dispense ecotossicologia

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DISPENSE ECOTOSSICOLOGIA
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ECOTOSSICOLOGIA
Nel 1969 Truhaut coniò il termine ECOTOSSICOLOGIA (ECOLOGIA
+ TOSSICOLOGIA) per definire la branca della tossicologia che si
interessa degli “effetti delle sostanze chimiche indotte negli
ecosistemi” (Walker et al., 2001).
L’ecotossicologia considera quindi le azioni NON SOLO sui singoli
individui, ma anche sulle popolazioni e sulle biocenosi.
La semplice ricerca di residui nei tessuti di piante ed animali NON
può essere quindi essere considerata ecotossicologia, poiché non
valuta gli effetti di questi residui sugli organismi o sulle popolazioni,
ma è un semplice monitoraggio. L’ecotossicologia valuta invece gli
EFFETTI che questi livelli residuali hanno per l’organismo, le
popolazioni o le comunità.
In un certo senso si può definire il monitoraggio una “scienza del
morto”, perché opera sui tessuti degli organismi, il che comporta
l’uccisione degli animali utilizzati o la raccolta di soggetti già
deceduti. Al contrario, l’ecotossicologia è spesso (anche se non
sempre) la “scienza del vivo”, perché valutando gli effetti sugli
organismi non comporta l’uccisione degli animali (vengono spesso
valutati parametri quali l’attività enzimatica, che sono stimabili solo
sull’animale vivo).
Come già detto, l’ecotossicologia si relaziona con le sostanze
chimiche, quindi con l’inquinamento. Per “inquinamento” si intende
“l’introduzione diretta o indiretta da parte dell’uomo nell’ambiente
acquatico di sostanze o energia (inquinamento termico) che
possono causare danno all’ambiente e agli esseri viventi (uomo
compreso). A differenza della tossicologia quindi l’ecotossicologia
sposta l’attenzione dall’uomo all’ambiente, di cui l’uomo fa parte ma
non è il punto centrale: dal punto di vista ecotossicologico l’uomo è
UNO DEGLI ASPETTI da considerare, non il principale (anche se i
dati ottenuti sono importanti anche per la salvaguardia dell’uomo).
Tra gli inquinanti vanno considerati anche i reflui degli impianti di
depurazione: sebbene i trattamenti di depurazione riducano il carico
di sostanze inquinanti che vengono rilasciati nell’ambiente, le
caratteristiche dei reflui stessi sono in grado di modificare le
proprietà dell’ambiente. I procedimenti di depurazione non sono ad
esempio in grado di eliminare i metaboliti delle sostanze ad azione
estrogenica presenti nelle pillole anticoncezionali; il rilascio di questi
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metaboliti nell’ambiente si è rivelato in grado di alterare le capacità
riproduttive delle specie ittiche (ed in particolare dei salmonidi)
presenti nei fiumi in cui questi vengono rilasciati.
Per inquinante o contaminante ambientale si intende una sostanza
chimica presente a livelli superiori rispetto a quelli considerati
normali per una particolare componente ambientale. Il problema è
capire cosa di intende per “normalità”. La “normalità” varia infatti in
funzione dell’inquinante che viene considerato: per i pesticidi la
normalità è l’assenza, per composti quali i metalli pesanti, gli
idrocarburi policiclici aromatici (PAHs) e il metilmercurio (MeHg) la
normalità è invece la presenza a concentrazioni superiori quelle
naturalmente presenti nell’ambiente. In questi casi il livello normale
può variare notevolmente da un luogo all’altro: le aree vulcaniche
sono ad esempio zone ad elevato contenuto di zolfo, per cui i livelli
di inquinamento da zolfo in questi distretti saranno molto più
elevati che in zone non vulcaniche.
Un’ulteriore distinzione che si può fare è quella tra inquinante e
contaminante:
 INQUINANTE: composto che può causare un danno ambientale
 CONTAMINANTE: composto che pur presente a livelli superiori
a quelli normali NON comporta danno.
Nel definire la pericolosità di una sostanza intervengono però tutta
una serie di fattori che possono rendere difficile la classificazione:
1. La tossicità, che “quantifica” la pericolosità, è estremamente
variabile e funzione della dose (quantità) di sostanza presente
nell’ambiente. Un composto molto tossico ma presente a
livelli molto bassi nell’ambiente sarà meno pericoloso di una
sostanza meno tossica ma presente in grandi quantità.
2. Il concetto di DANNO non è univoco: lo stesso effetto può
essere percepito e considerato in maniera completamente
diversa da soggetti diversi. Ad esempio la presenza di ormoni
nelle carni viene considerato in maniera negativa dalla
Comunità Europea, mentre negli Stati Uniti l’utilizzo di ormoni
è considerato lecito.
3. Spesso le conoscenze degli effetti indotti dagli inquinanti sono
scarse o poco definite, il che rende estremamente difficile
identificare il pericolo o il rischio indotto da queste sostanze.
3
Per tossicità si intende la “capacità di una sostanza di causare un
danno ad un organismo vivente”.
La tossicità può essere:
1. DIRETTA, quando il composto agisce direttamente sul sito di
azione e sull’organismo, inducendo un danno direttamente
sull’organismo. Il composto induce quindi una lesione
(chimica, biochimica, fisica, ecc.) direttamente nell’organismo.
2. INDIRETTA, quando il composto agisce modificando
l’ambiente di vita degli organismi. Il danno viene quindi
determinato
da
un’alterazione
delle
caratteristiche
dell’ambiente, che riducono le capacità di sopravvivenza delle
specie, come ad esempio dalla scomparsa di prede.
3. IMMEDIATA, quando l’effetto si manifesta subito dopo il
contatto con la sostanza chimica.
4. RiTARDATA, quando invece intercorre un certo lasso di tempo
tra il contatto con il tossico e la comparsa dei sintomi.
5. REVERSIBILE, quando intervengono meccanismi di riparazione
che riparano il danno quando il contatto con il tossico viene a
cessare. Ad esempio l’attività dell’enzima ALAD (deidratasi
dell’acido amino delta levulinico), inibita dal piombo, torna a
livelli normali dopo un certo tempo dalla sospensione
dell’esposizione al metallo.
6. IRREVERSIBILE, quando il danno non è più riparabile.
L’induzione di mutazioni geniche determinata da numerosi
composti (PAHs tra gli altri) non è riparabile.
7. ACUTA, quando gli effetti tossici si manifestano in tempi brevi
dopo l’esposizione a livelli in genere elevati di tossico. In linea
generale determina anche la comparsa di sintomi molto gravi
ed importanti.
8. CRONICA, quando gli effetti sono ritardati rispetto alla
esposizione a livelli in genere bassi di contaminante. In linea
generale i sintomi non sono estremamente evidenti (può
anche capitare che l’esposizione non venga neanche rilevata
perché non si presentano sintomi evidenti). È la condizione
tipica di cui si occupa l’ecotossicologia.
Franks e Lieb (1982) affermano che “si deve fare attenzione, nel
comparare le potenze dei tossici, a non confondere l’effetto
osservato con la potenza a livello di sito d’azione”, intendendo
con questo che proprio perché la tossicità è ANCHE funzione della
dose (si veda la definizione di tossicità acuta e cronica) a volte
4
un tossico molto potente (che quindi a un effetto notevole al sito
d’azione), se presente a concentrazioni sufficientemente basse,
può determinare un effetto minore rispetto ad una sostanza
meno tossica ma presente a concentrazioni più elevate.
Tornando alla definizione di inquinante, possiamo dire che un
inquinante è UNA SOSTANZA CHE ECCEDE I LIVELLI DI
BACKGROUND E PUO’ ESSERE POTENZIALMENTE DANNOSA.
Ma cosa si intende per “DANNO”?
Il DANNO è un’ alterazione chimica o fisiologica che influenza
negativamente la nascita, lo sviluppo, la crescita o la percentuale
di mortalità di un individuo o di una popolazione.
BIOMONITORAGGIO
Viene definito monitoraggio la “misurazione sistematica di
variabili e processi nel tempo in relazione ad un problema
specifico” (Spellenberg, 1991).
Il BIOMONITORAGGIO utilizza organismi viventi per valutare
cambiamenti nella qualità dell’ambiente o dell’acqua. Utilizza
come indicatori gli individui, le specie, le popolazioni e le
comunità e misura parametri di tipo biologico, chimico e fisico.
Quando si valutano risposte biologiche a componenti ambientali a
livello di individuo o a livello inferiore (cellula o biochimica) si
utilizzano dei BIOMARKER, che servono per dimostrare uno
spostamento dallo stato “normale”.
Il biomarker quindi valuta le alterazioni a livello molecolare,
cellulare o di organismo.
I cambiamenti fisiologici, biochimici e istologici vengono utilizzati
come “indicatori” dell’esposizione e/o dell’effetto di un tossico.
Gli aspetti che vengono valutati sono a livello di:
 Sistema immunitario
 Componente genetica
 Tessuti
 Metabolismo
I biomarkers sono considerati MISURATORI DI EFFETTO correlabili
alla quantità di residuo rilevate negli organismi. Consentono di dare
un’interpretazione in termini biologici dei livelli i contaminanti.
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I contaminanti organici nel loro insieme possono essere definiti
XENOBIOTICI (XENO: estraneo; BIOS: organismo), perché non
rientrano nella normale biochimica dell’organismo.
L’ecotossicologia si approccia al problema “inquinamento”
considerando la reazione dell’ambiente a partire dalla molecola per
arrivare all’ecosistema.
Ecosistema
Composizione
della comunità
Cambiamenti di
popolazione
Risposta di tutto
l’organismo
Cambiamenti
fisiologici
Cambiamenti
biochimici
Inquinante
Salendo lungo lo schema, dall’inquinante all’ecosistema, diviene
sempre più difficile valutare l’effetto, per tutta una serie di motivi:
1. aumenta il tempo di risposta del livello considerato
2. aumenta la difficoltà di collegare l’effetto ad uno specifico
xenobiotico
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3. diviene sempre più importante il danno a livello ecologico (il
danno su un singolo o su pochi individui è meno rilevante a
livello ecologico della scomparsa di una specie o della sua
riduzione)
ECOTOSSICOLOGIA ACQUATICA
L’ambiente acquatico è ampio e complesso: comprende infatti
compartimenti completamente diversi e con caratteristiche uniche e
molto variabili, quali fiumi (acque dolci e correnti), laghi (acque
dolci e più ferme), estuari (acque salmastre), lagune (acque salate
e chiuse), aree costiere (acque salate e “poco profonde”) ed oceani
(acque salate profonde).
La vulnerabilità di questi ecosistemi varia ANCHE in funzione di vari
parametri:
1. le proprietà chimico-fisiche del tossico o dei suoi metaboliti:
tossici non solubili non avranno effetti sull’ambiente, non
verranno assorbiti degli organismi,ecc.
2. la concentrazione e il carico totale del tossico. Uno scarico
breve ma ad alte concentrazioni potrebbe avere effetti
maggiori o più immediati per l’ambiente di uno scarico a
concentrazioni più basse ma per un periodo più prolungato. A
livello ambientale però quest’ultimo potrebbe essere più
deleterio, perché potrebbe comportare alla fine un carico di
inquinanti per l’area considerata più elevato che non il primo
caso.
3. durata e tipo di input. Vale quanto detto per il punto 2.
4. capacità dell’ecosistema di “tamponare” il tossico. Gli oceani
ad esempio “tamponano” gli inquinanti diluendoli (grazie alle
grandi masse d’acque che li caratterizzano).
5. localizzazione dell’ecosistema rispetto alla fonte del tossico. Se
l’ecosistema considerato è vicino alla fonte gli effetti deleteri
saranno maggiori rispetto ad un ecosistema più lontano, anche
se magari questo è più sensibile.
In ambiente acquatico le relazioni che si instaurano tra componenti
fisiche, chimiche e biologiche e le capacità di adattamento della
componente biotica rendono ogni singolo ecosistema un ambiente
UNICO, il che rende estremamente difficile prevedere in modo
generale gli effetti di un tossico. Questo significa che i risultati che
si ottengono studiando un preciso ambiente non sono trasferibili ad
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un ambiente simile, ma che per anche solo un aspetto non è
uguale. I modelli revisionali (modelli matematici che permettono di
prevedere gli effetti e il comportamento di un tossico quando
questo entra in un ambiente o un organismo) vanno quindi
continuamente adattati al SINGOLO ambiente studiato.
Proprietà
Confronto con altre
sostanze
Importanza per
l’ambiente acquatico
Calore specifico
Più elevato di tutti i solidi e gli altri
liquidi tranne NH3, idrogeno liquido e
litio
Limita le fluttuazioni di
temperatura e stabilizza la
temperatura degli organismi
Calore latente di fusione
Più elevato tranne NH3
Stabilizza la temperatura al
punto di congelamento
Calore latente di
vaporizzazione
Più elevato di tutte le altre sostanze
Densità
Massima: 4°C per l’acqua pura; -1.9°C
per l’acqua di mare
Condiziona il trasferimento
della temperatura e di acqua
tra atmosfera e sistemi
Controlla laacquatici
distribuzione della
Tensione superficiale
Più elevata di ogni altro liquido tranne
Hg
Controlla la fisiologia della
cellula, i fenomeni di superficie
e la formazione di gocce
Potere di dissolvimento
Massimo
Facilita le reazioni chimiche e
il trasporto dei nutrienti e dei
metaboliti
Costante dielettrica
Massimo tranne che rispetto a H2O2
e HCN
Facilita la solubilizzazione
delle sostanze inorganiche per
ionizzazione
Trasparenza
Assorbe fortemente infrarosso e
ultravioletto a onde lunghe; scarsa
per il visibile
Consente la fotosintesi e la
fotolisi a notevole profondità
temperatura e la
stratificazione verticale
Tab. 1- Caratteristiche dell’acqua ed importanza per l’ambiente acquatico.
Le proprietà chimico-fisiche del composto, quelle chimico-fisiche e
biologiche dell’ecosistema e le fonti e l’intensità di emissione del
tossico nell’ambiente condizionano anche il destino degli xenobiotici
nell’ambiente e negli organismi (concentrazione, trasporto,
trasformazione ed eliminazione).
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Queste caratteristiche consentono anche di:
1. determinare la mobilità e la localizzazione ambientale di un
tossico, in quanto sono queste caratteristiche che
determinano DOVE lo xenobiotico si localizza nell’ambiente
2. il destino chimico e biochimico dello xenobiotico e
conseguentemente…..
3. le forme chimiche che presumibilmente verranno ritrovate
nell’ambiente (se il composto tal quale o suoi derivati e
metaboliti)
4. le quantità di queste forme chimiche.
Gli xenobiotici in acqua possono essere presenti principalmente in
tre forme.
1. dissolta
2. adsorbita alle componenti biotiche e abiotiche
3. accumulata negli organismi
Queste forme influenzano la BIODISPONIBILITA’, cioè la capacità di
una sostanza di essere assorbito e di interagire con gli organismi
viventi. Un tossico NON biodisponibile NON E’ pericoloso per gli
organismi.
Si possono definire tre tipi di disponibilità:
a. DISPONIBILITA’ AMBIENTALE. La frazione di composto
presente nell’ambiente o in parte di esso che può essere
coinvolta in un processo ed è soggetta a modificazioni
fisiche, chimiche e biologiche. Può essere anche vista
come la frazione “attiva” da un punti di vista chimico,
fisico o biologico.
b. BIODISPONIBILITA’
AMBIENTALE.
La
frazione
di
xenobiotico disponibile dal punto di vista ambientale
accumulata da un organismo. Rappresenta una misura
della capacità di un organismo di estrarre un tossico
dall’ambiente, quindi di accumularlo.
c. BIODISPONIBILITA’ TOSSICOLOGICA. La frazione della
dose (del tossico biodisponibile nell’ambiente) che
raggiunge i recettori o il sito d’azione del tossico
nell’organismo. Rappresenta la frazione di xenobiotico
assorbito che raggiunge il sito d’azione.
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La biodisponibilità tossicologica valuta la capacità del tossico di
raggiungere i siti d’azione.
RESIDENCE TIME: tempo che il tossico permane nell’ambiente
prima che i processi di trasporto lo allontanino dall’ecosistema
considerato. Coincide col tempo che lo xenobiotico ha a
disposizione per svolgere la sua azione.
HALF TIME: tempo necessario perché la concentrazione di
xenobiotico in un determinato compartimento si dimezzi.
Rappresenta una quantificazione della persistenza ambientale dello
xenobiotico.
BIODEGRADAZIONE:
insieme
delle
trasformazioni
di
uno
xenobiotico operate dai microrganismi o dagli esseri viventi
(metabolismo). Una parte della materia organica viene riutilizzata,
trasformata in altri composti, una parte è trasformata in energia e il
resto è convertito a molecole inorganiche (CO2 e O2). In genere i
prodotti della biodegradazione sono composti più polari e
idrosolubili di quelli originari e normalmente meno tossici.
Quest’ultimo aspetto NON E’ SEMPRE VERO: alcuni composti,
quanto sottoposti a metabolismo, vengono trasformati in molecole
tossiche (bioattivazione).
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PRINCIPALI TOSSICI NELL’AMBIENTE
Un tossico è tale in funzione del suo effetto, del suo uso (alcune
sostanze quando utilizzate correttamente, come i pesticidi, non
sono pericolose), dello stato fisico, di quello chimico, del suo
potenziale e del suo impatto sull’ambiente acquatico.
Nella situazione reale inoltre l’esposizione NON E’ MAI ad un solo
tossico, ma a MISCELE di inquinanti, ogni situazione ambientale è
una situazione a sé stante.
METALLI E METALLOIDI
Per METALLO PESANTE si intende un elemento con caratteristico
aspetto lucido, buon conduttore di elettricità, che si comporta nelle
reazioni chimiche da ione positivo (catione).
Un METALLOIDE è invece un elemento con caratteristiche
intermedie tra i metalli e i non metalli (As, B, Si, Ge, Sb, Te).
Metalli e metalloidi sono sostanze naturali da sempre facenti parte
della normale composizione della terra, ma che originano anche da
attività industriali ed umane in genere. Divengono inquinanti
quando queste attività ne causano un rilascio dai depositi naturali,
fenomeno particolarmente importante per Cd, Zn, Pb e Hg.
In tabella 2 sono riportati i FATTORI DI ARRICCHIMENTO
ANTROPOGENETICO (AEF) di alcuni metalli. Tale fattore è dato dal
rapporto tra immissione in ambiente legata ad attività umane (A) e
totale delle immissioni in ambiente (T). più elevato è questo
rapporto, maggiore è il contributo dato dalle attività umane
nell’inquinamento da metalli.
Dalla tabella di deduce come per metalli quali Cd, Pb, Zn e Hg tale
contributo sia estremamente importante, tanto da determinare un
AEF superiore al 60%, mentre per metalli meno “pericolosi”, quali il
Mn, tale contributo è minimo.
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Metallo
Fonte
antropogenetica
(A)
Fonte
naturale
Totale
(T)
AEF
(A/T) *100
Cadmio (Cd)
8
1
9
89%
Piombo (Pb)
300
10
310
97%
Zinco (Zn)
130
50
180
72%
Manganese
(Mn)
40
300
430
12%
Mercurio
(Hg)
100
50
150
66%
Tab. 2- Valori di AEF calcolati per vari metalli.
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I metalli si localizzano nella parte sinistra della tavola periodica; di
particolare importanza tossicologica sono Cu, Zn, Cd, Hg e Pb.
METALLO PESANTE: identifica
INQUINANTI AMBIENTALI.
elementi
che
agiscono
da
La vecchia definizione faceva riferimento alla densità dell’elemento,
che doveva essere maggiore di 5. oggi per definire un metallo come
“pesante” si considera la chimica dello stesso, in quanto vi sono
metalli non “pesanti” che però sono importanti inquinanti.
L’alluminio (densità 1.5) ad esempio non è pericoloso in condizioni
“normali”, ma se posto in acque acide diviene un potente tossico.
