Psicologia & Giustizia Anno XVI, numero 1 Gennaio – Giugno 2015 PERCORSI CLINICI E RIABILITATIVI DI PAZIENTI CON COMPORTAMENTI AGGRESSIVI: ASPETTI DI SICUREZZA, LEGALI E DI RESPONSABILITA’ G. Gulotta, G. Gasparini Abstract – L’aggressività si configura come costrutto non omogeneo che può avere cause, manifestazioni e conseguenze differenti tra loro, tanto da essere stata, ed essere tutt’ora, oggetto di studio in molti settori della ricerca (biologico, evoluzionistico, psichiatrico, forense, sociale…). Sembra quindi opportuno adottare un approccio esplicativo multifattoriale, prendendo in considerazione da un lato le ricerche delle neuroscienze e le prospettive biologiche, dall’altro le implicazioni cliniche e le connessioni con le patologie mentali. La gestione del paziente psichiatrico aggressivo, che ha messo in atto, o che può mettere in atto, condotte violente, può determinare nei curanti difficoltà relazionali e implica responsabilità etiche, legali e professionali. Il lavoro prende in esame le differenti tecniche contenitive a disposizione dei curanti e propone una breve disamina dei riferimenti normativi e giurisprudenziali relativi alla gestione dei pazienti con comportamenti aggressivi. Parole chiave: aggressività, paziente psichiatrico aggressivo, escalation, contenzione, riferimenti normativi, riferimenti giurisprudenziali 1. Il costrutto dell’aggressività: prospettiva evoluzionistica e basi neurobiologiche Appare complesso proporre una definizione univoca di aggressività e, di conseguenza, di comportamento aggressivo, non foss’altro perché confrontando le concezioni maturate entro le varie tradizioni nel corso degli anni e analizzando le diverse prospettive teoriche che si sono succedute e influenzate a vicenda ci imbatteremmo in un’evidenza: tra gli specialisti sono state rilevate almeno 250 definizioni di aggressività. 1 L’aggressività, infatti, si configura come costrutto non omogeneo che può avere cause, manifestazioni e conseguenze differenti tra loro, ed è proprio per questo che è stata, ed è tutt’ora, oggetto di studio in molti settori della ricerca: biologico, psichiatrico, forense, sociale, etico… Sembra quindi logico adottare un approccio esplicativo multifattoriale dell’aggressività, prendendo in considerazione da un lato le teorie evoluzionistiche, le ricerche delle neuroscienze e le prospettive biologiche, dall’altro alcune tradizioni teoriche e le implicazioni cliniche, con lo scopo di definire quali possano essere le tecniche di gestione dei pazienti violenti e le implicazioni legali dei possibili interventi. Per quanto riguarda la prospettiva evoluzionistica, va premesso che biologicamente noi siamo gli uomini dell’età della pietra: l’intervallo di tempo trascorso tra le caverne e le civiltà attuali è troppo breve, sul piano evoluzionistico, per ottenere modificazioni significative nella nostra struttura. Così, dunque, le categorie fondamentali dell’aggressione intraspecifica sono rimaste invariate: la competizione e la conquista da un lato, la protezione dall’altro, e dunque in ultima analisi la sopravvivenza della specie. Nel primo caso, l’aggressività si manifesta nei casi in cui sussiste un conflitto per accaparrarsi una risorsa disponibile e mira all’affermazione della dominanza, che consente l’accesso prioritario a quelle risorse: l’esempio è il corteggiamento, l’accesso ai partner sessuali per assicurarsi il successo riproduttivo. Nel secondo caso, il comportamento aggressivo è determinato dalla difesa di se stessi, del proprio gruppo, della prole e delle risorse conquistate. Aggressività, quindi, come comportamento adattivo. In particolare, ha un significato adattivo quando la persona riesce a esercitare un controllo efficace sulle proprie tendenze aggressive; diventa invece patologica quando si manifesta in maniera afinalistica, irrazionale, esplosiva, violenta e può essere causa di danno per gli altri oltre che per il soggetto stesso. Quando assume queste caratteristiche, l’aggressività rappresenta una modalità di rapporto con il mondo che si traduce in una limitazione, in un’interferenza disadattiva nella vita sociale, lavorativa e affettiva, che spesso determina l’isolamento e il fallimento dell’esistenza dell’uomo1. Può essere poi utile considerare che il costrutto dell’aggressività è multicomposto2: l’aggressività fisica e l’aggressività verbale rappresentano la componente strumentale o motoria del comportamento; la rabbia, identificata come la componente affettiva o emotiva del comportamento aggressivo, coinvolge l’arousal fisiologico e la preparazione per aggredire, quasi fosse una sorta di “ponte psicologico” tra le componenti cognitive e strumentali: l’arrabbiarsi, spesso, è un preludio ad aggredire; l’’ostilità rappresenta invece la componente cognitiva e consiste in sentimenti di 1 Buss, A.H., Durkee, A. (1957). An inventory for assessing different kinds of hostility. Journal of Consulting Psychology, 21, 4: 343-349. 2 Si tratta dei 4 fattori individuati dalle analisi fattoriali condotte sull’Aggression Questionnaire (AQ) di Buss e Perry (1992). La versione italiana del questionario è a cura di Fossati, Maffei, Acquarini, Di Ceglie (2003). In Maffei C. (2008) Borderline. Struttura, categoria, dimensione. Raffaello Cortina Editore, Milano. 2 malevolenza e ingiustizia: lo stato di alto arousal (rabbia), diminuisce con il trascorrere del tempo e permane un residuo cognitivo di malevolenza, risentimento e diffidenza. È intuitivo come spesso le manifestazioni aggressive siano determinate dall’impulsività. Anche relativamente a questo costrutto si può distinguere tra una componente motoria (che corrisponde all’agire senza pensare), una componente attentiva (determinata dalla presenza di pensieri veloci, intrusivi e dalla difficoltà a concentrarsi su un compito) e una componente cosiddetta “da non pianificazione” (che determina una centratura sul presente, senza possibilità di pensare al futuro)3. L’analisi combinata delle sottodimensioni dell’aggressività e dell’impulsività permette di valutare quanto la disposizione basale all’aggressività sia associata o meno a un deficit di controllo e pianificazione generale del comportamento. Tale combinazione permette infatti di distinguere l’aggressività impulsiva o reattiva, caratterizzata dalla tendenza a manifestazioni violente esplosive, reattive, non pianificate e prive di controllo, dall’aggressività proattiva, determinata dalla tendenza ad agire l’aggressività in maniera deliberata, “a sangue freddo”. Dal punto di vista clinico si tratta di una differenza importante: se la gestione clinica del paziente aggressivo richiede competenze particolari, la distinzione tra le 2 forme dell’aggressività implica traiettorie cliniche differenti. Per esempio, l’aggressività reattiva nelle sue manifestazioni estreme è connessa a un’elevazione del rischio suicida su base non depressiva nei pazienti con disturbo di personalità borderline4, mentre l’aggressività proattiva è