DISPENSE ECOTOSSICOLOGIA 1 ECOTOSSICOLOGIA Nel 1969 Truhaut coniò il termine ECOTOSSICOLOGIA (ECOLOGIA + TOSSICOLOGIA) per definire la branca della tossicologia che si interessa degli “effetti delle sostanze chimiche indotte negli ecosistemi” (Walker et al., 2001). L’ecotossicologia considera quindi le azioni NON SOLO sui singoli individui, ma anche sulle popolazioni e sulle biocenosi. La semplice ricerca di residui nei tessuti di piante ed animali NON può essere quindi essere considerata ecotossicologia, poiché non valuta gli effetti di questi residui sugli organismi o sulle popolazioni, ma è un semplice monitoraggio. L’ecotossicologia valuta invece gli EFFETTI che questi livelli residuali hanno per l’organismo, le popolazioni o le comunità. In un certo senso si può definire il monitoraggio una “scienza del morto”, perché opera sui tessuti degli organismi, il che comporta l’uccisione degli animali utilizzati o la raccolta di soggetti già deceduti. Al contrario, l’ecotossicologia è spesso (anche se non sempre) la “scienza del vivo”, perché valutando gli effetti sugli organismi non comporta l’uccisione degli animali (vengono spesso valutati parametri quali l’attività enzimatica, che sono stimabili solo sull’animale vivo). Come già detto, l’ecotossicologia si relaziona con le sostanze chimiche, quindi con l’inquinamento. Per “inquinamento” si intende “l’introduzione diretta o indiretta da parte dell’uomo nell’ambiente acquatico di sostanze o energia (inquinamento termico) che possono causare danno all’ambiente e agli esseri viventi (uomo compreso). A differenza della tossicologia quindi l’ecotossicologia sposta l’attenzione dall’uomo all’ambiente, di cui l’uomo fa parte ma non è il punto centrale: dal punto di vista ecotossicologico l’uomo è UNO DEGLI ASPETTI da considerare, non il principale (anche se i dati ottenuti sono importanti anche per la salvaguardia dell’uomo). Tra gli inquinanti vanno considerati anche i reflui degli impianti di depurazione: sebbene i trattamenti di depurazione riducano il carico di sostanze inquinanti che vengono rilasciati nell’ambiente, le caratteristiche dei reflui stessi sono in grado di modificare le proprietà dell’ambiente. I procedimenti di depurazione non sono ad esempio in grado di eliminare i metaboliti delle sostanze ad azione estrogenica presenti nelle pillole anticoncezionali; il rilascio di questi 2 metaboliti nell’ambiente si è rivelato in grado di alterare le capacità riproduttive delle specie ittiche (ed in particolare dei salmonidi) presenti nei fiumi in cui questi vengono rilasciati. Per inquinante o contaminante ambientale si intende una sostanza chimica presente a livelli superiori rispetto a quelli considerati normali per una particolare componente ambientale. Il problema è capire cosa di intende per “normalità”. La “normalità” varia infatti in funzione dell’inquinante che viene considerato: per i pesticidi la normalità è l’assenza, per composti quali i metalli pesanti, gli idrocarburi policiclici aromatici (PAHs) e il metilmercurio (MeHg) la normalità è invece la presenza a concentrazioni superiori quelle naturalmente presenti nell’ambiente. In questi casi il livello normale può variare notevolmente da un luogo all’altro: le aree vulcaniche sono ad esempio zone ad elevato contenuto di zolfo, per cui i livelli di inquinamento da zolfo in questi distretti saranno molto più elevati che in zone non vulcaniche. Un’ulteriore distinzione che si può fare è quella tra inquinante e contaminante: INQUINANTE: composto che può causare un danno ambientale CONTAMINANTE: composto che pur presente a livelli superiori a quelli normali NON comporta danno. Nel definire la pericolosità di una sostanza intervengono però tutta una serie di fattori che possono rendere difficile la classificazione: 1. La tossicità, che “quantifica” la pericolosità, è estremamente variabile e funzione della dose (quantità) di sostanza presente nell’ambiente. Un composto molto tossico ma presente a livelli molto bassi nell’ambiente sarà meno pericoloso di una sostanza meno tossica ma presente in grandi quantità. 2. Il concetto di DANNO non è univoco: lo stesso effetto può essere percepito e considerato in maniera completamente diversa da soggetti diversi. Ad esempio la presenza di ormoni nelle carni viene considerato in maniera negativa dalla Comunità Europea, mentre negli Stati Uniti l’utilizzo di ormoni è considerato lecito. 3. Spesso le conoscenze degli effetti indotti dagli inquinanti sono scarse o poco definite, il che rende estremamente difficile identificare il pericolo o il rischio indotto da queste sostanze. 3 Per tossicità si intende la “capacità di una sostanza di causare un danno ad un organismo vivente”. La tossicità può essere: 1. DIRETTA, quando il composto agisce direttamente sul sito di azione e sull’organismo, inducendo un danno direttamente sull’organismo. Il composto induce quindi una lesione (chimica, biochimica, fisica, ecc.) direttamente nell’organismo. 2. INDIRETTA, quando il composto agisce modificando l’ambiente di vita degli organismi. Il danno viene quindi determinato da un’alterazione delle caratteristiche dell’ambiente, che riducono le capacità di sopravvivenza delle specie, come ad esempio dalla scomparsa di prede. 3. IMMEDIATA, quando l’effetto si manifesta subito dopo il contatto con la sostanza chimica. 4. RiTARDATA, quando invece intercorre un certo lasso di tempo tra il contatto con il tossico e la comparsa dei sintomi. 5. REVERSIBILE, quando intervengono meccanismi di riparazione che riparano il danno quando il contatto con il tossico viene a cessare. Ad esempio l’attività dell’enzima ALAD (deidratasi dell’acido amino delta levulinico), inibita dal piombo, torna a livelli normali dopo un certo tempo dalla sospensione dell’esposizione al metallo. 6. IRREVERSIBILE, quando il danno non è più riparabile. L’induzione di mutazioni geniche determinata da numerosi composti (PAHs tra gli altri) non è riparabile. 7. ACUTA, quando gli effetti tossici si manifestano in tempi brevi dopo l’esposizione a livelli in genere elevati di tossico. In linea generale determina anche la comparsa di sintomi molto gravi ed importanti. 8. CRONICA, quando gli effetti sono ritardati rispetto alla esposizione a livelli in genere bassi di contaminante. In linea generale i sintomi non sono estremamente evidenti (può anche capitare che l’esposizione non venga neanche rilevata perché non si presentano sintomi evidenti). È la condizione tipica di cui si occupa l’ecotossicologia. Franks e Lieb (1982) affermano che “si deve fare attenzione, nel comparare le potenze dei tossici, a non confondere l’effetto osservato con la potenza a livello di sito d’azione”, intendendo con questo che proprio perché la tossicità è ANCHE funzione della dose (si veda la definizione di tossicità acuta e cronica) a volte 4 un tossico molto potente (che quindi a un effetto notevole al sito d’azione), se presente a concentrazioni sufficientemente basse, può determinare un effetto minore rispetto ad una sostanza meno tossica ma presente a concentrazioni più elevate. Tornando alla definizione di inquinante, possiamo dire che un inquinante è UNA SOSTANZA CHE ECCEDE I LIVELLI DI BACKGROUND E PUO’ ESSERE POTENZIALMENTE DANNOSA. Ma cosa si intende per “DANNO”? Il DANNO è un’ alterazione chimica o fisiologica che influenza negativamente la nascita, lo sviluppo, la crescita o la percentuale di mortalità di un individuo o di una popolazione. BIOMONITORAGGIO Viene definito monitoraggio la “misurazione sistematica di variabili e processi nel tempo in relazione ad un problema specifico” (Spellenberg, 1991). Il BIOMONITORAGGIO utilizza organismi viventi per valutare cambiamenti nella qualità dell’ambiente o dell’acqua. Utilizza come indicatori gli individui, le specie, le popolazioni e le comunità e misura parametri di tipo biologico, chimico e fisico. Quando si valutano risposte biologiche a componenti ambientali a livello di individuo o a livello inferiore (cellula o biochimica) si utilizzano dei BIOMARKER, che servono per dimostrare uno spostamento dallo stato “normale”. Il biomarker quindi valuta le alterazioni a livello molecolare, cellulare o di organismo. I cambiamenti fisiologici, biochimici e istologici vengono utilizzati come “indicatori” dell’esposizione e/o dell’effetto di un tossico. Gli aspetti che vengono valutati sono a livello di: Sistema immunitario Componente genetica Tessuti Metabolismo I biomarkers sono considerati MISURATORI DI EFFETTO correlabili alla quantità di residuo rilevate negli organismi. Consentono di dare un’interpretazione in termini biologici dei livelli i contaminanti. 5 I contaminanti organici nel loro insieme possono essere definiti XENOBIOTICI (XENO: estraneo; BIOS: organismo), perché non rientrano nella normale biochimica dell’organismo. L’ecotossicologia si approccia al problema “inquinamento” considerando la reazione dell’ambiente a partire dalla molecola per arrivare all’ecosistema. Ecosistema Composizione della comunità Cambiamenti di popolazione Risposta di tutto l’organismo Cambiamenti fisiologici Cambiamenti biochimici Inquinante Salendo lungo lo schema, dall’inquinante all’ecosistema, diviene sempre più difficile valutare l’effetto, per tutta una serie di motivi: 1. aumenta il tempo di risposta del livello considerato 2. aumenta la difficoltà di collegare l’effetto ad uno specifico xenobiotico 6 3. diviene sempre più importante il danno a livello ecologico (il danno su un singolo o su pochi individui è meno rilevante a livello ecologico della scomparsa di una specie o della sua riduzione) ECOTOSSICOLOGIA ACQUATICA L’ambiente acquatico è ampio e complesso: comprende infatti compartimenti completamente diversi e con caratteristiche uniche e molto variabili, quali fiumi (acque dolci e correnti), laghi (acque dolci e più ferme), estuari (acque salmastre), lagune (acque salate e chiuse), aree costiere (acque salate e “poco profonde”) ed oceani (acque salate profonde). La vulnerabilità di questi ecosistemi varia ANCHE in funzione di vari parametri: 1. le proprietà chimico-fisiche del tossico o dei suoi metaboliti: tossici non solubili non avranno effetti sull’ambiente, non verranno assorbiti degli organismi,ecc. 2. la concentrazione e il carico totale del tossico. Uno scarico breve ma ad alte concentrazioni potrebbe avere effetti maggiori o più immediati per l’ambiente di uno scarico a concentrazioni più basse ma per un periodo più prolungato. A livello ambientale però quest’ultimo potrebbe essere più deleterio, perché potrebbe comportare alla fine un carico di inquinanti per l’area considerata più elevato che non il primo caso. 3. durata e tipo di input. Vale quanto detto per il punto 2. 4. capacità dell’ecosistema di “tamponare” il tossico. Gli oceani ad esempio “tamponano” gli inquinanti diluendoli (grazie alle grandi masse d’acque che li caratterizzano). 5. localizzazione dell’ecosistema rispetto alla fonte del tossico. Se l’ecosistema considerato è vicino alla fonte gli effetti deleteri saranno maggiori rispetto ad un ecosistema più lontano, anche se magari questo è più sensibile. In ambiente acquatico le relazioni che si instaurano tra componenti fisiche, chimiche e biologiche e le capacità di adattamento della componente biotica rendono ogni singolo ecosistema un ambiente UNICO, il che rende estremamente difficile prevedere in modo generale gli effetti di un tossico. Questo significa che i risultati che si ottengono studiando un preciso ambiente non sono trasferibili ad 7 un ambiente simile, ma che per anche solo un aspetto non è uguale. I modelli revisionali (modelli matematici che permettono di prevedere gli effetti e il comportamento di un tossico quando questo entra in un ambiente o un organismo) vanno quindi continuamente adattati al SINGOLO ambiente studiato. Proprietà Confronto con altre sostanze Importanza per l’ambiente acquatico Calore specifico Più elevato di tutti i solidi e gli altri liquidi tranne NH3, idrogeno liquido e litio Limita le fluttuazioni di temperatura e stabilizza la temperatura degli organismi Calore latente di fusione Più elevato tranne NH3 Stabilizza la temperatura al punto di congelamento Calore latente di vaporizzazione Più elevato di tutte le altre sostanze Densità Massima: 4°C per l’acqua pura; -1.9°C per l’acqua di mare Condiziona il trasferimento della temperatura e di acqua tra atmosfera e sistemi Controlla laacquatici distribuzione della Tensione superficiale Più elevata di ogni altro liquido tranne Hg Controlla la fisiologia della cellula, i fenomeni di superficie e la formazione di gocce Potere di dissolvimento Massimo Facilita le reazioni chimiche e il trasporto dei nutrienti e dei metaboliti Costante dielettrica Massimo tranne che rispetto a H2O2 e HCN Facilita la solubilizzazione delle sostanze inorganiche per ionizzazione Trasparenza Assorbe fortemente infrarosso e ultravioletto a onde lunghe; scarsa per il visibile Consente la fotosintesi e la fotolisi a notevole profondità temperatura e la stratificazione verticale Tab. 1- Caratteristiche dell’acqua ed importanza per l’ambiente acquatico. Le proprietà chimico-fisiche del composto, quelle chimico-fisiche e biologiche dell’ecosistema e le fonti e l’intensità di emissione del tossico nell’ambiente condizionano anche il destino degli xenobiotici nell’ambiente e negli organismi (concentrazione, trasporto, trasformazione ed eliminazione). 8 Queste caratteristiche consentono anche di: 1. determinare la mobilità e la localizzazione ambientale di un tossico, in quanto sono queste caratteristiche che determinano DOVE lo xenobiotico si localizza nell’ambiente 2. il destino chimico e biochimico dello xenobiotico e conseguentemente….. 3. le forme chimiche che presumibilmente verranno ritrovate nell’ambiente (se il composto tal quale o suoi derivati e metaboliti) 4. le quantità di queste forme chimiche. Gli xenobiotici in acqua possono essere presenti principalmente in tre forme. 1. dissolta 2. adsorbita alle componenti biotiche e abiotiche 3. accumulata negli organismi Queste forme influenzano la BIODISPONIBILITA’, cioè la capacità di una sostanza di essere assorbito e di interagire con gli organismi viventi. Un tossico NON biodisponibile NON E’ pericoloso per gli organismi. Si possono definire tre tipi di disponibilità: a. DISPONIBILITA’ AMBIENTALE. La frazione di composto presente nell’ambiente o in parte di esso che può essere coinvolta in un processo ed è soggetta a modificazioni fisiche, chimiche e biologiche. Può essere anche vista come la frazione “attiva” da un punti di vista chimico, fisico o biologico. b. BIODISPONIBILITA’ AMBIENTALE. La frazione di xenobiotico disponibile dal punto di vista ambientale accumulata da un organismo. Rappresenta una misura della capacità di un organismo di estrarre un tossico dall’ambiente, quindi di accumularlo. c. BIODISPONIBILITA’ TOSSICOLOGICA. La frazione della dose (del tossico biodisponibile nell’ambiente) che raggiunge i recettori o il sito d’azione del tossico nell’organismo. Rappresenta la frazione di xenobiotico assorbito che raggiunge il sito d’azione. 9 La biodisponibilità tossicologica valuta la capacità del tossico di raggiungere i siti d’azione. RESIDENCE TIME: tempo che il tossico permane nell’ambiente prima che i processi di trasporto lo allontanino dall’ecosistema considerato. Coincide col tempo che lo xenobiotico ha a disposizione per svolgere la sua azione. HALF TIME: tempo necessario perché la concentrazione di xenobiotico in un determinato compartimento si dimezzi. Rappresenta una quantificazione della persistenza ambientale dello xenobiotico. BIODEGRADAZIONE: insieme delle trasformazioni di uno xenobiotico operate dai microrganismi o dagli esseri viventi (metabolismo). Una parte della materia organica viene riutilizzata, trasformata in altri composti, una parte è trasformata in energia e il resto è convertito a molecole inorganiche (CO2 e O2). In genere i prodotti della biodegradazione sono composti più polari e idrosolubili di quelli originari e normalmente meno tossici. Quest’ultimo aspetto NON E’ SEMPRE VERO: alcuni composti, quanto sottoposti a metabolismo, vengono trasformati in molecole tossiche (bioattivazione). 10 PRINCIPALI TOSSICI NELL’AMBIENTE Un tossico è tale in funzione del suo effetto, del suo uso (alcune sostanze quando utilizzate correttamente, come i pesticidi, non sono pericolose), dello stato fisico, di quello chimico, del suo potenziale e del suo impatto sull’ambiente acquatico. Nella situazione reale inoltre l’esposizione NON E’ MAI ad un solo tossico, ma a MISCELE di inquinanti, ogni situazione ambientale è una situazione a sé stante. METALLI E METALLOIDI Per METALLO PESANTE si intende un elemento con caratteristico aspetto lucido, buon conduttore di elettricità, che si comporta nelle reazioni chimiche da ione positivo (catione). Un METALLOIDE è invece un elemento con caratteristiche intermedie tra i metalli e i non metalli (As, B, Si, Ge, Sb, Te). Metalli e metalloidi sono sostanze naturali da sempre facenti parte della normale composizione della terra, ma che originano anche da attività industriali ed umane in genere. Divengono inquinanti quando queste attività ne causano un rilascio dai depositi naturali, fenomeno particolarmente importante per Cd, Zn, Pb e Hg. In tabella 2 sono riportati i FATTORI DI ARRICCHIMENTO ANTROPOGENETICO (AEF) di alcuni metalli. Tale fattore è dato dal rapporto tra immissione in ambiente legata ad attività umane (A) e totale delle immissioni in ambiente (T). più elevato è questo rapporto, maggiore è il contributo dato dalle attività umane nell’inquinamento da metalli. Dalla tabella di deduce come per metalli quali Cd, Pb, Zn e Hg tale contributo sia estremamente importante, tanto da determinare un AEF superiore al 60%, mentre per metalli meno “pericolosi”, quali il Mn, tale contributo è minimo. 11 Metallo Fonte antropogenetica (A) Fonte naturale Totale (T) AEF (A/T) *100 Cadmio (Cd) 8 1 9 89% Piombo (Pb) 300 10 310 97% Zinco (Zn) 130 50 180 72% Manganese (Mn) 40 300 430 12% Mercurio (Hg) 100 50 150 66% Tab. 2- Valori di AEF calcolati per vari metalli. 