3. Regimi totalitari e sindacato. Il periodo corporativo.

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DALLE ORIGINI AL NUOVO MILLENNIO
Giampiero Proia
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Le origini. – 3. Regimi totalitari e sindacato. Il periodo corporativo. – 4. Il modello costituzionale. – 5. Il sistema
sindacale “di fatto”. – 6. Segue: il significato del rapporto instaurato dalla
legislazione ordinaria con il fenomeno sindacale. – 7. Dal sostegno della
rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro alla concertazione
“macropolitica”. – 8. Crisi e manutenzione del sistema. Appannamento e
(parziale) superamento della nozione di maggiore rappresentatività. – 9.
Istituzionalizzazione e rappresentanza volontaria; autonomia sindacale e
fonte fatto.
1. Premessa.
Il fenomeno sindacale nasce con la grande industria e
perché nasce la grande industria, anche se il suo rapido sviluppo
lo porterà a radicarsi, e ad espandere la sua azione, in tutti i
settori dell’economia e nella stessa pubblica amministrazione.
E’ nell’industria, come espressione del capitale, che si
manifesta quella nuova forma di conflitto sociale, tra chi detiene i
mezzi di produzione e chi, invece, per vivere può contare solo
sulle sue energie lavorative e si trova costretto a metterle a
disposizione di altri 1.
Ed è nell’industria, come luogo di produzione di massa,
che si creano le condizioni, anche ambientali, perché tra questi
ultimi, con la obbligata convivenza e inevitabile comunanza di
problemi, si sviluppino quelle forme di solidarietà che li porta ad
aggregarsi per difendere e sostenere i loro interessi, nella
consapevolezza che, mediante l’unione delle forze, la debolezza
1
Per la ricostruzione storica di quel conflitto, vedi R. DAHRENDORF, Classi e conflitto di
classe nella società industriale, Bari, 1963; L. EINAUDI, Le lotte del lavoro, Torino, 1924;
S. MERLI, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano. 1880-1900,
vol. I, Firenze, 1972.
1
delle posizioni di ciascuno nei confronti della controparte può
essere superata o, quantomeno, attenuata.
E’ un processo, quello della nascita del fenomeno
sindacale, che avviene nella più assoluta spontaneità ed
informalità, nel silenzio o nel divieto dei legislatori nazionali, che
tardano a comprendere la novità delle questioni poste dallo
sviluppo di quella peculiare forma di relazione contrattuale che
dà luogo al rapporto di lavoro. Questioni “nuove” alle quali,
invece, le concezioni liberiste allora dominanti pensavano di
poter far fronte con strumenti “vecchi”, mediante l’applicazione
anche a tale forma di relazioni dei principi del diritto comune dei
contratti, riconoscendo così, sul piano formale, una parità di
diritti che non poteva non perpetuare, sul piano sostanziale, il
predominio del più forte sul più debole2.
Il che veniva dimostrato, del resto, proprio dalla crescente
diffusione di condizioni di lavoro, giustamente definite grame,
tali da non assicurare neppure il minimo vitale, a causa
dell’esiguità delle retribuzioni, o da mettere a repentaglio la
salute e l’incolumità dei lavoratori, a causa della mancanza di
regole sull’igiene e sulla sicurezza, ma anche di limiti all’orario
di lavoro, e dello sfruttamento del lavoro delle donne e dei
minori.
E così, prima ancora che dai Parlamenti3, le forme e gli
strumenti di tutela contro queste situazioni intollerabili furono
creati autonomamente dagli interessati, spesso in correlazione
con obiettivi e movimenti politici di più generale
contrapposizione al capitalismo4, dando vita spontaneamente agli
“architravi” del fenomeno sindacale: l’organizzazione dei
lavoratori, il contratto collettivo, lo sciopero5.
2
Cfr. B. BRUGI, Uguaglianza di diritto, disuguaglianza di fatto, in Riv. it. soc., 1908, p. 49,
e, soprattutto, SANTI ROMANO, Lo Stato moderno e la sua crisi, in Prolusioni e discorsi
accademici, Modena, 1931, p. 69 ss.
3
Sulla prima legislazione sociale in Italia, ispirata più da ragioni di ordine pubblico che da
fini di emancipazione della classe dei lavoratori, e perciò anche definita di “polizia del
lavoro”, si vedano A. CABRINI, La legislazione sociale (1859-1913), Roma, 1913; L.
CASTELVETRI, Il diritto del lavoro alle origini, Milano, 1994, p. 53 ss.
4
P. CRAVERI, Sindacato (Storia), in Enc. dir., Milano, 1990, p. 659 ss..
5
Sul ritardo con il quale il movimento sindacale si affermò in Italia rispetto a quanto
avvenne in altri Paesi europei, A. GRADILONE, Storia del sindacalismo, III, Italia, vol. 1°,
2
Architravi che, sia pure con alterne fortune e con varianti
anche significative, hanno caratterizzato, nel tempo e nello
spazio, l’esperienza giuridica moderna e contemporanea.
Varianti significative, perché, essendo sorto al di fuori di
qualsiasi regolamentazione legale, il fenomeno sindacale non
poteva che venire formandosi con un alto grado di informalità,
tale da rendere incerto anche l’ordine cronologico con il quale
ciascuno degli architravi trovò affermazione, e con caratteristiche
diversificate in relazione ai diversi Paesi, alle loro condizioni
economiche e politiche e financo alle loro tradizioni culturali.
E fortune alterne perché non solo alle origini, ma anche
dopo la loro affermazione, è accaduto che l’organizzazione
sindacale e i suoi strumenti di azione siano stati oggetto di
discipline legali volte a limitare, o eliminare, la libertà da cui essi
promanano. Così come è accaduto che, anche al di fuori di regimi
autoritari, bensì assecondando tendenze presenti nella storia di
importanti movimenti sindacali, questi ultimi siano stati
ammessi, o chiamati, a partecipare allo svolgimento di attività e
funzioni di interesse generale, anche sovranazionale, che segnano
una profonda evoluzione, se non un distacco, dalla originaria
configurazione.
2. Le origini.
Pur nella molteplicità e nella diversità delle esperienze, le
origini della fattispecie “organizzazione sindacale” sono
comunemente individuate nella volontà di un gruppo di
lavoratori di coalizzarsi per meglio difendere i propri interessi6.
Milano, 1959, p. 1 ss.; R. RIGOLA, Storia del movimento operaio italiano, Milano, 1947, p.
23 ss.
6
Cfr., con la consueta profondità di analisi e sinteticità espressiva, M. DELL’OLIO,
Sindacato (diritto vigente), in Enc. dir., XVII, Milano, 1990, p. 669 ss., secondo il quale fin
dall’origine il sindacato si caratterizzò tipologicamente rispetto agli altri fenomeni in senso
lato associativi sia “per il suo sorgere, in presenza, e in vista, di una serie di rapporti che si
svolgono al suo esterno, tra i suoi aderenti, attuali o potenziali, e terzi estranei, identificati
perciò come «controparte»”, sia “per il suo postulare un’azione a sua volta esterna, su o
attraverso quei rapporti”, sia, infine, perché tale azione “si svolge, così caratterizzando il
sindacato anche per il suo essere composto «di» lavoratori o datori di lavoro, con
l’impiego della forza derivante dall’unione o combinazione delle forze degli stessi soggetti,
e più in concreto dal coordinamento, o in questo senso dall’organizzazione, delle loro
condotte nell’ambito o nei riguardi dei rapporti”.
3
E così, integrano quella fattispecie, così come storicamente
è plausibile sia avvenuto, anche forme di coalizione rudimentale
o contigente, come quelle costituite appositamente per attivare il
conflitto nei confronti del datore di lavoro o comporre la
rivendicazione in un accordo collettivo.
Anche se è evidente che la stabilità e le dimensioni della
coalizione sono, per lo più (ma non necessariamente), funzionali
ad una maggiore efficacia dell’azione che il gruppo si propone7.
Già è stato fatto cenno di come, inizialmente, il fenomeno
sindacale fosse visto con diffidenza da parte degli Stati.
Anche in Italia, pur non essendo previsto un divieto di
coalizione, cosicché il sindacato poteva operare in una situazione
formalmente di indifferenza legislativa, era chiaramente
percepibile un atteggiamento di sostanziale sfavore, dimostrato
dai limiti posti all’esercizio della sua azione.
E così, lo sciopero, ossia lo strumento principale mediante
il quale il sindacato può esercitare la sua forza di pressione per
imporre il proprio ruolo alla controparte datoriale e costringerla a
contrattare le condizioni da applicare ai rapporti di lavoro, era
considerato un reato dal codice penale sardo del 1859 (esteso
all’intero Paese dopo l’unificazione del 1961), il quale,
analogamente a quanto già prevedeva il codice penale francese
del 1810, puniva “tutte le intese degli operai allo scopo di
sospendere, ostacolare o far rincarare il lavoro senza
In Italia, sulla iniziale tendenza dell’associazionismo operaio verso forme di mutuo
soccorso, vedi U. GOBBI, Le società di mutuo soccorso, Milano, 1909; S. HERNANDEZ,
Lezioni di storia della previdenza sociale, Padova, 1972, p. 11 ss. Successivamente, dopo
l’esperienza delle organizzazioni o leghe di resistenza (A. GRADILONE, Storia del
sindacalismo, III, cit., p. 299 ss.), nacquero le Camere del lavoro, organizzazioni costituite
su base regionale da lavoratori occupati e disoccupati, senza distinzione di mestiere, con il
compito di promuovere la formazione professionale, gestire il collocamento e fornire ai
lavoratori assistenza sindacale (A. CABRINI, Le Camere del lavoro in Italia, Genova, 1896;
O. GNOCCHI VIANI, Delle Camere del lavoro in Italia, Milano, 1893) e le Federazioni di
mestiere o categoria (R. RIGOLA, Storia del movimento operaio italiano, cit. e, ancora, A.
GRADILONE, Storia del sindacalismo, III, cit., p. 423 ss.). Nel 1906, poi, venne costituita la
Confederazione generale del lavoro (CGL), primo organismo sindacale unitario che riuniva
al suo interno i rappresentanti delle singole Camere del lavoro e Federazioni di mestiere (P.
CRAVERI, Sindacato (Storia), cit., p. 663).
7
4
ragionevole causa” (art. 386), stabilendo pene aggravate per i
“principali istigatori o promotori” (art. 387)8.
Soltanto nel 1890, con l’entrata in vigore del codice penale
Zanardelli, lo sciopero, sul piano formale, fu ammesso, purché
non attuato con “violenza o minaccia” tendenti a coartare “la
libertà, individuale, di lavoro o d’industria” (artt. 165 e 166)9.
Restavano, però, in realtà, profonde limitazioni, poiché la
giurisprudenza, sollecitata dal potere politico, da un lato
interpretò estensivamente la nozione di “violenza o minaccia”10;
d’altro lato, pur considerando lo sciopero oggetto di libertà sul
piano penale, continuò a considerarlo, sul piano civilistico, un
inadempimento contrattuale dell’obbligazione di lavorare,
nonostante le diverse conclusioni che pure venivano suggerite
dalla dottrina11, esponendo così il lavoratore al rischio di sanzioni
da parte del datore di lavoro.
Nel contempo, la funzione stessa del contratto collettivo di
apprestare condizioni minime di tutela (con particolare riguardo,
originariamente, alle retribuzioni12) veniva posta in crisi, in
8
Il codice penale sardo del 1859 pose limiti rigorosi anche alla libertà di coalizione dei
datori di lavoro, vietando “tutte le intese dei datori di lavoro allo scopo di indurre
ingiustamente ed abusivamente gli operai ad una diminuzione del salario” (art. 385). Sulle
origini e sullo sviluppo delle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro, vedi M.N.
BETTINI, Associazioni professionali dei datori di lavoro e sindacato, Milano, 1991.
9
Sulla c.d. “libertà di sciopero” introdotta dal Codice Zanardelli del 1889, vedi P.
CALAMANDREI, Significato costituzionale del diritto di sciopero, in Riv. giur. lav., 1952, I,
p. 223 ss.; G. GIUGNI, La lotta sindacale nel diritto penale, Roma, 1951, p. 9 ss. Più in
generale, sulla disciplina dello sciopero nel periodo precorporativo, vedi L. CASTELVETRI,
Dalla repressione alla liceità penale dello sciopero, una svolta nell’ordinamento giuridico
liberale, in Riv. it. dir. lav., 1989, I, p. 442 ss.
10
Sul punto, vedi G. NEPPI MODONA, Sciopero, potere politico e magistratura 1870/1922,
Bari, 1969 e G.C. JOCTEAU, L’armonia perturbata. Classi dirigenti e percezioni degli
scioperi nell’Italia liberale, Bari, 1988, i quali sottolineano entrambi le forti pressioni che i
governi di allora esercitarono sulla magistratura per incoraggiarla ad interpretare il più
ampiamente possibile le fattispecie della violenza e della minaccia. Per ulteriori
approfondimenti sulla posizione dell’ordinamento liberale di fronte al conflitto collettivo,
vedi M. MARTONE, Governo dell’economia e azione sindacale, Padova, 2006.
11
Cfr., E. REDENTI, Sul diritto di sciopero e sul concetto di interesse professionale, in Riv.
dir. comm., 1909, I, p. 20 ss.; F. CARNELUTTI, Il diritto di sciopero e il contratto di lavoro,
in Riv. dir. comm., 1907, I, p. 87 ss.; L. BARASSI, Ancora sul licenziamento collettivo di
operai scioperanti e non scioperanti, in Riv. dir. comm., 1913, I, p. 34 ss..
12
Sul concordato o contratto di tariffa, vedi: G. MESSINA, I concordati di tariffa
nell’ordinamento giuridico del lavoro, in Riv. dir. comm., 1904, I, p. 458 ss.; nonché P.
LOTMAR, I contratti di tariffa tra datori e prestatori di lavoro, in Giornale. dir. lav. e
relazioni ind., 1984, p. 313 ss.
5
mancanza di una legge che regolasse gli effetti di tale contratto, a
causa dell’inadeguatezza delle regole del diritto comune, in base
alle quali esso poteva esprimere efficacia vincolante soltanto nei
confronti dei singoli lavoratori iscritti al sindacato stipulante e
dei datori di lavoro che lo avevano sottoscritto o che avevano
aderito alle associazioni sindacali dei datori di lavoro stipulanti.
Inoltre, e sempre in base a quelle regole, la forza di tale
vincolo era limitata non solo soggettivamente, ma anche
oggettivamente, in quanto esso aveva natura meramente
obbligatoria. Onde il contratto collettivo poteva essere
validamente derogato dal contratto individuale di lavoro, anche
nel caso in cui questo prevedesse clausole meno favorevoli per il
lavoratore13. Restava, così, compromessa una delle aspirazioni
fondamentali del sindacato che stipula il contratto collettivo e,
cioè, quella di eliminare la concorrenza necessitata fra i
lavoratori, evitando che il lavoratore, spinto dal bisogno di
lavorare, possa accettare condizioni di lavoro inferiori a quelle
previste dalla disciplina sindacale14.
Va, comunque, ricordato che al superamento dei problemi
derivanti dalla limitata efficacia del contratto collettivo venne
dato un importante contributo dalla giurisprudenza dei Collegi
Sugli sviluppi della contrattazione collettiva nel periodo precorporativo, vedi A.
GALIZIA, Il contratto collettivo di lavoro, Napoli, 1907, p. 23 ss.; G. ZANOBINI, La legge, il
contratto collettivo e altre forme di regolamento professionale, in Dir. lav., 1929, I, p. 233
ss.; F. CARNELUTTI, Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro, Padova, 1930,
p. 116 ss..
13
U. ASCOLI, Sul contratto collettivo di lavoro (A proposito di recenti sentenze), in Riv. dir.
comm., 1903, I, p. 95 ss.; G. MESSINA, I concordati di tariffa nell’ordinamento giuridico
del lavoro, cit., p. 458 ss.; L. BARASSI, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, II,
2ª ed. Milano, 1917, p. 317 ss..
Sul problema della derogabilità, o no, del contratto collettivo, già dibattuto nella dottrina
del periodo precorporativo, vedi G. VARDARO, L’inderogabilità del contratto collettivo e le
origini del pensiero giuridico-sindacale, in Giornale dir. lav. e relazioni ind., 1979, p. 537
ss.
14
Sulla necessarietà dell’attributo dell’inderogabilità ai fini della realizzazione della
funzione economico sociale del contratto collettivo, cfr. F. SANTORO-PASSARELLI,
Autonomia collettiva, in Enc. dir., Milano, IV, 1959, p. 369 ss., nonchè in Saggi di diritto
civile, I, Napoli, 1961, p. 255 ss..
Per una “rivisitazione”, all’interno delle più recenti trasformazioni del diritto del lavoro,
S. HERNANDEZ, Una rilettura dell’inderogabilità nella crisi dei principi del diritto del
lavoro, in Dir. lav., 2004, I, p. 1 ss..
6
dei probiviri, che erano stati istituiti per decidere le controversie
individuali di lavoro15.
La giurisprudenza dei probiviri, infatti, in mancanza di una
disciplina legislativa del rapporto di lavoro, e decidendo secondo
equità16, teneva conto non soltanto delle prassi e degli usi locali
ma anche delle regole dei contratti collettivi. In tal modo,
assumendo la contrattazione collettiva come parametro di
riferimento per la decisione del singolo caso concreto, veniva pur
sempre attribuita rilevanza alla disciplina sindacale,
consolidandone gli effetti e favorendo, di fatto, il suo ulteriore
sviluppo17.
3. Regimi totalitari e sindacato. Il periodo corporativo.
Se gli Stati liberali avevano mostrato diffidenza verso il
fenomeno sindacale, in quanto ritenevano che anche il conflitto
tra capitale e lavoro dovesse essere mediato esclusivamente dai
principi del diritto comune costruito attorno all’autonomia
individuale (e avevano, poi, gradualmente assunto nei confronti
di quel fenomeno una posizione più tollerante soltanto per effetto
della pressione da esso esercitata), i regimi totalitari a cavallo
delle due guerre mondiali, sia pure muovendo da diverse
15
Con la legge n. 295 del 1893, che regolava anche la loro composizione, costituita da
giudici non togati, eletti per metà dagli imprenditori e per metà dai lavoratori.
Successivamente, con la legge n. 1672 del 1918, la competenza di tali Collegi venne estesa
anche alle controversie collettive.
Sulla giurisprudenza dei probiviri, si vedano LESSONA, La giurisdizione dei probiviri
rispetto al contratto collettivo di lavoro, in Riv. dir. comm., 1903, I, p. 231 ss. e,
soprattutto, E. REDENTI, Il contratto di lavoro nella giurisprudenza dei probiviri, in Riv.
dir. comm., 1905, I, p. 356. Sull’opera di quest’ultimo, U. ROMAGNOLI, Un giurista liberaldemocratico e il diritto dei probiviri, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1985, p. 49 ss. Più di
recente, vedi anche G. PERA, Il contratto di lavoro di Lodovico Barassi e la giurisprudenza
dei probiviri, in Jus, 2001, p. 221 ss.
16
Come è stato osservato da G. GHEZZI-U. ROMAGNOLI, Il diritto sindacale, Bologna,
1987, p. 3, la funzione dei Collegi probivirali era “ricca di contenuti più prossimi alla
mediazione del conflitto che non all’attività interpretativa propria dei giudici togati”.
