educazione. Giornale di pedagogia critica», I
(2012), n. 1, pp. 7-27.
3
Cfr. F. Mattei, Sapere pedagogico e legittimazione educativa,
Roma, Anicia, 20032, soprattutto il cap. 1: Sapere pedagogico e (de)legittimazione educativa.
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macro-saperi totalizzanti e abbandonano l’idea di una
legittimazione forte a favore di forme deboli di razionalità, ma soprattutto, dissolvendo la categoria del
nuovo, rinunciano a concepire la storia come progresso
e come una totalità significante universale.
2. «Il congegno del discorso pedagogico»
Le categorie pedagogiche che possono essere indicate come “colonne” del discorso pedagogico sono molteplici4 ma, oltre al concetto comprendente di formazione,
prenderò in considerazione solo i tre vettori della scienza,
dell’ideologia e dell’utopia, ossia gli “ambiti” del discorso pedagogico che, secondo F. Cambi, nel loro reciproco rapportarsi, costituiscono il «congegno interno del
discorso pedagogico»5.
Infatti, alla metà degli anni Ottanta, Cambi proponeva un modello metateorico-ermeneutico6 allo scopo
di dotare la pedagogia di uno strumento di controllo
che, agendo retroattivamente sulla teorizzazione, fosse
in grado non solo di ispirare la progettazione didattica
e di guidare la pratica educativa, ma anche, e soprattutto, di riconoscere la specificità della pedagogia e il suo
costituirsi come sapere autonomo retto da precise cate4
Ad esempio: i concetti della tradizione classica Paideia e humanitas, il corrispettivo del Romanticismo tedesco Bildung, i termini
cura e intenzionalità tratti dall’esistenzialismo e dalla fenomenologia,
la diade didattica insegnamento-apprendimento, il termine persona di
derivazione cristiana con le sue molteplici rielaborazioni laiche.
5
Cfr. F- Cambi, Il congegno del discorso pedagogico. Metateoria ermeneutica e modernità, Bologna, Clueb, 1986.
6
La metateoria è un’indagine di secondo livello sugli stessi processi di teorizzazione, condotta sia sul versante epistemologico, logico-scientifico e metodologico, sia su quello storico-ermeneutico e critico-dialettico. Cfr. F. Cambi, op. cit.
72
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gorie portanti. In questo modo Cambi, eleggendo Kant
e Antonio Banfi (lo strutturalismo, il neokantismo e la
fenomenologia in genere) quali precursori della metateoria, suo malgrado si faceva sostenitore di un punto di vista fondazionale e “trascendentale” che, avendo come
obiettivo la ricerca delle strutture a-priori di un qualche
evento mentale e/o fenomeno, attraverso il “congegno”
interno del discorso pedagogico tentava di ridefinire il
senso complessivo, i compiti specifici, l’oggetto e i fini
propri della pedagogia7.
Scienza, ideologia e utopia perciò, per quanto storicamente determinatesi e soggette al gioco ermeneutico
dell’interpretazione continua, agiscono, secondo Cambi, come «categorie trascendentali» o come «vettori eidetico-fenomenologici (quasi)-invarianti» che, sia sul
piano teorico sia su quello storico, sono elementi imprescindibili del fare pedagogia. Infatti la pedagogia è
scienza, perché deve fondare le sue asserzioni sulla
“verifica” e su precise metodologie condivise e validate,
ma è anche ideologia, perché agisce per trasmettere al
soggetto le strutture concettuali e valoriali dell’agire
sociale, ossia mira all’integrazione socio-culturale, professionale e politica in un determinato contesto storico
e nazionale. Infine la pedagogia è anche, sempre, utopia, perché si confronta con ciò che “non è ancora” e
con il progetto (individuale e sociale) di un mondo migliore8.
La scienza tempera la valenza ideologica della pedagogia perché, affidandosi alla verifica empirica, al
7
Cambi, sottolineando l’impianto ermeneutico del suo modello,
assegna a trascendentale un significato fenomenologico e non fondativo o ontologico. Tuttavia, visti i riferimenti a Kant e allo strutturalismo, l’uso del termine risulta ambiguo. Cfr. F. Cambi, op. cit.
8
Cfr. F. Mattei, Science, epistemology, ideology, in «I problemi
della pedagogia», LVII (2011), nn. 4-6, pp. 57-79.
