IL PROFONDO SIGNIFICATO ETICO DELLE CURE PALLIATIVE

IL PROFONDO SIGNIFICATO ETICO DELLE CURE PALLIATIVE
di Luisa M. Borgia™
(in “Professione – Cultura e pratica del medico d’oggi”, n.8 (ottobre 2005), pp. 33-37)
Parlare del dolore suscita sempre enormi difficoltà, sia perché comporta un
immediato coinvolgimento empatico, sia perché non esistono definizioni esaustive di
ciò che è soprattutto una spiacevole sensazione, un’esperienza appresa sin dalla prima
infanzia. La filosofia ha da sempre cercato di dare un senso al problema per
eccellenza dell’uomo, con una molteplicità di risposte mai completamente esaurienti
e una collezione infinita di definizioni, fino all’ammissione che definire il dolore è
inutile, perché ciascuno di noi lo ha conosciuto e basta evocarlo per ottenerne la
percezione, per far scaturire il materiale vissuto da cui poi ogni astrazione definitoria
parte1.
Nel 1978, si giunse all’ intuizione del dolore totale2, comprendente tutti gli aspetti del
dolore: lo stimolo nocicettivo, i fattori psicologici, i fattori sociali e finanziari.
Nell’ars medica, il dolore è sempre stato l’obiettivo contro cui devono indirizzarsi le
forze congiunte del medico e del malato3, ma mentre nella medicina classica il dolore
era solo un sintomo della malattia, nella medicina moderna il dolore ha cambiato
status, diventando patologia in sé e richiedendo al medico una specializzazione nella
terapia del dolore. Questa “rivoluzione tolemaica” nei confronti del dolore è stata
prodotta dal progresso medico/scientifico che, se ha permesso un allungamento della
sopravvivenza anche in patologie gravi e ad esito infausto, ha individuato anche
metodologie efficaci nel controllo del dolore acuto e cronico,con un conseguente
miglioramento della qualità della vita.
Spesso si usano indistintamente le espressioni “terapia del dolore” e “cure palliative”,
utilizzandoli erroneamente come sinonimi; in realtà la terapia del dolore consiste nel
trattamento con farmaci o tecniche specifiche dei pazienti che hanno come sintomo
persistente il dolore e che non sono necessariamente pazienti allo stadio terminale
™
Componente della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Comitato Nazionale per la Bioetica
Coordinatrice Didattica Master in Bioetica e docente di Bioetica, Università di Camerino
Per comunicazioni: [email protected]
1
Andreoli V., Capire il dolore, Rizzoli, Milano 2003
2
Saunders C., The management of terminal disease, Edward Arnold, London 1978.
3
“Il medico e il malato devono, insieme, combattere contro la sofferenza”, Ippocrate, Opere,Utet 1976.
della malattia; le cure palliative sono invece l’insieme di azioni e servizi per
l’assistenza dei malati terminali e comprendono anche la terapia del dolore4.
Le nuove conoscenze scientifiche hanno avviato una lenta, ma inarrestabile
rivoluzione culturale, che affianca al concetto di guarigione il concetto di cura, nel
senso più antico e profondo del termine, secondo il significato che Igino aveva voluto
attribuire all’originario mito di Cura5: l’uomo, essere mortale, ha bisogno di
sollecitudine e accompagnamento per sopperire ai propri bisogni in tutti i momenti
della propria vita.
Originariamente il latino cura aveva come sinonimo il greco therapeia, con il
significato di sollecitudine, servizio e, per traslato, affanno, preoccupazione:
prendersi cura di qualcun altro implica responsabilità, relazionalità e il reciproco
affidarsi. A partire da Ippocrate e con l’avvento della medicina scientifica i due
termini assunsero significati diversi: la terapia acquistò un rigido connotato sanitario
di strumento per la guarigione delle malattie, con una valenza fredda e impersonale,
lasciando al termine cura l’originaria connotazione relazionale, indipendente
dall’esito della terapia.