Sull’equità probivirale creativa del “nuovo diritto operaio” ma anche sugli inevitabili limiti
di tale esperienza, vedi I. PICCININI, Equità e diritto del lavoro, Padova, 1997, p. 39 ss.
17
Sul ruolo promozionale e di valorizzazione della contrattazione collettiva svolto dalla
giurisprudenza dei probiviri, vedi L. CASTELVETRI, Il diritto del lavoro alle origini, cit., p.
208 ss..
7
concezioni, si proponevano di negare l’esistenza di quel conflitto,
e condussero alla totale privazione della libertà sindacale.
Nell’esperienza comunista, l’eliminazione delle proprietà
privata e la collettivizzazione dei mezzi di produzione
pretendendo di dissolvere l’alterità tra imprenditore e lavoratore,
portò all’assorbimento del sistema di relazioni industriali
nell’organizzazione statale.
L’esperienza corporativa, invece, pur mantenendo ferma
l’iniziativa economica privata, pretendeva che le categorie
produttive cooperassero alla realizzazione di fini pubblici ritenuti
superiori, e di conseguenza le fece oggetto di una organica
disciplina funzionale a questi fini18.
Il sindacato, così, perse le sue caratteristiche di
associazione spontanea, libera ed autonoma, per diventare uno
strumento dello Stato19, chiamato a perseguire non più l’interesse
privato dei singoli associati ma il superiore interesse pubblico
dell’economia20.
Il presupposto dell’organizzazione corporativa era il
concetto di categoria professionale, individuata non già secondo
la libera valutazione dell’organizzazione sindacale, bensì
mediante atti autoritativi dello Stato, e quindi, considerata come
un dato preesistente a quell’organizzazione nel quale
necessariamente
doveva
essere
ricondotto
l’insieme,
In particolare, con la legge n. 536 del 1926, recante la “disciplina giuridica dei rapporti
collettivi di lavoro”, e con il relativo regolamento di attuazione n. 1130 del 192, nonché con
la Carta del Lavoro, approvata dal Gran Consiglio del fascismo il 21 aprile 1927 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 aprile 1927, n. 100. Documento quest’ultimo,
della cui natura ed efficacia si discusse a lungo, ma che, dal punto di vista politico e
dell’influenza sulla formazione culturale, conteneva i principi cardine del sistema
corporativo (i quali, anche formalmente, divennero “principi generali dell’ordinamento”
con la legge 30 gennaio 1941, n. 14).
19
Per le trasformazioni del sindacato nel periodo corporativo, si vedano F. SANTOROPASSARELLI, Norme corporative, autonomia collettiva, autonomia individuale, in Il diritto
dell’economia, 1958, p. 1187 ss., nonchè in Saggi di diritto civile, cit., p. 245 ss.; L.
BARASSI, Diritto corporativo e diritto del lavoro, Milano, 1942; S. PANUNZIO, Il diritto
sindacale e corporativo, Perugia-Venezia, 1930, pp. 41-42; G. CHIARELLI, Lo Stato
corporativo, Padova, 1936; F. CARNELUTTI, Teoria del regolamento collettivo dei rapporti
di lavoro, Padova, 1927; N. IRTI, Un inquieto dialogo sul corporativismo, in Riv. trim. dir.
Proc. Civ., 1987, pp. 344 ss.
20
Sulla nozione di interesse pubblico dell’economia, M. MARTONE, Governo
dell’economia e azione sindacale, cit. (cfr., con particolare riferimento alla dottrina
dell’epoca, p. 49 ss.)
18
8
indeterminato e variabile, di tutti i soggetti (datori di lavoro e
lavoratori) che operano nello stesso settore della produzione.
Per ciascuna categoria, veniva riconosciuto, poi, sempre in
modo autoritativo e non in base a requisiti di effettiva
rappresentatività (e tantomeno per libera scelta dei soggetti
rappresentati), una sola associazione sindacale di datori di lavoro
e una sola associazione di lavoratori, sottoposte entrambe, anche
nella loro attività, al controllo da parte dello Stato (al quale
venivano attribuiti poteri di ingerenza anche nella vita interna
dell’organizzazione e che potevano portare fino allo scioglimento
degli organi direttivi ed alla gestione commissariale).
Tali sindacati, assorbiti così nell’organizzazione dello
Stato con una personalità di diritto pubblico, assumevano una
sorta di rappresentanza legale della categoria, con il potere di
stipulare contratti collettivi aventi efficacia generale per tutti gli
appartenenti ad essa.
Il contratto collettivo corporativo, quindi, in quanto
destinato a perseguire interessi pubblici, fu annoverato tra le fonti
di diritto (art. 1 disp. prel. c.c.) e, come tale, fu considerato
inderogabile, se non a favore dei lavoratori (art. 2077 c.c.)21.
In teoria, potevano essere costituiti sindacati non
riconosciuti, in quanto la libertà sindacale era a parole ammessa
dalla Carta del Lavoro, anche perché già consacrata tra i principi
dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) cui
partecipava l’Italia. Di fatto, però, essi non vennero costituiti,
proprio in quanto, anche a non considerare i gravi pericoli cui
andava incontro qualsiasi forma di opposizione al regime, la
centralità e la pervasività del ruolo assegnato al sindacato
“organico” non lasciava alcuno spazio di pratica operatività per il
sindacato libero (tra l’altro, anche gli appartenenti a quest’ultimo
avrebbero dovuto soggiacere al contratto collettivo stipulato dal
primo).
21
Si veda, al riguardo, SANTI ROMANO, Contratto collettivo di lavoro e norma giuridica, in
Arch. studi corp., 1930, p. 27; T. ASCARELLI, Sul contratto collettivo di lavoro, Appunto
critico, in Arch. giur., 1928 e ora in Studi in tema di contratti, Milano, 1952, p. 181 ss..; G.
DE SEMO, Natura giuridica del contratto di lavoro nel diritto sindacale italiano, Padova,
1931. A difesa della natura comunque contrattuale del contratto collettivo, F. SANTOROPASSARELLI, Contratto e rapporto collettivo, in Riv. dir. pubbl., 1933, p. 357 ss., nonchè in
Saggi di diritto civile, cit., p. 169 ss..
9
E, del resto, qualsiasi forma di aggregazione dal basso, che
è espressione e garanzia del pluralismo sindacale, era preclusa
anche dalla avvenuta soppressione delle “commissioni interne”22,
che aveva portato a centralizzare le relazioni industriali
dimenticando la necessità di una «diretta e articolata presenza
del sindacato in tutte le istanze dove si svolge la vita
produttiva»23.
Il conflitto, infine, era gravemente represso, in quanto
tanto lo sciopero, quanto la serrata venivano sanzionati
penalmente essendo considerati un attentato all’ordine pubblico
economico (artt. 502 ss. c. p. del 1930)24.
La soluzione dei conflitti sindacali, quindi, era affidata
esclusivamente al potere dello Stato, essendo prevista una
Magistratura del lavoro, alla quale venivano deferite non solo le
controversie collettive di natura giuridica in materia di
interpretazione e di applicazione della legge e dei contratti
collettivi corporativi, ma anche quelle di natura meramente
economica, concernenti le richieste di nuove condizioni di
lavoro, ove fosse risultato impossibile un accordo in sede
sindacale.
In questa ultima ipotesi, la Magistratura del lavoro doveva
giudicare, in linea con i canoni corporativi, secondo equità, non
22
Con il patto di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925, la Confindustria (fondata nel 1919) e
la Confederazione nazionale delle Corporazioni fasciste nell’attribuirsi reciprocamente la
rappresentanza esclusiva degli industriali e dei lavoratori da essi dipendenti, avevano infatti
abolito le commissioni interne a base elettiva, istituzione che aveva destato notevole
allarme per le classi dominanti, specialmente nella calda fase del primo dopoguerra e
dell’occupazione delle fabbriche del 1920 (cfr. R. DE FELICE, Mussolini il fascista.
L’organizzazione dello Stato fascista 1925-1929, Torino, 1995, p. 265).
Simulacro dell’espressione di libertà sindacale fu, poi, la previsione, nell’ottobre
del 1939, di c.d. “fiduciari di fabbrica”, sia perché questi dovevano necessariamente essere
scelti tra gli operai iscritti al partito, sia perché essi avrebbero dovuto astenersi da ogni
interferenza sull’ordinamento gerarchico delle aziende né avrebbero potuto entrare in
contatto con le direzioni aziendali in materia di rapporti di lavoro.
23
Così G. GIUGNI, Esperienze corporative e post-corporative nei rapporti collettivi di
lavoro in Italia, Bologna, 1956, p. 13.
24
Il codice penale del 1930 sanzionava infatti, con una graduazione di pene rapportate alla
ritenuta gravità del fatto, la serrata e lo sciopero a fini contrattuali (art. 502), per fini non
contrattuali cioè politici (art. 503), per coazione sulla pubblica autorità (art. 504), per
solidarietà o per protesta (art. 505), la serrata dei piccoli industriali e commercianti non
aventi lavoratori alle loro dipendenze (art. 506). Lo sciopero e la serrata nel settore
pubblico erano disciplinati dall’art. 330, ove era espunta anche la stessa parola “sciopero”,
parlandosi di “abbandono collettivo di pubblici uffici, impieghi, servizi o lavori”.
10
limitandosi a contemperare gli interessi dei datori di lavoro con
quelli dei lavoratori, poiché essa doveva, in ogni caso, tutelare gli
interessi superiori della produzione.
Peraltro, anche nella circoscritta forma della controversia
regolata da un potere dello Stato, il conflitto collettivo veniva di
fatto evitato, poiché esso avrebbe mostrato la persistenza di
antagonismi e la inidoneità dei sindacati legalmente riconosciuti
a comporre i rispettivi interessi con il richiesto spirito di
cooperazione25.
Cooperazione, che, invece, doveva costituire il
presupposto necessario nella costruzione dell’edificio totalitario
del regime fascista, il quale, nella fase più propriamente detta
“corporativa”, avrebbe dovuto portare con l’istituzione delle
“Corporazioni” (legge 5 febbraio 1934, n. 163)26, e la
designazione da parte di queste di propri membri nella Camera
dei Fasci e delle corporazioni (legge 19 gennaio 1939, n. 129)27,
all’“autogoverno” delle forze di produzione28.
4. Il modello costituzionale.
La Costituzione repubblicana, frutto di una laboriosa
mediazione29, non soltanto ripudia la concezione autoritaria del
fenomeno sindacale propugnata dall’ordinamento corporativo30,
25
Al riguardo, si veda G.C. JOCTEAU, La magistratura e i conflitti di lavoro durante il
fascismo (1926-1934), Milano, 1978, p. 99.
26
Cfr. S. CASSESE, Corporazioni e intervento pubblico nell’economia, in Quad. storici
Marche, 1968, p. 430; A. ACQUARONE, L’organizzazione dello stato totalitario, Torino,
1965, p. 111 ss.; L. RIVA SANSEVERINO, Osservazioni di politica legislativa in materia di
ordinamento corporativo, in Dir. lav., 1940, I, p. 166. Per una recente rilettura, E. ALES-L.
GAETA, Il diritto del lavoro, rivista del fascismo-corporativismo. Un programma di
ricerca, in Studi in onore di Salvatore Hernandez, Roma, 2005, p. 28 ss.
27
Si veda in proposito C.A. BIGGINI, La camera dei fasci e delle corporazioni nel nuovo
ordinamento costituzionale, in Arch. studi corp., 1939, p. 31.
28
Anche mediante le c.d. ordinanze corporative, le quali, seppure furono anch’esse
raramente utilizzate, avrebbero potuto provvedere per la disciplina unitaria della
produzione, per il regolamento dei rapporti economici collettivi e per la fissazione di tariffe
relative alle prestazioni ed ai servizi, come pure ai prezzi dei beni di consumo offerti al
pubblico in condizioni di privilegio.
29
L. RIVA SANSEVERINO, Il lavoro nella Costituzione italiana, in Dir. lav., 1948, I, p.105
ss.
30
Ordinamento che già era stato soppresso in virtù delle disposizioni del r.d.l. 9 agosto
1943, n. 721 e del d.lgs.lgt. 23 novembre 1944, n. 369 (il quale ultimo prevedeva, peraltro,
per evitare un vuoto di tutela che “per i rapporti collettivi ed individuali” restassero in
11
ma supera anche l’atteggiamento diffidente, o di apparente
neutralità, che aveva caratterizzato gli Stati liberali31.
Così, tra i principi “economico sociali”, da un lato, è
sancito, con formula piena ed incondizionata (una delle poche
che, nell’impianto costituzionale, prevede una libertà non
sottoposta ad alcun limite o riserva), che “l’organizzazione
sindacale è libera” (art. 39, 1° comma, Cost.), anche se, per
risolvere i problemi di efficacia dell’azione contrattuale già
emersi durante il periodo precorporativo, prevede un
procedimento che a sua volta risente di modelli corporativi32 (art.
39, dal 2° al 4° comma). Dall’altro, è riconosciuto il diritto di
sciopero, sia pure, questo, nell’ambito delle leggi che lo
avrebbero dovuto regolare (art. 40, 1° comma), rendendone così
l’esercizio lecito non solo penalmente ma anche sotto il profilo
contrattuale33.
Ricco di potenzialità esplicative34, anche per la sua
riconosciuta portata immediatamente precettiva tanto nei
confronti dello Stato che nei rapporti tra privati, il principio di
vigore “salvo le successive modifiche, le norme contenute nei contratti collettivi, negli
accordi economici, nelle sentenze della Magistratura del lavoro e nelle ordinanze
corporative”: cfr. art. 43). Si veda, anche, il d.l. 23 novembre 1944, n. 3 che aboliva i
sindacati corporativi, e si ricordi che, con il Patto di Roma del 3 giugno 1944, era già stata
costituita la Confederazione Generale del Lavoro, tentativo di organizzare unitariamente le
tradizionali componenti del movimento sindacale di ispirazione socialista, cattolica e
comunista, che terminò ben presto, nel 1949, con lo scioglimento delle diverse correnti (cfr.
S. TURONE, Storia del sindacato in Italia 1943/1980, Bari, 1981, p. 86).
31
Recependo così un modello di rapporti tra Stato e sindacati che veniva percepito come
determinante al fine di “qualificare il tipo di democrazia da instaurare nel Paese” (così, U.
ROMAGNOLI-T. TREU, I sindacati in Italia: storia di una strategia (1945-1976), Bologna,
1977, p. 9).
32
Cfr., con diversi accenti, G. TARELLO, Teorie e ideologie nel diritto sindacale
(L’esperienza italiana dopo la Costituzione), Milano, 1967, p. 20, e G. PERA, Problemi
costituzionali del diritto sindacale italiano, Milano, 1960, p. 299 ss.; G.F. MANCINI,
Libertà sindacale e contratto collettivo “erga omnes”, in Riv. trim. proc. civ., 1963, p. 571.
33
Sia pure sulla base di diverse qualificazioni di tale diritto: cfr., tra gli altri, V. SIMI, Il
diritto di sciopero, Milano, 1956, p. 94; G. GHEZZI, La responsabilità contrattuale delle
associazioni sindacali, Milano, 1963, p. 113; L. MENGONI, Lo sciopero nel diritto civile, in
AA.VV., Il diritto di sciopero, Milano, 1964, p. 40 ss..
34
Già approfonditamente evidenziate, nelle loro diverse direzioni, dalla dottrina (cfr., tra gli
altri M. DELL’OLIO, Sindacato (diritto vigente), cit., p. 668 ss.; G. PERA, Libertà sindacale
(diritto vigente), in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, p. 501 ss.; G. GIUGNI, Sub art. 39, in G.
BRANCA (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna, 1979; M. NAPOLI,
Sindacato, in Dig. it., disc. priv., sez. comm., Torino, p. 509 ss.; U. ROMAGNOLI,
Associazione V) Associazioni sindacali, in Enc. giur. Treccani, III, Roma, 1988, p. 1 ss..
12
libertà sindacale è riferibile, anzitutto, a qualsiasi organizzazione
abbia natura sindacale, e ricomprende sia le scelte attinenti
l’organizzazione stessa, sia la sua azione all’esterno, ivi inclusa
la libertà di contrattazione collettiva e la libertà di definire e
modificare l’ambito di riferimento di quest’ultimo.
Onde, il riconoscimento di tale libertà implica anche la
legittimità dei fini perseguiti dall’organizzazione sindacale ed un
apprezzamento, a priori, dell’idoneità di tale organizzazione al
perseguimento dei fini stessi.
Ma la libertà è anche del singolo di aderire o non aderire al
sindacato, così come di dare vita a nuove organizzazioni, fermo
restando che l’esercizio della libertà negativa, pur tutelato dal
nostro ordinamento nazionale diversamente da altri35, non è
apprezzato al pari livello dell’esercizio della libertà positiva, non
foss’altro perché soltanto quest’ultima è oggetto di una disciplina
promozionale (art. 19 ss. della legge n. 300/1970) e perché è
previsto che l’azione degli organizzati possa avere effetto anche
sugli inerti (mediante il procedimento previsto dalla seconda
parte dell’art. 39) e che soltanto i primi, anche con coalizioni
rudimentali, possono attivare il conflitto (art. 40).
Solo apparentemente distonico, con il principio di libertà
sindacale, è, poi, l’ora ricordato procedimento volto ad attribuire
efficacia generale al contratto collettivo, mediante la previsione
di “rappresentanze unitarie” abilitate a stipularlo e formate, “in
rappresentanza degli iscritti”36, dai sindacati che avessero
richiesto la “registrazione presso uffici locali o centrali”,37 e, in
tal modo, avessero acquisito la personalità giuridica.
La dottrina prevalente ha, invero, intravisto in questo
meccanismo una insanabile contraddizione con il primo comma
dell’art. 39 Cost., ritenendolo esclusivamente un residuo degli
35
Nel nostro ordinamento, infatti, non sono consentite (cfr. art. 15 della legge n. 300 del
1970) quelle clausole alquanto diffuse nei contratti collettivi dei paesi anglosassoni,
secondo le quali la costituzione (closed shop) o la risoluzione (union shop) del rapporto di
lavoro individuale è subordinata all’iscrizione del singolo ad un sindacato presente in
azienda.
36
Sulla natura compromissoria del rinvio a tale meccanismo, cfr. P. CRAVERI, Sindacato e
istituzioni nel dopoguerra, Bologna, 1977, p. 35 ss..
37
Soggiacendo all’unica condizione della previsione, da parte dei propri statuti, “di un
ordinamento interno a base democratica”.
13
schemi e delle strutture corporative, sino ad affermare che mai
“inadempienza del legislatore ordinario”, come quella
dell’inattuazione della seconda parte dell’art. 39, “fu assistita da
una maggiore dose di costituzionalità”38.
Tuttavia, è singolare che, con l’obiettivo di garantire la
massima espansione del principio di libertà sindacale, quella
dottrina abbia finito con il privilegiare un’interpretazione della
seconda parte dell’art. 39 che, anch’essa, finisce con l’essere
“continuista”, ossia finisce con l’accreditarne le possibili
implicazioni autoritarie, piuttosto che quelle, altrettanto possibili
(e, quindi, da preferire in via ermeneutica), maggiormente
coerenti con il rinnovato sistema costituzionale.
Si vuole dire che, così come quello della registrazione
venne considerato un semplice “onere” e non un “obbligo”39, e
così come la migliore dottrina mise in luce che anche il contratto
collettivo efficace erga omnes avrebbe avuto natura privatistica e
non pubblicistica40, non sarebbe stato arduo riconoscere che
anche il riferimento all’ambito di tale efficacia, individuato nella
“categoria”, non riproponeva necessariamente la concezione
corporativa della categoria professionale41.