12 I metalli si localizzano nella parte sinistra della tavola periodica; di particolare importanza tossicologica sono Cu, Zn, Cd, Hg e Pb. METALLO PESANTE: identifica INQUINANTI AMBIENTALI. elementi che agiscono da La vecchia definizione faceva riferimento alla densità dell’elemento, che doveva essere maggiore di 5. oggi per definire un metallo come “pesante” si considera la chimica dello stesso, in quanto vi sono metalli non “pesanti” che però sono importanti inquinanti. L’alluminio (densità 1.5) ad esempio non è pericoloso in condizioni “normali”, ma se posto in acque acide diviene un potente tossico. I metalli pesanti possono reagire con l’ossigeno, producendo radicali ossidrilici tossici, in grado di danneggiare fortemente le cellule animali e vegetali, oppure possono reagire con zolfo e azoto, o avere comportamento intermedio. In tabella 3 sono riportati i metalli essenziali e non essenziali (vedere dopo per la loro definizione) in funzione della loro importanza come inquinanti, classificati in funzione della loro 13 affinità per l’ossigeno (classe A), per l’azoto e lo zolfo (classe B) o il loro comportamento intermedio. La distinzione nelle tre classi è importante per determinare la velocità di attraversamento delle membrane cellulari e i siti di accumulo intracellulare nelle proteine di legame, quali la metallotioneina1, e nei granuli contenenti metalli (strutture che si formano all’interno delle cellule come forma di deposito e sequestro dei metalli tossici, quali il Pb). Classe A Intermedi Classe B Calcio Zinco Cadmio Magnesio Piombo Rame Manganese Ferro Mercurio Potassio Cromo Argento Stronzio Cobalto Sodio Nichel Arsenico Vanadio Tab. 3- Classificazione dei metalli in funzione della loro affinità per ossigeno, azoto e zolfo o per comportamenti intermedi. Metalli e metalloidi inoltre formano legami covalenti con i gruppi organici, originando composti lipofili e ioni, che in genere sono estremamente tossici (in particolare i composti di Pb, Sn, Hg, As) perché la loro lipofilia ne consente un maggior assorbimento da parte dell’organismo, il che comporta il raggiungimento di concentrazioni maggiori nell’organismo e l’interessamento di numerosi siti d’azione, in genere in numero superiore a quelli raggiunti dallo ione semplice. Infine possono legarsi a costituenti non metallici della macromolecole bloccandone l’attività (se enzimi). La metallotioneina è una proteina ricca di gruppi sulfidrilici che è in grado di legare in maniera abbastanza stabile vari metalli pesanti, tra cui Zn, Cd e Cu, sequestrandoli dal circolo e quindi rendendoli non disponibili per l’organismo. 1 14 I metalli NON sono biodegradabili e quindi non vanno incontro a metabolismo. La loro detossificazione consiste nel loro sequestro sotto forma di metallotioneine o come forme insolubili depositate in granuli intracellulari o eliminate con le feci. Come già accennato precedentemente i metalli possono essere suddivisi in ESSENZIALI, NECESSARI e NON ESSENZIALI, al cui pericolosità varia in funzione del ruolo. I metalli ESSENZIALI (Ca, Mg, P, Na) sono metalli indispensabili per il normale funzionamento dell’organismo, presenti a concentrazioni in genere abbastanza elevate nei tessuti e che sono fortemente controllati da un punto di vista dell’omeostasi. I metalli NECESSARI (Cr, Ni) sono invece elementi che servono al normale funzionamento dell’organismo ma che sono richiesti a concentrazioni ridotte, anche perché potenzialmente tossici. Infine i metalli NON ESSENZIALI (Pb, Cd, Hg) sono elementi che non hanno alcun ruolo nell’organismo e che non dovrebbero essere presenti. Ogni elemento presenta una FINESTRA DI ESSENZIALITA’ entro la quale svolge la sua azione fisiologica (se ne ha una) ed oltre la quale diviene tossico. Metalli non essenziali Metalli essenziali Per for ma nce Nessun effetto Car enz a Finestra di essenzialità Tos sici tà Tos sic o Assunzione di metallo con la dieta Fig. 1- Finestre di essenzialità per metalli essenziali e non essenziali. 15 COMPOSTI INORGANICI Non sono composti particolarmente tossici in sé, ma la loro tossicità è funzione delle caratteristiche dell’acqua. Tra questi si possono ricordare: NITRITI E NITRATI FOSFOATI COMPOSTI DEL CLORO AZOTO BORO AMMONIACA ARSENICO SOLFATI Questi composti, ed in particolare i nitrati, vedono aumentare le loro concentrazioni in ambiente acquatico, con conseguanti fenomeni di EUTROFIZZAZIONE, cui si può associare una riduzione dell’ossigeno in conseguenza della degradazione degli organismi morti. La principale fonte di nitrati è rappresentata dai fertilizzanti, mentre per quanto riguarda i fosfati sono i fertilizzanti e i detersivi. SOSTANZE ORGANICHE Sono definite ORGANICHE tutte quelle CARBONIO, ad eccezione di CO2 e CO. molecole contenenti La struttura molecolare delle sostanze organiche ne influenza il comportamento: la grandezza e la forma della molecola e la presenza di gruppi funzionali ne modificano infatti la lipofilicità e la tossicità. I legami C-C o C-H rendono la molecola poco polare e quindi poco lipofila. La presenza di gruppi funzionali quali –OH, HC=O e NO2 ne aumenta la polarità e la reattività chimica. Le molecole organiche di interesse tossicologico sono in genere di origine umana, di recente comparsa nell’ambiente e quindi verso le quali non sono ancora stati sviluppati meccanismi di difesa, adattamento o detossificazione. Fanno eccezione i PAHs, che originano dalla combustione di sostanze naturali e i cui livelli, 16 analogamente a quanto succede con i metalli, sono aumentati a seguito delle attività umane. IDROCARBURI Sono composti solo da C e H, le molecole più leggere sono di natura gassosa. Sono caratterizzati da bassa polarità e quindi scarsa solubilità in acqua. Possono essere di natura ALIFATICA o AROMATICA ALIFATICI H H H I I I H-C-C-C-H I I I H H H propanolo H H H I I I H-C-C=C-C-H I I I H H H butene AROMATICI benzo(a)pyrene Gli idrocarburi alifatici possono esistere allo stato gassoso, liquido o solido, in funzione del loro peso molecolare e del grado di insaturazione. Più importanti dal punto di vista tossicologico ed ECOTOSSICOLOGICO sono gli idrocarburi aromatici, che hanno una consistenza liquida o solida e sono molto più reattivi chimicamente e biologicamente dei non aromatici. Petrolio e gas naturali sono le principali fonti di idrocarburi e contengono in prevalenza molecole alifatiche, ma anche grossi quantitativi di PAHs, che originano anche dalla combustione di materia organica. 17 Le principali fonti di inquinamento da idrocarburi sono le perdite di petrolio e la combustione dei carburanti, fenomeni tutti di origine ANTROPICA. PCBS (BIFENILI POLICLORURATI) E PBBS (BIFENILI POLIBROMURATI) I PCBs sono molecole stabili, scarsamente reattive, usate come fluidi nel settore idraulico, come liquidi di raffreddamento o di isolamento nei trasformatori e come plastificanti nelle vernici. Ne esistono 209 congeneri originati dalla clorurazione di molecole bifeniliche. Cl Cl Cl Cl Cl Cl 3,3',4,4',5,5'-hexachlorobiphenyl Sono sostanze aromatiche, con grado variabile di clorurazione, scarsamente idrosolubili, che si differenziano tra loro in funzione della posizione cloro-sostituita: l’assenza di sostituzioni in posizione orto- rende le molecole PLANARI, mentre le sostituzioni in orto- le rendono NON PLANARI: inducono una torsione nella molecola a causa delle interazioni tra gli atomi di cloro posti su anelli diversi. Le principali fonti di inquinamento sono ed erano gi scarti delle produzioni e il rilascio indiscriminato nell’ambiente dei liquidi di raffreddamento. I PBBs, strutturalmente analoghi ai PCBs, ma in questo caso avviene una bromurazione, sono invece utilizzati come ritardanti di fiamma e presentano caratteristiche simili ai PCBs. 18 PCDDs (DIBENZODIOSSINE POLICLORURATE) E PCDFs (DIBENZOFURANI POLICLORURATI) Hanno struttura molecolare ed origine simile. Sono molecole a struttura PLANARE originate da due anelli benzenici variamente sostituiti con cloro. Non hanno utilizzo industriale, ma sono sottoprodotti della sintesi di altre molecole. C l O C l C C O l l 2,3,7,8-tetra-chlorodibenzodioxin (TCDD) Cl Cl Cl O Cl TCDF Le diossine sono composti estremamente tossici, molto stabili, poso solubili in acqua e limitatamente nei solventi organici, nonostante la loro natura lipofilica. In particolare in ambiente acquatico si ritrovano residui nei tessuti animali, a seguito della loro stabilità ambientale. I PCBFs sembrano invece non destare problemi dal punto di vista ecotossicologico, ma sono ancora in fase di valutazione, paiono infatti comparire effetti a livello ormonale. SOLVENTI ORGANICI Sono idrocarburi alifatici ed aromatici, alogenati e non 19 DETERGENTI SINTETICI Sono validi surfattanti e non precipitano il Ca++, per questo sono particolarmente adatti alle acque dure. Per questo hanno sostituito i saponi veri e propri. Possiamo ricordare tra gli altri l’ALCHILBENZENE SOLFONATO. Sono scarsamente biodegradabili e fortemente tossici per gli organismi acquatici, per cui sono stati sostituiti dagli ALCHILBENZENI SOLFONATI LINEARI (LAS), che risultano più biodegradabili, ma restano pur sempre tossici. Il vantaggio di questi ultimi sta proprio nel fatto che permangono per minor tempo nell’ambiente, e quindi l’effetto tossico è temporalmente ridotto. IDROCARBURI POLICICLICI AROMATICI Sono sostanze di origine sia naturale che sintetica, caratterizzate da azione mutagena, cancerogena e teratogena. Hanno forte tendenza ad accumulare nei sedimenti e a bioconcentrare. PESTICIDI I pesticidi comprendono molecole di svariata natura: SOSTANZE ORGANICHE SEMPLICI MOLECOLE ORGANICHE COMPLESSE NATURALI MOLECOLE ORGANICHE COMPLESSE SINTETICHE Possono inquinare l’ambiente per: Dispersione durante la produzione Dispersione durante l’applicazione Dilavamento dei terreni trattati Distribuzione volontaria per l’eliminazione di alghe, piante acquatiche e vettori di malattie per l’uomo. In linea generale i pesticidi sono POCO SELETTIVI (tranne qualche eccezione) e il loro utilizzo (applicazione) varia in funzione delle situazioni d’uso. La presenza di pesticidi è particolarmente importante nei bacini stagnanti o a scarso ricircolo d’acqua, nei quali la presenza costante a basse concentrazioni dei principi attivi può determinare la comparsa di effetti subtossici. INSETTICIDI ORGANOCLORURATI I composti appartenenti a questa classe sono suddivisi in tre gruppi: DDT e derivati 20 CICLODIENICI (aldrin, dieldrin) DERIVATI DELL’ESACLOROCICLOESANO (lindano) Cl Cl Cl Cl Cl Cl HCH (lindano) Cl Cl Cl Cl Cl p,p' - DDT Sono composti molto stabili, estremamente lipofilici, che agiscono quali veleni per il sistema nervoso centrale. La loro elevata persistenza e lipofilicità li rende composti estremamente importanti dal punto di vista dell’ecotossicologia, a causa degli importanti effetti a lungo termine sugli organismi e delle ripercussioni sull’ambiente. Sono pesticidi attualmente vietati, proprio a causa delle ripercussioni ambientali che li caratterizzano, ma che furono utilizzati ampiamente a partire dal 1940 e fino a tutti gli anni ’70. Pur avendo bassa tossicità acuta, sono dotati di proprietà estrogeno-simili che inducono fenomeni di disendocrinia. La loro elevata persistenza ambientale (si arriva a circa una ventina di anni per alcuni ciclodienici) e biologica porta a ritrovare ancora oggi nei tessuti degli animali e nel LATTE UMANO residui di questi insetticidi, che vengono tuttora rilasciati dai terreni e da sedimenti nelle acque, da cui entrano nelle catene trofiche. INSETTICIDI ORGANOFOSFORICI E CARBAMATI Sono liquidi altamente lipofili, discretamente volatili, meno stabili e persistenti degli organoclorurati. Agiscono anch’essi da veleni del sistema nervoso centrale ed agiscono bloccando in maniera IRREVERSIBILE (organonofosforici) o REVERSIBILE (carbamati) l’acetilcolinesterasi, enzima preposto all’idrolisi del neuromediatore acetilcolina, causandone un accumulo a livello di spazio intersinaptico. 21 Ac - Ch Ch Ac - Ac Sito esterasico Sito ionico Ch R - OP - R OP - OP Enzima inibito PIRETRINE E PIRETROIDI Le piretrine sono composti di origine naturale che originano da Chrysantemum sp.; da questi, per sintesi, derivano i piretroidi, caratterizzati da una maggiore stabilità rispetto alle piretrine. In linea generale sono molecole altamente biodegradabili, caratterizzate da scarsa persistenza ambientale, la cui permanenza nell’ambiente può essere aumentata dal legame con i sedimenti. Il loro meccanismo d’azione è simile a quello del DDT, e mostrano elevata tossicità per gli invertebrati e per I PESCI, mentre sono praticamente innocui per uccelli e mammiferi. MISCELE In ambiente acquatico difficilmente si ha esposizione ad un solo tossico, più comunemente si ha a che fare con MISCELE. In queste i vari componenti possono interagire tra loro: 1. alterando l’assorbimento reciproco o di alcuni dei componenti 2. alterando il legame alle proteine plasmatiche 3. alterando il metabolismo e l’escrezione 22 L’effetto finale può essere di vario tipo: a) Additivo: l’effetto finale è equivalente alla somma degli effetti dei singoli composti (1+1=2) b) Sinergico: l’effetto finale è maggiore rispetto alla somma degli effetti dei singoli composti (1+1=4) c) Di potenziamento: l’effetto di uno dei componenti viene aumentato da un secondo componente, di per sé privo di azione (0+1=4) d) Di antagonismo: la presenza di uno dei componenti determina la riduzione dell’effetto di un altro (2+3=4) L’antagonismo può essere di vario tipo: Funzionale Chimico Recettoriale Di disponibilità In ambiente acquatico si ha prevalentemente a che fare con tossicità di tipo additivo e sinergico, più rari sono invece i fenomeni di antagonismo. 23 DESTINO DEI TOSSICI NELL’AMBIENTE Le sostanze inquinanti o tossiche possono giungere nell’ambiente a seguito di: 1. rilascio accidentale a seguito di attività umane 2. eliminazione e scarico di rifiuti 3. applicazione voluta di pesticidi In alcuni casi è possibile che un tossico raggiunga concentrazioni molto elevate a seguito di processi naturali come il dilavamento delle rocce (per metalli e ioni), l’attività vulcanica e gli incendi delle foreste (SO2, CO2, PAHs). Fonte Principale inquinante Nota Fuoriuscite da rifiuti Ampio range di inquinanti inorganici ed organici da fonti domestiche ed industriali. Sono generalmente presenti dei Varia in funzione dell’attività detergenti Fortemente variabile; funzione non solo del tipo di rifiuto che viene trattato, ma anche del tipo di trattamento operato Fuoriuscite da impianti Dilavamento dai terreni Dall’aria Scarico nel mare Rilascio da condutture ed impianti petroliferi Incidenti navali Ampio range di inquinanti scaricati nei terreni; pesticidi Precipitazione con neve o pioggia Applicazione diretta di biocidi Contaminazione accidentale con polvere o spray Rifiuti non trattati; radionuclidi e inquinanti tossici scaricati in contenitori sigillati nelle profondità degli oceani Idrocarburi Idrocarburi e alcuni altri inquinanti organici La concentrazione degli inquinanti negli effluenti può restare entro i limiti di legge Generalmente non controllato e di difficile misurazione Gli inquinanti possono essere trasportati per lunghi tratti Controllo di “nocivi” e di WEEDS acquatici La distribuzione aerea può essere un problema I problemi possono esserci quando nel lungo periodo i contenitori possono degenerare A volte accidentale, a volte a seguito di eventi bellici (es. Guerra del Golfo) Il problema principale e più grave sono gli incidenti che interessano le petroliere Tab. 4- Principali fonti di inquinamento degli ambienti acquatici. Tra le fonti di inquinamento i reflui rappresentano una fonte importante per le acque di superficie. La qualità dei reflui dipende dal tipo di materiale da trattare e dal tipo di trattamento effettuato. Molti delle fonti elencate in tabella 4 sono controllate, ma vi sono attività quali l’estrazione del petrolio che possono determinare il rilascio diretto in mare di inquinanti, in genere di natura organica. 24 Il mare funge spesso da “discarica”, in quanto vengono scaricati in esso, ed in particolare negli oceani, le acque reflue prodotte anche molto lontano e i fanghi di depurazione. Questo perché il mare è un “serbatoio” che consente una forte diluizione dei reflui. Si considera quindi che questi non siano pericolosi, anche se può aversi accumulo nel tempo. Per assurdo le perdite di petrolio da incidente, sebbene molto eclatanti, sono di minor “gravità” rispetto al normale rilascio legato alle attività di bacino. È indubbio comunque che IL DANNO AMBIENTALE DA INCIDENTE E’ COMUNQUE ESTREMAMENTE GRAVE, PERCHE’ GRANDI QUANTITATIVI DI INQUINANTI SONO RILASCIATI IN AREE RELATIVAMENTE PICCOLE, QUINDI MOLTO CONCENTRATI. Se gli oceani possono avere una valida capacità di diluizione e di “tamponamento” della tossicità, nei laghi e nei mari chiusi il problema è invece molto grande (sono bacini relativamente chiusi in cui c’è un forte accumulo). I pesticidi possono raggiungere l’ambiente acquatico deliberatamente perché utilizzati per eliminare organismi indesiderati: ERBICIDI: eliminano piante acquatiche ed alghe INSETTICIDI: eliminano parassiti (usati in genere in acquicoltura) TRIBUTILSTAGNO: antialghe per le navi. Inquinante con forti ripercussioni ambientali. Gli esempi visti finora sono rilasci “controllati”, voluti, in maniera più o meno spinta, dall’uomo. Ci sono però esempi di inquinamento “casuale” in cui gli inquinanti possono passare negli ecosistemi acquatici anche a seguito delle precipitazioni (pioggia o neve in particolare), della deposizione di polveri o goccioline atmosferiche o dei fenomeni di ripartizione tra aria ed acqua. METALLI: dilavamento con le piogge PESTICIDI: l’aerosol può essere portato lontano dal punto di applicazione Se questi fenomeni possono aumentare o aggravare l’inquinamento degli ecosistemi, i processi di diluizione e di degradazione riducono la sua gravità, per cui l’effetto del tossico si vedrà maggiormente VICINO al punto di rilascio, dove la concentrazione dello xenobiotico è maggiore e i processi di degradazione sono meno “spinti”. Si 25 osserva poi un gradiente di tossicità (legato al gradiente di concentrazione) fino ad arrivare ad un punto in cui la situazione torna alla normalità. Fig. 2- Principali movimenti dei metalli nell’ambiente. In figura 2 viene riportato uno schema di come i metalli possono raggiungere l’ambiente acquatico. L’emissione da parte di impianti di depurazione, delle città, degli insediamenti industriali, delle attività minerarie, ma anche dell’agricoltura di discrete quantità di metalli comporta il loro spostamento, sia come elementi liberi che come ioni legati ai sedimenti, verso gli ambienti acquatici, dove giungono seguendo l’acqua di dilavamento. Qui i metalli vanno incontro a fenomeni di trasformazione biologica e chimica, che ne 26 comporta da una lato l’organicazione2 adsorbimento ai sedimenti. e dall’altro il loro I fattori che influenzano la mobilità di uno xenobiotico nell’ambiente sono: 1. POLARITA’ E SOLUBILITA’ IN ACQUA 2. COEFFICIENTE DI RIPARTIZIONE 3. PRESSIONE DI VAPORE 4. RIPARTIZIONE TRA I VARI COMPARTIMENTI AMBIENTALI 5. STABILITA’ AMBIENTALE E NATURA PERSISTENTE DELLE MOLECOLE POLARITA’ E SOLUBILITA’ IN ACQUA L’acqua è una molecola polare (vedi tabella 1) e si comporta quindi come un buon solvente per i sali inorganici e i composti polari organici. Le molecole non polari organiche sono invece poco efficienti come solventi. I sali inorganici tendono a ionizzare e quindi sono altamente solubili se derivano da metalli alcalini ed alcalino-terrosi. Se originano invece da metalli pesanti non ionizzano perché formano legami covalenti e quindi sono scarsamente se non per nulla solubili. I composti organici, in genere poco polari, vedono aumentata la loro solubilità se presentano nella loro molecola O e N, e quindi risultano più solubili. COEFFICIENTE DI RIPARTIZIONE La ripartizione tra la componente acquosa ed organica dell’ecosistema (compresa la componente biotica) è funzione anche della diversa solubilità dei composti nelle due fasi. Il rapporto tra concentrazione nella fase organica (ottanolo) e quella acquosa è definito COEFFICIENTE DI RIPARTIZIONE (Kow). Il valore del Kow dà un’indicazione di quanto è idrofobico un composto: maggiore è Kow, maggiore è l’idrofobicità. Il Kow consente quindi di predire la distribuzione nell’ambiente e negli organismi. Per organicazione si intende la trasformazione di molecole inorganiche, in particolare appunto dei metalli, in molecole organiche, in genere più facilmente assorbibili e più potenti (se si parla di composti tossici) dal punto di vista tossicologico. 