Lavoro, impresa e trasformazioni organizzative

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Lavoro, impresa e trasformazioni organizzative
di Domenico Garofalo
Sommario: NOTA INTRODUTTIVA. – PARTE PRIMA - I PROFILI DI CARATTERE GENERALE.
– 1. Il perdurante interesse per il tema della frammentazione organizzativa. – 2. Le ragioni del
fenomeno. – 3. (segue) … e le sue possibili catalogazioni. – 4. L’interesse del diritto del lavoro per
il datore di lavoro. – 5. La “rimaterializzazione” dell’impresa tra ricentralizzazione del contratto di
lavoro e autonormazione. – 6. Frammentazione, potere organizzativo e libertà di iniziativa
economica privata. – 7. Flessibilità versus decentramento: alternativa o concorso?. – PARTE
SECONDA – I MODELLI DI TUTELA. – 8. Ricondurre la riflessione sul lavoratore: i modelli di
tutela. – SEZIONE I - I CARDINI DEL SISTEMA DI TUTELA. – 9. La perdurante vigenza del
divieto di interposizione. – 10. La responsabilità solidale. – 10.1. Responsabilità solidale versus
codatorialità. – 10.2. La responsabilità solidale nella normativa dell’Unione europea. – 10.3.
(segue) … e nell’ordinamento interno. – 10.4. Le alternative alla responsabilità solidale. – 10.5.
Responsabilità solidale e termini decadenziali. – 10.6. La responsabilità solidale come regola e non
come eccezione. – 11. La tutela nel cambio di appalto. – 12. Decentramento e sostegno al reddito.
– SEZIONE II – LA CODATORIALITÀ DE IURE CONDITO ET DE IURE CONDENDO. – 13.
La codatorialità. – 13.1. La teoria della codatorialità. – 13.2. Le varie nozioni di codatorialità. –
13.3. La giuridificazione della codatorialità. – 13.4. Le critiche alla teoria della codatorialità. –
13.5. I problemi indotti dalla codatorialità. – SEZIONE III - LE PROSPETTIVE. – Premessa. – 14.
La somministrazione: un modello di tutela. – 15. La parità di trattamento tra diritto interno e
dell’Unione Europea. – 16. L’impresa tra responsabilità sociale e interesse economico. – 16.1.
Dalla hard law alla soft law nell’era della globalizzazione. – 16.2. La responsabilità sociale
d’impresa come veicolo di garanzie sociali nella filiera produttiva. – 16.3. La responsabilità
sociale d’impresa: volontaria ma incentivata. – 16.4. La responsabilità sociale d’impresa tra
valutazione teorica ed effetti sistemici. – 17. La “dipendenza economica”: dal diritto dell’impresa
al diritto del lavoro (una tecnica di tutela riflessa). – PARTE TERZA - OLTRE LA
FRAMMENTAZIONE ORGANIZZATIVA: IL LAVORO NELLA QUARTA RIVOLUZIONE
INDUSTRIALE. – 18. Il lavoro tra quarta rivoluzione industriale e collaborative economy. – 18.1.
Il lavoro nell’industria 4.0. – 18.2. Sulle ceneri della fabbrica fordista nasce la fabbrica 4.0. – 18.3.
Un potenziale rientro dei processi di produzione nell’UE ma senza un aumento dell’occupazione. –
18.4. La trasformazione «in» lavoro «del» consumo: la c.d. platform economy. – 18.5. L’Agenda
Europea per l’economia collaborativa del 2 giugno 2016. – 18.6. Il lavoro on demand della gig
economy: parole d’ordine “insicurezza e discontinuità”. – 18.7. Lavorare per (grazie a) un
algoritmo. – 18.8. Gli effetti collaterali della tecnologia: servification, stress, time porosity. – 18.9.