Questo ha introdotto una distinzione anche in campo bioetico a proposito del
moderno concetto di diritto alla salute: se non è possibile pretendere un diritto
assoluto alla terapia e alla guarigione, è invece legittimo esercitare il diritto alla cura;
allo stesso modo, invocando il principio di autonomia, il paziente può legittimamente
rifiutare le terapie ritenute eccessivamente gravose e invasive, così come il medico
può esercitare la desistenza terapeutica, ma non l’abbandono terapeutico, poiché
nessuno può sottrarsi al dovere di accompagnare un altro essere umano nell’ultima,
radicale esperienza della propria vita.
Il rispetto della dignità si concretizza permettendo ad ogni persona di vivere una
buona morte, che non significa, come spesso si lascia intendere nei pubblici dibattiti,
favorire attività eutanasiche, ma garantire il controllo del dolore e della sofferenza,
affinché si possa riconoscere nel volto di ciascun morente ancora e sempre l’uomo.
In questa direzione si è mosso il Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 (denominato
Patto di solidarietà per la salute), che ha dedicato l’Obiettivo IV a “Rafforzare la
tutela dei soggetti deboli”: assistenza ai pazienti nella fase terminale delle malattie
irreversibili, cui fornire un’assistenza finalizzata al controllo del dolore, alla
prevenzione e alla cura delle infezioni, al trattamento fisioterapico e al supporto
psicosociale. Era inoltre esplicitata la volontà di garantire l’erogazione di assistenza
farmaceutica a domicilio tramite farmacie ospedaliere e potenziando la terapia
palliativa e antidolorifica.
4
Si tratta soprattutto di malati oncologici, di pazienti affetti da malattie neurologiche degenerative, da cardiomiopatia
dilatativa, da cirrosi epatica e da malattie polmonari.
5
Igino, Liber Fabularum, II sec. d.C. Il mito narra di Cura che, attraversando un fiume, raccolse del fango e gli diede
forma di uomo (da humus), poi chiese a Zeus di infondergli lo spirito con il suo soffio. Subito dopo, Cura, la terra e
Zeus cominciarono a discutere sul destino dell’uomo dopo la sua morte, avocando ciascuno il diritto di possederlo.
Convocato Saturno quale giudice supremo, decretò che alla terra, che aveva fornito la materia prima, sarebbe tornato il
corpo dell’uomo, a Zeus, che aveva infuso il soffio vitale, sarebbe tornato lo spirito, mentre Cura lo avrebbe posseduto
per tutto il tempo della sua vita.
Questo Piano Sanitario sfociò nella Legge del 20016, che finalmente facilitò la
prescrizione di morfina e di altri oppiacei, abolendo i vincoli burocratici precedenti
(formalismi)7. Questa legge ha costituito un fortissimo segnale culturale e sanitario
per legittimare la palliazione ed esortare i medici a utilizzarla superando antiche e
ingiustificate remore, per le quali l’Italia si situa tra i posti più bassi in Europa (così
come emerge dagli indicatori dell’OMS per valutare la lotta al dolore).
E’ necessario creare la consapevolezza tra gli operatori sanitari e la pubblica opinione
che il dolore ha una duplice componente, quella organica e quella psichica: sulla base
di questi due aspetti il dolore diventa l’unità inscindibile di dolore/sofferenza e si
inserisce in una visione olistica della persona, intesa come sinolo di corpo e psiche,
L’operatore sanitario deve pertanto assolvere al dovere etico e terapeutico di una
gestione integrata del soffrire, in base a un’alleanza terapeutica che considera la storia
personale del paziente, che rispetta la sua autonomia decisionale, che è
profondamente consapevole della possibilità di sopprimere il dolore ma non sempre
la sofferenza.