connessa alla psicopatia nelle forme “maligne” del narcisismo. Questa distinzione ha ricadute importanti anche dal punto di vista terapeutico: l’efficacia degli interventi farmacologici, per quanto esulino dalle nostre competenze, è quasi esclusivamente limitata alle forme di aggressività impulsiva, mentre la violenza premeditata risulta meno sensibile ai farmaci. Fatta questa premessa, sorge spontaneo domandarsi se esista un’area cerebrale, un ormone o un gene dell’aggressività tali da intrattenere un rapporto biunivoco con i fenomeni aggressivi. Ebbene, se la nostra aspettativa è questa rimarremo delusi. Non si può tuttavia negare il carattere di attivazione svolto dalle componenti biologiche la cui spinta può, con il concorso di altri fattori, promuovere atti aggressivi. Benché dall’analisi delle basi biologiche e delle componenti neurofisiologiche, neurotrasmettitoriali, ormonali e genetiche dei comportamenti aggressivi non sia possibile dedurre 3 Si tratta delle dimensioni valutate dal questionario Barratt Impulsiveness Scale (BIS-11) elaborato da Barratt (1959). In Maffei C. (2008) Borderline. Struttura, categoria, dimensione. Raffaello Cortina Editore, Milano. 4 Moeller F.G., Barratt E.S., Dougherty D.M., Schmitz J.M., Swann A.C. (2001). Psychiatric Aspects of impulsivity. American Journal of Psychiatry, 158: 1783-1793 3 una concezione deterministica o innatistica dell’aggressività, è tuttavia possibile evidenziare la presenza di componenti innate nella causazione e nell’espressione dell’aggressività. Il concorso causativo delle componenti biologiche è d’altro canto dimostrato dal fatto che le loro variazioni, a parità di altre condizioni, incidono nella probabilità di mettere in atto un comportamento aggressivo. Così, per esempio, lo studio di pazienti con lesioni o patologie ai lobi frontali e temporali ha permesso di stabilire una connessione tra l’ipoattività di queste aree e l’aumento dell’aggressività e dell’irritabilità5; altri studi, condotti sugli animali, hanno dimostrato il coinvolgimento delle strutture limbiche nei processi che danno luogo al comportamento aggressivo, in particolare varie porzioni dell’amigdala, del talamo e dell’ipotalamo6. Per quanto riguarda i neurotrasmettitori e le sostanze psicostimolanti, sono acetilcolina, catecolamine (in particolare dopamina e noradrenalina) e serotonina le sostanze deputate alla trasmissione del segnale all’interno del sistema neuroanatomico correlato all’aggressività. Lo studio della loro rispettiva ed effettiva influenza nell’uomo è limitato non solo da problemi etici, ma anche da difficoltà di natura metodologica, dal momento che gli effetti non variano linearmente rispetto all’incremento della sostanza, ma sono funzionali ai ritmi circadiani7. Le conoscenze sulla correlazione tra l’incremento o la diminuzione di tali sostanze e la messa in atto di agiti violenti, pertanto, derivano da studi condotti sugli animali, in cui la sostanza in esame può essere iniettata direttamente nelle aree cerebrali di interesse. Si è così rilevato come bassi livelli di noradrenalina nel liquor sono associati a comportamenti violenti e come il decremento della serotonina sia correlato a un incremento dell’aggressività8: la carenza di serotonina, infatti, induce disfunzioni nei circuiti che presiedono alla regolazione delle emozioni, situati in varie aree della corteccia prefrontale: tali disfunzioni facilitano l’aggressione immediata ed esplosiva, conseguente al mancato controllo dei fenomeni di rabbia9. Per quanto concerne le sostanze psicostimolanti, quelle che interagiscono con il sistema catecolaminergico, e quindi amfetamine, cocaina e caffeina, hanno un effetto di antagonisti nei confronti dei neurotrasmettitori interessati all’aggressività, ma è fondamentale considerare come il loro effetto dipenda dalle dosi, dalla frequenza e dal tempo di somministrazione; inoltre dosi maggiori o minori di certi livelli possono produrre effetti opposti a 5 La prima evidenza scientifica risale al 1848 con il caso di Phineas Cage, l’operaio delle ferrovie che da uomo corretto e equilibrato divenne irascibile e brutale e iniziò a mostrare comportamenti impulsivi, antisociali e distruttivi dopo che una sbarra gli trapassò il lobo frontale del cervello. 6 Hess W.M., Brugger M. (1943). Das subkorticale zentrum der affektiven abwehrreaktionen. Helvetica Physiologica et Pharmacologica Acta, 1: 33-53 7 Valzelli L. (1989). Psicobiologia dell’aggressione e della violenza. Faenza Editrice, Faenza. 8 Le prime indicazioni sul coinvolgimento della serotonina vengono da studi condotti negli anni ’70 in cui è stata notata la diminuzione del neurotrasmettitore in pazienti depressi morti suicidi. Considerando il suicidio come espressione autodiretta di un comportamento aggressivo, ed essendo noto che nelle depressioni gravi il livello di serotonina è basso, si può ritenere che abbia una funzione inibitrice, o almeno regolatrice, della risposta aggressiva. 9 Davidson R.J. et al. (2000). Disfunction in the neural circuitry of emotion regulation. A possible prelude to violence. Science, 289: 591-594. 4 quelli attesi e il loro ruolo di facilitatori di comportamenti aggressivi, e non solo di generica attivazione del sistema simpatico, dipende altresì dalla disponibilità di mezzi che istigano o evocano l’aggressione. Una approfondimento relativo all’alcol: ha certamente un ruolo importante nella messa in atto di comportamenti violenti, ma l’analisi è più problematica, in quanto il suo è un effetto aspecifico sulla neurotrasmissione relativa all’aggressività. I suoi effetti facilitanti, tuttavia, attestati dall’alto tasso di atti violenti commessi in stati di ebbrezza, dipendono non solo dalla personalità del soggetto e dalla quantità assunta, ma vanno anche connessi alla sua azione disinibente (a dosi moderate), piuttosto che a uno specifico ruolo agonistico. È possibile infatti che il suo concorso nella promozione dell’aggressività dipenda da fattori più generali e non da una specifica influenza su sistema neurofisiologico: vanno infatti tenuti in considerazione fattori di ordine fisiologico, ma anche psicologico, quali l’alterazione delle funzioni percettive, un senso fittizio di potenza fino a ideazioni deliranti, il rallentamento dei tempi di reazione e il deterioramento nella capacità di giudizio, che possono causare oltre a comportamenti francamente aggressivi, anche semplici incidenti e atti lesivi preterintenzionali. Anche gli ormoni influenzano i comportamenti. Molte ricerche attestano un ruolo rilevante dell’ormone maschile testosterone nel facilitare l’aggressione e questo concorre a spiegare la prevalenza di crimini violenti maschili in tutte le popolazioni e la maggior agitazione fisica del maschio pubere rispetto alla femmina, senza con questo dimenticare o negare l’importanza dei fattori educativi e culturali. D’altro canto, la minor quantità di estrogeni e progestinici e un aumento del testosterone nella fase precedente il ciclo potrebbero spiegare l’accresciuta aggressività femminile nel corso della cosiddetta sindrome premestruale. Tuttavia, il minor numero complessivo di atti violenti nella donna non deve far pensare a una minore propensione femminile all’aggressività in generale, ma solo alle sue manifestazioni violente e fisiche; vanno infatti considerate le forme verbali e le forme meno vistose, in parte rilevabili dal comportamento manifesto (ad esempio maldicenze), in parte presenti in sentimenti e emozioni (ad esempio invidie). Anche in uno studio condotto da Buss e Perry gli uomini sono risultati più aggressivi rispetto alle donne, e in particolare gli uomini ottengono un punteggio superiore nell’Aggressività fisica, mentre nell’Aggressività verbale e nell’Ostilità superano di poco il punteggio delle donne. Per la Rabbia invece non sono state riscontrate differenze legate al sesso. Anche questi dati suggeriscono che le donne si arrabbiano quanto gli uomini, ma inibiscono maggiormente l’espressione violenta dell’aggressività. 