La nascita di nuove diseguaglianze e discriminazioni. – 19. Le sfide per il diritto del (nuovo)
lavoro. – LA FUNZIONE REGOLATIVA DEL DIRITTO DEL LAVORO DALLA
UNIFORMITÀ DI TRATTAMENTO ALLA RAGIONEVOLE DIFFERENZIAZIONE.
NOTA INTRODUTTIVA
All’interno dell’ampio tema cui sono dedicate le Giornate di Studio dell’Associazione
per l’anno 2017, «Frammentazione organizzativa e lavoro: rapporti individuali e
collettivi», si è scelto di incentrare la riflessione sulle risposte che l’ordinamento interno
(ovviamente non perdendo di vista le indicazioni provenienti dall’UE) ha fornito ai
problemi indotti dalle nuove forme di organizzazione di impresa, non sempre del tutto
idonee a guidare i fenomeni in atto, affiancando alle soluzioni date alcune proposte.
Dopo dieci anni di ampio e serrato dibattito sulla figura del datore di lavoro —
interrogativo sul quale si è incentrato il Convegno di Catania del 2009 — che ha visto
1
una contrapposizione tra funzionalisti e codatorialisti, si è ritenuto di riportare
l’attenzione sul lavoratore, e, segnatamente, sulla tutela di quello occupato all’interno di
un’impresa la cui struttura organizzativa non è più quella presa a modello dallo Statuto
dei lavoratori, ma si è profondamente trasformata.
Lavorare per una impresa diversamente organizzata (rispetto al modello tradizionale
degli anni ‘70) o per una piattaforma tecnologica (c.d. collaborative economy) induce a
ragionare su temi, problematiche ed esigenze nuove, ma in parte antiche, ponendo
all’interprete tre interrogativi: cosa c’è, cosa manca, cosa si può proporre, perché il
diritto del lavoro mantenga la propria funzione.
Nella prima parte della relazione, dopo brevi cenni di carattere generale sul fenomeno
della frammentazione organizzativa e sulle sue cause — tema ampiamente esaminato
nelle relazioni catanesi di Marzia Barbera e Valerio Speziale —, si darà conto delle
tendenze emergenti, nella direzione di una nuova materializzazione dell’impresa e di
una ritrovata centralità del contratto di lavoro, seppur in altro contesto e quindi con altri
presupposti e ricadute, anche alla luce delle recenti scelte di politica legislativa.
La seconda parte sarà interamente dedicata ai modelli di tutela nella doppia prospettiva
dell’esistente, migliorabile, e dei possibili sviluppi. L’analisi ruota intorno a cinque
concetti chiave: l’individuazione di un sistema di tutele a valenza generale; la possibile
esportazione in altre fattispecie di frammentazione organizzativa del modello della
somministrazione; l’incentivazione della responsabilità sociale d’impresa; l’estensione
del concetto di dipendenza economica dal diritto dell’impresa al diritto del lavoro;
l’abbandono dell’uniformità regolativa in favore di una differenziazione per modelli
organizzativi.
La terza ed ultima parte affronta il tema più scivoloso perché concerne fenomeni in
fieri, sui quali possono farsi solo supposizioni, non esistendo un tessuto normativo né
interno né dell’UE a cui ancorarsi; ma tale constatazione non consente di ignorare il
fenomeno, apparendo opportuno, se non proprio obbligatorio, formulare delle proposte.
Sullo sfondo, astraendo dal tema specifico trattato, si staglia l’interrogativo che chiude
la relazione sul futuro del diritto del lavoro in un mondo del lavoro in continuo divenire,
sempre più spesso condizionato da tre fattori negativi: un profitto senza etica, una classe
politica sempre più concentrata su se stessa ed infine, ma non meno importante, una
sempre più diffusa disaffezione per il lavoro.