73
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posto del principio di autorità e della efficacia sociale
pone il principio del rigore logico-empirico e la necessità di una fondazione razionale. Così l’ideologia, ossia l’asservimento della pedagogia agli interessi socioeconomici e politici, perde il suo primato e viene spinta al
margine della riflessione pedagogica, almeno nelle sue
forme degeneri, che si declinano in varie tipologie di
ideologismo. L’utopia si contrappone all’ideologia e
alla scienza mostrandone l’orizzonte ristretto, quindi le
supera guardando criticamente oltre il loro “esser-difatto”. Utopia e scienza, tuttavia, tendono a incorporare il carattere autoritario e retorico dell’ideologia, finendo per presentarsi come tutta la pedagogia.
Le tre categorie perciò, trovandosi in un rapporto
di opposizione dialettica e di complementarità, vanno
pensate insieme, pena la riduzione della pedagogia a
ricette semplicistiche e unilaterali. Il rapporto circolare
e dinamico dei tre vettori pedagogici, però, non si sviluppa solo sul piano teorico-critico, ma anche, e soprattutto,
su quello storico. Infatti la pedagogia moderna struttura i
suoi paradigmi9 e si definisce in rapporto ad essi. Inoltre, anche le “rotture” della pedagogia contemporanea
sembrano seguire queste stesse dimensioni categoriali:
negli anni Sessanta attraverso il riconoscimento della
centralità della scienza e il tentativo di rendere scientifica
la pedagogia; negli anni Settanta mediante lo smascheramento dell’ideologia sottesa ad ogni processo educativo e l’affermarsi dell’utopia come critica dell’esistente;
negli anni Ottanta/Novanta, superato il rischio della riduzione della pedagogia a conoscenza tecnico-didattica
9
Cambi individua cinque paradigmi pedagogici succedutisi nel
corso della storia e ancora attivi nella modernità: metafisico-religioso, socio-politico, antropologico-filosofico, scientifico, epistemologico-metateorico. Cfr. F. Cambi, op. cit.
74
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e a mero uso funzionale della tecnologia, con la riscoperta della dimensione esistenziale dell’evento educativo e il ripresentarsi dell’utopia quale tentativo di realizzare il possibile che “non è ancora”.
3. Categorie pedagogiche e post-modernità
Le categorie del “congegno pedagogico” sono direttamente connesse ai paradigmi della pedagogia moderna e si legano a doppio vincolo alla modernità. Esse
definiscono infatti, propriamente ed esplicitamente, il
“moderno” e non il “post-moderno”. Ma se ciò è vero,
cosa accade in questa fase attuale di crisi che si definisce
come post-moderna? Il congegno è ancora sostenibile o si
avvia al tramonto insieme alla stessa modernità? Che ne è
delle sue categorie portanti? Devono essere sostituite? E
da che cosa? È quindi pensabile un fondamento, per
quanto instabile, per la pedagogia?
Una prima risposta a questi quesiti va ricercata sul
piano concettuale mediante un approfondimento semantico del termine post-moderno. In tal senso, occorre
evidenziare come il prefisso “post”, come sottolineano
i principali esponenti del post-modernismo (Lyotard e
Vattimo), non indica un superamento del moderno. Infatti, una delle categorie espressamente criticate dai postmodernisti è proprio quella della storia come progresso,
ossia di una successione lineare e necessaria degli eventi
verso un fine stabilito di emancipazione o “redenzione”10.
10
Per un orizzonte teoretico sulle conseguenze della narrazione
post-moderna nel discorso pedagogico, e sulla relativa legittimazione
o de-legittimazione educativa, cfr. F. Mattei, Sapere pedagogico e legittimazione educativa, Roma, Anicia, 20032.
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In secondo luogo, il “post” non allude neanche a
una contrapposizione radicale al moderno, perché viene
negata dai post-modernisti la possibilità di una cesura
netta con il passato; anzi, dal loro punto di vista è possibile riscontrare atteggiamenti post-moderni nel moderno e, viceversa, tipicamente moderni nel post-moderno. Il passato non può mai essere annullato, ma può al
massimo essere rinarrato e re-interpretato con ottiche
diverse. Nessuna versione, però, può presentarsi come
vera o definitiva, perché non esiste una “storia universale” intesa come un punto di vista supremo che ingloba tutti gli altri.