5 2. Pazienti aggressivi: la patologia, la relazione e la gestione dell’escalation Per quanto riguarda le patologie psichiatriche, va sottolineato come il DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) non prevede specificamente, nelle sue diverse versioni, un disturbo aggressivo, e la presenza di manifestazioni violente non appare legata in modo specifico a una singola area o categoria diagnostica: l’aggressività si configura quindi più come una dimensione trans-nosografica che come un elemento psicopatologico nucleare e strutturante. In particolare, nel DSM-IV-TR (2002) vengono catalogati due disturbi in cui i comportamenti violenti, distruttivi e impulsivi caratterizzano l’entità sindromica: il disturbo della condotta (inserito tra i disturbi diagnosticati nell’infanzia, nella fanciullezza o nell’adolescenza) e il disturbo esplosivo intermittente (inserito tra i disturbi del controllo degli impulsi non classificati altrove, caratterizzati dall’incapacità di resistere a un impulso, a un desiderio impellente, o alla tentazione di compiere un’azione pericolosa per sé o per gli altri, in cui “gravi atti aggressivi o di distruzione della proprietà” rappresentano l’elemento centrale e sono causati da “numerosi episodi di incapacità di resistere agli impulsi aggressivi” con un grado di aggressività “del tutto sproporzionato rispetto a qualsiasi fattore psicosociale stressante precipitante”). In questi due disturbi, quindi, i comportamenti aggressivi appaiono essere situazioni di violenza “primaria”, cioè non dipendente da un altro disturbo mentale e non dovuta agli effetti fisiologici di una sostanza o di una condizione medica generale. Il Manuale fa poi riferimento ai comportamenti aggressivi che si possono manifestare a livello sintomatologico nel corso di altri disturbi, in cui appare più appropriato parlare di violenza “secondaria”: tra questi troviamo la demenza, l’intossicazione o l’astinenza da sostanze, l’episodio maniacale, l’episodio depressivo maggiore, la schizofrenia, l’attacco di panico e i disturbi di personalità. Il DSM-V (2014) ha inserito entrambi i disturbi citati nel nuovo capitolo “Disturbi da comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della condotta”, all’interno del quale sono compresi solo i disturbi in cui i problemi nella regolazione emotiva e/o comportamentale (presenti anche in altri disturbi) si manifestano attraverso comportamenti che violano i diritti degli altri (per es. aggressione, distruzione della proprietà) e/o che mettono l’individuo in contrasto significativo con norme sociali o figure che rappresentano l’autorità. Questi disturbi sono: disturbo oppositivoprovocatorio, disturbo esplosivo-intermittente, disturbo della condotta, disturbo antisociale di personalità, piromania, cleptomania, disturbi del comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della condotta con altra specificazione e senza specificazione. È precisato che le cause sottostanti dei problemi di autocontrollo delle emozioni e dei comportamenti possono variare notevolmente tra tutti i disturbi inseriti in questo capitolo e tra gli individui appartenenti a una stessa 6 categoria diagnostica. Rimangono i riferimenti ai comportamenti aggressivi posti in essere in corso di altri disturbi mentali. Considerata globalmente, la popolazione psichiatrica non pone in essere comportamenti aggressivi in misura significativamente maggiore rispetto alla popolazione generale, ma è indubbio che gli operatori sanitari siano figure massimamente esposte a questo tipo di comportamenti 10, messi in atto soprattutto da soggetti maschi in età fertile, caratteristiche in linea con le considerazioni evoluzionistiche fatte precedentemente. Altri fattori di rischio sono il basso livello intellettivo, economico, culturale e occupazionale, un’anamnesi positiva per comportamenti violenti, l’uso o l’abuso di sostanze o alcol, la diagnosi psichiatrica di schizofrenia, il momento del ricovero11. In generale, la relazione terapeutica con un paziente che ha messo in atto, o che può mettere in atto, condotte aggressive o violente è densa di problematiche che possono inficiare la correttezza e l’adeguatezza del percorso diagnostico e delle strategie terapeutiche. L’operatore infatti si trova a confrontarsi con un paziente che può agire anche in maniera inaspettata, imprevedibile e incomprensibile, nonostante il monitoraggio costante e l’impegno terapeutico. Ciò da un lato incrementa il rischio di esperire frustrazione, dall’altro aumenta l’esposizione a responsabilità etiche, legali e professionali a più livelli: nei confronti del paziente (che deve essere tutelato da un comportamento violento verso se stesso), nei confronti di eventuali potenziali vittime (che vanno salvaguardate), nei confronti di se stesso (perché è quasi impossibile lavorare e operare con l’incombenza di un pericolo costante) e, nel caso di un’istituzione, nei confronti degli altri operatori (che devono essere garantiti rispetto al massimo della sicurezza nell’ambiente di lavoro). I sentimenti che l’operatore può provare nei confronti del paziente aggressivo sono quindi di varia natura: paura, frustrazione, rabbia, delusione, insicurezza…; alla base sussiste spesso una condizione di ansia la cui gestione può risultare particolarmente difficile e che può innescare dei meccanismi di difesa con lo scopo di produrre una barriera difensiva e protettiva della stabilità emotiva, l’aumento della sicurezza personale, il mantenimento della stima di sé come operatori. Gli effetti di tali meccanismi di difesa, tuttavia, possono essere non positivi: pur trattandosi di processi psicologi che agiscono anche nell’attività psichica normale (quindi la loro identificazione 10 Beccattini G., Bambi S., Palazzi F. et al. (2007). Il fenomeno delle aggressioni agli operatori di Pronto Soccorso: la prospettiva italiana. In ANIARTI, Atti XXVI Congresso Nazionale ANIARTI, 535-541. Dallo studio condotto su 15 strutture di Pronto Soccorso di 14 regioni italiane, rappresentative di tutto il territorio nazionale, risulta che quasi tutti gli infermieri intervistati sono stati aggrediti verbalmente (90%) o hanno assistito ad aggressioni nei confronti di colleghi (95%); il 35% del campione ha subito atti di violenza fisica, più della metà (52%) ne è stata testimone, poco meno di un terzo degli infermieri (31%) ha avuto bisogno di cure mediche a causa di un’aggressione, con prognosi fino a 5 giorni (13%), da 5 a 15 giorni (11%) o superiore a 15 giorni (6%). 