Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l`evoluzione di un`idea

Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe,
l’evoluzione di un’idea
Indice
Introduzione
1 Le intuizioni di Michell e Laplace
4
2 Il cerchio magico di Eddington
5
3 Il limite di Chandrasekhar
8
4 Grandi lavori ignorati
4.1
Le tappe principali che hanno portato alla scoperta teorica dell’esistenza dei buchi neri, fino agli ultimi risultati legati alla teoria delle
stringhe.
10
Il pionieristico lavoro di Oppenheimer e Snyder . . . . . . . . .
11
5 Il dopoguerra e gli anni ’60. E buchi
neri furono.
12
5.1
5.2
Crolla il cerchio magico di Eddington . . . . . . . . . . . . . .
14
I buchi neri di Kerr e di
Newmann . . . . . . . . . . . . .
15
6 1965-1974:
bile
6.1
un decennio memora16
La congettura del Censore Cosmico . . . . . . . . . . . . . . . .
17
6.2
Il processo Penrose
. . . . . . .
18
6.3
Il teorema No Hair
. . . . . . .
20
Alex: Come si fa a non essere affascinati dalla
forza più micidiale dell’universo?
21
Kate: Il lungo e buio tunnel verso il nulla
22
Reinahardt: O verso qualcosa. E’ proprio
questa la domanda a cui dare risposta...
7 La dinamica dei buchi neri
8
I buchi neri evaporano
Reinhardt: Le interessano i buchi neri?
(The Black Hole, 1979)
9 Gli ultimi venti anni di ricerche
9.1
Universi come ologrammi e altre
stranezze . . . . . . . . . . . . .
10 Bibliografia
Un dossier di Paolo Magionami,
aggiornato al 02.04.2004
25
26
27
Queste battute sono tratte dal film The Black
Hole, pellicola tutt’altro che indimenticabile
con co-protagonista uno scienziato decisamente
squilibrato. Un brutto film con uno scienziato
pazzo potrebbe far pensare a una sceneggiatura piuttosto misera, tuttavia questo breve dialohttp://www.torinoscienza.it/
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go sintetizza egregiamente il mistero e il fascino
che si cela, è proprio il caso di dirlo, dietro a
due semplici parole che come impatto massmediologico non sono state, e non sono, seconde a
nessuno: buchi neri.
preciso. ”No. Il buco nero è una massa trasformata in pura energia“. ”No, è solo massa che
ha perso tutta l’energia“ (Corriere della Sera, 7
settembre 1975, nella rubrica: ”Osservatorio del
signor Palomar)
Ma torniamo per un momento al film. Prodotto dalla Walt Disney per la regia di Gary Nelson e la partecipazione, tra le altre, di Antony
Perkins e Ernest Borgnine, The Black Hole narra le peripezie dell’equipaggio di un’astronave
che viene salvato dalle grinfie di un buco nero
grazie all’intervento di un altro vascello spaziale
governato da robot comandati dal folle dottor
Reinhardt. Animato da una perversa fama di
conoscenza, il folle ha deciso di scoprire cosa si
nasconde all’interno di un buco nero, attraversandone il limite di non ritorno alla vana ricerca
di nuovi mondi. Limite che oggi conosciamo con
un nome molto evocativo: orizzonte degli eventi.
Il film, piuttosto modesto anche se ha qualche
sequenza di una certa suggestione, appartiene a
quella folta schiera di racconti di fantascienza
che prendono spunto da questi strani, e in parte
misteriosi oggetti cosmologici. Tra interrogativi
scientifici non ancora risolti e suggestioni fantascientifiche, ben poche parole hanno avuto la
fortuna mediatica di queste due, introdotte la
prima volta da John Wheeler alla fine degli anni sessanta e cosı̀ ampiamente saccheggiate dalla letteratura di genere. Anche Italo Calvino ha
dato il suo personale contributo:
Quante domande, quanti interrogativi. Un “vortice di interrogativi”, che non hanno fatto altro
che aumentare la fama e le fantasie attorno a
questi “mostri del cielo”, come tante volte sono
stati definiti nella letteratura popolare. La fama
lugubre, e in parte meritata, di un buco nero si
affianca al fascino legato alle caratteristiche di
questi oggetti che lasciano aperta la via a numerose speculazioni, non ultima la possibilità
che i buchi neri siano una sorta di portali su
altri universi; d’altronde, come dice il dottor
Reinhardt, “è proprio questa la domanda a cui
dare risposta”. Insomma, alla fine, la domanda
del savant fou disneyano potrebbe non essere del
tutto folle, come avremo modo di scoprire.
“Da qualche settimana tutti gli amici coi quali
il signor Palomar capita di discorrere finiscono
prima o poi per parlare di ”buchi neri“...Da
molto tempo un tema di ricerca scientifica fortemente specializzato e lontano da riflessi pratici diretti non suscitava tanta emozione come
questo dei black hole. Merito soprattutto di una
trasmissione televisiva molto ben fatta, andata
in onda il 28 agosto, in cui astronomi e astrofisici americani, inglesi e italiani spiegavano
le proprietà di questi inimmaginabili oggetti celesti....Negli spettatori profani che l’anno seguita
con passione, la trasmissione ha messo in moto un vortice di interrogativi. ”Il black hole non
è un buco vuoto ma è pieno di materia durissima e densissima“, sostengono alcuni che hanno
letto su un giornale un articolo forse un po’ imUn dossier di Paolo Magionami,
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Potrebbe far sorridere il fatto che il padre della teoria della relatività generale, vero pass par
tou per ogni buon viaggiatore spazio-temporale,
l’immortale Albert Einstein, fu tra gli scienziati
più scettici e avversi all’idea di considerare possibile l’esistenza di simili mostruosità, e con lui
molti altri grandi geni del secolo appena passato; ciò sottolinea come il rapporto buchi neriscienza non fu mai semplice, e solo a partire
dagli anni sessanta si diede la giusta importanza allo studio di queste anomalie nello spaziotempo, riabilitando quella comunità scientifica
che si stava dedicando a questi studi e che non
era mai stata presa molto sul serio. Basti pensare che negli anni venti uno dei più grandi scienziati, ed esperti di relatività generale, Arthur
Eddington aveva definito l’orizzonte degli eventi
come un “cerchio magico”.
Sarà John Archibald Wheeler con quel “black
hole” ad alzare il sipario sulla questione e a far
entrare nell’immaginario collettivo tutte quelle
stramberie alimentate dalla letteratura di fantascienza e, diciamolo pure, dalle scoperte degli
stessi scienziati.
Questo breve saggio intende ripercorrere le
tappe principali che hanno portato alla scoperta teorica dell’esistenza dei buchi neri, fino a inhttp://www.torinoscienza.it/
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trodurre alcuni risultati legati agli ultimi aspetti della ricerca legati alla teoria delle stringhe.
E’ stato scelto un approccio storico cronologico,
con i pregi e i difetti che questo modo di esporre
i fatti comporta, soffermandosi su quei personaggi e su quelle vicende che hanno caratterizzato
una lunga, e spesso assai pregiudizievole, ricerca scientifica su uno dei più grandi misteri della
Natura. Tranne che in rare e particolari situazioni si è evitato di discutere la fisica che governa questi straordinari oggetti, lasciando alla
bibliografia finale il compito di suggerire testi divulgativi e specialistici per coloro che intendono
approfondire l’argomento.
Quello che presentiamo qui è, insomma, un lungo viaggio alla scoperta dei buchi neri. E come
tutti i viaggi inizia con un primo lontano passo. E’ il passo compiuto più di due secoli fa da
uno scienziato dilettante alle prese con argute
congetture sulla massa delle stelle.
Tutto iniziò nel 1783 per merito di un pastore
protestante.
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1
Le intuizioni di Michell e
Laplace
Sembra proprio che le prime intuizioni sull’esistenza di particolari corpi oscuri, invisibili,
siano state fatte alla fine del Settecento. Più
precisamente, correva l’anno 1783 quando un
pastore inglese di nome John Michell (17241793), rettore di Thornhill nello Yorkshire dopo
essere stato insegnante in quel di Cambridge,
scriveva in una lettera inviata alla Royal Society
di Londra
“se dovessero effettivamente esistere in natura
corpi di densità non inferiore a quella del sole
e i cui diametri fossero più di cinquecento volte
quelle del sole...la loro luce non arriverebbe sino
a noi.” (Michell, 1783)
Il ragionamento di Michell, peraltro dotato di
una certa logica, si inseriva nel contesto di una
folle idea: stabilire la massa di una stella in base
alla misura del rallentamento della velocità della luce proveniente dall’astro stesso. Ma il ragionamento era più articolato di quello che a
una prima lettura poteva sembrare e le lettere
che Michell scambiava con un fisico di spiccato
talento confermano questa visione.
Il nostro pastore era, infatti, amico fraterno del
grande fisico, lui si, Henry Cavendish (17311810), il più eminente studioso di elettricità
nel regno di Sua Maestà la regina d’Inghilterra. Il genio del fisico, discendente di una ricchissima e illustre famiglia, andava di pari passo con le sue stravaganze, a cominciare dall’abbigliamento, dal modo confuso con il quale si
esprimeva e dalla sua totale idiosincrasia verso la pubblicazione dei suoi risultati scientifici
che si accompagnava a una grande difficoltà a
intrattenere rapporti con gli altri colleghi scienziati. Sebbene riducesse al minimo i rapporti
con la comunità scientifica, Cavendish intratteneva un’intensa corrispondenza con Michell, il
quale, da parte sua, non esitava a comunicare le
sue intuizioni al ben più famoso “collega”, che,
parimenti, non rinunciava a incoraggiare il reverendo nelle sue ricerche. Purtroppo gran parte
di questa corrispondenza è andata perduta, soprattutto quella di Michell che, come l’amico,
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aveva un rapporto con la carta piuttosto conflittuale. Fortunatamente una parte del carteggio
di Cavendish è andato salvato e alcune delle lettere che i due si scambiavano sono arrivate fino
a noi. Le righe di cui sopra furono presentate
da Cavendish alla Royal Society di Londra il 27
novembre del 1783.
Da questi scritti si può comprendere che l’articolato pensiero di Michell andava ben oltre la semplice speculazione fine a se stessa ma, anzi, rappresentava un lavoro concreto e ben dettagliato
sviluppato per ottenere informazioni sulle distanze stellari, la grandezza delle stelle e la loro
massa; supponendo, infatti, che le particelle di
cui era costituita la luce fossero attirate verso la
terra alla stessa maniera di tutti gli altri corpi
pesanti, Michell ipotizzò che sarebbe stato possibile calcolare la massa delle stelle in base al
rallentamento della luce che da esse proveniva.
Il pastore giunse alla conclusione che se la massa
di un corpo di dato raggio fosse stata abbastanza
grande allora i raggi luminosi avrebbero avuto
velocità nulla e quindi gli oggetti corrispondenti essere invisibili. A coronamento del ragionamento l’abate scrisse una formula assai simile
a quella che più di un secolo dopo metterà in
relazione la massa e il raggio di Schwarzschild.
E’ chiaro come il pensiero di Michell fosse incentrato, e non poteva certo essere diversamente,
sulle ipotesi di Newton e, in particolare, sull’ipotesi della natura corpuscolare della luce,
come lo stesso reverendo scrisse:
“Supponiamo ora che le particelle di luce possano essere attratte nello stesso modo di tutti
gli altri corpi che conosciamo”
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conclusioni assai simili a quelle di Michell, arrivando a ipotizzare l’esistenza di un enorme
oggetto oscuro al centro della Via Lattea attorno al quale avrebbero ruotato le stelle del
centro della galassia. Soldner calcolò anche le
eventuali orbite che le stelle ruotanti attorno
a siffatto oggetto avrebbero dovuto avere, ma
giunse alla conclusione che i dati ricavati non deponevano a favore della sua teoria non essendo
stati osservati. E abbandonò le sue ricerche.
Pochi anni dopo qualcun altro fece considerazioni molto simili e, sembra, indipendentemente da Michell; nel 1796, il grande matematico francese Pierrre Simon de Laplace (17491827) espose nel trattato Exposition du Systeme
du monde idee assai vicine a quelle di Michell,
salvo poi ritrattarle nelle edizioni successive alla seconda, probabilmente per essersi reso conto
dell’assurdità di certi ragionamenti. Il completo
voltafaccia del matematico va, tuttavia, interpretato anche alla luce del radicale cambiamento che andava maturando in quegli stessi anni e
che riguardava la natura dei fenomeni luminosi.
Nel 1801, Thomas Young (1773-1829), affascinante figura di fisico, medico e in seguito di
egittologo, scoprı̀ il fenomeno dell’interferenza
della luce, sancendo di fatto il passaggio dalla
teoria corpuscolare della luce a quella ondulatoria. Di conseguenza dalla mente degli scienziati
fu completamente rimossa l’idea che la gravità
avesse modo di influenzare la luce, semplicemente per il fatto che non c’erano particelle massive sulle quali la gravità potesse agire, come
Young aveva appena dimostrato. Insomma,
l’idea di tali, improbabili, stelle invisibili venne
presto dimenticata senza particolari rimpianti.