Se si fosse, infatti, valorizzato il significato letterale di
quel termine, e soprattutto il suo necessario coordinamento con il
principio d’apertura dell’art. 39, nulla avrebbe impedito di
ritenere che esso fosse riferito non già alla concezione ontologica
38
Così U. ROMAGNOLI, Diritto sindacale (storia del), in Dig. it., disc. priv., sez. comm.,
Torino, 1989, p. 655. Sull’idea che fosse impossibile dare attuazione all’art.39 Cost. per
l’inconciliabilità dell’affermazione di libertà del primo comma ed il meccanismo
disciplinato dai commi successivi, A. SERMONTI, Verso la nuova legislazione sindacale:
una soluzione inaccettabile, in Dir. lav., 1950, I, p. 14 ss.. Ma si veda, però, U.
PROSPERETTI, Verso i nuovi contratti collettivi, in Dir. lav., 1947, I, p. 51 ss.
39
Cfr. G. PERA, Problemi costituzionali del diritto sindacale italiano, Milano, 1960, p. 72
ss..
40
Cfr. F. SANTORO-PASSARELLI, Esperienze e prospettive giuridiche dei rapporti tra i
sindacati e lo Stato, in Riv. dir. lav., 1956, I, p. 1 ss. (nonchè in Saggi di diritto civile, cit.,
I, p. 139 ss.). Nello stesso senso, M. PERSIANI, I soggetti del contratto collettivo con
efficacia generale, in Dir. lav., 1958, I, p. 97 ss.. Si veda, invece, per una ricostruzione
tendente ad attribuire natura pubblicistica ai sindacati registrati ex art. 39 Cost., C.
MORTATI, Il lavoro nella Costituzione, in Dir. lav., 1954, I, p. 198.
41
Si veda, peraltro, in una diversa prospettiva, M. D’ANTONA, Il quarto comma dell’art. 39
della Costituzione, oggi, in Dir. lav. rel. ind., 1999, p. 404 ss.
14
della categoria, bensì alla categoria autodeterminata dalle stesse
organizzazioni sindacali.
Certo, è da convenire che il riconoscimento di tale potere
di autodeterminazione alle organizzazioni sindacali avrebbe,
comunque, presupposto la necessità della previsione di criteri
legali di soluzione di eventuali conflitti di tipo giurisdizionale42.
Ma questa necessità si presenta, in realtà, in tutti i sistemi
di contrattazione collettiva ad efficacia generale, essendo – in tali
ipotesi – sempre indispensabile un meccanismo eteronomo di
selezione tra precetti che hanno l’ineliminabile attitudine ad
avere la stessa forza normativa43.
Si pone, allora, l’ulteriore critica di quella dottrina che
ritiene che il procedimento individuato dal legislatore costituente
“eccede lo scopo”44, e sia, cioè, inutilmente invasivo, poiché lo
stesso risultato potrebbe essere conseguito, ad esempio, e come
avviene in altri ordinamenti, mediante un provvedimento statuale
di selezione del contratto collettivo al quale conferire efficacia
generale, senza intervenire nella regolazione del procedimento di
quest’ultimo.
Con la conseguenza che al legislatore costituente viene
rimproverato di aver configurato il sindacato come “organo della
categoria” e, quindi, come “strumento per la tutela degli
interessi dei soci e dei non soci”, e di non aver invece
considerato che l’“interesse primario” del sindacato è
esclusivamente quello di “difendere i soci, ossia se stesso e le
proprie conquiste” 45.
La critica coglie in parte nel segno, ma è troppo severa, e
finisce per essere essa stessa condizionata, non meno del
42
Cfr., ancora, G. PERA, Libertà sindacale, cit., p. 518; ID., Problemi costituzionali, cit., p.
128 ss..
43
Si vedano, in tal senso, G. PERA, Problemi costituzionali, cit., p. 57 ss.; F. LISO,
Intervento, in Per una disciplina legislativa del contratto collettivo, Atti della giornata di
studio, 16 giugno 1986, Torino, 1986; G. SANTORO-PASSARELLI, Istituzionalizzazione della
rappresentanza sindacale, in Rappresentanza e rappresentatività sindacale, Atti delle
Giornate di Studio AIDLASS di Macerata del 5 e 6 maggio 1989, Milano, 1990, p. 51 ss. (e
in Dir. lav. rel. ind., 1989, p. 369 ss.); nonché lo stesso G.F. MANCINI, Libertà sindacale,
cit., p. 577. Si veda, però, contra, ESPOSITO, Lo Stato e i sindacati nella costituzione
italiana, in La Costituzione italiana, Saggi, Padova, 1954, p. 157 ss..
44
Cfr., G.F. MANCINI Libertà sindacale, cit., p. 571 ss..
45
G.F. MANCINI, Libertà sindacale, cit., rispettivamente, pp. 584 e 574.
15
legislatore costituente, dal contesto storico e da un preconcetto
ideologico.
Quella critica, infatti, muove da una prospettiva nella quale
i termini del discorso giuridico sono soltanto due: da un lato, il
“sindacato”, considerato come entità unica (o, quantomeno,
unitaria) in grado di comporre autonomamente al proprio interno
ogni differenza; d’altro lato, i “non soci”, ossia coloro che non
sono direttamente protetti da quell’entità.
Senonchè, si tratta di una prospettiva che, come la
successiva evoluzione dimostrerà, è limitata, in quanto l’unicità o
l’unità del movimento sindacale non può essere assunta quale
dato necessario o, addirittura, ontologicamente preesistente46. E
ciò anche perché il significato più profondo del principio di
libertà sindacale comporta non soltanto il riconoscimento del
pluralismo organizzativo47, ma anche, e di conseguenza, la tutela
della libertà di ciascuna organizzazione di individuare e
perseguire interessi collettivi diversi (ad esempio: l’interesse alla
solidarietà di classe o l’interesse alla differenziazione in base al
mestiere o al merito; l’interesse alla conservazione del posto di
lavoro o l’interesse ad una maggiore retribuzione) o, più
semplicemente, di attribuire diverso peso e rilievo agli interessi,
in astratto, configurabili.
Ne deriva che i termini del discorso di cui occorre tener
conto, sia dal punto di vista sostanziale che formale, devono
essere riferiti, da un lato, non già al “sindacato”, ma ai
“sindacati” titolari, o portatori, di diversi interessi collettivi o di
diverse strategie contrattuali, d’altro lato e di conseguenza, non
solo ai lavoratori “soci” o “non soci”, ma anche ai lavoratori
“soci di sindacati” concorrenti o in conflitto.
46
Si veda, per una disamina sotto il profilo socio-politico degli ostacoli e difficoltà che si
frappongono all’unità del movimento sindacale, A. ACCORNERO, La parabola del
sindacato, Bologna, 1992 (spec. p. 259 ss). Per un tentativo di verificare quanto la tensione
all’unità abbia trovato riscontro sul piano giuridico, G. PROIA, Questioni sulla
contrattazione collettiva, Milano, 1994, p. 37 ss., e, con una specifica e particolare
attenzione, A. PESSI, Unità sindacale e autonomia collettiva, Torino, 2005.
47
Da ultimo, P. BELLOCCHI, Libertà e pluralismo sindacale, Milano, 1998.
16
E ne deriva, altresì, che qualsiasi sistema legale di
attribuzione di efficacia generale al contratto collettivo48
determina effetti che incidono non soltanto nella sfera giuridica
dei “non soci”, ma anche in quella delle organizzazioni sindacali
non stipulanti e dei lavoratori che vi fanno parte49, limitando,
così, de iure e non semplicemente in via di fatto, la loro
autonomia negoziale, e soprattutto la stessa fondamentale
posizione giuridica riconosciuta dall’art. 39, 1° comma, Cost.50.
La critica rivolta nei confronti del legislatore costituente,
quindi, è, almeno in parte, ingenerosa, perché l’obiettivo
perseguito, sia pure con un meccanismo un po’ semplificato e di
stampo illuministico, è in sostanza soltanto quella di garantire un
contemperamento tra l’attribuzione di efficacia generale al
contratto collettivo e il principio di libertà sindacale.
Contemperamento realizzato subordinando l’erga omnes
ad un meccanismo che prevede la possibilità della partecipazione
di tutte le organizzazioni sindacali titolari del diritto sancito dal
primo comma dell’art. 3951, al fine di favorire una correlazione
48
Per una analisi dei diversi modelli che, in concreto, risultano utilizzati, cfr. B.
VENEZIANI, Stato e autonomia collettiva, Diritto sindacale italiano e comparato, Bari,
1992, p. 162 ss.. Si vedano, altresì, M. BIAGI-R. BLANPAIN, Diritto del lavoro e relazioni
industriali nei paesi industrializzati ad economia di mercato, I, Diritto del lavoro, Rimini,
1991; G. ZANGARI, Sindacati (diritto comparato), in Noviss. Dig. it. App., VII, Torino,
1987, p. 242 ss.
49
Effetti che possono consistere anche nella negazione ad una o più organizzazioni
sindacali della stessa possibilità di realizzare il “risultato” verso il quale convergono,
eventualmente, volontà ed interessi difformi (come nell’ipotesi in cui è riservata all’autorità
statuale la scelta del contratto collettivo da estendere all’intera categoria), ovvero nella
subordinazione della volontà e degli interessi di tali organizzazioni rispetto alla decisione di
altre (come nell’ipotesi in cui il legislatore seleziona, tra i vari soggetti titolari del potere di
autonomia collettiva, quelli ai quali è esclusivamente riservato il potere di stipulare contratti
dotati dell’additivo legale dell’erga omnes).
50
Sulla diversità degli effetti prodotti su tale posizione giuridica da un (qualsiasi) sistema
di contrattazione collettiva erga omnes, rispetto a quanto avviene in un sistema di
contrattazione efficace inter partes, cfr. G. PROIA, Questioni sulla contrattazione collettiva,
cit., p. 97 ss., ove si argomenta anche muovendo dalla considerazione della diversità della
struttura delle situazioni giuridiche soggettive implicate in un sistema e nell’altro.
51
Subordinando, cioè, il riconoscimento di quell’efficacia generale che incide sulla libertà
di tutte le organizzazioni sindacali ad una sorta di onere di “attuazione congiunta” (e non,
ovviamente, obbligo, come già detto in relazione alla previsione di cui al secondo comma
dell’art. 39 Cost.: cfr, retro, nota 39) da parte di quelle tra di esse che intendano far
conseguire, alla propria azione contrattuale, quella particolare efficacia. Attuazione
congiunta che, infatti e non a caso, costituisce una delle modalità tipiche di svolgimento
delle situazioni soggettivamente complesse quando esse, come nel caso del contratto
collettivo efficace erga omnes, abbiano ad oggetto una prestazione indivisibile (si veda, al
17
tra di esse che non operi, reciprocamente, ad excludendum, bensì
tenda ad una congiunzione o combinazione delle rispettive
valutazioni52.
Il che, peraltro, non contraddice l’assunto secondo il quale
anche nel contratto efficace erga omnes l’organizzazione
sindacale persegue l’interesse dei suoi membri e non già quello
di tutti gli appartenenti alla categoria53.
Ma è proprio per tale ragione, e – cioè – per l’interesse
comunque “egoistico” che spinge l’organizzazione sindacale alla
stipulazione del contratto collettivo, che l’attribuzione a
quest’ultimo, da parte dello Stato, di efficacia vincolante anche
nei confronti di (membri di) organizzazioni che perseguono (o
possono perseguire) diversi fini egoistici è stata collegata ad un
procedimento volto a favorire la mediazione tra le diverse istanze
e, soprattutto, volto a garantire, nei casi di insuccesso di
quest’ultima, che la soluzione del conflitto avvenga attraverso la
verifica del diverso “peso rappresentativo” di ciascuna
organizzazione54.
Un’esigenza, questa, che aveva veramente poco di
“corporativo”, se è vero, come è vero, che essa, superate alcune
contingenze storiche, è tornata di attualità, quando, a partire dagli
anni ‘80, a causa della diversificazione della rappresentanza
sindacale e dei ricorrenti problemi che hanno riguardato l’unità
tra le stesse principali organizzazioni, è stata nuovamente presa
in considerazione la possibilità di una legge attuativa dell’art. 39
riguardo, BUSNELLI, Obbligazioni soggettivamente complesse, in Enc. dir., Milano, XXIV,
1979, p. 332).
52
Si veda al riguardo, pure in una diversa prospettiva, B. CARUSO, Rappresentanza
sindacale e consenso, Milano, 1992, p. 45, secondo il quale l’“efficacia generale e
vincolante implica sempre, in relazione all’agente, l’unità o l’unicità della rappresentanza,
ovvero tecniche di coordinamento e di mediazione, nel caso di rappresentanza plurima o
disarticolata”.
53
Così, anche, G. GIUGNI, La funzione giuridica del contratto collettivo di lavoro, in Il
contratto collettivo di lavoro, Milano, 1968, p. 27.
54
Si veda, in termini molto netti, M. DELL’OLIO, Intervento, in Rappresentanza e
rappresentatività del sindacato, cit., p. 269, secondo il quale la “norma a precettività
parzialmente differita” (così G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, 1977,
p. 334) non merita le accuse “di sudditanza corporativa, perché parte dal principio
opposto, cioè dal parametro numerico, e dalla democraticità dei sindacati, per giungere,
attraverso la proporzionalità, alla rappresentanza unitaria, e solo così all’efficacia
generale del contratto collettivo”.
18
Cost.55, o, comunque, di una legge che, in alternativa
all’attuazione, disciplinasse la rappresentanza sindacale e
l’efficacia della contrattazione collettiva.
E, pur non avendo visto la luce un organico intervento
eteronomo né in una direzione né nell’altra, alcune “tracce” dello
“spirito” costituzionale possono, comunque, essere intraviste in
quelle norme della legislazione ordinaria che, dovendo regolare
l’esercizio di attività sindacali destinate necessariamente a
produrre i loro effetti su tutti i lavoratori, come nel caso del
pubblico impiego “privatizzato”, hanno previsto la costituzione
di “rappresentanze sindacali unitarie”, nell’ambito di luoghi di
lavoro, o la misurazione della rappresentatività, secondo una
combinazione dei criteri proporzionalistico-maggioritario, ai fini
della contrattazione collettiva56.
5. Il sistema sindacale “di fatto”.
Dell’inattuazione della seconda parte dell’art. 39, Cost., e
di alcune delle sue cause, è stato, indirettamente, già fatto
cenno57.
Esse attengono, in sostanza, al timore a lungo diffuso,
seppure non del tutto giustificato, del ripristino di concezioni o
strutture ereditate dal ripudiato regime corporativo e dai pericoli
che avrebbero potuto derivarne per la libertà sindacale.
Cfr. l’ipotesi di progetto di legge predisposto da G. PERA, in Per una disciplina
legislativa del contratto collettivo, cit., cui hanno fatto seguito, poi, le proposte di legge nn.
3768 e 3769 del 30 marzo 1989 (primo firmatario GHEZZI); i disegni di legge n. 1508
dell’11 gennaio 1989 e n. 1550 del 27 gennaio 1989 (primo firmatario GIUGNI), tutti in Riv.
it. dir. lav., 1989, III, p.137 ss..
56
Cfr., ora, gli artt. 42 e 43 del d. lgs. n. 165 del 2001.
Si veda, da ultimo, in particolare, M. MARAZZA, Il contratto collettivo di lavoro
all’indomani della privatizzazione del pubblico impiego, Padova, 2005.
57
Per una analisi diffusamente condivisa, cfr. G. GIUGNI, Sub art. 39, cit., p. 257 ss.. In
particolare, destava preoccupazione la possibilità che il controllo della “base democratica”
del sindacato sconfinasse dal terreno della mera legittimità, a quello della valutazione di
merito sulla gestione interna, cfr. P. RESCIGNO, Sindacati e partiti nel diritto privato, in
Persona e comunità, Bologna, 1966, p. 190 ss. e ID., Saggio introduttivo, in M.
BUONCRISTIANO (a cura di), Il diritto sindacale art. 39 e 40, vol. II de I rapporti economici
nella Costituzione. Rassegna di 40 anni di giurisprudenza sul titolo III, Milano, 1987, p. III
ss..
55
19
Ma certamente ebbe un rilievo anche lo stato dei rapporti
tra le tre principali sigle sindacali, le quali mostrarono ostilità nei
confronti dell’attuazione di un meccanismo che, come detto,
necessariamente, avrebbe distribuito il peso rappresentativo di
ciascuna di esse secondo criteri di tipo proporzionalistico e/o
maggioritario (al fine di determinare la composizione delle
“rappresentanze unitarie” e di dare soluzione ad eventuali
contrasti all’interno di queste), in entrambi i casi implicando la
necessità di andare “alla conta” tra i propri iscritti e rendendo,
così, più difficile la realizzazione di un percorso unitario.
Di qui la precisa e, via via, sempre più consapevole
opzione maturata nel dopoguerra dal sindacato italiano per
l’inattuazione e, dunque, verso un sistema che consentisse alle
diverse centrali sindacali di “contare allo stesso modo”,
riconoscendosi “pari dignità”.
Scelta che, storicamente, è stata coniugata con quella per
l’opposizione alla regolazione del diritto di sciopero, che pure, in
quegli anni, era ritenuta inevitabilmente connessa, se non
strettamente conseguenziale, all’eventuale legge di attuazione
dell’art. 39 Cost..
Tale situazione ha fatto sì che il diritto sindacale, restasse,
per decenni, secondo un fondamentale insegnamento, un “diritto
senza norme”58.
Ciò nonostante, quel diritto è stato anche, nello stesso
tempo, “senza lacune” 59.
Risultato reso possibile, come solitamente viene dato atto,
grazie all’opera ricostruttiva condotta dalla giurisprudenza e dalla
dottrina capaci di dare vita, e poi credito, ad un complesso, ma
coerente, “sistema sindacale di fatto”60, la cui capacità di
autonomo funzionamento ha, poi, costituito, a sua volta, ulteriore
58
Espressione questa mai scritta ma ben viva nella memoria degli allievi di Francesco
Santoro-Passarelli, in quanto dichiarazione d’apertura consueta nei corsi degli anni ’60 alla
Scuola di perfezionamento romana; per un ricordo cfr. M. DELL’OLIO, Francesco SantoroPassarelli e il diritto del lavoro, in Arg. dir. lav., 1997, n. 4, p. 21, e M. PERSIANI, Diritto
sindacale, Padova, 2005, p. 3.
59
M. DELL’OLIO, Il diritto del lavoro italiano e le sue fonti, in Giornale dir. lav. e relazioni
ind., n. 96, 2002, p. 518.
60
Per una valutazione critica della ricostruzione operata dalla dottrina italiana nel
dopoguerra, G. TARELLO, Teorie e ideologie nel diritto sindacale, cit..
20
ragione di disinteresse, o contrarietà, all’attuazione del modello
costituzionale.
Ma, a mio avviso, va riconosciuto che un’influenza
rilevante, proprio in chiave sistematica, sia stata esercitata anche
da parte del legislatore che, pur astenendosi dal dettare norma sul
sindacato e sui suoi tradizionali strumenti di azione, ha,
comunque, operato scelte che, come più avanti si avrà modo di
vedere, sono determinanti non solo ai fini della tenuta di quel
“sistema di fatto”, ma anche ai fini della sua ricostruzione in
termini giuridici.