La terapia del dolore, specie se palliativa, è sempre stata considerata la cenerentola
tra tutte le altre branche della medicina, quella “zona di nessuno” in cui avventurarsi
più per pietà che per convinzione, purché non fossero sottratte risorse alle terapie
destinate alla guarigione.
La legge del 2001 ha rappresentato la punta di un iceberg costituito da contributi
culturali e scientifici avvicendatisi nei decenni precedenti.
Già nel 1995 il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) dichiarava che “deve
essere riconosciuto un alto valore bioetico alle cure palliative, (…), la cui sostanza
non è nella pretesa illusoria di strappare un paziente alla morte, ma nella ferma
intenzione di non lasciarlo solo, di aiutarlo a vivere questa sua ultima radicale
esperienza nel modo più umano possibile, sia da un punto di vista fisico che da un
punto di vista spirituale”8.
Questo approccio culturale fu approfondito in ambito scientifico grazie ad un
convegno dedicato esclusivamente alle cure palliative, nel 19979, in cui si affermò
con perentorietà l’esistenza della medicina palliativa a cui “deve essere attribuita
uguale importanza e dignità come a qualsiasi altra forma di intervento medico sia sul
piano clinico-scientifico che su quello di un’adeguata e proporzionale distribuzione
delle risorse”10. In quel convegno si effettuò un’attenta analisi dell’evoluzione della
medicina e di tutte le trasformazioni determinate dalle tecnologie avanzate, tra le
quali l’imporsi della medicina palliativa con i suoi correlati etici ed operativi
rappresentava uno dei momenti più salienti della prassi medica moderna.
6
Legge 12/2001: Norme per agevolare l’impiego dei farmaci analgesici oppiacei nella terapia del dolore
Stabiliti nel D.P.R. 9/10/1990 n. 309: Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze
psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenze.
8
Comitato Nazionale per la Bioetica, Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana, Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria, Roma 1995.
9
“Convegno interdisciplinare in tema di cure palliative: aspetti clinici, implicazioni psicologiche, dilemmi etici”,
Armeno (No), 27/09/1997.
10
Ibidem, Raccomandazioni conclusive.
7
Nelle Raccomandazioni conclusive di quel convegno si decretava che la medicina
palliativa considera come scopo primario del proprio agire l’interesse, la volontà e la
dignità del paziente inteso come persona non isolatamente ma all’interno del suo
sistema familiare; che le cure palliative non devono essere più ritenute prerogativa
esclusiva del paziente neoplastico o terminale, ma devono essere estese a tutte le
situazioni morbose evolutive a prognosi infausta; che il medico di famiglia deve
potenziare il suo insostituibile ruolo attraverso un continuo aggiornamento in queste
discipline, per poter fornire cure adeguate a chi, liberamente e consapevolmente,
decide di “morire a casa”; che i piani sanitari devono considerare come prioritaria la
realizzazione di strutture sul modello degli hospices inglesi, dove il paziente e la sua
famiglia possono fruire di una presa in carico integrata, in alternativa all’assistenza
domiciliare o ospedaliera; che la terapia del dolore cronico deve tenere conto non
solo degli aspetti farmacologici ma anche di quelli relazionali, cercando di evitare
l’impiego di tecniche invasive penalizzanti la qualità della vita.
In queste considerazioni, per nulla scontate al momento della loro emanazione, si
rintraccia il vero significato racchiuso nel termine “palliazione”, che viene
erroneamente associato alla inutilità e all’inefficacia delle terapie: palliare vuol dire
coprire con il pallium, l’ampio mantello portato dai greci e poi dai romani sopra la
tunica. L’immagine che ne deriva è quella della protezione, del riparo, del soccorso.
Il felice abbinamento del termine palliazione a quello di cura (nel senso descritto in
precedenza) contiene tutto il valore etico dell’accompagnamento colmo di pietas e di
cum-passione per chi non può sperare in una terapia risolutiva11.
