I nuovi scenari dell’economia internazionale Prof. Riccardo Fiorentini Dipartimento di Scienze Economiche Università di Verona [email protected] Ottobre 2012 1) Crisi e globalizzazione in prospettiva storica Il momento di crisi e cambiamento che sta vivendo l’economia mondiale si colloca al termine di una fase nella quale i processi di “globalizzazione” economica sono stati molto intensi. La globalizzazione, definita come un processo di crescente integrazione ed interdipendenza tra le economie dei diversi stati nazionali non è un fenomeno nuovo, essendo storicamente nata con la rivoluzione industriale e la diffusione del modo di produzione capitalistico a livello mondiale. Gli storici dell’economia individuano due grandi fasi della globalizzazione: la prima va dal 1820 al 1914, mentre la seconda, iniziata nel 1950 prosegue tuttora (Lindert e Williamson, 2001). Divise dalla lunga parentesi del periodo interbellico 1915-1945 nel quale le tendenze centrifughe hanno prevalso, le due grandi fasi storiche della globalizzazione possono essere paragonate facendo riferimento ai loro aspetti economici, tecnologici e politici. Dal punto di vista tecnologico, la prima globalizzazione ha visto per la prima volta nella storia l’applicazione sistematica all’attività economica dei risultati della ricerca scientifica. L’invenzione della macchina a vapore e il suo utilizzo nella produzione tessile ha dato l’avvio alla rivoluzione industriale, mentre nei trasporti lo sviluppo delle locomotive, delle ferrovie e delle navi a vapore ha enormemente ridotto i tempi necessari a collegare tra di loro città e paesi lontani. Senza la rivoluzione dei trasporti la globalizzazione come la conosciamo non sarebbe stata possibile. Dal punto di vista più strettamente economico, la globalizzazione dell’800 è stata segnata da imponenti fenomeni migratori e da una già elevata integrazione finanziaria. Solo dopo il 1980 il livello di integrazione finanziaria mondiale ha superato il livello che aveva raggiunto poco prima dello scoppio della prima guerra mondiale. Dal punto di vista politico, la prima globalizzazione è stata anche favorita dall’abbondono delle politiche protezionistiche di stampo mercantilistico da parte dell’Inghilterra, paese leader mondiale dell’epoca. Nella prima globalizzazione erano invece assenti le istituzioni internazionali o sovranazionali tipiche del periodo contemporaneo e le relazioni politiche ed economiche internazionali erano quindi basate sul confronto tra stati nazionali gelosi della propria sovranità. Prendendo i differenziali internazionali di prezzo come un indicatore del livello di integrazione economica, possiamo dire che nella prima globalizzazione, la riduzione dei costi di trasporto è stato il fattore che più di altri ha favorito la loro riduzione, mentre più limitato è stato il ruolo dalle politiche attive di liberalizzazione commerciale. Nel periodo della seconda globalizzazione, è proseguita la riduzione secolare dei costi e dei tempi di trasporto, grazie soprattutto dello sviluppo del trasporto aereo, anche se dal punto di vista tecnologico è la diffusione capillare della micro-elettronica associata alla rivoluzione informatica a dominare la nostra era. I flussi migratori sono presenti anche in questa fase ma la loro entità è decisamente inferiore a quella dell’800. Nei mercati finanziari, negli ultimi trenta anni la progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale ha generato una integrazione talmente spinta dei mercati nazionali da rendere, nel bene e nel male, la finanza l’elemento dominante dell’economia mondiale contemporanea. Per questo motivo si suddivide comunemente il periodo della seconda globalizzazione in due parti. In una prima fase che va dal 1950 al 1980, i processi di integrazione mondiale sono stati largamente dominati dagli aspetti industriali e commerciali. La figura 1 che riporta l’andamento del volume del