Mezzo secolo dopo la ritrattazione di Laplace,
l’astronomo tedesco Johann Georg von Soldner
effettuò un coraggioso tentativo e si mise a calcolare la deflessione della luce, sempre su base
newtoniana, al passaggio di questa vicino alle
stelle. Studiandone il comportamento, giunse a
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Con i dati di Soldner e l’affermarsi della teoria ondulatoria della luce si conclusero questi
primi approcci al problema dei corpi estremamente grande e massicci. Dovremmo aspettare
la seconda decade del nuovo secolo, il Novecento, perché si affermi la teoria della relatività di
Einstein e il nostro viaggio possa continuare.
2
Il cerchio magico di Eddington
Nel febbraio del 1920, tale A. Anderson del University College Galway pubblicò nel Philosophical Journal un’ardita e quanto mai sorprendente
speculazione:
“Possiamo evidenziare, sebbene l’assunzione sia
piuttosto forte, che se la massa del Sole fosse concentrata in una sfera di 1.47 chilometri,
l’indice di rifrazione diverrebbe infinitamente
grande, e avremmo una lente convergente estremamente potente, troppo potente in realtà,
per la luce emessa dal Sole che avrebbe velocità nulla sulla sua superficie. Perciò il Sole...
sarebbe circondato dall’oscurità, non perché non
avrebbe luce da emettere ma perché il suo campo gravitazionale diverrebbe impermeabile alla
luce.”
Poco dopo, nel 1921, il ben più conosciuto sir
Oliver Lodge (1851-1940) tenne una lezione agli
studenti dello Student’s Science Club della prestigiosa Università di Birmingham nella quale
disse:
“Se la luce è soggetta alla gravità, se in un
qualche senso reale essa abbia peso, allora è
lecito trarre le conseguenze di questo fatto. Una
di queste conseguenze dovrebbe essere che un
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corpo sufficientemente massiccio e concentrato
sarebbe in grado di trattenere la luce e impedirle
di fuggire ”
cessivo, Einstein elaborò le sue Considerazioni
cosmologiche applicando la sua teoria all’intero
universo.
Sir Oliver proseguı̀ il discorso portando avanti
alcuni calcoli
Fatta la teoria non rimaneva altro che capire
cosa la teoria predicesse.
“Se una massa come quella del Sole (2.2 x
1033 grammi) potesse essere concentrata in una
sfera di tre chilometri di raggio allora tale globo
avrebbe le proprietà prima citate, ma tali concentrazioni travalicano la portata di un pensiero
razionale... Ma un sistema stellare -diciamo una
galassia a spirale, costituita da una massa di
circa 1015 masse solari...racchiuse in un raggio
di 300 parsec...con una densità media di 10-15
c.g.s. [un milione di miliardesimo quella dell’acqua, n.d.r) potrebbe essere in grado di intrappolare la luce. Questa non sembra davvero una
concentrazione di materia cosı̀ irraggiungibile.”
L’intuizione di Lodge era davvero notevole, tanto da “travalicare la portata di un pensiero
razionale”, ma di certo non ebbe grande risonanza nell’ambiente accademico che allora era
già impegnato a celebrare quello che sarebbe divenuto una delle figure più illustri e conosciute
della fisica di tutti i tempi: Albert Einstein.
Sei anni prima del discorso di Lodge ai suoi studenti, Einstein, già conosciuto per la teoria della relatività ristretta e gli studi sull’effetto fotoelettrico, presentò a ben altro uditorio rispetto a quello di sir Oliver i risultati di un intensissimo periodo di ricerca; avendo appreso che
il matematico David Hilbert (1862-1943), non
certo uno qualunque, si stava dedicando a un
lavoro molto importante sulla gravitazione, il 2
novembre 1915, dopo due intensi mesi di lavoro
dedicati a risolvere alcune incongruenze che minavano la sua teoria, Einstein presentò all’Accademia prussiana delle Scienze un sistema di
equazioni del campo gravitazionale che mettevano in relazione la curvatura dello spazio tempo
con la densità di energia della materia contenuta
al suo interno.
Einstein aveva appena esposto la base della teoria della relatività generale, forse il più grande
contributo di un ricercatore nella storia della
fisica. Nel marzo del 1916 il lavoro venne pubblicato negli Annalen der Physik e, l’anno sucUn dossier di Paolo Magionami,
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Un primo passo in questa direzione venne effettuato pochissimo tempo dopo il discorso di
Einstein dall’astronomo tedesco, direttore dell’Osservatorio di Potsdam, Karl Schwarzschild
(1873-1916).
Oggi questo nome viene associato indissolubilmente a uno dei tipi di buco nero che conosciamo, ma al tempo della scoperta dell’astronomo,
nessuno, Einstein compreso, aveva ben chiaro
cosa egli avesse realmente trovato. E passeranno
molti anni prima di questo.
Comunque, l’astronomo tedesco venne a
conoscenza del lavoro di Einstein leggendo
il numero del 25 novembre degli Atti dell’Accademia Prussiana delle Scienze e poco
dopo riuscı̀ a trovare la prima soluzione esatta
delle equazioni della relatività generale che
Einstein lesse nel gennaio del 1916. Il fatto
ancor più straordinario fu che quell’articolo era
stato scritto da uno scienziato impegnato sul
fronte orientale del primo conflitto mondiale;
conflitto dal quale l’ex direttore dell’osservatorio di Potsdam tornerà gravemente malato
tanto da spegnersi poco dopo aver dato il suo
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grande contributo alla scienza: la soluzione di
Schwarzschild.
Nel suo lavoro, l’astronomo aveva trovato due
soluzioni rigorose ed esatte delle equazioni di
Einstein, sebbene descriventi situazioni piuttosto semplici: una descrivente il campo gravitazionale di una massa puntiforme e l’altra descrivente quello di una sfera estesa. Gli assunti per risolvere il problema furono la simmetria
sferica del problema e la stazionarietà. Con il
primo assunto si intende che il corpo e il campo da esso creato hanno forma sferica, mentre la
parola “stazionario” indica un evento non dipendente dal tempo, ossia, nel caso di un buco nero,
che esiste una famiglia di osservatori esterni alla “mostruosità” per i quali ogni cosa rimane
sempre uguale a se stessa.
La soluzione trovata da Schwarzschild ha questa
forma
c 2 - (1-2m/r)dt2
ds2 = (1- 2m/r)−1 dr2 + r2 dÎ
dove ds 2 rappresenta l’intervallo spazio temporale tra due eventi, m la massa del corpo che
genera il campo, r la distanza dal centro e
c rappresenta l’angolo solido. Una formudÎ
la come questa, che esprime l’intervallo spazio
temporale tra due eventi, viene definita metrica dello spaziotempo. Essa descrive completamente il campo gravitazionale generato dal
corpo: definisce il moto di tutti gli osservatori in caduta libera e tutte le relazioni spaziotemporali tra eventi all’interno di questo campo.
Questo significa che la soluzione delle equazioni
di Einstein appena vista, presupposta una particolare distribuzione della materia (la sfera di
Schwarzschild), fornisce il corrispondente campo
gravitazionale in ogni punto dello spaziotempo.
Non solo. Poiché spazio e tempo sono strettamente connessi, ogni campo gravitazionale
produce una deformazione del tempo che ogni soluzione trovata deve essere in grado di
misurare in ogni punto dello spazio.
E su questo punto il grande Einstein entrò in
crisi.
In corrispondenza di un preciso valore del
parametro r nella soluzione di Schwarzschild,
precisamente r=2M ( e ancor più correttamente
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sarebbe r=2mG/c2 , ma qui per semplicità le
costanti universali G e c sono state poste uguale
a uno), il risultato che la metrica fornisce è pari a
infinito. In altre parole, la soluzione non sembra
essere più in grado di fornire una predizione corretta, e presenta una patologia che viene chiamata singolarità. Una soluzione che ha questo
comportamento si dice che diverge. La cosa si fa
preoccupante nel caso in cui vogliamo calcolare
proprio quella dilatazione temporale prima menzionata. Si può facilmente dimostrare che nel
caso di Schwarzschild la dilatazione temporale
dipende solo dalla distanza dal centro di massa,
ossia dal parametro r, pertanto risulta che il valore r=2M è ancora una volta un parametro critico per la soluzione in questione e la risposta che
otteniamo è ancora una volta incomprensibile:
infinito.
Ecco l’inghippo che sconcertò Einstein: la
soluzione di Schwarzschild forniva come risposta
“infinito” per gli intervalli di tempo in una certa
regione dello spazio.
Nel caso del Sole, la deformazione temporale si
verifica in prossimità dei 3 chilometri. A Einstein il fatto che in corrispondenza di questo raggio il tempo fosse infinitamente dilatato risultò
fin troppo arduo da accettare.
E infatti non lo fece.
I risultati trovati da Schwarzschild allora furono
interpretati in maniera tale che potevano essere
utilizzati per calcolare il campo gravitazionale
esternamente a una massa sferica, in lontananza
della quale la descrizione dell’astronomo tedesco
si riconduceva alla teoria classica newtoniana;
per quanto riguarda la singolarità che si presentava al raggio di Schwarzschild fu bellamente ignorata e venne più che altro trattata come una
semplice anomalia della soluzione. Questo atteggiamento veniva supportato anche da pure
motivazioni pratiche: per il Sole, come detto,
il raggio di Schwarzschild vale appena 3 km e
cade quindi molto al di dentro dell’astro, il cui
raggio che è di circa 700000 km; visto che la
soluzione in esame non si adattava per il campo
gravitazionale all’interno del corpo, il problema
risultava di scarso interesse pratico. Lo stesso Schwarzschild interpretò questo dato come
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l’impossibilità di comprimere il sole al di sotto
di questo raggio, che, pertanto, delimitava una
sorta di superficie limite invalicabile: l’orizzonte
degli eventi.
Con buona pace dello stesso Einstein, che d’altro canto era fin troppo impegnato nelle celebrazioni che lo stavano riguardando. Tre anni
dopo la pubblicazione delle equazioni della relatività generale il grande sir Arthur Eddington
(1882-1944) nel corso di un’eclissi totale di Sole
dimostrò che i calcoli di Einstein erano esatti predicendo correttamente la deflessione della luce in presenza di un forte campo gravitazionale. Il 7 novembre del 1919 il Times uscı̀
nelle edicole con una prima pagina sensazionale:
Rivoluzione nella scienza
Nuova teoria dell’universo
Demolita la concezione di Newton
E fu il trionfo per Einstein. E mentre il mondo
celebrava e ricopriva di onori il grande scienziato che ricevette nel 1921 dalla Royal Society la
prestigiosa Fellowship e l’anno seguente il premio Nobel per l’effetto fotoelettrico, nello stesso periodo i più anonimi Anderson e Lodge si
ponevano i dubbi sulle oscure e invisibili stelle.
Eddington, ritornando sull’argomento del raggio di Schwarzschild, affossò definitivamente la
questione apostrofando questa superficie come
un “cerchio magico”, impenetrabile da qualsiasi
strumento d’osservazione. La questione per lui
finiva lı̀. Egli abbandonò il problema e si dedicò
agli studi sulla materia iperdensa.
Con gli anni venti, gli scienziati iniziarono a
credere nella possibilità che l’atomo potesse essere in qualche modo “rotto” e quindi procedere a una compressione della materia a densità ritenute, fino ad allora, inimmaginabili. Nel
1924, in un discorso alla Royal Astronomical
Society, Eddington diceva:
“Perdere un elettrone significa che la barriera
attorno a un atomo è spezzata?...Io credo che la
maggioranza dei fisici sarebbe d’accordo nel concludere che la rimozione degli elettroni esterni
coincide con la rimozione della barriera”.
Eddington ancora non lo sapeva, ma sarebbero
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stati proprio gli studi sulla materia iperdensa a
rispolverare il problema del cerchio magico. Insieme a esso anche la teoria di Einstein, paradossalmente lasciata un po’ troppo a languire
in qualche vano semi dimenticato della ricerca,
riprese a essere una prima donna della ricerca.
Infatti, sebbene negli anni venti la teoria eisteniana avesse guadagnato grandi consensi, venne
sempre ritenuta un campo estremamente specialistico, complicato e difficilmente verificabile
e per un decennio, dopo le misure di Eddington,
subı̀ un periodo di ristagnamento.
Ma alcune osservazioni astronomiche effettuate
su corpi celesti gettarono scompiglio nella comunità scientifica, mettendo in evidenza l’esistenza di particolari corpi dal diametro modesto ma
dalla concentrazione di massa estremamente alta. Il caso più famoso fu quello di Sirio B che
in un diametro poco più grande di quello della Terra racchiudeva i 4/5 della massa solare.
La classe di queste stelle fu denominata nane
bianche. I valori erano sorprendenti e gli scienziati iniziarono a chiedersi cosa sarebbe potuto
accadere a stelle ancora più massicce di Sirio B.