Come si evidenziò nel simposio di Armeno, per un approccio alle ultime fasi della
malattia che sia veramente di tipo antropologico, occorre considerare non solo il
dolore ma anche la sofferenza, intesa come esperienza psichica e spirituale e per
fronteggiare le difficoltà di comunicazione di queste delicate fasi di malattia, occorre
che la presa in carico sia estesa anche al nucleo familiare del malato e non possa
necessariamente prescindere dal lavoro in equipe12.
Ci si rese conto della necessità di fare chiarezza definitiva sugli stereotipi che
considerano le cure palliative sinonimo di inutilità e rinuncia o, all’opposto, di
equivalente eutanasico, indicandole invece come l’unica valida alternativa eticoclinica all’eutanasia e all’accanimento terapeutico.
La consapevolezza culturale dell’importanza della palliazione trovò un valido
sostegno anche in ambito cattolico: nel 1980, la Sacra Congregazione per la Dottrina
della Fede13, spazzando via i falsi luoghi comuni secondo cui il credente è obbligato
11
Secondo la definizione del National Council for Hospice and Palliative Care Services WHO-OMS 1990,
modificata dalla Commissione ministeriale per le cure palliative 1999, le cure palliative “affermano la vita e
considerano il morire come un evento naturale; non accelerano né ritardano la morte; provvedono al sollievo dal dolore
e dagli altri disturbi; integrano gli aspetti psicologici e spirituali dell’assistenza; aiutano i pazienti a vivere in maniera
attiva fino alla morte; sostengono la famiglia durante la malattia e durante il lutto.”
12
Figure fondamentali dell’équipe sono: il medico curante, l’infermiere, il farmacista ospedaliero, il volontario, il
coordinatore dei volontari, lo psicologo, l’assistente sociale e, se necessario, lo specialista dell’alimentazione e della
riabilitazione.
13
Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia,1980.
dal Magistero e dal Vangelo ad accettare necessariamente la sofferenza come viatico
per il Regno dei Cieli, dichiarava la liceità morale dell’uso degli analgesici per lenire
il dolore i base ai seguenti principi:
• il principio della valutazione discrezionale che permette di utilizzare mezzi
proporzionati al tipo di terapia, al grado di difficoltà e di rischio, alle condizioni
dell’ammalato e alle sue forze fisiche e morali;
• il principio dell’allocazione etica delle risorse che richiede di usare mezzi
proporzionati alle spese necessarie e alle possibilità di applicazione;
• il principio di autonomia che legittima l’interruzione di tali mezzi quando i
risultati siano deludenti, tenendo conto del giusto desiderio dell’ammalato e dei
suoi familiari (oltre che del parere dei medici competenti);
• il principio di socialità che permette la liceità dei metodi sperimentali (anche se
comportano dei rischi) per ottenere risultati applicabili anche ad altri pazienti.
Contestualmente si dichiarava un netto rifiuto di ogni forma di accanimento
terapeutico, legittimando la rinuncia o la sospensione di cure eccessivamente gravose
per il paziente nell’imminenza di una morte inevitabile, purché fossero garantite le
cure normali (l’igiene, la mobilizzazione, la nutrizione e l’idratazione).
Ma qual è il motivo per cui, tuttora, la medicina palliativa trova così poco riscontro in
ambito medico? La farmacologia e l’algologia permettono il controllo del dolore nel
paziente inguaribile14, eliminando o riducendo gli effetti collaterali che da sempre
“spaventano” il medico quando deve utilizzare i farmaci oppioidi come la
morfina15…: la depressione respiratoria16, la tossicodipendenza17, la progressiva
tolleranza18, lo stato confusionale19.
È proprio la paura ancora diffusa di questi possibili effetti secondari, suffragata da
una conoscenza incompleta dei meccanismi d’azione dei farmaci, che impediscono il
corretto e doveroso utilizzo delle sostanze analgesiche.
Secondo uno studio del 2003 condotto da “Il Tribunale per i diritti del malato”, la
terapia del dolore viene praticata in Italia solo al 10% dei malati che ne avrebbe
bisogno (circa 214 mila).