2 27 OTTANOLO O Kow piccolo Kow grande H2 O Fig. 3- Coefficiente di ripartizione. PRESSIONE DI VAPORE Rappresenta la tendenza di un composto (liquido o solido) a volatilizzare. RIPARTIZIONE TRA I VARI COMPARTIMENTI AMBIENTALI Interessa il passaggio degli xenobiotici tra aria, acqua e suolo. Nella ripartizione tra compartimenti si instaurano degli equilibri (analogamente a quanto succede con il Kow) che possono essere descritti da coefficienti di ripartizione specifici. 1. COSTANTE DI HENRY: distribuzione di un tossico tra aria ed acqua 2. FUGACITA’: tendenza di una sostanza a spostarsi da un compartimento all’altro Si possono anche avere situazioni particolari, quali quella aria/solido e acqua/solido, in cui il composto può essere adsorbito alla superficie del solido e non assorbito nella matrice. STABILITA’ AMBIENTALE E NATURA PERSISTENTE DELLE MOLECOLE Le molecole che permangono più a lungo nell’ambiente e percorrono tratti maggiori nello spazio sono quelle più stabili chimicamente. Le reazioni chimiche che possono modificare le molecole sono: a. IDROLISI b. OSSIDAZIONE c. FOTODEGRADAZIONE 28 Esistono fattori ambientali, quali temperatura, radiazioni solari, natura della superficie adsorbente e pH che possono modificare la velocità di degradazione delle molecole. Il problema è particolarmente importante per le molecole a lunga persistenza ambientale, che possono permanere nell’ambiente ed accumularsi negli organismi. TRASPORTO NELL’ACQUA Nelle acque le sostanze possono essere trasportate per lunghi tratti, sotto forma di soluti o sospensioni (gocce o particelle). I particolati tendono a depositare gli inquinanti adsorbiti, in genere nelle vicinanze della fonte di emissione in quanto il loro peso li porta a percorrere brevi tratti. Il flusso dell’acqua e le caratteristiche chimiche e fisiche delle molecole modificano la distanza percorsa, in particolare nei fiumi dove più forti e turbolente sono le correnti. Negli oceani intervengono le correnti marine, in particolare quelle superficiali. È inoltre importante la densità dell’acqua, che se aumenta comporta una discesa dell’acqua e dei soluti in essa disciolti verso il fondo. Questo comporta che in realtà gli oceani non sono poi così efficaci nel diluire gli xenobiotici: la distribuzione delle sostanze, proprio a causa delle correnti, NON è uniforme. In generale le acque interne presentano concentrazioni più elevate di inquinanti. TRASPORTO NELL’ARIA I maggiori spostamenti degli xenobiotici avvengono in atmosfera. In questo caso sono importanti lo stato fisico del composto e le correnti d’aria. I gas si muovono per trasporto di massa (legati a particelle nell’aria, in modo analogo a quanto visto nell’acqua) o per diffusione. La pioggia può disciogliere i gas presenti, dando origine alle piogge acide o “lavando” l’aria dalle polveri, che possono passare poi in ambiente acquatico. 29 Fig. 4- Schema di trasferimento degli xenobiotici nell’atmosfera. Gli xenobiotici si spostano nell’atmosfera seguendo le normali correnti o compiendo dei “balzi” (fig. 4), la cui ampiezza varia in base alla loro volatilità. In atmosfera si possono identificare 3 fasce: 1. 0-4 km: l’aria presenta elevata turbolenza, quindi gli xenobiotici tornano rapidamente al suolo e percorrono distanze brevi. 2. 4-10 km: TROPOSFERA, dove esiste un forte rimescolamento verticale che trasporta con efficienza gli xenobiotici 3. 11-35 km: STRATOSFERA, dove c’è uno scarso rimescolamento. ESEMPI METALLI PESANTI Il loro movimento nell’ambiente dipende da: 1. LOCALIZZAZIONE 2. PERSISTENZA 3. BIOCONCENTRAZIONE E BIOACCUMULO 4. BIODISPONIBILITA’ 30 LOCALIZZAZIONE Normalmente i tossici sono tali quando superano i valori di soglia i un determinato compartimento. Se una sostanza viene rilasciata da una ciminiera “bassa”, lo xenobiotico depositerà vicino alla ciminiera. Se alziamo la ciminiera, il tossico arriverà più in alto in atmosfera e probabilmente percorrerà un tratto più lungo, “diluendosi” nell’atmosfera. Gli organismi possono per altro generare meccanismi che consentono la compartimentalizzazione dei metalli in forme insolubili, che non sono attive dal punto di vista tossicologico PERSISTENZA I metalli NON sono biodegradabili e non vengono degradati, ma possono dare origine a composti di sintesi o di degradazione particolari (MeHg). Nell’ambiente sono caratterizzati da elevata persistenza ambientale ed impiegano tempi molto lunghi per essere trasferiti in altri compartimenti ambientali. FATTORI DI BIOCONCENTRAZIONE E BIOACCUMULO L’accumulo di alcune sostanze inorganiche è maggiore rispetto ad altre e la capacità di bioaccumulo è rappresentata dal FATTORE DI BIOCONCENTRAZIONE (BCF). Conc. nell’organismo BCF = Conc. nell’ambiente Per i metalli l’intensità di accumulo è funzione dell’escrezione degli stessi. Così ad esempio il cadmio ha un elevato accumulo perché è rapidamente assorbito e lentamente escreto; gli organismi con scheletro calcareo, esoscheletro o conchiglia accumulano elevate quantità di piombo e stronzio, che si comportano con cinetica analoga al calcio. BIODISPONIBILITA’ Un composto maggiormente biodisponibile viene maggiormente accumulato. Il MeHg ha ad esempio un BCF maggiore rispetto al mercurio inorganico. 31 Una diminuzione del pH induce invece una maggior solubilità dei metalli, che divengono più disponibili. COMPOSTI ORGANICI Il destino dei composti organici nell’ambiente è di più difficile predizione rispetto ai metalli pesanti perché fortemente influenzato dagli spostamenti nel suolo, nelle acque di superficie e nell’aria. Superficie del suolo Volatilizzazione Canali d’aria Prodotti Degradazione chimica Acqua del suolo Adsorbimento ai suoli e alla m.o. Degradazione chimica Prodotti ? Dilavamento Organismi del suolo Biodegradazione Metaboliti In generale i composti a scarsa stabilità e i composti volatili presentano pochi problemi, a meno che non vengano trasformati in composti tossici. I composti liofili possono da un lato essere dissolti e distribuiti nelle acque superficiali, ma possono anche accumulare nei sedimenti. In questo caso non sono più biodisponibili e ne viene modificata la disponibilità e le trasformazioni. 32 DESTINO DEI TOSSICI NELL’ORGANISMO In campo farmaco-tossicologico la cinetica è quella disciplina finalizzata allo studio dei processi che avvengono nell’organismo dopo esposizione ad uno xenobiotico, descrivendone in modo matematico l’assorbimento, la distribuzione (compreso il legame con le proteine plasmatiche), il metabolismo ed infine l’escrezione (Baggot, 1999; Roder, 2001). Tali processi determinano in ultima analisi la quantità di xenobiotico che può giungere al sito d’azione e risulta in grado di esercitare l’attività caratteristica della sostanza. Per quanto i livelli di xenobiotico nel sito d’azione siano anche e soprattutto funzione della dose somministrata (per un farmaco) o del livello di esposizione (per un tossico), i meccanismi di assorbimento, distribuzione, metabolismo ed escrezione possono modificare profondamente la quota che realmente raggiunge il tessuto target: xenobiotici somministrati alla stessa dose possono quindi presentare, a seguito di differenze nel loro comportamento cinetico globale, differenti attività finali, in ragione di una diversità della concentrazione raggiunta. I singoli processi cinetici prevedono il passaggio da parte di uno xenobiotico attraverso svariate membrane cellulari, sia a livello del punto di applicazione della sostanza (assorbimento esterno), che dei vari tessuti ai quali questa si distribuisce (assorbimento interno) che, infine, degli organi preposti alla sua eliminazione. L’attraversamento delle membrane, che costituiscono le principali barriere al passaggio delle molecole, può avvenire sia con meccanismi di tipo passivo che di tipo attivo, come descritto nella sezione relativa all’assorbimento. Nell’ambiente acquatico si creano condizioni di vita particolari: il cibo e l’ossigeno sono infatti forniti dal mezzo nel quale sono immersi gli organismi, che diluisce ed elimina inoltre i composti derivanti dal metabolismo organico. Tramite le branchie, ad esempio, avvengono gli scambi gassosi, ma anche la dialisi delle sostanze tossiche disciolte nel sangue. Ciò comporta che l’esposizione a uno xenobiotico risulti, in ultima analisi, più completa e prolungata rispetto a quanto si verifica con gli organismi terrestri, che trovano nelle vie di eliminazione un totale allontanamento delle sostanze. Assorbimento, fattori che modificano l’assorbimento e vie di somministrazione 33 A seconda della loro natura le strutture che gli xenobiotici devono attraversare rappresentano barriere più o meno efficienti al loro assorbimento: la cute risulta infatti impermeabile a numerose sostanze, in particolare a quelle idrosolubili, in quanto lo strato corneo rappresenta un forte ostacolo all’assorbimento (Baggot, 1999). Al contrario, l’assorbimento a livello branchiale si dimostra estremamente elevato, anche in funzione dell’ampia superficie che si rende disponibile per il fenomeno. In generale l’assorbimento (al pari di tutti gli altri processi cinetici) prevede il passaggio delle sostanze attraverso le membrane delle cellule che costituiscono le mucose, gli endoteli o la cute, fenomeno che può avvenire tramite meccanismi diversi di: 1. Trasporto passivo (diffusione semplice, facilitata e filtrazione); 2. Trasporto attivo; 3. Fagocitosi e pinocitosi. Nella diffusione semplice il passaggio delle sostanze avviene secondo un gradiente di concentrazione e non richiede alcun dispendio energetico. Il fenomeno non va incontro a saturazione e il processo si arresta una volta raggiunto un equilibrio di concentrazione. Le molecole (in genere di piccola dimensione) subiscono l’assorbimento attraverso i pori di membrana di natura proteica se idrosolubili o tramite lo strato lipidico se lipofile. Molecole non ionizzate, polari, che risultano liposolubili, attraversano più facilmente e velocemente la membrana rispetto a composti apolari o ionizzati, idrosolubili. Variazioni nel pH fisiologico dell’organismo nonché le stesse caratteristiche chimico-fisiche della molecola possono modificare il grado di assorbimento della stessa, come descritto dall’equazione di Henderson-Hasselbach (tavola 1). La diffusione facilitata è un processo di trasporto passivo analogo alla diffusione semplice, e come questa si realizza secondo gradiente di concentrazione senza richiedere dispendio energetico, ma utilizza proteine carrier in grado di facilitare il passaggio di molecole relativamente voluminose. Tramite la filtrazione le molecole di basso peso molecolare, idrosolubili, polari e non, superano la membrana in funzione della loro dimensione e del flusso di liquidi che attraversa la struttura interessata, passando per pori di varia grandezza, con una “spinta” proporzionale alla pressione indotta dal flusso dei fluidi. È così che a livello delle cellule endoteliali dei capillari, ad esempio, possono essere filtrate molecole voluminose (assorbimento interno), grazie 34 a pori relativamente “larghi” (4-8 nm), mentre attraverso le cellule epiteliali dell’intestino e di altri tessuti (assorbimento esterno) filtrano solo molecole piccole (<4 nm) (Baggot, 1999). La pinocitosi e la fagocitosi, infine, sono processi tramite i quali grosse particelle alimentari o gocce d’acqua vengono internalizzate dalla cellula, per essere poi sottoposte a digestione endocellulare. Sono processi che interessano in particolare i molluschi filtratori, i quali dopo aver filtrato con le branchie la materia sospesa nell’acqua, internalizzano la sostanza organica nelle cellule dell’apparato gastroenterico tramite processi di fagocitosi (Cesari e Pellizzato, 1990). 35 Tav. 1- Equazione di Henderson-Hasselbach (Baggot, 1999; Roder, 2001) L’equazione descrive la relazione esistente tra il pH, le proprietà chimico-fisiche dello xenobiotico e la sua ionizzazione, parametri che vengono ad influenzare l’assorbimento. L’equazione, in particolare, mette in relazione il pKa o il pKb (valore di pH a cui un acido debole [pKa] o una base debole [pKb] sono ionizzati al 50%) e il pH e permette di calcolare la percentuale di ionizzazione di uno xenobiotico. ACIDI DEBOLI pH - pKa = log[non ionizzato] [ionizzato] % ionizzazione = 100 . 1 + antilog (pKa-pH) BASI DEBOLI pH - pKb = log [ionizzato] . [non ionizzato] % ionizzazione = 100 . 1 + antilog (pH-pKb) Poiché la maggior parte degli xenobiotici è rappresentata da acidi e basi deboli, caratterizzati da valori di pKa compresi fra 3 e 11, solo una certa percentuale dello xenobiotico si troverà in forma ionizzata. Tale percentuale varia in funzione della maggiore o minore vicinanza tra i valori di pH e di pKa: nel caso di un acido (e viceversa per una base), tanto più il pH è vicino al lato acido del pKa, tanto maggiore sarà la frazione non ionizzata, e viceversa. Es. Si vuole conoscere la % di ionizzazione di uno xenobiotico con pKa 4.3, presente in un ambiente gastrico a pH 1.4. 36 % ionizzazione = = 100 . = 1 + antilog (pKa-pH) 100 . = 1 + antilog (4.3-1.4) 100 . = 100 . = 100 = 0.13 1 + antilog 2.9 1 + 794 795 Lo xenobiotico sarà quindi ben assorbito. Numerosi sono i fattori, legati alla sostanza in sé (fattori intrinseci), all’organismo e all’ambiente (fattori estrinseci), che possono modificare la quantità di xenobiotico assorbita. Fattori intrinseci Fra questi è possibile innanzitutto annoverare solubilità della molecola: sostanze somministrate in soluzione sono più facilmente assorbite rispetto ad altre fornite in sospensione o allo stato solido. La solubilità è funzione delle dimensioni delle particelle: tanto maggiori sono le dimensioni, tanto minore è la rapidità con la quale può passare in soluzione. Ne è un esempio l’assorbimento dell’acido oxolinico nel pagello rosso, che risulta superiore per preparazioni ultrafini rispetto a quanto si verifica con le preparazioni più grossolane (Endo et al., 1987). La lipofilia e il grado di ionizzazione delle molecole rappresentano altri fattori degni di importanza in quanto le molecole lipofile possono più facilmente attraversare passivamente le membrane, quando invece il grado di ionizzazione porta a considerare l’equazione di Henderson-Hasselbach, poiché gli xenobiotici idrosolubili sono principalmente costituiti da acidi e basi deboli. La presenza di sostanze in grado di dar luogo a complessi insolubili con lo xenobiotico può rendersi responsabile di una riduzione del loro assorbimento; al proposito valgono come esempio le tetracicline il cui assorbimento negli organismi viventi può risultare notevolmente ridotto in presenza di cationi bivalenti, quali ad esempio il Ca2+, suscettibili di formare chelati insolubili, come rilevato anche nel pesce gatto da Plakas et al. (1988). Un decremento nella quantità di xenobiotico assunta può altresì derivare dalle caratteristiche organolettiche del composto, che può portare ad una diminuita palatabilità del cibo in cui è incorporato con conseguente decremento della sua assunzione (Ingebrigtsen, 1991). Fattori estrinseci Nel condizionare l’assunzione di uno xenobiotico pari importanza rivestono i fattori legati all’organismo, primo fra i quali la 37 funzionalità gastroenterica; al proposito va segnalato come condizioni patologiche a carico dell’apparato gastroenterico possano ridurre la quota di principio attivo assorbito, con conseguente negativa influenza sull’esito di trattamenti farmacologici (profilattici e terapeutici) degli animali. Parimenti stati patologici sistemici possono operare decrementi a carico dell’assorbimento di farmaci incorporati nell’alimento, in ragione di una riduzione del consumo alimentare da parte dell’animale. Al pari di quanto avviene nei mammiferi anche nelle specie ittiche l’assorbimento degli xenobiotici interessa prevalentemente l’intestino piuttosto che lo stomaco, a causa dell’elevata capacità assorbente di questo tratto dell’apparato gastroenterico. Sulla velocità dell’assorbimento gastroenterico un ruolo importante sembra svolgere anche la rapidità di svuotamento dello stomaco, dal momento che il fenomeno in linea di massima appare direttamente proporzionale alla rapidità di passaggio dello xenobiotico dallo stomaco all’intestino. A questo proposito vanno comunque ricordati anche gli studi effettuati nella trota arcobaleno, nella quale un lento svuotamento gastrico fa sì che la quota principale di una base debole venga assorbita a livello dello stomaco, fenomeno questo che viene sostanzialmente attribuito al pH del contenuto gastrico, suscettibile di variazioni in funzione della grandezza del bolo alimentare, con conseguenti variazioni nel grado di ionizzazione delle molecole e nel loro assorbimento (Windell e Norris, 1969; Dauble e Curtis, 1990). Va da ultimo sottolineato come anche nelle specie ittiche, al pari di quanto si realizza per i mammiferi, differenze anatomiche e funzionali