In questa prospettiva, i tre vettori individuati da
Cambi, in virtù del loro valore euristico, regolativo e
storico-ermeneutico, anche nel contesto inedito della
post-modernità, costituiscono ancora delle colonne concettuali importanti per l’edificio della pedagogia, sia per
avere ben chiaro il “punto di arrivo” teorico e storico
della disciplina, sia come “punto di partenza” per ogni
trasformazione e revisione successiva.
Tuttavia, già a questo livello di analisi appare insostenibile il residuo fondazionale e trascendentale che
queste categorie ancora possiedono. Ciò apparirà in tutta
la sua evidenza se dall’analisi concettuale si passa a considerare il post-moderno nelle sue manifestazioni esistenziali, come risposta a un senso di “crisi perenne” che si
avverte, oltre che sul piano culturale e gnoseologico, anche in tutti gli ambiti della vita individuale e associata.
Prima di tutto, per meglio chiarire la relazione tra
moderno e post-moderno, va sottolineato come il disincanto sia la categoria principale dell’uno e dell’altro11.
Infatti il termine disincanto, che va inteso in senso an11
Cfr. F. Cambi, Abitare il disincanto. Una pedagogia per il
postmoderno, Torino, Utet, 2010.
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tropologico, e che si connette alla progressiva emancipazione da tutte le certezze e dai miti metafisici (eticopolitici, ontologici), è l’esito ultimo dei processi, strettamente connessi, della secolarizzazione12 e della laicizzazione che, pur essendo fenomeni tipicamente moderni, costituiscono la condicio sine qua non del postmoderno. Entrambi i termini, evidenziando l’uno più il
distacco dalla tradizione, l’altro più l’aspetto dell’innovazione, indicano il processo di progressiva emancipazione dalla concezione sacrale e religiosa dell’uomo e
del mondo. In sostanza, con il moderno si assiste a una
progressiva delegittimazione e relativizzazione nei confronti dei retaggi della tradizione, e una messa in discussione della religio quale principio, modello e fondamento dello stare insieme e quale collante di tutta la
vita sociale, culturale e individuale. Il moderno fa della
sacralità una categoria del reale, ma non l’unica e spesso
non la principale, relegandola in una sfera privata che
viene separata da quella socio-politica e gnoseologica.
Anche il moderno, perciò, si presenta come epoca
del pluralismo, della tolleranza, dell’emancipazione e della progressiva de-sacralizzazione. Tuttavia il post-moderno esaspera questi caratteri, già presenti nel moderno,
e si spinge fino a criticare la nozione stessa di soggetto,
pilastro del trascendentalismo kantiano, ma anche della
riflessione epistemologica successiva; ciò elide qualsiasi
tipo di certezza metafisica e/o scientifica e la possibilità
stessa di rapportarsi ad un genere di verità e conoscenza
che non si configuri come storica ed ermeneutica.
Il “nichilismo”, in questo senso, è l’habitat del
post-moderno, perché è l’esito del disincanto, ossia dei
12
Cfr. F. Mattei, Secolarizzazione ed educazione nel discorso
pedagogico, in M. Muzi (a cura di), Cultura e formazione nella società laica: realtà o utopia?, Roma, Anicia, 2011, pp. 49-72.
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processi di laicizzazione e di secolarizzazione del moderno. Infatti, la perdita della certezza e l’impossibilità
onto-gnoseologica e epistemologica di un “pensiero forte”, garanzia psicologica del permanere del senso, comporta una destabilizzazione sul piano individuale e su
quello sociale che può avere, come già aveva intuito Nietzsche, due esiti opposti: da un lato il nichilismo passivo e
rinunciatario che si traduce in un disimpegno relazionale,
sociale e politico, ossia nell’incapacità dell’individuosoggetto-persona di accettare la sfida del senso nella sua
forma depotenziata e non-consolante; dall’altro il nichilismo attivo, che coglie nel disincanto un’opportunità di libertà, per cui l’individuo, emancipandosi dagli assoluti,
può progettarsi liberamente.