PARTE PRIMA - I PROFILI DI CARATTERE GENERALE
1. Il perdurante interesse per il tema della frammentazione organizzativa
L’incidenza sul diritto del lavoro delle continue modificazioni dell’organizzazione del
lavoro e dei modi di produzione con l’emersione di nuovi modelli e le continue prove di
resistenza a cui le regole e gli istituti giuridici lavoristici sono sottoposti spiegano la
continua attenzione che la nostra Associazione ha dedicato a questi fenomeni, con una
non casuale periodicità: va ricordato che nel 1985 a Napoli si discusse di «Rivoluzione
tecnologica e diritto del lavoro» (relatori Franco Carinci e Giancarlo Perone); nel 1999
a Trento si parlò di «Diritto del lavoro e nuove forme di decentramento produttivo»
(relatori Pietro Ichino, Pietro Lambertucci e Roberto Romei); a Catania nel 2009
(relatori Valerio Speziale, Marzia Barbera e Alessandro Bellavista) la riflessione fu
incentrata su “La figura del datore di lavoro”; infine, oggi a Cassino si affronta il tema
della «Frammentazione organizzativa e lavoro: rapporti individuali e collettivi».
La scelta dell’Associazione di ritornare sul tema è stata assolutamente opportuna e
condivisibile alla luce dei fenomeni socio-economici che stanno rapidamente
modificando il modo di lavorare e mettendo a dura prova le categorie giuridiche
tradizionali (amplius infra - Parte Terza della relazione).
Mutamenti dell’impresa e trasformazioni del lavoro costituiscono i due aspetti del
cambiamento determinato dalle innovazioni tecnologiche e dalla globalizzazione, con
2
l’effetto che non è possibile cogliere le trasformazioni del lavoro (o come spesso si dice:
“il lavoro che cambia”) trascurando i mutamenti dell’impresa, che ha sempre più
diffusamente abbandonato la tradizionale strutturazione di tipo verticale e optato per un
modello integrato di tipo orizzontale1 che si regge su una fitta rete di rapporti societari
e/o contrattuali (contractual integration)2, fino all’ipotesi estrema di celarsi dietro una
piattaforma tecnologica.
Questi mutamenti organizzativi hanno assunto varie sembianze, oscillando tra rapporti
di natura non gerarchica (cooperazione relazionale)3 e rapporti connotati da supremazia
economica e giuridica tra imprese, che in un certo qual modo, riproducono la struttura
gerarchizzata dell’impresa fordista4.
In ogni caso, la riflessione sulle implicazioni delle trasformazioni organizzative sui
rapporti di lavoro, con una netta preferenza per le vicende dei rapporti individuali, si è
differenziata a seconda delle modalità attraverso le quali si è manifestata la
frammentazione dell’impresa: da un lato, sono state analizzate le forme di
decentramento realizzate attraverso strumenti contrattuali (esternalizzazioni, appalti,
anche combinati con cessione di ramo d’azienda, subappalti, subfornitura,
somministrazione, franchising)5; dall’altro lato si è studiato il fenomeno delle imprese
organizzate in forma di gruppo (relazione societaria o meramente proprietaria)6 o, più di
recente, in rete7.
Ad ampliare il discorso concorrono le manifestazioni del fenomeno che fuoriescono dal
perimetro dell’art. 2094 c.c., coinvolgendo tipologie negoziali (co.co.co., lavoro
autonomo, lavoro libero professionale e, prima dell’abrogazione, lavoro accessorio),
accomunate tra loro, ma anche alla fattispecie del lavoro subordinato, per un verso, dalla
dipendenza economica (infra), e per altro verso, dall’inserimento nell’organizzazione
1
Ghera, 2003; Tosi, 1991, 613-616, che parla di «terziarizzazione dell’apparato produttivo»; Mazzotta,
2006, 164.
2
D’obbligo, ma anche per vivo apprezzamento, il rinvio alla monografia del 2004 di Luisa Corazza.
3
Perulli, 2007, 30; Idem, 2014, 466; Barbera, 2010, 11.
4
Trasformazioni a mezza strada tra il vecchio e il nuovo, secondo Treu, 2012, 9.