commercio mondiale illustra chiaramente questo fenomeno. Dopo il 1980, come già detto sono stati invece gli aspetti finanziari a prevalere. Se nel 1980 il valore del prodotto interno lordo mondiale (Pil) e degli attivi finanziari internazionali erano all’incirca equivalenti, nel 2011 questi ultimi hanno superato il Pil mondiale di almeno tre volte (Gallino, 2011, Fmi, 2012; McKinsey Global Institute, 2011) Oggi, in sostanza, abbiamo un unico mercato finanziario mondiale in costante attività che permette lo spostamento istantaneo da un paese ad un altro di ingenti quantità di capitali. Concludiamo questa breve panoramica storica osservando che, a differenza della prima, nella seconda globalizzazione il ruolo delle politiche di liberalizzazione economica e delle istituzioni internazionali create dopo la seconda guerra mondiale è stato decisivo. Il grande sviluppo del commercio mondiale non sarebbe stato possibile senza gli accordi multilaterali di riduzione delle barriere protezionistiche siglati nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale del Commercio mentre le politiche di apertura dei 2 mercati finanziari interni sono state fortemente caldeggiate dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e dalla Banca Mondiale (World Bank). 2) Verso un mondo multipolare La geografia economica del mondo sta cambiando rapidamente. La recente crisi finanziaria ha colpito in primo luogo le tradizionali aree sviluppate del mondo (Nord America, Europa) che ancora non sono state capaci di ritornare ai livelli di occupazione e produzione precedenti alla crisi. Per contro, i paesi “emergenti”, dopo un temporaneo arresto della loro crescita, sono ritornati sul loro sentiero di sviluppo caratterizzato negli ultimi dieci anni da tassi di crescita del Pil doppi rispetto quello dei paesi “avanzati” (figura 2). La crisi non ha modificato queste dinamiche cosicché è ragionevole prevedere che nel giro di pochi anni il peso relativo delle diverse aree sia destinato a cambiare radicalmente. Infatti, se nel 2000 ben l’80% del Pil mondiale proveniva dai paesi avanzati, già nel 2010 questa quota era scesa al 66%. Le previsioni del Fmi sono che nel 2016 il peso dei paesi avanzati si riduca ulteriormente scendendo al 59%. Le figure 3 e 4 mostrano in maggior dettaglio questo riequilibrio. Tra le aree avanzate, gli Usa subiranno il maggior ridimensionamento, mentre tra i paesi BRICS (Brasile, Russia, Cina, India, Sud Africa) spicca il balzo deciso della Cina. Queste stime vanno ovviamente prese con cautela, ma vi sono altri elementi che portano a ritenere altamente probabile uno scenario multipolare di questo tipo. Secondo la Banca Mondiale (World Bank, 2011), un numero crescente di paesi a medio reddito sta assumendo il ruolo di “poli di sviluppo”. Si tratta, in altri termini, della capacità di attivare la crescita di altri paesi su scala regionale e globale. Oltre ai paesi BRICS, svolgono sempre di più questo ruolo la Turchia, l’Arabia Saudita, il Messico e la Malesia. Anche nel campo degli investimenti diretti esteri, i principali paesi emergenti stanno ampliando la loro attività. Nel periodo 1997-2012, la Cina si è collocata al secondo posto dopo il Regno Unito per flussi di investimenti rivolti ad altri paesi in via di sviluppo. Il Sud Africa ha superato in questo campo il Canada (World Bank, 2011). I paesi avanzati come l’Italia devono prepararsi a vivere in questo nuovo contesto internazionale 3 3) L’aumento delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito Nel corso degli ultimi 20 anni a livello mondiale si è verificato un processo di concentrazione della ricchezza e del reddito che ha aumentato le diseguaglianze economiche in tutti i paesi. Questo fenomeno è stato autorevolmente documentato da organizzazioni internazionali come l’OCSE (OECD, 2008, 2011) e l’Organizzazione Mondiale del Lavoro (ILO, 2008). La diminuzione della quota del reddito