Forse il collasso gravitazionale, che rappresenta
l’ultima fase nel ciclo vitale di una stella dopo
che essa ha terminato il combustibile nucleare,
avrebbe potuto portare l’astro a valori prossimi al raggio di Schwarzschild? Cosa sarebbe
successo poi?
Inquietanti scenari iniziarono ad affacciarsi alla mente degli scienziati e il cerchio magico
stava per uscire nuovamente dal cilindro del
prestigiatore cosmico.
3
Il limite di Chandrasekhar
La risposta ai grandi interrogativi sul collasso
gravitazionale giunse, letteralmente, dalla lontana India. A bordo di un battello, il prestigiatore che avrebbe messo le mani dentro al cilindro
cosmico aveva l’aspetto di un giovanissimo studente indiano: Subrahmanyan Chandrasekhar
(1910-1995). Nella primavera del 1930 il diciannovenne scienziato intraprese un viaggio dall’India a Cambridge per recarsi a studiare come allievo di Eddington; durante la traversata il giohttp://www.torinoscienza.it/
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
vane ricercatore si mise a fare alcuni calcoli sulle
nane bianche e giunse a un risultato che lo lasciò alquanto sorpreso: se la nana bianca avesse
avuto una massa superiore a 1.4 masse solari,
allora il suo collasso sarebbe stato inarrestabile.
9
Quindi, fine (poco decorosa) della storia?
Neanche per idea. Altri scienziati giunsero alla conclusione dello studente indiano. Uno di
questi, uno dei mostri sacri del secolo, ricavò un
risultato analogo a quello del giovane studente
indiano che fu pubblicato nel 1931 con il titolo “Sulla teoria delle stelle”. In questo lavoro,
che portava la firma di Lev Davidovic Landau
(1908-1968), si poteva leggere:
“Se realmente tali masse dovessero esistere...dobbiamo concludere che tutte le stelle
più pesanti di 1.5 masse solari sicuramente
posseggano regioni nelle quali le leggi della
meccanica quantistica (e quindi della statistica
quantistica) sono violate”
Quando una stella finisce il suo combustibile nucleare non è più in grado di sorreggere il proprio
peso e inizia a contrarsi. In questa fase le particelle tendono ad avvicinarsi le une con le altre
fino a quando non interviene il principio di esclusione di Pauli che vieta, a certe particelle, di
stare troppo vicine tra di loro. In altre parole si
viene a creare una forza di repulsione che controbilancia la pressione gravitazionale. Il risultato trovato da Chandrasekhar dimostrò però che
c’era un limite a questa repulsione, superato il
quale la stella avrebbe continuato a collassare
su se stessa. Il limite da lui trovato era strettamente legato alla massa della stella in fin di vita
che lui valutò appunto in 1.4 masse solari.
Una volta sbarcato in Inghilterra, mostrò i suoi
risultati ad alcuni astrofisici britannici, Fowler
prima e Edward Arthur Milne (1896-1950) poi,
che tuttavia li accolsero con una certa freddezza
giudicandoli di scarsa importanza. Il risultato di
Chandrasekhar trovò pubblicazione nella rivista
americana Astrophysical Journal nel 1931, alla
quale lo scienziato aveva proposto un breve articolo sui suoi risultati. Come avrebbe ricordato
lo stesso Chandrasekhar più di quaranta anni
dopo, a quel tempo egli non aveva ben chiaro
cosa quel risultato significasse ma soprattutto
non riuscı̀ a capire come Fowler avesse potuto
giudicarlo di scarsa importanza.
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Landau concluse il proprio lavoro avanzando
l’idea che potesse esistere un ulteriore stadio finale che avrebbe potuto raggiunto una stella di
dimensioni molto più ridotte di una nana bianca. Il grande fisico russo aveva appena ipotizzato l’esistenza di corpi celesti che sarebbero stati
osservati per la prima volta solo nel 1967: le
stelle di neutroni. Assieme a Landau e Chandrasekhar vi furono altri due scienziati che arrivarono a proporre l’esistenza di tali corpi celesti; nel 1934 due astronomi di Pasadena, Walter Baade (1893-1960) e Fritz Zwichy (18981974), conclusero i loro lavori con l’affermazione
che in natura si sarebbero potuti trovare due
“cadaveri stellari”: le nane bianche e le stelle
di neutroni. Purtroppo la comunità scientifica
aveva una considerazione di Zwichy non proprio
esemplare; lo scienziato di origine svizzera, anche se nato in Bulgaria, aveva la fama infatti
di essere un tipo molto strano, e questo fu, in
qualche modo, una scusa in più per non dare il
giusto risalto al suo lavoro. In un futuro neanche
troppo lontano, comunque, lo scienziato avrebbe
avuto modo di riscattarsi ricoprendo incarichi
molto importanti per il governo Usa, non ultimi
quello di interrogare il personale della base segreta di Peenemunde dove i tedeschi costruivano
le V-2 e quello di far parte di una commissione
scientifica incaricata di valutare i danni prodotti dalle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. Ma
tutto questo venne poi, e al tempo risalente all’anno 1934 il lavoro di Baade e Zwichy cadde
nel dimenticatoio.
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
Per quanto riguarda Chandrasekhar, continuò
con testardaggine le sue ricerche e dopo tre anni di intensi studi sulla natura e gli equilibri
delle nane bianche, confermò i suoi precedenti
risultati:
“la storia di una stella di massa piccola deve essere essenzialmente differente da quella di una
stella di grande massa. Per una stella di piccola massa lo stadio naturale di nana bianca
rappresenta il primo passo verso la totale estinzione dell’astro. Una stella di grande massa non può attraversare questo stadio e siamo
liberi di speculare su eventuali altre possibilità”
(Chandrasekhar, 1934)
Ma ancora una volta, l’ostracismo della comunità scientifica non tardò a manifestarsi. Fin
troppo impressionato da questi risultati che
parevano sconvolgere tutte le certezze della fisica, lo stesso Eddington decise di intervenire una
volta per tutte nella questione del collasso gravitazionale con una posizione che lasciava ben
poco margine al dubbio sul suo modo di pensare
“Varie situazioni possono intervenire per salvare una stella...Penso che ci dovrebbe essere
una legge in Natura che impedisca alle stelle di
comportarsi in una maniera cosı̀!...Sono convinto che l’attuale formula sia basata su una teoria
della relatività parziale e se la teoria fosse completa le correzioni relativistiche sarebbero compensate in modo da poter riottenere una formula
ordinaria”.
(Eddington, 1935)
4
Grandi lavori ignorati
Nonostante il clima che circondava il problema
delle singolarità nella soluzione di Schwarzschild
e quello del collasso gravitazionale, ci fu qualcuno che prese di petto la questione e provò ad
affrontare il problema con uno sguardo meno
pregiudizievole e più incline ad accettare l’esistenza di nuovi scenari scientifici. Il primo serio attacco all’incomprensibile divergenza che si
presentava al raggio di Schwarzschild fu portato da un cosmologo e astrofisico belga, George
Eduard Leimatre (1884-1966) nel 1933.
Un dossier di Paolo Magionami,
aggiornato al 02.04.2004
10
Alla fine degli anni venti, lo scienziato aveva portato a termine pionieristici studi sull’espansione dell’universo che, però, rimasero pressochè sconosciuti; solo con l’aiuto di Eddington, che dopo averli letti si adoperò per farli
tradurre in inglese e divulgare, poterono essere
studiati dalla comunità scientifica. Almeno in
teoria, perchè, di certo, all’inizio, non ebbero
grande successo. Tra questi studi, all’interno di
un lavoro particolarmente complesso e di difficile comprensione, Leimatre dimostrò che con
un opportuno cambiamento di coordinate era
possibile eliminare la singolarità che compariva nel punto r=2M nella soluzione trovata da
Schwarzschild. La metrica, con le nuove coordinate, non manifestava più alcun comportamento
patologico ma, anzi, restituiva valori finiti:
“La singolarità del campo di Schwarzschild
è dunque una singolarità fittizia” (Leimatre,
1933)
Purtroppo il suo lavoro passò inosservato e rimase a languire tra i contributi alla cosmologia dimenticati; beffardo destino per un lavoro
che anticipava la risoluzione del problema delle
singolarità apparenti di quasi trenta anni.
Un ultimo fatto conferma l’avversione che la comunità scientifica aveva nei confronti di questo
problema; il lavoro di Leimatre, infatti, attrasse
miracolosamente l’attenzione di uno scienziato
che molto avrebbe avuto da dire nel campo della cosmologia, Howard Percy Robertson (19031961). Questi osservò che sebbene una particella (un osservatore) avesse impiegato un tempo
infinito per raggiungere la superficie delimitata
dal raggio di Schwarzschild r=2M, almeno per
quanto risultava a un osservatore lontano dal buco nero, il tempo proprio, ossia quello misurato
da un ipotetico osservatore posto sulla particella durante il suo viaggio verso l’orizzonte degli
eventi, sarebbe rimasto in realtà finito. In altre parole, il tempo scorreva normalmente per
la particella (e il suo osservatore) che avesse
attraversato l’orizzonte degli eventi.
Quello che appare essere una magia, dello stesso livello del cerchio magico di Eddington, è in
realtà la base della relatività einsteniana: non
esiste un tempo assoluto uguale per tutti, ma
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
esistono tanti tempi “relativi” quanti sono gli
osservatori. Cosı̀ mentre un osservatore lontano, al riparo dalla forza d’attrazione del buco nero, vede un audace astronauta raggiungere l’orizzonte degli eventi in un tempo infinito,
per lo stesso astronauta il tempo scorre normalmente fino al raggiungimento dell’orizzonte degli
eventi.
4.1
11
Il pionieristico lavoro di Oppenheimer e Snyder
Anticipando le conclusioni alle quali perverremo al termine di questo lavoro e di cui presto
avremo il primo serio indizio, l’astronauta in
questione non avrà alcun problema a superare
questa fittizia barriera, salvo poi accorgersi che
non potrà più tornare indietro. In un certo senso il cerchio magico di Eddington una barriera
“fisica” la pone davvero, ma questo Robertson,
Leimatre e tutti gli altri finora incontrati non
potevano ancora saperlo.
Ma torniamo al lavoro di Robertson. Nel 1939,
presentò il suo contributo a una conferenza a
Toronto, dove ebbe modo di incontrare Einstein. La circostanza era più che buona per
mostrare al famoso scienziato le conclusioni alle
quali era giunto. Affascinato dalla questione, il
padre della relatività non mancò di meditare sulla questione, ma non tardò a criticare il lavoro
di Robertson, giungendo alle stesse conclusioni
della maggioranza dei fisici del tempo:
“..la singolarità di Schwarzschild non può apparire perché la materia non può concentrarsi
arbitrariamente” (Einstein, 1939)
E se lo diceva Einstein...
Ma anche i grandi scienziati prendono i loro abbagli e, nel caso specifico di Einstein, il suo maggiore fu ancora una volta quello di non prendere in considerazioni casi non stazionari. E
cosı̀, appena due mesi dopo che Einstein ribadı̀ le sue convinzioni sul collasso gravitazionale,
uscı̀ un pionieristico lavoro di Julius Robert Oppenheimer (1904-1967) e del suo allievo Harland
Snyder, dal titolo “Sull’attrazione gravitazionale
continua”, pubblicato sulla prestigiosa Physical Review nel 1939. Nel lavoro si affrontava il
problema di cosa potesse accadere a una stella
al termine della sua vita, ossia quando il combustibile nucleare fosse esaurito e nessuna forza
fosse più in grado di arrestare il collasso indotto
dalla forza di attrazione gravitazionale:
..una stella di massa poco superiore a quella del
sole subirà una contrazione inarrestabile e la sua
luce apparirà spostata verso il rosso fino a quando l’astro diverrà invisibile.. (Oppenheimer e
Snyder, 1939)
I due dimostrarono matematicamente che una
stella “sufficientemente pesante” avrebbe dato vita a un collasso inarrestabile dal quale
si sarebbe formata una regione di intrappolamento dalla quale nulla sarebbe potuto uscire.
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
Essi studiarono mediante le equazioni di Einstein il moto della superficie della stella nella sua fase di collasso. Secondo i loro calcoli un ipotetico osservatore posto sulla superficie dell’astro avrebbe visto la stella ridursi via
via a ritmo sempre crescente fino a divenire
un punto di densità infinita. Naturalmente la
fine dell’osservatore non sarebbe stata delle più
serene.
Ancora un altro “infinito” aveva fatto la sua irruzione nei turbamenti dei fisici teorici. Tale infinito era quello che cadeva nel punto r=0 della
soluzione di Schwarzschild, e sarebbe stato ben
più insidioso dell’altro.
12
Schwarzschild, e una volta attraversato l’orizzonte degli eventi si sarebbe formata una regione
dalla quale nulla sarebbe più potuto uscire.
Il dado era tratto.