Fondamentale, anzitutto, è stato, ad opera della dottrina più
autorevole, condivisa dalla giurisprudenza, la riconduzione
dell’intero “fenomeno sindacale”, quanto alle due componenti
strutturali dell’“organizzazione” e dell’“azione”61, nell’ambito
del diritto comune, considerato garanzia di libertà e strumento di
protezione da tentazioni di “ripubblicizzazione”62, e, in
particolare,
nell’ambito
delle
categorie
civilistiche
dell’associazione non riconosciuta e del contratto.
Con la figura di cui agli artt. 36 ss. c.c., al sindacato viene
riconosciuta una propria soggettività distinta da quella dei
lavoratori iscritti/associati 63, con possibilità di un’autonoma
imputazione dell’attività giuridica compiuta in attuazione degli
scopi fissati nello statuto e nell’atto costitutivo dagli stessi
lavoratori associati.
Si consente, altresì, al sindacato di stare in giudizio e avere
un’autonomia patrimoniale, sia pure imperfetta, atteso che a
rispondere delle obbligazioni assunte è, in primis, il fondo
Cfr. M. DELL’OLIO, L’organizzazione e l’azione sindacale, in M. DELL’OLIO-G.
BRANCA, L’organizzazione e l’azione sindacale, Padova, 1980.
62
Il richiamo è, in particolare, alla classica e nota opera di F. SANTORO-PASSARELLI,
elaborata e puntualizzata in numerosi scritti, alcuni dei quali sono già stati ricordati (cfr.
note 14, 19, 21 e 40). Si vedano anche, quantomeno, ID., Autonomia collettiva,
giurisdizione, diritto allo sciopero, in Riv. it. sc. giur., 1949, p. 138 ss., ID., Inderogabilità
dei contratti collettivi di diritto comune, in Dir. e giur., 1950, p. 299, ID., L’autonomia dei
privati nel diritto dell’economia, Relazione e Replica al Convegno degli Amici del Diritto
dell’Economia, Torino, 20-21 ottobre 1956, apparso ne Il diritto dell’economia, 1956, pp.
1213 ss. e 1325 ss. (tutti, anche, in Saggi di diritto civile, cit., rispettivamente, p. 177 ss., p.
217 ss., p. 227 ss.).
63 F. GALGANO, Partiti e sindacati nel diritto comune delle associazioni, in Riv. dir civ.,
1966, p. 512, G. GHEZZI, La responsabilità contrattuale delle associazioni sindacali, cit.;
ID., La soggettività delle organizzazioni sindacali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1963, I, p. 79
61
21
comune, quindi, personalmente e solidalmente, anche chi agì in
nome e per conto dell’associazione.
Ovviamente, il principio generale di sfavore verso la
perpetuità dei vincoli obbligatori, in coerenza con il principio di
libertà sindacale, garantisce, in ogni momento, il diritto di
recesso dall’associazione per il lavoratore iscritto che non
condivide più le politiche, o la gestione, dell’organizzazione (con
facoltà, ovviamente di aderire, o no, ad altra associazione e salvo,
ove previsto nello statuto, il differimento degli effetti del recesso
ai soli fini del pagamento del contributo associativo, ma senza
diritto alla liquidazione di una quota del fondo comune: art. 37
c.c.).
Il singolo associato, peraltro, potrebbe manifestare il
proprio dissenso anche impugnando le deliberazioni
dell’associazione in giudizio (art. 23 c.c.), per violazione di
legge, dello statuto o dell’atto costitutivo 64. Ma non si registra in
proposito un contenzioso significativo.
Allo stesso modo, una volta riportate nel prisma del diritto
comune, anche le relazioni fra sindacati possono essere
agevolmente spiegate, e ricostruite, in coerenza con il principio
generale sancito dall’art. 39, 1° comma, Cost..
E’, quindi, riconosciuta la più ampia libertà di collegare
un’associazione sindacale ad un’altra, costituendo un vincolo
endoassociativo, ovvero istituendo associazioni di associazioni,
quindi associazioni di secondo o terzo grado.
E con la medesima libertà è consentito articolare
territorialmente, o per gradi, le rispettive competenze dei
sindacati, o parti di sindacato, fra loro collegati.
Libertà che, peraltro, in caso di conflitto fra le
determinazioni prese da diverse associazioni o distinte
articolazioni della medesima associazione - si pensi all’ipotesi
assai frequente del contrasto fra contratti collettivi stipulati da
due associazioni o parti sindacali collegate fra loro da un rinvio
negoziale o statutario - pone al giudice l’arduo compito di
64
Cfr. U. ROMAGNOLI, Associazione, cit., p. 9.
22
districarsi nelle maglie della normativa negoziale e statutaria, alla
ricerca del principio risolutore dell’antinomia65.
Principio che in via di interpretazione, di volta in volta, è
stato individuato nei criteri gerarchico, cronologico o di
specialità66.
Con riferimento, poi, all’altra categoria civilistica risultata
fondamentale ai fini della edificazione del sistema sindacale di
fatto, e cioè il contratto, va ricordato come essa sia stata, invece,
trasposta ed utilizzata, a tali fini, attraverso la mediazione della
nozione di interesse collettivo, avuta già presente dalla dottrina
precorporativa, ma ulteriormente elaborata ed affinata così da
reggere, in termini sistematici, l’intera “impalcatura”
dell’organizzazione e dell’azione sindacale.
In particolare, muovendo dalla constatazione che
l’ordinamento giuridico attribuisce rilevanza non solo agli
interessi individuali, ma anche a quelli dei gruppi, l’interesse
collettivo è stato configurato, secondo una celebre definizione,
come l’“interesse di una pluralità di persone ad un bene idoneo
a soddisfare non già il bisogno individuale di una o alcune di
esse, ma il bisogno comune di tutti”67.
Definizione alla quale non sono mancate critiche per aver
privilegiato una “nozione formale”, che sarebbe stata
“logicamente corretta ma insufficiente sul piano ermeneutico”68
e per essere inadeguata a fornire la spiegazione della
inderogabilità del contratto collettivo in vista della quale essa era
stata originariamente formulata69.
Non v’è dubbio, però, che la teoria dell’interesse collettivo
ha esercitato un’influenza decisiva sulla successiva evoluzione
65
Sul tema, si vedano gli Atti del Convegno AIDLASS del 1981 in AA.VV., Rapporti tra
contratti collettivi di diverso livello, Milano, 1982.
66
Da ultimo, V. MAIO, Concorso e conflitto di diritti che discendono da contratti collettivi
incompatibili, in Arg. dir. lav., 2004, p. 576 (anche in Diritto del lavoro i nuovi problemi,
Studi in onore di MATTIA PERSIANI, Padova, Tomo 1, 2005, p. 443 ss.).
67
Così F. SANTORO-PASSARELLI, Autonomia collettiva, giurisdizione, diritto di sciopero,
cit., pp. 177-178.
68
Così E. GHERA, Considerazioni sulla giurisprudenza in tema di sciopero, in Indagine sul
sindacato, Milano, 1969, p. 342; ma, in particolare, si vedano anche G. TARELLO, Teorie ed
ideologie nel diritto sindacale, cit., p. 29 ss.; G. GIUGNI, Il diritto sindacale ed i suoi
interlocutori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, p. 390.
69
Cfr., al riguardo, M. GRANDI, Contratto collettivo di diritto comune, rappresentanza
sindacale e commissione interna, in Riv. it. dir. lav., 1965, p. 65.
23
degli studi di diritto sindacale e della giurisprudenza70, dando
luogo anche a ulteriori affinamenti, con i quali è stato chiarito
che l’interesse collettivo costituisce la “sintesi di interessi finali e
non strumentali” dei membri dell’organizzazione71, o, forse,
costituisce esso stesso, secondo una diversa e feconda
impostazione, “organizzazione” di interessi individuali72.
L’oggetto ed il contenuto dell’interesse collettivo non
possono, peraltro, essere ricercati in un indistinto sociologico, né,
tantomeno, essere individuati, una volta per tutte, con
un’operazione definitoria di impronta ontologica.
L’interesse collettivo è, infatti, una “ipostasi” giuridica.
Esso, cioè, non esiste in natura e, se anche esistesse, non avrebbe
rilevanza giuridica prima – ed al di fuori – della nascita
dell’organizzazione sindacale e degli atti che essa pone in essere
in vista della sua realizzazione73. L’interesse collettivo, cioè,
rileva sul piano del diritto solo se ed in quanto esso venga
individuato e selezionato, come tale, dalla coalizione di
lavoratori organizzati per la propria autotutela74.
Tutte le componenti e gli strumenti della fattispecie
sindacale possono, quindi, essere spiegati con la rilevanza
propria dell’interesse collettivo così inteso, come finalità sia della
nascita e della vita dell’organizzazione, sia della proclamazione
dello sciopero, sia del contratto collettivo.
In particolare, la stipulazione di quest’ultimo costituisce
esercizio di autonomia privata, che è stata definita collettiva,
70
Si veda, sia pure in termini critici, B. CARUSO, Rappresentanza sindacale e consenso,
cit., p. 121 ss.
71
Si veda M. PERSIANI, Saggio sull’autonomia privata collettiva, Padova, 1972, p. 131.
72
In tal senso, M. DELL’OLIO, L’organizzazione e l’azione sindacale, cit., pp. 47 e 90.
73
In altri termini, anche l’interesse collettivo, così come la categoria professionale, non è
un dato ontologico, al quale l’organizzazione sindacale si deve adeguare, ma, al contrario, è
il risultato di una “valutazione” od una “scelta” di quest’ultima (cfr. G. GIUGNI, Sub art.
39, cit., p. 275).
74
Cfr., in tal senso, M. PERSIANI, Saggio sull’autonomia privata collettiva, cit., p. 74,
secondo il quale “il sindacato non solo è l’organizzazione destinata a perseguire l’interesse
collettivo, ma è anche l’organizzazione che determina la rilevanza propria di quest’ultimo
sul piano giuridico formale”.
Si veda anche, nello stesso senso, sia pure in una prospettiva che distingue il sindacato,
come soggetto di diritto, dai lavoratori che lo costituiscono, R. SCOGNAMIGLIO, Autonomia
sindacale ed efficacia del contratto collettivo di lavoro, in Riv. dir. civ., 1971, p. 156 ss.;
nonché, già, ESPOSITO, Lo Stato e i sindacati, cit., p. 160.
24
proprio perché funzionalizzata al perseguimento di interessi
collettivi, così come l’autonomia privata individuale è
funzionalizzata al perseguimento di interessi individuali.
Nel contempo, su un piano d’indagine completamente
diverso e non comparabile, ma non necessariamente
confliggente75, un importante contributo allo studio sub specie
juris del sistema delle relazioni posto in essere dai soggetti
collettivi fu offerto dal metodo ispirato alla concezione delle
pluralità degli ordinamenti giuridici76, contributo che, dalla
relativa stabilità delle dinamiche proprie delle relazioni sindacali,
tali da configurare una “istituzione”, inferì anche l’esistenza di un
vero e proprio “ordinamento” 77.
Degli elementi che astrattamente consentono di fondare
una esperienza ordinamentale, viene individuato sia il “momento
normativo”, nei suoi due correlati aspetti precettivo, rinvenibile
nell’esperienza della contrattazione collettiva capace di regolare
sia i rapporti di lavoro (parte normativa del contratto collettivo)
sia i rapporti fra le stesse organizzazioni stipulanti (parte
obbligatoria del contratto collettivo), e quello sanzionatorio,
rinvenibile nell’esercizio del diritto di sciopero in caso di
inadempimento degli obblighi assunti col contratto collettivo; sia
il “momento esecutivo” che sarebbe deducibile dall’apparato di
amministrazione delle relazioni sindacali posto in campo dalle
organizzazioni
sindacali;
sia,
infine,
il
“momento
giurisdizionale”, da rinvenire nell’apparato predisposto, con la
partecipazione del sindacato, per la risoluzione e la
prevenzione/deflazione del contenzioso.
Si tratta, in realtà, di un “modello” dall’indubbia capacità
descrittiva, capace, forse più di ogni altro finora elaborato, di
leggere, descrivere e spiegare le “costanti di comportamento
tipiche di ciascun sistema di relazioni industriali” 78.
75
Sulla incomparabilità, ma non necessaria conflittualità, nella loro ricostruzione originaria
delle teorie c.d. “privatistiche” dell’autonomia collettiva e di quella basata sul metodo
“pluralistico”, M. RUSCIANO, Contratto collettivo e autonomia sindacale, Torino, 1984, p.
51 ss..
76
SANTI ROMANO, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1951, rist. 2ª ed..
77
G. GIUGNI, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, Milano, 1960
78
G. GIUGNI, Diritto sindacale, Bari, 2004, pag. 16.
25
Diversamente, però, quel modello non consente di fondare
un “ordinamento originario, con rinunzia di quello generale ad
ingerirsi nelle materie dallo stesso regolate” 79.
E
ciò
non
soltanto
perché
l’autosufficienza
dell’ordinamento
intersindacale
non
è
riconosciuta
80
dall’ordinamento statale , ma, in modo ancor più radicale,
perché è il primo che non rifiuta affatto, ma anzi spesso richiede
e sollecita l’intervento dell’ordinamento statuale; e ciò non
soltanto per dirimere le controversie, ma anche, è il caso
emblematico, per sostenere la posizione dell’una o dell’altra
parte, com’è avvenuto con il sostegno offerto dal titolo III della
legge n. 300/1970.
6. Segue: il significato del rapporto instaurato dalla legislazione
ordinaria con il fenomeno sindacale.
La riconduzione del contratto collettivo nella categoria del
contratto di diritto comune, se preservava il sindacato dalla
temuta applicazione di una disciplina di diritto speciale,
riproponeva quei problemi di efficacia già emersi prima della
parentesi corporativa, senza che la teoria dell’interesse collettivo
potesse darvi una soluzione del tutto appagante sul piano del
diritto positivo.
Com’è noto, alla soluzione di quei problemi, un contributo
decisivo fu apprestato dalla giurisprudenza, pronta ad elaborare
M. DELL’OLIO, (voce) Sindacato (diritto vigente), cit., pag. 680.
In tal senso, G. PERA, Sulla teoria dell’ordinamento intersindacale, in Riv. it. dir. lav.,
1991, I, p. 256 ss.. Si vedano, anche, M. PERSIANI, Saggio sull’autonomia privata
collettiva, cit., p. 52, secondo il quale “se pure esistono organizzazioni dotate di un
ordinamento interno, questo tuttavia è pur sempre condizionato da quell’ordinamento che
ha la funzione di realizzare la vita sociale, coordinando le sfere di azione ed i possibili
rapporti tra i componenti la collettività e, cioè, dall’ordinamento giuridico statuale”;
nonché, più recentemente, G. PERA, Sulla teoria dell’ordinamento intersindacale, cit., p.
256 ss.; M.V. BALLESTRERO, Otto Kahn-Freud e il pluralismo degli italiani, in G.G.
BALANDI-S. SCIARRA (a cura di), Il pluralismo e il diritto del lavoro, Roma, 1983;
LUHMANN, Intervista, in G. VARDARO, Contrattazione collettiva e sistema giuridico,
Napoli, 1984, p. 133 ss. (il quale rileva che, distinguendo tra diritto statuale e diritto non
statuale, “si attrarrebbe tutto il diritto prodotto attraverso statuti di organizzazioni e
contratti nell’area del diritto non statale, laddove le fonti giuridiche, ad esso necessarie,
nascono appunto dal diritto statale”). Anche P. RESCIGNO, Saggio introduttivo, cit., p. X,
sembra porre in dubbio la teoria dell’ordinamento intersindacale sotto i profili della
“originarietà ed autonomia”.
79
80
26
una serie di meccanismi interpretativi idonei ad estendere
soggettivamente le tutele previste dal contratto collettivo
(fondamentale il collegamento “creativo” operato tra art. 36 Cost.
e art. 2099 c.c.) e, nello stesso tempo, ad assicurarne
l’inderogabilità (trasponendo, altrettanto creativamente, l’art.
2077 c.c. dall’ordinamento corporativo a quello costituzionale).
Non sarebbe, però, del tutto appropriato affermare che il
sistema sindacale configuratosi di fatto per effetto
dell’inattuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. sia
esclusivamente opera dei principi, delle teorie e degli
orientamenti elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Come è stato fatto cenno81, anche l’atteggiamento del
legislatore ordinario, seppure non si è concretizzato in interventi
direttamente regolatori della efficacia della contrattazione
collettiva e, a fortiori, dei soggetti e del procedimento negoziale,
esprime scelte e significati che rilevano, sul piano sistematico, ai
fini della comprensione dell’esatta configurazione di quel
sistema.
Il diritto “senza norme”, era, come detto, “senza lacune”
non solo perché governato, in apicibus, dalla norma
immediatamente precettiva del primo comma dell’art. 39 Cost.,
ma anche perché il legislatore, sia con i “silenzi”, sia con i
collegamenti che ha nel tempo istituito con il fenomeno
sindacale, ha accolto e fatto propri determinati assetti di interessi
ed equilibri.
Non si tratta soltanto di prendere atto che la prolungata
fase di abstention of law sia conseguenza di un’esplicita rinuncia
a legiferare “in favore di un processo di attuazione costituzionale
da realizzarsi in sede extralegislativa”82.
E non si tratta neppure di limitarsi a prendere atto che la
fase dell’astensionismo ha consentito e favorito il libero sviluppo
delle relazioni sindacali, irrobustendone le prassi e le istituzioni
autonome, sino al punto, come visto, di far prospettare l’ipotesi
della configurabilità di un ordinamento autosufficiente.
81
82
Nel par. 5 che precede.
Così, G. GHEZZI-U. ROMAGNOLI, Il diritto sindacale, 4ª ed., Bologna, 1997, p. 222.
27
Il legislatore fa di più. Esprime un apprezzamento nei
confronti di tale sistema ispirato al principio dell’autonomia
privata, che porta ad attribuire ai prodotti negoziali che da esso
scaturiscono un rilievo ed una tutela eccezionali rispetto a
qualsiasi altro atto di autonomia negoziale.
Da subito, infatti, quando ancora la prospettiva
dell’attuazione dell’art. 39 Cost. non era stata definitivamente
accantonata, le disposizioni della legge hanno fatto ripetutamente
e sistematicamente rinvio ai contratti collettivi83, lasciando
trasparire che il rispetto di tali contratti corrisponde ad un
interesse pubblico.
Ma, anche dopo aver attuato una transitoria soluzione
alternativa al meccanismo della seconda parte dell’art. 39 Cost.84
e aver preso atto che quella soluzione non poteva essere eretta a
sistema85, il legislatore ha continuato ad intrattenere con la
contrattazione collettiva “di diritto comune” una fitta ed organica
relazione, attribuendole un ruolo fondamentale per la
realizzazione delle finalità di tutela del lavoro perseguite dalla
Costituzione.
Basti pensare all’art. 14 della legge 29 aprile 1949, n. 264 (in base al quale “l’Ufficio di
collocamento, nell’atto di soddisfare la richiesta del datore di lavoro, è tenuto ad
accertarsi che le condizioni offerte ai nuovi assunti siano conformi alle tariffe ed ai
contratti collettivi”), all’art. 11, lett. c), della legge 19 gennaio 1955, n. 25 (che prevede
l’obbligo del datore di lavoro “di osservare le norme dei contratti collettivi di lavoro e
retribuire l’apprendista in base ai contratti stessi”), all’art. 6 della legge 13 marzo 1958, n.