La “nullificazione del senso”, però, non appartiene
tanto all’ambito teoretico, ma si configura come stato di
crisi esistenziale e sociale che costituisce lo stato normale
della nostra contemporaneità e che si associa al processo di de-sacralizzazione della vita, della comunità e
delle sue regole, con il crollo delle “grandi narrazioni”
e il venir meno delle ideologie. Ciò comporta l’acuirsi
di un senso di insicurezza che si connette alle trasformazioni economiche neoliberiste del mondo globale, ai
fenomeni migratori e al senso di precarietà che il sociologo Bauman, ideatore della fortunata espressione
“società liquida”13, ritiene caratterizzi il “cittadino globale” nelle società post-industriali contemporanee. Infatti, entrambe le forme di nichilismo si manifestano
13
Secondo Bauman, mentre le società moderne erano caratterizzate dalla solidità dei principi organizzativi, delle regole sociali, delle
unioni sentimentali, del lavoro, le società post-industriali e tecnologiche
attuali presentano un assetto liquido, in cui si susseguono cambiamenti
molto rapidi in tutte le sfere della vita. Cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, Bari-Roma, Laterza, 2003; Id., La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2009.
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nel paradosso di una società liquida che esalta l’individuo e ne decreta contemporaneamente la crisi, in cui
esiste una dicotomia riscontrabile sul piano sociale e su
quello culturale: tra esaltazione dell’individuo e delle sue
possibilità di costruire liberamente se stesso e la tendenza
all’omologazione e all’anonimato cui inducono la cultura
di massa e il conformismo; tra esistenzialismo e struttural-funzionalismo che evidenziano il contrasto tra io e società; tra ricerca della propria costruzione esistenziale
come unicum e uniformazione al genere attraverso i
processi di socializzazione e condizionamento mediatico.
In questa situazione, in un primo caso può manifestarsi un ritorno all’ideologismo più brutale che, elevando vecchi e nuovi idoli ad assoluti, spesso sfocia in
tentativi violenti di eliminazione dei sostenitori delle
opposte Weltanschauungen e in una concezione pedagogico-educativa eteronoma che, nella coercizione e
nella persuasione retorica, trova i suoi principi metodologici. In un secondo caso, il nichilismo passivo si presenta
come rifiuto preventivo sia dell’istruzione, con le relative
competenze cognitive e professionali che domani potrebbero non essere più utili, sia dell’educazione etico-politica ai valori condivisi dal contesto storico e socio-culturale di appartenenza. La perdita del senso si connette in
questa prospettiva alla ricerca del divertissement e del
godimento immediato, oppure allo stordimento di sé, al
prevalere di atteggiamenti depressivi, abulici o irrazionali, violenti, di contestazione fine a se stessa e di sfida verso i genitori, l’insegnante, la polizia e l’autorità in genere.
Il nichilismo attivo, invece, vede nell’assenza di
verità assolute e di modelli socio-politici preconfezionati una possibilità di realizzazione di sé e di trasformazione dell’esistente in vista di una umanità liberata
e più felice. In questo senso, il disincanto, se non si rinuncia, pur riconoscendone i limiti, all’uso della ra79
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gione e al gioco ermeneutico e democratico del dialogo, diviene una risorsa che ci impegna nella continua
ricostruzione del senso, capace di trasformare il nulla
in una possibilità.
Sul piano pedagogico ciò significa che la formazione nell’epoca post-moderna assume il ruolo di categoria chiave, perché si confronta con la problematicità
della stessa identità personale e del sé, proprio nel
momento in cui il post-moderno riconosce il carattere
aleatorio e incerto del soggetto e ne dimostra l’inadeguatezza quale fondamento epistemologico. La formazione, perciò, non essendoci una natura umana “autentica” che funga da norma cui conformarsi, va intesa come
un processo di costruzione dell’individuo-soggetto-persona, il cui obiettivo (forma) è instabile e plurale, perché risulta sempre suscettibile di cambiamenti. Da ciò
il richiamo al concetto di Bildung, o meglio di una
neo-Bildung, priva di fondamenti trascendentali e assoluti: ossia, priva di una forma (Bild) che sia valida universalmente e data a-priori nel processo educativo, ma che si
caratterizza per la pluralità e la problematicità14.
In ultima analisi, il sospetto e il disincanto, tipici
del post-moderno, ci spingono verso una razionalità a
raggio corto, contingente ed ermeneutica che, pur con tutte le sue limitazioni, sia garante di un processo di emancipazione e di valorizzazione della persona. Le forze che
le si oppongono sono da un lato un dogmatismo di ritorno, che si configura come un guardare nostalgico e
velleitario al passato, dall’altro, una forma nichilista
(passiva) di post-moderno che si preclude la possibilità
di risolvere la crisi attraverso l’uso della ragione, per
quanto depotenziata e relativizzata; per ultimo, una
14
Cfr. F. Cambi, Abitare il disincanto. Una pedagogia per il
postmoderno, cit.