Questo lavoro è universalmente riconosciuto
come il primo, fondamentale passo, verso la
scoperta teorica dei buchi neri. Ma naturalmente a quel tempo non c’era certo questa
convinzione e anche questo lavoro non riscosse
più fortuna degli altri e venne ben presto
dimenticato.
La spiegazione di Oppenheimer e Snyder, poi,
continuava: un osservatore più accorto ben
lontano dalla catastrofe stellare, avrebbe visto il collasso rallentare sempre più velocemente a mano a mano che il raggio della stella si fosse avvicinato a quello gravitazionale, o,
come lo abbiamo finora chiamato, al raggio di
Schwarzschild, in conseguenza dello spostamento spettrale dei segnali uscenti provenienti dalla
stella (e dall’osservatore sulla sua superficie).
Insomma, i due avevano messo in pratica quello
che diceva Einstein: osservatori differenti, tempi
differenti.
Lo spostamento spettrale a un certo punto
sarebbe divenuto cosı̀ marcato che la stella
sarebbe apparsa come “congelata” in prossimità del raggio gravitazionale, e con essa l’osservatore che sarebbe apparso come in eterna attesa, bloccato a r=2M. Invece per quest’ultimo
le cose sarebbero andate diversamente, come già
evidenziato da Robertson, avendo la possibilità
di attraversare il cerchio magico di Eddington
senza problemi, salvo poi non riuscire più a dare
informazioni all’osservatore lontano, per il quale
l’incauto viaggiatore sarebbe ancora sospeso e
immobilizzato sulla superficie di Schwarzschild.
I calcoli dimostrarono che nulla, neanche la luce,
sarebbe stato in grado di uscire da una zona
delimitata dal raggio gravitazionale, ossia quello che fino a ora abbiamo incontrato a r=2M.
Oppenheimer e Snyder dimostrarono che la regione esterna al bordo della stella collassante era
esattamente descritta dalla soluzione trovata da
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E’ giusto ricordare, come parziale attenuante,
che lo studio fu presentato in un periodo storico piuttosto difficile, alla vigilia della seconda
guerra mondiale, e le attenzioni dei ricercatori
erano praticamente tutte indirizzate allo studio
della struttura nucleare. Lo stesso Oppenheimer
fu totalmente coinvolto nel Progetto Manhattan
(la costruzione della prima bomba atomica) e
abbandonò i suoi studi sull’evoluzione stellare,
mentre Snyder si dedicò alla matematica pura e
oggi è riconosciuto come uno dei precursori della geometria non commutativa, ramo peraltro
piuttosto di moda.
5
Il dopoguerra e gli anni ’60.
E buchi neri furono.
Al termine del conflitto, l’atteggiamento della
comunità scientifica non cambiò molto nei confronti delle problematiche della relatività genhttp://www.torinoscienza.it/
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
erale; sull’onda emotiva della bomba atomica,
lo studio delle forze nucleari aveva la priorità
su qualsiasi altra problematica. E’ curioso tuttavia sottolineare il diverso approccio che i due
blocchi, sovietico e occidentale, avevano nei confronti del collasso gravitazionale; a est questa
situazione compariva nei testi classici della fisica come, ad esempio, “Fisica statistica” (1951)
di Landau e Lifshits, nel quale si menzionava esplicitamente il lavoro di Oppenheimer del
’39, mentre a ovest la questione venne semplicemente posta nel dimenticatoio senza particolari
sussulti, e se mai qualcuno avesse pensato di
risollevarla sarebbe stato giudicato un folle.
Ma un pazzo deciso a riportare un po’ di entusiasmo nel campo della relatività generale e
delle problematiche sollevate dal collasso gravitazionale non tardò ad arrivare: John Archibald
Wheeler (1911). Allievo di Einstein e di Bohr,
il geniale e vulcanico fisico statunitense sarebbe
divenuto un’autorità nel campo della teoria della gravitazione tanto da far scuola a generazioni
di fisici con il suo linguaggio e il suo formalismo squisitamente geometrico e, soprattutto,
avrebbe portato una ventata di freschezza in
un ambiente che stava atrofizzandosi. Uno dei
suoi allievi migliori, Kip Thorne, avrà modo di
scrivere quale poteva essere uno dei motivi da
imputare a quel blocco mentale che impediva
ai fisici di comprendere la natura del collasso
stellare:
“Probabilmente tra il 1939 e il 1958 quello che
contribuı̀ maggiormente a impedire agli scienziati i comprendere l’implosione di una stella fu
il nome utilizzato per la circonferenza critica: ”
singolarità di Schwarzschild“ Il termine singolarità evocava l’immagine di una regione in cui
la gravità diventa infinitamente intensa, provocando un crollo delle leggi della fisica, rappresentazione che noi oggi sappiamo essere corretta per l’oggetto che si trova al centro del buco nero ma non per la circonferenza critica”
(Kip Thorne, Black holes and Time Warps, New
York, Norton, 1994)
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13
Con l’arrivo dell’entusiasta Wheeler le cose, seppur lentamente iniziarono a cambiare. A Princeton, tra gli anni cinquanta e gli inizi degli anni
sessanta, radunò attorno a se giovani talentuosi
e motivati che iniziarono lo studio delle problematiche gravitazionali partendo dai classici lavori
di Chandrasekhar, Landau e Oppenheimer. Le
loro ricerche confermarono l’inevitabilità del collasso gravitazionale senza possibilità d’arresto
per masse comprese tra 1.5 e 2 masse solari.
A Wheeler, inoltre, non sfuggı̀ una questione
molto sottile che, dietro a quei risultati cosı̀
stravaganti, poteva mettere in crisi i modelli fisici fino ad allora conosciuti. In particolare il comportamento della materia collassante sembrava
mettere in crisi una delle leggi di conservazione
più solide e sicure a disposizione dei fisici: la
conservazione del numero barionico.
I barioni sono i costituenti pesanti della materia;
se un barione sparisce la legge di conservazione
garantisce che un altro prenderà il suo posto,
in modo tale che il numero di barioni iniziale
rimanga sempre quello. Secondo lo scenario di
Oppenheimer però la stella dovrebbe collassare
tutta in uno spazio talmente piccolo che sarebbe
impossibile ipotizzare che i miliardi e miliardi di
barioni iniziali, costituenti l’astro, possano essere tutti contenuti in uno spazio infinitesimale.
Forse, pensò lo scienziato, i buchi neri potevano
violare la legge di conservazione dei barioni. Lo
scenario era inquietante e allo stesso tempo suggestivo tanto che lo scienziato parlò di “grande
crisi della fisica”.
Accanto a profondi contributi nel campo della
ricerca, a Wheeler si devono due epocali svolte
nel mondo della gravitazione: la soluzione del
mistero legato alla singolarità di Schwarzschild
e, finalmente, il nome da dare a un oggetto
completamente collassato.
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
5.1
Crolla il cerchio magico di Eddington
Il cerchio magico di Eddington non fu sconfitto
direttamente da Wheeler ma da tre ricercatori
che, indipendentemente, trovarono il sistema di
mostrare matematicamente la non consistenza
del problema. Spetterà a Wheeler dare il giusto
credito all’avvenimento, adoperandosi affinché
quel risultato cosı̀ significativo potesse essere
conosciuto da tutta la comunità scientifica.
I nomi dei tre ricercatori erano Martin Kruskal,
David Finkelstein e Geroge Szekeres.
La cosa curiosa dietro alla vicenda era che nessuno dei tre era un fisico teorico, ma provenivano
tutti da rami della ricerca completamente differenti dalla relatività. Forse fu questo il vantaggio
che permise loro di risolvere il problema.
Martin Kruskal era un fisico del plasma deciso a
studiare con altri colleghi un po’ di relatività. Si
era intorno alla metà degli anni cinquanta e l’occhio e la mente del neofita, privo di pregiudizi,
mise subito a fuoco il problema, osservando che
la tanto temuta singolarità era dovuta a una
cattiva scelta di coordinate. Cambiando di coordinate e scegliendone di opportune si poteva
superare il problema. Sebbene scettico sul risultato ottenuto, Kruskal si presentò a Wheeler
per avere un parere su quello che aveva scoperto. Inizialmente, il fisico non fu molto impressionato dal risultato e la risposta che Kruskal
ottenne non fu molto incoraggiante. Ma dopo
circa un paio d’anni Wheeler ritornò sui suoi
passi e, letti con maggior attenzione i lavori di
Kruskal, li presentò a una conferenza sulla relatività generale a Royaumont nel giugno del ’59
e li propose per una degna pubblicazione. Naturalmente sottolineando il fatto che doveva essere
dato a Kruskal il merito della scoperta. Alla fine
del ’59, visto che ancora nulla era stato stampato
a riguardo, Wheeler intervenne di persona nella
questione con un breve articolo nel quale dava a
Kruskal quel che era di Kruskal.
Per quanto riguarda Finkelstein, in un lavoro intitolato Asimmetria passato-futuro in
un campo gravitazionale di una particella puntiforme (1960), dimostrò come la soluzione di
Un dossier di Paolo Magionami,
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14
Schwarzschild poteva essere estesa in modo da
coprire tutto lo spazio e non solo l’esterno della stella con un’opportuna scelta di coordinate
temporali “ritardate” e “avanzate”.
Infine George Szekeres, il terzo a giungere nel
1960 a risultati analoghi. Ungherese, iniziò la
sua carriera come ingegnere nella propria patria, dalla quale, però, dovette fuggire in seguito all’invasione nazista. Riparò a Shangai per
trovare un’altra invasione, quella giapponese,
che, tuttavia, gli permise di continuare il suo lavoro. Terminò la guerra lavorando per gli americani e dedicandosi a tempo perso alla matematica. Divenuto docente di matematica all’Università di Adelaide si interessò alla relatività
generale risolvendo il problema della singolarità
di Schwarzschild. Giudicando il lavoro di scarso interesse, lo pubblicò in una sconosciuta rivista ungherese dove rimase a prender polvere per
molto tempo.
Con le coordinate di Kruskal-Szekeres, come oggi sono conosciute, è possibile eliminare la singolarità che si incontra in r=2m nella soluzione di
Schwarzschild. Quello che si ottiene è una nuova
espressione per la metrica che descrive un buco
nero sferico di Schwarzschild. E’ importante sottolineare il fatto che con le nuove coordinate è
possibile mappare anche l’interno della regione
delimitata dalla superficie r=2m, quella dalla
quale nulla può uscire, come si vede dalla figura
e sulla quale l’originale lavoro di Schwarzschild
nulla diceva. Anche con le nuove coordinate non
è, tuttavia, possibile eliminare la vera singolarità del problema, quella che si trova in r=0. E
su questo avremo modo di tornarci in seguito.
Ma abbiamo parlato anche di un altro merito
di Wheeler, più coreografico e meno scientifihttp://www.torinoscienza.it/
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
co del precedente ma sicuramente dall’impatto sull’opinione pubblica assai maggiore. Come
un allievo di Wheeler, Jacob Bekenstein, avrà
modo di ricordare, durante una presentazione
a un congresso, mentre il suo professore cercava il modo più breve per dire “oggetto completamente collassato”, qualcuno dei presenti
disse ad alta voce “ perché non lo chiami buco nero?” . A Wheeler l’idea piacque subito
e adottò immediatamente il termine, “terminologicamente banale ma psicologicamente potente” come disse, adoperandosi a diffonderlo
durante la sua carriera di fisico.
La leggenda dei buchi neri nacque in quel
momento. Era il 1969
5.2
I buchi neri
Newmann
di
Kerr
e
di
Gli anni a cavallo del ’60 furono particolarmente
interessanti per le ricerche nel settore della fisica
gravitazionale, tanto da poter parlare di una sorta di rinascita della relatività generale. Insieme
al gruppo di Wheeler, altri grandi ricercatori si
lanciarono in questo campo, fornendo contributi fondamentali. In Russia, dove come detto il
collasso gravitazionale veniva riportato nei libri
di testo universitari, si formò il gruppo di Yakov
Zel’dovich e di Vitaly Ginzburg per i quali non si
parlava ancora di buchi neri ma di “stelle congelate”, mentre a Cambridge si formò un connubio che avrebbe garantito enormi contributi
nel campo della fisica dei buchi neri, Stephen
Hawking e Roger Penrose. Intorno a questi due
mostri sacri avrebbero ruotato le nuove giovani
menti della fisica.
Ma vi furono anche altri due fatti che stimolarono le ricerche in relatività generale. Il primo riguardava un punto di vista più specificatamente astrofisico, quando si cominciò a ottenere
importanti risultati nell’osservazione di oggetti stellari particolari, come i quasar e le radiogalassie, che suggerirono agli astrofisici di associare le enormi energie in gioco in questi sistemi
alla presenza di buchi neri. Oramai, infatti, non
era più impensabile parlare di oggetti collassati
milioni di volte più massicci del sole. Anzi, i progressi compiuti nelle osservazioni incentivarono
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15
il puro studio teorico della gravitazione. Si prese
in considerazione l’idea delle onde gravitazionali e si cercò di combinare insieme la teoria della
relatività generale, la cui splendida verifica sperimentale non lasciava ombra sulla sua fondatezza, con l’altra grande primadonna della ricerca
scientifica in fisica, la meccanica quantistica.