14
Il più importante trattamento del dolore, specie quello da cancro, è quello farmacologico e gli analgesici di base
appartengono a tre classi farmaceutiche: antinfiammatori non steroidei (FANS) come l’aspirina e il nimesulide; oppioidi
deboli come la codeina e il tramadolo; oppioidi forti come la morfina, il metadone, il fentanyl, la buprenorfina e
l’ossicodone (utilizzati in maniera graduale a partire dai FANS per poi passare agli altri due).
15
La morfina è il farmaco d’elezione nel dolore oncologico. Essa agisce bloccando la trasmissione del dolore, legandosi
a recettori specifici localizzati nel sistema nervoso centrale. E’ un analgesico sicuro ed efficace che permette di
controllare il dolore almeno nell’80% dei casi.
16
In realtà, utilizzando dosi e modalità di somministrazione corrette questa sindrome è estremamente rara.
17
Nel malato oncologico la dipendenza, quando si instaura, è di tipo fisico; quella psicologica non si verifica
praticamente mai nei pazienti trattati con morfina a scopo antalgico. Alla scomparsa del dolore la terapia può, quindi,
essere in qualunque momento ridotta progressivamente e infine sospesa.
18
La necessità per il paziente di aumentare le dosi per il controllo del dolore è legata alla progressione della malattia;
solo in un numero limitato di casi si può instaurare una condizione di tolleranza che richiede il progressivo frequente
aumento delle dosi. A tal riguardo, una soluzione efficace è il ricorso alla rotazione degli analgesici oppioidi.
19
Quando è dovuto al sovradosaggio è solitamente dominabile riducendo le dosi o cambiando tipo di oppioide.
Una grossa responsabilità deve essere attribuita alla carenza formativa dei medici in
questa materia, che impedisce poi, durante l’attività professionale, di istituire reparti
specifici nelle strutture pubbliche20 e di diffondere trattamenti domiciliari.
Eppure, bisognerebbe considerare che il mancato utilizzo della terapia palliativa, oltre
che immotivato scientificamente e ingiustificato eticamente, si configura come un
atto di malpractice per inadeguata condotta professionale in ambito medico-legale….
In Bioetica, il dilemma più grave è quello dell’effetto non intenzionale dei farmaci
analgesici che, se utilizzati a dosaggi superiori possono affrettare la morte.
Tuttavia, tutti gli organismi deputati ad esprimere un parere sono concordi con il
CNB nel ritenere che “Nei casi in cui non siano possibili altre soluzioni terapeutiche,
è lecito lenire il dolore anche a costo di deprimere lo stato di coscienza, dopo aver
ottenuto dal paziente il consenso informato e dopo aver lasciato al paziente stesso il
tempo necessario per adempiere le volontà finali. (…) Anche la terapia del dolore
obbedisce al criterio della proporzionalità. E’ possibile che l’uso di alte dosi di
farmaci analgesici comporti il rischio di abbreviare la vita, ma in questo caso la morte
non è né voluta né ricercata. Non può essere, invece, ritenuta lecita la decisione di
somministrare alte dosi di narcotici allo scopo di provocare la morte
(criptoeutanasia)”21.
In ambito bioetico pochi argomenti hanno riscosso pareri unanimi come nel caso
delle cure palliative, abbattendo gli pseudo-steccati ideologici che spesso sottendono
alle diverse opinioni bioetiche. Basti pensare ad un’affermazione pronunciata nel
lontano 1957 dal pontefice Pio XII ad un convegno di anestesiologia, in risposta agli
anestesisti cattolici che chiedevano se la soppressione del dolore e della coscienza
mediante narcotici, ove richiesto da un’indicazione medica, fosse consentita dalla
religione e dalla morale al medico e al paziente, anche nel caso in cui l’uso dei
narcotici anticipasse la morte. In quella occasione, anticipando i tempi della medicina
e della bioetica, Pio XII rispose: se non ci sono mezzi e, se nelle circostanze concrete,
ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri morali e religiosi, SI22.