del tratto alimentare possono condizionare notevoli variazioni interspecifiche nei livelli di assorbimento di farmaci e tossici. Tra i fattori legati all’ambiente particolare rilevanza rivestono il pH, la forza ionica, l’ossigenazione e la temperatura dell’acqua, che vengono in vario modo ad influenzare la disponibilità degli xenobiotici. In particolare il pH può modificare il grado di ionizzazione delle molecole, con conseguente variazione del loro assorbimento a livello branchiale, quando invece un aumento della forza ionica rende, in genere, meno disponibili gli xenobiotici all’assorbimento, in quanto opera in decremento della quantità di acqua e quindi di 38 sostanze disciolte che vengono assorbite (Bergsjö e Bergsjö, 1978; O’Grady et al., 1988). Al contrario una bassa tensione di ossigeno può aumentare la quantità di xenobiotico assorbita, dal momento che per mantenere i livelli ottimali di ossigenazione l’animale deve far scorrere sulle branchie una quantità maggiore di acqua, che ne favorisce l’assorbimento. Per quanto concerne la temperatura, infine, questa sembra essere correlata positivamente alla velocità di assorbimento degli xenobiotici: osservazioni condotte al proposito nella trota arcobaleno delineano come un aumento di temperatura esiti, dopo somministrazione di ossitetraciclina, in un conseguimento dei picchi ematici in tempi più brevi rispetto a quanto di realizza con temperature inferiori. Ancorché gli esatti meccanismi del fenomeno siano tuttora ignoti, viene ipotizzato un intervento degli effetti che la temperatura esplica sulla motilità gastrica e/o sul flusso sanguigno, nonché sulla fluidità e sulla composizione della mucosa gastrica, con il risultato di facilitare i processi di assorbimento (Björklund e Bylund, 1990). Gli organismi acquatici possono entrare in contatto con gli xenobiotici attraverso varie vie, suddivisibili in sistemiche e topiche. Le vie sistemiche consentono la distribuzione della sostanza a tutto l’organismo e vengono a loro volta distinte in via gastroenterica e vie parenterali. La prima comprende tutto il canale digerente ed è associata in genere all’assunzione per os delle sostanze, quando invece quelle parenterali prevedono trattamenti sia “invasivi”, che comportano l’introduzione dello xenobiotico nell’organismo mediante iniezione (endovenosa, intramuscolare, sottocutanea, intraperitoneale) nonché quella inalatoria (negli organismi terrestri) o branchiale (negli organismi acquatici). Le vie topiche vengono utilizzate quando si vogliono ottenere dallo xenobiotico effetti locali, anche se non va escluso un certo grado variabile di assorbimento, che in linea di massima dipende dal tipo di formulazione farmaceutica impiegata oltre che dalle caratteristiche del farmaco stesso. Nel settore dell’acquacultura in particolare una certa importanza riveste tra queste la via dermica. In ambiente acquatico le principali vie di esposizione a uno xenobiotico sono rappresentate dalla via orale, dalla quella dermica e da quella branchiale. La via orale utilizza la somministrazione delle sostanze principalmente tramite il cibo e l’acqua, che viene continuamente 39 ingerita dagli organismi acquatici sia per bere che per respirare, quando viene sospinta contro le branchie. Nel tratto gastroenterico le macromolecole vengono assorbite a livello gastrico e trasportate nel flusso sanguigno con meccanismi trans- e para- cellulari o trans giunzionali, mentre le microparticelle e i soluti possono essere forzati ad attraversare gli enterociti (a seguito della frizione causata dalla peristalsi o dell’azione ritmica della circolazione) per giungere direttamente alla lamina propria (McLean et al., 1999). Le branchie rappresentano forse la principale via di assorbimento, in conseguenza dell’importante ruolo che questi organi svolgono per la fisiologia degli organismi acquatici, in ragione del notevole quantitativo di acqua che le attraversa per consentire la respirazione; tramite queste strutture si realizzano infatti gli scambi gassosi, ma anche l’equilibrio acido-base, quello elettrolitico, nonché l’eliminazione dei prodotti azotati. I fattori che maggiormente influenzano l’assorbimento branchiale sono il coefficiente di ripartizione della molecola e il suo peso molecolare, e a questo proposito va sottolineato come sono stati rispettivamente identificati in 6.5 e 600 i valori limite superiori oltre i quali non sembra realizzarsi assorbimento degli xenobiotici (Zitko e Hutzinger, 1976; Könemann e van Leeuwen, 1980). Il limite relativo al coefficiente di ripartizione è legato al fatto che da un lato le sostanze chimiche, per essere assorbite, devono attraversare un certo numero di barriere lipofile ed idrofile e solo per quelle con il migliore rapporto lipofilia/idrofilia il fenomeno si realizza in maniera ottimale: una molecola con un’elevata lipofilia, ad esempio, può essere “intrappolata” dalla porzione lipidica di una membrana e non passare nella frazione idrofila costituita dal citoplasma. Parimenti, per quanto concerne il secondo aspetto, va sottolineato come uno xenobiotico ad elevato peso molecolare diffonda lentamente attraverso le membrane per il suo maggior ingombro sterico (Penniston et al., 1969; McFarland, 1970; Hansch e Calyton, 1973; Saito et al., 1990) L’assorbimento per via cutanea interessa sostanze disciolte nell’acqua e liposolubili, per cui risultano in grado di venire a contatto con l’animale e successivamente di attraversare lo strato superficiale dell’epidermide. Nell’ambiente acquatico questo aspetto riveste minor importanza rispetto all’assorbimento branchiale, che presenta proprietà assorbenti decisamente superiori. Meno rilevanti e legate fondamentalmente alla somministrazioni di farmaci, sono le vie parenterali, quali quella endovenosa, 40 intramuscolare o intraperitoneale, in quanto necessitano di una manipolazione degli organismi al di fuori dell’ambiente acquatico che può causare stress agli animali, cui si associa, se il trattamento è prolungato, anche uno stato di anossia. Sono quindi vie utilizzate solo qualora non esistano altre vie di somministrazione utilizzabili o quando siano pochi i pesci colpiti, in particolare di elevato valore economico o in soggetti da acquario. La via endovenosa prevede l’iniezione del farmaco direttamente nel circolo sanguigno e di conseguenza consente la massima disponibilità dello xenobiotico che evita completamente tutta la fase dell’assorbimento esterno e può svolgere rapidamente l’azione desiderata. Tale via consente inoltre la somministrazione di sostanze con proprietà irritanti o caustiche in rapporto alla elevata resistenza degli endoteli vasali, della diluizione che il composto subisce nel torrente circolatorio e all’intervento dei poteri tampone del sangue. Nonostante questi indubbi vantaggi esistono, al di là delle limitazioni operative citate precedentemente, limiti oggettivi all’uso della via endovenosa: lo xenobiotico non deve infatti trovarsi in soluzione oleosa, costituire una emulsione o una sospensione, né tanto meno sviluppare composti gassosi, poiché si può avere la comparsa di trombi o di emboli. In questi casi è possibile far ricorso alla via intramuscolare, che in ragione dell’elevata vascolarizzazione del muscolo consente un buon passaggio in circolo delle sostanze, anche se ovviamente questo si realizza in maniera non così altrettanto rapida di quella endovenosa. Nell’impiego di questa via risulta importante evitare di perforare un vaso, operazione che trasformerebbe la somministrazione intramuscolare in una endovenosa e considerare inoltre l’impossibilità di somministrazione di sostanze irritanti o caustiche. Va infine segnalato come la velocità di distribuzione dal sito di iniezione possa essere molto ridotta, in particolare alle basse temperature (Kleinow et al., 1998). Da ultimo, con la somministrazione intraperitoneale si intende iniettare il farmaco nella cavità peritoneale del pesce (ma non nei crostacei), ma tale via può essere utilizzata solo per sostanze dotate di buona solubilità e in grado di fornire soluzioni a pH assai prossimo alla neutralità. Fra le difficoltà che si incontrano nelle somministrazioni intraperitoneali vanno ricordate la presenza di scaglie più o meno sviluppate e l’esiguità del tessuto dermico e muscolare, che può causare un reflusso del farmaco lungo il punto di iniezione (Kleinow et al., 1998). 41 Distribuzione e biodisponibilità Con il termine distribuzione si intendono i movimenti di uno xenobiotico all’interno dell’organismo lungo il torrente circolatorio ed il loro passaggio nei vari tessuti, fenomeno che determina il raggiungimento di un equilibrio dinamico fra sangue e tessuti. In linea generale in sede ematica lo xenobiotico può essere presente in forma libera o legata in varia misura alle proteine plasmatiche; solo la porzione libera responsabile dell’attività della sostanza può abbandonare il torrente circolatorio e distribuirsi nei tessuti per esercitare la sua azione caratteristica. Per questo motivo la frazione libera viene definita biodisponibile, intendendo con il termine di biodisponibilità la quantità e la velocità con cui uno xenobiotico perviene tal quale nella circolazione sistemica. La biodisponibilità viene ridotta da un passaggio che lo xenobiotico subisce attraverso il fegato che fa seguito all’assorbimento per via orale (metabolismo di primo passaggio), dal legame contratto con le proteine plasmatiche, e dai processi metabolici ed escretivi a livello renale che fanno seguito all’assorbimento per via branchiale (Ingebrigtsen, 1991). Per numerosi xenobiotici le specie acquatiche presentano una biodisponibilità che in linea di massima risulta inferiore a quella riscontrabile nei mammiferi, anche se in alcuni casi è possibile rilevare valori analoghi (ormetoprim nella trota arcobaleno, acido benzoico nel pesce gatto) o addirittura superiori (bacitracina nella trota arcobaleno) (Guarino et al., 1988; Höy et al., 1989; Droy et al., 1990; Plakas e James, 1990). La distribuzione ai tessuti di uno xenobiotico ai tessuti è un processo costantemente dinamico, in quanto ad una prima fase di rapida diffusione in quei tessuti caratterizzati da un maggior flusso ematico, una maggior permeabilità e una discreta affinità per il composto segue una riditribuzione, più lenta a distretti caratterizzati da minor perfusione ma maggior affinità. Qualora lo xenobiotico si accumula in maniera elettiva in un organo dove può esercitare la sua azione, si parla di organotropismo, mentre si fa riferimento a fenomeni di deposito se il composto rimane inerte in un determinato tessuto. Numerosi sono i fattori che influenzano questi processi, che, come nel caso dell’assorbimento, appaiono condizionati dalle proprietà del composto in sé, da quelle dell’organismo e dall’ambiente esterno. In primo luogo e al pari di quanto visto per l’assorbimento, anche la distribuzione di uno xenobiotico ne prevede una diffusione passiva 42 attraverso le membrane lipidiche, per cui il valore del pKa rappresenta un importante fattore per la penetrazione e la persistenza della molecola in quel tessuto. Anche la via di assorbimento può modificare la localizzazione iniziale di uno xenobiotico nell’organismo; una sua assunzione per via orale ne determina infatti un accumulo preferenziale nel fegato, al quale afferisce il sangue venoso portale, quando invece un assorbimento branchiale esita in una presenza in elevate quantità della sostanza nel rene, a cui perviene una notevole parte del sangue arterioso. Ciò è testimoniato anche dal fatto che gli enzimi metabolici renali vengono indotti prima di quelli epatici a seguito di esposizione a certi composti tramite l’acqua (Truscott et al., 1983; Pritchard e Renfro, 1984; Ingebrigtsen, 1991). A seguito del legame che uno xenobiotico può contrarre con le proteine plasmatiche questo perde la capacità di attraversare le pareti dei capillari e quindi di diffondere nei tessuti, in ragione del voluminoso complesso che si forma tra macromolecola proteica e macromolecola famacologica: tale aliquota di xenobiotico è pertanto destinata a rimanere nel flusso ematico, senza dar luogo ad un suo passaggio nei tessuti. La quantità di xenobiotico legata alle proteine e la forza di questo legame possono quindi modificare notevolmente la biodisponibilità delle molecole: tanto maggiore risulta il numero di siti molecolari disponibili per il legame e tanto più energici si dimostrano i legami che si instaurano, tanto meno disponibile risulta lo xenobiotico. A questo proposito va segnalato come lo stato di salute e quello nutrizionale degli animali possano modificare la composizione proteica del sangue con conseguenti variazioni della quota libera che può per altro risultare aumentata rispetto alla norma nel caso di una presenza organica di altre molecole a maggiore affinità per le proteine plasmatiche e quindi suscettibili di spiazzare da queste lo xenobiotico. Fra le proteine plasmatiche l’albumina risulta la più interessata al legame con gli xenobiotici in ragione di una sua presenza quantitativamente superiore rispetto alle altre frazioni proteiche e di una aspecificità di legame verso molecole diverse. Al contrario fra le globuline esistono frazioni più specifiche e pertanto in grado di legare solo determinati composti. Ne sono esempio la ceruloplasmina per il rame e la sideroplasmina per il ferro. Anche la presenza di molecole che competono per il legame con le proteine, influire sul legame plasmatico con le proteine (Ingebrigtsen, 1991). 43 Nel sangue tra quota libera e quota legata esiste un equilibrio dinamico che dipende dall’affinità di legame tra proteine e xenobiotico e si dimostra in grado di mantenere costante il rapporto tra le due frazioni, indipendentemente dalla concentrazione ematica totale dello xenobiotico. Come accennato in precedenza, la ridistribuzione degli xenobiotici comporta concentrazioni tessutali condizionate dall’affinità dei vari tessuti per la molecola. In particolare qualora il tessuto a più alta affinità non corrisponda al tessuto target, è possibile rilevare in questo un tasso inferiore in ragione dell’azione di sequestro esercitata dal distretto a più elevata affinità, dove comunque lo xenobiotico può risultare del tutto inattivo o, al contrario, esercitare effetti tossici da ritenersi indesiderati, che esulano dall’azione fondamentale della sostanza (Ingebrigtsen, 1991). Tra i fattori che condizionano l’affinità di un tessuto per un determinato xenobiotico si possono annoverare il pH e il contenuto lipidico del distretto considerato, ma anche la presenza di possibili siti di legame, in grado di influire notevolmente sulla penetrazione e la persistenza di un composto e/o dei suoi metaboliti e ciò può comportare un reperimento della molecola in particolari tessuti, come nel caso dell’ossitetraciclina, che permane nel tessuto osseo, della bacitracina, delle sulfodiazine e del trimetoprim, che si rendono reperibili nei tessuti ad elevato contenuto di melanina (Odense e Logan, 1974; Bergsjö et al., 1979; Ingebrigtsen et al., 1985; Höy et al., 1989; Ingebrigtsen et al., 1990). La presenza di uno strato adiposo può determinare in esso un accumulo di xenobiotici lipofili, con conseguente riduzione sia dell’attività che della tossicità della molecola. Al proposito va sottolineato come dimagramenti improvvisi, stati di anoressia o fenomeni lipolitici che spesso si associano negli animali ai periodi riproduttivi possono rendersi responsabili di una mobilizzazione del composto da tali tessuti di deposito che nel caso di sostanze tossiche, quali ad esempio i composti organoclorurati, può determinare la comparsa di una sintomatologia definita “pseudo acuta”. Le notevoli differenze esistenti fra le varie specie animali rende impossibile un’estrapolazione dei dati relativi al comportamento cinetico di una molecola ad una specie all’altra, che può essere oggetto di notevoli variazioni, come rilevato a carico della biodisponibilità dei PCBs nel merluzzo e nella trota (Ingebrigtsen et al., 1990; Ingebrigtsen, 1991). 