I metalli pesanti possono reagire con l’ossigeno, producendo
radicali ossidrilici tossici, in grado di danneggiare fortemente le
cellule animali e vegetali, oppure possono reagire con zolfo e azoto,
o avere comportamento intermedio.
In tabella 3 sono riportati i metalli essenziali e non essenziali
(vedere dopo per la loro definizione) in funzione della loro
importanza come inquinanti, classificati in funzione della loro
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affinità per l’ossigeno (classe A), per l’azoto e lo zolfo (classe B) o il
loro comportamento intermedio. La distinzione nelle tre classi è
importante per determinare la velocità di attraversamento delle
membrane cellulari e i siti di accumulo intracellulare nelle proteine
di legame, quali la metallotioneina1, e nei granuli contenenti metalli
(strutture che si formano all’interno delle cellule come forma di
deposito e sequestro dei metalli tossici, quali il Pb).
Classe A
Intermedi
Classe B
Calcio
Zinco
Cadmio
Magnesio
Piombo
Rame
Manganese
Ferro
Mercurio
Potassio
Cromo
Argento
Stronzio
Cobalto
Sodio
Nichel
Arsenico
Vanadio
Tab. 3- Classificazione dei metalli in funzione della loro affinità per ossigeno,
azoto e zolfo o per comportamenti intermedi.
Metalli e metalloidi inoltre formano legami covalenti con i gruppi
organici, originando composti lipofili e ioni, che in genere sono
estremamente tossici (in particolare i composti di Pb, Sn, Hg, As)
perché la loro lipofilia ne consente un maggior assorbimento da
parte dell’organismo, il che comporta il raggiungimento di
concentrazioni maggiori nell’organismo e l’interessamento di
numerosi siti d’azione, in genere in numero superiore a quelli
raggiunti dallo ione semplice.
Infine possono legarsi a costituenti non metallici della
macromolecole bloccandone l’attività (se enzimi).
La metallotioneina è una proteina ricca di gruppi sulfidrilici che è in grado di legare in
maniera abbastanza stabile vari metalli pesanti, tra cui Zn, Cd e Cu, sequestrandoli dal circolo
e quindi rendendoli non disponibili per l’organismo.
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I metalli NON sono biodegradabili e quindi non vanno incontro a
metabolismo. La loro detossificazione consiste nel loro sequestro
sotto forma di metallotioneine o come forme insolubili depositate in
granuli intracellulari o eliminate con le feci.
Come già accennato precedentemente i metalli possono essere
suddivisi in ESSENZIALI, NECESSARI e NON ESSENZIALI, al cui
pericolosità varia in funzione del ruolo.
I metalli ESSENZIALI (Ca, Mg, P, Na) sono metalli indispensabili per
il normale funzionamento dell’organismo, presenti a concentrazioni
in genere abbastanza elevate nei tessuti e che sono fortemente
controllati da un punto di vista dell’omeostasi. I metalli NECESSARI
(Cr, Ni) sono invece elementi che servono al normale
funzionamento
dell’organismo
ma
che
sono
richiesti
a
concentrazioni ridotte, anche perché potenzialmente tossici. Infine i
metalli NON ESSENZIALI (Pb, Cd, Hg) sono elementi che non hanno
alcun ruolo nell’organismo e che non dovrebbero essere presenti.
Ogni elemento presenta una FINESTRA DI ESSENZIALITA’ entro la
quale svolge la sua azione fisiologica (se ne ha una) ed oltre la
quale diviene tossico.
Metalli non essenziali
Metalli essenziali
Per
for
ma
nce
Nessun effetto
Car
enz
a Finestra di essenzialità
Tos
sici
tà
Tos
sic
o
Assunzione di metallo con la dieta
Fig. 1- Finestre di essenzialità per metalli essenziali e non essenziali.
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COMPOSTI INORGANICI
Non sono composti particolarmente tossici in sé, ma la loro tossicità
è funzione delle caratteristiche dell’acqua.
Tra questi si possono ricordare:
 NITRITI E NITRATI
 FOSFOATI
 COMPOSTI DEL CLORO
 AZOTO
 BORO
 AMMONIACA
 ARSENICO
 SOLFATI
Questi composti, ed in particolare i nitrati, vedono aumentare le
loro concentrazioni in ambiente acquatico, con conseguanti
fenomeni di EUTROFIZZAZIONE, cui si può associare una riduzione
dell’ossigeno in conseguenza della degradazione degli organismi
morti.
La principale fonte di nitrati è rappresentata dai fertilizzanti, mentre
per quanto riguarda i fosfati sono i fertilizzanti e i detersivi.
SOSTANZE ORGANICHE
Sono definite ORGANICHE tutte quelle
CARBONIO, ad eccezione di CO2 e CO.
molecole
contenenti
La struttura molecolare delle sostanze organiche ne influenza il
comportamento: la grandezza e la forma della molecola e la
presenza di gruppi funzionali ne modificano infatti la lipofilicità e la
tossicità.
I legami C-C o C-H rendono la molecola poco polare e quindi poco
lipofila. La presenza di gruppi funzionali quali –OH, HC=O e NO2 ne
aumenta la polarità e la reattività chimica.
Le molecole organiche di interesse tossicologico sono in genere di
origine umana, di recente comparsa nell’ambiente e quindi verso le
quali non sono ancora stati sviluppati meccanismi di difesa,
adattamento o detossificazione. Fanno eccezione i PAHs, che
originano dalla combustione di sostanze naturali e i cui livelli,
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analogamente a quanto succede con i metalli, sono aumentati a
seguito delle attività umane.
IDROCARBURI
Sono composti solo da C e H, le molecole più leggere sono di natura
gassosa. Sono caratterizzati da bassa polarità e quindi scarsa
solubilità in acqua.
Possono essere di natura ALIFATICA o AROMATICA
ALIFATICI
H H H
I I I
H-C-C-C-H
I I I
H H H
propanolo
H H
H
I I
I
H-C-C=C-C-H
I
I I
H
H H
butene
AROMATICI
benzo(a)pyrene
Gli idrocarburi alifatici possono esistere allo stato gassoso, liquido o
solido, in funzione del loro peso molecolare e del grado di
insaturazione.
Più
importanti
dal
punto
di
vista
tossicologico
ed
ECOTOSSICOLOGICO sono gli idrocarburi aromatici, che hanno una
consistenza liquida o solida e sono molto più reattivi chimicamente
e biologicamente dei non aromatici.
Petrolio e gas naturali sono le principali fonti di idrocarburi e
contengono in prevalenza molecole alifatiche, ma anche grossi
quantitativi di PAHs, che originano anche dalla combustione di
materia organica.
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Le principali fonti di inquinamento da idrocarburi sono le perdite di
petrolio e la combustione dei carburanti, fenomeni tutti di origine
ANTROPICA.
PCBS
(BIFENILI
POLICLORURATI)
E
PBBS
(BIFENILI
POLIBROMURATI)
I PCBs sono molecole stabili, scarsamente reattive, usate come
fluidi nel settore idraulico, come liquidi di raffreddamento o di
isolamento nei trasformatori e come plastificanti nelle vernici.
Ne esistono 209 congeneri originati dalla clorurazione di molecole
bifeniliche.
Cl
Cl
Cl
Cl
Cl
Cl
3,3',4,4',5,5'-hexachlorobiphenyl
Sono sostanze aromatiche, con grado variabile di clorurazione,
scarsamente idrosolubili, che si differenziano tra loro in funzione
della posizione cloro-sostituita: l’assenza di sostituzioni in posizione
orto- rende le molecole PLANARI, mentre le sostituzioni in orto- le
rendono NON PLANARI: inducono una torsione nella molecola a
causa delle interazioni tra gli atomi di cloro posti su anelli diversi.
Le principali fonti di inquinamento sono ed erano gi scarti delle
produzioni e il rilascio indiscriminato nell’ambiente dei liquidi di
raffreddamento.
I PBBs, strutturalmente analoghi ai PCBs, ma in questo caso
avviene una bromurazione, sono invece utilizzati come ritardanti di
fiamma e presentano caratteristiche simili ai PCBs.
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PCDDs
(DIBENZODIOSSINE
POLICLORURATE)
E
PCDFs
(DIBENZOFURANI POLICLORURATI)
Hanno struttura molecolare ed origine simile. Sono molecole a
struttura PLANARE originate da due anelli benzenici variamente
sostituiti con cloro. Non hanno utilizzo industriale, ma sono
sottoprodotti della sintesi di altre molecole.
C
l
O
C
l
C
C
O
l
l
2,3,7,8-tetra-chlorodibenzodioxin
(TCDD)
Cl
Cl
Cl
O
Cl
TCDF
Le diossine sono composti estremamente tossici, molto stabili, poso
solubili in acqua e limitatamente nei solventi organici, nonostante la
loro natura lipofilica.
In particolare in ambiente acquatico si ritrovano residui nei tessuti
animali, a seguito della loro stabilità ambientale.
I PCBFs sembrano invece non destare problemi dal punto di vista
ecotossicologico, ma sono ancora in fase di valutazione, paiono
infatti comparire effetti a livello ormonale.
SOLVENTI ORGANICI
Sono idrocarburi alifatici ed aromatici, alogenati e non
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DETERGENTI SINTETICI
Sono validi surfattanti e non precipitano il Ca++, per questo sono
particolarmente adatti alle acque dure. Per questo hanno sostituito i
saponi veri e propri. Possiamo ricordare tra gli altri
l’ALCHILBENZENE SOLFONATO.
Sono scarsamente biodegradabili e fortemente tossici per gli
organismi acquatici, per cui sono stati sostituiti dagli
ALCHILBENZENI SOLFONATI LINEARI (LAS), che risultano più
biodegradabili, ma restano pur sempre tossici. Il vantaggio di questi
ultimi sta proprio nel fatto che permangono per minor tempo
nell’ambiente, e quindi l’effetto tossico è temporalmente ridotto.
IDROCARBURI POLICICLICI AROMATICI
Sono sostanze di origine sia naturale che sintetica, caratterizzate da
azione mutagena, cancerogena e teratogena. Hanno forte tendenza
ad accumulare nei sedimenti e a bioconcentrare.
PESTICIDI
I pesticidi comprendono molecole di svariata natura:
 SOSTANZE ORGANICHE SEMPLICI
 MOLECOLE ORGANICHE COMPLESSE NATURALI
 MOLECOLE ORGANICHE COMPLESSE SINTETICHE
Possono inquinare l’ambiente per:
 Dispersione durante la produzione
 Dispersione durante l’applicazione
 Dilavamento dei terreni trattati
 Distribuzione volontaria per l’eliminazione di alghe, piante
acquatiche e vettori di malattie per l’uomo.
In linea generale i pesticidi sono POCO SELETTIVI (tranne qualche
eccezione) e il loro utilizzo (applicazione) varia in funzione delle
situazioni d’uso. La presenza di pesticidi è particolarmente
importante nei bacini stagnanti o a scarso ricircolo d’acqua, nei
quali la presenza costante a basse concentrazioni dei principi attivi
può determinare la comparsa di effetti subtossici.
INSETTICIDI ORGANOCLORURATI
I composti appartenenti a questa classe sono suddivisi in tre
gruppi:
 DDT e derivati
20
 CICLODIENICI (aldrin, dieldrin)
 DERIVATI DELL’ESACLOROCICLOESANO (lindano)
Cl
Cl
Cl
Cl
Cl
Cl
HCH
(lindano)
Cl
Cl
Cl
Cl
Cl
p,p' - DDT
Sono composti molto stabili, estremamente lipofilici, che agiscono
quali veleni per il sistema nervoso centrale. La loro elevata
persistenza e lipofilicità li rende composti estremamente importanti
dal punto di vista dell’ecotossicologia, a causa degli importanti
effetti a lungo termine sugli organismi e delle ripercussioni
sull’ambiente.
Sono pesticidi attualmente vietati, proprio a causa delle
ripercussioni ambientali che li caratterizzano, ma che furono
utilizzati ampiamente a partire dal 1940 e fino a tutti gli anni ’70.
Pur avendo bassa tossicità acuta, sono dotati di proprietà
estrogeno-simili che inducono fenomeni di disendocrinia.
La loro elevata persistenza ambientale (si arriva a circa una ventina
di anni per alcuni ciclodienici) e biologica porta a ritrovare ancora
oggi nei tessuti degli animali e nel LATTE UMANO residui di questi
insetticidi, che vengono tuttora rilasciati dai terreni e da sedimenti
nelle acque, da cui entrano nelle catene trofiche.
INSETTICIDI ORGANOFOSFORICI E CARBAMATI
Sono liquidi altamente lipofili, discretamente volatili, meno stabili e
persistenti degli organoclorurati.
Agiscono anch’essi da veleni del sistema nervoso centrale ed
agiscono bloccando in maniera IRREVERSIBILE (organonofosforici)
o REVERSIBILE (carbamati) l’acetilcolinesterasi, enzima preposto
all’idrolisi del neuromediatore acetilcolina, causandone un accumulo
a livello di spazio intersinaptico.
21
Ac
-
Ch
Ch
Ac
-
Ac
Sito esterasico
Sito
ionico
Ch
R
-
OP
-
R
OP
-
OP
Enzima inibito
PIRETRINE E PIRETROIDI
Le piretrine sono composti di origine naturale che originano da
Chrysantemum sp.; da questi, per sintesi, derivano i piretroidi,
caratterizzati da una maggiore stabilità rispetto alle piretrine.
In linea generale sono molecole altamente biodegradabili,
caratterizzate da scarsa persistenza ambientale, la cui permanenza
nell’ambiente può essere aumentata dal legame con i sedimenti.
Il loro meccanismo d’azione è simile a quello del DDT, e mostrano
elevata tossicità per gli invertebrati e per I PESCI, mentre sono
praticamente innocui per uccelli e mammiferi.
MISCELE
In ambiente acquatico difficilmente si ha esposizione ad un solo
tossico, più comunemente si ha a che fare con MISCELE. In queste i
vari componenti possono interagire tra loro:
1. alterando l’assorbimento reciproco o di alcuni dei componenti
2. alterando il legame alle proteine plasmatiche
3. alterando il metabolismo e l’escrezione
22
L’effetto finale può essere di vario tipo:
a) Additivo: l’effetto finale è equivalente alla somma degli
effetti dei singoli composti (1+1=2)
b) Sinergico: l’effetto finale è maggiore rispetto alla somma
degli effetti dei singoli composti (1+1=4)
c) Di potenziamento: l’effetto di uno dei componenti viene
aumentato da un secondo componente, di per sé privo di
azione (0+1=4)
d) Di antagonismo: la presenza di uno dei componenti
determina la riduzione dell’effetto di un altro (2+3=4)
L’antagonismo può essere di vario tipo:
 Funzionale
 Chimico
 Recettoriale
 Di disponibilità
In ambiente acquatico si ha prevalentemente a che fare con
tossicità di tipo additivo e sinergico, più rari sono invece i fenomeni
di antagonismo.
23
DESTINO DEI TOSSICI NELL’AMBIENTE
Le sostanze inquinanti o tossiche possono giungere nell’ambiente a
seguito di:
1. rilascio accidentale a seguito di attività umane
2. eliminazione e scarico di rifiuti
3. applicazione voluta di pesticidi
In alcuni casi è possibile che un tossico raggiunga concentrazioni
molto elevate a seguito di processi naturali come il dilavamento
delle rocce (per metalli e ioni), l’attività vulcanica e gli incendi delle
foreste (SO2, CO2, PAHs).
Fonte
Principale inquinante
Nota
Fuoriuscite da
rifiuti
Ampio range di inquinanti
inorganici ed organici da fonti
domestiche ed industriali. Sono
generalmente presenti dei
Varia in funzione dell’attività
detergenti
Fortemente variabile; funzione non solo
del tipo di rifiuto che viene trattato, ma
anche del tipo di trattamento operato
Fuoriuscite da
impianti
Dilavamento dai
terreni
Dall’aria
Scarico nel mare
Rilascio da
condutture ed
impianti petroliferi
Incidenti navali
Ampio range di inquinanti
scaricati nei terreni; pesticidi
Precipitazione con neve o
pioggia

Applicazione diretta di
biocidi

Contaminazione
accidentale con polvere o
spray
Rifiuti non trattati; radionuclidi e
inquinanti tossici scaricati in
contenitori sigillati nelle
profondità degli oceani
Idrocarburi

Idrocarburi e alcuni altri
inquinanti organici
La concentrazione degli inquinanti negli
effluenti può restare entro i limiti di
legge
Generalmente non controllato e di
difficile misurazione



Gli inquinanti possono essere
trasportati per lunghi tratti
Controllo di “nocivi” e di WEEDS
acquatici
La distribuzione aerea può
essere un problema
I problemi possono esserci quando nel
lungo periodo i contenitori possono
degenerare
A volte accidentale, a volte a seguito di
eventi bellici (es. Guerra del Golfo)
Il problema principale e più grave sono
gli incidenti che interessano le petroliere
Tab. 4- Principali fonti di inquinamento degli ambienti acquatici.
Tra le fonti di inquinamento i reflui rappresentano una fonte
importante per le acque di superficie. La qualità dei reflui dipende
dal tipo di materiale da trattare e dal tipo di trattamento effettuato.
Molti delle fonti elencate in tabella 4 sono controllate, ma vi sono
attività quali l’estrazione del petrolio che possono determinare il
rilascio diretto in mare di inquinanti, in genere di natura organica.
24
Il mare funge spesso da “discarica”, in quanto vengono scaricati in
esso, ed in particolare negli oceani, le acque reflue prodotte anche
molto lontano e i fanghi di depurazione. Questo perché il mare è un
“serbatoio” che consente una forte diluizione dei reflui. Si considera
quindi che questi non siano pericolosi, anche se può aversi
accumulo nel tempo.
Per assurdo le perdite di petrolio da incidente, sebbene molto
eclatanti, sono di minor “gravità” rispetto al normale rilascio legato
alle attività di bacino. È indubbio comunque che IL DANNO
AMBIENTALE DA INCIDENTE E’ COMUNQUE ESTREMAMENTE
GRAVE, PERCHE’ GRANDI QUANTITATIVI DI INQUINANTI SONO
RILASCIATI IN AREE RELATIVAMENTE PICCOLE, QUINDI MOLTO
CONCENTRATI.
Se gli oceani possono avere una valida capacità di diluizione e di
“tamponamento” della tossicità, nei laghi e nei mari chiusi il
problema è invece molto grande (sono bacini relativamente chiusi
in cui c’è un forte accumulo).
I
pesticidi
possono
raggiungere
l’ambiente
acquatico
deliberatamente perché utilizzati per eliminare organismi
indesiderati:
 ERBICIDI: eliminano piante acquatiche ed alghe
 INSETTICIDI: eliminano parassiti (usati in genere in
acquicoltura)
 TRIBUTILSTAGNO: antialghe per le navi. Inquinante con
forti ripercussioni ambientali.
Gli esempi visti finora sono rilasci “controllati”, voluti, in maniera
più o meno spinta, dall’uomo. Ci sono però esempi di inquinamento
“casuale” in cui gli inquinanti possono passare negli ecosistemi
acquatici anche a seguito delle precipitazioni (pioggia o neve in
particolare), della deposizione di polveri o goccioline atmosferiche o
dei fenomeni di ripartizione tra aria ed acqua.
 METALLI: dilavamento con le piogge
 PESTICIDI: l’aerosol può essere portato lontano dal punto
di applicazione
Se questi fenomeni possono aumentare o aggravare l’inquinamento
degli ecosistemi, i processi di diluizione e di degradazione riducono
la sua gravità, per cui l’effetto del tossico si vedrà maggiormente
VICINO al punto di rilascio, dove la concentrazione dello xenobiotico
è maggiore e i processi di degradazione sono meno “spinti”. Si
25
osserva poi un gradiente di tossicità (legato al gradiente di
concentrazione) fino ad arrivare ad un punto in cui la situazione
torna alla normalità.
Fig. 2- Principali movimenti dei metalli nell’ambiente.