del lavoro dipendente a favore dei redditi da capitale e rendite finanziarie è parte di questo fenomeno, come l’aumento del divario tra le retribuzioni più basse e più alte (wage gap). Nel 2003, tenendo conto di componenti salariali accessorie, quali le stock option e i bonus azionari, negli Usa i top manager guadagnavano circa 370 volte di più di un impiegato di medio livello. Nel 2007, questo divario era salito a ben 521 volte (ILO, 2008). Come si argomenterà più avanti, la stagnazione dei salari medi ha contribuito alla genesi della crisi finanziaria del 2007/2008. Statisticamente, la distribuzione del reddito viene descritta con l’aiuto dell’indice di Gini, dal nome dello statistico italiano che propose questa tecnica. L’indice di Gini può avere valori compresi tra zero e uno. Lo zero rappresenta una situazione di perfetta uguaglianza (tutti hanno lo stesso reddito), mentre uno indica la massima diseguaglianza che si ha quando un solo individuo ottiene tutto il reddito di un paese. Dopo un lungo periodo di riduzione della diseguaglianza, dal 1980 la concentrazione del reddito verso le fasce più ricche della popolazione è aumentato nella maggior parte del mondo. La figura 5 documenta questo fenomeno per un gruppo selezionato di paesi avanzati. Colpisce il fatto che gli Usa nel 2008, all’inizio della crisi finanziaria globale erano tornati ad un livello di concentrazione del reddito paragonabile a quello precedente la grande crisi degli anni ’30 del secolo scorso. Considerando la distribuzione della ricchezza che comprende oltre al reddito anche i patrimoni finanziari ed immobiliari, da un importante studio (Davies e altri, 2011) studi emerge un livello di diseguaglianza ancora maggiore. Se a livello mondiale, l’indice di Gini relativo alla distribuzione del reddito era mediamente pari a 0,4, quello relativo alla ricchezza valeva l’0,8. Questo valore elevatissimo indica un’enorme concentrazione della ricchezza su scala globale. I dati riportati in tabella 1 mostrano 4 questa realtà. Nel 2010, il 10% più ricco della popolazione mondiale possedeva il 70% della ricchezza, l’1% più ricco oltre il 30%. Il problema delle cause della diseguaglianza e dei suoi effetti sulla crescita economica è complesso (Fiorentini e Montani, 2012) ma molti economisti e persino giornali di tradizionale orientamento liberale-conservatore come l’Economist (15 ottobre 2012) concordano nel pensare che un eccesso di diseguaglianza sia dannoso per la crescita quando i divari nelle retribuzioni e nei redditi eccedono il giusto compenso per la differente produttività degli individui. Più di un indizio porta a ritenere che questo sia avvenuto negli ultimi anni. 4) Le cause della crisi Sulla crisi finanziaria globale molto è stato scritto e le cause immediate sono ampiamente note: lo scoppio della bolla immobiliare negli Usa e il fallimento di una delle più importanti banche d’affari statunitensi, la Lehman Brothers. La crisi è però riconducibile all’interazione di tre squilibri sottostanti: la crescita delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito, i persistenti squilibri commerciali e finanziari mondiali (“global imbalances” o “squilibri globali”) e le asimmetrie del sistema monetario internazionale basato sul dollaro. Sulla crescita della diseguaglianza di reddito abbiamo già detto. La figura 6 descrive invece il problema degli “squilibri globali”. Nella figura, la linea tratteggiata mostra che, con l’eccezione del 1991, gli Usa a partire dal 1982 hanno costantemente importato prodotti e servizi più di quanti ne abbiano esportato. Il disavanzo commerciale è cresciuto decisamente dalla fine degli anni ’90 e si è parzialmente ridotto negli ultimi anni per effetto del calo dei consumi interni provocato dalla crisi. La linea intera mostra invece i finanziamenti che l’economia americana ha ottenuto nello stesso periodo. L’attivo dei movimenti finanziari è speculare