Il secondo fatto importante era strettamente
legato alle equazioni di Einstein che, fino ad allora contavano solo su soluzioni esatte, quella
di Schwarzschild e quella data nel lontano 1918
da Reissner e Nordstrom che descriveva un caso molto particolare di buco nero elettricamente
carico; caso peraltro di scarso interesse pratico, poiché si ritiene impossibile l’esistenza di un
simile buco nero. Nel 1963, il neozelandese Roy
Kerr ampliò la famiglia delle soluzioni esatte
delle equazioni di Einstein descrivendo il campo
gravitazionale generato da una massa rotante.
Fino a ora ci siamo molto concentrati sulla
soluzione di Schwarzschild, la quale, sebbene assai utile e funzionale in un gran numero di casi,
descrive una situazione poco realistica, visto che
non considera l’eventuale e assai probabile fatto
che la materia collassante possa ruotare. Il lavoro di Kerr colmò questa lacuna e aprı̀ una nuova finestra sul sempre più vasto orizzonte della
relatività. Poco dopo, nel 1968, Ezra Newman
con alcuni suoi studenti portarono a quattro le
soluzioni esatte con una metrica che descriveva
un buco nero rotante e carico.
La soluzione di Kerr-Newmann è assai intrigante sotto molti punti di vista perché, oltre ad
avere un orizzonte degli eventi come la soluzione
di Schwarzschild, presenta una struttura interna assai differente rispetto a quest’ultima; tanto differente da poter permettere, in linea puramente teorica, non solo di viaggiare nel tempo
ma anche di osservare la singolarità al centro
del buco nero, quella di massa e densità infinita
che distrugge tutti gli incauti astronauti che ci
finiscono contro.
“... Attraversi questo anello magico e i ritrovi in
un universo completamente differente, dove raggi e masse sono negativi! ” diceva Kerr a Werner Israel parlando della soluzione da lui trovata.
E Kerr aveva ragione.
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
Al di fuori dell’orizzonte degli eventi, che
possiede anche la soluzione di Kerr, la soluzione
trovata dal neozelandese non era molto diversa
da quella di Schwarzschild, ma le cose cambiavano drasticamente se si andava ad analizzare
l’interno di questa soluzione. Mentre, come si
sapeva, una particella che cadeva dentro a un
buco nero di Schwarzschild era condannata a
raggiungere la singolarità di densità infinità e
volume nullo, nel caso di Kerr la particella in
questione poteva evitare completamente la singolarità e dirigersi in altri universi del tutto simili al nostro. Non solo ma era anche prevista la
possibilità di curve temporali chiuse. Insomma,
con Kerr si poteva viaggiare nel tempo e su altri mondi, per la gioia di tutti i temponauti in
circolazione.
Anche la metrica di Schwarzschild può essere
espressa in termini di coordinate che ricoprono
l’intero spazio, come Kruskal e Szekeres avevano
dimostrato. Questo ha permesso di mettere in
evidenza l’esistenza di un mondo speculare al
nostro, nel quale il tempo scorre all’indietro, ma
che non è comunque raggiungibile per via della
presenza della singolarità iniziale a r=0, ove tutto ha fine. Il fatto che non sia eliminabile con
nessuna scelta di coordinate, impedisce in ogni modo di poter ricevere informazioni dal quel
nuovo universo. I due mondi, insomma, non
possono comunicare tra di loro.
Con la soluzione di Kerr, la cosa era differente. I
mondi erano infiniti e teoricamente percorribili!
A questo punto ogni buon viaggiatore nel tempo o impazzirebbe di gioia o si chiederebbe dove
sta l’inghippo. Bene, il problema sta nel fatto
che i passaggi attraverso questi universi si rivelano particolarmente instabili, rendendo il viaggio una pura chimera. Non solo. La singolarità
al centro del buco nero di Kerr è una singolarità naked (nuda), ossia può essere vista. Ma
questa evenienza è scongiurata da una serie di
congetture, che rendono impossibile un simile,
catastrofico, evento. Almeno secondo quello che
andava proponendo Roger Penrose alla fine degli
anni sessanta.
Il vaso di pandora era stato aperto, e inquietanti scenari si stavano aprendo nella mente degli
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16
scienziati.
Un decennio ricco di straordinarie intuizioni
sulla fisica che governa i buchi neri stava per
aprirsi
6
1965-1974:
memorabile
un
decennio
Nel decennio 1965-1975, si andarono delineando
fondamentalmente due indirizzi di ricerca. Un
primo orientamento di ricerca fu di tipo squisitamente matematico volto a comprendere la natura delle singolarità vere, quelle non eliminabili
come nel caso di Schwarzschild nel punto r=0,
o quella a forma di anello come nel caso di un
buco nero di Kerr. In questo ambito di ricerca si
esaltò il britannico, Roger Penrose, il quale oltre
a dimostrare che le singolarità erano inevitabili
in ogni processo di collasso gravitazionale enunciò la famosa congettura del Censore Cosmico.
Come se non bastasse mise in luce un processo decisamente affascinante: la possibilità di
estrarre energia da un buco nero rotante.
Un secondo orientamento, invece, si occupò di
comprendere la natura dello stato finale della
materia collassante una volta raggiunto lo stadio di buco nero. In questo settore fornirono
grandi contributi il gruppo di Wheeler, nel quale
eccelse un giovane ricercatore il già menzionato
Jacob Bekenstein, e quello di Stephen Hawking.
I due orientamenti non corsero paralleli senza
confrontarsi mai, ma, anzi, si intersecarono più
volte e dall’intreccio di queste ricerche vennero
gettate le basi della fisica classica dei buchi neri.
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
Da queste Stephen Hawking avrebbe partorito
nel 1974 uno dei risultati più straordinari di tutti
i tempi: l’evaporazione dei buchi neri. La posta
in gioco d’altronde era grande visto che secondo
quanto aveva detto Wheeler, la fisica poteva essere alle soglie della più grande crisi che avesse
mai conosciuto.
6.1
La congettura del Censore Cosmico
L’idea che esista un punto dello spazio tempo nel
quale le leggi della fisica non siano più valide,
o perdano completamente la loro capacità di
predizione restituendo sconfortanti valori pari a
infinito, è sempre stata una vera e propria angoscia per ogni buon fisico. E lo era anche nel
caso della relatività generale.
Non è raro trovare degli “infiniti” nelle teorie
fisiche. Anche il Modello Standard, il grande apparato matematico sviluppato nel corso di quasi
quarant’anni in grado di descrivere il comportamento delle interazioni tra materia ed energia in termini quantistici (con la sola eccezione,
guarda caso della gravità) presenta apparenti incongruenze che si manifestano con i soliti “infiniti”; tuttavia si è sempre trovato il modo di
contenere queste divergenze, di controllarle in
maniera opportuna, in modo tale che la teoria riesca sempre, una volta forniti i giusti dati
iniziali, a essere preditiva.
Se, in un modello, l’infinito continua a rimanere nonostante vari tentativi, allora, molto
probabilmente, siamo in presenza di una teoria
sbagliata.
Nel caso della relatività generale, o meglio di
un buco nero, compare una singolarità al centro dello strano oggetto che non ammette mezze
misure: la singolarità di un buco nero è totalmente distruttiva. La fisica in quel punto non
funziona più, e se un incauto navigatore spaziale
dovesse incontrarla sulla sua strada se ne accorgerebbe nello stesso momento in cui la sua
esistenza verrebbe a terminare.
Roger Penrose, studiando il comportamento dei
coni di luce in presenza di forti campi gravitazionali, riuscı̀ a dimostrare un fatto di fonUn dossier di Paolo Magionami,
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17
damentale importanza: le singolarità erano inevitabili in ogni processo di collasso gravitazionale. Non c’era speranza dunque, per lo
scienziato inglese, quei fastidiosissimi punti non
si potevano eliminare.
Il fatto poteva essere piuttosto allarmante, tuttavia le singolarità in relatività avevano una
caratteristica che salvaguardava tutto l’apparato concettuale della fisica: le singolarità non
potevano essere osservate. La presenza dell’orizzonte degli eventi, infatti, avrebbe schermato il
punto di densità e curvatura infinita agli occhi e
agli strumenti di misura di qualsiasi osservatore
posto all’esterno, permettendo, cosı̀, alle nostre
leggi della fisica di continuare a operare senza
problemi fuori dal buco nero. La fisica nel nostro
universo, era, in qualche, modo salva. Il teorema di Penrose aveva stabilito che ogni orizzonte
conteneva una singolarità; a quel punto valeva
la pena chiedersi se fosse stato vero il contrario:
ogni singolarità era forse schermata da un orizzonte? La questione condusse Roger Penrose a
proporre l’ipotesi della censura cosmica, secondo la quale le singolarità prodotte da un collasso gravitazionale erano sempre protette da un
orizzonte degli eventi.
Detta in quel modo, l’ipotesi della censura proteggeva gli osservatori posti al di fuori dell’orizzonte degli eventi, che cosı̀ potevano continuare
a utilizzare gli strumenti e le metodologie della fisica, ma nulla diceva a riguardo di coloro
che fossero finiti a oltrepassare l’orizzonte degli
eventi. Cosa che, come visto, non era affatto
impossibile.
Quella che era stata data, però, era versione debole della censura. C’era modo di essere ancora più drastici e salvarsi dalle grinfie della
singolarità in extremis.
Le nuove soluzioni che avevano proposto Kerr
e Newmann, infatti, permettevano di attraversare l’orizzonte, passare oltre una singolarità a
forma di anello, avere la possibilità di vederla e uscire senza essere distrutti su un nuovo
universo. Alcuni calcoli, però, dimostrarono la
non consistenza fisica di questi scenari; in altre
parole le soluzioni che permettevano il passaggio attraverso un buco nero rotante erano alhttp://www.torinoscienza.it/
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
tamente instabili e sarebbe bastata una piccola
perturbazione, come un astronauta, a distruggerle, tanto da mettere l’astronauta nella brutta
condizione di vedere la singolarità nel momento
in cui vi fosse venuto in contatto, nel qual caso
la sua esistenza sarebbe ancora una volta terminata all’istante. La singolarità, quindi, sarebbe
stata sempre nel futuro dell’osservatore e mai
nel suo passato.
La versione forte della censura cosmica era cosı̀
servita: le singolarità erano sempre o nel futuro o interamente nel passato (Big Bang) di
un osservatore.
E’ giusto aggiungere che l’ipotesi di Penrose è
solo una congettura che non è mai stata provata. E’ matematicamente arduo interpretare il
concetto di “censura” e a riguardo sono stati
trovati molti esempi teorici per i quali l’ipotesi non è vera. Tuttavia è possibile pensare che
per situazioni fisicamente realistiche, come il collasso gravitazionale, la congettura possa essere
valida.
A sostegno di questa interpretazione ci sono casi
in cui la congettura sembra entrare in azione,
evitando la presenza di singolarità nude. E’ il
caso della più volte citata soluzione di Kerr.
Per buchi neri di Kerr, esiste una velocità massima di rotazione che dipende strettamente dalla
massa del buco nero. Se la rotazione dovesse eccedere questo valore non saremmo più di fronte
a un buco nero di Kerr ma a una singolarità nuda, cioè non schermata da alcun orizzonte. Per
ottenere questa singolarità potremmo pensare di
far inghiottire al buco nero particelle dotate di
momento angolare molto grande, cioè che ruotino su se stesse molto velocemente, in modo tale
che anche il buco nero, una volta catturate le
particelle, accresca la sua rotazione di quel tanto da distruggere la soluzione di Kerr e mostrare
la singolarità. Catturando le particelle però il
buco nero accresce anche la sua massa, aumentandola di quel tanto che impedisca alla singolarità nuda di manifestarsi. Un ragionamento analogo si può fare utilizzando la più generale soluzione di Kerr Newman, nel qual caso
la relazione che devono soddisfare affinché non
mostrino singolarità nude è del tipo
Un dossier di Paolo Magionami,
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18
M2 =Q2 + J2
dove M= massa del buco nero Q= carica
elettrica J= momento angolare
In questo generico caso, che per Q=0 si riconduce al buco nero di Kerr, è ancora dimostrabile
come nessuna particella anche carica possa impedire alla diseguaglianza di compiere il proprio
dovere. La censura cosmica parrebbe compiere
il proprio dovere egregiamente. Ma la questione
è tutt’altro che chiusa e ancora oggi nel XXI secolo, risulta un grosso problema scientifico da
risolvere.
6.2
Il processo Penrose
Il buco nero di Kerr possiede anche un’altra meravigliosa caratteristica che Penrose mise in luce
alla fine degli anni sessanta.
A scapito della sua rotazione è teoricamente possibile estrarre energia da un buco nero rotante.