In figura 2 viene riportato uno schema di come i metalli possono
raggiungere l’ambiente acquatico. L’emissione da parte di impianti
di depurazione, delle città, degli insediamenti industriali, delle
attività minerarie, ma anche dell’agricoltura di discrete quantità di
metalli comporta il loro spostamento, sia come elementi liberi che
come ioni legati ai sedimenti, verso gli ambienti acquatici, dove
giungono seguendo l’acqua di dilavamento. Qui i metalli vanno
incontro a fenomeni di trasformazione biologica e chimica, che ne
26
comporta da una lato l’organicazione2
adsorbimento ai sedimenti.
e
dall’altro
il
loro
I fattori che influenzano la mobilità di uno xenobiotico nell’ambiente
sono:
1. POLARITA’ E SOLUBILITA’ IN ACQUA
2. COEFFICIENTE DI RIPARTIZIONE
3. PRESSIONE DI VAPORE
4. RIPARTIZIONE TRA I VARI COMPARTIMENTI AMBIENTALI
5. STABILITA’ AMBIENTALE E NATURA PERSISTENTE DELLE
MOLECOLE
POLARITA’ E SOLUBILITA’ IN ACQUA
L’acqua è una molecola polare (vedi tabella 1) e si comporta quindi
come un buon solvente per i sali inorganici e i composti polari
organici.
Le molecole non polari organiche sono invece poco efficienti come
solventi.
I sali inorganici tendono a ionizzare e quindi sono altamente solubili
se derivano da metalli alcalini ed alcalino-terrosi. Se originano
invece da metalli pesanti non ionizzano perché formano legami
covalenti e quindi sono scarsamente se non per nulla solubili. I
composti organici, in genere poco polari, vedono aumentata la loro
solubilità se presentano nella loro molecola O e N, e quindi risultano
più solubili.
COEFFICIENTE DI RIPARTIZIONE
La ripartizione tra la componente acquosa ed organica
dell’ecosistema (compresa la componente biotica) è funzione anche
della diversa solubilità dei composti nelle due fasi.
Il rapporto tra concentrazione nella fase organica (ottanolo) e
quella acquosa è definito COEFFICIENTE DI RIPARTIZIONE (Kow).
Il valore del Kow dà un’indicazione di quanto è idrofobico un
composto: maggiore è Kow, maggiore è l’idrofobicità. Il Kow consente
quindi di predire la distribuzione nell’ambiente e negli organismi.
Per organicazione si intende la trasformazione di molecole inorganiche, in particolare appunto
dei metalli, in molecole organiche, in genere più facilmente assorbibili e più potenti (se si parla
di composti tossici) dal punto di vista tossicologico.
2
27
OTTANOLO
O
Kow piccolo
Kow grande
H2 O
Fig. 3- Coefficiente di ripartizione.
PRESSIONE DI VAPORE
Rappresenta la tendenza di un composto (liquido o solido) a
volatilizzare.
RIPARTIZIONE TRA I VARI COMPARTIMENTI AMBIENTALI
Interessa il passaggio degli xenobiotici tra aria, acqua e suolo.
Nella ripartizione tra compartimenti si instaurano degli equilibri
(analogamente a quanto succede con il Kow) che possono essere
descritti da coefficienti di ripartizione specifici.
1. COSTANTE DI HENRY: distribuzione di un tossico tra aria ed
acqua
2. FUGACITA’: tendenza di una sostanza a spostarsi da un
compartimento all’altro
Si possono anche avere situazioni particolari, quali quella
aria/solido e acqua/solido, in cui il composto può essere adsorbito
alla superficie del solido e non assorbito nella matrice.
STABILITA’ AMBIENTALE E NATURA PERSISTENTE DELLE
MOLECOLE
Le molecole che permangono più a lungo nell’ambiente e
percorrono tratti maggiori nello spazio sono quelle più stabili
chimicamente.
Le reazioni chimiche che possono modificare le molecole sono:
a. IDROLISI
b. OSSIDAZIONE
c. FOTODEGRADAZIONE
28
Esistono fattori ambientali, quali temperatura, radiazioni solari,
natura della superficie adsorbente e pH che possono modificare la
velocità di degradazione delle molecole.
Il problema è particolarmente importante per le molecole a lunga
persistenza ambientale, che possono permanere nell’ambiente ed
accumularsi negli organismi.
TRASPORTO NELL’ACQUA
Nelle acque le sostanze possono essere trasportate per lunghi tratti,
sotto forma di soluti o sospensioni (gocce o particelle).
I particolati tendono a depositare gli inquinanti adsorbiti, in genere
nelle vicinanze della fonte di emissione in quanto il loro peso li
porta a percorrere brevi tratti.
Il flusso dell’acqua e le caratteristiche chimiche e fisiche delle
molecole modificano la distanza percorsa, in particolare nei fiumi
dove più forti e turbolente sono le correnti.
Negli oceani intervengono le correnti marine, in particolare quelle
superficiali. È inoltre importante la densità dell’acqua, che se
aumenta comporta una discesa dell’acqua e dei soluti in essa
disciolti verso il fondo. Questo comporta che in realtà gli oceani non
sono poi così efficaci nel diluire gli xenobiotici: la distribuzione delle
sostanze, proprio a causa delle correnti, NON è uniforme.
In generale le acque interne presentano concentrazioni più elevate
di inquinanti.
TRASPORTO NELL’ARIA
I maggiori spostamenti degli xenobiotici avvengono in atmosfera.
In questo caso sono importanti lo stato fisico del composto e le
correnti d’aria.
I gas si muovono per trasporto di massa (legati a particelle
nell’aria, in modo analogo a quanto visto nell’acqua) o per
diffusione.
La pioggia può disciogliere i gas presenti, dando origine alle piogge
acide o “lavando” l’aria dalle polveri, che possono passare poi in
ambiente acquatico.
29
Fig. 4- Schema di trasferimento degli xenobiotici nell’atmosfera.
Gli xenobiotici si spostano nell’atmosfera seguendo le normali
correnti o compiendo dei “balzi” (fig. 4), la cui ampiezza varia in
base alla loro volatilità.
In atmosfera si possono identificare 3 fasce:
1. 0-4 km: l’aria presenta elevata turbolenza, quindi gli
xenobiotici tornano rapidamente al suolo e percorrono
distanze brevi.
2. 4-10 km: TROPOSFERA, dove esiste un forte rimescolamento
verticale che trasporta con efficienza gli xenobiotici
3. 11-35
km:
STRATOSFERA,
dove
c’è
uno
scarso
rimescolamento.
ESEMPI
METALLI PESANTI
Il loro movimento nell’ambiente dipende da:
1. LOCALIZZAZIONE
2. PERSISTENZA
3. BIOCONCENTRAZIONE E BIOACCUMULO
4. BIODISPONIBILITA’
30
LOCALIZZAZIONE
Normalmente i tossici sono tali quando superano i valori di soglia i
un determinato compartimento.
Se una sostanza viene rilasciata da una ciminiera “bassa”, lo
xenobiotico depositerà vicino alla ciminiera. Se alziamo la ciminiera,
il tossico arriverà più in alto in atmosfera e probabilmente
percorrerà un tratto più lungo, “diluendosi” nell’atmosfera.
Gli organismi possono per altro generare meccanismi che
consentono la compartimentalizzazione dei metalli in forme
insolubili, che non sono attive dal punto di vista tossicologico
PERSISTENZA
I metalli NON sono biodegradabili e non vengono degradati, ma
possono dare origine a composti di sintesi o di degradazione
particolari (MeHg).
Nell’ambiente sono caratterizzati da elevata persistenza ambientale
ed impiegano tempi molto lunghi per essere trasferiti in altri
compartimenti ambientali.
FATTORI DI BIOCONCENTRAZIONE E BIOACCUMULO
L’accumulo di alcune sostanze inorganiche è maggiore rispetto ad
altre e la capacità di bioaccumulo è rappresentata dal FATTORE DI
BIOCONCENTRAZIONE (BCF).
Conc. nell’organismo
BCF = Conc. nell’ambiente
Per i metalli l’intensità di accumulo è funzione dell’escrezione degli
stessi. Così ad esempio il cadmio ha un elevato accumulo perché è
rapidamente assorbito e lentamente escreto; gli organismi con
scheletro calcareo, esoscheletro o conchiglia accumulano elevate
quantità di piombo e stronzio, che si comportano con cinetica
analoga al calcio.
BIODISPONIBILITA’
Un composto maggiormente biodisponibile viene maggiormente
accumulato. Il MeHg ha ad esempio un BCF maggiore rispetto al
mercurio inorganico.
31
Una diminuzione del pH induce invece una maggior solubilità dei
metalli, che divengono più disponibili.
COMPOSTI ORGANICI
Il destino dei composti organici nell’ambiente è di più difficile
predizione rispetto ai metalli pesanti perché fortemente influenzato
dagli spostamenti nel suolo, nelle acque di superficie e nell’aria.
Superficie del suolo
Volatilizzazione
Canali d’aria
Prodotti
Degradazione
chimica
Acqua del suolo
Adsorbimento ai
suoli e alla m.o.
Degradazione
chimica
Prodotti
?
Dilavamento
Organismi
del suolo
Biodegradazione
Metaboliti
In generale i composti a scarsa stabilità e i composti volatili
presentano pochi problemi, a meno che non vengano trasformati in
composti tossici.
I composti liofili possono da un lato essere dissolti e distribuiti nelle
acque superficiali, ma possono anche accumulare nei sedimenti. In
questo caso non sono più biodisponibili e ne viene modificata la
disponibilità e le trasformazioni.
32
DESTINO DEI TOSSICI NELL’ORGANISMO
In campo farmaco-tossicologico la cinetica è quella disciplina
finalizzata allo studio dei processi che avvengono nell’organismo
dopo esposizione ad uno xenobiotico, descrivendone in modo
matematico l’assorbimento, la distribuzione (compreso il legame
con le proteine plasmatiche), il metabolismo ed infine l’escrezione
(Baggot, 1999; Roder, 2001).
Tali processi determinano in ultima analisi la quantità di xenobiotico
che può giungere al sito d’azione e risulta in grado di esercitare
l’attività caratteristica della sostanza. Per quanto i livelli di
xenobiotico nel sito d’azione siano anche e soprattutto funzione
della dose somministrata (per un farmaco) o del livello di
esposizione (per un tossico), i meccanismi di assorbimento,
distribuzione, metabolismo ed escrezione possono modificare
profondamente la quota che realmente raggiunge il tessuto target:
xenobiotici somministrati alla stessa dose possono quindi
presentare, a seguito di differenze nel loro comportamento cinetico
globale, differenti attività finali, in ragione di una diversità della
concentrazione raggiunta.
I singoli processi cinetici prevedono il passaggio da parte di uno
xenobiotico attraverso svariate membrane cellulari, sia a livello del
punto di applicazione della sostanza (assorbimento esterno), che
dei vari tessuti ai quali questa si distribuisce (assorbimento interno)
che, infine, degli organi preposti alla sua eliminazione.
L’attraversamento delle membrane, che costituiscono le principali
barriere al passaggio delle molecole, può avvenire sia con
meccanismi di tipo passivo che di tipo attivo, come descritto nella
sezione relativa all’assorbimento.
Nell’ambiente acquatico si creano condizioni di vita particolari: il
cibo e l’ossigeno sono infatti forniti dal mezzo nel quale sono
immersi gli organismi, che diluisce ed elimina inoltre i composti
derivanti dal metabolismo organico. Tramite le branchie, ad
esempio, avvengono gli scambi gassosi, ma anche la dialisi delle
sostanze tossiche disciolte nel sangue. Ciò comporta che
l’esposizione a uno xenobiotico risulti, in ultima analisi, più
completa e prolungata rispetto a quanto si verifica con gli organismi
terrestri, che trovano nelle vie di eliminazione un totale
allontanamento delle sostanze.
Assorbimento, fattori che modificano l’assorbimento e vie di
somministrazione
33
A seconda della loro natura le strutture che gli xenobiotici devono
attraversare rappresentano barriere più o meno efficienti al loro
assorbimento: la cute risulta infatti impermeabile a numerose
sostanze, in particolare a quelle idrosolubili, in quanto lo strato
corneo rappresenta un forte ostacolo all’assorbimento (Baggot,
1999). Al contrario, l’assorbimento a livello branchiale si dimostra
estremamente elevato, anche in funzione dell’ampia superficie che
si rende disponibile per il fenomeno.
In generale l’assorbimento (al pari di tutti gli altri processi cinetici)
prevede il passaggio delle sostanze attraverso le membrane delle
cellule che costituiscono le mucose, gli endoteli o la cute, fenomeno
che può avvenire tramite meccanismi diversi di:
1. Trasporto passivo (diffusione semplice, facilitata e filtrazione);
2. Trasporto attivo;
3. Fagocitosi e pinocitosi.
Nella diffusione semplice il passaggio delle sostanze avviene
secondo un gradiente di concentrazione e non richiede alcun
dispendio energetico. Il fenomeno non va incontro a saturazione e il
processo si arresta una volta raggiunto un equilibrio di
concentrazione. Le molecole (in genere di piccola dimensione)
subiscono l’assorbimento attraverso i pori di membrana di natura
proteica se idrosolubili o tramite lo strato lipidico se lipofile.
Molecole non ionizzate, polari, che risultano liposolubili,
attraversano più facilmente e velocemente la membrana rispetto a
composti apolari o ionizzati, idrosolubili. Variazioni nel pH fisiologico
dell’organismo nonché le stesse caratteristiche chimico-fisiche della
molecola possono modificare il grado di assorbimento della stessa,
come descritto dall’equazione di Henderson-Hasselbach (tavola 1).
La diffusione facilitata è un processo di trasporto passivo analogo
alla diffusione semplice, e come questa si realizza secondo
gradiente di concentrazione senza richiedere dispendio energetico,
ma utilizza proteine carrier in grado di facilitare il passaggio di
molecole relativamente voluminose.
Tramite la filtrazione le molecole di basso peso molecolare,
idrosolubili, polari e non, superano la membrana in funzione della
loro dimensione e del flusso di liquidi che attraversa la struttura
interessata, passando per pori di varia grandezza, con una “spinta”
proporzionale alla pressione indotta dal flusso dei fluidi. È così che a
livello delle cellule endoteliali dei capillari, ad esempio, possono
essere filtrate molecole voluminose (assorbimento interno), grazie
34
a pori relativamente “larghi” (4-8 nm), mentre attraverso le cellule
epiteliali dell’intestino e di altri tessuti (assorbimento esterno)
filtrano solo molecole piccole (<4 nm) (Baggot, 1999).
La pinocitosi e la fagocitosi, infine, sono processi tramite i quali
grosse particelle alimentari o gocce d’acqua vengono internalizzate
dalla cellula, per essere poi sottoposte a digestione endocellulare.
Sono processi che interessano in particolare i molluschi filtratori, i
quali dopo aver filtrato con le branchie la materia sospesa
nell’acqua, internalizzano la sostanza organica nelle cellule
dell’apparato gastroenterico tramite processi di fagocitosi (Cesari e
Pellizzato, 1990).
35
Tav. 1- Equazione di Henderson-Hasselbach (Baggot, 1999; Roder,
2001)
L’equazione descrive la relazione esistente tra il pH, le proprietà
chimico-fisiche dello xenobiotico e la sua ionizzazione, parametri
che vengono ad influenzare l’assorbimento.
L’equazione, in particolare, mette in relazione il pKa o il pKb (valore
di pH a cui un acido debole [pKa] o una base debole [pKb] sono
ionizzati al 50%) e il pH e permette di calcolare la percentuale di
ionizzazione di uno xenobiotico.
ACIDI DEBOLI
pH - pKa = log[non ionizzato]
[ionizzato]
% ionizzazione =
100
.
1 + antilog (pKa-pH)
BASI DEBOLI
pH - pKb = log
[ionizzato]
.
[non ionizzato]
% ionizzazione =
100
.
1 + antilog (pH-pKb)
Poiché la maggior parte degli xenobiotici è rappresentata da acidi e
basi deboli, caratterizzati da valori di pKa compresi fra 3 e 11, solo
una certa percentuale dello xenobiotico si troverà in forma
ionizzata. Tale percentuale varia in funzione della maggiore o
minore vicinanza tra i valori di pH e di pKa: nel caso di un acido (e
viceversa per una base), tanto più il pH è vicino al lato acido del
pKa, tanto maggiore sarà la frazione non ionizzata, e viceversa.
Es.
Si vuole conoscere la % di ionizzazione di uno xenobiotico con pKa
4.3, presente in un ambiente gastrico a pH 1.4.
36
% ionizzazione =
=
100
. =
1 + antilog (pKa-pH)
100
. =
1 + antilog (4.3-1.4)
100
. = 100
. = 100 = 0.13
1 + antilog 2.9
1 + 794
795
Lo xenobiotico sarà quindi ben assorbito.
Numerosi sono i fattori, legati alla sostanza in sé (fattori intrinseci),
all’organismo e all’ambiente (fattori estrinseci), che possono
modificare la quantità di xenobiotico assorbita.
Fattori intrinseci
Fra questi è possibile innanzitutto annoverare solubilità della
molecola: sostanze somministrate in soluzione sono più facilmente
assorbite rispetto ad altre fornite in sospensione o allo stato solido.
La solubilità è funzione delle dimensioni delle particelle: tanto
maggiori sono le dimensioni, tanto minore è la rapidità con la quale
può passare in soluzione. Ne è un esempio l’assorbimento dell’acido
oxolinico nel pagello rosso, che risulta superiore per preparazioni
ultrafini rispetto a quanto si verifica con le preparazioni più
grossolane (Endo et al., 1987).
La lipofilia e il grado di ionizzazione delle molecole rappresentano
altri fattori degni di importanza in quanto le molecole lipofile
possono più facilmente attraversare passivamente le membrane,
quando invece il grado di ionizzazione porta a considerare
l’equazione di Henderson-Hasselbach, poiché gli xenobiotici
idrosolubili sono principalmente costituiti da acidi e basi deboli.
La presenza di sostanze in grado di dar luogo a complessi insolubili
con lo xenobiotico può rendersi responsabile di una riduzione del
loro assorbimento; al proposito valgono come esempio le
tetracicline il cui assorbimento negli organismi viventi può risultare
notevolmente ridotto in presenza di cationi bivalenti, quali ad
esempio il Ca2+, suscettibili di formare chelati insolubili, come
rilevato anche nel pesce gatto da Plakas et al. (1988).
Un decremento nella quantità di xenobiotico assunta può altresì
derivare dalle caratteristiche organolettiche del composto, che può
portare ad una diminuita palatabilità del cibo in cui è incorporato
con conseguente decremento della sua assunzione (Ingebrigtsen,
1991).
Fattori estrinseci
Nel condizionare l’assunzione di uno xenobiotico pari importanza
rivestono i fattori legati all’organismo, primo fra i quali la
37
funzionalità gastroenterica; al proposito va segnalato come
condizioni patologiche a carico dell’apparato gastroenterico possano
ridurre la quota di principio attivo assorbito, con conseguente
negativa influenza sull’esito di trattamenti farmacologici (profilattici
e terapeutici) degli animali.
Parimenti stati patologici sistemici possono operare decrementi a
carico dell’assorbimento di farmaci incorporati nell’alimento, in
ragione di una riduzione del consumo alimentare da parte
dell’animale.
Al pari di quanto avviene nei mammiferi anche nelle specie ittiche
l’assorbimento
degli
xenobiotici
interessa
prevalentemente
l’intestino piuttosto che lo stomaco, a causa dell’elevata capacità
assorbente di questo tratto dell’apparato gastroenterico.
Sulla velocità dell’assorbimento gastroenterico un ruolo importante
sembra svolgere anche la rapidità di svuotamento dello stomaco,
dal momento che il fenomeno in linea di massima appare
direttamente proporzionale alla rapidità di passaggio dello
xenobiotico dallo stomaco all’intestino.