80
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concezione funzionalista e sistemica della società moderna che comporta la rinuncia alla dialettica tra i tre
vettori eidetico-fenomenologici e che, riducendo il discorso pedagogico alla dimensione tecnico-funzionale
e a quella economico-produttiva, perde di vista la persona e qualsiasi progetto di emancipazione.
In questa prospettiva, qualsiasi categoria a-priori
di tipo trascendentale, anche se connotata in senso fenomenologico e pur dichiarandone preliminarmente la
contingenza storica, rischia di essere letta come una
pretesa nostalgica di pervenire a un tipo di conoscenza
fondata, ossia come un tentativo di riproporre, seppure
in forma emendata, un tipo di pensiero forte di cui sempre più, invece, in base alle premesse fortemente antifondazionali e decostruttive del post-moderno, si riconosce l’impossibilità.
4. Decostruzione e principio di speranza
Scienza, ideologia e utopia si connettono alla temporalità e, in modo particolare, alla dimensione futura.
Infatti, l’utopia guarda criticamente al presente e immagina futuri possibili; l’ideologia guarda al passato e al
presente e cerca di perpetuare nel futuro alcuni modelli
che ritiene validi e imprescindibili; la ricerca scientifica
supera continuamente se stessa, e la sua reificazione tecnologica invecchia rapidamente e continuamente.
Ciò significa che i tre vettori si legano alla categoria pedagogica del progetto. Infatti, qualunque teoria
pedagogica o azione educativa, essendo rivolta al cambiamento, assume la forma di un “processo verso”, che
si rivolge sempre a obiettivi (didattici, cognitivi, professionali) e a fini (etici, politici, esistenziali) la cui
realizzazione, pur non essendo garantita, ha maggiori
81
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probabilità di attualizzarsi sotto certe condizioni e in
presenza di un “piano” da seguire.
Vale la pena sottolineare che il progetto si associa
alle categorie dell’intenzionalità, della cura, della formazione e della persona, e che queste categorie si giustificano non tanto sul piano squisitamente teorico, ma si connettono ad una serie di considerazioni che connotano
l’anthropos sul piano esistenziale. Già Heidegger, del resto, aveva definito l’uomo come un progetto gettato che
si caratterizza per il suo essere-nel-mondo, e che ha la
forma del prendersi cura, ovvero della trascendenza e del
progetto; non bisogna dimenticare, poi, il legame dell’esistenzialismo heideggeriano con la fenomenologia di
Husserl e con la sua categoria portante, l’intenzionalità.
In questo senso, l’intenzione educativa assume la
forma del prendersi cura dell’altro per accompagnarlo
nella sua formazione, ossia nel progetto che noi abbiamo predisposto per lui e che lui stesso, a un certo
punto, può scegliere per se stesso, rendendosi autenticamente persona e protagonista intenzionale del suo
progettarsi15. «La cura come l’essere dell’esserci», perciò, definisce la pedagogia come progetto teorico che
cerca una realizzazione pratica, un’attualizzazione dei
suoi modelli e dei suoi fini-valori normativi, tramite un
processo intenzionale di formazione rivolta all’emancipazione dell’individuo-soggetto-persona.
La pedagogia, però, non è solo rivolta alla formazione del singolo, ma si configura anche come intenzione
formativa e, quindi, come progetto per/di una comunità e/o di un’intera società/cultura. In tal senso l’utopia,
tra le tre dimensioni del congegno pedagogico, è quella
che mostra il legame più forte con la progettualità e
15
Cfr. L. Mortari, Aver cura della vita della mente, Firenze, La
Nuova Italia, 2005.
82
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con il futuro. Inoltre, essa è anche la categoria più “debole” e che più di tutte riconosce, in una prospettiva
critica, la modificabilità e la contingenza del reale. Tali
caratteristiche rendono l’utopia la categoria pedagogica
più vicina alla sensibilità post-moderna e sicuramente
quella più distante dalle derive del nichilismo passivo16. Infatti, l’utopia non va intesa come genere letterario, né come descrizione di una società ideale, né come
fuga fantastica dalla realtà, ma come progetto di trasformazione della contingenza storico-culturale e socio-politica, al fine di realizzarne una più giusta.