al passivo commerciale e rappresenta l’indebitamento estero degli Usa che hanno potuto consumare al di sopra delle proprie possibilità grazie a prestiti crescenti provenienti dai principali paesi emergenti e produttori di petrolio. Oggi gli Usa sono il principale debitore estero a livello mondiale. I dati riportati in figura 6 riflettono la seguente situazione: paesi emergenti, Cina in primo luogo, hanno potuto crescere velocemente negli ultimi anni esportando i loro prodotti negli Usa che, a loro volta, hanno potuto 5 mantenere il loro alto livello di consumo interno grazie al credito che il resto del mondo è stato disposto a concedere. Per quale motivo i paesi esportatori in surplus cronico (paesi asiatici, del Medio Oriente, Russia, Messico, Brasile…) sono fin qui stati disposti a finanziare l’economia americana acquistano grandi quantità di titoli del debito pubblico statunitense (treasury bills)? La risposta può essere trovata nel ruolo particolare che il dollaro ha nell’economia mondiale a partire dalla seconda guerra mondiale. La valuta Usa svolge infatti il ruolo di moneta mondiale utilizzata nella gran parte delle transazioni commerciali e finanziarie. Tutte le materie prime, tra cui il petrolio, sono quotate in dollari e il dollaro viene facilmente accettato in tutti i paesi del mondo. Questa circostanza produce quella che molti definiscono “l’esorbitante privilegio” di poter pagare le proprie importazioni stampando moneta al posto di esportare altri beni (Eichengreen, 2011). I paesi esportatori pagati in dollari trovano poi conveniente investire i loro guadagni nel mercato finanziario americano accumulando riserve valutarie a titolo di assicurazione contro possibili crisi internazionali del tipo di quelle che hanno colpito, il Messico, la Russia e i paesi asiatici negli anni ’90. Quanto fin qui detto porta a identificare una situazione di doppia debolezza: quella degli Usa che per mantenere il loro livello di consumo hanno accumulato debiti verso il resto del mondo e quella dei paesi emergenti che per crescere hanno avuto bisogno del mercato di sbocco americano. Paesi come la Cina che finanziano una ampia quota del debito pubblico statunitense sono nel contempo creditori ma sono anche legati alle sorti dell’economia americana. Questa mutua dipendenza ha per molti anni garantito lo sviluppo dell’economia mondiale ma è ora chiaramente insostenibile. Lo shock della crisi finanziaria ha costretto gli Usa a ridurre il consumo interno riducendo le importazioni, mentre la Cina deve modificare la proprio strategia di crescita puntando di più sulla domanda interna. Resta da chiarire un ultimo punto: perché gli Usa hanno consumato per molti anni a credito? Per rispondere è necessario riprendere la questione della distribuzione del reddito. Negli Usa, la crescente diseguaglianza ha comportato la stagnazione o la riduzione del reddito reale del ceto medio (Rajan, 2010; Reich, 2010). Nel contempo il massiccio afflusso di finanziamenti dal resto del mondo ha contribuito a creare un’offerta di credito interna a basso costo. In questo modo, con un risparmio prossimo allo zero, le famiglie americane hanno rinviato nel tempo l’inevitabile riduzione del loro standard di vita indebitandosi sempre di più. L’indebitamento è stato particolar- 6 mente vistoso nel settore immobiliare con le conseguenze negative che stiamo vivendo tutti ancora oggi. Resta un ultimo tassello da aggiungere alle cause di fondo della crisi: la politica di deregolamentazione dei mercati finanziari che eliminando la distinzione tra banche commerciali e d’affari ha aumentato la fragilità sistemica del settore finanziario negli Usa e in altri paesi. 