A questo proposito vanno comunque ricordati anche gli studi
effettuati nella trota arcobaleno, nella quale un lento svuotamento
gastrico fa sì che la quota principale di una base debole venga
assorbita a livello dello stomaco, fenomeno questo che viene
sostanzialmente attribuito al pH del contenuto gastrico, suscettibile
di variazioni in funzione della grandezza del bolo alimentare, con
conseguenti variazioni nel grado di ionizzazione delle molecole e nel
loro assorbimento (Windell e Norris, 1969; Dauble e Curtis, 1990).
Va da ultimo sottolineato come anche nelle specie ittiche, al pari di
quanto si realizza per i mammiferi, differenze anatomiche e
funzionali del tratto alimentare possono condizionare notevoli
variazioni interspecifiche nei livelli di assorbimento di farmaci e
tossici.
Tra i fattori legati all’ambiente particolare rilevanza rivestono il pH,
la forza ionica, l’ossigenazione e la temperatura dell’acqua, che
vengono in vario modo ad influenzare la disponibilità degli
xenobiotici.
In particolare il pH può modificare il grado di ionizzazione delle
molecole, con conseguente variazione del loro assorbimento a
livello branchiale, quando invece un aumento della forza ionica
rende, in genere, meno disponibili gli xenobiotici all’assorbimento,
in quanto opera in decremento della quantità di acqua e quindi di
38
sostanze disciolte che vengono assorbite (Bergsjö e Bergsjö, 1978;
O’Grady et al., 1988).
Al contrario una bassa tensione di ossigeno può aumentare la
quantità di xenobiotico assorbita, dal momento che per mantenere i
livelli ottimali di ossigenazione l’animale deve far scorrere sulle
branchie una quantità maggiore di acqua, che ne favorisce
l’assorbimento.
Per quanto concerne la temperatura, infine, questa sembra essere
correlata positivamente alla velocità di assorbimento degli
xenobiotici: osservazioni condotte al proposito nella trota
arcobaleno delineano come un aumento di temperatura esiti, dopo
somministrazione di ossitetraciclina, in un conseguimento dei picchi
ematici in tempi più brevi rispetto a quanto di realizza con
temperature inferiori. Ancorché gli esatti meccanismi del fenomeno
siano tuttora ignoti, viene ipotizzato un intervento degli effetti che
la temperatura esplica sulla motilità gastrica e/o sul flusso
sanguigno, nonché sulla fluidità e sulla composizione della mucosa
gastrica, con il risultato di facilitare i processi di assorbimento
(Björklund e Bylund, 1990).
Gli organismi acquatici possono entrare in contatto con gli
xenobiotici attraverso varie vie, suddivisibili in sistemiche e topiche.
Le vie sistemiche consentono la distribuzione della sostanza a tutto
l’organismo e vengono a loro volta distinte in via gastroenterica e
vie parenterali. La prima comprende tutto il canale digerente ed è
associata in genere all’assunzione per os delle sostanze, quando
invece quelle parenterali prevedono trattamenti sia “invasivi”, che
comportano
l’introduzione
dello
xenobiotico
nell’organismo
mediante iniezione (endovenosa, intramuscolare, sottocutanea,
intraperitoneale) nonché quella inalatoria (negli organismi terrestri)
o branchiale (negli organismi acquatici).
Le vie topiche vengono utilizzate quando si vogliono ottenere dallo
xenobiotico effetti locali, anche se non va escluso un certo grado
variabile di assorbimento, che in linea di massima dipende dal tipo
di
formulazione
farmaceutica
impiegata
oltre
che
dalle
caratteristiche del farmaco stesso. Nel settore dell’acquacultura in
particolare una certa importanza riveste tra queste la via dermica.
In ambiente acquatico le principali vie di esposizione a uno
xenobiotico sono rappresentate dalla via orale, dalla quella dermica
e da quella branchiale.
La via orale utilizza la somministrazione delle sostanze
principalmente tramite il cibo e l’acqua, che viene continuamente
39
ingerita dagli organismi acquatici sia per bere che per respirare,
quando viene sospinta contro le branchie. Nel tratto gastroenterico
le macromolecole vengono assorbite a livello gastrico e trasportate
nel flusso sanguigno con meccanismi trans- e para- cellulari o trans
giunzionali, mentre le microparticelle e i soluti possono essere
forzati ad attraversare gli enterociti (a seguito della frizione causata
dalla peristalsi o dell’azione ritmica della circolazione) per giungere
direttamente alla lamina propria (McLean et al., 1999).
Le branchie rappresentano forse la principale via di assorbimento,
in conseguenza dell’importante ruolo che questi organi svolgono per
la fisiologia degli organismi acquatici, in ragione del notevole
quantitativo di acqua che le attraversa per consentire la
respirazione; tramite queste strutture si realizzano infatti gli scambi
gassosi, ma anche l’equilibrio acido-base, quello elettrolitico,
nonché l’eliminazione dei prodotti azotati.
I fattori che maggiormente influenzano l’assorbimento branchiale
sono il coefficiente di ripartizione della molecola e il suo peso
molecolare, e a questo proposito va sottolineato come sono stati
rispettivamente identificati in 6.5 e 600 i valori limite superiori oltre
i quali non sembra realizzarsi assorbimento degli xenobiotici (Zitko
e Hutzinger, 1976; Könemann e van Leeuwen, 1980). Il limite
relativo al coefficiente di ripartizione è legato al fatto che da un lato
le sostanze chimiche, per essere assorbite, devono attraversare un
certo numero di barriere lipofile ed idrofile e solo per quelle con il
migliore rapporto lipofilia/idrofilia il fenomeno si realizza in maniera
ottimale: una molecola con un’elevata lipofilia, ad esempio, può
essere “intrappolata” dalla porzione lipidica di una membrana e non
passare nella frazione idrofila costituita dal citoplasma.
Parimenti, per quanto concerne il secondo aspetto, va sottolineato
come uno xenobiotico ad elevato peso molecolare diffonda
lentamente attraverso le membrane per il suo maggior ingombro
sterico (Penniston et al., 1969; McFarland, 1970; Hansch e Calyton,
1973; Saito et al., 1990)
L’assorbimento per via cutanea interessa sostanze disciolte
nell’acqua e liposolubili, per cui risultano in grado di venire a
contatto con l’animale e successivamente di attraversare lo strato
superficiale dell’epidermide. Nell’ambiente acquatico questo aspetto
riveste minor importanza rispetto all’assorbimento branchiale, che
presenta proprietà assorbenti decisamente superiori.
Meno rilevanti e legate fondamentalmente alla somministrazioni di
farmaci, sono le vie parenterali, quali quella endovenosa,
40
intramuscolare o intraperitoneale, in quanto necessitano di una
manipolazione degli organismi al di fuori dell’ambiente acquatico
che può causare stress agli animali, cui si associa, se il trattamento
è prolungato, anche uno stato di anossia. Sono quindi vie utilizzate
solo qualora non esistano altre vie di somministrazione utilizzabili o
quando siano pochi i pesci colpiti, in particolare di elevato valore
economico o in soggetti da acquario.
La via endovenosa prevede l’iniezione del farmaco direttamente nel
circolo sanguigno e di conseguenza consente la massima
disponibilità dello xenobiotico che evita completamente tutta la fase
dell’assorbimento esterno e può svolgere rapidamente l’azione
desiderata. Tale via consente inoltre la somministrazione di
sostanze con proprietà irritanti o caustiche in rapporto alla elevata
resistenza degli endoteli vasali, della diluizione che il composto
subisce nel torrente circolatorio e all’intervento dei poteri tampone
del sangue. Nonostante questi indubbi vantaggi esistono, al di là
delle limitazioni operative citate precedentemente, limiti oggettivi
all’uso della via endovenosa: lo xenobiotico non deve infatti trovarsi
in soluzione oleosa, costituire una emulsione o una sospensione, né
tanto meno sviluppare composti gassosi, poiché si può avere la
comparsa di trombi o di emboli.
In questi casi è possibile far ricorso alla via intramuscolare, che in
ragione dell’elevata vascolarizzazione del muscolo consente un
buon passaggio in circolo delle sostanze, anche se ovviamente
questo si realizza in maniera non così altrettanto rapida di quella
endovenosa. Nell’impiego di questa via risulta importante evitare di
perforare
un
vaso,
operazione
che
trasformerebbe
la
somministrazione intramuscolare in una endovenosa e considerare
inoltre l’impossibilità di somministrazione di sostanze irritanti o
caustiche. Va infine segnalato come la velocità di distribuzione dal
sito di iniezione possa essere molto ridotta, in particolare alle basse
temperature (Kleinow et al., 1998).
Da ultimo, con la somministrazione intraperitoneale si intende
iniettare il farmaco nella cavità peritoneale del pesce (ma non nei
crostacei), ma tale via può essere utilizzata solo per sostanze
dotate di buona solubilità e in grado di fornire soluzioni a pH assai
prossimo alla neutralità. Fra le difficoltà che si incontrano nelle
somministrazioni intraperitoneali vanno ricordate la presenza di
scaglie più o meno sviluppate e l’esiguità del tessuto dermico e
muscolare, che può causare un reflusso del farmaco lungo il punto
di iniezione (Kleinow et al., 1998).
41
Distribuzione e biodisponibilità
Con il termine distribuzione si intendono i movimenti di uno
xenobiotico all’interno dell’organismo lungo il torrente circolatorio
ed il loro passaggio nei vari tessuti, fenomeno che determina il
raggiungimento di un equilibrio dinamico fra sangue e tessuti.
In linea generale in sede ematica lo xenobiotico può essere
presente in forma libera o legata in varia misura alle proteine
plasmatiche; solo la porzione libera responsabile dell’attività della
sostanza può abbandonare il torrente circolatorio e distribuirsi nei
tessuti per esercitare la sua azione caratteristica. Per questo motivo
la frazione libera viene definita biodisponibile, intendendo con il
termine di biodisponibilità la quantità e la velocità con cui uno
xenobiotico perviene tal quale nella circolazione sistemica. La
biodisponibilità viene ridotta da un passaggio che lo xenobiotico
subisce attraverso il fegato che fa seguito all’assorbimento per via
orale (metabolismo di primo passaggio), dal legame contratto con
le proteine plasmatiche, e dai processi metabolici ed escretivi a
livello renale che fanno seguito all’assorbimento per via branchiale
(Ingebrigtsen, 1991).
Per numerosi xenobiotici le specie acquatiche presentano una
biodisponibilità che in linea di massima risulta inferiore a quella
riscontrabile nei mammiferi, anche se in alcuni casi è possibile
rilevare valori analoghi (ormetoprim nella trota arcobaleno, acido
benzoico nel pesce gatto) o addirittura superiori (bacitracina nella
trota arcobaleno) (Guarino et al., 1988; Höy et al., 1989; Droy et
al., 1990; Plakas e James, 1990).
La distribuzione ai tessuti di uno xenobiotico ai tessuti è un
processo costantemente dinamico, in quanto ad una prima fase di
rapida diffusione in quei tessuti caratterizzati da un maggior flusso
ematico, una maggior permeabilità e una discreta affinità per il
composto segue una riditribuzione, più lenta a distretti
caratterizzati da minor perfusione ma maggior affinità. Qualora lo
xenobiotico si accumula in maniera elettiva in un organo dove può
esercitare la sua azione, si parla di organotropismo, mentre si fa
riferimento a fenomeni di deposito se il composto rimane inerte in
un determinato tessuto.
Numerosi sono i fattori che influenzano questi processi, che, come
nel caso dell’assorbimento, appaiono condizionati dalle proprietà del
composto in sé, da quelle dell’organismo e dall’ambiente esterno.
In primo luogo e al pari di quanto visto per l’assorbimento, anche la
distribuzione di uno xenobiotico ne prevede una diffusione passiva
42
attraverso le membrane lipidiche, per cui il valore del pKa
rappresenta un importante fattore per la penetrazione e la
persistenza della molecola in quel tessuto.
Anche la via di assorbimento può modificare la localizzazione
iniziale di uno xenobiotico nell’organismo; una sua assunzione per
via orale ne determina infatti un accumulo preferenziale nel fegato,
al quale afferisce il sangue venoso portale, quando invece un
assorbimento branchiale esita in una presenza in elevate quantità
della sostanza nel rene, a cui perviene una notevole parte del
sangue arterioso. Ciò è testimoniato anche dal fatto che gli enzimi
metabolici renali vengono indotti prima di quelli epatici a seguito di
esposizione a certi composti tramite l’acqua (Truscott et al., 1983;
Pritchard e Renfro, 1984; Ingebrigtsen, 1991).
A seguito del legame che uno xenobiotico può contrarre con le
proteine plasmatiche questo perde la capacità di attraversare le
pareti dei capillari e quindi di diffondere nei tessuti, in ragione del
voluminoso complesso che si forma tra macromolecola proteica e
macromolecola famacologica: tale aliquota di xenobiotico è pertanto
destinata a rimanere nel flusso ematico, senza dar luogo ad un suo
passaggio nei tessuti.
La quantità di xenobiotico legata alle proteine e la forza di questo
legame possono quindi modificare notevolmente la biodisponibilità
delle molecole: tanto maggiore risulta il numero di siti molecolari
disponibili per il legame e tanto più energici si dimostrano i legami
che si instaurano, tanto meno disponibile risulta lo xenobiotico. A
questo proposito va segnalato come lo stato di salute e quello
nutrizionale degli animali possano modificare la composizione
proteica del sangue con conseguenti variazioni della quota libera
che può per altro risultare aumentata rispetto alla norma nel caso
di una presenza organica di altre molecole a maggiore affinità per le
proteine plasmatiche e quindi suscettibili di spiazzare da queste lo
xenobiotico.
Fra le proteine plasmatiche l’albumina risulta la più interessata al
legame con gli xenobiotici in ragione di una sua presenza
quantitativamente superiore rispetto alle altre frazioni proteiche e
di una aspecificità di legame verso molecole diverse. Al contrario fra
le globuline esistono frazioni più specifiche e pertanto in grado di
legare solo determinati composti. Ne sono esempio la
ceruloplasmina per il rame e la sideroplasmina per il ferro. Anche la
presenza di molecole che competono per il legame con le proteine,
influire sul legame plasmatico con le proteine (Ingebrigtsen, 1991).
43
Nel sangue tra quota libera e quota legata esiste un equilibrio
dinamico che dipende dall’affinità di legame tra proteine e
xenobiotico e si dimostra in grado di mantenere costante il rapporto
tra le due frazioni, indipendentemente dalla concentrazione ematica
totale dello xenobiotico.
Come accennato in precedenza, la ridistribuzione degli xenobiotici
comporta concentrazioni tessutali condizionate dall’affinità dei vari
tessuti per la molecola. In particolare qualora il tessuto a più alta
affinità non corrisponda al tessuto target, è possibile rilevare in
questo un tasso inferiore in ragione dell’azione di sequestro
esercitata dal distretto a più elevata affinità, dove comunque lo
xenobiotico può risultare del tutto inattivo o, al contrario, esercitare
effetti tossici da ritenersi indesiderati, che esulano dall’azione
fondamentale della sostanza (Ingebrigtsen, 1991).
Tra i fattori che condizionano l’affinità di un tessuto per un
determinato xenobiotico si possono annoverare il pH e il contenuto
lipidico del distretto considerato, ma anche la presenza di possibili
siti di legame, in grado di influire notevolmente sulla penetrazione e
la persistenza di un composto e/o dei suoi metaboliti e ciò può
comportare un reperimento della molecola in particolari tessuti,
come nel caso dell’ossitetraciclina, che permane nel tessuto osseo,
della bacitracina, delle sulfodiazine e del trimetoprim, che si
rendono reperibili nei tessuti ad elevato contenuto di melanina
(Odense e Logan, 1974; Bergsjö et al., 1979; Ingebrigtsen et al.,
1985; Höy et al., 1989; Ingebrigtsen et al., 1990).
La presenza di uno strato adiposo può determinare in esso un
accumulo di xenobiotici lipofili, con conseguente riduzione sia
dell’attività che della tossicità della molecola. Al proposito va
sottolineato come dimagramenti improvvisi, stati di anoressia o
fenomeni lipolitici che spesso si associano negli animali ai periodi
riproduttivi possono rendersi responsabili di una mobilizzazione del
composto da tali tessuti di deposito che nel caso di sostanze
tossiche, quali ad esempio i composti organoclorurati, può
determinare la comparsa di una sintomatologia definita “pseudo
acuta”.
Le notevoli differenze esistenti fra le varie specie animali rende
impossibile un’estrapolazione dei dati relativi al comportamento
cinetico di una molecola ad una specie all’altra, che può essere
oggetto di notevoli variazioni, come rilevato a carico della
biodisponibilità dei PCBs nel merluzzo e nella trota (Ingebrigtsen et
al., 1990; Ingebrigtsen, 1991).
44
Un ultimo aspetto in grado di influire indirettamente sulla
distribuzione di uno xenobiotico è la temperatura dell’ambiente
esterno, che nel caso delle specie ittiche, quali soggetti eterotermi,
presenta rilevante importanza nel modificare la fluidità e la
composizione delle membrane, con conseguente variazione delle
capacità diffusive delle molecole e quindi influire sull’assorbimento,
il metabolismo e l’escrezione di uno xenobiotico.
Metabolismo
Il metabolismo è un processo tramite il quale uno xenobiotico viene
trasformato chimicamente per produrre prodotti di degradazione
che per le loro caratteristiche chimico-fisiche sono più facilmente
eliminabili in quanto di solito risultano meno lipofili e più polari, con
conseguente minor affinità per i tessuti dell’organismo.
I processi che portano alla formazione di composti maggiormente
idrosolubili vengono generalmente suddivisi in due categorie:
reazioni di fase I e reazioni di fase II.
Tali reazioni si verificano principalmente a livello epatico, dove sono
presenti numerosi sistemi enzimatici, per quanto anche altri organi
(branchie, mucosa intestinale, reni) risultino caratterizzati da
un’elevata capacità metabolica. A questo proposito va ricordato
come la frazione di xenobiotico assorbita tramite le branchie vada
incontro, ad esempio, ad un notevole abbattimento in sede renale,
dove afferisce il sangue arterioso, ad opera di enzimi
specificamente deputati ad un’attività degradativa (Ingebrigtsen,
1991).
Le reazioni di fase I comprendono processi di ossidazione, idrolisi e
riduzione dei composti, che comportano l’inserimento o la
liberazione di gruppi -OH, -SH, -NH2 o –COOH, a loro volta sede di
attuazione delle reazioni di fase II, di tipo coniugativo.
Ancorché le reazioni di fase I trasformino in genere gli xenobiotici in
metaboliti meno attivi, con conseguente riduzione dell’efficacia
farmacologia o della tossicità (deattivazione/detossificazione), non
va ignorato come l’attività metabolica dell’organismo possa esitare
in un’attivazione del composto stesso (attivazione/tossificazione).
Ne sono esempi il prontosil rosso, dal quale origina la sulfanilamide,
il parathion, che per un processo di desolforilazione ossidativa viene
trasformato nella vera molecola responsabile dell’attività insetticida
(paroxon), o il fluoroacetato di sodio e la fluoracetamide che
esplicano la loro tossicità dopo trasformazione in fluorocitrato.
Le reazioni di ossidazione sono catalizzate da enzimi, le ossidasi a
funzione mista (MFO), che per la loro attività necessitano di NADPH
45
ed ossigeno. Il NADPH riduce un costituente microsomiale, l’enzima
ossidante P450, che in tale forma reagisce con l’ossigeno molecolare
per formare un intermedio ossidato altamente reattivo, che
interagisce con lo xenobiotico per generare un substrato idrossilato,
il P450 ossidato ed acqua.
L’ossidazione interessa gruppi chimici diversi, tra i quali vanno
annoverati:
Composti aromatici;
Composti alifatici;
Gruppi alchilici legati ad ossigeno o azoto;
Gruppi amminici;
Atomi di zolfo (desulfurazioni e sulfossidazioni)
Le riduzioni si realizzano a livello microsomiale ed interessano
reazioni di:
Nitroriduzione. Queste portano alla riduzione dei nitrocomposti con
formazioni delle rispettive amine e sono ad esempio responsabili
dell’inattivazione del cloramfenicolo. Sono reazioni che si realizzano
in condizioni di anaerobiosi e coinvolgono quali coenzimi il NADPH e
il FAD.