11 Conrad A., Mulchandani M., Sankaranarayanan A., Lewin T. (2014). Inpatient aggression by mentally ill offenders: a retrospective case-control study. Journal of Forensic Psychiatry & Psychology, Aug(2014), vol 25(4), 464-479 7 non costituisce necessariamente la prova di un disturbo psicologico) possono svilupparsi in modo esagerato ed essere di ostacolo alla reale comprensione emotiva, ponendosi sì come scudo difensivo, ma anche come scudo visuo-interpretativo della realtà globale del paziente, che rimane così sconosciuta all’operatore nella sua complessità, ostacolando la diagnosi e compromettendo le strategie terapeutiche. Nonostante ciò, il mantenimento di tali meccanismi può essere determinato dal fatto che l’operatore, a seguito dell’instaurarsi di tali processi, intraprende una condotta professionale che avverte come più vantaggiosa rispetto alla modalità precedente, perché l’angoscia viene controllata e la relazione risulta meno ansiogena. Va poi considerato che oltre a costituire un ostacolo alla valutazione e al trattamento del paziente, questi processi psicologici possono diventare un elemento causale determinante nel meccanismo di automantenimento del comportamento violento da parte del paziente, che spesso, nonostante la patologia, è in grado di “testare” l’operatore per evidenziarne limiti e debolezze e può quindi “percepire” i meccanismi di difesa. Ecco allora che il paziente ritrova nell’operatore l’ansia e la paura per la malattia mentale e per il comportamento aggressivo, che per il paziente hanno il significato di una conferma delle proprie angosce, della propria sofferenza, della propria patologia e della propria violenza. I meccanismi di difesa possono presentare specifici aspetti clinici in rapporto alle caratteristiche psicopatologiche del paziente: per esempio un paziente schizofrenico paranoide può stimolare meccanismi legati al modo confuso, delirante e ricco di processi primari attraverso cui mette in atto o verbalizza il comportamento aggressivo; un paziente borderline, invece, può mettere in crisi il curante o l’equipe a causa delle reazioni emotive legate ai ripetuti agiti di violenza fisica anche autodiretti. Anche il contesto ha un’influenza importante: gli agiti violenti sono molto più frequenti in un pronto soccorso psichiatrico di quanto non lo siano nell’ambulatorio privato di uno psicoanalista. La formazione dell’operatore, inoltre, è una variabile centrale per comprendere e utilizzare le reazioni emotive suscitate dal paziente: la sensibilizzazione alle proprie emozioni dovrebbe essere una costante nella vita professionale degli operatori, che dovrebbero essere in grado di avvertire che qualcosa nella relazione non sta andando come dovrebbe, a partire da un incremento dell’ansia, fino a segnali meno evidenti, ma più insidiosi, quali l’evitamento della gestione di un certo paziente o la delega a colleghi. Anche la letteratura conferma che un training formativo specifico per la gestione dei pazienti aggressivi può aiutare a ridurre l’impiego di misure coercitive e le aggressioni stesse12. In ogni caso, il confronto con un paziente aggressivo configura una situazione di emergenza che, se gestita in maniera ingenua, può compromettere la sicurezza e l’incolumità del paziente stesso e 12 Livingston J.D., Verdun-Jones S., Brink J., Lussier P., Nicholls T. (2010). A narrative review of the effectiveness of aggression management training programs for psychiatric hospital staff. Journal of forensic nursing, vol.6 (1), 15-28. 8 degli operatori. I sentimenti di ansia e paura che si possono esperire quando ci si trova a gestire un paziente in acuto rischiano, infatti, di innescare negli operatori comportamenti controproducenti: la diffidenza, l’evitamento e la presa di distanza relazionale possono rinforzare nel paziente le sensazioni di isolamento, frustrazione e non comprensione che avevano determinato l’agito violento. D’altra parte, i tentativi di risoluzione attraverso l’affermazione di prestanza fisica da parte degli operatori spesso costituiscono per il paziente un’esperienza sintonica che rischia di agire da rinforzo per il comportamento aggressivo, contribuendo a inscrivere questa condotta nel pattern dei comportamenti sociali abituali. Al di là dei protocolli che stabiliscono le norme pratiche da applicare nelle situazioni di crisi, è interessante considerare le reazioni controtransferali che può suscitare un paziente potenzialmente o attualmente violento e individuare alcune tecniche finalizzate al contenimento dell’aggressività e alla diminuzione della tensione. Molti studi suggeriscono come l’impiego di questionari o strumenti di valutazione predittiva di potenziali comportamenti violenti permetterebbe di stimare i fattori facilitanti la messa in atto di condotte aggressive e quindi strutturare interventi più efficaci, anche in assenza di un’anamnesi approfondita13. Anche l’applicazione di approcci strutturati è in grado di migliorare significativamente la capacità degli operatori di gestire le aggressioni, facilitando il lavoro e contribuendo alla creazione di un ambiente sicuro14. Per ridurre l’escalation naturale degli agiti aggressivi appare quindi utile proporre interventi di desensibilizzazione (de-escalation) basati sulla comunicazione verbale e non verbale che trovano il loro razionale teorico nella psicologia cognitivo-comportamentale e seguono il modello del ciclo dell’aggressività15. Il modello schematizza le fasi tipiche che si succedono in un episodio violento e per ognuna è indicato un intervento appropriato. Il presupposto è che alla base di qualunque atto di aggressività vi sia un fattore scatenante (minacce o provocazioni, reali o presunte, percezione di mancanza di attenzione, stressors, stimoli avversativi…) che determina un’attivazione psicofisiologica (arousal) caratterizzata da 13 Wilkes L., Mohan S., Luck L. et al. (2010). Development of a violence tool in the emergency hospital setting. Nurse Res., 17(4), p.70-82. In Ramacciati N. e Ceccagnoli A. (2011). Violenza e aggression in Pronto Soccorso: revisione della letteratura. Infermiere, 48(5), e43-e50. Chu C. M., Daffern M., Ogloff J.R.P. (2013). Predicting aggression in acute inpatient psychiatric setting using BVC, DASA, and HCR-20 clinical scale. Journal of Forensic Psychiatry & Psychology, vol. 24(2), Apr(2013), 269-285 14 Cahill D. (2008). The effect of ACT-SMART on nurses’ perceived level of confidence toward manging the aggressive and violent patient. Adv Emerg Nurs J, 30(3), 252-268. Rintoul Y, Wynaden D., McGowan S. (2009) Managing aggression in the emergency department: promoting an interdisciplinary approach. In Ramacciati N. e Ceccagnoli A. (2011). Violenza e aggression in Pronto Soccorso: revisione della letteratura. Infermiere, 48(5), e43-e50. 