5) Dalla crisi finanziaria alla crisi del debito sovrano: il caso europeo La risposta dei governi alla crisi finanziaria è stata, in primo luogo, un massiccio salvataggio del sistema bancario realizzato con fondi pubblici. Nei paesi dove questo è stato fatto, il bilancio pubblico si è ovviamente deteriorato e il debito pubblico è aumentato. In breve tempo, il debito privato all’origine della crisi si è perciò trasformato in debito pubblico. In Europa, a partire dal caso greco, il peggioramento dei conti pubblici ha innescato una grave crisi economico-istituzionale che ha minacciato di travolgere la stessa l’Unione Monetaria Europea. Il paradosso è che la finanza privata ha iniziato a speculare contro gli stati con un più debito e deficit pubblico dopo che è stata salvata dai governi che in questo modo hanno scaricato il costo della crisi sui bilanci pubblici stessi. Le figura 7 e 8 documenta il peggioramento della finanza pubblica europea dopo la crisi. Confrontando la UE con gli Usa, l’Europa esce però vincente in termini numerici.. I dati riportati in figura 9 rivelano infatti, che nel 2011 in Europa il rapporto debito-Pil in media superava di poco l’80%, mentre negli Usa andava oltre il 100%. In base alla semplice logica dei numeri, pertanto, non è facile capire perché la speculazione internazionale abbia colpito l’Europa e non si sia rivolta invece contro gli Usa. La risposta va cercata nelle carenze politiche ed istituzionali dell’Unione Europea. È vero che gli Usa hanno una finanza pubblica in condizioni peggiori di quella della UE nel suo insieme, tuttavia gli Usa sono uno stato federale dove un’unione monetaria è accompagnata da un governo dotato di un consistente bilancio federale. In Europa abbiamo una unione monetaria, una banca centrale, ma manchiamo di un governo federale e il Parlamento Europeo democraticamente eletto ha pochi poteri. Nella UE sono mancati chiari meccanismi istituzionali per effettuare trasferimenti condivisi di risorse verso paesi membri in difficoltà e la stessa Banca Centrale Europea ha un mandato 7 istituzionale più limitato di quello della Fed americana che le impedisce di agire come un vero “prestatore di ultima istanza” capace di far fronte in modo illimitato a speculazioni contro l’area euro che scommettono sull’incapacità dei paesi più deboli (i cosiddetti paesi PIIGS, Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna) di rifinanziare il loro debito pubblico. Solo ora, e faticosamente, la UE si è dotata di alcuni strumenti di intervento (Fiscal Compact, ESM o fondo “salva stati”) nati da accordi intergovernativi. In assenza di una vera unione fiscale basata su regole condivise ha prevalso la logica della “casa in ordine”. Questa si basa sull’idea che sia sufficiente che ogni stato “mette in ordine” i propri conti pubblici per superare la crisi. Il problema di questa prospettiva è che se, come sta avvenendo, tutti adottano politiche di rigore finanziario con tagli alla spesa pubblica si provoca un calo della domanda che si somma a quella già consistente dovuta crisi internazionale. Paradosalmente, le politiche di rigore possono aggravare la crisi per il loro impatto negativo sul reddito nazionale. Ma un calo del reddito a sua volta riduce il gettito fiscale deteriorando il bilancio pubblico spingendo i governi ad ulteriori restrizioni fiscali in una spirale deflattiva perversa che rende impossibile il successo della politica generalizzata della “casa in ordine”. Il riequilibrio dei conti pubblici è necessario ma deve essere accompagnato da politiche coordinate a livello sovranazionale europeo che permettano il rilancio dell’economia del nostro continente. La crisi del debito sovrano in Europa ha rivelato l’esistenza di squilibri interni alla UE con i paesi dell’area mediterranea nella scomoda posizione di paesi “debitori” con problemi di bilancio pubblico e la Germania, assieme ad altri paesi del centro-nord Europa nella posizione di creditori con bilanci pubblici in ordine. Questo squilibrio ha creato divisioni politiche su come superare la crisi dell’area euro che è arrivata vicino ad una pericolosa rottura. In realtà, il trattato di