44 Un ultimo aspetto in grado di influire indirettamente sulla distribuzione di uno xenobiotico è la temperatura dell’ambiente esterno, che nel caso delle specie ittiche, quali soggetti eterotermi, presenta rilevante importanza nel modificare la fluidità e la composizione delle membrane, con conseguente variazione delle capacità diffusive delle molecole e quindi influire sull’assorbimento, il metabolismo e l’escrezione di uno xenobiotico. Metabolismo Il metabolismo è un processo tramite il quale uno xenobiotico viene trasformato chimicamente per produrre prodotti di degradazione che per le loro caratteristiche chimico-fisiche sono più facilmente eliminabili in quanto di solito risultano meno lipofili e più polari, con conseguente minor affinità per i tessuti dell’organismo. I processi che portano alla formazione di composti maggiormente idrosolubili vengono generalmente suddivisi in due categorie: reazioni di fase I e reazioni di fase II. Tali reazioni si verificano principalmente a livello epatico, dove sono presenti numerosi sistemi enzimatici, per quanto anche altri organi (branchie, mucosa intestinale, reni) risultino caratterizzati da un’elevata capacità metabolica. A questo proposito va ricordato come la frazione di xenobiotico assorbita tramite le branchie vada incontro, ad esempio, ad un notevole abbattimento in sede renale, dove afferisce il sangue arterioso, ad opera di enzimi specificamente deputati ad un’attività degradativa (Ingebrigtsen, 1991). Le reazioni di fase I comprendono processi di ossidazione, idrolisi e riduzione dei composti, che comportano l’inserimento o la liberazione di gruppi -OH, -SH, -NH2 o –COOH, a loro volta sede di attuazione delle reazioni di fase II, di tipo coniugativo. Ancorché le reazioni di fase I trasformino in genere gli xenobiotici in metaboliti meno attivi, con conseguente riduzione dell’efficacia farmacologia o della tossicità (deattivazione/detossificazione), non va ignorato come l’attività metabolica dell’organismo possa esitare in un’attivazione del composto stesso (attivazione/tossificazione). Ne sono esempi il prontosil rosso, dal quale origina la sulfanilamide, il parathion, che per un processo di desolforilazione ossidativa viene trasformato nella vera molecola responsabile dell’attività insetticida (paroxon), o il fluoroacetato di sodio e la fluoracetamide che esplicano la loro tossicità dopo trasformazione in fluorocitrato. Le reazioni di ossidazione sono catalizzate da enzimi, le ossidasi a funzione mista (MFO), che per la loro attività necessitano di NADPH 45 ed ossigeno. Il NADPH riduce un costituente microsomiale, l’enzima ossidante P450, che in tale forma reagisce con l’ossigeno molecolare per formare un intermedio ossidato altamente reattivo, che interagisce con lo xenobiotico per generare un substrato idrossilato, il P450 ossidato ed acqua. L’ossidazione interessa gruppi chimici diversi, tra i quali vanno annoverati: Composti aromatici; Composti alifatici; Gruppi alchilici legati ad ossigeno o azoto; Gruppi amminici; Atomi di zolfo (desulfurazioni e sulfossidazioni) Le riduzioni si realizzano a livello microsomiale ed interessano reazioni di: Nitroriduzione. Queste portano alla riduzione dei nitrocomposti con formazioni delle rispettive amine e sono ad esempio responsabili dell’inattivazione del cloramfenicolo. Sono reazioni che si realizzano in condizioni di anaerobiosi e coinvolgono quali coenzimi il NADPH e il FAD. Azoriduzione. Queste operano una demolizione riduttiva degli azocomposti in amine. Ne è un esempio il loro intervento sul prontosil rosso che dà luogo a sulfanilamide. Dealogenazione riduttiva. Le reazioni di idrolisi sono particolarmente importanti per il metabolismo di xenobiotici caratterizzati da legami esterei (-COO) o amidici (-CONH). In linea di massima la rottura dei primi avviene più velocemente rispetto a quella dei secondi, ed è operata da enzimi presenti nel sangue, nel rene e nel fegato. A seguito delle reazioni di fase I, il composto può andare incontro alle reazioni di fase II o di coniugazione, che determinano la formazione di metaboliti finali altamente idrofili e quindi facilmente eliminabili. Le coniugazioni si realizzano con composti endogeni, quali l’acido glicuronico, la glicina, la cisteina, la metionina, i radicali solfato e acetico, la taurina, i glucosidi, e prevede la presenza di un nucleotide che attiva il coniugante o lo xenobiotico e di un enzima ad azione transferasica. Le reazioni sopra descritte sono state tutte riscontrate, con la sola eccezione della coniugazione degli acidi 46 carbossilici con la glicina, sostituita dalla taurina, nelle specie acquatiche (tab. 1), anche se non uniformemente diffuse, così che alcune di queste mancano ad esempio nei pesci, altre nei crostacei (Roubal et al., 1977; Allen et al., 1979; James et al., 1979; James, 1980; Layiwola e Linnecar, 1981; Gmur e Varanasi, 1982; Andersson et al., 1983; Layiwola et al., 1983; Ramage e Nimmo, 1983; Dierickx, 1985; Förlin e Andersson, 1985; Andersson e Koivusaari, 1986; Guarino, 1986). 47 Tab. 5 –Reazioni di biotrasformazione individuate nei pesci e nei crostacei (Kleinow et al., 1998) Fase I Odealchilazione Ndealchilazione Ossidazione Fase II Specie Fathead minnow, trota arcobaleno Carpa, spiny lobster, lobster Mudsucker, sculpin, coho salmon, trota arcobaleno, carpa, mosquito fish, spiny lobster, blue crab Idrolisi Pesce gatto, bluegill, trota arcobaleno, pinfish, blu crab, mosquito fish Idratazione Sogliola, sheepshead, spiny lobster, blu crab Acetilazione Coniugazione glutatione Coniugazione taurina Solfoconiugazione Squalo, trota pesce gatto arcobaleno, con Carpa con Sogliola, pesce gatto, trota Pesce rosso, lobster Glicuronoconiugazione Trota arcobaleno, pesce rosso Glucosideconiugazione Spiny lobster, lobster In particolare, la glicuronazione prevede l’attivazione dell’acido glicuronico (intermedio del metabolismo glucidico, GA) da parte dell’UDP, per formare UDPGA, e viene catalizzata da enzimi citosolici epatici. Una volta attivato l’acido glicuronico è oggetto di trasferimento sullo xenobiotico ad opera della glicuronil-transferasi. I complessi che ne derivano vengono escreti a livello renale o biliare, ma in quest’ultimo caso possono subire un nuovo processodi idrolisi ad opera di - glicuronidasi intestinali, così da essere 48 nuovamente riassorbiti come parent- compound, dando origine a quello che viene comunemente definito un circolo entero-epatico. Tale reazione pare essere completamente assente nei crostacei, che non presentano attività UDP-glicuronil-transferasica, e nei quali la glicuronazione viene sostituita da processi di coniugazione con glucosio, operati dell’enzima UDP-glucosil-transferasi (James, 1989; Schell e James, 1989). La solfoconiugazione è particolarmente interessata nella biotrasformazione di fenoli ed alcoli alifatici. La reazione, che avviene a livello citosolico, coinvolge quale donatore di solfati la 3’fosfoadenosina-5’-fosfosolfato (PAPS) e quale transferasi la solfotransferasi. Il gruppo SO3- del PAPS reagisce velocemente con lo xenobiotico, liberando ADP; il processo è saturabile trova limitazione nella disponibilità di cisteina, che risulta essere il principale donatore di zolfo, ed è assente nella trota arcobaleno (Glickman et al., 1977; Parker et al., 1981; Andersson et al., 1983). La reazione di acetilazione si svolge in due fasi: nella prima si forma l’acetilcoenzima A, nella seconda l’amino-gruppo presente sul composto si lega all’enzima acetilato, con formazione di una molecola altamente solubile; questa in particolare non sembra essere una via metabolica di rilevante importanza per i crostacei, nei quali si è riscontrata la formazione di piccoli quantitativi di derivati acetilati (James e Barron, 1988) Il tipo e l’importanza dei processi metabolici che interessano uno xenobiotico risultano strettamente dipendenti dalla struttura chimica del composto e dalla sua affinità per il sistema enzimatico (Ingebrigtsen, 1991). Parimenti le attività metaboliche di un organismo risultano condizionate in primo luogo dalla specie del soggetto considerato e secondariamente dal suo stato nutrizionale, di salute e dal suo sesso. Per quanto studi condotti nei mammiferi dimostrino che stati carenziali di vitamine, minerali o proteine risultino in grado di indurre alterazioni importanti nell’efficienza delle reazioni metaboliche, piuttosto esigui risultano i dati relativi ad effetti analoghi nelle specie acquatiche, e consistono in rilievi effettuati in merito a variazioni delle reazioni enzimatiche sia fase I che di fase II a seguito di leggere modificazioni della dieta degli animali utilizzati nelle indagini sperimentali (Ankley e Reinert, 1988). 49 La presenza di stati patologici, in particolare a carico del fegato e del rene, può deprimere l’attività metabolica, dal momento che questi organi rappresentano sedi elettive dei processi di trasformazione; al proposito va ricordato come la necrosi epatica che consegue all’anemia infettiva del salmone comporti, ad esempio, una notevole riduzione dell’attività di alcuni sistemi enzimatici epatici (Ingebrigtsen, 1991). Differenze nelle capacità metaboliche appaiono correlate anche al sesso dei soggetti appartenenti a numerose specie ittiche, soprattutto per quanto concerne l’attività degli enzimi di fase I nel periodo della riproduzione (Stegeman e Chevion, 1980; Koivusaari et al., 1981; Andresson, 1990). Parimenti va altresì ricordato un certo effetto inibitore esplicato dagli ormoni sessuali sui fenomeni di induzione enzimatica che conseguono l’esposizione a particolari induttori (Vodicnik e Lech, 1983). La temperatura dell’ambiente esterno può modulare in maniera più o meno marcata i processi metabolici che avvengono in specie pochiloterme quali sono i pesci. In linea di massima è dato osservare come la massima attività degli enzimi di fase I si esplichi per temperature generalmente inferiori a quelle delineate per lo stesso fenomeno nei mammiferi (Gurumurthy e Mannering, 1985). Gli organismi ad habitat nei climi temperati sono in genere soggetti a maggiori fluttuazioni della temperatura esterna e, conseguentemente, di quella interna; in queste specie si è assistito allo sviluppo di meccanismi adattativi in grado di modulare l’attività enzimatica di fase I, con la finalità di mantenere velocità costanti di reazione indipendentemente dalla temperatura ambientale esterna. A titolo esemplificativo va ricordato come gli enzimi di fase I della trota presentino una la stessa velocità di reazione in esemplari acclimatati alla temperatura di 5°C o di 20°C (Stegeman, 1979; Koivusaari, 1983; Kleinow et al., 1987). Al contrario non sembrano viceversa esistere meccanismi compensatori per quanto riguarda gli enzimi di fase II (Koivussari, 1983; Andersson e Koivussari, 1985). Con il termine di induzione enzimatica si intende l’aumento QUANTITATIVO, e non qualitativo, di determinati sistemi ad attività metabolica che consegue all’esposizione ad un determinato xenobiotico. Gli induttori vengono in genere suddivisi in due categorie, quelli tipo Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA) e quelli tipo Fenobarbitale (FB), che si dimostrano in grado di esplicare la loro attività su differenti sistemi enzimatici spesso oggetto però di sovrapposizione o di integrazione lungo le vie metaboliche (Ingebrigtsen, 1991). 50 Anche il fenomeno dell’induzione enzimatica sembra risentire della temperatura ambientale, poiché ad un decremento di questa è possibile assistere ad un aumento del tempo necessario all’instaurarsi del processo (Stegeman, 1979; Andersson e Koivusaari, 1985). La presenza di induttori enzimatici nell’ambiente di vita degli organismi acquatici può ovviamente modificarne il metabolismo non solo nei confronti degli xenobiotici, ma anche di composti endogeni in grado di impegnare gli stessi sistemi enzimatici. Al proposito va comunque ricordato il mancato riscontro nelle specie acquatiche di induttori di tipo FB, quando invece piuttosto accentuata risulta l’induzione di tipo IPA, sia che investa enzimi di fase I che di fase II (Andersson et al., 1985; Kleinow et al., 1987; Stegeman e KlopperSams, 1987). A fronte di una marcata influenza sui processi metabolici esercitata nei mammiferi dagli agenti stressanti, nei pesci non esistono al momento attuale evidenti dimostrazioni al proposito (Ingebrigtsen, 1991). Escrezione Sia come molecola inalterata che come prodotto di degradazione metabolica gli xenobiotici assunti da un organismo vanno incontro a fenomeni escretivi, che ne determinano un allontanamento definitivo. Nei mammiferi la principale via d’escrezione è rappresentata dal rene e tramite l’urina vengono allontanate molecole di piccole dimensioni e fortemente idrosolubili come risultato di processi che investono la filtrazione glomerulare, la secrezione e il riassorbimento tubulare. Accanto a questa va ricordato anche l’allontanamento con la bile che si realizza per composti con peso molecolare superiore a 325. Relativamente alle specie ittiche una via di escrezione molto importante è rappresentata da quella branchiale, che comporta una diffusione passiva dal flusso sanguigno all’acqua (Ingebrigtsen, 1991). I meccanismi coinvolti nei processi escretivi sono analoghi a quelli descritti per l’assorbimento, ma si realizzano ovviamente in direzione inversa a questa in quanto comportano un passaggio dei composti da eliminare dall’interno verso l’esterno dell’organismo. Le proprietà fisico-chimiche del composto possono interferire sui processi escretivi in maniera diretta: la stessa struttura chimica della molecola può modificare la capacità di utilizzare i meccanismi attivi di trasporto di fegato e rene. 51 La filtrazione glomerulare dipende dalla grandezza delle molecole, mentre il riassorbimento tubulare passivo è influenzato dal valore del pKa, che regola il grado della sua ionizzazione nella cosiddetta urina primaria. Quest’ultimo parametro condiziona altresì l’escrezione a livello branchiale. Infine, il complesso delle proprietà fisico-chimiche del composto, influendo sulla sua distribuzione e sul suo metabolismo, agisce indirettamente sull’entità della rapidità dell’eliminazione (Ingebrigtsen, 1991). La contemporanea presenza nell’organismo di composti che utilizzano gli stessi meccanismi di escrezione epatica e/o renale può modificare l’eliminazione di uno xenobiotico. Ne è un esempio l’eliminazione attraverso il rene della penicillina o del benzo(a)pirene, che viene inibita dal probenecid, in grado di impegnare competitivamente l’efficienza del sistema di trasporto ionico a livello dei tubuli renali (Pritchard e Bend, 1984). L’eventuale presenza di patologie a carico degli organi preposti al metabolismo e/o all’escrezione può ridurre la velocità e l’intensità dell’eliminazione degli xenobiotici, per un’alterazione della funzionalità dei sistemi interessati; analogamente uno stato di denutrizione che riduca le riserve energetiche dell’organismo può diminuire l’efficienza dei sistemi di trasporto attivo che presuppongono una richiesta energetica (Ingebrigtsen, 1991). Un forte legame con le proteine plasmatiche impedisce, per ingombro sterico, la filtrazione glomerulare e quindi l’escrezione; una rapida eliminazione tramite l’urina viene quindi favorita da un debole legame con le proteine plasmatiche, come dimostrato dall’escrezione dell’acido benzoico nel pesce gatto (Plakas e James, 1990). L’instaurarsi di circoli collaterali, ed in particolare di quello enteroepatico, che interessa i glicurono-complessi, può ritardare l’allontanamento degli xenobiotici dall’organismo, in quanto può favorire un riassorbimento intestinale del parent compound (Layiwola et al., 1983). Notevoli variazioni nell’escrezione degli xenobiotici possono derivare anche da una diversità di specie, a seguito di differenze degli aspetti biochimici e fisiologici che le caratterizzano. Ancorché nei mammiferi sia nota l’influenza esplicata dal pH urinario sull’escrezione degli xenobiotici, analoghi rilievi non sono al momento disponibili per quanto concerne le specie ittiche, ma stante l’analogia tra mammiferi e pesci per quanto riguarda i meccanismi di base responsabili dell’eliminazione urinaria, è 52 possibile ipotizzare che anche in questi ultimi il pH delle urine possa interferire sull’allontanamento dei farmaci (Ingebrigtsen, 1991). I principali parametri ambientali che possono modificare l’escrezione degli xenobiotici sono rappresentati dalla salinità dell’acqua e dalla sua temperatura. L’elevata produzione di urina da parte dei pesci d’acqua dolce, legata ad una minor salinità dell’acqua e quindi ad un suo maggior assorbimento per osmosi, gioca un ruolo favorevole per quanto concerne l’eliminazione degli xenobiotici rispetto alle specie marine, nelle quali la produzione di urina è pressochè nulla (Schmidt-Nielsen, 1983). Parimenti è stata rilevata una certa dipendenza dell’escrezione degli xenobiotici dalla temperatura dell’acqua, che non solo modula il metabolismo, favorendo la produzione di composti più facilmente eliminabili, ma agisce anche sui meccanismi di escrezione attiva, interferendo con i processi enzimatici preposti alla produzione di ATP (Björlund e Bylund, 1990; Ingebrigtsen, 1991). Parametri farmacocinetici Curva di disponibilità La curva che descrive l’andamento delle concentrazioni ematiche di uno xenobiotico in funzione del tempo è definita come curva di disponibilità. A seguito di somministrazione intravenosa la curva presenta un andamento bifasico che rappresenta inizialmente i processi di rimescolamento nel torrente circolatorio e di distribuzione dello xenobiotico, in grado di determinare una brusca flessione non attribuibile comunque a fenomeni di eliminazione. Successivamente, una volta raggiunto uno pseudo equilibrio di distribuzione, la pendenza della curva diminuisce notevolmente e il decremento delle concentrazioni ematiche è quasi esclusivamente funzione dei processi di eliminazione, intesi come metabolismo ed escrezione (Baggot, 1999). La stessa curva è per altro divisibile in porzioni quasi rettilinee, che consentono di estrapolare al tempo 0 il valore (in unità di concentrazione ed indicato con la lettera A) della fase di distribuzione e di quella di eliminazione (indicata con B). Rappresentando rispettivamente con -/2.303 e con -/2.303 le pendenze delle rette (equivalenti alla velocità di distribuzione e di eliminazione), è possibile esprimere matematicamente l’equazione della curva di disponibilità, che consente di calcolare la concentrazione di xenobiotico nel sangue (Cp) al momento t: 2.303 = base del logaritmo naturale; = costante di velocità della fase di distribuzione; = costante di velocità della fase di eliminazione. 53 Cp= Ae-t + Be-t Ponendo t=0 è possibile calcolare la concentrazione plasmatica iniziale dello xenobiotico (C°p), che corrisponde ad A + B. Tempo di dimezzamento (t1/2) Per tempo di dimezzamento o emivita di uno xenobiotico si intende il tempo necessario affinché venga eliminata metà della sostanza somministrata ed è espresso matematicamente dalla seguente formula: t1/2= 0.693/ Affinché lo xenobiotico abbia una breve emivita, è necessaria che sia eliminato velocemente, cioè che abbia un valore elevato. Graficamente è possibile stimare il valore di t1/2 riportando su scala semilogaritmica l’andamento della concentrazione plasmatica dello xenobiotico (scala logaritmica) in funzione del tempo (scala lineare). Il valore di emivita viene calcolato misurando sul grafico il tempo necessario affinché la concentrazione plasmatica si dimezzi (Baggot, 1999). Il tempo di emivita viene sperimentalmente definito valutando la concentrazione plasmatica di uno xenobiotico a seguito di iniezione endovenosa, che consente di ottenere immediatamente la massima concentrazione al tempo 0 di indagine. La conoscenza del valore di t1/2 è particolarmente importante in campo farmacologico, in quanto questo parametro può condizionare la durata dell’effetto di un farmaco e può consentire di valutarne gli intervalli di somministrazione al fine di mantenerne l’efficacia terapeutica (Baggot, 1999). Tutti quei fattori che possono modificare la funzionalità epatica o renale, siano essi fisiologici o patologici, variano l’emivita degli xenobiotici. Tra questi si possono annoverare il ridotto sviluppo dei sistemi enzimatici e della funzionalità renale nei soggetti giovani, le interazioni con i meccanismi di trasporto dipendenti da carrier, lo spiazzamento dal legame con le proteine plasmatiche e i fenomeni di induzione, nonché le differenze interspecifiche, legate alla diversa fisiologia: il pH dell’urina (variabile da specie a specie) può ad esempio modificare l’escrezione dello xenobiotico, aumentandone o riducendone l’emivita. 