Azoriduzione. Queste operano una demolizione riduttiva degli
azocomposti in amine. Ne è un esempio il loro intervento sul
prontosil rosso che dà luogo a sulfanilamide.
Dealogenazione riduttiva.
Le reazioni di idrolisi sono particolarmente importanti per il
metabolismo di xenobiotici caratterizzati da legami esterei (-COO) o
amidici (-CONH). In linea di massima la rottura dei primi avviene
più velocemente rispetto a quella dei secondi, ed è operata da
enzimi presenti nel sangue, nel rene e nel fegato.
A seguito delle reazioni di fase I, il composto può andare incontro
alle reazioni di fase II o di coniugazione, che determinano la
formazione di metaboliti finali altamente idrofili e quindi facilmente
eliminabili.
Le coniugazioni si realizzano con composti endogeni, quali l’acido
glicuronico, la glicina, la cisteina, la metionina, i radicali solfato e
acetico, la taurina, i glucosidi, e prevede la presenza di un
nucleotide che attiva il coniugante o lo xenobiotico e di un enzima
ad azione transferasica. Le reazioni sopra descritte sono state tutte
riscontrate, con la sola eccezione della coniugazione degli acidi
46
carbossilici con la glicina, sostituita dalla taurina, nelle specie
acquatiche (tab. 1), anche se non uniformemente diffuse, così che
alcune di queste mancano ad esempio nei pesci, altre nei crostacei
(Roubal et al., 1977; Allen et al., 1979; James et al., 1979; James,
1980; Layiwola e Linnecar, 1981; Gmur e Varanasi, 1982;
Andersson et al., 1983; Layiwola et al., 1983; Ramage e Nimmo,
1983; Dierickx, 1985; Förlin e Andersson, 1985; Andersson e
Koivusaari, 1986; Guarino, 1986).
47
Tab. 5 –Reazioni di biotrasformazione individuate nei pesci e nei crostacei
(Kleinow et al., 1998)
Fase I
Odealchilazione
Ndealchilazione
Ossidazione
Fase II
Specie
Fathead
minnow,
trota
arcobaleno
Carpa, spiny lobster, lobster
Mudsucker, sculpin, coho
salmon, trota arcobaleno,
carpa, mosquito fish, spiny
lobster, blue crab
Idrolisi
Pesce gatto, bluegill, trota
arcobaleno,
pinfish,
blu
crab, mosquito fish
Idratazione
Sogliola, sheepshead, spiny
lobster, blu crab
Acetilazione
Coniugazione
glutatione
Coniugazione
taurina
Solfoconiugazione
Squalo, trota
pesce gatto
arcobaleno,
con Carpa
con Sogliola, pesce gatto, trota
Pesce rosso, lobster
Glicuronoconiugazione Trota arcobaleno, pesce
rosso
Glucosideconiugazione Spiny lobster, lobster
In particolare, la glicuronazione prevede l’attivazione dell’acido
glicuronico (intermedio del metabolismo glucidico, GA) da parte
dell’UDP, per formare UDPGA, e viene catalizzata da enzimi
citosolici epatici. Una volta attivato l’acido glicuronico è oggetto di
trasferimento sullo xenobiotico ad opera della glicuronil-transferasi.
I complessi che ne derivano vengono escreti a livello renale o
biliare, ma in quest’ultimo caso possono subire un nuovo processodi
idrolisi ad opera di - glicuronidasi intestinali, così da essere
48
nuovamente riassorbiti come parent- compound, dando origine a
quello che viene comunemente definito un circolo entero-epatico.
Tale reazione pare essere completamente assente nei crostacei, che
non presentano attività UDP-glicuronil-transferasica, e nei quali la
glicuronazione viene sostituita da processi di coniugazione con
glucosio, operati dell’enzima UDP-glucosil-transferasi (James, 1989;
Schell e James, 1989).
La
solfoconiugazione
è
particolarmente
interessata
nella
biotrasformazione di fenoli ed alcoli alifatici. La reazione, che
avviene a livello citosolico, coinvolge quale donatore di solfati la 3’fosfoadenosina-5’-fosfosolfato (PAPS) e quale transferasi la
solfotransferasi. Il gruppo SO3- del PAPS reagisce velocemente con
lo xenobiotico, liberando ADP; il processo è saturabile trova
limitazione nella disponibilità di cisteina, che risulta essere il
principale donatore di zolfo, ed è assente nella trota arcobaleno
(Glickman et al., 1977; Parker et al., 1981; Andersson et al.,
1983).
La reazione di acetilazione si svolge in due fasi: nella prima si
forma l’acetilcoenzima A, nella seconda l’amino-gruppo presente sul
composto si lega all’enzima acetilato, con formazione di una
molecola altamente solubile; questa in particolare non sembra
essere una via metabolica di rilevante importanza per i crostacei,
nei quali si è riscontrata la formazione di piccoli quantitativi di
derivati acetilati (James e Barron, 1988)
Il tipo e l’importanza dei processi metabolici che interessano uno
xenobiotico risultano strettamente dipendenti dalla struttura
chimica del composto e dalla sua affinità per il sistema enzimatico
(Ingebrigtsen, 1991).
Parimenti le attività metaboliche di un organismo risultano
condizionate in primo luogo dalla specie del soggetto considerato e
secondariamente dal suo stato nutrizionale, di salute e dal suo
sesso.
Per quanto studi condotti nei mammiferi dimostrino che stati
carenziali di vitamine, minerali o proteine risultino in grado di
indurre alterazioni importanti nell’efficienza delle reazioni
metaboliche, piuttosto esigui risultano i dati relativi ad effetti
analoghi nelle specie acquatiche, e consistono in rilievi effettuati in
merito a variazioni delle reazioni enzimatiche sia fase I che di fase
II a seguito di leggere modificazioni della dieta degli animali
utilizzati nelle indagini sperimentali (Ankley e Reinert, 1988).
49
La presenza di stati patologici, in particolare a carico del fegato e
del rene, può deprimere l’attività metabolica, dal momento che
questi organi rappresentano sedi elettive dei processi di
trasformazione; al proposito va ricordato come la necrosi epatica
che consegue all’anemia infettiva del salmone comporti, ad
esempio, una notevole riduzione dell’attività di alcuni sistemi
enzimatici epatici (Ingebrigtsen, 1991).
Differenze nelle capacità metaboliche appaiono correlate anche al
sesso dei soggetti appartenenti a numerose specie ittiche,
soprattutto per quanto concerne l’attività degli enzimi di fase I nel
periodo della riproduzione (Stegeman e Chevion, 1980; Koivusaari
et al., 1981; Andresson, 1990). Parimenti va altresì ricordato un
certo effetto inibitore esplicato dagli ormoni sessuali sui fenomeni di
induzione enzimatica che conseguono l’esposizione a particolari
induttori (Vodicnik e Lech, 1983).
La temperatura dell’ambiente esterno può modulare in maniera più
o meno marcata i processi metabolici che avvengono in specie
pochiloterme quali sono i pesci.
In linea di massima è dato osservare come la massima attività degli
enzimi di fase I si esplichi per temperature generalmente inferiori a
quelle delineate per lo stesso fenomeno nei mammiferi
(Gurumurthy e Mannering, 1985).
Gli organismi ad habitat nei climi temperati sono in genere soggetti
a
maggiori
fluttuazioni
della
temperatura
esterna
e,
conseguentemente, di quella interna; in queste specie si è assistito
allo sviluppo di meccanismi adattativi in grado di modulare l’attività
enzimatica di fase I, con la finalità di mantenere velocità costanti di
reazione indipendentemente dalla temperatura ambientale esterna.
A titolo esemplificativo va ricordato come gli enzimi di fase I della
trota presentino una la stessa velocità di reazione in esemplari
acclimatati alla temperatura di 5°C o di 20°C (Stegeman, 1979;
Koivusaari, 1983; Kleinow et al., 1987).
Al contrario non sembrano viceversa esistere meccanismi
compensatori per quanto riguarda gli enzimi di fase II (Koivussari,
1983; Andersson e Koivussari, 1985).
Con il termine di induzione enzimatica si intende l’aumento QUANTITATIVO, e non
qualitativo, di determinati sistemi ad attività metabolica che consegue
all’esposizione ad un determinato xenobiotico. Gli induttori vengono in genere
suddivisi in due categorie, quelli tipo Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA) e quelli
tipo Fenobarbitale (FB), che si dimostrano in grado di esplicare la loro attività su
differenti sistemi enzimatici spesso oggetto però di sovrapposizione o di integrazione
lungo le vie metaboliche (Ingebrigtsen, 1991).

50
Anche il fenomeno dell’induzione enzimatica sembra risentire della
temperatura ambientale, poiché ad un decremento di questa è
possibile assistere ad un aumento del tempo necessario
all’instaurarsi del processo (Stegeman, 1979; Andersson e
Koivusaari, 1985).
La presenza di induttori enzimatici nell’ambiente di vita degli
organismi acquatici può ovviamente modificarne il metabolismo non
solo nei confronti degli xenobiotici, ma anche di composti endogeni
in grado di impegnare gli stessi sistemi enzimatici. Al proposito va
comunque ricordato il mancato riscontro nelle specie acquatiche di
induttori di tipo FB, quando invece piuttosto accentuata risulta
l’induzione di tipo IPA, sia che investa enzimi di fase I che di fase II
(Andersson et al., 1985; Kleinow et al., 1987; Stegeman e KlopperSams, 1987).
A fronte di una marcata influenza sui processi metabolici esercitata
nei mammiferi dagli agenti stressanti, nei pesci non esistono al
momento attuale evidenti dimostrazioni al proposito (Ingebrigtsen,
1991).
Escrezione
Sia come molecola inalterata che come prodotto di degradazione
metabolica gli xenobiotici assunti da un organismo vanno incontro a
fenomeni escretivi, che ne determinano un allontanamento
definitivo. Nei mammiferi la principale via d’escrezione è
rappresentata dal rene e tramite l’urina vengono allontanate
molecole di piccole dimensioni e fortemente idrosolubili come
risultato di processi che investono la filtrazione glomerulare, la
secrezione e il riassorbimento tubulare. Accanto a questa va
ricordato anche l’allontanamento con la bile che si realizza per
composti con peso molecolare superiore a 325. Relativamente alle
specie ittiche una via di escrezione molto importante è
rappresentata da quella branchiale, che comporta una diffusione
passiva dal flusso sanguigno all’acqua (Ingebrigtsen, 1991).
I meccanismi coinvolti nei processi escretivi sono analoghi a quelli
descritti per l’assorbimento, ma si realizzano ovviamente in
direzione inversa a questa in quanto comportano un passaggio dei
composti da eliminare dall’interno verso l’esterno dell’organismo.
Le proprietà fisico-chimiche del composto possono interferire sui
processi escretivi in maniera diretta: la stessa struttura chimica
della molecola può modificare la capacità di utilizzare i meccanismi
attivi di trasporto di fegato e rene.
51
La filtrazione glomerulare dipende dalla grandezza delle molecole,
mentre il riassorbimento tubulare passivo è influenzato dal valore
del pKa, che regola il grado della sua ionizzazione nella cosiddetta
urina primaria. Quest’ultimo parametro condiziona altresì
l’escrezione a livello branchiale. Infine, il complesso delle proprietà
fisico-chimiche del composto, influendo sulla sua distribuzione e sul
suo metabolismo, agisce indirettamente sull’entità della rapidità
dell’eliminazione (Ingebrigtsen, 1991).
La contemporanea presenza nell’organismo di composti che
utilizzano gli stessi meccanismi di escrezione epatica e/o renale può
modificare l’eliminazione di uno xenobiotico. Ne è un esempio
l’eliminazione attraverso il rene della penicillina o del
benzo(a)pirene, che viene inibita dal probenecid, in grado di
impegnare competitivamente l’efficienza del sistema di trasporto
ionico a livello dei tubuli renali (Pritchard e Bend, 1984).
L’eventuale presenza di patologie a carico degli organi preposti al
metabolismo e/o all’escrezione può ridurre la velocità e l’intensità
dell’eliminazione degli xenobiotici, per un’alterazione della
funzionalità dei sistemi interessati; analogamente uno stato di
denutrizione che riduca le riserve energetiche dell’organismo può
diminuire l’efficienza dei sistemi di trasporto attivo che
presuppongono una richiesta energetica (Ingebrigtsen, 1991).
Un forte legame con le proteine plasmatiche impedisce, per
ingombro sterico, la filtrazione glomerulare e quindi l’escrezione;
una rapida eliminazione tramite l’urina viene quindi favorita da un
debole legame con le proteine plasmatiche, come dimostrato
dall’escrezione dell’acido benzoico nel pesce gatto (Plakas e James,
1990).
L’instaurarsi di circoli collaterali, ed in particolare di quello
enteroepatico, che interessa i glicurono-complessi, può ritardare
l’allontanamento degli xenobiotici dall’organismo, in quanto può
favorire un riassorbimento intestinale del parent compound
(Layiwola et al., 1983).
Notevoli variazioni nell’escrezione degli xenobiotici possono derivare
anche da una diversità di specie, a seguito di differenze degli
aspetti biochimici e fisiologici che le caratterizzano. Ancorché nei
mammiferi sia nota l’influenza esplicata dal pH urinario
sull’escrezione degli xenobiotici, analoghi rilievi non sono al
momento disponibili per quanto concerne le specie ittiche, ma
stante l’analogia tra mammiferi e pesci per quanto riguarda i
meccanismi di base responsabili dell’eliminazione urinaria, è
52
possibile ipotizzare che anche in questi ultimi il pH delle urine possa
interferire sull’allontanamento dei farmaci (Ingebrigtsen, 1991).
I principali parametri ambientali che possono modificare
l’escrezione degli xenobiotici sono rappresentati dalla salinità
dell’acqua e dalla sua temperatura. L’elevata produzione di urina da
parte dei pesci d’acqua dolce, legata ad una minor salinità
dell’acqua e quindi ad un suo maggior assorbimento per osmosi,
gioca un ruolo favorevole per quanto concerne l’eliminazione degli
xenobiotici rispetto alle specie marine, nelle quali la produzione di
urina è pressochè nulla (Schmidt-Nielsen, 1983).
Parimenti è stata rilevata una certa dipendenza dell’escrezione degli
xenobiotici dalla temperatura dell’acqua, che non solo modula il
metabolismo, favorendo la produzione di composti più facilmente
eliminabili, ma agisce anche sui meccanismi di escrezione attiva,
interferendo con i processi enzimatici preposti alla produzione di
ATP (Björlund e Bylund, 1990; Ingebrigtsen, 1991).
Parametri farmacocinetici
Curva di disponibilità
La curva che descrive l’andamento delle concentrazioni ematiche di
uno xenobiotico in funzione del tempo è definita come curva di
disponibilità.
A seguito di somministrazione intravenosa la curva presenta un
andamento bifasico che rappresenta inizialmente i processi di
rimescolamento nel torrente circolatorio e di distribuzione dello
xenobiotico, in grado di determinare una brusca flessione non
attribuibile
comunque
a
fenomeni
di
eliminazione.
Successivamente, una volta raggiunto uno pseudo equilibrio di
distribuzione, la pendenza della curva diminuisce notevolmente e il
decremento delle concentrazioni ematiche è quasi esclusivamente
funzione dei processi di eliminazione, intesi come metabolismo ed
escrezione (Baggot, 1999). La stessa curva è per altro divisibile in
porzioni quasi rettilinee, che consentono di estrapolare al tempo 0 il
valore (in unità di concentrazione ed indicato con la lettera A) della
fase di distribuzione e di quella di eliminazione (indicata con B).
Rappresentando rispettivamente con -/2.303 e con -/2.303 le
pendenze delle rette (equivalenti alla velocità di distribuzione e di
eliminazione), è possibile esprimere matematicamente l’equazione
della curva di disponibilità, che consente di calcolare la
concentrazione di xenobiotico nel sangue (Cp) al momento t:
2.303 = base del logaritmo naturale;  = costante di velocità della fase di distribuzione;  =
costante di velocità della fase di eliminazione.

53
Cp= Ae-t + Be-t
Ponendo t=0 è possibile calcolare la concentrazione plasmatica
iniziale dello xenobiotico (C°p), che corrisponde ad A + B.
Tempo di dimezzamento (t1/2)
Per tempo di dimezzamento o emivita di uno xenobiotico si intende
il tempo necessario affinché venga eliminata metà della sostanza
somministrata ed è espresso matematicamente dalla seguente
formula:
t1/2= 0.693/
Affinché lo xenobiotico abbia una breve emivita, è necessaria che
sia eliminato velocemente, cioè che  abbia un valore elevato.
Graficamente è possibile stimare il valore di t1/2 riportando su scala
semilogaritmica l’andamento della concentrazione plasmatica dello
xenobiotico (scala logaritmica) in funzione del tempo (scala
lineare). Il valore di emivita viene calcolato misurando sul grafico il
tempo necessario affinché la concentrazione plasmatica si dimezzi
(Baggot, 1999).
Il tempo di emivita viene sperimentalmente definito valutando la
concentrazione plasmatica di uno xenobiotico a seguito di iniezione
endovenosa, che consente di ottenere immediatamente la massima
concentrazione al tempo 0 di indagine.
La conoscenza del valore di t1/2 è particolarmente importante in
campo farmacologico, in quanto questo parametro può condizionare
la durata dell’effetto di un farmaco e può consentire di valutarne gli
intervalli di somministrazione al fine di mantenerne l’efficacia
terapeutica (Baggot, 1999).
Tutti quei fattori che possono modificare la funzionalità epatica o
renale, siano essi fisiologici o patologici, variano l’emivita degli
xenobiotici. Tra questi si possono annoverare il ridotto sviluppo dei
sistemi enzimatici e della funzionalità renale nei soggetti giovani, le
interazioni con i meccanismi di trasporto dipendenti da carrier, lo
spiazzamento dal legame con le proteine plasmatiche e i fenomeni
di induzione, nonché le differenze interspecifiche, legate alla diversa
fisiologia: il pH dell’urina (variabile da specie a specie) può ad
esempio modificare l’escrezione dello xenobiotico, aumentandone o
riducendone l’emivita.
54
Volume apparente di distribuzione (Vd(area))
Il volume apparente di distribuzione descrive il grado di
distribuzione di uno xenobiotico e serve ad indicare una costante di
proporzionalità fra concentrazione plasmatica e quantità totale di
sostanza presente nell’organismo in ogni momento successivo al
raggiungimento di un equilibrio di pseudo distribuzione (Baggot,
1999).
Il volume di distribuzione (Vd(area), espresso in ml/kg) viene anche
definito come il volume di liquido necessario a contenere la quantità
totale di xenobiotico presente nell’organismo, ipotizzando una sua
distribuzione uniforme ad una concentrazione equivalente a quella
plasmatica ed è espresso matematicamente dalle seguenti formule,
tra loro alternative:
Vd(area)= dose/AUC()
dove AUC = misura dell’area totale sotto la
concentrazioni in funzione del tempo, da t=0 a t=.
curva
delle
Vd(area)= AB(t)/Cp
dove AB(t) = quantità totale di farmaco al tempo t e Cp =
concentrazione plasmatica.
Il volume di distribuzione, pur fornendo una stima dell’entità della
distribuzione di uno xenobiotico, non può discriminare tra
distribuzione omogenea e selettiva dello stesso; per avere un
quadro più preciso della distribuzione reale della sostanza si rende
quindi necessario conoscere non solo Vd, ma anche le
caratteristiche chimico-fisiche della stessa: una sostanza lipofila
avrà ad esempio un volume di distribuzione maggiore in un animale
grasso, nel quale il tessuto adiposo sequestra dal circolo parte della
quantità presente, rispetto ad uno magro.