5
Quadri, 2004, 67 ss.
6
Carabelli, 2009.
7
Tosi, 2014a, Secondo Scarpelli (2012, 1421-1451, spec. 1424), il fenomeno della disarticolazione del
processo produttivo può manifestarsi in due modi differenti: a) può assumere la guisa della
esternalizzazione, cioè dell’attribuzione all’esterno di una funzione o di una parte di attività prima gestita
direttamente (dimensione dinamica del fenomeno); b) ovvero può assumere le sembianze del
decentramento, cioè di una organizzazione frammentata su più soggetti giuridici (dimensione statica). I
caratteri essenziali del fenomeno, nella sua duplice dimensione, sono individuabili, da un lato, secondo le
prassi seguite e dall’altro lato, in base alle finalità perseguite, che sono così sintetizzabili: 1) aggirare i
vincoli giuridici sopportati dal decentrante (ad esempio, in relazione alle soglie occupazionali); 2)
riduzione dei costi del lavoro (conseguenti all’applicazione del CCNL che vincola il decentrante); 3)
trasferire il rischio della impossibilità della prestazione a latere datoris et praestatoris; 4) acquisire
specializzazioni assenti in azienda (si tratta delle esternalizzazioni virtuose di cui parla Speziale, 2010).
Entrambe le schematizzazioni, fenomenica e teleologica, sono puramente descrittive, non potendosi
escludere la combinazione o la sovrapposizione dei diversi fenomeni; in ogni caso, tali schematizzazioni
non determinano differenze di disciplina. De Luca Tamajo (2007, 6) afferma che l’evoluzione dei
modelli organizzativi consente di declinare la terziarizzazione in due modi. Si ha «terziarizzazione
interna» quando vengono cedute a terzi parti del processo produttivo, ma che restano all’interno
dell’impresa committente (intra moenia) allo scopo di coniugare il decentramento funzionale con la
contiguità spaziale delle produzioni. In questa ipotesi di terziarizzazione, l’esternalizzazione ha una
valenza giuridico contrattuale, anche se di fatto i lavoratori interessati dal fenomeno operano all’interno
dell’organizzazione per perseguire i fini dell’impresa committente. La seconda declinazione della
terziarizzazione riguarda il reclutamento della forza lavoro (insourcing). In questo caso, il decentramento
non riguarda la produzione, ma il reclutamento del personale e la titolarità dei rapporti di lavoro.
3
del committente8. In alcuni casi i diversi fenomeni si presentano intersecati tra di loro
(si pensi all’appalto affidato non ad un’impresa ma ad un lavoratore autonomo).
L’indagine ha riguardato le ricadute di tali fenomeni sul rapporto di lavoro e
l’individuazione degli strumenti di contrasto del conseguente abbassamento delle tutele
del lavoratore ovvero la ricerca del punto di equilibrio9 tra i valori dell’economia e del
profitto (art. 41 Cost.; art. 16 Carta di Nizza; libertà economiche e tutela della
concorrenza previste nel TFUE) e quelli della tutela del lavoro in tutte le sue forme (artt.
3, 4, 35 e ss. Cost. e diritti sociali enunciati nel TFUE e nella Carta di Nizza)10.
Da ultimo l’attenzione si sta spostando verso il fenomeno (ancora sfuggente) del fare
impresa “sul” e “tramite” le piattaforme digitali, frutto della c.d. collaborative economy,
che pone due diversi interrogativi: se ci sia un datore di lavoro/committente e come
debba essere qualificata la prestazione commissionata tramite Internet.
2. Le ragioni del fenomeno
Nel XX secolo si è assistito ad una straordinaria metamorfosi dei processi produttivi,
basata oltre che sulla novità degli strumenti di produzione (come accaduto durante la
prima e la seconda rivoluzione industriale o, più recentemente, con la seconda età delle
macchine, amplius infra Parte Terza), anche sulla evoluzione dei modi di organizzare
l’impresa che, da tecnostruttura integrata che assicurava la concentrazione del processo
di produzione, è divenuta una rete di unità autonome o semi-autonome tra loro legate da
forme elastiche di coordinamento11.