264 (secondo il quale “i lavoratori che eseguono lavoro a domicilio dovranno essere
retribuiti con tariffe di cottimo pieno risultanti da contratti collettivi di categoria o, in
mancanza di questi, da pattuizioni preventive fra le parti, approvate dalle Commissioni
provinciali di cui all’art. 3”), l’art. 4, lett. b), della legge 22 luglio 1961, n. 628 (che
attribuisce all’Ispettorato del lavoro il compito di vigilanza “sull’esecuzione dei contratti
collettivi di lavoro”), i decreti presidenziali 22 novembre 1961, n. 1192 e 16 luglio 1962, n.
1063 (che, anticipando la più ampia previsione dell’art. 36 della legge n. 300/1970,
imponevano l’inserimento nei contratti di appalto dell’obbligo, per l’appaltatore, di
applicare ai propri dipendenti condizioni economiche e normative non inferiori a quelle
risultanti dai contratti collettivi).
84
Sulla “irripetibile” esperienza dell’estensione dell’efficacia soggettiva del contratto
collettivo ad opera della legge n. 741/1959, si vedano F. SANTORO-PASSARELLI, La
disciplina transitoria dei rapporti di lavoro, Roma, 1961; G. PERA, Problemi costituzionali
del diritto sindacale italiano, cit., p. 333 ss.; M. DELL’OLIO, Lavoro. La giurisprudenza
costituzionale e il diritto sindacale 1956-1986, Asap-Intersind, 1987, p. 14 ss.
85
Cfr. Corte cost. 19 dicembre 1962, n. 106, su cui G. PERA, Le norme transitorie per
garantire i minimi di trattamento economico e normativo ai lavoratori nel giudizio della
corte Costituzionale, in Foro it., 1963, I, c. 648.
83
28
E così, pur non potendo conferirle obbligatorietà generale,
da un lato, le ha riconosciuto esplicitamente il carattere della
“inderogabilità” (con la novella dell’art. 2113 c.c., ad opera
dell’art. 6 della legge n. 533/1973)86, andando oltre la contestata
applicazione giurisprudenziale dell’art. 2077 c.c.87, così che la
clausola collettiva opera sui rapporti individuali di lavoro
diversamente da come potrebbe operare un atto di natura
negoziale, bensì con lo stesso modo con il quale operano le
norme88.
D’altro lato, e nello stesso tempo, il legislatore ha
continuato a fare sistematicamente rinvio al contratto collettivo,
ai fini della regolazione di tutti gli aspetti essenziali del rapporto
di lavoro (inquadramento professionale, orario di lavoro,
retribuzione, limiti al potere direttivo e disciplinare)89 cercando,
in vario modo, di dilatarne l’applicazione ultra partes all’interno
86
Sulla base di questa disposizione di legge, infatti, la parte prevalente della dottrina fonda
oramai l’efficacia reale del contratto collettivo: cfr. S. MAGRINI, Rinunzie e transazioni, in
Noviss. Dig. it. App., 1986, p. 848; A. MARESCA, Diritti individuali del lavoratore e poteri
del sindacato, in Dir. lav. rel. ind., 1985, p. 685 ss.; L. MENGONI, Il contratto collettivo
nell’ordinamento giuridico italiano, ora in Diritto e valori, Bologna, 1985, p. 270; M.V.
BALLESTRERO, Riflessioni in tema di inderogabilità dei contratti collettivi, in Riv. it. dir.
lav., 1989, I, p. 383 ss.. Sul tema, soprattutto, R. DE LUCA TAMAJO, La norma inderogabile
nel diritto del lavoro, Napoli, 1976.
87
Sul valore determinante attribuito all’interpretazione giurisprudenziale “che in questo
come in altri casi costituisce un’autentica pietra angolare del diritto sindacale”, M.
PERSIANI, Saggio sull’autonomia privata collettiva, cit., p. 10; si veda anche T. TREU,
Teorie ed ideologie nel diritto sindacale (a proposito di un recente libro), in Riv. trim. dir.
proc. civ., 1968, p. 1643.
88
Con particolare efficacia, L. MENGONI, Legge e autonomia collettiva, in Mass. giur. lav.,
1980, p. 692 ss.; ID., Il contratto collettivo nell’ordinamento giuridico italiano, cit., p. 272
ss..
89
Al riguardo, peraltro, si deve tener conto anche dei rinvii già contenuti nel codice civile
alle “norme corporative” (cfr. artt. 2095, 2° comma, 2096, 1° comma, 2099, 1° e 2°
comma, 1200, 2° comma, 2101, 1° comma, 2102, 2106, 2107, 2108, 3° comma, 2109, 2°
comma, 2110, 1° e 2° comma, 2111, 2114, 2115, 1° comma, 2116, 1° comma, 2118, 1°
comma, 2120, 2°, 3° e 4° comma vecchio testo, 2130, c.c.) ed interpretati ora dalla
giurisprudenza come rinvii ai contratti collettivi di diritto comune, (si veda, per tutte,
nell’orientamento costante e consolidato della giurisprudenza, Cass. 3 luglio 1981, n. 4331,
in Not. giur. lav., 1982, p. 89. In dottrina, C. ASSANTI, Rilevanza e tipicità del contratto
collettivo di lavoro nella recente legislazione italiana, Milano, 1967, p. 96 ss.).
Interpretazione, peraltro, confermata dal fatto che anche il legislatore post corporativo ha
continuato a rinviare alla contrattazione collettiva di diritto comune la funzione di dettare
disciplina sulle stesse materie che il codice civile aveva devoluto alla regolamentazione
delle “norme corporative” (cfr., ad esempio, in materia di inquadramento professionale,
l’art. 2 della legge n. 190/1985 o, in materia retributiva, l’art. 1, 2° comma, della legge n.
297/1982).
29
dell’intera categoria individuata dalle stesse parti stipulanti90 e,
comunque, assegnandogli la funzione di parametro per la
determinazione delle condizioni economiche e/o normative
applicabili a tutti gli appartenenti alla categoria stessa91.
Dall’atteggiamento, in positivo, tenuto dal legislatore, se
considerato insieme alla scelta, in negativo, di astenersi dal
dettare regola sui soggetti e sul procedimento della contrattazione
collettiva (e sui criteri di soluzione di eventuali contrasti),
possono essere, quindi, ricavate due implicazioni.
Anzitutto, l’ordinamento giuridico, pur garantendo il
pluralismo organizzativo e la conseguente diversificabilità degli
interessi collettivi perseguiti da ciascuna organizzazione
(garanzia assicurata dal riconoscimento della libertà di
contrattazione, e, a sostegno di tale libertà, dal riconoscimento
Cfr., al riguardo, l’art. 12, 6° comma, della legge 11 marzo 1970, n. 83, in base al quale il
provvedimento di avviamento al lavoro per i lavoratori agricoli deve contenere
l’indicazione della “retribuzione prevista dai contratti collettivi vigenti”; l’art. 8, 1°
comma, della legge 18 dicembre 1973, n. 877, che – modificando la precedente, e già citata,
legge n. 264/1958 – dispone che “i lavoratori che eseguono lavoro a domicilio devono
essere retribuiti sulla base di tariffe di cottimo pieno risultanti dai contratti collettivi di
categoria”; l’art. 1 della legge 1° giugno 1977, n. 285, sull’occupazione giovanile, che
prevedeva il diritto del giovane assunto “alla retribuzione contrattuale prevista per il
livello aziendale della corrispondente qualifica”; l’articolo unico della legge 19 dicembre
1979, n. 649, che – novellando l’art. 325 del codice della navigazione – stabilisce che “le
misure e le componenti della retribuzione sono determinate e regolate dalle norme di
contratti collettivi di lavoro”; l’art. 1, 1° e 7° comma, della legge 29 febbraio 1980, n. 33,
che demanda alla contrattazione collettiva la determinazione del trattamento economico per
la malattia; l’art. 2, 2° comma, della legge 13 maggio 1985, n. 190, in base al quale “i
requisiti di appartenenza alla categoria dei quadri sono stabiliti dalla contrattazione
collettiva nazionale ed aziendale in relazione al ramo di produzione ed alla particolare
struttura organizzativa delle imprese”.
91
Del resto, l’estensione di quel parametro è indirettamente perseguita, sia con tecniche
incentivanti (come quella che condiziona la concessione della fiscalizzazione degli oneri
sociali alla circostanza che l’impresa assicuri “ai propri dipendenti trattamenti non inferiori
a quelli minimi previsti dai contratti collettivi nazionali di categoria stipulati dalle
organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative”, o, più esplicitamente, alla
circostanza che l’impresa applichi “i contratti collettivi nazionali di categoria”: cfr.,
rispettivamente, art. 4 della legge 5 agosto 1978, n. 502 ed art. 2-bis della legge 21 marzo
1991, n. 89), sia con tecniche indirettamente sanzionatorie (cfr. l’art. 1 della legge 7
dicembre 1989, n. 389, che ha convertito il d.l. 9 ottobre 1989, n. 338, il quale, da un lato,
stabilisce che i “contributi di previdenza e di assistenza sociale” devono essere calcolati e
versati sulla base di una retribuzione comunque non “inferiore” a quella stabilita “da leggi,
regolamenti, contratti o accordi collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più
rappresentative su base nazionale”, e, d’altro lato, pone interamente a carico del datore di
lavoro la contribuzione relativa all’eventuale differenza tra la retribuzione dovuta e quella
effettivamente corrisposta).
90
30
del diritto di sciopero, potenzialmente esercitabile anche come
criterio di soluzione di conflitti intersindacali), riconosce una
preminente tutela all’interesse collettivo che è individuato dal
contratto collettivo, e in esso trova realizzazione.
Ed infatti, la stipulazione del contratto collettivo, che pure
avvenga al di fuori di qualsiasi procedimento legale e soltanto nel
rispetto degli equilibri spontanei delle relazioni sindacali, è
considerato dall’ordinamento giuridico statuale atto idoneo a
individuare l’interesse collettivo dei lavoratori nell’intero suo
ambito di applicazione, superando ed assorbendo – sul piano
contrattuale – gli interessi collettivi eventualmente diversi
individuati, a livello endoorganizzativo, dalle altre coalizioni che
non abbiano partecipato alla sua stipulazione.
In secondo luogo, e di conseguenza, il legislatore,
prescindendo dai soggetti che lo hanno stipulato e dalle modalità
con le quali è stato stipulato, dimostra di considerare, ed
utilizzare, il contratto collettivo come un “fatto” produttivo di
effetti giuridici che non sono limitati inter partes, ma sono
destinati a diffondersi, tendenzialmente, all’intero suo ambito di
applicazione. Ma questo rilievo verrà ripreso, alla fine, per tener
conto anche dell’evoluzione successiva.
7. Dal sostegno della rappresentanza sindacale nei luoghi di
lavoro alla concertazione “macropolitica”.
Una nuova “stagione” del diritto sindacale si apre con la
legge 20 maggio 1970, n. 300 (più nota come Statuto dei
lavoratori), che si pone al centro di un crocevia attraversato da
molteplici e complessi processi storici.
Quella legge è, anzitutto, il punto più avanzato delle
conquiste del lavoro, che si colloca alla fine di un decennio già
caratterizzato da altri importanti avanzamenti nella strada di
attuazione del programma costituzionale di progresso sociale
(legge n. 1369/1960; legge n. 230/1962; legge n. 604/1966; ma
anche, in materia previdenziale, d.p.r. n. 1124/1965; legge n.
488/1968 e legge n. 153/1969), in una non casuale correlazione
con la più intensa fase di espansione economica attraversata dal
Paese.
31
Quella legge, però, viene anche immediatamente a ridosso,
con una coincidenza altrettanto non casuale, del più grande
movimento di protesta sviluppatosi, non solo in Italia, a partire
dal dopoguerra. Movimento trasversale ed a tutto campo, che
propugnava una modifica degli assetti socio-politici venutisi a
creare e che coinvolgeva le stesse organizzazioni sindacali
tradizionali, nei riguardi delle quali veniva contestata una
tendenza alla centralizzazione verticistica92 e veniva, quindi,
avanzata una pressante rivendicazione di spazio da parte della
base dei lavoratori nelle aziende.
In questo contesto, il legislatore, interrompendo il proprio
atteggiamento astensionistico, detta una disciplina della
rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro che si muove su
due obiettivi convergenti93.
Per un verso, sostiene e promuove l’attività sindacale in
azienda, con l’obiettivo di favorire l’istituzione di un vero e
proprio “contropotere” al potere dell’imprenditore. Contropotere
che, unitamente alle altre disposizioni dettate dalla legge n.
300/1970 in materia di libertà e dignità del lavoratore, persegue,
a sua volta, lo scopo di ridurre il momento autoritario della
gestione dei rapporti di lavoro e accrescerne, invece, il tasso di
democraticizzazione.
Per l’altro verso, ricompone la frattura tra vertici e base,
individuando i soggetti destinatari del sostegno legale con un
meccanismo che, pur riconoscendo la necessità dell’“iniziativa
dei lavoratori in azienda”, implica che essa sia, altrettanto
necessariamente, rivolta verso sindacati esterni dotati di
determinati requisiti di rappresentatività, misurata a livello
confederale o, quantomeno, nazionale.
La finalità della legge è, quindi, quella di sostenere
l’attività sindacale in azienda, anche mediante la previsione di
Non essendo ancora ritenuto sufficiente il graduale processo di “riequilibrio dei poteri tra
strutture orizzontali e verticali”, intrapreso agli inizi degli anni ’60, tra l’altro, con “l’avvio
della contrattazione articolata” (cfr. U. ROMAGNOLI-T. TREU, I sindacati in Italia, cit., p.
165).
93
Si veda, nel più immediato dibattito suscitato da tale disposizione di legge, Atti delle
Giornate di Studio AIDLASS su La rappresentanza professionale e lo Statuto dei lavoratori,
Milano, 1971, e, ivi, la relazione di G.F. MANCINI; nonché T. TREU, Il sindacato fuori dalla
Costituzione: riconoscimento e rappresentatività, in Jus, 1975, p. 216 ss..
92
32
forme di democrazia diretta94, riconducendo, però, l’azione degli
organismi a ciò abilitati all’interno delle strategie delle grandi
centrali sindacali già affermatesi95.
Peraltro, pur non essendo una legge sulla contrattazione
collettiva, essa incide anche su quest’ultima. E ciò non
semplicemente perché alle rappresentanze sindacali aziendali
“qualificate” è attribuita specificamente la legittimazione a
stipulare accordi su determinate materie (cfr. artt. 4 e 6 della
stessa legge n. 300/1970). Ma, soprattutto, perché i criteri
utilizzati per selezionare gli organismi aziendali oggetto del
sostegno legale risultano proiettati, per effetto della legislazione
successiva, come una “onda lunga”, su campi e materie sempre
più vasti e numerosi96.
Non si può, in altri termini, non intravedere un continum
tra il sostegno dell’azione delle rappresentanze sindacali
aziendali, e le prime specifiche ipotesi di legittimazione
negoziale prevista dallo stesso Statuto dei lavoratori, con la
successiva espansione delle loro “competenze” contrattuali ad
iniziativa dello stesso legislatore, anche attraverso l’impulso
offerto con l’attribuzione di diritti di consultazione e di esame
congiunto97 e i sempre più frequenti rinvii all’attività negoziale di
altri livelli organizzativi dei sindacati, comunque, qualificati
“più” o “maggiormente” rappresentativi98.
Semmai, va segnalata una certa eterogenesi dei fini. Se,
infatti, il disegno sotteso allo Statuto dei lavoratori era quello di
94
Cfr. G.C. PERONE, Organismi sindacali aziendali, in Enc. giur. Treccani, Roma, vol.
XXII, 1990; V. VALENTINI, Assemblea e referendum nei luoghi di lavoro, ivi,
Aggiornamenti, Roma, 2003, p. 1.
95
Cfr. M. GRANDI, L’attività sindacale nell’impresa, Milano, 1976.
96
Per una realistica presa d’atto della diretta connessione tra legislazione di sostegno del
sindacato maggiormente rappresentativo ed attribuzione di poteri negoziali nella
legislazione successiva, T. TREU, La disciplina legale dei contratti di solidarietà, in Dir.
lav., 1985, I, pp. 24-25. Si veda, anche, F. CARINCI, La via italiana all’istituzionalizzazione
del conflitto, in Pol. dir., 1983, p. 421 ss..
97
Cfr. art. 5 della legge n. 164/1975; il combinato disposto del 1° e 5° comma dell’art. 47
della legge n. 428/1990; gli artt. 1, 7° e 8° comma, 4, 2°, 5° e 11° comma, 5, 1° comma
della legge n. 223/1991; art. 3 del d.l. 12 febbraio 1993, n. 31; art. 8 del d.l. 10 marzo 1993,
n. 57.
98
Cfr., oltre le disposizioni di legge da ultimo citate, l’art. 1 della legge n. 215/1978; art. 1,
1° comma, art. 2, 1° comma, art. 3, 3° comma, della legge n. 863/1984; art. 23, 1° e 2°
comma, della legge n. 56/1987; art. 2-bis del d.l. 4 giugno 1990, n. 129, inserito dalla legge
di conversione 3 agosto 1990, n. 210; art. 19, primo comma, della legge n. 223/1991.
33
sostenere il conflitto99 ritenendo che, in una fase ancora
espansiva del sistema produttivo, vi fossero ampi spazi per
procedere nella (allora) tipica contrattazione di carattere
acquisitivo, l’inversione, a stretto giro, del ciclo economico e i
più generali mutamenti connessi alle trasformazioni della società
post industriale ed ai fenomeni della globalizzazione, ha
bruscamente ridotto quegli spazi. E, soprattutto, ha portato
l’ordinamento giuridico statuale, con la legislazione prima
considerata dell’emergenza, poi della crisi e infine della
flessibilità, ad utilizzare il criterio selettivo introdotto dalla
Statuto per devolvere al sindacato la gestione di situazioni nelle
quali, più che acquisire vantaggi, si tratta di “limitare i danni”
(ossia di contenere, e controllare, gli effetti della emergenza,
della crisi, della richieste di flessibilità).
Si apre, così, la fase della deregolazione concertata100,
nella quale la contrattazione collettiva, su rinvio della legge,
assume nuovi contenuti e nuove tipologie101, se non nuove
funzioni102. Mentre, in taluni casi, subisce l’imposizione di limiti
“legali esterni” (sotto forma di “tetti”) giustificati dal
perseguimento di interessi pubblici preminenti103, più spesso le
viene attribuita la facoltà di stabilire le ipotesi in cui al datore di
lavoro è consentito applicare condizioni meno favorevoli dello
standard legale, o compiere atti che incidano sfavorevolmente sui
singoli rapporti di lavoro.
Cfr. E. GHERA, L’applicazione dello statuto dei lavoratori nella prospettiva
dell’ordinamento intersindacale, in G. PERA (a cura di) L’applicazione dello Statuto dei
lavoratori. Tendenze e orientamenti, Milano, 1973, p. 224.
100
Cfr. G. GIUGNI, Giuridificazione e deregolazione nel diritto del lavoro italiano, in Dir.
lav. rel. ind., 1986, p. 317 ss..
101
Cfr. R DE LUCA TAMAJO, L’evoluzione dei contenuti e delle tipologie della
contrattazione collettiva, in Riv. it. dir. lav., 1985, I, p. 16 ss..