Conoscere il volume di distribuzione consente, dal punto di vista
terapeutico, di calcolare la dose da somministrare ad un soggetto al
fine di ottenere una certa concentrazione plasmatica:
dose = Cp(terapeutica) x Vd(area)
Clearance
Con il termine di clearance (ClB) si intende il volume di plasma
ripulito da tutto lo xenobiotico nell’unità di tempo (espresso in
ml/min per kg); tale valore può essere calcolato dividendo la dose
55
di xenobiotico disponibile per l’area sotto la curva di concentrazione
plasmatica nel tempo:
ClB= dose/AUC= Vd(area)= (0.693/t1/2) Vd(area)
Dalla formula precedente appare evidente come la clearance e il
valore di t1/2 non siano assolutamente equivalenti; due xenobiotici
caratterizzati dallo stesso valore di ClB possono infatti presentare
Vd(area) diversi (a causa di differenti caratteristiche chimico-fisiche,
ad esempio) e quindi presentare valori di emivita diversi: a parità di
clerance, tanto minore è il volume di distribuzione tanto più breve è
l’emivita (Baggot, 1999).
56
BIOMARKERS
Col termine di BIOMARKER si intende “qualunque risposta biologica
ad un composto chimico a livello di organismo od inferiore che
dimostra uno spostamento dallo stato normale” (Walker et al.,
2001).
I biomarkers prendono quindi in considerazione variazioni a livello
biochimico, fisiologico, istologico, morfologico e comportamentale.
Le variazioni a livello superiore (popolazione, comunità ed
ecosistema) sono invece considerate come BIOINDICATORI, perché
non evidenziano variazioni fisiologiche, ma “indicano” uno
spostamento dal normale a livello organizzativo elevato, senza
collegarlo (se non in rari casi) a tossici precisi: è come se dicessero
“c’è un’alterazione, ma non so dirvi il colpevole”.
Questo perché man mano che aumenta il livello di complessità
(dalla biochimica agli ecosistemi), pur aumentando l’importanza dal
punto di vista ecologico (per l’ambiente la perdita di un individuo è
meno “importante” rispetto alla perdita di una specie o
all’alterazione di un ecosistema), diviene sempre meno facile
collegare l’alterazione ad un preciso composto e viceversa (fig. 5)
Alta specificità
Test
biochimici
Bassa
importanza
ecologica
Fisiologia
dell’organismo
Alta importanza
ecologica
Cambiamenti nelle
popolazioni
Cambiamenti nelle
comunità
Bassa specificità
Fig. 5- Rapporto tra complessità organizzativa del sistema valutato e
specificità del biomarker.
57
Per ogni livello di organizzazione esistono biomarkers che
identificano e quantificano l’effetto degli inquinanti. Alcuni esempi di
questi biomarkers sono riportati in tab. 6. La diossina (TCDD)
interagisce ad esempio a livello recettoriale con il recettore acrilico
(Ah) per gli estrogeni, al pari del nonilfenolo. A livello biochimico
molti composti inducono le monoossigenasi e numerosi composti ad
azione estrogenica inducono la sintesi di vitellogenina (VTG),
proteina dell’uovo tipica delle specie ovipare. L’assottigliamento
dello spessore del guscio indotto dagli organoclorurati è utilizzato
come biomarker a livello fisiologico. Le alterazioni comportamentali
e della crescita sono infine indice di effetti a livello di individuo.
Livello di organizzazione
Esempio di biomarker
Legame al recettore
TCDD col recettore Ah
Nonilfenolo col recettore
degli estrogeni
Risposta biochimica
Induzione delle
monoossigenasi
Formazione di vitellogenina
Alterazioni fisiologiche
Assottigliamento del guscio
Femminizzazione degli
embrioni
Effetti sull’individuo
Cambiamenti comportamentali
Modificazioni della crescita
Tab. 6- Biomarkers ai diversi livelli di organizzazione.
I biomarkers vengono classificati in:
 BIOMARKERS DI ESPOSIZIONE, che indicano l’esposizione
dell’organismo ad uno xenobiotico, senza dare indicazione del
possibile effetto nocivo;
 BIOMARKERS DI EFFETTO, che oltre a dimostrare l’esposizione
al contaminante ne valuta l’effetto avverso.
58
L’organismo è in grado di reagire all’esposizione a xenobiotici in
modo diverso in funzione dell’intensità di esposizione (fig. 6): per
esposizioni a livelli bassi l’organismo riesce a mantenere l’omeostasi
e la sua normale funzionalità. Quando l’esposizione aumenta
intervengono meccanismi di compensazione che riportano a livelli
quasi normali le funzionalità organiche, ma per fare questo è
sottoposto a stress. A livelli ancora superiori si manifesta il danno,
che può essere reversibile (inibizione di alcuni enzimi) o
irreversibile (induzione di mutazioni geniche).
St
at
o
di
sal
ut
e
Ma
lat
tia
No
n
cu
ra
bil
e
r
Cu
ra
bil
e
Stressato
c
h
Reversibile
Sano
Omeostasi
Irreversibile
Compensazione
Morte
Non-compensazione
h: l’organismo inizia ad essere stressato
c: l’organismo non riesce più a compensare
r: i cambiamenti sono irreversibili
Fig. 6- Risposta dell’organismo all’esposizione a xenobiotici.
59
I biomarkers possono essere altamente specifici (la deidratasi
dell’acido delta aminolevunico- ALAD- è inibita solo dal piombo) o
non esserlo per nulla (il sistema immunitario è inibito da numerosi
composti). In tab. 7 sono riportati i biomarkers in ordine
DECRESCENTE di specificità; a prescindere dalla loro specificità,
tutti i biomarkers hanno un valore nello stimare il rischio da
xenobiotici. La valutazione dell’attività della ALAD nel sangue degli
anatidi consente di stabilire con certezza il pericolo per i soggetti
studiati, ma non fornisce informazioni sull’eventuale esposizione ad
altri inquinanti.
Recenti
studi
hanno
invece
evidenziato
che
l’inibizione
dell’acetilcolinesterasi, da sempre ritenuta marcatore specifico
dell’esposizione ad insetticidi organofosforici e carbamati, viene
indotta anche da alcuni detergenti e metalli.
Le monoossigenasi sono enzimi indotti da numerosi xenobiotici e
possono quindi essere considerate marcatori di esposizione
estremamente validi e sensibili, ma sicuramente NON SPECIFICI,
per cui possono essere utilizzati come “prescreening”, cui devono
seguire indagini più specifiche.
Biomarker
Inquinante
Inibizione della ALAD
Piombo
Induzione di metallotioneina
Cadmio
Assottigliamento del guscio
DDT, DDE, Dicofol
Inibizione della AChE
OPs, carbamati
Inibizione della coagulazione
Rodenticidi
Induzione delle monoossigenasi
OCs, PAHs
Profilo delle porfirine
OCs
Profilo del retinolo
OCs
Addotti al DNA e all’emoglobina
PAHs
Induzione di vitellogenina
Sostanze estrogeniche
Enzimi sierici
Metalli, OCs, PAHs
Proteine dello stress
Metalli, OCs
Risposta immune
Metalli, OCs, PAHs
Tab. 7- Biomarkers in ordine decrescente di SPECIFICITA’ per lo xenobiotico.
60
Tramite i biomarkers è possibile mettere in relazione l’intensità del
cambiamento della risposta biologica misurata con il danno che
essa causa, in modo da poter successivamente valutare il costo di
eventuali interventi di riparazione dei danni stessi (SPECIFICITA’).
In tab. 8 sono riportati gli stessi biomarkers di tab. 7, ma elencati
in ordine DECRESCENTE di specificità. In questo caso
l’assottigliamento del guscio delle uova è facilmente quantificabile e
collegabile al rischio per le popolazioni: una riduzione superiore al
16-18% è infatti associata ad un declino nelle popolazioni.
Biomarker
Livello di organizzazione
Assottigliamento del guscio
Animale intatto-popolazione
Inibizione AChE
Organo-animale intatto
Inibizione ALAD
Organo-animale intatto
Inibizione coagulazione
Animale intatto-popolazione
Inibizione della coagulazione
Organo-animale intatto
Induzione delle monoossigenasi
Organi-popolazione
Depressione del retinolo e della
tirosina plasmatici
Integrità del DNA
Organo
Risposta immune
Organo
Addotti al DNA e all’emoglobina
Organo
Altri enzimi
Organo
Profilo delle porfirine
Organo
Induzione della vitellogenina
Organo-animale intatto
Induzione delle metallotioneine
Organo
Proteine dello stress
Organo
Organo
Tab. 8- Biomarkers in ordine decrescente di SPECIFICITA’ per l’effetto.
Nonostante non sempre la risposta di un biomarker sia collegabile
ad un effetto nocivo, quel biomarker mantiene la sua validità, in
quanto innanzitutto identifica un’esposizione sufficiente a
61
determinare un effetto e poi perché una sua alterazione può essere
una valida indicazione della necessità di ulteriori indagini, che
consentano di identificare e quantificare con più precisione l’effetto.
ESEMPI DI BIOMARKERS
ESTERASI
Viene valutata l’attività dell’acetilcolinesterasi, che rappresenta il
sito d’azione degli organofosforici e dei carbamati e il cui grado di
inibizione è correlabile all’effetto del tossico.
Sebbene sia in linea teorica più corretto quantificare il tossico, si
preferisce utilizzare la valutazione dell’inibizione enzimatica perché
questa è meno problematica della ricerca degli organofosforici.
Inoltre l’attività enzimatica è un parametro più stabile, sebbene
possa essere ripristinata dopo la morte dell’animale (per distacco
dell’insetticida
dall’enzima),
rispetto
alla
presenza
di
organofosforici, che vanno incontro a metabolismo e degradazione
più velocemente e sono quindi meno affidabili come markers.
MONOOSSIGENASI
Il sistema delle monoossigenasi si compone di due enzimi:
 Citocromo
 Flavoproteina (NADPH-citocromo riduttasi)
Sono state identificate 750nisoforme di monoossigenasi, che sono
state suddivise in 74 famiglie diverse di geni.
Esistono due diversi tipi di citocromo P450, quelli di classe I e quelli
di classe II, che governano reazioni diverse.
P450 CLASSE I
 Reazioni di N-e S- ossidazione
 Etossiresorufin- O- deetilasi (EROD)
 Benzo(a)pirene idrossilasi (BaPH)
 Aril-idrocarburi idrossilasi (AAH)
P450 CLASSE II
 Idrossilazioni aromatiche
 Idrossilazioni acicliche
 Dealchilazioni
 Deaminazioni
62
Questi gruppi di enzimi sono indotti da numerosi composti, tra cui
pesticidi organoclorurati, PCBs, PCDFs e le diossine, ma anche
organofosforici, piretrine e PAHs.
I primi studi condotti nei pesci relativi alle MFOs risalgono agli anni
’70 e riguardavano l’utilizzo dei pesci marini quali monitor di
inquinamento da petrolio. Successivamente si valutò l’induzione
delle AAH in pesci che vivevano vicino ai reflui della città di Los
Angeles o della EROD da parte di reflui di cartiera. In quest’ultimo
caso l’induzione enzimatica si è rivelato un marker estremamente
sensibile per questo tipo di inquinamento.
Il sistema delle MFOs è estremamente sensibile e quindi consente
di evidenziare livelli di inquinamento anche molto bassi, ma NON E’
SPECIFICO, non consente quindi di individuare la CAUSA
dell’induzione.
L’estrema variabilità dell’attività enzimatica, anche basale (legata a
fattori genetici, di temperatura e di alimentazione) impone il
reperimento di un campione molto alto, in modo da poter
correggere (statisticamente) la variabilità stessa; bisogna poi porre
grande attenzione nella scelta di quelli che sono i valori basali,
anche in considerazione del fatto che anche sostanze naturali (e
non) possono determinare induzione di questi enzimi.
MATERIALE GENETICO
In questo caso vengono valutate le modificazioni indotte dagli
xenobiotici a livello di materiale genetico (effetti genotossici).tali
modificazioni sono a vario livello, ance in funzione dello stadio di
avanzamento del processo neoplastico.
FORMAZIONE DI ADDOTTI
Gli addotti sono complessi che lo xenobiotico (o suoi metaboliti)
forma con il materiale genetico, cui si lega. La formazione di questi
complessi altera la duplicazione del materiale genetico, che può
quindi essere modificato.
MODIFICAZIONE SECONDARIA DEL DNA
In questa fase si possono osservare modificazioni strutturali come
la rottura dei filamenti o un aumento della frequenza di riparazione,
che indicano una alterazione del DNA.
FISSAZIONE DELLE MODIFICAZIONI
63
Se le modificazioni strutturali citate precedentemente vengono
fissate si raggiunge il terzo stadio della progressione neoplastica. A
questo stadio si manifesta una funzionalità alterata delle cellule
interessate.
FORMAZIONE DI DNA MUTANTE
Questo processo si attua quando la cellula va incontro a divisione,
che “fissa” definitivamente l’alterazione e la trasmette alle cellule
figlie; inoltre viene definitivamente fissata anche l’alterazione nella
funzionalità dei geni.
I sistemi utilizzati per la ricerca degli addotti (markers precoci di
danno) sono:
 Marcatura radioattiva (valuta il grado di legami covalenti)
 Utilizzo di tecniche specifiche che identificano un addotto su
108 nucleotidi (valuta i legami specifici ad un particolare
composto)
 PCR, che amplificando il DNA consente di individuare con più
facilità gli effetti genotossici
Altri



sistemi utilizzabili sono:
La rottura dei cromosomi
Lo scambio di cromatidi fratelli
L’aumento dell’ìncidenza di tumori (facilmente valutabile nei
pesci perchè presentano tumori esterni)
PORFIRINE E SINTESI DELL’EME
Le porfirine sono prodotti della biosintesi dell’eme, i cui livelli sono
alterati
dall’esposizione
a
organoclorurati
e
sono
inibiti
dall’esposizione al piombo.
64
Succinil Co-A + glicina
Delta
aminolevulinato
sintetasi
Acido  aminolevulinico
Delta
aminolevulinato
deidrasi
PORFOBILINOGENO
Pb-stimolazione
Pb-inibizione
UROPORFIRINOGENO
III
Urogenasi
COPROPORFIRINOGENO III
Pb-inibizione
Eme-sintetasi
PROTOPORFIRINA IX
Pb-inibizione
Coprogenasi
Ferro
EME
EMOGLOBINA
Globina
Schema dell’azione del piombo sulla sintesi dell’eme.
65
Gli organoclorurati agiscono con meccanismo non noto, che
probabilmente coinvolge il blocco della UROPORFIRINOGENO
DECARBOSSILASI. Si ritiene che anche i PCBs abbiano un effetto
analogo
Il piombo agisce inibendo specificatamente la ALAD, che risulta un
marker altamente specifico. Inoltre il marker è dose-dipendente e
specifico per un singolo xenobiotico e NON PREVEDE LA
SOPPRESSIONE DELL’ANIMALE (marker NON DISTRUTTIVO).
INDUZIONE DI VITELLOGENINA (VTG)
La vitellogenina è una proteina dell’uovo SPECIFICA DELLE
FEMMINE in condizioni naturali. Esistono però molecole che possono
interferire con i recettori per gli estrogeni (presenti anche nei
maschi), inducendo in varie specie animali la sintesi da parte di
individui di sesso maschile di VTG. La presenta di questa proteina in
soggetti maschi è quindi un valido marker per effetti di
disendocrinia, relazionabile alla dose, ma non alla specifica
sostanza chimica.
66
RISK ASSESSMENT
Il RISK ASSESSMENT si interessa della valutazione e della
caratterizzazione della probabilità che si manifestino effetti nocivi
per l’ambiente a seguito di attività umane.
Per la valutazione del rischio ecologico richiede:
1. Chiari scopi (bisogna sapere esattamente cosa si vuole
vedere)
2. Metodi probabilistici (devono essere disponibili metodi
statistici che permettano di descrivere quanto definito)
3. Procedure ed ipotesi chiare
4. Attenzione sui metodi quantitativi e sui risultati
Esiste uno schema procedurale che descrive la sequenza logica che
porta alla definizione del rischio, come illustrato nella figura
seguente.
Identificazione del
rischio
Definizione
dell’esposizione
Definizione
dell’effetto
Caratterizzazione del
rischio
Classificazione del rischio
Analisi costi/benefici
Riduzione del rischio
Monitoraggio
67
Nella prima fase del risk assessment, che porta alla
CARATTERIZZAZIONE DEL RISCHIO, vengono definiti due
parametri, il PEC (Predicted Environmental Concentration) e il PNEC
(Predicted No Effect Concentration).
Valutazione dei dati
Set di dati
Valutazione del rischio
Valutazione dell’esposizione
Dati di tossicità
nelle
singole specie
Livello di
emissione
Estrapolazione
Distribuzione
PNEC
PEC
Caratterizzazione del rischio
PEC/PNEC
Viene valutata l’esposizione definendo i livelli di emissione, da cui si
ricava, conoscendo la distribuzione ambientale dello xenobiotico, il
PEC.
68
Nella valutazione del rischio si parte dai dati di tossicità nelle
singole specie per ottenere, per estrapolazione, il PNEC (riferito
all’ambiente o all’uomo).
Nella valutazione del rischiosi devono innanzitutto considerare i dati
disponibili, per comprendere se lo xenobiotico è o meno pericoloso.
Fattore di valutazione della pericolosità è il rapporto PEC/PNEC, che
deve essere <1 per poter dire che il composto NON E’
PERICOLOSO: se il rapporto è inferiore a 1 la concentrazione
ambientale (PEC) è inferiore ai valori tossici (PNEC) definiti tramite
gli studi di tossicità.
Se invece il rapporto è >1 la concentrazione ambientale è superiore
ai valori tossici, ed è quindi presumibile che vi sia un rischio per
l’ambiente e/o l’uomo. Si rendono allora necessari ulteriori studi per
definire meglio la pericolosità della sostanza e rivalutarne il
rapporto PEC/PNEC.
Dati
aggiuntivi
Dati di
base
Valutazione dei rischio
Risultati
di base
PEC/PNEC
<1
No
Dati
migliorati
Valutazione dei rischio
Risultati
Livello X
Report di
fase I
Sì
Ricerche
aggiuntive
No
Sì
PEC/PNEC
<1
No
I dati
migliori?
Sì
STOP
FASE 1
Gestione
del rischio
FASE 2
69
IDENTIFICAZIONE DELL’EFFETTO (PNEC)
Gli effetti avversi vengono valutati sulla base dei risultati di studi
ecotossicologici svolti in ambiente acquatico, terrestre e nel
compartimento aereo, su una valutazione del potenziale di
bioaccumulo, del passaggio dello xenobiotico lungo la catena trofica
e gli effetti sul sistema ecologico.
Va poi valutato anche il rapporto dose-effetto, che deve definire la
concentrazione di sostanza al di sotto della quale non si attendono
effetti avversi nel compartimento ambientale in esame.
Da tutto questo si ricava il PNEC, definito come il LIVELLO PER IL
QUALE
NON
SI
OSSERVANO
EFFETTI
NELL’ECOSISTEMA
CONSIDERATO.
Se sono disponibili più di 4 PNEC ricavati dagli studi descritti
precedentemente si può valutare direttamente lo PNEC per
l’ambiente; se sono disponibili meno di 4 PNEC si applicano fattori
di correzione (o sicurezza) ai dati disponibili, pari a 10 se sono
disponibili 3 NOEC (No Observed Effect Concentration), 100 per 1-2
NOEC, 1000 per 3 LC50 (Dose Letale 50), e si sceglie il valore
corretto più basso per la valutazione del PNEC, mentre viene
scartato un set di dati che si basa su 1-2 LC50.
70
PIU’ DI
4 PNEC
MENO DI 4 PNEC
3 NOEC
1-2 NOEC
3 LC50
10
100
1000
1-2 LC50
1000
Il più basso
PNEC ecosistema
71
IDENTIFICAZIONE DELL’ESPOSIZIONE
Vengono determinate le emissioni, le vie e la velocità di movimento
della sostanza e la sua trasformazione/i per stimare la
concentrazione a cui può essere esposto il compartimento
ambientale. Dai dati disponibili si ricavano la PEC e la PED
(Predicted Exposure Dose).