15 Maier G.J. e Van Rybroek G.J. (1995). Managing countertransference reactions to aggressive patients. In Eichelman, B.S., Hartwig, A.C., ads. “Patient’s violence and the clinician”, Washington DC, American Psychiatric Press Inc, 73-104. 9 cambiamenti somatici e psicologici. Questi “segnali di allarme” che devono far presagire una possibile aggressione sono individuabili nella fase del trigger (fattore scatenante) e sono l’espressione verbale di vissuti di rabbia o frustrazione, tono di voce alto, volto paonazzo e sudorazione profusa, respiro rapido, gestualità esagerata e talvolta minacciosa, irrequietezza motoria (ad esempio alzarsi e sedersi continuamente), contatto visivo diretto e prolungato. In questa fase, l’intervento deve essere finalizzato al riconoscimento e alla rimozione del fattore scatenante e all’isolamento del paziente in un luogo il più possibile neutro e privo di stimoli forti. Nella fase successiva, detta dell’escalation, si assiste a un’ulteriore e progressiva deviazione dalla baseline psicoemotiva. L’intervento, che sarà tanto più efficace quanto più attuato tempestivamente, mira al contenimento dello sviluppo naturale del ciclo dell’aggressività attraverso una trasformazione progressiva dei contenuti di violenza e minaccia in espressioni dialettiche che possono essere negoziate. A questo scopo vengono utilizzati approcci verbali caratterizzati da una comunicazione diretta al paziente, specifica (relativa alle rivendicazioni contingenti) e positiva, volta a trasmettere la disponibilità a collaborare per la risoluzione dei problemi. Particolarmente efficace sembra essere l’utilizzo della tecnica “talk down”, un approccio verbale basato principalmente, ma non solo, sul contenuto del linguaggio e mirato al contenimento progressivo del paziente attraverso il riconoscimento positivo e affermativo delle sue istanze e l’avvio di una procedura di negoziazione che recepisca il contenuto emotivo e razionale della crisi ma ne devii il percorso comportamentale. La tecnica prevede di: - stabilire un contatto verbale con il paziente - usare frasi brevi, dal contenuto chiaro; se il paziente non comprende il significato, semplificare progressivamente, anche a scapito della completezza e della coerenza - mantenere un tono di voce calmo e rassicurante - rivolgersi all’interlocutore chiamandolo per nome o per cognome, dando “del Lei” - ridurre la tensione dichiarandosi d’accordo con quanto sostenuto dal paziente e disponibili alla ricerca di una soluzione comune - non polemizzare, né contrastare apertamente: le richieste del paziente vanno sempre discusse - formulare domande che prevedano una risposta aperta - porre il paziente di fronte a scelte alternative in modo da impegnarne l’attenzione e distrarlo dall’originario programma motorio. In generale, è bene astenersi dal dare ordini, discutere, rimproverare o giudicare, non dare soprannomi al paziente, trattenersi dall’ironizzare e non utilizzare toni sarcastici, mantenersi neutrali, evitando sia di elogiare, sia di criticare, non avere la pretesa di analizzare o esaminare 10 troppo a fondo le argomentazioni che si affrontano, non invadere lo spazio occupato dal paziente e quindi mantenere una distanza utile. Se gli interventi attuati non sono risultati efficaci, il paziente passerà alla fase di crisi o actingout, cioè l’aggressione vera e propria. L’intervento non più essere condotto sul presupposto della possibilità di una risposta razionale: l’attenzione deve essere interamente focalizzata sulla garanzia della sicurezza e sul contenimento delle conseguenze. La fase successiva, del recupero, è caratterizzata da un graduale ritorno alla baseline psicoemotiva. Il livello di arousal, però, è ancora elevato, quindi il paziente è potenzialmente recettivo a nuovi fattori scatenanti: si tratta di una fase molto delicata, in cui interventi troppo precoci volti all’elaborazione dell’episodio rischiano di scatenare una riacutizzazione della crisi. È bene pertanto limitarsi a un monitoraggio attivo ma sufficientemente distante. La comparsa nel paziente di sentimenti di colpa, vergogna e rimorso caratterizzano la fase della depressione post-critica, in cui è possibile iniziare un lavoro di tipo psicologico volto all’elaborazione dell’evento, alla comprensione razionale delle circostanze che hanno scatenato l’agito aggressivo e alla risoluzione dei sentimenti negativi. Le strategie applicabili nella gestione del paziente con comportamenti aggressivi sono molteplici e comprendono anche gli interventi farmacologici, di cui non si tratterà in questa sede. La non trattazione degli aspetti farmacoterapici, tuttavia, non deve tradursi nell’errata convinzione che la somministrazione farmacologica “viaggi” su un binario parallelo rispetto alla gestione comportamentale. Le due strategie, infatti, sono strettamente interrelate e bisogna prestare attenzione ai casi in cui può essere proprio il trattamento farmacologico a “innescare” la reazione comportamentale: si pensi, puramente a titolo di esempio, al caso di un paziente depresso che afferisce al pronto soccorso o che viene ricoverato in SPDC che non desta preoccupazioni relative a un possibile agito aggressivo auto o etero diretto a cui viene somministrato un antidepressivo serotoninergico, farmaco che tende a inibire la risposta violenta (come visto in precedenza, infatti, la serotonina ha funzione inibitrice sul comportamento aggressivo) e ha una funzione preventiva indiretta sull’ideazione suicidaria. E’ fondamentale il monitoraggio costante di questo paziente: alcuni autori, infatti, hanno evidenziato come questi farmaci, pur agendo rapidamente sul rallentamento motorio, richiedono circa 4 settimane di somministrazione per agire anche sulla cognitività, pertanto si rischia che il paziente, entrando in uno stato misto, metta in atto un gesto anticonservativo perché è ancora angosciato da pensieri negativi ma contemporaneamente si ritrova ad avere maggiore energia fisica perché “sbloccato” dal punto di vista motorio. Allo stesso modo, quando si somministrano benzodiazepine per “calmare” un paziente ansioso bisogna considerare che l’effetto sedativo viene raggiunto solo con un dosaggio alto, mentre con la somministrazione di 11 basse dosi potrebbe esserci il rischio di interferire sul controllo che il paziente sta mettendo in atto, lasciando spazio al comportamento aggressivo che può così manifestarsi completamente. In generale, le strategie vanno differenziate in rapporto alla gravità dei sintomi, alla diagnosi, alla fase del disturbo e alla direzionalità del comportamento aggressivo. È