102
G. VARDARO, Differenze di funzioni e di livelli fra contratti collettivi, in Lav. dir., 1987,
p. 229 ss.; nonché, da ultimo, M.C. CATAUDELLA, Contratto collettivo (nuove funzioni del),
in Enc. giur. Treccani, Roma, IX, p. 3 ss..
103
Come nel caso delle leggi antinflazionistiche degli anni 1976-1977 (sulle quali si vedano
le sentenze della Corte costituzionale nn. 140 e 141 del 1980, nonché le sentenze n. 34 del
1985 e n. 143 del 1998), che, secondo un certo angolo prospettico, segnano il passaggio
“dalla legislazione di sostegno dell’autonomo ordinamento sindacale” ad “una legislazione
di progressiva invasione della medesima” (cfr. M. RUSCIANO, Contratto collettivo e
autonomia sindacale, Torino, 2003, p. 140 ss.).
99
34
E’ questo, infatti, il tratto che accomuna quelle
diversificate tipologie di accordi che, a seconda dei casi, sono
stati definiti “ablativi”, o di “concessione”104, perché con essi
vengono dismessi diritti dei lavoratori, o “gestionali”105, con i
quali viene procedimentalizzato l’esercizio di poteri
originariamente propri del datore di lavoro, o, ancora,
“autorizzatori”, che non avrebbero né efficacia normativa né
efficacia obbligatoria, bensì un effetto “terzo” “costitutivo della
speciale legittimazione negoziale necessaria al singolo datore di
lavoro per stipulare contratti di lavoro del tipo flessibile”106.
Negli stessi anni, unitamente alla concertazione degli
effetti della deregolazione ed in rapporto di “scambio politico”
con essa107, le grandi centrali confederali, che già in altre forme
partecipavano alla gestione di funzioni pubbliche108, chiedono, ed
ottengono, di divenire interlocutori a livello politico nella
definizione di materie di interesse generale. Materie, cioè, che
non riguardano esclusivamente il rapporto di lavoro, ma che, per
la loro rilevanza, incidono sulle condizioni e sulle prospettive di
vita dei lavoratori, giustificando, così, che esse vengano trattate e
regolate in una ottica complessiva e coordinata con l’evoluzione
della disciplina legale e contrattuale che regola quel rapporto.
La “concertazione” trae la propria legittimazione, a latere
delle organizzazioni sindacali, dal principio di libertà delle forme
di svolgimento dell’attività di autotutela e dal riconoscimento
della libertà di sciopero anche se esercitato contro i pubblici
poteri109. E si svolge, di fatto, in modo quasi “carsico”, e proprio
per questo ad essa forse non si addice il termine di
“neocorporativismo”110, al di fuori di regole e di prassi, rigide e
104
S. SCIARRA, Pars pro toto, totum pro parte: diritti individuali e interesse collettivo, in
Lav. dir., 1987, p. 465 ss..
105
Cfr. R. DE LUCA TAMAJO, L’evoluzione dei contenuti, cit., p. 25 ss..
106
M. D’ANTONA, Pubblici poteri nel mercato del lavoro. Amministrazione e
contrattazione collettiva nella legislazione recente, in Riv. it. dir. lav., 1987, I, p. 226 ss.;
ID., L’autonomia individuale e le fonti del diritto del lavoro, in Giornale dir. lav. e
relazioni ind., 1991, p. 455 ss..
107
Cfr. M. CARRERI-C. DONDOLO, Il mestiere politico del sindacato, Roma, 1986.
108
Al riguardo, si veda G. PERONE, Partecipazione del sindacato alle funzioni pubbliche,
Roma, 1968.
109
Cfr. Corte cost. 27 dicembre 1974, n. 290.
110
Cfr. M. PERSIANI, Il problema della rappresentanza e della rappresentatività del
sindacato in una democrazia neo-corporata, in Dir. lav., 1984, p. 3 ss.. Con riferimento
35
predeterminate, e secondo tempi, ed argomenti, che sono
strettamente influenzati dalla natura e dalla gravità dei problemi
da affrontare, e soprattutto dallo stato dei rapporti all’interno
delle diverse sigle sindacali e tra queste ed il potere politico e le
contrapposte associazioni imprenditoriali111.
Una concertazione, quindi, che, in alcuni passaggi, riesce
ad offrire, soprattutto in situazioni di debolezza del sistema
politico, importanti contributi alla realizzazione di obiettivi
eccezionali, quali la lotta all’inflazione e la riduzione del debito
pubblico necessarie per l’ingresso nell’Europa di Mastricht; in
altri casi, invece, nel gioco dei veti reciproci112, determina una
situazione di paralisi decisionale e di ulteriore indebolimento del
potere politico, che al metodo concertativo avesse dichiarato di
volersi attenere (e di qui la differenza dal metodo del c.d.
“dialogo sociale”113, più teorizzato, che effettivamente attuato,
come tecnica di riappropriazione del potere - dovere di decisione
da parte del Governo, in caso di stallo nella trattativa con le parti
sociali).
Ma più in generale si avvertono, da ultimo, alcune
difficoltà della concertazione a svilupparsi proficuamente, oltre
la definizione di obiettivi generici o argomenti di scarsa
rilevanza. E ciò non soltanto per i rapporti più, o meno,
“amichevoli” che possono intercorrere tra le parti sociali e
maggioranza politica, ma anche per ragioni meno contingenti.
Da un lato, infatti, pesano (irrisolte) problematiche
connesse alla individuazione dei soggetti ammessi al tavolo della
concertazione, perché, nel caso di allargamento, si complica
l’operazione di mediazione e sintesi di interessi divergenti,
anche ad altre esperienze, AA.VV., Diritto del lavoro e corporativismi in Europa: ieri e
oggi, a cura di G. VARDARO, Milano, 1988.
111
Cfr., sia sotto il profilo della ricostruzione storica delle diverse fasi, che sotto il profilo
dell’inquadramento giuridico, F. CARINCI, Riparlando di concertazione, in Studi in onore di
Mattia Persiani, Padova, 2005, p. 363 ss.; ID., Parlamento e concertazione. Introducendo
un convegno, in Quaderni di ADL, Padova, 1999, n. 4, p. 13 ss..
112
Sulla progressiva trasformazione del “sindacato in un vero e proprio veto player da
coinvolgere nel governo dell’economia per evitarne la contestazione”, M. MARTONE,
Governo dell’economia e azione sindacale, cit., p. 161.
113
Come trasposto dall’ordinamento comunitario a quello interno, ad opera del Libro
bianco sul mercato del lavoro in Italia. Proposte per una società attiva e per un lavoro di
qualità, del 21 novembre 2001.
36
mentre, nel caso inverso di selezione restrittiva, l’accordo
concertativo “fatica” a realizzare gli obiettivi enunciati, a causa
della contestazione degli esclusi.
D’altro lato, sul futuro della concertazione, pesano i nodi
centrali (altrettanto irrisolti) della situazione economica italiana,
che qualsiasi serio accordo non potrebbe ignorare, ma che
riguardano temi (pensioni e mercato del lavoro) ad altissimo
grado di tensione sociale. Sono, infatti, temi sui quali si configura
un oggettivo conflitto di interessi che spacca quasi a metà la
società intera, contrapponendo gli anziani (già pensionati o
prossimi alla pensione) e i giovani, i lavoratori già stabilmente
inseriti nel mondo del lavoro e i soggetti deboli che ne sono
esclusi. Con l’aggravante che le organizzazioni sindacali sono,
per la stragrande maggior parte, costituiti dai primi (pensionati e
lavoratori già inseriti) e, quindi, per naturale inclinazione, poco
propensi a fare concessioni che riequilibrino le (ridotte) risorse
ed opportunità disponibili in favore dei secondi (giovani e
soggetti deboli)114.
8. Crisi e manutenzione del sistema. Appannamento e (parziale)
superamento della nozione di maggiore rappresentatività.
Quando prende avvio, e mentre cresce, il coinvolgimento
delle grandi confederazioni storiche nella opera di
“flessibilizzazione” della disciplina dei rapporti di lavoro, e
contemporaneamente si accentua il loro peso politico nella
società, si assiste ad un graduale “appannamento”, anche se forse
non proprio una crisi, della capacità rappresentativa di quelle
confederazioni, e, contemporaneamente, della nozione di
maggiore rappresentatività, quale criterio selettivo che ne aveva
sostenuto l’azione dentro e fuori l’azienda115.
114
Su questi temi, con incisività, P. ICHINO, Il lavoro e il mercato, Milano, 1996; ID., A che
cosa serve il sindacato?, Milano, 2005.
115
Si vedano, i diversi interventi raccolti negli Atti delle Giornate di Studio AIDLASS, sul
tema Rappresentanza e rappresentatività del sindacato (Macerata, 5-6 maggio 1989),
Milano, 1990, già citati, e, in particolare, la relazione di B. VENEZIANI, Il sindacato dalla
rappresentanza alla rappresentatività, p. 3 ss. e di G. SANTORO PASSARELLI,
Rappresentanza e rappresentatività sindacale (istituzionalizzazione della rappresentanza
sindacale?), p. 51 ss., anch’essa già citata (nella nota 43).
37
Molte e variegate ragioni, tra loro concatenate, ne sono la
causa. Sul piano normativo, viene rilevato come l’art. 19 della
legge n. 300/1970 comporti una “presunzione di
rappresentanza”116 delle confederazioni sindacali anche in
contesti ove essa non sia effettiva, e come, attraverso
un’interpretazione giurisprudenziale non sempre rigorosa, tale
“presunzione” sia stata riconosciuta anche a beneficio di
organizzazioni
sindacali
che,
forse,
maggiormente
rappresentative non erano neppure a livello confederale.
Sul piano sostanziale, le confederazioni storiche si sono
trovate a dover fare i conti con una serie di eventi: la rottura
dell’identità socialtipica della “classe” attorno alla quale esse
erano state costituite, si erano sviluppate ed avevano fondato le
loro strategie rivendicative; l’emersione di nuovi mestieri e
professionalità, che aspirano ad affermare la propria identità e
soffrono l’imposizione di politiche egualitarie o solidaristiche; la
ripresa del sindacalismo autonomo e l’esplosione dei sindacati di
base, non particolarmente rappresentativi sul piano generale, ma
in grado di conquistare, grazie alla presenza in particolari settori
di interesse generale, una particolare visibilità; la naturale,
minore, “appetibilità” dei risultati della contrattazione collettiva,
non più meramente acquisitiva, ma, come visto, anche canale di
introduzione di modifiche peggiorative; l’esplosione di nuove
manifestazioni di dissenso dal contratto collettivo, dissenso che,
in precedenza, riguardava, normalmente, soltanto il caso del
datore di lavoro (che intendeva sottrarsi agli obblighi da esso
previsti) e che, invece, ora proviene spesso anche da parte dei
lavoratori (che si ritengono penalizzati dalle scelte sempre più
difficili alle quali il sindacato di ispirazione solidarista è
costretto)117.
L’insieme di queste cause ha, poi, effetti devastanti sulla
tenuta del sistema nel caso, e nei periodi, in cui le tensioni che da
esse scaturiscono si riflettono anche nei rapporti interni tra le
singole centrali confederali, portando alla rottura della loro unità
Così, M. DELL’OLIO, L’organizzazione e l’azione sindacale, cit., p. 174.
Cfr., sul problema del dissenso, con diverse impostazioni, G. PROSPERETTI, L’efficacia
dei contratti collettivi nel pluralismo sindacale, Milano, 1989, p. 145 ss.; F. SCARPELLI,
Lavoratore subordinato e autotutela collettiva, Milano, 1993, p. 234 ss..
116
117
38
d’azione, con la firma, in pochi ma clamorosi episodi, di accordi
“separati”, dai quali consegue l’ulteriore aggravamento dei
problemi di efficacia dell’azione contrattuale118.
Si riaccende, così, l’attenzione sulla necessità di interventi
regolatori del fenomeno sindacale, con la più grande incertezza,
però, sull’ampiezza e sui contenuti dell’intervento e sullo
strumento da utilizzare.
Il primo che ha visto effettivamente la luce riguarda
proprio l’area nella quale più visibile era la difficoltà delle
confederazioni storiche di continuare a governare il sistema
sindacale di fatto, e cioè l’area dei servizi pubblici essenziali. E
così, dopo alcuni tentativi di autoregolamentazione non proprio
riusciti, il legislatore ha interrotto l’atteggiamento astensionista
anche in materia di attuazione dell’art. 40 Cost., dettando una
disciplina volta a contemperare l’esercizio del diritto di sciopero
nei servizi pubblici essenziali con gli altri diritti
costituzionalmente garantiti. A tal fine, peraltro, pur
privilegiando lo strumento della contrattazione collettiva, va
notato come il legislatore abbia negato la legittimazione
esclusiva dei sindacati maggiormente rappresentativi alla
individuazione dei limiti e delle modalità di esercizio del diritto
di sciopero nel settore in questione119, onde evitare quella
“saldatura” tra maggiore rappresentatività e monopolio del
conflitto, che avrebbe potuto favorire rendite di posizione a
vantaggio dei sindacati in possesso di quel requisito e
comprimere l’unico (o, quantomeno, il più efficace) “strumento”
di affermazione da parte di quei soggetti collettivi che ne sono,
allo stato, privi120.
Ed invece, nonostante le numerose iniziative parlamentari
e proposte di studio, né il tema dell’efficacia della contrattazione
collettiva, né il tema della rappresentanza e della
118
Da ultimo, approfonditamente, A. PESSI, Unità sindacale e autonomia collettiva, cit..
Nonostante che tale scelta selettiva fosse stata coevamente adottata ai fini della
stipulazione di altre tipologie di contratti collettivi (basti pensare all’art. 2-bis del d.l. 4
giugno 1990, n. 129, o all’art. 47 della legge 27 dicembre 1990, n. 428).
120
Così, G. SANTORO PASSARELLI, in M. RUSCIANO-G. SANTORO PASSARELLI, Lo sciopero
nei servizi essenziali, Commentario alla legge 12 giugno 1990, n. 146, Milano, 1991, p. 26
ss.; ID., I punti di crisi della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, in Dir. lav.,
1993, I, p. 397 ss..
119
39
rappresentatività riescono a coagulare i consensi necessari per
una soluzione legislativa, se non limitatamente al pubblico
impiego ed in relazione alle particolari esigenze poste dal
processo relativo alla sua privatizzazione.
Non riesce, anzi, ad avviare un percorso riformatore
neppure l’inversione di rotta della Corte Costituzionale che, dopo
aver difeso i criteri selettivi di tipo presuntivo dettati dall’art. 19
della legge n. 300/1970121, ed aver successivamente, addirittura,
enfatizzato la loro intima coerenza con l’impianto
costituzionale122, ha successivamente ribaltato il proprio
atteggiamento, lanciando un pressante “monito” al legislatore,
con il quale segnalava che l'apprestamento di nuove regole ispirate alla valorizzazione dell'effettivo consenso come metro di
democrazia anche nell'ambito dei rapporti tra lavoratori e
sindacato - era ormai divenuto indifferibile123.
Nell’inerzia del legislatore, un profondo intervento
innovatore è stato, però, realizzato dalle stesse confederazioni
sindacali e, sia pure con effetti pratici sostanzialmente molto
circoscritti, dal referendum di iniziativa popolare dell’11 giugno
1995.
Le prime, con l’accordo interconfederale del 20 dicembre
1993, hanno previsto che le rappresentanze sindacali aziendali
siano “unitarie” e vengano individuate con elezioni aperte a tutti
i lavoratori in azienda, operando, quindi, indistintamente nei loro
confronti (a prescindere dal dato dell’iscrizione, o no, ai sindacati
partecipanti alla competizione elettorale)124.
121
Cfr. la sentenza 6 marzo 1974, n. 54.
Così la sentenza 24 marzo 1988, n. 334 (in Mass. giur. lav., 1988, p. 191) con nota di R.
PESSI, “Promozione” delle confederazioni maggiormente rappresentative e “coerenza” al
disegno costituzionale), secondo la quale l’opzione a favore del modello intercategoriale è
coerente con il complessivo disegno cui è informata la Carta costituzionale e, in particolare,
sia con il principio solidaristico, specificatamente enunciato all’art. 2, sia con il principio
consacrato nel secondo comma dell’art. 3.
123
Cfr. la sentenza 26 gennaio 1990, n. 30, con la quale veniva affermato che “anche a
causa delle incisive trasformazioni verificatesi nel sistema produttivo, si era prodotta in
anni recenti una forte divaricazione e diversificazione degli interessi, fonte di più
accentuata conflittualità”, onde “si trattava di dettare nuove regole idonee ad inverare, nella
mutata situazione, i principi di libertà e di pluralismo sindacale additati dal primo comma
dell'art. 39 Cost.”.
124
Sul rilievo della clausola che attribuisce, però, a prescindere dal risultato elettorale, un
terzo dei seggi delle r.s.u. alle confederazioni storiche, si vedano, P. ALLEVA, L’accordo
122
40
Il referendum del 1995, le cui motivazioni non erano del
tutto assorbite dall’autoriforma delle parti sociali (anche per
l’efficacia puramente negoziale di quest’ultima), ha invece,
condotto, insieme alla “bocciatura” del quesito volto ad
eliminare in modo radicale qualsiasi criterio selettivo,
all’accoglimento della proposta che mirava a escludere che la
chiave d’accesso al sostegno legale dovesse necessariamente
passare attraverso il riconoscimento della rappresentanza
sindacale aziendale da parte di un sindacato confederale o,
comunque, nazionale.
Con l’effetto di una profonda modifica, sul piano formale,
dell’art. 19 della legge n. 300/1970, che, nel nuovo testo
risultante dall’esito referendario, consente la costituzione delle
rappresentanze
sindacali
aziendali
“nell’ambito
delle
associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi
di lavoro applicati nell’unità produttiva”, (cfr. art. 1, d.p.r. 28
luglio 1995, n. 312), e, quindi, anche di contratti stipulati a
livello meramente aziendale.
Sul piano pratico, però, considerato che i principali attori
della contrattazione, in tutti i settori ed a tutti i livelli, sono, di
fatto, le confederazioni storiche e le loro diverse strutture ed
articolazioni, anche l’introduzione, per via referendaria, di un
criterio comunque rapportato ad un dato di rappresentatività
effettiva, misurata sulla forza del sindacato125 e sulla sua capacità
di imporsi al datore di lavoro come controparte contrattuale126,
del 23 luglio 1993: una analisi critica, in Riv. giur. lav. 1993, I, p. 250 ss.; M. D’ANTONA,
Il Protocollo sul costo del lavoro e l’“autunno freddo” dell’occupazione, in Riv. it. dir.
lav., 1993, I, p. 425 ss..
125
G. GIUGNI, La rappresentanza sindacale dopo il referendum, in Giornale dir. lav. e
relazioni ind., 1995, p. 357; P. TOSI, L’esito referendario e i suoi effetti sulle relazioni
industriali in azienda, in Dir. relazioni ind., 1996, n. 1, p. 43; R. DE LUCA TAMAJO, Le
“ricadute” del referendum modificativo dell’art. 19 l. n. 300/70, in Dir. relazioni ind.,
1996, n. 2, p. 91.
126
Testimoniata dalla partecipazione attiva al processo di formazione (e non già nella mera
adesione) di un contratto normativo che regoli in modo organico i rapporti di lavoro in
azienda, almeno per un istituto o settore importante della loro disciplina (cfr. Corte cost. 12
luglio 1996, n. 244, in Arg. dir. lav., 1996, n. 4, p. 389, nonché le successive ordinanze n.