PRODOTTI
Prodotti per
il consumatore
Emissioni
Distribuzione
nell’ambiente
Alimenti
per l’uomo
Concentrazioni di esposizione
CARATTERIZZAZIONE DEL RISCHIO
Per caratterizzare il rischio viene calcolato il rapporto PEC/PNEC,
considerando valori di PEC e PNEC di varia natura:
 Ambiente acquatico
 Ambiente terrestre
 Avvelenamento secondario
 Esposizione umana indiretta
Sulla base del rapporto PEC/PNEC il prodotto viene ritenuto
“sicuro”, altrimenti viene rivalutato ed eventualmente sottoposto a
GESTIONE DEL RISCHIO.
Il rischio è per definizione il prodotto di un pericolo per
un’esposizione; se c’è pericolo ma non c’è esposizione non c’è
conseguentemente rischio e altrettanto vale per il contrario (a).
Nella gestione del rischio si mettono in atto azioni correttive volte a
ridurre il rischio, cercando di ridurre il pericolo (b) o l’esposizione
(c).
72
PERICOLO x ESPOSIZIONE
a)
+
= RISCHIO
=
AZIONE CORRETTIVA
b)
+
=
c)
+
=
73
La gestione del rischio comporta una serie di passaggi che non
hanno più solo a che fare con gli aspetti scientifici ed
ecotossicologici: la gestione del rischio è una”scienza” anche
POLITICA ED ECONOMICA.
Classificazione del rischio
Analisi costi/benefici
Riduzione del rischio
Monitoraggio
Perla riduzione del rischio si identifica quale punto del ciclo vitale
della sostanza produce il rischio di cui ci si occupa; si identificano
poi le opzioni che permettono di ridurre il rischio, si identificano i
mezzi che consentono di attuare queste soluzioni; si scelgono i
mezzi più appropriati in funzione della loro efficienza, praticità,
impatto economico e possibilità di monitoraggio, cioè della
possibilità di verificare la riuscita dei sistemi messi in atto.
Se tra le misure identificare sono previste restrizioni all’uso o alla
vendita vanno valutati i vantaggi e gli svantaggi (anche economici)
del divieto e le possibili alternative alla sostanza.
74
Processo
produttivo
Trasformazione
degli intermedi
SOSTANZA
Formulazione
SOSTANZA 2
Uso privato
Trasformazione
Trasformazione
Uso del prodotto
Rifiuto
Uso industriale
Uso del prodotto
Recupero
75
Le opzioni per la riduzione efficace del rischio sono varie e
numerose; si può infatti agire a livello di:
 Produzione ed uso industriale
§ controllo della produzione
§ classificazione ed etichettatura
 Confezionamento, distribuzione e conservazione
§ linee guida e procedure
§ addestramento e comunicazione
 Uso domestico/del consumatore
§ restrizione nella vendita e nell’uso
§ avvisi di pericolo, istruzioni d’uso
 Gestione dei rifiuti
§ classificazione ed etichettatura
§ procedure di riciclaggio
§ specifici metodi/condizioni di eliminazione
Una volta identificate le opzioni si identificano gli strumenti per la
riduzione:
 Programmi di informazione
 Assenso volontario
 Standard tecnici, regole d’uso
 Strumenti economici (es. dazi, tasse, ecc.)
 Controlli di legge
Un ulteriore step nella gestione del rischio è la scelta dei criteri
definiti precedentemente, che si basa principalmente sul loro:
 Efficacia
 Praticità
 Possibilità di monitoraggio
 Impatto economico
 Altri fattori
76
EDCs
Gli endocrine disruptors (EDCs) sono un gruppo eterogeneo di
sostanze caratterizzate dalla capacità di interferire con il
funzionamento
del
sistema
endocrino
attraverso
svariati
meccanismi e bersagli (recettoriali, metabolici, ecc.).
I principali bersagli degli EDCs sono l’omeostasi degli ormoni
sessuali e della tiroide, mentre le fasi decisamente più sensibili
sono la fase riproduttiva e lo sviluppo.
Sono sostanze che agiscono come agonisti o antagonisti dei
recettori ormonali.
Un AGONISTA è una sostanza che interagisce con un recettore e ne
scatena la reazione fisiologica (1) (la chiave che entra nella
serratura e la apre); se l’agonista è uno xenobiotico l’attivazione
può indurre una reazione maggiore di quella indotta dall’agonista
endogeno (2).
Un ANTAGONISTA è una sostanza che pur legandosi al recettore
non ne induce la risposta (3) (la chiave entra nella serratura ma
non la apre).
77
Tra gli EDCs possiamo ricordare:
 POPs (Inquinanti Organici Persistenti)
Comprendono i PCBs, che hanno effetti
complessi
sull’omeostasi degli steroidi e della tiroide; le diossine e i PCBs
ad azione “diossino-simile”, che agiscono da agonisti del
recettore
acrilico,
dando
modulazione
endocrina
ed
immunitaria; il DDT e i suoi derivati, che agiscono da agonisti
estrogeni per il recettore ER  e/o da antagonisti androgeni.
 PESTICIDI, BIOCIDI, ANTIPARASSITARI
Comprendono gli insetticidi organoclorurati (lindano tra gli
altri), che agiscono sull’omeostasi degli steroidi con azione
estrogenica o antiandrogenica; i fungicidi triazolici ed
imidazolici, che sono inibitori della sintesi degli steroidi; i
fungicidi Vinclozolin e Procimidone e l’erbicida Linuron, che si
comportano da antiandrogeni; gli erbicidi triazinici, che
agiscono sull’asse neuroendocrino-ipofisario; l’etilen-tiourea
(maneb, mancozeb, ecc.) e i benzimidazoli che agiscono da
tireostatici.
 SOSTANZE INDUSTRIALI E “PRODOTTI DI CONSUMO”
Comprendono i nonil-fenoli e gli ottil-fenoli (sottoprodotti dei
detergenti) e il bisfenolo A (utilizzato in odontoiatria e nella
produzione di plastiche), che agiscono da agonisti estrogeni
per il recettore ER ; gli ftalati (presenti in PVC, deodoranti,
colle), che agiscono prevalentemente come antiandrogeni; i
policromo difenileteri, usati come ritardanti di fiamma e che
agiscono come tireostatici; gli organostannici (conservanti)
che agiscono come inibitori dell’aromatasi.
 METALLI
Il cadmio agisce probabilmente come agonista estrogeno per il
recettore , mentre l’arsenico pare essere diabetogeno.
 COSMETICI
Il Paraben agisce come agonista estrogeno per il recettore .
 ANABOLIZZANTI ZOOTECNICI
Sono attualmente vietati dalla Comunità Europea.
 FITOESTROGENI
Tra questi vanno ricordati gli isoflavoni e i lignani, che sono
presenti soprattutto in alimenti come la soia ed agiscono come
deboli agonisti per il recettore estrogeno , comportandosi
quindi diversamente dagli altri xenostrogeni che hanno effetto
tendenzialmente sul recettore .
78
I rischi legati a questi composti sono legati agli effetti ritardati che
si manifestano sullo sviluppo: l’esposizione prenatale o perinatale si
manifesta solo nell’età pubere o in quella adulta.
I dati tossicologici sono inoltre scarsi e quindi risultano insufficienti
per una valutazione adeguata dei rischi ad essi connessi.
Quando si ha a che fare con gli EDCs di osservano effetti endocrini
già a dosi più basse di altri effetti, per cui ci sono grosse difficoltà a
stabilire “livelli senza effetti osservabili” che consentano di valutare
e di gestire il rischio da EDCs.
Ci si deve quindi relazionare a dosi “molto basse” (ma bisogna
definire cosa si intende per “basso”) di agonisti/antagonisti
recettoriali che agiscono con un’interazione “simil-ormonale” che,
anche se molto debole, viene esercitata in fasi non fisiologiche, a
volte critiche per il normale sviluppo dell’organismo, specialmente
se non completamente sviluppato.
Numerosi sono gli studi (in particolare nell’uomo) che evidenziano
correlazioni tra esposizione a ECDs e comparsa di patologie
riproduttive e non.
Tra queste patologie possiamo ricordare:
 Diagenesi testicolare, che si manifesta con infertilità maschile,
aumentato rischio di ipospadia e criptorchidismo, aumentato
rischio di seminomi
 Riduzione della qualità dello sperma
 Ipospadia e criptorchidismo
 Endometriosi
 Abortività precoce e alterazione del “time to pregnacy” (tempo
necessario per avere una gravidanza) anche quando il genitore
esposto è il padre (effetto quindi non sulla madre ma sulla
vitalità e/o fertilità dei gameti)
 Parti prematuri
 Alterazioni dello sviluppo neurologico, della crescita e della
tiroide nell’infanzia
 Telarca, ginecomastia, pubertà precoce
 Patologie croniche come il diabete
Si è inoltre osservata una certa correlazione tra esposizione ad
EDCs ed incidenza di tumori, in particolare quelli che rispondono ali
ormoni (come alcuni tumori mammari); tra le altre si è osservata
una correlazione tra tumori ed esposizione a TCDD (follow up di 20
79
a Seveso), tra tumori alla prostata ed esposizione a pesticidi, tra
cancro mammario e livelli di PCBs.
In genere gli ECDs sono sostanze persistenti, liposolubili ed in
grado di bioaccumulare (POPs), ma che possono anche permanere
nei sedimenti e quindi entrare nella catena trofica (organostannici e
alchilfenoli).
L’esposizione a queste molecole non è mai singola: nell’ambiente
sono presenti MISCELE di composti, che possono raggiungere gli
organismi tramite diverse vie, quali gli alimenti, l’aria, l’acqua, per
cui non sono da escludere, anzi sono molto probabili effetti additivi
o sinergici. Nella valutazione del rischio da EDCs vanno considerate
le popolazioni più a rischio, ed in particolare i soggetti giovani e/o
in via di sviluppo, considerandone la maggiore sensibilità e
vulnerabilità legate al maggior consumo di alimenti ed acqua, al
maggior ritmo respiratorio, all’immaturità dei sistemi metabolici.
Inoltre va tenuto presente che il sistema nervoso, immunitario,
endocrino e riproduttivo non sono completamente sviluppati e sono
quindi più sensibili.
IL PROBLEMA PCBs
I PCBs sono molecole bifeniliche variamente clorurate, utilizzate
come olii lubrificanti e nei trasformatori.
Il loro uso è vietato nei paesi industrializzati a partire dai primi anni
’80, ma nelle aree più povere, anche a causa del loro basso costo,
vengono ancora utilizzati. Inoltre sono caratterizzati da un’elevata
persistenza ambientale e dalla capacità di biomagnificare lungo la
catena trofica. Il loro controllo richiede quindi strategie a livello
globale e NON LOCALE.
80
Le principali fonti per l’uomo e gli animali sono gli alimenti, ma
anche l’ambiente e, per il solo uomo, il luogo di lavoro.
Vengono assorbiti principalmente per via gastroenterica in maniera
proporzionale al contenuto lipidico degli alimenti e vengono escreti
(come composti tal quali o metaboliti) principalmente con le urine,
le feci e il latte materno.
Il latte materno rappresenta un pericolo per il bambino in
particolare per i figli di primipare e varia in funzione dell’età della
madre, del consumo di pesce da parte della madre e dal fatto che
abbia già allattato brevemente in precedenza.
L’allattamento al seno può quindi rappresentare un rischio per il
bambino (è il primo momento di esposizione a PCBs), ma poiché
risulta protettivo nei confronti di alterazioni neurocomportamentali
la tendenza attuale è quella di scoraggiarlo solo in casi particolari,
come ad esempio in madri che vivono in aree altamente
contaminate o che consumano elevati quantitativi di pesce fonte
importante per questi composti.
Recenti episodi hanno dimostrato l’importanza della contaminazione
degli alimenti quale fonte di PCBs per l’uomo:
 La contaminazione di materie grasse per mangimi ha
comportato la comparsa di residui nei tessuti di polli
provenienti da Belgio a livelli sufficienti ad indurre una
patologia specifica negli animali (“chick edema disease”)
 L’uso di olii per la produzione di mangimi per acquicoltura può
comportare la comparsa di residui nei tessuti delle specie
allevate e al loro accumulo lungo la catena alimentare
 Il diffuso uso di olii di pesce quali integratori di omega 3 può
aumentare il rischio di esposizione a PCBs, che possono essere
estratti insieme a questi acidi grassi. Studi recenti hanno
evidenziato come il quantitativo di PCBs presente negli
estratti, anche se insignificante dal punto di vista
tossicologico, è in grado di ridurre gli effetti protettivi degli
omega 3.
Nella zona dei Grandi Laghi sono stati promossi studi volti a definire
le cause di numerose patologie comportamentali, dello sviluppo,
81
endocrine, riproduttive, neurologiche e immunologiche che
presentavano una maggior incidenza in quest’area.
Vennero in particolare studiate fasce a rischio quali donne gravide,
neonati e popolazioni particolarmente esposte ad inquinanti, quali
pescatori, nativi americani, anziani, poveri, che consumando grandi
quantitativi di pesce avevano un’elevata esposizione con
l’alimentazione.
Si osservò che i livelli di PCBs nel sangue di queste popolazioni era
6-8 volte superiori rispetto a popolazioni di controllo (30-40 g/l
contro 5g/l).
I PCBs, per le loro caratteristiche chimiche, presentano tossicità e
persistenza diversa, che vanno tenute presenti nelle opere di
monitoraggio.
Per poter comparare tra loro queste molecole la loro tossicità viene
rapportata a quella della DIOSSINA, trasformandola in TOSSICITA’
EQUIVALENTE (TEQ): ponendo uguale a 1 la tossicità della diossina,
quella dei PCBs assumerà un valore compreso tra 0 e 1 (tab. 9).
82
PCB
TEF
77
0.0001
81
0.0001
105
0.0001
114
0.0005
118
0.0001
123
0.0001
126
0.1
156
0.0005
157
0.0005
167
0.00001
169
0.01
189
0.0001
Tab. 9- Valori di TEF (TEQ) di vari PCBs secondo l’OMS.
83
Il TEQ è applicabile però SOLO per quei PCBs che hanno azione
diossino-simile; inoltre esistono altre sostanze che competono per il
recettore AhR che possono falsare il risultato del TEQ.
Nelle opere di monitoraggio vanno quindi dosati non solo i PCBs
diossino-simili, ma anche quelli fortemente persistenti e quelli
scarsamente
clorurati,
che
hanno
un
comportamento
completamente diverso dagli altri PCBs.
Sono stati recentemente messi a punto sistemi in vitro che
consentono di mettere in evidenza l’attività biologica dei PCBs nelle
matrici biologiche. Tali sistemi si basano sull’attivazione di un gene,
il CALUX (luciferasi), che viene “attaccato” al recettore AhR.
Quando uno xenobiotico reagisce con il recettore attiva anche il
gene, che risponde emettendo una luminescenza fosforescente.
Tale sistema è sensibile e riproducibile, ma la sua applicazione è
limitata alle diossine e ai PCBs diossino-simili.
ESEMPI DI SOSTANZE AD AZIONE DI DISENDOCRINIA
Tra le sostanze che agiscono a livello di ATTIVITA’ RIPRODUTTIVA
vanno sicuramente ricordati il TRIBUTILSTAGNO e il 4NONILFENOLO.
TRIBUTILSTAGNO (TBT)
È una sostanza in grado di indurre IMPOSEX in crostacei e
molluschi.
Per IMPOSEX si intende l’imposizione di caratteristiche morfologiche
riproduttive di un sesso sull’altro. In genere si ha sovrapposizione
di caratteristiche maschili su quelle femminili.
L’imposex determina l’incapacità o la ridotta possibilità di rilascio
delle uova dall’ovaio, la soppressione dell’oogenesi (nei casi più
gravi) e lo sviluppo di tubuli seminiferi nell’ovaia e l’induzione della
spermatogenesi.
Studi recenti effettuati in Mediterraneo hanno evidenziato la
presenza di imposex in Bolinus brandaris e in Heraplex trunculus; in
Italia la presenza di imposex è stata evidenziata in alcune
popolazioni siciliane di Bolinus brandaris, Thais haemastoma ed
heraplex trunculus; l’incidenza del fenomeno era estremamente
elevata, ad eccezione di un’area protetta (Riserva Marina di Ustica)
dove non era riscontrato imposex.
84
La gravità dell’imposex viene classificata con una scala a 6 livelli,
come illustrato in tab. 10.
85
Stadio
Descrizione
0
Femmine senza segni maschili
1
Primi segni di imposex. In genere un pene incipiente localizzato dietro il tentacolo oculare
destro
2
Piccolo pene presente, con un dotto penieno sviluppato
3
Pene più grande che allo stadio 2, il dotto penieno continua prossimalmente con una
porzione di vasi deferenti. Si ha ancora riproduzione
4
I vasi deferenti raggiungono l’apertura vaginale, la attraversano e corrono nella porzione
ventrale della ghiandola capsulare. Il pene ha lunghezza comparabile a quella dei maschi.
L’apertura vaginale è immodificata e avviene ancora l’accoppiamento.
5
Vulva assente. Generalmente la ghiandola capsulare è spostata per 2/3 ventralmente, con
il lume aperto nella cavità del mantello. Viene impedito il rilascio della capsula delle uova,
spesso sono presenti capsule abortite
Tab. 10 – Stadi di evoluzione dell’imposex.
87
Nello studio viene identificata una buona correlazione tra livelli di
TBT nei tessuti dei molluschi e gravità dell’imposex (R2= 0.86). lo
stadio 3 viene normalmente raggiunto per concentrazioni superiori
a 20-30 g/kg, mentre concentrazioni superiori aggravano la
situazione. Concentrazioni vicine al limite di sensibilità della
metodica (1 g/kg) si sono rivelate sufficienti per indurre imposex,
anche se a stadi iniziali.
La presenza di TBT non è però risultata strettamente correlata al
traffico navale, portando gli autori a ritenere che altre fonti oltre al
traffico navale pesante contribuiscano all’inquinamento delle aree
studiate (uso illecito sulle navi da diporto?).
Nei maschi inoltre il TBT riduce l’inattivazione metabolica del
testosterone e ne aumenta la conversione in altri androgeni.
4-NONILFENOLO
Il nonilfenolo è una sostanza che deriva dalla degradazione degli
alchilfenoli etossilati (surfattanti non ionici) ad azione estrogenica
nei pesci.
Nella trota l’esposizione a 4-nonilfenolo induce riduzione della
crescita testicolare.
Il 4-nonilfenolo causa anche androgenizzazione metabolica per
riduzione della clearance metabolica del testosterone ed aumento
dei suoi derivati androgeni.
L’esposizione a nonilfenolo induce la sintesi di VTG, precursore delle
proteine dell’uovo, e di proteine della zona radiata (Zrp). L’ipotesi
più accreditata è che questo effetto sia legato alla sua interazione
con il recettore ER, verso il quale agisce da AGONISTA
(analogamente all’estradiolo). Tale induzione è dose-dipendente ed
è seguita dalla sintesi di VTG e Zrp; è un’induzione rapida ma che
richiede un certo tempo prima che il picco di trascritti (prodotti
della trascrizione del mRNA) compaia.
Un altro effetto di disendocrinia importante è quello esercitato sulla
TIROIDE.
Gli ormoni tiroidei
numerose attività:
sono fondamentali
per la regolazione di
88
 Differenziazione e crescita
 Riproduzione
 Processi metabolici
Gli ormoni tiroidei sono molecole relativamente semplici, derivando
dalla iodurazione della tiroxina (lo iodio si lega in posizione 3- e 5dell’anello fenolico). Esistono tre principali forme di tiroxina
iodurata:
 Tetraiodotironina (3,3’,5:5’-tiroxina o T4)
 Triiodotironina (3,3’,5-tiroxina o T3)
 3,3’,5’-tiroxina (T3 inversa, rT3)
La forma attiva è il T3, che svolge la sua azione ormonale legandosi
a specifici recettori (TRs) presenti nella cromatina delle cellule
target.