Grazie al suo moto di rotazione attorno a un
asse, il buco nero di Kerr possiede una regione
di trascinamento il cui “bordo”in prossimità dei
poli combacia con l’orizzonte degli eventi, ma
se ne distacca in prossimità dell’equatore. Tale
ragione è chiamata ergosfera.
La caratteristica fondamentale di questa zona
è che nessuna particella, una volta dentro, può
rimanere ferma, a riposo, ma deve necessariamente partecipare alla rotazione del buco nero.
Ciò significa che ha ancora la possibilità di sfuggire all’attrazione gravitazionale del buco ma
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
non quella di rimanere ferma a una certa distanza. Ma non solo. In questa stranissima regione
dello spazio-tempo l’energia può avere valore
negativo. Immaginiamo, adesso, che una particella di energia E0 entri nella ergosfera e decada
in due altre particelle di energia E1 ed E2 di cui
una riesca a sfuggire all’attrazione del buco nero
mentre l’altra, facciamo E1 , venga catturata dalla rotazione dell’intera regione, fino a oltrepassare l’orizzonte degli eventi e non tornare mai
più. Ricordandoci che in questa regione l’energia può cambiare di segno, risulta possibile, in
seguito al principio della conservazione dell’energia per cui E0 = E1 +E2 che la particella uscente possegga più energia di quanta ne avesse
prima di entrare nella ergosfera, poichè adesso
E0 = - E1 +E2, dalla quale risulta E2 = E1 +E0
A scapito della massa e della rotazione del buco
nero, entrambe ridotte, è stato possibile ottenere
uno stato finale con più energia di quello finale.
In un certo qual modo, con il “processo di Penrose” si era scoperto che i buchi neri potevano
essere un po’ meno neri di quello che fino ad
allora si pensava.
Ma i buchi neri di Kerr avevano in serbo altre sorprese. Una di queste fu scoperta da un
brillante studente allievo di Wheeler, Demetrious Christodoulou. Il giovane ricercatore si accorse che in nessun processo nel quale la rotazione di un buco nero potesse aumentare o
diminuire poteva causare la diminuzione di una
certo parametro. Parametro che fu chiamato
massa irriducibile. Sebbene il nome possa trarre
in inganno, tale parametro conteneva non solo la massa del buco nero ma anche il suo momento angolare totale. Tale scoperta dimostrava che indipendentemente da come variavano
separatamente massa e rotazione del buco nero,
una loro opportuna combinazione, la massa irriducibile, cresceva sempre o al più rimaneva
costante. Ma c’era di più. Poco dopo la scoperta di Cristodoulou, Penrose insieme a R. Floyd
mostrarono per mezzo di esempi, che disturbando per mezzo di qualche causa esterna un buco
nero di Kerr, l’area dell’orizzonte poteva solo aumentare. A quel punto fu abbastanza facile fare
“2+2” e molte persone si accorsero che i risultati di Penrose e di Cristodoulou erano la stessa
Un dossier di Paolo Magionami,
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19
faccia di una stessa medaglia; con parole diverse
entrambi dicevano la stessa cosa: la massa irriducibile (più precisamente sarebbe il quadrato della massa irriducibile) era proporzionale all’area dell’orizzonte degli eventi stesso. Il fatto
era decisamente interessante. Qualunque fosse
il processo c’era una quantità che non poteva
diminuire ma solo aumentare.
Sulla scia di quelle intuizioni, Hawking, ampliando l’analisi a casi più generici di quelli trattati dai suoi colleghi, giunse a enunciare un importantissimo teorema secondo il quale l’area
dell’orizzonte di un buco nero non diminuiva
mai qualsiasi fosse stato il processo nel quale
era coinvolto.
Per qualcuno, Bekenstein in particolare, la rivelazione di Hawking fu una sorta di campanello d’allarme: forse sotto c’era qualcosa di più;
qualcosa ancora di poco chiaro ma strettamente
legato al fatto che c’era “qualcosa” di un buco nero che non poteva mai diminuire, qualsiasi processo il buco nero avesse subito. Questa
cosa ricordava vagamente una proprietà legata
ai sistemi ordinari con una certa temperatura.
Vagamente, si intende.
Le riflessioni di Bekenstein erano spinte da
un’osservazione che gli aveva fatto il suo maestro a riguardo dell’entropia e dei buchi neri; in
breve, Wheeler si chiese se la seconda legge dell’entropia, quella che garantisce che l’entropia
dell’universo non può mai diminuire, fosse in
qualche modo violata dalla presenza del buco
nero. Osservazione dettata dal fatto che poiché
un buco nero inghiottiva ogni cosa, si poteva
pensare, idealmente, a un processo nel quale
vi fosse un aumento di entropia, ad esempio
sciogliere dello zucchero in una tazzina di caffè, e
far sparire il risultato dell’esperimento, nel nostro caso la tazzina con il caffè, dentro al buco
nero. Con la scomparsa del corpo del reato, la
tazzina, sarebbe anche scomparso l’informazione
che l’entropia del sistema era aumentata.
A Bekenstein la cosa parve molto interessante.
I buchi neri erano, forse, in grado di sconvolgere
anche una legge solida e sempre verificata come
quella dell’entropia? Forse c’era modo, analizzando qualche parametro caratteristico del buhttp://www.torinoscienza.it/
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
co nero, di risalire all’informazione perduta (la
tazzina del caffè di cui sopra), salvaguardando
la legge termodinamica.
Ma anche questa riflessione non era supportata
dai fatti, o meglio da quello che Wheeler, ancora lui, ebbe modo di definire come “il teorema dell’assenza di peli”. Nome davvero strano
per un teorema, nato come una congettura, per
certi versi, assolutamente straordinario: l’assenza di peli diceva che della stella collassante rimanevano come marchio di fabbrica solo la massa, la carica e il momento angolare, cioè i soli
parametri che avrebbero caratterizzato la natura del buco nero; tutte le altre informazioni portate dalla materia, i peli, sarebbero sparite per
sempre nel buco nero.
6.3
Il teorema No Hair
Verso la metà degli anni sessanta, accanto alle
riflessioni sulla natura delle singolarità, i teorici
erano anche impegnati a capire se le soluzioni
di Schwarzschild e di Kerr- Newmann fossero
le uniche possibili che descrivevano buchi neri
nel vuoto. Si pensava ancora che lo stato finale stazionario di una stella collassante sarebbe
dovuto dipendere da molti parametri, ossia da
tutti quelli che caratterizzavano le proprietà
della materia collassante. Ne risultava quindi
uno stadio finale difficilmente prevedibile, vista
l’ampia gamma di proprietà che questa materia
avrebbe potuto avere. In altre parole, si sarebbero potute trovare ben altre soluzioni rispetto a
quelle che avevano come unici parametri caratterizzanti, la massa il momento angolare e la
carica del buco nero.
20
rema di grande rilevanza. Dalla relatività generale, come dimostrò, discendeva un fatto molto
importante: tutti i buchi neri non rotanti erano oggetti molto semplici, di forma sferica come
sferica sarebbe dovuta essere la forma della materia collassante che li aveva generati, e le sole
proprietà necessarie a caratterizzarli, e a differenziarli, erano la massa e la carica. Nient’altro. Israel aveva dimostrato che potevano
esistere solo due tipi di buchi neri non rotanti: quelli di Schwarzschild e quelli di Reisnerr
Nordstrom.
Il problema si presentò nel momento in cui si
ammise che trovare una stella perfettamente
simmetrica sarebbe potuto essere una richiesta
molto poco fisica, difficile da trovare in natura.
Penrose e Wheeler allora interpretarono il risultato di Israel in altra maniera; essi ipotizzarono
che la materia collassante avrebbe assunto forma a poco a poco sempre più sferica grazie alla
dissipazione dell’energia per mezzo delle onde
gravitazionali. Il risultato finale sarebbe stato un buco nero stazionario di forma perfettamente sferica, indipendentemente dalla natura
e dalle informazioni che la stella collassante non
rotante portava con se. Visto che a quel tempo già si conosceva la soluzione di Kerr, rappresentante dei buchi neri rotanti, si estese la
congettura di Wheeler in maniera tale che, se la
stella collassante fosse stata in rotazione allora
il suo stadio finale sarebbe stato un buco nero
stazionario descritto dalla soluzione di Kerr, i
cui parametri caratterizzanti erano solo massa e
momento angolare.
Naturalmente quella di Wheeler era solo una
congettura, e di fatto c’era solo il teorema di Israel del 1967. Il primo passo che innalzò la congettura di Wheeler al rango di teorema, capitò
nel 1970 quando Brandoon Carter dimostrò che
se un buco nero avesse ruotato attorno a un asse
di simmetria, allora le sue caratteristiche, forma e dimensioni, sarebbero dipese da due soli
parametri, massa e velocità di rotazione. Nel
1973, David Robinson, sfruttando il lavoro di
Carter e quello di Hawking del 1971 che dimostrava la necessaria esistenza di questo asse
di simmetria, giunse alla conclusione desiderata: questo buco nero non poteva altri che essere
Ma nel 1967 Werner Israel mise in luce un teoUn dossier di Paolo Magionami,
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
quello descritto dalla soluzione di Kerr.
L’ardita congettura di Wheeler, era stata dimostrata. E come tale innalzata al rango di
teorema No Hair (niente capelli).
21
essere un parametro descrittivo dei buchi neri. Il
grande numero di queste particelle in una massa
collassante, una volta dentro il buco nero c’essa di essere rilevante e non forniva più informazioni specifiche per il buco nero. L’asserzione
di Wheeler era davvero sconvolgente.
Negli anni successivi, fino alla fine degli anni
’80, molti ricercatori hanno provato ad attaccare “peli” a un buco nero, cercando di trovare
soluzioni dell’equazione di Einstein che rappresentassero buchi neri muniti di informazioni aggiuntive o, in termini tecnici, provarono ad aggiungere campi alternativi cioè che nuove particelle, come campi scalari, campi di gauge e cosı̀
via. Di queste soluzioni ne furono anche trovate,
ma nessuna di queste era stabile. Ciò significava
che se si perturbava anche di poco il nuovo buco nero, questo perdeva le proprie caratteristiche
trasformandosi in qualcosa di completamente diverso. Insomma, niente a che vedere con gli imperturbabili e stabili buchi neri di Schwarzschild
e Kerr.
L’importanza di questo teorema è davvero
notevole; esso restringe lo stadio finale di una
stella collassante a sole quattro possibilità e
che sono le quattro soluzioni delle equazione di
Einstein descriventi buchi neri, ossia:
1) buco nero di Schwarzschild, non rotante e
non carico di massa M 2) buco nero di Kerr,
rotante non carico di massa M 3) buco nero
di Reisnerr-Nordstrom, di massa M, carica
Q non rotante 4) buco nero di Newmann, di
massa M, carica Q, rotante.
Gli unici parametri che intervenivano a differenziare i buchi neri erano pertanto, massa, carica
e momento angolare. Nulla di più. I buchi neri
erano oggetti per certi aspetti davvero semplici: se due di loro, ad esempio due non rotanti e
non carichi, avessero avuto la stessa massa M,
quei due buchi neri erano perfettamente identici
ed entrambi appartenenti alla categoria di buchi
neri di Schwarzschild di massa M.
Wheeler stesso evidenziò la portata del suo teorema, riprendendo la questione della conservazione del numero barionico. Ebbene, con il
teorema No Hair il principio di conservazione
dei barioni non era più valido. Esso cessava di
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Il teorema comunque è a tutt’oggi ancora fortemente dibattuto, e non è esclusa l’ipotesi che
possa essere modificato.
7
La dinamica dei buchi neri
Nel 1972 le conoscenze sui buchi neri avevano
raggiunto uno stadio piuttosto evoluto. I contributi di molti scienziati avevano permesso di
capire molte cose sulla dinamica di questi oggetti, tanto che alla fine Hawking, Carter e Bardeen
pubblicarono un articolo di straordinaria importanza: Le leggi della meccanica del buco
nero.
Le quattro leggi che formularono furono:
Legge zero: In condizioni stazionarie la gravità
superficiale k di un buco nero è la stessa in tutti
i punti dell’orizzonte.
Prima Legge: in un buco nero, nella trasformazione da uno stato a un altro vicino, l’energia del sistema cambia di una quantità pari alla
somma di un termine di lavoro (che tiene conto
del lavoro fatto per cambiare la rotazione del buco nero e del lavoro fatto sui campi di materia eshttp://www.torinoscienza.it/
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
ternamente a esso) e di un termine proporzionale
alla variazione dell’area dell’orizzonte.
Seconda legge: in un qualsiasi processo fisico che si svolga in un sistema isolato l’area
dell’orizzonte degli eventi non può mai diminuire
Terza legge: è impossibile portare con una successione finita di termini la gravità di superficie
k a un valore pari a zero.
La gravità superficiale è una sorta di parametro
che indica il valore di accelerazione che un osservatore dovrebbe avere se volesse rimanere
sospeso sopra l’orizzonte (in realtà il suo valore sarebbe infinito ma con opportune considerazioni è possibile “rinormalizzarlo” a un valore
finito).