ovvio ipotizzare una diversa impostazione tra gli interventi contenitivi da attuarsi con un paziente maniacale in fase acuta da quelli preventivi del suicidio nel caso di un paziente gravemente depresso. In primo luogo va garantita la sicurezza del paziente, sia rispetto agli agiti etero diretti incontrollati, sia rispetto a gesti autolesivi, tenendo conto del luogo in cui si sta effettuando la valutazione (pronto soccorso, reparto, ambulatorio, domicilio…). Per quanto riguarda la gestione non farmacologica degli agiti etero diretti, spesso l’alternativa è l’isolamento del paziente in un luogo tranquillo o, nel caso di un reparto, l’allontanamento dagli altri degenti: un paziente in fase maniacale, per esempio, può entrare in conflitto con altri pazienti a causa della sua intrusività e esuberanza. Come già precisato, va garantita la sicurezza del paziente, ma anche quella degli operatori, che non rientrano in quelle categorie di persone che per legge abbiano il dovere istituzionale di esporsi a pericolo in situazioni difficili16, attraverso la definizione dei confini di azione del paziente in rapporto alla gravità e al suo livello di insight. La chiarezza e la fermezza si rivelano spesso strategie vincenti. 3. La contenzione: responsabilità dei curanti e riferimenti giurisprudenziali In taluni casi può rendersi necessario il ricorso alla contenzione fisica o meccanica allo scopo di porre il paziente in condizioni di non agire, di prevenire, attenuare o bloccare atteggiamenti o comportamenti del paziente quali irrequietezza, agitazione o aggressività, proteggere presidi terapeutici, permettere la somministrazione di farmaci, prevenire traumatismi da caduta, evitare il vagabondaggio, praticare l’alimentazione forzata di malati che rifiutano attivamente il cibo 17. La contenzione appare come un aspetto “sgradevole” della gestione del malato psichiatrico, perché rievoca l’impiego di strumenti “crudeli” quali la camicia di forza, le catene, le cinghie, il ferma testa… Innanzitutto, va considerato che qualunque intervento finalizzato alla gestione del paziente con comportamento aggressivo si configura come contenitivo: le tecniche di desensibilizzazione menzionate in precedenza rientrano nella cosiddetta contenzione relazionale, le restrizioni 16 Dodaro G. (2011). Il problema della legittimità giuridica dell’uso della forza fisica o della contenzione meccanica nei confronti del paziente psichiatrico aggressivo o a rischio suicidario. Rivista Italiana di Medicina Legale, Anno XXXIII, Fasc. 6, p. 1505 17 Dodaro G. (2011). Cit. p. 1487. 12 concernenti il luogo (per esempio le porte chiuse nei reparti) fanno parte della contenzione ambientale, e la somministrazione di farmaci sedativi rappresenta una contenzione chimica. La gestione fisica del paziente può essere effettuata attraverso la contenzione manuale (si pensi alla tecnica dello “stop” a terra) e la contenzione meccanica che prevede l’immobilizzazione del paziente solitamente al letto per mezzo di fasce o lacci. La contenzione, anche quella manuale e/o meccanica, va considerata un atto medico18, cioè “una modificazione dell’organismo altrui compiuta secondo le norme della scienza, per migliorare la salute fisica e psichica delle persone”19. In un’ottica ampia, si intende atto medico non solo quell’intervento che esita nella cura del paziente intesa come guarigione, ma anche quello finalizzato alla riduzione della sofferenza fisica e psichica. L’articolo 8 della Convenzione d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo, nota come Convenzione di Orvieto (1996) specifica che “allorquando in ragione di una situazione d’urgenza, il consenso appropriato non può essere ottenuto, si potrà procedere a qualsiasi intervento medico indispensabile per il beneficio della salute della persona interessata”. Il Comitato Nazionale di Bioetica la contempla, specificando che l’impiego della contenzione deve essere contenuto nel tempo e deve essere mantenuto solo per il lasso di tempo necessario a calmare il paziente o a consentire la somministrazione farmacologica, precisando però che il paziente ha “diritto a un trattamento privo di coercizioni e rispetto della dignità umana con accesso alle più opportune tecniche di intervento medico, psicologico, etico e sociale” per cui la contenzione può essere praticata “solo in casi eccezionali in mancanza di alternative”, massimamente nel caso di un soggetto minore, come sostenuto dai giudici del Tribunale per i Minorenni di Bari (2.7.2009) secondo cui “il ricorso all’uso dei mezzi di contenzione in ipotesi di soggetto vittima di comportamenti scompensati dal punto di vista neuropsichiatrico è consentito come extrema ratio in casi eccezionali, quando vi sia un concreto pericolo per l’incolumità personale e sempre nel rispetto della persona umana, che deve essere interpretato in maniera estremamente rigorosa quando si tratta di un minore”. L’idea dell’inevitabilità del mezzo meccanico è presente anche in atti ufficiali come la “Raccomandazione per prevenire gli atti di violenza a danno degli operatori sanitari” adottate dal 18 Secondo alcuni autori, tuttavia, non si tratterebbe di una misure terapeutiche in senso stretto, dal momento che non sono direttamente finalizzate al superamento dello stato di malattia, ma sono comunque protese alla tutela della vita e della salute. Si veda ad esempio Catanesi R., Carabellese F., Troccoli G. (2010). Contenzione fisica in psichiatria in Volterra V. – a cura di (2010) Psichiatria forense, criminologia ed etica psichiatrica, Elsevier-Masson, Milano. Citato in Dodaro G. (2011). Il problema della legittimità giuridica dell’uso della forza fisica o della contenzione meccanica nei confronti del paziente psichiatrico aggressivo o a rischio suicidario. Rivista Italiana di Medicina Legale, Anno XXXIII, Fasc. 6, p. 1489. 19 F. Grispigni (1914). La responsabilità penale per il trattamento medico-chirurgico arbitrario. Milano 13 Ministero della Salute nel 2007 e i codici deontologici medico e infermieristico, che parlano espressamente di contenzione del paziente20. Si trovano poi documenti che sconsigliano tali pratiche: la Risoluzione del Parlamento europeo su Migliorare la salute mentale della popolazione. Verso una strategia sulla salute mentale per l’Unione Europea (2006/2058 - INI) ha espresso il “parere che vada evitata qualsiasi forma di restrizione della libertà personale, in particolar modo le contenzioni, per le quali sono necessari un monitoraggio, un controllo e una vigilanza delle istituzioni democratiche, a garanzia dei diritti della persona e per limitare eventuali abusi”21. I nostri codici non vietano la contenzione, nonostante il legislatore abbia la facoltà di imporre un divieto assoluto di impiego di pratiche sanitarie che si pongano in palese contrasto con diritti fondamentali dell’individuo, quale appunto quello ad essere rispettato come persona, e in particolare nella propria integrità fisica e psichica22. Un riferimento è