L’utopia, perciò, è tesa al raggiungimento di un fine
che appare desiderabile e che, fungendo da pungolo critico dell’esistente, impone un senso agli eventi che si succedono in vista del suo compimento. Tuttavia, l’esito fallimentare o, viceversa, quello positivo del progetto sono
entrambe alternative “possibili”, seppure condizionate e
soggette alla contingenza degli eventi. E se ciò da un lato
può far cadere in uno stato di angoscia paralizzante e di
disimpegno, dall’altro non sancisce nessuna condanna
preventiva a qualsivoglia destino, ed apre il futuro al
progetto e all’impegno per realizzarlo.
La declinazione pedagogica dell’utopia si oppone
a tutte quelle pedagogie di stampo funzionalistico che,
tramutando la formazione in istruzione, e la liberazione
in socializzazione, rinunciano all’emancipazione come
fine pedagogico.
16
Cambi, ridefinendo il suo modello metateorico, riserva infatti
grande attenzione a delineare i caratteri dell’utopia e ne esplicita i nessi
con la pedagogia, mentre gli altri due vettori del congegno pedagogico
vengono messi al margine delle sue analisi. Lo scopritore del congegno,
cioè, ha sostanzialmente accolto l’istanza antifondazionalista del postmoderno. Cfr. F. Cambi, Metateoria pedagogica, Bologna, Clueb, 2006;
Id., Abitare il disincanto. Una pedagogia per il postmoderno, cit.
83
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Ora, attraverso un’indagine storico-genealogica e
decostruttiva, che deve molto alle analisi di Galimberti17, consideriamo l’origine stessa dell’idea di cambiamento e la preferenza che il discorso pedagogico accorda al futuro quale dimensione temporale propria
della progettualità.
Galimberti ritiene che il concetto di Storia, e quelli connessi di progresso e di tempo lineare, siano il risultato dell’attribuzione di un “senso” al fluire anonimo del tempo, che solo in tal modo si fa narrazione e
Storia. Tale senso discende dall’idea che ci sia un “fine” nella (coincidente con “la fine della”) storia da
raggiungere e/o realizzare, sulla cui base è possibile
ordinare e comprendere gli eventi.
Il termine greco che indica questo concetto è quello di eschaton (eschatos = ultimo, fine; to eschaton = il
punto estremo, il culmine; da cui escatologia = studio
sulle cose ultime e sulla fine/il fine della storia, dell’umanità, dell’esistenza) che la tradizione cristiana tende a
identificare con la fine del tempo nell’ultimo giorno del
giudizio universale, mentre quella ebraica con l’avvento
del Messia. In tal modo, la concezione della Storia come
progresso, che si distingue profondamente da quella
greca antica, di tipo ciclico e fondata sui ritmi naturali
delle stagioni, concentrata sul passato e sul presente, si
connette direttamente al paradigma religioso giudaicocristiano che assume il futuro come la dimensione temporale principale. Ciò significa che nella mentalità occidentale, che si fonda su quelle tradizioni religiose, il
tempo e la storia sono intesi come “progresso verso”,
successione lineare, causale e finalistica di eventi, irripetibili e unici, che hanno una direzione di sviluppo ben
17
Cfr. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della
tecnica, Milano, Feltrinelli, 2008.
84
Postmodernità e educazione
precisa, perché si rivolgono ad un fine supremo di realizzazione che ne stabilisce anche la fine (eschaton) e il
senso. Il tempo diviene allora attesa per il compimento
futuro di ciò che è stato annunciato dagli eventi passati,
dalle scritture, dai profeti. In questa concezione, il futuro,
come speranza di redenzione, assurge a dimensione esistenziale principale, mentre l’alternarsi di colpa, redenzione e attesa escatologica e messianica del compimento
della Storia fonda la stessa temporalità storica.
Nell’epoca moderna, come si è visto, i processi di
laicizzazione e secolarizzazione hanno determinato il
progressivo affievolirsi della fede religiosa e anche una
maggiore incredulità riguardo alla concezione della storia nella sua dimensione sacra. Tuttavia lo “schema”
escatologico, fondato sulla triade colpa, redenzione e
salvezza, si conserva interamente nella versione postreligiosa della temporalità che interpreta il passato come
male, la scienza, l’utopia e la rivoluzione come redenzione, e il progresso come salvezza. «In questo modo un
fondo soteriologico sopravvive anche nella più radicale
desacralizzazione dell’escatologia religiosa, dove il tema della redenzione viene recuperato e ripresentato nella forma della liberazione. Si presentano come figure di
liberazione, e quindi come forme secolarizzate dell’escatologia della salvezza, sia la scienza, sia l’utopia,
sia la rivoluzione, ciascuna con le proprie varianti»18.