22
in seguito alle implicazioni del teorema No Hair
e della teoria dell’informazione: quando una
particella cade dentro a un buco nero porta
con se la sua informazione che pertanto, vista
dal nostro universo, va perduta; ma secondo
la teoria dell’informazione, la perdita dell’informazione comporta un aumento di entropia.
Pertanto ci doveva essere un’entropia associata al buco nero. Bekenstein si spinse oltre e
cercò di misurare questo valore. Usufruendo
di qualche suggerimento dato lui da Wheeler
valutò che l’entropia era proporzionale all’area
dell’orizzonte di un fattore di cui se ne poteva dare una stima utilizzando il principio di
indeterminazione di Heisemberg.
Insomma, Hawking e compagnia avevano appena detto come “funzionavano” i buchi neri.
A qualcuno, non ultimo Hawking, non sfuggı̀
il fatto che queste quattro leggi erano formalmente identiche alle leggi della termodinamica,
se si pensava di comparare la temperatura di un
corpo, la sua energia e la sua entropia rispettivamente alla gravità superficiale, alla massa e
all’area dell’orizzonte di un buco nero.
Le motivazioni di Bekestein irritarono non poco
Hawking e colleghi che non credevano affatto
al connubio tra termodinamica e buchi neri,
come lo stesso Hawking ricorderà nel suo libro a
proposito dello storico articolo del 1972: “ Devo
ammettere che scrivendo tale articolo, ero motivato in parte da una certa irritazione nei confronti di Bekestein, che secondo me aveva fatto cattivo uso della mia scoperta dell’aumento
dell’area dell’orizzonte degli eventi”.
In uno dei suoi libri divulgativi più famosi
Hawking una quindicina di anni dopo avrebbe
ricordato:
Il motivo per il quale non si poteva credere che
i buchi neri fossero anche oggetti termodinamici
era piuttosto semplice:
“Le proprietà dell’area di un buco nero di non
diminuire mi ricordava molto da vicino il comportamento di una proprietà fisica chiamata entropia, la quale misura il grado di disordine di
un sistema”. (S. Hawking, A Brief History of
Time, 1988)
“...la temperatura di un buco nero è zero. Un
modo per rendersene conto è notare che un buco
nero non può essere in equilibrio con una radiazione di corpo nero a una temperatura diversa
da zero” (Hawking, Bardeen, Carter, 1973)
Ma almeno in questa considerazione qualcuno
lo aveva preceduto. Fu Jacob Bekenstein ad
anticipare sconvolgenti intuizioni. Prima della
pubblicazione del lavoro di Hawking, Bardeen
e Carter, Bekenstein suggerı̀ che l’analogia fino
a quel momento solo formale tra dinamica dei
buchi neri e termodinamica classica poteva essere più che una semplice coincidenza ma qualcosa di molto più profondo se si fosse considerata
la teoria quantistica dei campi. Allora, e solo allora, si poteva realmente pensare di identificare
l’area di un buco nero con la sua entropia.
Le considerazioni di Bekenstein erano maturate
Un dossier di Paolo Magionami,
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Ecco il grosso problema. I buchi neri non avevano temperatura! Ma proprio da Hawking
venne la scoperta rivoluzionaria. Con grande
gioia anche dello stesso Bekenstein, che non aveva affatto digerito come le sue idee erano state
trattatte nell’articolo del 1972.
8
I buchi neri evaporano
Due anni dopo l’articolo sulla dinamica dei
buchi neri ci fu la grande svolta; la scoperta
sensazionale che gettò una luce nuova sull’ancora misterioso mondo dei buchi neri: Stephen
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
23
Una volta in possesso della temperatura, al buco
nero poteva anche essere associata un’entropia,
S, pari a
tistico, è che il concetto di “vuoto” perde il suo
classico e naturale concetto. Se in una certa regione di spazio vi fosse il vuoto allora sarebbero
zero tutti i campi di materia e di energia in esso
presenti, come il campo gravitazionale o quello elettromagnetico; ma questo significherebbe
che sarebbe possibile conoscere contemporaneamente entrambi i valori prima descritti, ossia il
suo valore in un punto e il suo tasso di variazione nel tempo. Entrambi sarebbero pari a zero. E ciò non è assolutamente possibile. Questo
significa che, in realtà, il vuoto è un calderone
di “particelle virtuali” che si creano e si annichilano in tempi brevissimi. Poiché non si
può creare energia dal nulla, le coppie di particelle che si creano e si distruggono sono in realtà coppie di particelle e corrispettive antiparticelle. Tali particelle sono virtuali perché non
possono essere osservate. Ma, tuttavia, sono ben
misurabili i loro effetti.
S= AKc3/ (4 G h)
A questo punto entra in gioco il buco nero.
Hawking fu in grado di dimostrare che i buchi
neri emettevano energia di natura termica, esattamente come avrebbe fatto un corpo caldo. I buchi neri avevano, realmente, una loro
temperatura e potevano addirittura evaporare
completamente fino alla loro totale scomparsa.
Hawking arrivò al risultato applicando le leggi
della meccanica quantistica a un campo gravitazionale contenente un buco nero. Dimostrò
che l’emissione era di tipo termico con una
temperatura direttamente proporzionale alla
gravità superficiale k :
T= h k/ (2p Kc) dove
h = costante di Plank K = costante di
Boltzmann
dove
G= costante di gravitazione universale.
E’ importante sottolineare la presenza della
costante di Planck h (si legge “h tagliato”),
indice del fatto che siamo in presenza di un
fenomeno puramente quantistico che non ha
nessun riscontro classico.
Con semplici calcoli si poteva dimostrare che per
un buco nero di Schwarzschild, l’entropia era
proporzionale al quadrato della massa del buco nero mentre la temperatura era inversamente
proporzionale alla massa. In altre parole più il
buco nero era piccolo e più era caldo.
Il risultato di Hawking era frutto del sodalizio
tra relatività generale e meccanica quantistica, in particolare con il principio di indeterminazione di Heisenberg. Secondo questo principio
non è possibile conoscere contemporaneamente,
ad esempio, posizione e velocità di una particella. Più è precisa la misura della velocità di
una particella maggiormente incerta è la sua posizione e viceversa. Un cosa simile accade per
il valore di un campo e la sua variazione, che
possono essere paragonati alla posizione e alla
velocità di una particella. Una conseguenza di
questo strano comportamento, puramente quanUn dossier di Paolo Magionami,
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In prossimità dell’orizzonte degli eventi, può
succedere che una delle componenti di questa coppia, invece che annichilarsi con la sua
controparte, venga attirata dal buco nero e
oltrepassi l’orizzonte degli eventi senza riemergere mai più, come ormai ben sappiamo. Priva
della sua controparte, la particella libera può
sfuggire ancora al buco nero ed essere rilevata lontano dal buco nero come particella reale.
Un osservatore lontano avrà l’impressione che la
particella sia stata emessa dal buco nero, mentre
in realtà è stata emessa nell’intorno assai vicino dell’orizzonte degli eventi. La particella inghiottita, secondo la famosa legge E=Mc2 , porta
dentro al buco nero una massa che va a sottrarsi
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
a quella del buco nero, che pertanto ridurrà la
propria massa, fino a diventare sempre più piccolo. Man mano che il buco nero perde massa,
diventa anche più caldo, aumentando il suo tasso di irradiamento termico, fino a quando non
scomparirà del tutto. Il buco nero è evaporato completamente. E Hawking si conquistò un
posto nella galleria degli immortali del secolo.
Poiché a questo punto un buco nero può assorbire ed emettere radiazione può anche trovarsi
in equilibrio con l’ambiente circostante, quindi le
quattro leggi della dinamica dei buchi neri erano
(sono) realmente leggi termodinamiche. Questo
ha permesso di enunciare una seconda legge termodinamica più generale, secondo la quale in un
processo fisico che si svolga in un sistema isolato
l’entropia della materia e quella dei buchi neri
non può mai diminuire. In un certo senso, i
buchi neri avevano compiuto uno straordinario
miracolo, avevano riunito le leggi della meccanica quantistica, della relatività generale (una teoria classica) e della termodinamica in una volta
sola. Un risultato straordinario.
Tuttavia avevano anche mostrato chiaramente
che i buchi neri non dovevano essere più considerati oggetti “classici”, ossia trattabili con le
leggi della dinamica classica. Essi erano oggetti
quantistici per i quali, per la loro completa determinazione, occorreva una teoria quantistica
della gravitazione. Se, infatti, era stato compiuto un grandissimo passo in avanti verso la comprensione di questi oggetti, era anche vero che
questo stesso passo apriva il campo a numerose
domande.
Non ultimo il fatto che la radiazione fosse esattamente termica, cosa di cui si era certi, perché
questo tipo di radiazione lascia un marchio di
fabbrica facilmente riscontrabile. Secondo quanto sostenne Hawking due anni dopo, nel 1976,
questo fatto indicava che i buchi neri violavano le leggi di evoluzione dei sistemi quantistici, almeno secondo quanto fino ad allora
si sapeva. In particolare violavano il concetto di “unitarietà dell’evoluzione” che, con parole rozze, garantiva il fatto che l’informazione
contenuta in un sistema prima di un processo
fosse rintracciabile a processo ultimato. Nella fisica delle particelle, l’unitarietà è un conUn dossier di Paolo Magionami,
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24
cetto fondamentale. Ma Hawking stava sostenendo che questo concetto non era più applicabile a un buco nero. L’informazione che il
buco nero cattura, asteroidi, stelle, particelle,
luce, astronauti, non viene più restituita. Anzi
viene totalmente perduta perché a un certo punto il buco nero evapora completamente. Quello
che restituisce gradualmente è solo radiazione
termica, dalla quale non si può ricavare alcuna informazione. L’asserzione dello scienziato
britannico era davvero di quelle forti.
Negli anni successivi, i fisici si sono impegnati
moltissimo a cercare di rispondere ai quesiti
che la termodinamica dei buchi neri sollevava.
In particolare si è cercato di capire che cosa
fosse davvero l’entropia di un buco nero, e se
fosse possibile calcolarla mediante un approccio statistico al problema, in modo da riuscire
a comprendere le proprietà microscopiche dei
buchi neri. Ad esempio, se calcoliamo l’entropia
di un buco nero la cui massa è tre volte quella del sole, otteniamo un numero enorme, un
1 seguito da 78 zeri, mentre la sua temperatura non raggiunge neanche il milionesimo di grado. Da dove viene questo valore dell’entropia
cosı̀ elevato? Evidentemente, un buco nero è un
oggetto nel cui interno è racchiuso moltissimo
disordine, sebbene, come abbiamo visto, sia un
oggetto per certi aspetti estremamente semplice
(Teorema No Hair). Sebbene la visuale classica abbia fornito risultati notevoli ed eleganti,
cosı̀’ come l’utilizzo di approcci matematici diversi dalla teoria della relatività, era chiaro che
serviva una teoria della gravità che fosse finalmente quantistica, come era già possibile fare
per tutti gli altri campi conosciuti, quello elettromagnetico, quello debole e quello forte (più o
meno).
fisici teorici avevano in mente qualcosa di straordinariamente ambizioso: una teoria che spiegasse tutte le interazioni materia- energia fino
ad allora conosciute.
Il Sacro Graal della fisica teorica era la ricerca
della Grande Teoria Unificata.
Ancora oggi molti degli sforzi sono orientati in
questa direzione, anche se, a detta di una consistente comunità di scienziati, ci sono forti inhttp://www.torinoscienza.it/
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
dizi che questa teoria sia stata trovata. Essa
risponde al nome di teoria delle stringhe.
9
Gli ultimi
ricerche
venti
anni
di
25
su un ampio spettro di problemi, non ultimo
quelli di natura gravitazionale, quando, a metà
degli anni novanta Andrews Strominger e Cumrun Vafa dimostrarono come fosse possibile calcolare l’entropia di un buco nero considerando i
suoi microstati.
In altre parole quello che si stava cercando da
tanto tempo. O quasi.
Nel corso degli anni ’80, la fisica dei buchi neri
si tenne su un profilo piuttosto basso. Gli unici impulsi venivano dalla scoperte nel campo
dell’astrofisica, come l’identificazione di enormi buchi neri supermassicci, o l’individuazione
di fenomeni energetici di enorme potenza, per
i quali si pensava occorressero campi gravitazionali ugualmente enormi. Si cercavano, poi,
soluzioni delle equazioni di Einstein che, come
già detto, mettessero in crisi il teorema No Hair,
e si continuava a lavorare su una soddisfacente
teoria della gravitazione quantistica. La relatività generale, infatti, non è stata l’unica teoria
sviluppata sul campo gravitazionale, ma di certo ha dimostrato di funzionare benissimo, e di
fare egregiamente quello che si richiede a una
teoria: fare previsioni. Il problema era che non
era quantizzabile che le normali procedure utilizzate per gli altri campi. La teoria quantizzata
mostrava degli infiniti non rinormalizzabili, in
altre parole che non era possibile eliminare con
qualche astuto trucco. Quegli infiniti dicevano
che realmente c’era qualcosa che non andava nella teoria. Tra le tante avanzate nel corso degli
anni, la teoria delle stringhe può vantare numerosi punti in suo favore, compreso il problema
della quantizzazione del campo gravitazionale.