54 Volume apparente di distribuzione (Vd(area)) Il volume apparente di distribuzione descrive il grado di distribuzione di uno xenobiotico e serve ad indicare una costante di proporzionalità fra concentrazione plasmatica e quantità totale di sostanza presente nell’organismo in ogni momento successivo al raggiungimento di un equilibrio di pseudo distribuzione (Baggot, 1999). Il volume di distribuzione (Vd(area), espresso in ml/kg) viene anche definito come il volume di liquido necessario a contenere la quantità totale di xenobiotico presente nell’organismo, ipotizzando una sua distribuzione uniforme ad una concentrazione equivalente a quella plasmatica ed è espresso matematicamente dalle seguenti formule, tra loro alternative: Vd(area)= dose/AUC() dove AUC = misura dell’area totale sotto la concentrazioni in funzione del tempo, da t=0 a t=. curva delle Vd(area)= AB(t)/Cp dove AB(t) = quantità totale di farmaco al tempo t e Cp = concentrazione plasmatica. Il volume di distribuzione, pur fornendo una stima dell’entità della distribuzione di uno xenobiotico, non può discriminare tra distribuzione omogenea e selettiva dello stesso; per avere un quadro più preciso della distribuzione reale della sostanza si rende quindi necessario conoscere non solo Vd, ma anche le caratteristiche chimico-fisiche della stessa: una sostanza lipofila avrà ad esempio un volume di distribuzione maggiore in un animale grasso, nel quale il tessuto adiposo sequestra dal circolo parte della quantità presente, rispetto ad uno magro. Conoscere il volume di distribuzione consente, dal punto di vista terapeutico, di calcolare la dose da somministrare ad un soggetto al fine di ottenere una certa concentrazione plasmatica: dose = Cp(terapeutica) x Vd(area) Clearance Con il termine di clearance (ClB) si intende il volume di plasma ripulito da tutto lo xenobiotico nell’unità di tempo (espresso in ml/min per kg); tale valore può essere calcolato dividendo la dose 55 di xenobiotico disponibile per l’area sotto la curva di concentrazione plasmatica nel tempo: ClB= dose/AUC= Vd(area)= (0.693/t1/2) Vd(area) Dalla formula precedente appare evidente come la clearance e il valore di t1/2 non siano assolutamente equivalenti; due xenobiotici caratterizzati dallo stesso valore di ClB possono infatti presentare Vd(area) diversi (a causa di differenti caratteristiche chimico-fisiche, ad esempio) e quindi presentare valori di emivita diversi: a parità di clerance, tanto minore è il volume di distribuzione tanto più breve è l’emivita (Baggot, 1999). 56 BIOMARKERS Col termine di BIOMARKER si intende “qualunque risposta biologica ad un composto chimico a livello di organismo od inferiore che dimostra uno spostamento dallo stato normale” (Walker et al., 2001). I biomarkers prendono quindi in considerazione variazioni a livello biochimico, fisiologico, istologico, morfologico e comportamentale. Le variazioni a livello superiore (popolazione, comunità ed ecosistema) sono invece considerate come BIOINDICATORI, perché non evidenziano variazioni fisiologiche, ma “indicano” uno spostamento dal normale a livello organizzativo elevato, senza collegarlo (se non in rari casi) a tossici precisi: è come se dicessero “c’è un’alterazione, ma non so dirvi il colpevole”. Questo perché man mano che aumenta il livello di complessità (dalla biochimica agli ecosistemi), pur aumentando l’importanza dal punto di vista ecologico (per l’ambiente la perdita di un individuo è meno “importante” rispetto alla perdita di una specie o all’alterazione di un ecosistema), diviene sempre meno facile collegare l’alterazione ad un preciso composto e viceversa (fig. 5) Alta specificità Test biochimici Bassa importanza ecologica Fisiologia dell’organismo Alta importanza ecologica Cambiamenti nelle popolazioni Cambiamenti nelle comunità Bassa specificità Fig. 5- Rapporto tra complessità organizzativa del sistema valutato e specificità del biomarker. 57 Per ogni livello di organizzazione esistono biomarkers che identificano e quantificano l’effetto degli inquinanti. Alcuni esempi di questi biomarkers sono riportati in tab. 6. La diossina (TCDD) interagisce ad esempio a livello recettoriale con il recettore acrilico (Ah) per gli estrogeni, al pari del nonilfenolo. A livello biochimico molti composti inducono le monoossigenasi e numerosi composti ad azione estrogenica inducono la sintesi di vitellogenina (VTG), proteina dell’uovo tipica delle specie ovipare. L’assottigliamento dello spessore del guscio indotto dagli organoclorurati è utilizzato come biomarker a livello fisiologico. Le alterazioni comportamentali e della crescita sono infine indice di effetti a livello di individuo. Livello di organizzazione Esempio di biomarker Legame al recettore TCDD col recettore Ah Nonilfenolo col recettore degli estrogeni Risposta biochimica Induzione delle monoossigenasi Formazione di vitellogenina Alterazioni fisiologiche Assottigliamento del guscio Femminizzazione degli embrioni Effetti sull’individuo Cambiamenti comportamentali Modificazioni della crescita Tab. 6- Biomarkers ai diversi livelli di organizzazione. I biomarkers vengono classificati in: BIOMARKERS DI ESPOSIZIONE, che indicano l’esposizione dell’organismo ad uno xenobiotico, senza dare indicazione del possibile effetto nocivo; BIOMARKERS DI EFFETTO, che oltre a dimostrare l’esposizione al contaminante ne valuta l’effetto avverso. 58 L’organismo è in grado di reagire all’esposizione a xenobiotici in modo diverso in funzione dell’intensità di esposizione (fig. 6): per esposizioni a livelli bassi l’organismo riesce a mantenere l’omeostasi e la sua normale funzionalità. Quando l’esposizione aumenta intervengono meccanismi di compensazione che riportano a livelli quasi normali le funzionalità organiche, ma per fare questo è sottoposto a stress. A livelli ancora superiori si manifesta il danno, che può essere reversibile (inibizione di alcuni enzimi) o irreversibile (induzione di mutazioni geniche). St at o di sal ut e Ma lat tia No n cu ra bil e r Cu ra bil e Stressato c h Reversibile Sano Omeostasi Irreversibile Compensazione Morte Non-compensazione h: l’organismo inizia ad essere stressato c: l’organismo non riesce più a compensare r: i cambiamenti sono irreversibili Fig. 6- Risposta dell’organismo all’esposizione a xenobiotici. 59 I biomarkers possono essere altamente specifici (la deidratasi dell’acido delta aminolevunico- ALAD- è inibita solo dal piombo) o non esserlo per nulla (il sistema immunitario è inibito da numerosi composti). In tab. 7 sono riportati i biomarkers in ordine DECRESCENTE di specificità; a prescindere dalla loro specificità, tutti i biomarkers hanno un valore nello stimare il rischio da xenobiotici. La valutazione dell’attività della ALAD nel sangue degli anatidi consente di stabilire con certezza il pericolo per i soggetti studiati, ma non fornisce informazioni sull’eventuale esposizione ad altri inquinanti. Recenti studi hanno invece evidenziato che l’inibizione dell’acetilcolinesterasi, da sempre ritenuta marcatore specifico dell’esposizione ad insetticidi organofosforici e carbamati, viene indotta anche da alcuni detergenti e metalli. Le monoossigenasi sono enzimi indotti da numerosi xenobiotici e possono quindi essere considerate marcatori di esposizione estremamente validi e sensibili, ma sicuramente NON SPECIFICI, per cui possono essere utilizzati come “prescreening”, cui devono seguire indagini più specifiche. Biomarker Inquinante Inibizione della ALAD Piombo Induzione di metallotioneina Cadmio Assottigliamento del guscio DDT, DDE, Dicofol Inibizione della AChE OPs, carbamati Inibizione della coagulazione Rodenticidi Induzione delle monoossigenasi OCs, PAHs Profilo delle porfirine OCs Profilo del retinolo OCs Addotti al DNA e all’emoglobina PAHs Induzione di vitellogenina Sostanze estrogeniche Enzimi sierici Metalli, OCs, PAHs Proteine dello stress Metalli, OCs Risposta immune Metalli, OCs, PAHs Tab. 7- Biomarkers in ordine decrescente di SPECIFICITA’ per lo xenobiotico. 60 Tramite i biomarkers è possibile mettere in relazione l’intensità del cambiamento della risposta biologica misurata con il danno che essa causa, in modo da poter successivamente valutare il costo di eventuali interventi di riparazione dei danni stessi (SPECIFICITA’). In tab. 8 sono riportati gli stessi biomarkers di tab. 7, ma elencati in ordine DECRESCENTE di specificità. In questo caso l’assottigliamento del guscio delle uova è facilmente quantificabile e collegabile al rischio per le popolazioni: una riduzione superiore al 16-18% è infatti associata ad un declino nelle popolazioni. Biomarker Livello di organizzazione Assottigliamento del guscio Animale intatto-popolazione Inibizione AChE Organo-animale intatto Inibizione ALAD Organo-animale intatto Inibizione coagulazione Animale intatto-popolazione Inibizione della coagulazione Organo-animale intatto Induzione delle monoossigenasi Organi-popolazione Depressione del retinolo e della tirosina plasmatici Integrità del DNA Organo Risposta immune Organo Addotti al DNA e all’emoglobina Organo Altri enzimi Organo Profilo delle porfirine Organo Induzione della vitellogenina Organo-animale intatto Induzione delle metallotioneine Organo Proteine dello stress Organo Organo Tab. 8- Biomarkers in ordine decrescente di SPECIFICITA’ per l’effetto. Nonostante non sempre la risposta di un biomarker sia collegabile ad un effetto nocivo, quel biomarker mantiene la sua validità, in quanto innanzitutto identifica un’esposizione sufficiente a 61 determinare un effetto e poi perché una sua alterazione può essere una valida indicazione della necessità di ulteriori indagini, che consentano di identificare e quantificare con più precisione l’effetto. ESEMPI DI BIOMARKERS ESTERASI Viene valutata l’attività dell’acetilcolinesterasi, che rappresenta il sito d’azione degli organofosforici e dei carbamati e il cui grado di inibizione è correlabile all’effetto del tossico. Sebbene sia in linea teorica più corretto quantificare il tossico, si preferisce utilizzare la valutazione dell’inibizione enzimatica perché questa è meno problematica della ricerca degli organofosforici. Inoltre l’attività enzimatica è un parametro più stabile, sebbene possa essere ripristinata dopo la morte dell’animale (per distacco dell’insetticida dall’enzima), rispetto alla presenza di organofosforici, che vanno incontro a metabolismo e degradazione più velocemente e sono quindi meno affidabili come markers. MONOOSSIGENASI Il sistema delle monoossigenasi si compone di due enzimi: Citocromo Flavoproteina (NADPH-citocromo riduttasi) Sono state identificate 750nisoforme di monoossigenasi, che sono state suddivise in 74 famiglie diverse di geni. Esistono due diversi tipi di citocromo P450, quelli di classe I e quelli di classe II, che governano reazioni diverse. P450 CLASSE I Reazioni di N-e S- ossidazione Etossiresorufin- O- deetilasi (EROD) Benzo(a)pirene idrossilasi (BaPH) Aril-idrocarburi idrossilasi (AAH) P450 CLASSE II Idrossilazioni aromatiche Idrossilazioni acicliche Dealchilazioni Deaminazioni 62 Questi gruppi di enzimi sono indotti da numerosi composti, tra cui pesticidi organoclorurati, PCBs, PCDFs e le diossine, ma anche organofosforici, piretrine e PAHs. I primi studi condotti nei pesci relativi alle MFOs risalgono agli anni ’70 e riguardavano l’utilizzo dei pesci marini quali monitor di inquinamento da petrolio. Successivamente si valutò l’induzione delle AAH in pesci che vivevano vicino ai reflui della città di Los Angeles o della EROD da parte di reflui di cartiera. In quest’ultimo caso l’induzione enzimatica si è rivelato un marker estremamente sensibile per questo tipo di inquinamento. Il sistema delle MFOs è estremamente sensibile e quindi consente di evidenziare livelli di inquinamento anche molto bassi, ma NON E’ SPECIFICO, non consente quindi di individuare la CAUSA dell’induzione. L’estrema variabilità dell’attività enzimatica, anche basale (legata a fattori genetici, di temperatura e di alimentazione) impone il reperimento di un campione molto alto, in modo da poter correggere (statisticamente) la variabilità stessa; bisogna poi porre grande attenzione nella scelta di quelli che sono i valori basali, anche in considerazione del fatto che anche sostanze naturali (e non) possono determinare induzione di questi enzimi. MATERIALE GENETICO In questo caso vengono valutate le modificazioni indotte dagli xenobiotici a livello di materiale genetico (effetti genotossici).tali modificazioni sono a vario livello, ance in funzione dello stadio di avanzamento del processo neoplastico. FORMAZIONE DI ADDOTTI Gli addotti sono complessi che lo xenobiotico (o suoi metaboliti) forma con il materiale genetico, cui si lega. La formazione di questi complessi altera la duplicazione del materiale genetico, che può quindi essere modificato. MODIFICAZIONE SECONDARIA DEL DNA In questa fase si possono osservare modificazioni strutturali come la rottura dei filamenti o un aumento della frequenza di riparazione, che indicano una alterazione del DNA. FISSAZIONE DELLE MODIFICAZIONI 63 Se le modificazioni strutturali citate precedentemente vengono fissate si raggiunge il terzo stadio della progressione neoplastica. A questo stadio si manifesta una funzionalità alterata delle cellule interessate. FORMAZIONE DI DNA MUTANTE Questo processo si attua quando la cellula va incontro a divisione, che “fissa” definitivamente l’alterazione e la trasmette alle cellule figlie; inoltre viene definitivamente fissata anche l’alterazione nella funzionalità dei geni. I sistemi utilizzati per la ricerca degli addotti (markers precoci di danno) sono: Marcatura radioattiva (valuta il grado di legami covalenti) Utilizzo di tecniche specifiche che identificano un addotto su 108 nucleotidi (valuta i legami specifici ad un particolare composto) PCR, che amplificando il DNA consente di individuare con più facilità gli effetti genotossici Altri sistemi utilizzabili sono: La rottura dei cromosomi Lo scambio di cromatidi fratelli L’aumento dell’ìncidenza di tumori (facilmente valutabile nei pesci perchè presentano tumori esterni) PORFIRINE E SINTESI DELL’EME Le porfirine sono prodotti della biosintesi dell’eme, i cui livelli sono alterati dall’esposizione a organoclorurati e sono inibiti dall’esposizione al piombo. 64 Succinil Co-A + glicina Delta aminolevulinato sintetasi Acido aminolevulinico Delta aminolevulinato deidrasi PORFOBILINOGENO Pb-stimolazione Pb-inibizione UROPORFIRINOGENO III Urogenasi COPROPORFIRINOGENO III Pb-inibizione Eme-sintetasi PROTOPORFIRINA IX Pb-inibizione Coprogenasi Ferro EME EMOGLOBINA Globina Schema dell’azione del piombo sulla sintesi dell’eme. 65 Gli organoclorurati agiscono con meccanismo non noto, che probabilmente coinvolge il blocco della UROPORFIRINOGENO DECARBOSSILASI. Si ritiene che anche i PCBs abbiano un effetto analogo Il piombo agisce inibendo specificatamente la ALAD, che risulta un marker altamente specifico. Inoltre il marker è dose-dipendente e specifico per un singolo xenobiotico e NON PREVEDE LA SOPPRESSIONE DELL’ANIMALE (marker NON DISTRUTTIVO). INDUZIONE DI VITELLOGENINA (VTG) La vitellogenina è una proteina dell’uovo SPECIFICA DELLE FEMMINE in condizioni naturali. Esistono però molecole che possono interferire con i recettori per gli estrogeni (presenti anche nei maschi), inducendo in varie specie animali la sintesi da parte di individui di sesso maschile di VTG. La presenta di questa proteina in soggetti maschi è quindi un valido marker per effetti di disendocrinia, relazionabile alla dose, ma non alla specifica sostanza chimica. 66 RISK ASSESSMENT Il RISK ASSESSMENT si interessa della valutazione e della caratterizzazione della probabilità che si manifestino effetti nocivi per l’ambiente a seguito di attività umane. Per la valutazione del rischio ecologico richiede: 1. Chiari scopi (bisogna sapere esattamente cosa si vuole vedere) 2. Metodi probabilistici (devono essere disponibili metodi statistici che permettano di descrivere quanto definito) 3. Procedure ed ipotesi chiare 4. Attenzione sui metodi quantitativi e sui risultati Esiste uno schema procedurale che descrive la sequenza logica che porta alla definizione del rischio, come illustrato nella figura seguente. Identificazione del rischio Definizione dell’esposizione Definizione dell’effetto Caratterizzazione del rischio Classificazione del rischio Analisi costi/benefici Riduzione del rischio Monitoraggio 67 Nella prima fase del risk assessment, che porta alla CARATTERIZZAZIONE DEL RISCHIO, vengono definiti due parametri, il PEC (Predicted Environmental Concentration) e il PNEC (Predicted No Effect Concentration). Valutazione dei dati Set di dati Valutazione del rischio Valutazione dell’esposizione Dati di tossicità nelle singole specie Livello di emissione Estrapolazione Distribuzione PNEC PEC Caratterizzazione del rischio PEC/PNEC Viene valutata l’esposizione definendo i livelli di emissione, da cui si ricava, conoscendo la distribuzione ambientale dello xenobiotico, il PEC. 68 Nella valutazione del rischio si parte dai dati di tossicità nelle singole specie per ottenere, per estrapolazione, il PNEC (riferito all’ambiente o all’uomo). Nella valutazione del rischiosi devono innanzitutto considerare i dati disponibili, per comprendere se lo xenobiotico è o meno pericoloso. Fattore di valutazione della pericolosità è il rapporto PEC/PNEC, che deve essere <1 per poter dire che il composto NON E’ PERICOLOSO: se il rapporto è inferiore a 1 la concentrazione ambientale (PEC) è inferiore ai valori tossici (PNEC) definiti tramite gli studi di tossicità. Se invece il rapporto è >1 la concentrazione ambientale è superiore ai valori tossici, ed è quindi presumibile che vi sia un rischio per l’ambiente e/o l’uomo. Si rendono allora necessari ulteriori studi per definire meglio la pericolosità della sostanza e rivalutarne il rapporto PEC/PNEC. Dati aggiuntivi Dati di base Valutazione dei rischio Risultati di base PEC/PNEC <1 No Dati migliorati Valutazione dei rischio Risultati Livello X Report di fase I Sì Ricerche aggiuntive No Sì PEC/PNEC <1 No I dati migliori? Sì STOP FASE 1 Gestione del rischio FASE 2 69 IDENTIFICAZIONE DELL’EFFETTO (PNEC) Gli effetti avversi vengono valutati sulla base dei risultati di studi ecotossicologici svolti in ambiente acquatico, terrestre e nel compartimento aereo, su una valutazione del potenziale di bioaccumulo, del passaggio dello xenobiotico lungo la catena trofica e gli effetti sul sistema ecologico. Va poi valutato anche il rapporto dose-effetto, che deve definire la concentrazione di sostanza al di sotto della quale non si attendono effetti avversi nel compartimento ambientale in esame. Da tutto questo si ricava il PNEC, definito come il LIVELLO PER IL QUALE NON SI OSSERVANO EFFETTI NELL’ECOSISTEMA CONSIDERATO. Se sono disponibili più di 4 PNEC ricavati dagli studi descritti precedentemente si può valutare direttamente lo PNEC per l’ambiente; se sono disponibili meno di 4 PNEC si applicano fattori di correzione (o sicurezza) ai dati disponibili, pari a 10 se sono disponibili 3 NOEC (No Observed Effect Concentration), 100 per 1-2 NOEC, 1000 per 3 LC50 (Dose Letale 50), e si sceglie il valore corretto più basso per la valutazione del PNEC, mentre viene scartato un set di dati che si basa su 1-2 LC50. 