Un simile parere affonda le sue radici in una regola morale nota come la regola del
doppio effetto, secondo cui un’azione che può provocare due effetti, uno negativo ed
uno positivo, è eticamente accettabile se sussistono le seguenti circostanze:
• che l’azione in sé sia buona o almeno moralmente neutra (nel caso della
palliazione l’azione è quella di somministrare il farmaco analgesico);
• che l’intenzione sia quella di procurare solo l’effetto (lenire il dolore, non
anticipare la morte);
• che l’effetto positivo (lenire il dolore) non si ottenga per mezzo dell’effetto
negativo (procurare la morte);
• che non sussista alcuna alternativa per ottenere il risultato positivo;
20
Secondo i piani legislativi, le Regioni dovrebbero garantire 0,4 – 0,5 posti letto ogni 10 mila abitanti per le terapie
palliative, ma attualmente la media nazionale è ferma allo 0,3, con particolari carenze al Sud, dove vi sono territori
come Puglia e Campania che non raggiungono 0,2 posti letto ogni 10 mila abitanti.
21
Comitato Nazionale per la Bioetica, Questioni bioetiche relative alla fine…, cit.
22
Pio XII, 24 Febbraio 1957, IX Congresso della Società Italiana di Anestesiologia..
• che ci sia una ragione proporzionalmente grave per correre il rischio di ottenere
l’effetto negativo.
In quella circostanza il Pontefice raccomandò che il paziente fosse informato dei
possibili effetti di dosi maggiori di analgesici, affinché avesse il tempo per
ottemperare a tutti i suoi doveri, anche spirituali: traslato in ambito bioetico, questa
raccomandazione rispetta il principio di autonomia del paziente che, ove possibile,
ha diritto ad esprimere un consapevole consenso informato e ad avere tutto il tempo
necessario per adempiere alle ultime volontà.
Alla fine di questa panoramica storico-bioetica, emerge come in ambito scientifico, la
medicina palliativa sia l’unica branca medica a soffrire di una originale forma di
schizofrenia: riconosciuta unanimemente come una necessità clinica e un dovere
etico, è ancora scarsamente utilizzata e colleziona un’amplissima varietà di infondati
pregiudizi e false paure. Può essere infatti considerata (con un moto oscillatorio)
come accanimento terapeutico o come forma di eutanasia lenta, denunciando quanto
siamo ancora distanti dalla conoscenza profonda e onesta di questi argomenti. Queste
tematiche sono entrate prepotentemente nel nostro linguaggio quotidiano, ma pochi
sono i mezzi di comunicazione che si sono preoccupati di fornire anche informazioni
corrette ed esaustive. Tutto ciò ha costituito il terreno sul quale ha stentato ad
attecchire la regolamentazione sulla palliazione, che, nonostante abbia semplificato la
prescrizione degli oppiacei23, non riesce a convincere la maggior parte dei medici di
base, che continuano a non richiedere il ricettario obbligatorio degli stupefacenti
lasciandolo in giacenza agli Ordini professionali.
C’è ancora molto da fare in questo settore, dove tanti pregiudizi e poca
conoscenza relegano l’Italia negli ultimi posti della lista dei Paesi in cui il controllo
del dolore è normato24, e continuano a impedire un approccio sereno nei confronti di
una pratica clinica, peraltro poco costosa, ma doverosa per un Paese civile.
23
La prescrizione degli oppiacei è gratuita dal 2005, ma quella della morfina lo era già da prima.
Ricordiamo che, ben prima dell’Italia, la normativa sulla palliazione esisteva già in Finlandia, Giappone, Canada,
Australia, Israele, Nuova Zelanda, Colombia, Hong Kong, Spagna e Usa.
24