La teoria delle stringhe, sviluppata nel corso
degli anni settanta per problemi legati alla fisica
nucleare, ha dimostrato di fare giuste previsioni
Un dossier di Paolo Magionami,
aggiornato al 02.04.2004
Nel corso degli anni novanta, mentre da una
parte molti fisici teorici si sono spostati verso
le stringhe, dall’altra sono stati portati avanti interessanti studi di tipo semiclassico (ossia
campi quantistici su un campo gravitazionale
classico, non quantizzato) sui buchi neri. Piuttosto elegante è stata la trattazione fatta da
Robert Wald mediante l’utilizzo del formalismo di Noether. Amalie Emmy Noether (18821935), bella figura di scienziato donna in un
periodo dove la ricerca era all’appannaggio dei
soli uomini, formulò un fondamentale teorema che stabiliva una relazione tra proprietà
di invarianza di un sistema e leggi di conservazione. Ad esempio l’invarianza rispetto a una
traslazione spaziale implicava la conservazione
della quantità di moto.
Trasportano il teorema di Noether a una classe
di funzioni dotate di certe simmetrie, Wald ha
dimostrato che le leggi della termodinamica dei
buchi neri non sono una peculiarità della teoria della relatività generale, ma una caratteristica intrinseca dei buchi neri. I valori di entropia ricavati da Wald sono in perfetto accordo con quelli precedentemente calcolati. Il limite dell’approccio di Wald, per quanto elegante,
si manifesta nel momento in cui non riesce a
chiarire da dove venga l’entropia di un buco
nero, quale sia la sua vera natura, fornendo, di
contro, solo un metodo per calcolarla.
Ormai era chiaro, per vincere la battaglia c’era
bisogno di rivoluzionare la fisica, per giungere
a comprendere la natura nei suoi aspetti più
nascosti, quelli dell’ordine della scala di Planck
(10−33 cm).
Le stringhe potevano dare qualche risposta
convincente in proposito.
Secondo questa teoria, le unità fondamentali
non sono più particelle ma corde unidimenhttp://www.torinoscienza.it/
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
sionali in grado di muoversi in uno spazio ndimensionale. Muovendosi in questo spazio la
stringa “spazza” una superficie 2-dimensionale
le cui caratteristiche sono importantissime per
i fisici teorici. Oltre a muoversi, la stringa può
oscillare in modi differenti. Le particelle, come
noi le rileviamo, non sono altro che questi diversi modi di oscillazione. Affinché questi modi d’oscillazione quantizzati risultino in accordo
con la meccanica quantistica, lo spazio sul quale
si possono muovere ha ben 26 (!) dimensioni nel
caso di una teoria che contenga solo forze, mentre si riducono a un minimo di 11 dimensioni
qualora si considerino anche campi di materia
(fermioni). Particolarmente interessante risulta il fatto che le stringhe possono anche essere
chiuse; il loro spettro di oscillazioni, in questo
caso, comprende anche particelle di spin pari a
2 e prive di massa. In poche parole la teoria include in modo del tutto naturale la presenza di
gravitoni, i quanti del campo gravitazionale.
Sulle stringhe si sono riversati un gran numero di
ricercatori che a poco a poco hanno sviluppato e
reso più chiara una teoria che ha molto faticato
per farsi accettare, data la sua grande complessità e soprattutto limitata da un aspetto dal
quale difficilmente una buona teoria dovrebbe
prescindere: le verifiche sperimentali. Oggi si
ritiene che le cinque teorie che descrivono le
stringhe siano, in realtà, cinque mattoni che costituiscono una teoria più generale detta Teoria
M dove le unità fondamentali non sono più le
stringhe ma delle membrane.
Ma torniamo ai nostri buchi neri e a come le
stringhe paiano aver risolto il problema.
Nel 1995 Andrews Vafa e Cumrun Strominger
annunciarono di aver risolto la questione legata
all’entropia dei buchi neri.
I due scienziati hanno assemblato un certo numero di stati delle corde, cosa che ha permesso
loro di tenere sotto controllo la struttura microscopica creata, e con una complessa argomentazione hanno associato la loro creatura a una
particolare classe di buchi neri, quelli estremali,
ossia buchi neri dotati di massima carica elettrica e, compatibilmente, di minima massa. In
seguito hanno contato tutti i possibili riarrangiaUn dossier di Paolo Magionami,
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26
menti degli stati microscopici creati che lasciavano inalterate le proprietà osservabili del buco
nero, ossia massa, momento angolare e carica.
Una volta terminato il calcolo hanno trovato accordo perfetto tra il risultato ottenuto e l’area
dell’orizzonte degli eventi del buco nero.
Finalmente qualcuno era riuscito a calcolare
l’entropia di un buco nero contando i suoi stati
microscopici interni. I teorici delle stringhe,
nei loro libri divulgativi, tendono a presentare
questo risultato come un grandissimo successo
della teoria e non si soffermano sui limiti di
questo risultato. E’ ovvio, infatti, che l’entropia
da loro trovata è quella di una classe di buchi
neri piuttosto particolare, e non quella, ad esempio, di un buco nero formato da collasso gravitazionale. Inoltre si può obiettare che il loro
conto coinvolge non i stati interni del buco nero
bensı̀ i stati di stringa, solo in seguito associati
agli stati di buco nero. Comunque il risultato di
Vafa e Strominger è stato davvero importante,
segnando un passo notevole nell’ardua ricerca
di una teoria quantistica della gravitazione che
esca incolume dalle problematiche sollevate dai
buchi neri.
Ma c’è ancora dell’altro. Come se non bastasse i
buchi neri hanno ispirato un’idea per certi versi
davvero sconvolgente. Se fosse in qualche modo provata rivoluzionerebbe certamente il nostro
modo di pensare l’Universo.
9.1
Universi come ologrammi e altre
stranezze
Abbiamo visto che l’entropia di un buco nero
è pari a un quarto dell’area dell’orizzonte degli
eventi. In altre parole, l’entropia è legata a una
superficie e non, come parrebbe più ovvio, a un
volume. Ora, nessuno sa con esattezza cosa ci
sia dentro a un buco nero, e questo ormai lo
abbiamo capito, però sappiamo con ragionevole
certezza che l’entropia, intesa come quantità di
informazione, si trova sulla sua superficie, e con
essa anche i suoi gradi di libertà.
Questo ha portato i fisici a estendere tali ragionamenti a regioni cosmologiche dotate di superfici
di delimitazione, cioè delimitate da una sorta di
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
orizzonte degli eventi cosmico.
Uno dei primi passi in questa direzione è stato compiuto nel 1995 da Leonard Susskind della Stanford University che ha elaborato l’ipotesi
del vincolo olografico: per ogni sistema fisico isolato delimitato da una superficie, l’entropia ha
un limite massimo pari a un quarto dell’area di
questa superficie chiusa attorno al sistema diviso
per il quadrato della lunghezza di Planck:
S ... A/4(Lp)2
L’ipotesi di Susskind pare davvero notevole: il
vincolo olografico estenderebbe la formula dell’entropia dei buchi neri a tutti gli altri sistemi
fisici isolati e con un bordo.
Ma il bello è, comunque, già alle porte. La
spiegazione alla base dell’ipotesi di Susskind
potrebbe essere data da quello che è conosciuto come principio olografico, proposto negli
stessi anni da Gerard’t Hooft dell’Università di
Utrecht. Secondo questo principio, la fisica di un
sistema tridimensionale può essere descritta da
una teoria fisica che si “muove” solo sul confine
bidimensionale del sistema in esame. Se fosse
vero, la quantità di informazione contenuta nel
sistema non dovrebbe essere maggiore di quella contenuta nella sua superficie. E il vincolo
olografico sarebbe rispettato.
A questo punto la fantasia ha iniziato a galoppare veloce quanto le intuizioni dei fisici: il nostro universo quadrimensionale potrebbe essere
descritto da leggi definite nel suo bordo tridimensionale ? Potremmo essere tutti una sorta
di ologramma?
A supporto di una simile, inverosimile, ipotesi è
arrivata nel 1997 la scoperta che la teoria delle
stringhe è equivalente a una teoria di campo
quantistica formulata sul bordo di un particolare
spazio-tempo, chiamato di anti-De Sitter.
Willem de Sitter (1872-1934), astronomo olandese, trovò una soluzione delle equazioni di Einstein con la costante cosmologica, che descrivevano un universo vuoto, simmetrico e sempre
in espansione. Cambiando segno alla costante
cosmologica, ossia trasformando la repulsione
in attrazione, otteniamo un universo di antide Sitter, vuoto e simmetrico come il preceUn dossier di Paolo Magionami,
aggiornato al 02.04.2004
27
dente. Ebbene, Juan Maldacena, fisico dell’Università di Harvard, ha dimostrato che un universo anti-de Sitter in cinque dimensioni descritto
da una teoria delle stringhe è del tutto equivalente a una fisica descritta da una teoria di campo (conforme) sul bordo di questo universo, ossia nella regione quadrimensionale. Insomma, la
grande intuizione di Maldacena altro non dice
che due teorie cosı̀ differenti tra loro, come la
rivoluzionaria teoria delle stringhe e la piu classica teoria dei campi, sarebbero del tutto equivalenti. Non solo, ma un ipotetico abitante di
questo universo non sarebbe neanche in grado
di stabilire in linea di principio, in che parte
dell’universo esso si trovi, se su uno a cinque
dimensioni o sul suo bordo a quattro.
Nel caso dei buchi neri, uno di questi che si
trovasse nello spazio 5-dimensionale sarebbe del
tutto equivalente a una radiazione termica nello spazio a 4 dimensioni: entrambi avrebbero
la stessa entropia anche se origine totalmente
differente.
E’ innegabile, il principio olografico potrebbe essere la grande rivoluzione che la fisica aspettava. O quantomeno indirizzare i ricercatori verso
quel sacro Graal della fisica che, sfuggente come
un soffio di vento ma ingombrante come la biblioteca di Babele, inquieta i sogni degli scienziati: riuscire a capire, finalmente, come agisce
la gravità.
Intanto i buchi neri rimangono a guardare, aspettando con pazienza l’avventuroso astronauta che attraverserà il cerchio magico. Il folle
Reinhardt è già lı̀ da tempo.
10
Bibliografia
Testi divulgativi
Dal Big Bang ai buchi neri (A brief history
of time), Steven Hawking, 1988. Il best sellers
sui buchi neri. Un classico per avvicinarsi al
problema
I misteri del tempo, Paul Davies, 1995. Discussioni sul tempo viste da un grande scienziato
e divulgatore
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Buchi neri. Da Mitchell alla teoria delle stringhe, l’evoluzione di un’idea
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Teoria del Big Bang e buchi neri, Robert
Wald, 1977. Libro vecchiotto ma ancora molto
interessante
Quantum field theory in curved space
time and black hole entropy (R. Wald,
1994). Impegnativo.
Buchi neri, comunicazione, energia, Jacob
D. Bekenstein, 2001. Molto bello. La vita in
prima persona e le scoperte di un grande fisico
Proprietà termodinamiche dei buchi neri
(tesi di laurea dell’autore, 1997). Vivamente
sconsigliata
L’universo elegante, Brian Green, 2000. Un
altro best sellers: stavolta sulle stringhe. Facile
solo in apparenza. A volte troppo di parte.
La nuova fisica, a cura di Paul Davies, 1998.
Compendio di articoli scritti da eminenti fisici, che spaziano dalla complessità all’astrofisica.
Bello e caro.
La natura dello spazio e del tempo,
Stephen Hawking e Roger Penrose, 1996.
Venduto come libro divulgativo è in realtà
densissimo di concetti tutt’altro che banali.
Dark stars: the evolution of an idea, Werner Israel, tratto da 300 Years of gravitation,
1987. La storia dei buchi neri raccontata in
maniera approfondita da Israel
Per avere una panoramica efficace sul principio olografico si rimanda alla lettura di due
articoli apparsi su Le Scienze:
L’informazione in un universo olografico,
J. Bekenstein (Le Scienze 421, settembre 2003)
Il futuro della teoria delle stringhe, B.
Greene (Le Scienze, 424, dicembre 2003)
Testi di stampo universitario per approfondire l’argomento:
Gravitation, (Misner Thorne Wheeler, ed. W
H Freeman & Co.,September 1973). La Bibbia
Gravitation and cosmology (S. Weinberg,
Wiley Text Books,July 1972). Dallo stile un po’
datato ma rimane sempre un gran libro.
General Relativity (R. Wald, University of
Chicago Press,July 1984). Gran libro, ma
tecnico. Per specialisti.
A first course in general relativity (Bernard
Schuntz). All’università si inizia con questo. Ma
non è un granché.
Teoria dei campi (Landau, Lifsits).
Come tutti i Landau
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