70 PIU’ DI 4 PNEC MENO DI 4 PNEC 3 NOEC 1-2 NOEC 3 LC50 10 100 1000 1-2 LC50 1000 Il più basso PNEC ecosistema 71 IDENTIFICAZIONE DELL’ESPOSIZIONE Vengono determinate le emissioni, le vie e la velocità di movimento della sostanza e la sua trasformazione/i per stimare la concentrazione a cui può essere esposto il compartimento ambientale. Dai dati disponibili si ricavano la PEC e la PED (Predicted Exposure Dose). PRODOTTI Prodotti per il consumatore Emissioni Distribuzione nell’ambiente Alimenti per l’uomo Concentrazioni di esposizione CARATTERIZZAZIONE DEL RISCHIO Per caratterizzare il rischio viene calcolato il rapporto PEC/PNEC, considerando valori di PEC e PNEC di varia natura: Ambiente acquatico Ambiente terrestre Avvelenamento secondario Esposizione umana indiretta Sulla base del rapporto PEC/PNEC il prodotto viene ritenuto “sicuro”, altrimenti viene rivalutato ed eventualmente sottoposto a GESTIONE DEL RISCHIO. Il rischio è per definizione il prodotto di un pericolo per un’esposizione; se c’è pericolo ma non c’è esposizione non c’è conseguentemente rischio e altrettanto vale per il contrario (a). Nella gestione del rischio si mettono in atto azioni correttive volte a ridurre il rischio, cercando di ridurre il pericolo (b) o l’esposizione (c). 72 PERICOLO x ESPOSIZIONE a) + = RISCHIO = AZIONE CORRETTIVA b) + = c) + = 73 La gestione del rischio comporta una serie di passaggi che non hanno più solo a che fare con gli aspetti scientifici ed ecotossicologici: la gestione del rischio è una”scienza” anche POLITICA ED ECONOMICA. Classificazione del rischio Analisi costi/benefici Riduzione del rischio Monitoraggio Perla riduzione del rischio si identifica quale punto del ciclo vitale della sostanza produce il rischio di cui ci si occupa; si identificano poi le opzioni che permettono di ridurre il rischio, si identificano i mezzi che consentono di attuare queste soluzioni; si scelgono i mezzi più appropriati in funzione della loro efficienza, praticità, impatto economico e possibilità di monitoraggio, cioè della possibilità di verificare la riuscita dei sistemi messi in atto. Se tra le misure identificare sono previste restrizioni all’uso o alla vendita vanno valutati i vantaggi e gli svantaggi (anche economici) del divieto e le possibili alternative alla sostanza. 74 Processo produttivo Trasformazione degli intermedi SOSTANZA Formulazione SOSTANZA 2 Uso privato Trasformazione Trasformazione Uso del prodotto Rifiuto Uso industriale Uso del prodotto Recupero 75 Le opzioni per la riduzione efficace del rischio sono varie e numerose; si può infatti agire a livello di: Produzione ed uso industriale § controllo della produzione § classificazione ed etichettatura Confezionamento, distribuzione e conservazione § linee guida e procedure § addestramento e comunicazione Uso domestico/del consumatore § restrizione nella vendita e nell’uso § avvisi di pericolo, istruzioni d’uso Gestione dei rifiuti § classificazione ed etichettatura § procedure di riciclaggio § specifici metodi/condizioni di eliminazione Una volta identificate le opzioni si identificano gli strumenti per la riduzione: Programmi di informazione Assenso volontario Standard tecnici, regole d’uso Strumenti economici (es. dazi, tasse, ecc.) Controlli di legge Un ulteriore step nella gestione del rischio è la scelta dei criteri definiti precedentemente, che si basa principalmente sul loro: Efficacia Praticità Possibilità di monitoraggio Impatto economico Altri fattori 76 EDCs Gli endocrine disruptors (EDCs) sono un gruppo eterogeneo di sostanze caratterizzate dalla capacità di interferire con il funzionamento del sistema endocrino attraverso svariati meccanismi e bersagli (recettoriali, metabolici, ecc.). I principali bersagli degli EDCs sono l’omeostasi degli ormoni sessuali e della tiroide, mentre le fasi decisamente più sensibili sono la fase riproduttiva e lo sviluppo. Sono sostanze che agiscono come agonisti o antagonisti dei recettori ormonali. Un AGONISTA è una sostanza che interagisce con un recettore e ne scatena la reazione fisiologica (1) (la chiave che entra nella serratura e la apre); se l’agonista è uno xenobiotico l’attivazione può indurre una reazione maggiore di quella indotta dall’agonista endogeno (2). Un ANTAGONISTA è una sostanza che pur legandosi al recettore non ne induce la risposta (3) (la chiave entra nella serratura ma non la apre). 77 Tra gli EDCs possiamo ricordare: POPs (Inquinanti Organici Persistenti) Comprendono i PCBs, che hanno effetti complessi sull’omeostasi degli steroidi e della tiroide; le diossine e i PCBs ad azione “diossino-simile”, che agiscono da agonisti del recettore acrilico, dando modulazione endocrina ed immunitaria; il DDT e i suoi derivati, che agiscono da agonisti estrogeni per il recettore ER e/o da antagonisti androgeni. PESTICIDI, BIOCIDI, ANTIPARASSITARI Comprendono gli insetticidi organoclorurati (lindano tra gli altri), che agiscono sull’omeostasi degli steroidi con azione estrogenica o antiandrogenica; i fungicidi triazolici ed imidazolici, che sono inibitori della sintesi degli steroidi; i fungicidi Vinclozolin e Procimidone e l’erbicida Linuron, che si comportano da antiandrogeni; gli erbicidi triazinici, che agiscono sull’asse neuroendocrino-ipofisario; l’etilen-tiourea (maneb, mancozeb, ecc.) e i benzimidazoli che agiscono da tireostatici. SOSTANZE INDUSTRIALI E “PRODOTTI DI CONSUMO” Comprendono i nonil-fenoli e gli ottil-fenoli (sottoprodotti dei detergenti) e il bisfenolo A (utilizzato in odontoiatria e nella produzione di plastiche), che agiscono da agonisti estrogeni per il recettore ER ; gli ftalati (presenti in PVC, deodoranti, colle), che agiscono prevalentemente come antiandrogeni; i policromo difenileteri, usati come ritardanti di fiamma e che agiscono come tireostatici; gli organostannici (conservanti) che agiscono come inibitori dell’aromatasi. METALLI Il cadmio agisce probabilmente come agonista estrogeno per il recettore , mentre l’arsenico pare essere diabetogeno. COSMETICI Il Paraben agisce come agonista estrogeno per il recettore . ANABOLIZZANTI ZOOTECNICI Sono attualmente vietati dalla Comunità Europea. FITOESTROGENI Tra questi vanno ricordati gli isoflavoni e i lignani, che sono presenti soprattutto in alimenti come la soia ed agiscono come deboli agonisti per il recettore estrogeno , comportandosi quindi diversamente dagli altri xenostrogeni che hanno effetto tendenzialmente sul recettore . 78 I rischi legati a questi composti sono legati agli effetti ritardati che si manifestano sullo sviluppo: l’esposizione prenatale o perinatale si manifesta solo nell’età pubere o in quella adulta. I dati tossicologici sono inoltre scarsi e quindi risultano insufficienti per una valutazione adeguata dei rischi ad essi connessi. Quando si ha a che fare con gli EDCs di osservano effetti endocrini già a dosi più basse di altri effetti, per cui ci sono grosse difficoltà a stabilire “livelli senza effetti osservabili” che consentano di valutare e di gestire il rischio da EDCs. Ci si deve quindi relazionare a dosi “molto basse” (ma bisogna definire cosa si intende per “basso”) di agonisti/antagonisti recettoriali che agiscono con un’interazione “simil-ormonale” che, anche se molto debole, viene esercitata in fasi non fisiologiche, a volte critiche per il normale sviluppo dell’organismo, specialmente se non completamente sviluppato. Numerosi sono gli studi (in particolare nell’uomo) che evidenziano correlazioni tra esposizione a ECDs e comparsa di patologie riproduttive e non. Tra queste patologie possiamo ricordare: Diagenesi testicolare, che si manifesta con infertilità maschile, aumentato rischio di ipospadia e criptorchidismo, aumentato rischio di seminomi Riduzione della qualità dello sperma Ipospadia e criptorchidismo Endometriosi Abortività precoce e alterazione del “time to pregnacy” (tempo necessario per avere una gravidanza) anche quando il genitore esposto è il padre (effetto quindi non sulla madre ma sulla vitalità e/o fertilità dei gameti) Parti prematuri Alterazioni dello sviluppo neurologico, della crescita e della tiroide nell’infanzia Telarca, ginecomastia, pubertà precoce Patologie croniche come il diabete Si è inoltre osservata una certa correlazione tra esposizione ad EDCs ed incidenza di tumori, in particolare quelli che rispondono ali ormoni (come alcuni tumori mammari); tra le altre si è osservata una correlazione tra tumori ed esposizione a TCDD (follow up di 20 79 a Seveso), tra tumori alla prostata ed esposizione a pesticidi, tra cancro mammario e livelli di PCBs. In genere gli ECDs sono sostanze persistenti, liposolubili ed in grado di bioaccumulare (POPs), ma che possono anche permanere nei sedimenti e quindi entrare nella catena trofica (organostannici e alchilfenoli). L’esposizione a queste molecole non è mai singola: nell’ambiente sono presenti MISCELE di composti, che possono raggiungere gli organismi tramite diverse vie, quali gli alimenti, l’aria, l’acqua, per cui non sono da escludere, anzi sono molto probabili effetti additivi o sinergici. Nella valutazione del rischio da EDCs vanno considerate le popolazioni più a rischio, ed in particolare i soggetti giovani e/o in via di sviluppo, considerandone la maggiore sensibilità e vulnerabilità legate al maggior consumo di alimenti ed acqua, al maggior ritmo respiratorio, all’immaturità dei sistemi metabolici. Inoltre va tenuto presente che il sistema nervoso, immunitario, endocrino e riproduttivo non sono completamente sviluppati e sono quindi più sensibili. IL PROBLEMA PCBs I PCBs sono molecole bifeniliche variamente clorurate, utilizzate come olii lubrificanti e nei trasformatori. Il loro uso è vietato nei paesi industrializzati a partire dai primi anni ’80, ma nelle aree più povere, anche a causa del loro basso costo, vengono ancora utilizzati. Inoltre sono caratterizzati da un’elevata persistenza ambientale e dalla capacità di biomagnificare lungo la catena trofica. Il loro controllo richiede quindi strategie a livello globale e NON LOCALE. 80 Le principali fonti per l’uomo e gli animali sono gli alimenti, ma anche l’ambiente e, per il solo uomo, il luogo di lavoro. Vengono assorbiti principalmente per via gastroenterica in maniera proporzionale al contenuto lipidico degli alimenti e vengono escreti (come composti tal quali o metaboliti) principalmente con le urine, le feci e il latte materno. Il latte materno rappresenta un pericolo per il bambino in particolare per i figli di primipare e varia in funzione dell’età della madre, del consumo di pesce da parte della madre e dal fatto che abbia già allattato brevemente in precedenza. L’allattamento al seno può quindi rappresentare un rischio per il bambino (è il primo momento di esposizione a PCBs), ma poiché risulta protettivo nei confronti di alterazioni neurocomportamentali la tendenza attuale è quella di scoraggiarlo solo in casi particolari, come ad esempio in madri che vivono in aree altamente contaminate o che consumano elevati quantitativi di pesce fonte importante per questi composti. Recenti episodi hanno dimostrato l’importanza della contaminazione degli alimenti quale fonte di PCBs per l’uomo: La contaminazione di materie grasse per mangimi ha comportato la comparsa di residui nei tessuti di polli provenienti da Belgio a livelli sufficienti ad indurre una patologia specifica negli animali (“chick edema disease”) L’uso di olii per la produzione di mangimi per acquicoltura può comportare la comparsa di residui nei tessuti delle specie allevate e al loro accumulo lungo la catena alimentare Il diffuso uso di olii di pesce quali integratori di omega 3 può aumentare il rischio di esposizione a PCBs, che possono essere estratti insieme a questi acidi grassi. Studi recenti hanno evidenziato come il quantitativo di PCBs presente negli estratti, anche se insignificante dal punto di vista tossicologico, è in grado di ridurre gli effetti protettivi degli omega 3. Nella zona dei Grandi Laghi sono stati promossi studi volti a definire le cause di numerose patologie comportamentali, dello sviluppo, 81 endocrine, riproduttive, neurologiche e immunologiche che presentavano una maggior incidenza in quest’area. Vennero in particolare studiate fasce a rischio quali donne gravide, neonati e popolazioni particolarmente esposte ad inquinanti, quali pescatori, nativi americani, anziani, poveri, che consumando grandi quantitativi di pesce avevano un’elevata esposizione con l’alimentazione. Si osservò che i livelli di PCBs nel sangue di queste popolazioni era 6-8 volte superiori rispetto a popolazioni di controllo (30-40 g/l contro 5g/l). I PCBs, per le loro caratteristiche chimiche, presentano tossicità e persistenza diversa, che vanno tenute presenti nelle opere di monitoraggio. Per poter comparare tra loro queste molecole la loro tossicità viene rapportata a quella della DIOSSINA, trasformandola in TOSSICITA’ EQUIVALENTE (TEQ): ponendo uguale a 1 la tossicità della diossina, quella dei PCBs assumerà un valore compreso tra 0 e 1 (tab. 9). 82 PCB TEF 77 0.0001 81 0.0001 105 0.0001 114 0.0005 118 0.0001 123 0.0001 126 0.1 156 0.0005 157 0.0005 167 0.00001 169 0.01 189 0.0001 Tab. 9- Valori di TEF (TEQ) di vari PCBs secondo l’OMS. 83 Il TEQ è applicabile però SOLO per quei PCBs che hanno azione diossino-simile; inoltre esistono altre sostanze che competono per il recettore AhR che possono falsare il risultato del TEQ. Nelle opere di monitoraggio vanno quindi dosati non solo i PCBs diossino-simili, ma anche quelli fortemente persistenti e quelli scarsamente clorurati, che hanno un comportamento completamente diverso dagli altri PCBs. Sono stati recentemente messi a punto sistemi in vitro che consentono di mettere in evidenza l’attività biologica dei PCBs nelle matrici biologiche. Tali sistemi si basano sull’attivazione di un gene, il CALUX (luciferasi), che viene “attaccato” al recettore AhR. Quando uno xenobiotico reagisce con il recettore attiva anche il gene, che risponde emettendo una luminescenza fosforescente. Tale sistema è sensibile e riproducibile, ma la sua applicazione è limitata alle diossine e ai PCBs diossino-simili. ESEMPI DI SOSTANZE AD AZIONE DI DISENDOCRINIA Tra le sostanze che agiscono a livello di ATTIVITA’ RIPRODUTTIVA vanno sicuramente ricordati il TRIBUTILSTAGNO e il 4NONILFENOLO. TRIBUTILSTAGNO (TBT) È una sostanza in grado di indurre IMPOSEX in crostacei e molluschi. Per IMPOSEX si intende l’imposizione di caratteristiche morfologiche riproduttive di un sesso sull’altro. In genere si ha sovrapposizione di caratteristiche maschili su quelle femminili. L’imposex determina l’incapacità o la ridotta possibilità di rilascio delle uova dall’ovaio, la soppressione dell’oogenesi (nei casi più gravi) e lo sviluppo di tubuli seminiferi nell’ovaia e l’induzione della spermatogenesi. Studi recenti effettuati in Mediterraneo hanno evidenziato la presenza di imposex in Bolinus brandaris e in Heraplex trunculus; in Italia la presenza di imposex è stata evidenziata in alcune popolazioni siciliane di Bolinus brandaris, Thais haemastoma ed heraplex trunculus; l’incidenza del fenomeno era estremamente elevata, ad eccezione di un’area protetta (Riserva Marina di Ustica) dove non era riscontrato imposex. 84 La gravità dell’imposex viene classificata con una scala a 6 livelli, come illustrato in tab. 10. 85 Stadio Descrizione 0 Femmine senza segni maschili 1 Primi segni di imposex. In genere un pene incipiente localizzato dietro il tentacolo oculare destro 2 Piccolo pene presente, con un dotto penieno sviluppato 3 Pene più grande che allo stadio 2, il dotto penieno continua prossimalmente con una porzione di vasi deferenti. Si ha ancora riproduzione 4 I vasi deferenti raggiungono l’apertura vaginale, la attraversano e corrono nella porzione ventrale della ghiandola capsulare. Il pene ha lunghezza comparabile a quella dei maschi. L’apertura vaginale è immodificata e avviene ancora l’accoppiamento. 5 Vulva assente. Generalmente la ghiandola capsulare è spostata per 2/3 ventralmente, con il lume aperto nella cavità del mantello. Viene impedito il rilascio della capsula delle uova, spesso sono presenti capsule abortite Tab. 10 – Stadi di evoluzione dell’imposex. 87 Nello studio viene identificata una buona correlazione tra livelli di TBT nei tessuti dei molluschi e gravità dell’imposex (R2= 0.86). lo stadio 3 viene normalmente raggiunto per concentrazioni superiori a 20-30 g/kg, mentre concentrazioni superiori aggravano la situazione. Concentrazioni vicine al limite di sensibilità della metodica (1 g/kg) si sono rivelate sufficienti per indurre imposex, anche se a stadi iniziali. La presenza di TBT non è però risultata strettamente correlata al traffico navale, portando gli autori a ritenere che altre fonti oltre al traffico navale pesante contribuiscano all’inquinamento delle aree studiate (uso illecito sulle navi da diporto?). Nei maschi inoltre il TBT riduce l’inattivazione metabolica del testosterone e ne aumenta la conversione in altri androgeni. 4-NONILFENOLO Il nonilfenolo è una sostanza che deriva dalla degradazione degli alchilfenoli etossilati (surfattanti non ionici) ad azione estrogenica nei pesci. Nella trota l’esposizione a 4-nonilfenolo induce riduzione della crescita testicolare. Il 4-nonilfenolo causa anche androgenizzazione metabolica per riduzione della clearance metabolica del testosterone ed aumento dei suoi derivati androgeni. L’esposizione a nonilfenolo induce la sintesi di VTG, precursore delle proteine dell’uovo, e di proteine della zona radiata (Zrp). L’ipotesi più accreditata è che questo effetto sia legato alla sua interazione con il recettore ER, verso il quale agisce da AGONISTA (analogamente all’estradiolo). Tale induzione è dose-dipendente ed è seguita dalla sintesi di VTG e Zrp; è un’induzione rapida ma che richiede un certo tempo prima che il picco di trascritti (prodotti della trascrizione del mRNA) compaia. Un altro effetto di disendocrinia importante è quello esercitato sulla TIROIDE. Gli ormoni tiroidei numerose attività: sono fondamentali per la regolazione di 88 Differenziazione e crescita Riproduzione Processi metabolici Gli ormoni tiroidei sono molecole relativamente semplici, derivando dalla iodurazione della tiroxina (lo iodio si lega in posizione 3- e 5dell’anello fenolico). Esistono tre principali forme di tiroxina iodurata: Tetraiodotironina (3,3’,5:5’-tiroxina o T4) Triiodotironina (3,3’,5-tiroxina o T3) 3,3’,5’-tiroxina (T3 inversa, rT3) La forma attiva è il T3, che svolge la sua azione ormonale legandosi a specifici recettori (TRs) presenti nella cromatina delle cellule target. 