Tra le ragioni di questa evoluzione vanno segnalati, con riferimento alle grandi imprese,
lo spostamento di potere dai manager agli azionisti e, per le medio-piccole, l’esigenza
di reggere la concorrenza in un mercato globalizzato.
Nei nuovi modelli organizzativi si ha una concentrazione dell’attività a cui è connesso il
differenziale competitivo e una esternalizzazione di quelle considerate non strategiche,
che riguardano tanto la funzione produttiva quanto vari servizi (assistenza legale,
gestione del personale, ricerca, manutenzione, call center, ecc. … ), attraverso una
catena di subfornitori (in senso lato), con il triplice effetto di ridurre i rischi, ottimizzare
i costi e guadagnare in termini di flessibilità12.
Attraverso questi assetti organizzativi l’impresa persegue vari obiettivi: avere un esatto
controllo dei costi attraverso il passaggio dal produrre (make) all’acquistare (buy)13;
avvalersi di competenze specialistiche non possedute; infine, neutralizzare le
fluttuazioni del mercato, scaricando l’eventuale contrazione dell’attività sulla filiera
delle imprese collegate.
A questi tre obiettivi si potrebbe aggiungere anche quello di tenere all’interno
dell’impresa i segmenti a maggiore tasso di profitto ed esternalizzare quelli a più basso
rendimento, con una traslazione all’interno dell’impresa della logica di mercato, anche
se, stando all’analisi della evoluzione dei modelli organizzativi (amplius infra), si
registra negli ultimi anni una inversione di tendenza verso la ricentralizzazione,
interpretabile anche quale risposta ad una serie di problemi connessi alla gestione delle
esternalizzazioni c.d. intra moenia (liceità dei controlli sui dipendenti dell’appaltatore o
8
Perulli, 2004a, 13, ss.; Treu, 2012, 10, parla di «diversificazione dei contenuti e dei tipi di lavoro».
Del Punta, 2000, 52; Treu, 2012, 11.
10
Treu, 2012, 9, suggerisce di ricercare gli strumenti giuridici e le politiche del lavoro che consentano la
regolazione di tali fenomeni, attraverso un’analisi delle diverse manifestazioni delle variazioni delle
imprese e del lavoro, nella prospettiva della tutela e della promozione del lavoro nell’impresa che cambia.
Sul tema d’obbligo il rinvio a Napoli, 2008.
11
De Luca Tamajo, 2007, 4; Del Punta, 2000, 52-54.
12
De Luca Tamajo, 2007, 6; ancor prima v. Idem, 1999, nonché Idem, 2002.
13
Sul rapporto tra costo interno di amministrazione e costo esterno di transazione come fattore che
determina l’impresa ad optare tra il make o il buy, v. Quadri, 2004, 61, spec. nota 247.
9
4
fornitore; lesività dei comportamenti dei dipendenti delle società terze; moltiplicazione
dei soggetti chiamati a gestire il conflitto sindacale)14.
È quasi scontato dire che, tra le ragioni del fenomeno, un ruolo determinante ha assunto
la globalizzazione che ha determinato una trasformazione silenziosa del sistema
nazionale e transnazionale di bilanciamento e regolazione del potere prima esercitato e
dominato dagli Stati, ora impotenti nei confronti dell’economia globale15. L’effetto è la
creazione di una asimmetria tra economia e Stato, per cui (parafrasando Adam Smith) vi
sono da un lato, nazioni senza ricchezza e dall’altro ricchezze senza nazione16.