345/1996, n. 148/1997, n. 76/1998). Per un commento di tale sentenza, vedi G. SANTORO
PASSARELLI, Sulla costituzionalità del nuovo art. 19 l. n. 300 del 1970, in Arg. dir. lav.,
1997, n. 4, p. 145; M. MARAZZA, Libertà negoziale e rappresentatività del sindacato nel
nuovo art. 19 L. 300 del 1970, in Arg. dir. lav., 1997, n. 5, p. 115.
41
non ha minimamente scalfito le oramai solide radici del
sindacalismo confederale all’interno degli organismi sindacali
aziendali.
All’esterno, poi, dell’azienda, il referendum del 1995 non
esercita alcuna rilevanza, neppure sul piano formale, essendo il
suo esito circoscritto all’applicazione del titolo III dello Statuto
dei lavoratori e delle disposizioni di legge che operano rinvio alle
rappresentanze sindacali aziendali. Onde la nozione della
maggiore rappresentatività, secondo gli indici individuati dalla
dottrina e dalla giurisprudenza, conserva intatta la sua rilevanza
ai molteplici fini, ulteriori e diversi, per i quali la legislazione
anteriore o posteriore al referendum continua a fare ad essa
riferimento127.
Tuttavia, pur non abbandonando del tutto il criterio della
“maggiore rappresentatività”, va notato come il legislatore, nel
proseguire l’opera di rinvio alla contrattazione collettiva, utilizzi
oramai una pluralità di formule che si differenziano, secondo una
logica non agevolmente ricostruibile nemmeno ex post, sia in
relazione al livello organizzativo o negoziale, sia in relazione alla
nozione ed alla misura della rappresentatività degli agenti
negoziali (dal quale talvolta si prescinde e che in altri casi si
vuole “effettiva”, “maggiore” o “comparativa”)128.
In particolare, tende ad assumere un particolare rilievo la
nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo129,
127
Cfr. art. 118 della legge 23 dicembre 2000, n. 388; art. 17, 1° comma, del d. lgs. 26
marzo 2001, n. 151; art. 10, 3° comma, del d. lgs. 6 ottobre 2001, n. 368; art. 16, 2° comma,
del d. lgs. 8 aprile 2003, n. 66; art. 12, 3° comma, del d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276.
128
Al riguardo, P. CAMPANELLA, Rappresentatività sindacale. Fattispecie ed effetti,
Milano, 2000, p. 119 ss., e, da ultimo, S. SCARPONI, Rappresentatività e organizzazione
sindacale, Padova, 2005.
129
Cfr., art. 2, 25° comma, legge n. 549/1995; art. 5, comma 6-bis, legge n. 608/1996,
introdotto con l’art. 23, 1° comma, lett. e), legge n. 196/1997; art. 1, 2° comma, lett. a), e 8°
comma, della legge 24 giugno 1997, n. 196; art. 1, 3° comma, del d. lgs. 25 febbraio 2000,
n. 61; art. 3, 1° comma, del d. lgs. 25 febbraio 2000, n. 72; artt. 2, 6, 2° comma e comma 2bis, della legge 3 aprile 2001, n. 142; artt. 7, 2° comma, 9, 1° comma, 10, 7° e 9° comma,
del d. lgs. 6 settembre 2001, n. 368; artt. 1, 4° comma, 1-bis, 1° comma, 2, lett. b), 3 della
legge 18 ottobre 2001, n. 383; d. lgs. 8 aprile 2003, n. 66 (il quale, nelle “definizioni”
stesse, dettate dall’art. 1, precisa che tutti i numerosi rinvii da esso disposti ai “contratti
collettivi di lavoro”, devono intendersi riferiti a quelli “stipulati da organizzazioni sindacali
dei lavoratori comparativamente più rappresentative”; si veda, però, anche gli artt. 9, 5°
comma, 13, 3° comma, 17, 2° comma, 19, 1° comma, dello stesso d. lgs. 8 aprile 2003, n.
66); d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (che, anch’esso, dispone che, ai fini ed agli effetti
42
utilizzata, dapprima, in occasione delle prime manifestazioni
della contrattazione cd. “pirata”130, come criterio selettivo tra più
contratti collettivi stipulati per lo stesso ambito di riferimento e,
poi, con un più ampio raggio di azione, anche in contesti e con
finalità non dissimili da quelli che caratterizzavano i rinvii alla
nozione di maggiore rappresentatività131.
Suscita particolare attenzione, non solo da parte della
dottrina, il fatto che, in taluni casi, viene fatto riferimento ai
contratti collettivi stipulati non “dai”, ma “da” organizzazioni
sindacali
comparativamente
rappresentative,
o
più
rappresentative.
Ma la variante, a prescindere dalle motivazioni che
potrebbero averla suggerita, non sembra avere un’effettiva
incidenza innovativa, posto che, con entrambe le formule, il
rinvio legale non implica che il contratto collettivo debba essere
necessariamente stipulato con il consenso unanime di tutte le
organizzazioni alle quali possa essere riconosciuto il requisito di
rappresentatività di volta in volta stabilito dal legislatore.
Rilevante appare, invece, il ricorso ad una tecnica, che
aveva fatto la sua prima apparizione nella legge n. 196/1997 (in
particolare, art. 11, 4° comma), e che viene più ampiamente
utilizzata nel corso della prima legislatura del nuovo millennio,
suscitando, prima, aspre contestazioni e, poi, una forte spinta per
la sua eliminazione132.
della sua applicazione, per “associazioni di datori di lavoro e prestatori di lavoro”, si
intende “organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative”,
anche se, spesso, singole disposizioni utilizzano diverse espressioni); artt. 3, 2° comma, 4,
3° comma, 12, 4° comma, del d. lgs. 23 aprile 2004, n. 124; art. 1-ter, 3° comma, del d.l. 5
ottobre 2004, n. 249, convertito in legge 3 dicembre 2004, n. 291.
130
Al riguardo, cfr. A. LASSANDARI, Pluralità di contratti collettivi nazionali per la
medesima categoria, in Lavoro e dir., 1997, n. 2, p. 261; G. PERA, Note sui contratti
collettivi “pirata”, in Riv. it. dir. lav., 1997, I, p. 381.
131
Cfr. G. GIUGNI, Diritto sindacale, cit., pp. 76-77, secondo il quale, in tali ipotesi, “la
nozione in discorso è chiamata a svolgere la medesima funzione di quella più tradizionale
di sindacato maggiormente rappresentativo e, riproducendone la genericità, la differenza
non è reale, ma meramente terminologica”. Per una diversa impostazione, C. LA MACCHIA,
L’esercizio della rappresentanza sindacale nella riforma del mercato del lavoro del 2003,
in Riv. giur. lav., 2004, I, p. 179.
132
Per una analisi complessiva, ed “a caldo”, degli elementi di “rottura”, F. CARINCI, Una
svolta tra ideologia e tecnica: continuità e discontinuità nel diritto del lavoro di inizio
secolo, Introduzione al Commentario al d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, Milano, 2004, p.
XXIX ss.
43
Tanto con la riforma del contratto a termine (d.lgs. n.
368/2001), quanto con quella del mercato del lavoro (d.lgs. n.
276/2003), viene ridotto il ruolo della contrattazione collettiva
nell’opera che si suole definire di “flessibilizzazione tipologica”,
o più correttamente di “destandardizzazione”133, del rapporto di
lavoro.
Anche in precedenza, quest’opera era stata affidata, in
talune specifiche fattispecie, a fonti diverse da quella sindacale,
e, specificamente, a provvedimenti amministrativi. Ora, però, si
apre un maggiore spazio anche all’autonomia individuale e,
soprattutto, l’intervento di fonti diverse (sub specie decreti
ministeriali) è previsto non in relazione a fattispecie distinte da
quelle affidate alla regolazione dell’autonomia collettiva, bensì
per sopperire all’eventuale inerzia di quest’ultima134.
Emerge, così, un tratto distintivo rispetto le politiche
dell’ultimo quarto del secolo scorso135. Il legislatore considera
preminente l’interesse generale relativo alla modernizzazione,
ritenuta necessaria, del mercato del lavoro, nel quale sono
coinvolti anche soggetti non rappresentati dalle organizzazioni
sindacali e, anzi, in potenziale conflitto con questi ultimi 136. E,
quindi, precostituisce strumenti o fonti, alternative al contratto
collettivo, affinché la legge possa operare anche ove esso
manchi.
E’ una correzione di rotta di non poco rilievo, ma
nemmeno a 360 gradi, poiché, se si escludono gli interventi sui
Cfr. G. PROIA, Flessibilità e tutela “nel” rapporto di lavoro subordinato, in Interessi e
tecniche nella disciplina del lavoro flessibile, Atti delle Giornate di Studio di diritto del
lavoro AIDLASS, Pesaro-Urbino, 24-25 maggio 2002, Milano, 2003, p. 140 ss. (e in
Giornale dir. lav. e relazioni ind., 2002, p. 411 ss.).
134
Cfr. artt. 12, 3° comma, 34, 1° comma e 37, in combinato con l’art. 40, nonché gli artt.
43 e 55, 2° e 3° comma, del d. lgs. n. 276/2003.
135
Sui presupposti e gli obiettivi della riforma di inizio millennio, è necessario fare rinvio
all’opera di Marco Biagi (tra gli altri, si veda Competitività e risorse umane: modernizzare
la regolazione dei rapporti di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2001, I, p. 269), proseguita,
idealmente, da M. TIRABOSCHI (per una visione d’insieme, il volume da lui curato su La
riforma Biagi del mercato del lavoro, Milano, 2004).
Per le posizioni più critiche, si vedano P.G. ALLEVA ET AL., Un disegno autoritario nel
metodo, eversivo nei contenuti, in AA.VV., Lavoro ritorno al passato, Roma, 2002, p. 69
ss.; L. MARIUCCI, I molti dubbi sulla cd. riforma del mercato del lavoro, in Lav. dir., 2004,
p. 7 ss..
136
Sul punto, ancora, P. ICHINO, Il lavoro e il mercato, cit..
133
44
canali di accesso ai modelli destandardizzati o, come spesso si
dice, atipici (e quelli sulla flessibilità dell’orario nel part-time),
resta sistematica ed intensa l’opera di devoluzione alla
contrattazione collettiva della disciplina dei rapporti di lavoro137.
E, comunque, è una correzione di rotta alla quale le
organizzazioni sindacali possono rispondere, recuperando a pieno
quella funzione di contropotere diretto della parte
imprenditoriale138. Contropotere che può portare, così come è
accaduto in numerosi rinnovi contrattuali, non semplicemente ad
assumere una posizione inerziale nei confronti delle innovazioni
legali (che, come detto, non impedisce che l’integrazione della
legge avvenga mediante le fonti sostitutive previste dalla legge
stessa), ma a stabilire, in via contrattuale, un vero e proprio
obbligo della controparte di non fare ricorso ai nuovi istituti139.
La storia si conclude con la sensazione di un processo in
continuo divenire, com’è giusto e naturale che sia per un
fenomeno, come quello sindacale, che nasce dalla società e vive
in relazione con la politica in senso ampio, cosicché non può non
risentire dei mutamenti dell’una e dell’altra.
Ed è bene, quindi, non avventurarsi nell’“immaginazione”
di scenari possibili o di futuri eventi epocali. Anche soltanto se ci
fermassimo a scrutare l’orizzonte prossimo, si scorgerebbero
problematiche, vecchie e nuove, di cui è impossibile prevedere
l’evoluzione (e, comunque, non sarebbe questa la sede per
azzardare ipotesi). Problematiche che, tanto per ricordarne
alcune, vanno dalla tenuta dei rapporti tra le grandi
confederazioni storiche al ruolo che può essere giocato dal
sindacalismo di base e da una quarta confederazione
particolarmente attiva nel panorama delle relazioni industriali di
Per equilibrate riflessioni sull’impatto delle “tecniche regolatorie” del d.lgs. n. 276/2003
sul ruolo delle autonomie e, in generale, sulle categorie tradizionali del diritto del lavoro,
M. MAGNANI, Il diritto del lavoro e le sue categorie, Padova, 2006 (spec. p. 35 ss.) e M.
NAPOLI, Autonomia individuale e autonomia collettiva alla luce delle più recenti riforme,
in Atti delle Giornate di Studio di diritto del lavoro AIDLASS di Abano Terme-Padova del
21-22 maggio 2004, Milano, 2005, p. 9 ss. (nonchè in Dir. lav. rel. ind., 2004, p. 581 ss.).
138
Come messo bene in luce da C. ZOLI, Contratto e rapporto tra potere e autonomia nelle
recenti riforme del diritto del lavoro, negli Atti citati nella nota che precede (nonchè in
Giornale dir. lav. e relazioni ind., 2004, p. 357 ss.).
139
Si veda, anche, R. PESSI, La rappresentatività confederale tra concertazione e
concorrenza, in Arg. dir. lav., 2002, p. 629 ss..
137
45
questi ultimi anni; dalla opportunità e realizzabilità di una
disciplina legislativa che regoli, anche nel settore privato, il tema
della rappresentanza sindacale e/o della contrattazione collettiva
erga omnes, alle ricorrenti sollecitazioni ad una ulteriore riforma
intersindacale che si concentri sul tema degli assetti contrattuali;
dagli sviluppi in senso partecipativo del modello sindacale, alla
possibile radicalizzazione del conflitto in chiave ideologica.
Il tutto, ovviamente, senza dimenticare le implicazioni che
anche su queste problematiche derivano, e sempre più potrebbero
derivare, dalla perdita di centralità statale, sia, verso l’alto, in
relazione agli sviluppi del futuro socio – politico dell’Unione
Europea
(e,
guardando
oltre,
delle
organizzazioni
140
internazionali) , sia verso il “basso”, per effetto del processo di
“devoluzione” costituzionale, tutt’altro che assestatosi141.
Meglio, allora, limitarsi, in conclusione, a qualche
considerazione strettamente legata allo stato di ciò che è,
piuttosto di ciò che potrà essere.
9. Istituzionalizzazione e rappresentanza volontaria; autonomia
sindacale e fonte fatto.
L’evoluzione più recente del fenomeno sindacale
ripropone, in sostanza, sia pure con forme ed in misure diverse,
quella dualità di configurazioni che era stata intravista già
nell’impianto dell’art. 39 Cost.142.
140
Da ultimo, S. CASSESE, Oltre lo Stato, Bari, 2006. Con riguardo al nostro specifico
tema, AA.VV., La contrattazione collettiva europea. Profili giuridici ed economici, Milano,
2001.
141
Già all’indomani del referendum del 25 e 26 giugno 2006, le Commissioni Affari
Costituzionali del Senato e della Camera, hanno avviato un confronto in materia di riforme
costituzionali, decidendo di prevedere congiuntamente ad una indagine conoscitiva sullo
stato di attuazione del riparto di competenze conseguente al nuovo titolo V della parte
seconda della Costituzione.
142
Cfr. S. LIEBMAN, Contributo allo studio della contrattazione collettiva nell’ordinamento
giuridico italiano, Milano, 1986, p. 81, secondo il quale nella norma costituzionale
sembrerebbe emergere la contrapposizione tra “una concezione pubblicistica dell’attività
sindacale e la sua riconduzione a mero esercizio di una generica autonomia contrattuale di
tipo rigidamente privatistico”. Per la nostra, diversa, impostazione, si rinvia al par. 4.
46
Indubbiamente diversi sono i “momenti organizzativi”143
nei quali il sindacato si è venuto sviluppando, giustapponendo
elementi di tipo associativo a elementi di tipo istituzionale. E,
con essi, diversi sono anche i rapporti che instaura con la propria
base, giustapponendo strategie ed azioni rivendicative
direttamente rivolte ai soci a strategie ed azioni che hanno un
riferimento ben più ampio.
Un riferimento che, nei casi limite di enfatizzazione (o
degenerazione?) del modello concertativo, arriva quasi a
confondersi, addirittura, con l’interesse generale; e che, con la
contrattazione collettiva alla quale viene demandato di integrare
la disciplina legale, ricomprende non solo gli iscritti, ma
tendenzialmente tutti gli appartenenti alla categoria (sia pure,
sempre, così come questa è autodefinita dalle parti); e che,
all’interno dei luoghi di lavoro, è costituito direttamente
dell’insieme dei lavoratori che vi fanno parte, prescindendo dalla
loro affiliazione144, avendo il legislatore privilegiato un modello
di rappresentanza che non è basato necessariamente sul rapporto
associativo, e così messo a disposizione del sindacato un “guscio
vuoto” che può essere riempito in base alle proprie autonome
scelte, anche mutevoli nel tempo145.
Scelte che, di fatto, hanno a loro volta portato a
privilegiare, con il protocollo del 23 luglio 1993 e l’Accordo
interprofessionale del 20 dicembre 1993, la costituzione di
rappresentanze sindacali unitarie146 la cui natura, come detto, è
143
M. PERSIANI, Il problema della rappresentanza e della rappresentatività del sindacato,
cit., p. 4.
144
G. SANTORO PASSARELLI, Rappresentanza e rappresentatività sindacale, cit., p. 60.
145
T. TREU, L’organizzazione sindacale, I soggetti, Milano, 1970, p. 203 ss.; P. ICHINO,
Funzione ed efficacia del contratto collettivo nell’attuale sistema delle relazioni sindacali e
nell’ordinamento statale, in Riv. giur. lav., 1975, p. 464.
146
L. MARIUCCI, Poteri dell’imprenditore, rappresentanze sindacali unitarie e contratti
collettivi, in Poteri dell’imprenditore, rappresentanze sindacali unitarie e contratti
collettivi, Atti delle Giornate di Studio di diritto del lavoro AIDLASS, Pisa 26-27 maggio
1995, Milano, 1996, p. 10; E. GHERA, La riforma della rappresentanza sindacale nel
protocollo del luglio e nell’accordo interconfederale del 20 dicembre 1993, in La
rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro 1970-1993, Roma, 1994, p. 23 ss.; M. RICCI,
Il protocollo del 20 luglio 1993 sul costo del lavoro: verso l’istituzionalizzazione delle
relazioni industriali, in Riv. giur. lav., 1993, p. 279 ss.
47
fortemente connotata, forse più che da un variabile rapporto con i
sindacati esterni, dal carattere elettivo147.
La presenza di questi indubbi momenti di
“istituzionalizzazione” della rappresentanza sindacale non deve,
però, indurre a sopravvalutare la portata e le conseguenze che ne
potrebbero derivare sul piano della natura del sindacato e degli
interessi che esso persegue.
L’evoluzione della quale è stato, brevemente, dato conto,
infatti, non può mettere minimamente in discussione
l’importanza storica, culturale e politica della ricostruzione
dottrinale del fenomeno sindacale basata sull’istituto della
rappresentanza di diritto comune148, che ha “innegabilmente
interpretato e sistemato in modo congruo l’esigenza di libertà
dallo Stato dei gruppi organizzati, quale si era presentata dopo
la caduta dell’ordinamento corporativo”149.
Ciò che quell’evoluzione, semmai, evidenzia è la
progressiva inadeguatezza dei meccanismi tecnico-giuridici della
rappresentanza di volontà a costituire il fondamento, unico ed
esclusivo, dell’efficacia della contrattazione collettiva, e,
tantomeno, a conformare in senso prescrittivo l’intero fenomeno
sindacale. Del resto, si potrebbe dire che la scelta espressa dal
primo comma dell’art. 39 Cost., mediante il riferimento del
diritto di libertà all’“organizzazione”, è volta ad evitare di
“ingabbiare”, entro modelli predeterminati, non solo il
G. FERRARO, Morfologia e funzione delle nuove rappresentanze sindacali nell’accordo
interconfederale del dicembre 1993, in Riv. giur. lav., 1995, p. 211 ss..