Ritroviamo qui, quasi identiche, le tre categorie
eidetico-fenomenologiche individuate da Cambi quali
dimensioni essenziali del discorso pedagogico, dal momento che scienza, utopia e rivoluzione (sovrapponibile
in parte all’ideologia) si identificano nel loro essere
progetto, rivolto a un futuro di liberazione, capace di
dare senso al succedersi degli eventi. Anche sul piano
18
Ibid., p. 511.
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Cristian Celaia
pedagogico, perciò, tali categorie sottendono una teoria
del progresso e tramutano il tema della redenzione in
quello dell’emancipazione. Si rileva allora, ancora una
volta, il carattere progettuale (escatologico?) della pedagogia, che si confronta sempre con i fini-valori che la
guidano, e che fungono da norma per il futuro. Ma soprattutto emerge l’impegno della pedagogia per la costruzione/ricerca del senso in considerazione della promessa/speranza di liberazione individuale e comunitaria
che essa può dischiudere, equivalente laica dell’attesa
messianica e salvifica di tipo sacrale.
Il problema, però, è che ora il senso sembra sparire.
Nell’epoca postmoderna questo senso implode. Scienza,
utopia, rivoluzione (ideologia) sembrano perdere il loro
carattere “escatologico” di progetto e non sono più in
grado di imprimere significato al fluire del tempo e al
cambiamento storico. Il predominio della tecno-scienza
ha finito per elidere la stessa idea di senso della storia e
il progresso è divenuto crescita esponenziale, senza fini
da raggiungere, che non siano fini-mezzo e obiettivi rivolti all’immediato.
Il carattere a-finalistico della tecnica, la compromissione del concetto filosofico, scientifico e socio-politico
di verità aboliscono qualsiasi principio assoluto, determinando così la “fine della storia” come tempo fornito di un
“fine” e di un senso altrettanto assoluti. La memoria della
tecnica, infatti, essendo solo procedurale, traduce il passato nell’insignificanza del superato e accorda al futuro il
semplice significato di perfezionamento delle procedure.
Ma l’uomo, ormai dipendente dall’apparato tecnico, non
riesce più a imporre i suoi fini, perché questi sono assorbiti completamente dalle possibilità offerte dalla tecnica,
per cui si desidera ciò che è tecnicamente possibile e non
si supera né trascende questo orizzonte. La categoria
marxista della co-storicità rende bene l’idea di questa cri86
Postmodernità e educazione
si in cui l’uomo non è più il “soggetto della storia”, ma è
relegato al margine dalla tecnica, divenuta protagonista
dello stesso divenire storico. Anzi, essendo senza fini, la
stessa idea di storia non è applicabile alla tecnica e, essendo l’uomo dipendente dalla tecnica, essa non è applicabile neanche all’uomo. L’uomo diventa così a-storico e
ciò ne compromette la consapevolezza identitaria, lasciandolo senza alcun punto di riferimento. Il venir meno
della prospettiva escatologica si risolve, sul piano sociopolitico ed etico, in un deperimento dei legami sociali e
in una tristezza nichilista che può concretizzarsi nella
forma della perdita del senso delle cose. In questo contesto, la solidarietà intergenerazionale appare fortemente
compromessa dai processi di individualizzazione e dalla
solitudine del cittadino globale nella società liquida.
In ultima analisi, il post-moderno, nelle considerazioni di Galimberti, mette in crisi l’idea stessa del futuro
come qualcosa di positivo e di desiderabile19. Si è infatti
passati, a suo avviso, dal futuro inteso come promessa e
come continuo progresso, al futuro inteso come minaccia, caratterizzato dall’incertezza e da pericoli pressanti
riguardo alla sicurezza personale, alle catastrofi naturali,
al lavoro, alla vita famigliare e ad ogni aspetto della vita
pubblica e privata. Tutto ciò, sul piano psicologico, comporta il prevalere delle passioni tristi, ossia il formarsi di
uno stato d’ansia e d’angoscia che, oltre a causare nuove
forme di sofferenza psichica che insegnanti e psicologi
non sanno affrontare, spinge alla rinuncia nichilista e al
disimpegno per il futuro.