rintracciabile all’art. 82 del Regolamento Penitenziario (2000) secondo cui “la contenzione fisica (…) si effettua sotto il controllo sanitario con l’uso dei mezzi impiegati per le medesime finalità presso le istituzioni ospedaliere pubbliche”. Sono previste invece la legittima difesa (art. 52 c.p., “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”) e la discriminante dello stato di necessità (art. 54 c.p., “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”). Date queste cause di giustificazione, il medico ha facoltà di agire nel caso in cui siano compresenti tre aspetti: l’attualità del pericolo, la necessità di difesa e la proporzione tra beni in conflitto per cui l’interesse sacrificato deve essere pari o inferiore a quello salvato (nel nostro caso, per esempio, la vita e l’incolumità prevalgono sulla libertà personale). Non sempre, tuttavia, nella pratica, il paziente viene contenuto sulla base di questi criteri. Spesso si ricorre alla contenzione perché “all’interno dei luoghi di cura esistono una serie di criticità che concorrono sinergicamente a determinare l’aggressività e la violenza del paziente e che rendono a loro volta inevitabile in situazioni di emergenza legare il paziente al letto. Si tratta di varianti aspecifiche del paziente o del personale, di varianti cliniche, di varianti di «contesto», di varianti strutturali/organizzative, infine di variabili connesse alla formazione del personale ”: tra queste 20 Dodaro G. (2011). Cit. p. 1488. Conferenza delle Regioni e delle Province autonome (10/081/CR07/C7). Contenzione fisica in psichiatria: una strategia possibile di prevenzione, p. 2, www.regioni.it 22 Dodaro G. (2011). Cit. p. 1493. 21 14 variabili rientrano anche fattori quali le caratteristiche personologiche degli operatori, le relazioni interpersonali e di potere all’interno delle strutture, i pregiudizi culturali, la carenza di personale…23. Il ricorso alla contenzione non giustificata espone gli operatori al rischio di incorrere nei reati di violenza privata (art. 610 c.p.), sequestro di persona (art. 605) e maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.). È indubbio che nel caso in cui sia necessario fare ricorso alla contenzione meccanica, come per qualunque altro intervento medico o somministrazione terapeutica, vanno rispettati i dispositivi di sicurezza e di garanzia per il paziente, vanno valutati attentamente controindicazioni e effetti collaterali e va documentata accuratamente l’intera procedura indicando nella cartella clinica le ragioni che hanno portato alla contenzione del paziente, le modalità con cui la contenzione è stata effettuata, l’ora in cui è iniziata, i tempi di revisione del procedimento e le motivazioni per cui l’intervento viene protratto o sospeso. Tali aspetti sono infatti fondamentali ai fini medico-legali e processuali, tanto più che una contenzione impropriamente attuata può configurare la fattispecie delittuosa delle lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) o dell’omicidio colposo (art. 589 c.p.). Il ricorso a protocolli operativi non sempre è risolutivo, poiché non sono indicate le tempistiche dell’intervento di contenzione, non prevedibili in anticipo. Normalmente, tali protocolli si limitano ad indicare che la contenzione non deve essere protratta per più tempo di quanto non sia necessario alla risoluzione delle condizioni che ne hanno determinato l’applicazione e fissano una durata di validità dell’atto prescrittivo che in media non supera le 12 ore. Scaduto il termine, tuttavia, l’atto può venire riconfermato per un numero di volte e per una durata complessiva di fatto indefinibile poiché non è indicata una soglia massima24. A questo proposito, una sentenza del 2013 (Tribunale Vallo Lucania, 27.4.2013) ha stabilito che “la contenzione del paziente protratta per più giorni, assolutamente ingiustificata e non rispettosa dei limiti per la sua adozione, configura il delitto di sequestro di persona (art. 605 c.p.), nonché quello di morte come conseguenza di altro delitto (art. 586 c.p.) se da tale contenzione deriva la morte del paziente, come conseguenza non voluta, ma in concreto prevedibile”. Non si dimentichi, altresì, che se l’attuazione di manovre contenitive espone i sanitari a indubbi rischi, la mancata attuazione di misure non esime da responsabilità. Tra gli obblighi della posizione di garanzia25 del medico, infatti, rientra anche quello di evitare conseguenze lesive per il paziente e, 23 Dodaro G. (2011). Cit. p. 1489-1490. Dodaro G. (2011). Cit. p. 1511. 25 La posizione di garanzia è uno speciale vincolo di tutela, posto da norme giuridiche, gravante su speciali categorie di soggetti individuati dalla legge con specifica funzione di garanzia di interessi socialmente meritevoli. Il fondamento giuridico è la presa in carico del paziente psichiatrico quale persona la cui infermità può essere causa di alterazioni comportamentali. Comprende la posizione di protezione, che si sustanzia nell’obbligo di preservare la vita e la salute del paziente contro gesti auto lesivi, e la posizione di controllo che implica l’obbligo di assicurare che determinate fonti di rischio non producano danni alle persone che operano quotidianamente nei servizi psichiatrici. 24 15 nondimeno, si può incorrere nel reato di abbandono di incapace (art. 591 c.p.) del quale si risponde a prescindere dall’evento di danno che possa derivare al destinatario della tutela a causa dell’abbandono. Anche l’operatore psichiatrico potrebbe essere chiamato a rispondere per un atto auto o etero lesivo posto in essere da un paziente: l’impedimento di tali gesti rientra nell’obbligo di tutela della vita e della salute e la posizione di garanzia per qualunque operatore della salute mentale si sostanzia nell’obbligo di attuare un idoneo trattamento terapeutico volto a evitare l’aggravamento delle condizioni psicopatologiche del paziente e risponde ai compiti di protezione e controllo della sicurezza all’interno dei luoghi di cura26. Allora l’operatore psichiatrico è tenuto a intervenire ogni qualvolta si stiano verificando, o ci siano alte probabilità che si verifichino, eventi dannosi per l’incolumità del malato o di terzi. Questa posizione, però, impone una riflessione sulle finalità del trattamento sanitario, che non dovrebbero essere cautelative della collettività, ma solo dei pazienti affidati alle cure del medico o degli operatori. Tuttavia, l’art. 32 della nostra Costituzione tutela la salute come interesse della collettività, e non solo come diritto del singolo: anche i terzi che potrebbero subire danni rientrano quindi tra i soggetti destinatari del trattamento sanitario, e in effetti esaminando i recenti orientamenti giurisprudenziali la distinzione tra atti auto o eteroaggressivi risulta irrilevante: un agito eterodiretto, infatti, è pregiudizievole anche della salute del paziente che lo pone in essere, alla stregua di un atto autodiretto. A questo proposito, una pronuncia del Tribunale