Maastricht che ha istituto l’Unione Monetaria Europea non prevede la possibilità di uscita dall’Unione ma nei mesi passati si è invece fatta strada la possibilità che i paesi in maggiore difficoltà, come la Grecia, potessero lasciare l’Unione Monetaria. Queste tesi, oltre a fornire munizioni alla speculazione internazionale, non tengono conto degli enormi costi non solo economici ma anche politici della rottura dell’euro. Un simile evento, oltre al ritorno delle monete nazionali, segmenterebbe il mercato europeo e porterebbe con grande probabilità al sorgere di reciproche recriminazioni e pulsioni nazionalistiche che enormi danni hanno già causato nel passato. Per impedire tutto questo gli stati europei do- 8 vrebbero procedere senza esitazione verso la realizzazione di un vero stato federale europeo dotato di un bilancio proprio e basato su istituzioni democraticamente elette e rappresentative di tutti i cittadini del nostro continente. 6) Quali prospettive per l’Europa e l’economia mondiale? Non è chiaro quanto tempo servirà per uscire dall’attuale fase di crisi. Sono però chiare le misure da adottare per prevenire il ripetersi di crisi finanziarie globali tenendo conto dei cambiamenti geopolitici in corso. In primo luogo sono auspicabili maggiori controlli sui mercati finanziari, aumentando i poteri di vigilanza delle banche centrali e degli organismi internazionali come il Fondo Monetario Internazionale. Dovrebbe essere di nuovo introdotta una chiara demarcazione tra le attività delle banche commerciali e le banche di affari. I movimenti speculativi di capitale dovrebbero essere scoraggiati introducendo qualche forma di tassazione sulle transazioni finanziarie lungo le linee suggerite anni fa dal premio Nobel per l’economia Tobin (Belfiore e Brancaccio, 2002). A livello del sistema monetario internazionale sarebbe auspicabile la creazione di una moneta di riserva “sovranazionale” emessa dal Fondo Monetario Internazionale o dalla Banca dei Regolamenti Internazionale riprendendo le idee che Keynes aveva portato alla conferenza di Bretton Woods del 1944 che disegnò la struttura istituzionale mondiale dopo la seconda guerra mondiale. Tale idea è stata recentemente ripresa dalla Cina e da altri paesi emergenti e avrebbe il pregio di eliminare una delle asimmetrie che hanno portato alla crisi attuale, il ruolo privilegiato del dollaro e l’allentamento dei vincoli esteri che questo conferisce agli Usa (Fiorentini e Montani, 2010). Purtroppo poco è stato finora fatto. Negli Usa la legge di riforma del sistema bancario e finanziario procede con fatica il suo iter parlamentare. Nessun paese ha introdotto la “tobin tax” e il progetto di una moneta di riserva sovranazionale resta un’affascinante ipotesi teorica. In assenza di vere riforme dei mercati internazionali e di nuovi accordi sovranazionali procederanno comunque le tendenze multipolare e la diffusione di processi di integrazione economica regionale (ASEAN, NAFTA, Unione Africana, Mercosur). La crisi dell’economia statunitense e la rapida crescita della Cina fanno pensare che a livello 9 monetario il dollaro non potrà mantenere la sua attuale indiscussa predominanza, Se l’UE riuscirà a superare questo momento di grave crisi economica ed istituzionale rafforzando la sua unità politica, allora sarà prevedibile un mondo caratterizzato da almeno tre valute di riferimento, il dollaro, l’euro e lo yuan cinese (World Bank, 2011). Resta purtroppo la sensazione che dopo la crisi finanziaria globale si stia perdendo una grande opportunità per rendere più solido e sicuro il nostro futuro. 