89 Sangue Ipotalamo Tessuti periferici rT3 rT3 Ghiandola pituitaria TSH T4 T4 Tiroide T3 T3 Diagramma dell’omeostasi degli ormoni tiroidei. 91 Gli effetti delle alterazioni a livello di ormoni tiroidei sono più evidenti nelle specie che depongono uova, perché in queste, ricche di lipidi, si possono accumulare elevate quantità di xenobiotici lipofili in grado di alterare l’equilibrio endocrino (PCBs, PAHs). Il contatto già nelle fasi di sviluppo con queste sostanze rende più evidente l’effetto delle stesse e ne comporta conseguenze più gravi. L’azione sugli ormoni tiroidei si può manifestare a vari livelli: Sul trasporto e sull’utilizzo dello iodio Sull’inibizione del legame degli ormoni alle proteine plasmatiche Sulla sintesi degli ormoni INIBIZIONE DEL TRASPORTO E DELL’UTILIZZO DELLO IODIO Le sostanze che inibiscono il trasporto e l’utilizzo dello iodio sono dette GOZZIGENE: tali sostanze inibiscono la sintesi degli ormoni tiroidei; il calo della loro concentrazioni induce un aumento dell’attività tiroidea, che diviene iperplasica e ipertrofica, con conseguente comparsa del GOZZO. Tra i composti in grado di indurre gozzo con questo meccanismo possiamo ricordare: Tiocianati e perclorati Composti con gruppi tioamidici Composti amino-eterociclici Fenoli sostituiti Alcune sostanze prodotte da batteri (per altro non ancora identificate) INIBIZIONE DEL LEGAME ALLE PROTEINE PLASMATICHE I composti che agiscono a questo livello spiazzano dal legame con le proteine plasmatiche gli ormoni tiroidei ed in particolare il T4; ciò comporta un aumento della frazione libera che può essere trasformata in T3, il che determina una riduzione dei livelli di T4, che induce per feed back negativo la secrezione di TSH. Il TSH stimola la produzione a livello tiroideo di ormoni, trasformando la tiroide stessa in senso iperplasico ed ipertrofico. Alcuni studi condotti nei salmonidi hanno evidenziato come diete arricchite di PCBs e mirex (insetticida organoclorurato) inducevano la riduzione dei livelli di T3 e T4. Questi studi sono però stati 92 condotti con livelli di xenobiotico sufficientemente elevati da indurre una riduzione dell’alimentazione e della crescita dei soggetti. È quindi ipotizzabile che il decremento degli ormoni tiroidei sia legato più allo stato di defedamento che non ad una vera e propria azione degli xenobiotici sulla loro sintesi. SINTESI DI T3 A PARTIRE DAL T4 Gli enzimi che deiodizzano il T4 in T3 appartengono a 3 tipi diversi, che si distinguono tra loro per la specificità di tessuto, per l’affinità per il T4 e per il prodotto originato (T3 o rT3), ma anche in base al fatto che vengano o meno inibiti da sostanze gozzigene. Tra gli xenobiotici in grado di inibire questi enzimi possiamo ricordare il piombo, che sembra in grado, nel pesce gatto, di ridurre i livelli d T3 e T4 e di inibire l’attività della 5’-MDasi (enzima deiodizzante). L’interferenza con gli ormoni tiroidei induce inoltre un aumento dell’incidenza di lesioni neoplastiche benigne, che divengono così validi indicatori di azione di disendocrinia. Nei salmonidi dei Grandi Laghi di è osservato un aumento dell’incidenza di iperplasie ed ipertrofia tiroidee pari al 100%; curiosamente mentre si osservava una buona correlazione tra i livelli di eutrofizzazione dei laghi e la gravità delle lesioni osservate, non vi era correlazione con i livelli di idrocarburi aromatici polialogenati. Al momento l’unica sostanza riconosciuta come gozzigena è la NMETIL-N’-NITROSOGUANIDINA. 93 IMMUNOTOSSICOLOGIA L’immunotossicologia è quella scienza che studia gli effetti tossici delle sostanze chimiche sul sistema immunitario. Tali effetti possono manifestarsi per concentrazioni di xenobiotico notevolmente inferiori a quello in grado di indurre altre manifestazioni tossiche più evidenti; l’organismo può quindi apparire “asintomatico”. Il sistema immunitario è preposto alla difesa dell’organismo da tutti gli agenti potenzialmente nocivi e alla definizione del “self” e del “non-self”. Le principali alterazioni del sistema immunitario si manifestano con un aumento della morbilità e della morte degli individui, ma possono manifestarsi anche con cambiamenti meno importanti che vengono utilizzati quali MARCATORI DI IMMUNOTOSSICITA’. Il sistema immunitario degli animali si compone di varie componenti, che rivestono una diversa importanza in funzione del livello evolutivo (tab. 11): in tutte le specie sono presenti i macrofagi, responsabili delle prime reazioni di difesa dell’organismo, che si manifestano con l’aggressione e la fagocitosi dell’agente patogeno(immunità NON SPECIFICA). Viene poi interessato in maniera più o meno estesa il tessuto linfoide e vengono prodotte immunoglobuline, che vanno a costituire l’immunità cosiddetta SPECIFICA. 94 Gruppo Tessuto linfoide Invertebrati Categoria di immunoglobuline / Pesci IgM Anfibi Analoghi delle IgG, IgM Rettili IgG, IgM Uccelli Analoghi delle IgG, IgM, IgA Mammiferi IgG, IgM, IgA, IgE, IgD Timo, milza, rene, fegato Timo, milza, rene, linfonodi, “midollo osseo” Timo, milza, rene, analoghi dei linfonodi, midollo osseo, fegato Timo, borsa del Fabrizio, milza, linfonodi, midollo osseo Timo, midollo osseo, milza, linfonodi, fegato (nel feto) / Importanza del ruolo dei macrofagi Elevata Elevata Moderata Moderata Bassa Moderata Tab. 11 – Schema della composizione del sistema immunitario delle varie classi di animali e loro importanza. 95 IMMUNITA’NON SPECIFICA Coinvolge cellule che riconoscono il “non self” senza alcuna specificità. Si basa su due meccanismi principali: 1. la fagocitosi 2. la risposta infiammatoria Le cellule preposte all’immunità non specifica possono essere, in funzione della specie, circolanti (come i granulociti neutrofili nel sangue dei mammiferi), essere presenti nei tessuti e negli organi, dove possono essere legati (macrofagi epatici o splenici nei mammiferi) o mobili (macrofagi polmonari), con tipi cellulari diversi presenti contemporaneamente. Le cellule coinvolte nei processi infiammatori sono poi caratterizzate dalla capacità di infiltrare nei tessuti infiammati, in cui normalmente non sono presenti. Altre cellule coinvolte nell’immunità non specifica sono le cellule Natural Killer (NK) e le cellule citotossiche naturali (NCC). Queste cellule possono riconoscere i cambiamenti superficiali che intervengono nelle cellule “self” quando vengono infettate da virus o vanno incontro a trasformazioni neoplastiche, inducendone la lisi e quindi eliminandole. Sono cellule presenti sia nei vertebrati che negli invertebrati. Il raggiungimento del “non self” da parte dei fagociti (macrofagi, Nk e NCC) viene guidato da stimoli chimici legati alla presenza di sostanze chemotattiche che le portano verso il bersaglio. Le fasi della fagocitosi (schematizzate in fig. 7) prevedono il raggiungimento del “non self”, il suo legame a propaggini del fagocita, il suo inglobamento nelle vescicole digestive dette FAGOSOMI, la fusione dei fagosomi con i lisosomi, la digestione e la distruzione del “non self” e l’eliminazione dei rifiuti della digestione all’esterno della cellula. 96 Fig. 7- Rappresentazione schematica della fagocitosi. 97 IMMUNITA’ SPECIFICA L’immunità specifica coinvolge due componenti sistema immunitario: immunità cellulare (immunità cellulo-mediata) immunità umorale principali del L’immunità cellulare è basata su cellule specifiche , I LINFOCITI T, ed è legata alla regolazione delle funzioni del sistema immunitario, alla ipersensibilità ritardata, alle reazioni contro il “non self” e alla resistenza alle infezioni. L’immunità umorale consiste nella produzione, da parte dei LINFOCITI B, di anticorpi che attaccano il “non self” (fig. 8 e 9). Fig. 8- Rappresentazione schematica dell’attivazione delle cellule B. 98 Fig. 9- Struttura generale di un anticorpo. 99 In entrambi i tipi di immunità il contatto con un antigene scatena la moltiplicazione delle cellule staminali che originano cellule B e T, come illustrato in fig. 10. Nel processo di eliminazione del patogeno intervengono vari tipi cellulari, quali i linfociti T helper (che stimolano la duplicazione dei linfociti B) e i linfociti T suppressor (che inibiscono la duplicazione dei linfociti B), che “aiutano” e regolano l’azione dei linfociti B (fig. 11). Fig. 10- Effetto degli antigeni sui linfociti T e B. 100 Fig. 11- Rappresentazione schematica delle interazioni tra linfociti T e B. EFFETTI DI FATTORI ENDOGENI ED ESOGENI SUL SISTEMA IMMUNITARIO Le sostanze endogene ed esogene in grado di influenzare il sistema immunitario sono numerose. Tra queste possiamo ricordare gli ormoni (in particolare ormoni sessuali e sistema neuroendocrino), cui il sistema immune è estremamente sensibile. L’esposizione a sostanze ad azione di disendocrinia può quindi non solo alterare l’equilibrio ormonale degli organismi, ma può anche influire sul sistema immunitario in maniera diretta o indiretta. Numerosi sono però anche gli xenobiotici che possono alterare la funzionalità de sistema immunitario. ORMONI I glucocorticoidi hanno un effetto immunosoppressivo, agendo in particolare a livello di macrofagi, di produzione di citochine da parte 101 dei linfociti T, di mobilizzazione dei leucociti e di induzione dell’apoptosi dei progenitori dei linfociti T e B e delle cellule T mature. Nella trota si è osservato come lo stress si associ ad un decremento dell’attività macrofagica, che viene prevenuto da cortisolo ed epinefrina. Questa osservazione ha portato ad ipotizzare che lo stress induca una ridistribuzione delle cellule immunitarie verso altri organi, migrazione antagonizzata da cortisolo ed epinefrina. L’influenza degli ormoni sessuali è particolarmente evidente quando si confrontano tra loro i due sessi: in linea generale infatti le femmine di tutte le specie sono più sensibili alle patologie immunitarie rispetto ai maschi. Gli ormoni maschili sembrano quindi avere un effetto protettivo contro le patologie autoimmuni quali in lupus eritematosus (nell’uomo). Gli estrogeni (ed in particolare l’estradiolo) invece sembrano aumentare l’incidenza di queste patologie (tab. 12). 102 Citochina Origine Funzione Effetto steroideo Interleuchina 1 Monocitimacrofagi Risposta infiammatoria Diminuito dagli androgeni Interleuchina 4 Cellule T Differenziazione delle cellule B Aumentato dall’estradiolo Antiproliferazion e delle cellule T e dei timociti Aumentato dagli androgeni TGF-B Interleuchina 5 Timociti attivati Crescita delle cellule B Aumentato o diminuito dagli androgeni Interferone Timociti Attivazione ed induzione del MHC I e II Aumentato dall’estradiolo, diminuito dagli androgeni Tab. 12- Funzione delle varie citochine, cellule che le producono, loro ruolo ed influenza degli ormoni steroidei. 103 In Carassio sono stati effettuati studi in vitro ed in vivo, che hanno evidenziato un effetto inibente di estradiolo e cortisolo sul sistema immunitario. In vitro l’incubazione dei macrofagi con i due ormoni inibisce la chemiotassi e la fagocitosi. L’estradiolo non altera la produzione di ossido nitrico, che viene invece fortemente inibita dal cortisolo. In vivo l’estradiolo inibisce la proliferazione di linfociti periferici in carassi infettati con emoflagellati (Tripanosoma danilewski). Si è poi scoperto che il sistema immunitario non solo subisce l’influenza degli ormoni, ma ne produce anche. In particolare vengono prodotti ormoni dell’adenoipofisi: Prolattina (PRL) Ormone della crescita (GH) Tali ormoni devono esercitare un’azione sui linfociti liberi nel sangue, in quanto questi presentano, al pari dei linfociti T attivati, recettori per la PRL. Il GH pare possa stimolare la differenziazione e la migrazione dei timociti, effetto mediato dall’insulin growth factor I (IGF-I), che si ritiene abbia un ruolo nella stimolazione degli organi produttori di linfociti T e B. XENOBIOTICI Gi xenobiotici possono influire sul sistema immunitario in varia maniera (fig. 12). L’immunosoppressione si manifesta con una riduzione della resistenza ad infezioni microbiche o virali ed un aumento delle patologie neoplastiche. Il sistema immunitario può poi interagire con i processi di detossificazione e biotrasformazione, prolungando l’emivita degli xenobiotici. Più raramente si osserva invece induzione del sistema immunitario, di più difficile comprensione e che in genere determina una risposta qualitativamente anomala. 104 Danno alle componenti cellulari e tessutali del sistema immunitario Riduzione della resistenza agli agenti esterni Immunodepressione Interazione con autoantigeni Produzione di neoantigeni Perdita di immunosorveglianza ESPOSIZIONE AGLI XENOBIOTICI Immunopotenziamento Ipersensibilità Allergia Autoimmunità Riduzione dell’immunità antitumorale Attivazione del complemento Reazione similinfluenzale Pseudoallergia Fig. 12- Possibili influenze degli xenobiotici sul sistema immunitario. 105 Gli xenobiotici agiscono a livello cellulare e sugli organi del sistema immunitario. Tra questi possiamo ricordare: Diossine Furanici PAHs PBBs PCBs Sostanze alchilanti Insetticidi organoclorurati Metalli pesanti Pare che l’azione delle diossine si attui per interazione con il recettore acrilico per gli estrogeni Ah: tale complesso interagisce con specifici siti del DNA. Analogo effetto hanno i PCBs, per i quali però è fondamentale il grado di clorurazione. I metalli pesanti agiscono come inibitori e depressati del sistema immunitario. Alcuni di questi agiscono a livelli tali da NON indurre altro effetto negli organismi, quindi da passare “inosservati”. Gli effetti osservati si manifestano con: Effetti di citotossicità ed apoptosi Alterazione dei processi di contatto cellulare Alterazione dei segnali intracellulari, della mobilizzazione del calcio, della sintesi delle proteine e dell’espressione genica. BIOMARKERS IMMUNOLOGICI NEI MOLLUSCHI Il sistema immunitario di questi organismi, composta da una parte cellulare e una umorale, presenta quale componente principale gli EMOCITI. I dati relativi agli effetti immunodepressivi degli xenobiotici sono scarsi, ma in linea generale sembrano delineare come l’esposizione ad uno stress ambientale (termico, infettivo e chimico) induca un aumento dell’attività degli emociti. La loro diminuzione di verifica solo per concentrazioni elevate, che non rispecchiano le condizioni reali nell’ambiente. Esemplari di Crassostea virginica allevati in acque pulite quando trasferiti in acque contaminate da PAHs presentavano una riduzione del numero di emociti di grandi dimensioni (eosinofili responsabili 106 della fagocitosi) ed un aumento di quelli di piccoli dimensioni (viene persa la capacità fagocitaria). In Mercenaria mercenaria l’esposizione a fenoli riduce l’attività fagocitarla, stimolata invece da esposizione a lungo termine a benzo(a)pirene, pentaclorofenolo ed esaclorobenzene. Studi di esposizione a metalli pesanti in Crassostea virginica e in Mytilus edulis riferiscono di una capacità fagocitaria alterata, che si manifesta con stimolazione per esposizione a breve termine e con inibizione per esposizione a lungo termine. Ciò pare indicare che la prima reazione dell’organismo sia di difesa (aumentano le difese) e che l’esposizione cronica riduca queste capacità per una sorta di loro “degenerazione”. In Mytilus galloprovincialis provenienti dalla Laguna di Venezia si è cercato di correlare i biomarkers immunitari con al presenza di contaminanti (fig. 13). Tali correlazioni sono state osservate solo per alcuni metalli ed organoclorurati. 107 •Conta degli emociti •Fagocitosi •Livelli di enzimi lisosomiali •Produzione di radicali ossigeno liberi Variazioni stagionali dei parametri In alcuni casi correlazione tra contaminanti e parametri Fig. 13 •10 metalli •3 gruppi di organoclorurati 109 BIOMARKERS IMMUNOLOGICI NEI PESCI Uno degli approcci immunologici maggiormente utilizzati è l’esame istologico del tessuto linfoide di animali esposti. Il “difetto” di tale approccio è il fatto che permette di valutare solo gli effetti terminali del fenomeno immunodepressivo. Per evidenziare effetti precoci si possono invece utilizzare altri biomarkers, quali: Il conteggio dei linfociti La valutazione del potenziale mitotico dei linfociti Valutazione del leucocrito Stima dalla capacità fagocitarla Conta dei macrofagi e valutazione della loro struttura Stima della suscettibilità alle infezioni Stima dell’attività lisosomiale Conta delle NK e delle NCC Quantificazione degli anticorpi circolanti La valutazione della risposta proliferativi dei linfociti ha permesso di evidenziare come posano esistere fenomeni di induzione e di inibizione. L’esposizione a PAHs sia nell’ambiente naturale che in laboratorio produce un cambiamento importante ma REVERSIBILE delle funzioni dei macrofagi, tra cui la fagocitosi dei microrganismi, la chemiotassi, la pinocitosi e l’accumulo di melanina. L’effetto si manifesta con un’inibizione o un’induzione, in funzione della specie considerata. Il MANGANESE ha ad esempio un’azione STIMOLANTE nella carpa, mentre il LINDANO ha effetto INIBENTE nella trota. La valutazione dei livelli di anticorpi circolanti è un biomarker NON INVASIVO, che in genere ha definito fenomeni di immunodepressione o immunosoppressione. Il CADMIO risulta ad esempio INDUTTORE in adsperus ed INIBITORE in Morone saxatilis. Tautogolabrus 110 Tautogolabrus adsperus Morone saxatilis I FENOLI, la FORMALDEIDE e i DETERGENTI sono INIBITORI nella trota. In Pleuronectes platessa si è osservata una correlazione negativa tra la vicinanza agli scarichi dei depuratori ad alcuni parametri immunologici quali l’attività del lisozima sierico, la concentrazione delle immunoglobuline e l’attività battericida dei leucociti renali. Le spiegazioni portate per questa correlazione sono la presenza di contaminanti ad azione immunostimolante nelle vicinanze degli scarichi, che vengono diluiti (seguono un gradiente) allontanandosi dagli scarichi, la presenza di un’elevata carica batterica nei pressi degli stessi (che induce una risposta del sistema immunitario) e la diversa presenza di nutrienti nelle varie aree. 111