A tale esito concorrono inconsapevolmente anche
genitori e insegnanti. Spesso, infatti, nella mente di co19
Cfr. U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Milano, Feltrinelli, 2008; M. Benasayag - G. Schmit, L’epoca
delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli, 2009.
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loro che vogliono aiutare i giovani, domina l’idea di un
futuro minaccioso nei confronti del quale occorre essere preparati, contando sulle proprie capacità e competenze. Ecco allora che genitori ed educatori cercano di
fornire ai ragazzi tutti gli strumenti cognitivi, comportamentali ed emotivi necessari per affrontare i problemi che la vita può riservare loro. In questa prospettiva,
però, si finisce per veicolare il messaggio che il futuro
è carico di minacce e che ciò che si impara e si insegna
deve essere utile ed efficace per arginare i possibili pericoli. Inoltre, se si lotta per emergere e per sopravvivere, si insegna ad essere essenzialmente individui e,
prima o poi, si finisce per essere contro qualcuno.
Ciò ha ripercussioni dirette sulla categoria della
progettualità e quindi, a catena, sulle tre categorie del
congegno. Tali categorie non si elidono, ma assumono
un carattere di problematicità e indeterminatezza senza
precedenti e una connotazione che non può dirsi positiva, e che si traduce in una spasmodica ricerca del senso,
oggi la vera sfida pedagogica.
Quindi, senza nessun intento retorico, ci si può
chiedere: nell’epoca post-moderna è ancora possibile
la pedagogia nel suo senso critico ed emancipativo?
Che ne è della pedagogia, dopo che le sue categorie
portanti sono state decostruite e depotenziate?
Scartate le possibilità del dogmatismo di ritorno e
del funzionalismo, che riducono la pedagogia, l’uno a
retorica, l’altro ad amministrazione, non resta che accettare la sfida di trovare una soluzione all’interno del
“paradigma post-moderno”. In questa ricerca, però, è
già possibile individuare un principio, tanto ineffabile
quanto esile, eppure sorprendentemente “solido” e fecondo, sulla cui base si reggono il discorso pedagogico
e le sue categorie portanti: il principio speranza.
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Postmodernità e educazione
Al fondo della possibilità del cambiamento, dell’emancipazione, della formazione, della stessa intenzionalità progettuale non può che riconoscersi il principio post-moderno della contingenza, cui si associa il
principio della speranza, intesa come fiducia nella direzione del cambiamento attraverso l’impegno. Speranza e contingenza sono presupposti antropologici e
non logico-epistemologici, che si connettono a esigenze esistenziali ed etico-politiche. Infatti, la speranza è
un atto di “fede” e di fiducia che non si fonda principalmente su dimostrazioni razionali, bensì sulla condivisione di principi e vocabolari e, quindi, sul legame
sociale e sulla capacità delle generazioni precedenti, in
stretto rapporto di co-costruzione con le più giovani, di
schiudere possibilità inedite di realizzazione rivolte al
futuro. In tal modo la progettazione e, come sua manifestazione più radicale, l’utopia, si trovano in relazione
con la speranza che lega il futuro al meglio20.
Senza la speranza, perciò, ammonisce Freire, c’è
solo disperazione, immobilismo e nichilismo passivo,
perché «la speranza è necessità ontologica; la disperazione è una speranza che, nel perdere l’orientamento,
diventa distorsione della necessità ontologica. […]
Pensare che la speranza, da sola, trasformi il mondo ed
agire mossi da tale ingenuità è una maniera eccellente
di cadere nella disperazione, nel pessimismo, nel fatalismo. Ma, prescindere dalla speranza nella lotta di migliorare il mondo, come se la lotta si potesse ridurre
appena ad atti calcolati, alla pura scientificità, è frivola
illusione»21.
20
Cfr., sul tema della speranza, F. Mattei, Spe salvi: libertà, ragione, speranza, in «Formazione e lavoro», III (2008), n. 1, pp. 25-34.
21
P. Freire, Pedagogia della speranza. Un nuovo approccio alla
Pedagogia degli oppressi, Torino, Ega, 2008, pp. 28-29.
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