89
Sangue
Ipotalamo
Tessuti
periferici
rT3
rT3
Ghiandola
pituitaria
TSH
T4
T4
Tiroide
T3
T3
Diagramma dell’omeostasi degli ormoni tiroidei.
91
Gli effetti delle alterazioni a livello di ormoni tiroidei sono più
evidenti nelle specie che depongono uova, perché in queste, ricche
di lipidi, si possono accumulare elevate quantità di xenobiotici
lipofili in grado di alterare l’equilibrio endocrino (PCBs, PAHs). Il
contatto già nelle fasi di sviluppo con queste sostanze rende più
evidente l’effetto delle stesse e ne comporta conseguenze più gravi.
L’azione sugli ormoni tiroidei si può manifestare a vari livelli:
 Sul trasporto e sull’utilizzo dello iodio
 Sull’inibizione del legame degli ormoni alle proteine
plasmatiche
 Sulla sintesi degli ormoni
INIBIZIONE DEL TRASPORTO E DELL’UTILIZZO DELLO IODIO
Le sostanze che inibiscono il trasporto e l’utilizzo dello iodio sono
dette GOZZIGENE: tali sostanze inibiscono la sintesi degli ormoni
tiroidei; il calo della loro concentrazioni induce un aumento
dell’attività tiroidea, che diviene iperplasica e ipertrofica, con
conseguente comparsa del GOZZO.
Tra i composti in grado di indurre gozzo con questo meccanismo
possiamo ricordare:
 Tiocianati e perclorati
 Composti con gruppi tioamidici
 Composti amino-eterociclici
 Fenoli sostituiti
 Alcune sostanze prodotte da batteri (per altro non ancora
identificate)
INIBIZIONE DEL LEGAME ALLE PROTEINE PLASMATICHE
I composti che agiscono a questo livello spiazzano dal legame con
le proteine plasmatiche gli ormoni tiroidei ed in particolare il T4; ciò
comporta un aumento della frazione libera che può essere
trasformata in T3, il che determina una riduzione dei livelli di T4, che
induce per feed back negativo la secrezione di TSH. Il TSH stimola
la produzione a livello tiroideo di ormoni, trasformando la tiroide
stessa in senso iperplasico ed ipertrofico.
Alcuni studi condotti nei salmonidi hanno evidenziato come diete
arricchite di PCBs e mirex (insetticida organoclorurato) inducevano
la riduzione dei livelli di T3 e T4. Questi studi sono però stati
92
condotti con livelli di xenobiotico sufficientemente elevati da indurre
una riduzione dell’alimentazione e della crescita dei soggetti. È
quindi ipotizzabile che il decremento degli ormoni tiroidei sia legato
più allo stato di defedamento che non ad una vera e propria azione
degli xenobiotici sulla loro sintesi.
SINTESI DI T3 A PARTIRE DAL T4
Gli enzimi che deiodizzano il T4 in T3 appartengono a 3 tipi diversi,
che si distinguono tra loro per la specificità di tessuto, per l’affinità
per il T4 e per il prodotto originato (T3 o rT3), ma anche in base al
fatto che vengano o meno inibiti da sostanze gozzigene. Tra gli
xenobiotici in grado di inibire questi enzimi possiamo ricordare il
piombo, che sembra in grado, nel pesce gatto, di ridurre i livelli d T3
e T4 e di inibire l’attività della 5’-MDasi (enzima deiodizzante).
L’interferenza con gli ormoni tiroidei induce inoltre un aumento
dell’incidenza di lesioni neoplastiche benigne, che divengono così
validi indicatori di azione di disendocrinia.
Nei salmonidi dei Grandi Laghi di è osservato un aumento
dell’incidenza di iperplasie ed ipertrofia tiroidee pari al 100%;
curiosamente mentre si osservava una buona correlazione tra i
livelli di eutrofizzazione dei laghi e la gravità delle lesioni osservate,
non vi era correlazione con i livelli di idrocarburi aromatici
polialogenati.
Al momento l’unica sostanza riconosciuta come gozzigena è la NMETIL-N’-NITROSOGUANIDINA.
93
IMMUNOTOSSICOLOGIA
L’immunotossicologia è quella scienza che studia gli effetti tossici
delle sostanze chimiche sul sistema immunitario. Tali effetti
possono
manifestarsi
per
concentrazioni
di
xenobiotico
notevolmente inferiori a quello in grado di indurre altre
manifestazioni tossiche più evidenti; l’organismo può quindi
apparire “asintomatico”.
Il sistema immunitario è preposto alla difesa dell’organismo da tutti
gli agenti potenzialmente nocivi e alla definizione del “self” e del
“non-self”.
Le principali alterazioni del sistema immunitario si manifestano con
un aumento della morbilità e della morte degli individui, ma
possono manifestarsi anche con cambiamenti meno importanti che
vengono utilizzati quali MARCATORI DI IMMUNOTOSSICITA’.
Il sistema immunitario degli animali si compone di varie
componenti, che rivestono una diversa importanza in funzione del
livello evolutivo (tab. 11): in tutte le specie sono presenti i
macrofagi,
responsabili
delle
prime
reazioni
di
difesa
dell’organismo, che si manifestano con l’aggressione e la fagocitosi
dell’agente patogeno(immunità NON SPECIFICA). Viene poi
interessato in maniera più o meno estesa il tessuto linfoide e
vengono prodotte immunoglobuline, che vanno a costituire
l’immunità cosiddetta SPECIFICA.
94
Gruppo
Tessuto linfoide
Invertebrati
Categoria di
immunoglobuline
/
Pesci
IgM
Anfibi
Analoghi delle
IgG, IgM
Rettili
IgG, IgM
Uccelli
Analoghi delle
IgG, IgM, IgA
Mammiferi
IgG, IgM, IgA,
IgE, IgD
Timo, milza, rene,
fegato
Timo, milza, rene,
linfonodi, “midollo
osseo”
Timo, milza, rene,
analoghi dei
linfonodi, midollo
osseo, fegato
Timo, borsa del
Fabrizio, milza,
linfonodi, midollo
osseo
Timo, midollo osseo,
milza, linfonodi,
fegato (nel feto)
/
Importanza del
ruolo dei macrofagi
Elevata
Elevata
Moderata
Moderata
Bassa
Moderata
Tab. 11 – Schema della composizione del sistema immunitario delle varie classi di animali e loro importanza.
95
IMMUNITA’NON SPECIFICA
Coinvolge cellule che riconoscono il “non self” senza alcuna
specificità. Si basa su due meccanismi principali:
1. la fagocitosi
2. la risposta infiammatoria
Le cellule preposte all’immunità non specifica possono essere, in
funzione della specie, circolanti (come i granulociti neutrofili nel
sangue dei mammiferi), essere presenti nei tessuti e negli organi,
dove possono essere legati (macrofagi epatici o splenici nei
mammiferi) o mobili (macrofagi polmonari), con tipi cellulari diversi
presenti contemporaneamente. Le cellule coinvolte nei processi
infiammatori sono poi caratterizzate dalla capacità di infiltrare nei
tessuti infiammati, in cui normalmente non sono presenti.
Altre cellule coinvolte nell’immunità non specifica sono le cellule
Natural Killer (NK) e le cellule citotossiche naturali (NCC). Queste
cellule possono riconoscere i cambiamenti superficiali che
intervengono nelle cellule “self” quando vengono infettate da virus
o vanno incontro a trasformazioni neoplastiche, inducendone la lisi
e quindi eliminandole. Sono cellule presenti sia nei vertebrati che
negli invertebrati.
Il raggiungimento del “non self” da parte dei fagociti (macrofagi, Nk
e NCC) viene guidato da stimoli chimici legati alla presenza di
sostanze chemotattiche che le portano verso il bersaglio.
Le fasi della fagocitosi (schematizzate in fig. 7) prevedono il
raggiungimento del “non self”, il suo legame a propaggini del
fagocita, il suo inglobamento nelle vescicole digestive dette
FAGOSOMI, la fusione dei fagosomi con i lisosomi, la digestione e la
distruzione del “non self” e l’eliminazione dei rifiuti della digestione
all’esterno della cellula.
96
Fig. 7- Rappresentazione schematica della fagocitosi.
97
IMMUNITA’ SPECIFICA
L’immunità specifica coinvolge due componenti
sistema immunitario:
 immunità cellulare (immunità cellulo-mediata)
 immunità umorale
principali
del
L’immunità cellulare è basata su cellule specifiche , I LINFOCITI T,
ed è legata alla regolazione delle funzioni del sistema immunitario,
alla ipersensibilità ritardata, alle reazioni contro il “non self” e alla
resistenza alle infezioni.
L’immunità umorale consiste nella produzione, da parte dei
LINFOCITI B, di anticorpi che attaccano il “non self” (fig. 8 e 9).
Fig. 8- Rappresentazione schematica dell’attivazione delle cellule B.
98
Fig. 9- Struttura generale di un anticorpo.
99
In entrambi i tipi di immunità il contatto con un antigene scatena la
moltiplicazione delle cellule staminali che originano cellule B e T,
come illustrato in fig. 10.
Nel processo di eliminazione del patogeno intervengono vari tipi
cellulari, quali i linfociti T helper (che stimolano la duplicazione dei
linfociti B) e i linfociti T suppressor (che inibiscono la duplicazione
dei linfociti B), che “aiutano” e regolano l’azione dei linfociti B (fig.
11).
Fig. 10- Effetto degli antigeni sui linfociti T e B.
100
Fig. 11- Rappresentazione schematica delle interazioni tra linfociti T e B.
EFFETTI DI FATTORI ENDOGENI ED ESOGENI SUL SISTEMA
IMMUNITARIO
Le sostanze endogene ed esogene in grado di influenzare il sistema
immunitario sono numerose. Tra queste possiamo ricordare gli
ormoni (in particolare ormoni sessuali e sistema neuroendocrino),
cui il sistema immune è estremamente sensibile. L’esposizione a
sostanze ad azione di disendocrinia può quindi non solo alterare
l’equilibrio ormonale degli organismi, ma può anche influire sul
sistema immunitario in maniera diretta o indiretta.
Numerosi sono però anche gli xenobiotici che possono alterare la
funzionalità de sistema immunitario.
ORMONI
I glucocorticoidi hanno un effetto immunosoppressivo, agendo in
particolare a livello di macrofagi, di produzione di citochine da parte
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dei linfociti T, di mobilizzazione dei leucociti e di induzione
dell’apoptosi dei progenitori dei linfociti T e B e delle cellule T
mature.
Nella trota si è osservato come lo stress si associ ad un decremento
dell’attività macrofagica, che viene prevenuto da cortisolo ed
epinefrina. Questa osservazione ha portato ad ipotizzare che lo
stress induca una ridistribuzione delle cellule immunitarie verso altri
organi, migrazione antagonizzata da cortisolo ed epinefrina.
L’influenza degli ormoni sessuali è particolarmente evidente quando
si confrontano tra loro i due sessi: in linea generale infatti le
femmine di tutte le specie sono più sensibili alle patologie
immunitarie rispetto ai maschi. Gli ormoni maschili sembrano quindi
avere un effetto protettivo contro le patologie autoimmuni quali in
lupus eritematosus (nell’uomo). Gli estrogeni (ed in particolare
l’estradiolo) invece sembrano aumentare l’incidenza di queste
patologie (tab. 12).
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Citochina
Origine
Funzione
Effetto
steroideo
Interleuchina 1
Monocitimacrofagi
Risposta
infiammatoria
Diminuito dagli
androgeni
Interleuchina 4
Cellule T
Differenziazione
delle cellule B
Aumentato
dall’estradiolo
Antiproliferazion
e delle cellule T e
dei timociti
Aumentato dagli
androgeni
TGF-B
Interleuchina 5
Timociti attivati
Crescita delle
cellule B
Aumentato o
diminuito dagli
androgeni
Interferone 
Timociti
Attivazione ed
induzione del
MHC I e II
Aumentato
dall’estradiolo,
diminuito dagli
androgeni
Tab. 12- Funzione delle varie citochine, cellule che le producono, loro ruolo ed influenza degli ormoni steroidei.
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In Carassio sono stati effettuati studi in vitro ed in vivo, che hanno
evidenziato un effetto inibente di estradiolo e cortisolo sul sistema
immunitario.
In vitro l’incubazione dei macrofagi con i due ormoni inibisce la
chemiotassi e la fagocitosi. L’estradiolo non altera la produzione di
ossido nitrico, che viene invece fortemente inibita dal cortisolo.
In vivo l’estradiolo inibisce la proliferazione di linfociti periferici in
carassi infettati con emoflagellati (Tripanosoma danilewski).
Si è poi scoperto che il sistema immunitario non solo subisce
l’influenza degli ormoni, ma ne produce anche. In particolare
vengono prodotti ormoni dell’adenoipofisi:
 Prolattina (PRL)
 Ormone della crescita (GH)
Tali ormoni devono esercitare un’azione sui linfociti liberi nel
sangue, in quanto questi presentano, al pari dei linfociti T attivati,
recettori per la PRL.
Il GH pare possa stimolare la differenziazione e la migrazione dei
timociti, effetto mediato dall’insulin growth factor I (IGF-I), che si
ritiene abbia un ruolo nella stimolazione degli organi produttori di
linfociti T e B.
XENOBIOTICI
Gi xenobiotici possono influire sul sistema immunitario in varia
maniera (fig. 12).
L’immunosoppressione si manifesta con una riduzione della
resistenza ad infezioni microbiche o virali ed un aumento delle
patologie neoplastiche.
Il sistema immunitario può poi interagire con i processi di
detossificazione e biotrasformazione, prolungando l’emivita degli
xenobiotici.
Più raramente si osserva invece induzione del sistema immunitario,
di più difficile comprensione e che in genere determina una risposta
qualitativamente anomala.
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Danno alle componenti
cellulari e tessutali del
sistema immunitario
Riduzione della resistenza
agli agenti esterni
Immunodepressione
Interazione con
autoantigeni
Produzione di
neoantigeni
Perdita di
immunosorveglianza
ESPOSIZIONE AGLI
XENOBIOTICI
Immunopotenziamento
Ipersensibilità
Allergia
Autoimmunità
Riduzione
dell’immunità
antitumorale
Attivazione del
complemento
Reazione similinfluenzale
Pseudoallergia
Fig. 12- Possibili influenze degli xenobiotici sul sistema immunitario.
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Gli xenobiotici agiscono a livello cellulare e sugli organi del sistema
immunitario.
Tra questi possiamo ricordare:
 Diossine
 Furanici
 PAHs
 PBBs
 PCBs
 Sostanze alchilanti
 Insetticidi organoclorurati
 Metalli pesanti
Pare che l’azione delle diossine si attui per interazione con il
recettore acrilico per gli estrogeni Ah: tale complesso interagisce
con specifici siti del DNA. Analogo effetto hanno i PCBs, per i quali
però è fondamentale il grado di clorurazione.
I metalli pesanti agiscono come inibitori e depressati del sistema
immunitario. Alcuni di questi agiscono a livelli tali da NON indurre
altro effetto negli organismi, quindi da passare “inosservati”. Gli
effetti osservati si manifestano con:
 Effetti di citotossicità ed apoptosi
 Alterazione dei processi di contatto cellulare
 Alterazione dei segnali intracellulari, della mobilizzazione del
calcio, della sintesi delle proteine e dell’espressione genica.
BIOMARKERS IMMUNOLOGICI NEI MOLLUSCHI
Il sistema immunitario di questi organismi, composta da una parte
cellulare e una umorale, presenta quale componente principale gli
EMOCITI.
I dati relativi agli effetti immunodepressivi degli xenobiotici sono
scarsi, ma in linea generale sembrano delineare come l’esposizione
ad uno stress ambientale (termico, infettivo e chimico) induca un
aumento dell’attività degli emociti.
La loro diminuzione di verifica solo per concentrazioni elevate, che
non rispecchiano le condizioni reali nell’ambiente.
Esemplari di Crassostea virginica allevati in acque pulite quando
trasferiti in acque contaminate da PAHs presentavano una riduzione
del numero di emociti di grandi dimensioni (eosinofili responsabili
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della fagocitosi) ed un aumento di quelli di piccoli dimensioni (viene
persa la capacità fagocitaria).
In Mercenaria mercenaria l’esposizione a fenoli riduce l’attività
fagocitarla, stimolata invece da esposizione a lungo termine a
benzo(a)pirene, pentaclorofenolo ed esaclorobenzene.
Studi di esposizione a metalli pesanti in Crassostea virginica e in
Mytilus edulis riferiscono di una capacità fagocitaria alterata, che si
manifesta con stimolazione per esposizione a breve termine e con
inibizione per esposizione a lungo termine. Ciò pare indicare che la
prima reazione dell’organismo sia di difesa (aumentano le difese) e
che l’esposizione cronica riduca queste capacità per una sorta di
loro “degenerazione”.
In Mytilus galloprovincialis provenienti dalla Laguna di Venezia si è
cercato di correlare i biomarkers immunitari con al presenza di
contaminanti (fig. 13). Tali correlazioni sono state osservate solo
per alcuni metalli ed organoclorurati.
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•Conta degli emociti
•Fagocitosi
•Livelli di enzimi lisosomiali
•Produzione di radicali ossigeno liberi
Variazioni stagionali dei parametri
In alcuni casi correlazione tra
contaminanti e parametri
Fig. 13
•10 metalli
•3 gruppi di organoclorurati
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BIOMARKERS IMMUNOLOGICI NEI PESCI
Uno degli approcci immunologici maggiormente utilizzati è l’esame
istologico del tessuto linfoide di animali esposti. Il “difetto” di tale
approccio è il fatto che permette di valutare solo gli effetti terminali
del fenomeno immunodepressivo.
Per evidenziare effetti precoci si possono invece utilizzare altri
biomarkers, quali:
 Il conteggio dei linfociti
 La valutazione del potenziale mitotico dei linfociti
 Valutazione del leucocrito
 Stima dalla capacità fagocitarla
 Conta dei macrofagi e valutazione della loro struttura
 Stima della suscettibilità alle infezioni
 Stima dell’attività lisosomiale
 Conta delle NK e delle NCC
 Quantificazione degli anticorpi circolanti
La valutazione della risposta proliferativi dei linfociti ha permesso di
evidenziare come posano esistere fenomeni di induzione e di
inibizione.
L’esposizione a PAHs sia nell’ambiente naturale che in laboratorio
produce un cambiamento importante ma REVERSIBILE delle
funzioni dei macrofagi, tra cui la fagocitosi dei microrganismi, la
chemiotassi, la pinocitosi e l’accumulo di melanina. L’effetto si
manifesta con un’inibizione o un’induzione, in funzione della specie
considerata.
Il MANGANESE ha ad esempio un’azione STIMOLANTE nella carpa,
mentre il LINDANO ha effetto INIBENTE nella trota.
La valutazione dei livelli di anticorpi circolanti è un biomarker NON
INVASIVO,
che
in
genere
ha
definito
fenomeni
di
immunodepressione o immunosoppressione.
Il CADMIO risulta ad esempio INDUTTORE in
adsperus ed INIBITORE in Morone saxatilis.
Tautogolabrus
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Tautogolabrus adsperus
Morone saxatilis
I FENOLI, la FORMALDEIDE e i DETERGENTI sono INIBITORI nella
trota.
In Pleuronectes platessa si è osservata una correlazione negativa
tra la vicinanza agli scarichi dei depuratori ad alcuni parametri
immunologici quali l’attività del lisozima sierico, la concentrazione
delle immunoglobuline e l’attività battericida dei leucociti renali. Le
spiegazioni portate per questa correlazione sono la presenza di
contaminanti ad azione immunostimolante nelle vicinanze degli
scarichi, che vengono diluiti (seguono un gradiente) allontanandosi
dagli scarichi, la presenza di un’elevata carica batterica nei pressi
degli stessi (che induce una risposta del sistema immunitario) e la
diversa presenza di nutrienti nelle varie aree.
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