di Milano del 9.12.2008 in cui il giudice ha ritenuto che la posizione di garanzia degli operatori psichiatrici non si limita alla cura del singolo paziente, ma va estesa alla tutela di tutti i degenti considerando i potenziali pericoli che possono scaturire dall’interazione e da eventuali aggressioni fisiche tra di loro. Stessa posizione viene ribadita dai giudici di legittimità con la sentenza n. 18950/2009 (Cass. IV) in cui due medici vengono condannati a seguito dell’aggressione di un paziente ai danni di un codegente che esita con la morte di quest’ultimo. La giurisprudenza non fornisce tuttavia un orientamento preciso rispetto alla sussistenza della posizione di garanzia nel caso di ricovero volontario. Così, se una pronuncia di merito (Tribunale di Busto Arsizio, sez. dist. Saronno, 27.5.1999, n. 164) assolve un medico per non aver evitato il suicidio di un degente, i giudici di legittimità (Cass. IV, 27.11.2008 n. 48292 e Cass. IV, 12.2.2013 n. 16075) condannano uno psichiatra per una fattispecie analoga ritenendo che il medico sia “titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente anche se questi non sia sottoposto a ricovero coatto e ha pertanto l’obbligo - quando sussista il concreto rischio di condotte auto lesive, 26 Dodaro G. (2011). Cit. p. 1505 16 anche suicidiarie - di apprestare specifiche cautele” e abbia quindi l’obbligo di curare il paziente avvalendosi di tutti gli strumenti di cui dispone. Va precisato, inoltre, che la predizione relativa alla possibilità che un paziente possa mettere in atto, nel breve o nel lungo periodo, agiti auto o etero aggressivi non è cosa da poco: “perché un evento sia pronosticabile bisogna che risultino tre condizioni: l’esistenza di regolarità, la conoscenza di tali regolarità e la nozione di tutti i parametri rilevanti”27. Spesso, l’accurata valutazione di tutti i parametri è impossibile: “non solo sul piano pratico, ma anche da un punto di vista teoretico. Lo psichiatria e lo psicologo non possono prevedere il comportamento futuro di una persona perché esso dipende in parte dall’ambiente che la circonda, dal tipo di stimoli ai quali sarà sottoposta e in parte dalla futura dinamica delle sue funzioni psichiche. Tali elementi sono sconosciuti allo psichiatra e difficilmente conoscibili”28. Già Freud29 aveva notato tale difficoltà: “per quanto facciano risalire lo sviluppo all’indietro dal suo stadio finale, la connessione appare continua, e sentiamo che abbiamo guadagnato un’intuizione che è completamente soddisfacente e anche esauriente. Ma se facciamo la strada inversa, se partiamo dalle premesse dedotte dall’analisi e cerchiamo di seguirle fino al risultato finale, allora non acquisiamo più l’impressione di una successione inevitabile di eventi che non potrebbe essere determinata altrimenti. Notiamo subito che ci potrebbe essere stato un altro risultato (…). La sintesi non è quindi soddisfacente come l’analisi; in altre parole, da una conoscenza delle premesse non avremmo potuto prevedere la natura del risultato (…). Anche supponendo di avere una completa conoscenza dei fattori eziologici che determinano un dato risultato, tuttavia ciò che noi conosciamo di essi si riferisce alla loro qualità e non alla forza a loro relativa. Alcuni di essi sono soppressi da altri perché sono troppo deboli e pertanto non influenzano i risultati finali. Ma noi non possiamo mai sapere in anticipo quali dei fattori determinanti si dimostrerà il più debole o il più forte”. La giurisprudenza, invece, non ha una posizione definita rispetto alla prevedibilità dell’evento lesivo auto o eterodiretto: talvolta ha asserito la prevedibilità per giungere alla condanna dell’imputato (Cass. IV n. 48292/2008; Cass. IV n. 8611/200830; Cass. IV n.10795/200831), talaltra 27 Walder R. (1963). Psychic determinism and the possibilità of predictions. Psychoan. Quarter, p. 15. In Gulotta G. (1967). Le dimissioni del malato di mente dall’ospedale psichiatrico. Aspetti medico-sociali. I quaderni degli incontri. 28 Gulotta G. (1967). Le dimissioni del malato di mente dall’ospedale psichiatrico. Aspetti medico-sociali. I quaderni degli incontri. 29 Freud S. (1956). The psychogenesis of a case homosexuality in a woman. Collected Papers, vol. 2, Hogart, London, p. 202. In Gulotta G. (1967). Le dimissioni del malato di mente dall’ospedale psichiatrico. Aspetti medico-sociali. I quaderni degli incontri. 30 Omicidio colposo – responsabilità del medico e dell’esercente le professioni sanitarie. Sussiste il reato di omicidio colposo in capo agli infermieri di un ospedale per non aver prestato idonea vigilanza durante le ore notturne sul paziente ricoverato, affetto da disturbi psicotici, che aveva aggredito e ucciso il suo vicino di camera. 31 Risponde di omicidio colposo il medico psichiatra che, senza acquisire le conoscenze disponibili sul percorso patologico del paziente ed essersi informato in modo continuativo sull’evoluzione della malattia al fine di verificare l’esistenza di sintomi “allarmanti” conseguenti alla modifica del trattamento, con modalità diverse da quelle prescritte 17 il concetto è stato utilizzato in chiave assolutoria (Cass. IV n. 42670/2007). Dall’analisi di queste pronunce, sembra che il criterio decisionale, l’ago della bilancia per così dire, tra la colpevolezza e l’assoluzione sia costituito dalla diagnosi psichiatrica: sussistono infatti patologie (per restare all’interno delle pronunce considerate, il disturbo depressivo o la psicosi) per le quali è ipotizzabile un’evoluzione auto o etero lesiva, e altre (il disturbo borderline di personalità) intrinsecamente caratterizzate da impulsività e imprevedibilità per le quali la previsione è estremamente difficile. L’ipotesi e la previsione di rischi, inoltre, non costituisce attualità del pericolo, considerata, come visto in precedenza, necessaria per la discriminante dello stato di necessità. Per concludere, un breve riferimento alle strutture, e in particolare alcuni Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (S.P.D.C.) no restraint dove le porte sono aperte e i pazienti non vengono mai sottoposti a misure di contenzione meccaniche32, ma solo contenzioni chimiche e relazionali, che implicano maggior coinvolgimento da parte degli operatori, o al più manuali attraverso la tecnica della holding che prevede che il personale sanitario fronteggi con il proprio corpo il corpo del paziente, mettendosi in discussione persona contro persona, al fine di ottenere il consenso del paziente, escludendo qualunque finalità punitiva o di sopraffazione. dalla migliore scienza psichiatrica riduce e poi sospende il trattamento farmacologico neurolettico nei confronti del paziente psicotico che poi commette un omicidio. 32 Tra questi, gli S.P.D.C. di Aversa, Cagliari, Caltagirone-Palagonia, Caltanissetta, Enna, Gorizia, Grosseto, Mantova, Matera, Merano, Napoli, Novara, Roma C., Perugia, Pescia, Portogruaro, Siena, Udine, DSM Venezia, Verona Sud, Terni, Treviso, Trieste 18