10 Bibliografia Belfiore R. e E. Brancaccio (2002), Il granello di sabbia. I pro e i contro della Tobin Tax, Milano, Feltrinelli. Davies, J. B., S. Sandstrom, A. Shorrocks and E. N. Wolf (2011). "The Level and Distribution of Global Household Wealth." The Economic Journal, 121(March), 223-­‐54. Eichengreen, B. (2011). Exorbitant Privilege. New York: Oxford University press. Fiorentini, R. and G. Montani (2010). "Global Imbalances and the Transition to a Symmetric World Monetary System." Perspective on Federalism, 2(1), 1-­‐42. ____ (2012). The New Global Political Economy: from Crisis to Supranational Integration. Cheltenham, UK and Northampton, MA: Edward Elgar. FMI (2012), World Economic Outlook, Washington, International Monetari Fund. Gallino L. (2011), Finanzcapitalismo: la civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi. ILO (2008). World of Work Report 2008. Geneva: International Labour Organization. Lindert, P. H. and J. G. Williamson (2001). "Does Globalization Make the World More Unequal?" NBER Workin Paper Series, 8228. McKinsy Global Institute (2011), Mapping Global Capital Markets 2011, McKinsey&Company. OECD (2011a). Divided We Stand: Why Inequality Keep Rising. Paris: OECD. ____ (2011b). Growing Income Inequality in OECD Countries: What Drives It and How Can Policy Tackle It? Paris: OECD. Rajan, R. G. (2010). Fault Lines. How Hidden Fractures Still Threaten the World Economy Princeton and Oxford: Princeton University Press. Reich, R. B. (2010). Aftershock. New York: Alfred A. Knopf. World Bank (2011). Multipolarity: the New Global Economy. Washington: The World Bank. Siti web Fondo Monetario Internazionale: www.imf.org Banca Mondiale: www.worldbank.org Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE): www.oecd.org Organizzazione Mondiale del Lavoro: www.ilo.org Unione Europea: europa.eu.int Eurostat: ec.europa.eu/eurostat 11 Figura 1: valore del commercio mondiale dal 1948 (miliardi di dollari) Commercio(mondiale(dal(1948((miliardi(di(dollari)( 18000" 16000" 14000" 12000" 10000" 8000" 6000" 4000" 2000" 0" 1948"1950"1952"1954"1956"1958"1960"1962"1964"1966"1968"1970"1972"1974"1976"1978"1980"1982"1984"1986"1988"1990"1992"1994"1996"1998"2000"2002"2004"2006"2008"2010" Export" Import" Fonte: Fondo Monetario Internazionale Figura 2: tassi di crescita del Pil Fonte: Fondo Monetario Internazionale 12 Figura 3: quota sul Pil mondiale delle aree avanzate Fonte: Fondo Monetario Internazionale; * *dato stimato Figura 4: quota del Pil mondiale dei oaesi BRICS Fonte: Fondo Monetario Internazionale; *dato stimato 13 Figura 5: quote del reddito dell’1% più ricco della popolazione in alcuni paesi avanzati 30 Australia Canada France United9Kingdom United9States Sweden 23 15 8 19 15 19 20 19 25 19 30 19 35 19 40 19 45 19 50 19 55 19 60 19 65 19 70 19 75 19 80 19 85 19 90 19 95 20 00 0 Fonte: OCSE (2008) Figura 6: gli squilibri globali e il disavanzo estero degli Usa 800 600 400 200 0 -­‐200 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 -­‐400 -­‐600 -­‐800 Current Account Financial Account Fonte: Fondo Monetario Internazionale e Bureau of Economic Activity (Usa) 14 0,0 -­‐5,0 -­‐10,0 Belgium Bulgaria Czech Republic Denmark Germany Estonia Ireland Greece Spain France Italy Cyprus Latvia Lithuania Luxembourg Hungary Malta Netherlands Austria Poland Portugal Romania Slovenia Slovakia Finland Sweden United Kingdom 180 160 140 120 100 80 60 40 20 0 Belgium Bulgaria Czech Republic Denmark Germany Estonia Ireland Greece Spain France Italy Cyprus Latvia Lithuania Luxembourg Hungary Malta Netherlands Austria Poland Portugal Romania Slovenia Slovakia Finland Sweden United Kingdom Figura 7: rapporto debito pubblico-Pil nella UE (2007-2011) 2007 2007 2011 Fonte: Eurostat Figura 8: rapporto disavanzo pubblico-Pil nella UE (2007-2011) 2011 10,0 5,0 -­‐15,0 15 Figura 9: rapporto debito pubblico-Pil negli Usa e nella UE 140 120 100 80 2007 60 2011 40 20 0 EU Euro area Italia UK USA Fonte: Eurostat e Fondo Monetario Internazionale Tabella 1: quote della ricchezza posseduta dalle fasce più ricche della popolazione mondiale Percentili più ricchi della popolazione Quota della ricchezza al top della distribuzione 10% 70,7% 5% 56,7% 1% 31,6% Fonte: Davies e altri (2011) 16