148
Il richiamo è ancora alla nota elaborazione di F. SANTORO-PASSARELLI, già ricordata, tra
l’altro, nella nota 62, e più recentemente riaffermata dallo stesso illustre Autore, in
Autonomia collettiva e libertà sindacale, in Riv. it. dir. lav., 1985, I, p. 137.
Specificamente, per l’individuazione della fonte della rappresentanza sindacale, M.
GRANDI Contratto collettivo di diritto comune, cit., p. 60 ss.; G. BRANCA, L’associazione
sindacale, Milano, 1960, p. 155 ss.; ID., Contratto collettivo di lavoro ed eccesso di
rappresentanza, in Mass. giur. lav., 1960, p. 273; A. CESSARI, Il favor verso il prestatore di
lavoro subordinato, Milano, 1967, p. 147 ss.; e, soprattutto, A. CATAUDELLA, Adesione al
sindacato e prevalenza del contratto collettivo sul contratto individuale di lavoro, in Riv.
trim. dir. proc. civ., 1966, p. 564 ss..
149
Così G. GIUGNI, Il diritto sindacale e i suoi interlocutori, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
1970, p. 388, che rileva anche come l’importanza di quella dottrina sta proprio “nell’aver
coniugato libertà e autonomia privata e nell’aver esteso i confini di quest’ultima al
fenomeno dell’autonomia collettiva” (p. 389).
147
48
perseguimento dello “scopo” sindacale150, ma anche i criteri di
imputazione degli effetti dell’attività diretta a tale scopo.
Ma da ciò non possono trovare nuova linfa sopite
concezioni pubblicistiche.
Il sindacato e le sue diverse forme sono, e restano,
espressioni di autonomia privata che nascono dalla volontà dei
lavoratori, anche quando questa è manifestata mediante elezioni
o con altre forme di democrazia diretta. Allo stesso modo, la vita
“dentro” l’organizzazione sindacale è, e resta, interamente
regolata dalla volontà di chi ne fa parte, avendo il legislatore
rinunciato anche al limitato controllo che sarebbe stato consentito
dall’art. 39, 2° comma, Cost.. E, così pure, con l’azione
“all’esterno”, gli interessi perseguiti sono, e restano (essendo,
comunque, irrilevanti, ai fini ricostruttivi, eventuali
degenerazioni), esclusivamente interessi privati, ancorché
comuni all’intera collettività organizzata.
Né i rinvii operati dalla legge alla contrattazione collettiva
possono avere l’effetto di determinare una funzionalizzazione di
quest’ultima, o, tantomeno, la trasformazione della natura del
sindacato151.
La contrattazione è sempre, anche in questi casi,
espressione di autonomia privata, garantita pure essa dal 1°
comma dell’art. 39 Cost., e quindi resta libera, in quanto le parti
stipulanti conservano libertà di scelta sia in ordine all’an (ossia
150
Si vedano, al riguardo, R. SCOGNAMIGLIO, Il lavoro nella Costituzione italiana, in
AA.Vv., Il lavoro nella giurisprudenza costituzionale, Milano, 1978, III, p. 115; G. GIUGNI,
Sub art. 39, cit., p. 265.
151
Problematica, questa, riproposta, in particolare, a seguito della distinzione,
autorevolmente proposta, tra la tipologia di contratti collettivi considerata tipica o
tradizionale (cd. contratti collettivi normativi) e una ritenuta nuova tipologia di contratti
collettivi definiti “delegati” (come quelli previsti dall’art. 5 della legge n. 223/1991 e
dall’art. 2 della legge n. 146/1990) (cfr. Corte cost. n. 268/1994 e Corte cost. n. 344/1996.
Si veda, anche, in termini diversi, con riguardo alla contrattazione collettiva nel pubblico
impiego, Corte cost. n. 309/1997, nonché Corte cost. n. 244/1996).
Pone, però, bene in evidenza l’artificiosità di tale distinzione, M. PERSIANI, Contratti
collettivi normativi e contratti collettivi gestionali, in Arg. dir. lav., 1999, p. 1 ss..
Artificiosità, peraltro, che può essere apprezzata in un duplice senso: sia perché anche i
contratti collettivi considerati “delegati” dettano condizioni che incidono sul rapporto di
lavoro; sia perché anche i contratti collettivi cosiddetti normativi riguardano materie, come
quella dell’orario di lavoro o dell’inquadramento, che formano oggetto di rinvio da parte
della legge.
49
se stipulare o no il contratto nelle materie devolute dal
legislatore), sia in ordine ai contenuti152.
Anche in quei casi, quindi, la legge si limita a fare propri,
sul piano dell’ordinamento statuale, i contenuti dei contratti
collettivi, favorendone l’estensione ultra partes e rafforzandone
gli effetti, ma giammai conferisce, o potrebbe conferire, al
sindacato lo svolgimento di funzioni pubbliche o il compito di
perseguire interessi di natura pubblica.
A ben vedere, i rinvii alla contrattazione collettiva
implicano soltanto che il legislatore ha valutato che il modo in
cui le organizzazioni sindacali compongono i loro interessi
privati, ancorché collettivi, corrisponde anche all’interesse
pubblico. Fermo restando che, nei casi in cui il rinvio della legge
effettivamente limitasse l’autonomia collettiva nella libera
valutazione dei propri interessi vincolandola alla realizzazione di
fini pubblici, allora non potrebbero non porsi problemi di
compatibilità con l’art. 39 Cost.153.
Di qui, possono trovare anche comprensione, se non
soluzione, le eterne, ma sempre accese, dispute che ruotano
attorno alla collocazione sistematica del contratto collettivo nel
sistema delle fonti del diritto154, che sono innescate proprio
dall’ambivalenza dei piani sui quali esso si muove ed opera.
Promanando da organizzazioni libere, riguardo alle quali il
legislatore si è astenuto anche dal dettare le sole regole
prefigurate della seconda parte dell’art. 39 Cost., il contratto
collettivo è atto di autonomia, con cui soggetti privati, ancorché
di natura collettiva, regolano i propri interessi155. E, di
Cfr. G. PROIA, Il contratto collettivo fonte e le “funzioni” della contrattazione collettiva,
in Il sistema delle fonti nel diritto del lavoro, Atti delle Giornate di Studio di diritto del
lavoro AIDLASS Foggia-Baia delle Zagare 25-26 maggio 2001, Milano, 2002, p. 128 ss..
153
Si ricordi, al riguardo, che, secondo la Corte costituzionale, anche limiti estrinseci e non
già attinenti lo scopo, sono legittimi soltanto se giustificati da “superiori interessi sociali”
(cfr. Corte cost. 7 febbraio 1985, n. 34). Si veda, altresì, S. MAGRINI, Sulla legittimità
costituzionale della predeterminazione legislativa delle variazioni dell’indennità di
contingenza nel semestre febbraio-luglio 1984, in Riv. it. dir. lav., 1985, p. 163 ss..
154
Cfr. al riguardo, AA.VV., Il sistema delle fonti nel diritto del lavoro, cit., e, ivi, in
particolare, L. ZOPPOLI, Introduzione, p. 71 ss., che ritiene tale collocazione, per un verso,
“scontata” e, per l’altro, “insostenibile”.
155
Da ultimo, sulla base di una stringente argomentazione ricostruttiva, M. PERSIANI, Il
contratto collettivo di diritto comune nel sistema delle fonti del diritto del lavoro, in Arg.
dir. lav., 2006, p. 1 ss.
152
50
conseguenza, deve ritenersi che esso non può essere in alcun
modo considerato un “atto” avente, di per sé, forza di legge, la
cui stessa configurabilità presupporrebbe l’attribuzione di una
potestà normativa all’autore dell’atto, nonché il suo espresso
inserimento nel sistema delle fonti (che, com’è noto, è “chiuso”
al livello delle fonti primarie).
Ma, allo stesso tempo, se si ha riguardo all’“uso” che il
legislatore fa dei “prodotti” dell’autonomia sindacale, senza
ingerire nella sua sfera di libertà, sembra possibile affermare che,
nell’ambito dell’ordinamento statuale, quei “prodotti” sono
utilizzati in una dimensione diversa e più ampia. Una dimensione
nella quale il contratto collettivo è considerato nella sua
“materialità”, ed assume il rilievo di un “fatto” che,
prescindendo dai processi relativi alla sua formazione (lasciata ai
naturali equilibri ed agli spontanei esiti delle libere dinamiche
sindacali), è utilizzato per regolare una materia (quella della
disciplina dei rapporti di lavoro) che il legislatore stesso non
intende, o non può, completamente regolare a livello di fonti
primarie, stante la competenza riconosciuta all’autonomia
collettiva dall’art. 39 Cost.156.
Tant’è che, in alcune ipotesi, la legge stessa attribuisce al contratto collettivo il ruolo di
fonte principale della disciplina, ritagliando per sé soltanto una funzione sussidiaria o
suppletiva (cfr., ad esempio, l’art. 2, 1° comma, del d.lgs. n. 532/1999, il quale rimette al
contratto collettivo la definizione di lavoratore notturno e prevede che solo “in difetto di
disciplina collettiva, operi la definizione legale”, e, ora, l’art. 1, 2° comma, n. 2, del d. lgs.
n. 66/2003; ma si vedano, anche: l’art. 17, 2° comma, dello stesso d.lgs. n. 66/2003; gli artt.
12, 3° comma, 34, 1° comma, 37, 40, 43 e 55, 2° e 3° comma, del d.lgs. n. 276/2003).
In altri casi, la contrattazione collettiva è, addirittura, indispensabile perché la tutela
prevista dal legislatore possa esplicare i suoi effetti: cfr. ad esempio: l’art. 6 del d.lgs. n.
447/1999, il quale, dopo aver stabilito, nel primo comma, che “nel caso in cui
sopraggiungano condizioni di salute che comportano l’inidoneità alla prestazione di lavoro
notturno, accertata tramite il medico competente, è garantita al lavoratore l’assegnazione ad
altre mansioni o altri ruoli diversi”, prevede che “la contrattazione collettiva definisce le
modalità di applicazione delle disposizioni di cui al comma 1 e individua le soluzioni nel
caso in cui l’assegnazione prevista dal citato comma non risulti applicabile”; l’art. 7 del
d.lgs. n. 61/2000, il quale dispone che “le modalità di applicazione delle disposizioni di cui
al presente decreto legislativo ai rapporti di lavoro del settore agricolo, anche con
riguardo alla possibilità di effettuare lavoro supplementare o di consentire la stipulazione
di una clausola elastica di collocazione della prestazione lavorativa nei rapporti a tempo
determinato parziale, sono determinate dai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati
dai sindacati comparativamente più rappresentativi”. Ma si vedano, anche, l’art. 2, 1°
comma, della legge n. 142/2001, modificato dall’art. 9, 1° comma, della legge n. 30/2003,
gli artt. 48, 4° comma, lett. c), e 49, 5° comma, lett. b), del d.lgs. n. 276/2003.
156
51
In altri termini, riprendendo un rilievo al quale è stato già
fatto cenno, sul piano dell’ordinamento statuale, la contrattazione
collettiva potrebbe essere ricondotta, senza snaturare il suo
codice genetico, nella categoria delle fonti fatto157, ossia di quelle
fonti che non derivano dall’attribuzione di poteri normativi a
soggetti predeterminati158, e che, essendo il sistema delle fonti
“aperto” a livello di fonti secondarie, possono essere istituite
dalla legge ordinaria159.
Istituzione ravvisabile, appunto, nei rinvii160 che,
sistematicamente, il legislatore opera nei confronti della
contrattazione collettiva quando si tratta di determinare le
condizioni economiche e normative applicabili ai rapporti di
lavoro, anche ultra partes e nell’intero ambito di riferimento161,
pur senza con ciò, almeno di norma, poterle attribuire diretta
157
Rinvio, per evitare ripetizioni o sintesi inadeguate, alle argomentazioni esposte più
diffusamente nel mio Il contratto collettivo fonte e le “funzioni” della contrattazione
collettiva, cit., p. 128 ss. e, soprattutto, in Questioni sulla contrattazione collettiva.
Legittimazione, efficacia, dissenso, Milano, 1994, p. 185 ss.. Adesivamente, sia pure con
riguardo soltanto ad alcune tipologie di rinvio legale, P. ICHINO, Commento all’art. 39, in
AA.VV., Il nuovo mercato del lavoro, Torino, 2004, p. 289.
158
Si ricorda, infatti, che il legislatore, anche quando utilizza criteri selettivi, fa ricorso a
criteri “aperti” (come quelli della “rappresentatività”, “maggiore rappresentatività”,
“rappresentatività comparativa”) che hanno comunque, riguardo dinamicamente ad un dato
di “effettività” sociale autonomamente acquisibile da qualsiasi organizzazione sindacale
(cfr. Corte cost. n. 54 del 1974 e Corte cost. n. 344 del 1996).
159
Cfr. Corte cost. 3 giugno 1970, n. 79 e, in dottrina, per tutti, V. CRISAFULLI, Fonti del
diritto (diritto costituzionale), in Enc. dir., Milano, XVII, 1968, p. 959 ss..
160
In generale, sul “rinvio” legale come tecnica mediante la quale può realizzarsi
“l’istituzione positiva di un tipo di fonte fatto”, MODUGNO, Fonti del diritto. Diritto
Costituzionale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, p. 9.
161
Cfr., retro, le note 83, 89, 90 e 91, ed esemplificativamente, più di recente l’art. 22 del
d.lgs. n. 286/1998; ai sensi del quale l’autorizzazione al lavoro dello straniero residente
all’estero è rilasciata “previa verifica delle condizioni offerte dal datore di lavoro, che non
possono essere inferiori a quelle stabilite dai contratti collettivi nazionali di lavoro
applicabili”; l’art. 10 della legge n. 68/1999, il quale stabilisce che ai lavoratori disabili
obbligatoriamente assunti “si applica il trattamento economico e normativo previsto dalle
leggi e dal contratto collettivo”; l’art. 7, lett. f), n. 6 della stessa legge n. 142/2001 (il quale
prevede, tra i principi e criteri direttivi della disciplina delegata in materia di vigilanza, la
facoltà di “ispezioni straordinarie” finalizzate ad accertare “la correttezza dei rapporti
instaurati con i soci lavoratori e l’effettiva rispondenza di tali rapporti rispetto al
regolamento ed alla contrattazione collettiva di settore”). Ma si vedano, anche: l’art. 1,
comma 4-bis, della legge n. 383/2001; l’art. 17, 1° comma, del d.lgs. n. 66/2003; gli artt.
21, 2° comma e 86, 2° comma, del d.lgs. n. 276/2003, l’art. 7, lett. b), del d.lgs. n.
124/2004; l’art. 3, 9° comma, lett. b), 10, del d.lgs. n. 108/2005, et cetera.
52
efficacia generale162, stante la preclusione derivante dalla
mancata attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. (che,
nell’interpretazione costituzionale, non ammette soluzioni
alternative).
Rinvio che esprime una valutazione di idoneità della
contrattazione collettiva ad integrare, specificare o addirittura
derogare la disciplina legale e che prescinde dall’esistenza di un
potere di rappresentanza delle parti stipulanti163 o di altri
meccanismi negoziali di vincolo nei confronti dei singoli datori
di lavoro e lavoratori164.
E, del resto, anche la capacità di vincolo attribuita a quel
“fatto” non troverebbe piena giustificazione nelle “regole sulla
rappresentanza civilistica”165, soprattutto in considerazione del
modo in cui esso opera dall’esterno sui contratti individuali,
senza determinare – nel caso di successione di contratti collettivi
162
Sulla configurabilità di limiti anche alla sfera di efficacia delle fonti, ed in particolare
delle fonti fatto, BARBERO, Sistema del diritto privato italiano, Torino, 1962, I, p. 76; A.
PIZZORUSSO, Fonti del diritto, Artt. 1-9, in Commentario del codice civile, a cura di
SCIALOJA-BRANCA, Bologna-Roma, 1977, p. 356.
163
In realtà la legge fa rinvio direttamente al contratto collettivo, perché riconosce che, ai
sensi del primo comma dell’art. 39 Cost., il sindacato agisce sulla base della legittimazione
costituzionale alla contrattazione collettiva (cfr., in tal senso, la originale ricostruzione di
M. PERSIANI, già elaborata nella edizione del 1967 del Saggio sull’autonomia privata
collettiva; nonché R. SCOGNAMIGLIO, Autonomia sindacale ed efficacia del contratto
collettivo di lavoro, cit., p. 140 ss.), onde il problema di come imputare gli effetti
dell’azione sindacale è un problema che, logicamente e giuridicamente, costituisce un
posterius rispetto a quello della legittimazione.
164
Si ponga attenzione, ad esempio, a disposizioni come quelle: dell’art. 2 del d.lgs. n. 72/
2000, il quale prevede che al rapporto di lavoro tra le imprese stabilite in uno Stato membro
dell’Unione Europea diverso dall’Italia e il lavoratore da esse distaccato nel nostro
territorio “in occasione di una prestazione di servizi transnazionali”, “si applicano, durante
il periodo di distacco, le medesime condizioni di lavoro previste da disposizioni legislative,
regolamentari o amministrative, nonché dai contratti collettivi stipulati dalle
organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più
rappresentative a livello nazionale, applicabili ai lavoratori che effettuano prestazioni
lavorative subordinate analoghe nel luogo in cui i lavoratori distaccati svolgono la propria
attività in posizione di distacco”; dell’art. 6 del d.lgs. n. 368/2001, in base al quale, al fine
di individuare i trattamenti dovuti al lavoratore a termine bisogna fare riferimento a quelli
in atto per i lavoratori a tempo indeterminato “inquadrati nello stesso livello in forza dei
criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva” (e , analogamente con
riferimento ai lavoratori a tempo parziale, l’art. 4 del d.lgs. n. 61/2000); dell’art. 3, 10°
comma, del d.lgs. n. 108/2005, in base alla quale “una copia del contratto collettivo e una
copia delle norme nazionali devono essere conservate a bordo di tutte le navi mercantili e
da pesca nazionali a disposizione di tutti i lavoratori imbarcati e degli organi di
vigilanza”.
165
Così M. RUSCIANO, Contratto collettivo e autonomia sindacale, cit., pp. 85-86.
53
nel tempo – gli effetti, altrimenti inevitabili (ed esiziali per la
stessa naturale evoluzione delle relazioni sindacali), della
cosiddetta “incorporazione” nei contratti stessi.
Si potrebbe allora concludere, in modo volutamente
descrittivo, che il contratto collettivo resta lo strumento di
composizione dei contrapposti interessi tra le parti che la
stipulano, ma la legge, senza interferire nella sfera di libertà di
queste ultime, considera quel contratto come un “fatto” al quale
attribuisce un rilievo ed effetti166 che, man mano, sembrano
sempre più vicini a quelli di una fonte, sia pure, appunto, di
origine fattizia, che non a quelli tipici dell’atto negoziale, o ad
esso normalmente riconosciuti.
Sino ad arrivare, da ultimo, alla problematica e contestata novella dell’art. 360, n. 3,
c.p.c. (che prevede la ricorribilità in cassazione per la “violazione o falsa applicazione dei
contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro”), ad opera dell’art. 2 del d.lgs. 2 febbraio
2006, n. 40.
166
54
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