3. (segue) … e le sue possibili catalogazioni
In assenza di una nozione legale che ricomprenda tutte le manifestazioni del fenomeno
della frammentazione organizzativa, la dottrina, giuslavoristica17 e non solo18, ha
elaborato una serie di definizioni e ha tentato in vario modo di ricondurre a sistema le
fattispecie concrete. Tra i vari tentativi si segnala quello di Vallauri19, che parte dal
passaggio dall’impresa verticalizzata a quella a “rete”, attraverso quella integrata, per
catalogare i vari fenomeni di frammentazione. L’A. sottolinea che per poter parlare del
fenomeno della scomposizione dell’impresa occorre fare chiarezza sul significato dei
molti termini impiegati per indicare questa vicenda, posto che si fa un uso indistinto e/o
promiscuo di espressioni - quali esternalizzazione, outsourcing, insourcing,
terziarizzazione, segmentazione del ciclo produttivo, decentramento, downsizing, spinoff - che invece hanno significati differenti e che sono riconducibili all’interno di diversi
livelli e contesti semantici20.
Una prima differenziazione consente di collocare in un’autonoma area concettuale
espressioni quali segmentazione del ciclo produttivo, decentramento e downsizing, che
stanno ad indicare la scelta dell’imprenditore di scomporre la propria azienda per
rendere più agile la produzione, facendo proprio lo spirito del buy e abbandonando
almeno in parte quello del make. Ad una diversa categoria sembrano riconducibili le
definizioni relative agli strumenti tecnici21 attraverso i quali l’imprenditore può
realizzare le proprie scelte organizzative, e quindi i termini esternalizzazione,
outsourcing, insourcing, terziarizzazione, spin off22. Infine, ad un distinto livello di
indagine, si collocano gli istituti giuridici di cui si compongono i summenzionati
strumenti tecnici quali, a titolo esemplificativo, il trasferimento d’azienda, l’appalto di
opere o servizi, la subfornitura ed i licenziamenti per motivi economici.
14
De Luca Tamajo, 2007, 9.
Il capitale nello spazio globale sfugge alle categorie del legale e dell’illegale per diventare potere
“translegale” (così Beck, 2010).
16
Galgano, Cassese, Tremonti, Treu, 1993.
17
Sul fenomeno dell’outsourcing v. Quadri, 2004, 20 ss.; v. anche la descrizione del fenomeno fatta da
Ferruggia, 2013.
18
Per un’ampia analisi delle elaborazioni in ambito economico, di organizzazione aziendale e sociologico
si rinvia a Barbera, 2010, e Speziale, 2010.
19
Vallauri, 2003. Sul tramonto dell’impresa verticalizzata con l’emergenza del fenomeno post-fordistico
e dell’impresa a rete v. anche Quadri, 2004, 27 ss. e 55.
20
Vallauri (2003, 726-730) opera una esaustiva ricognizione delle posizioni dottrinali, riportando il
significato attribuito da ciascun Autore ai termini richiamati. V. anche Perulli, 2004a, 5-6, nonché Quadri,
2004, 20 ss.
21
Secondo Brollo (1991, 135) si tratta non di strumenti ma di percorsi «molteplici e distinti».
22
Secondo Scarpelli, 1999, 351, per «pratiche di esternalizzazione» si intende l’insieme di strumenti
tecnico giuridici a mezzo dei quali realizzare il progetto di riarticolazione aziendale. Contra, Gallino,
1996, 99, che al termine “esternalizzazione” riconduce le scelte sia organizzative sia della strumentazione
tecnica da utilizzare.
15
5
Dopo l’analisi del significato delle varie espressioni, Vallauri conclude che i criteri per
distinguere i vari strumenti utilizzati per scomporre l’azienda sono essenzialmente due:
da un lato, il meccanismo negoziale attraverso cui si concretizza il procedimento,
dall’altro, il tipo di azienda destinata a garantire la riacquisizione della funzione
decentrata23.
Sintetizzando il dibattito, può sostenersi che il fenomeno della scomposizione e
ricomposizione dell’impresa è riconducibile a tre ipotesi.
La prima è quella delle reti di impresa, caratterizzata da interrelazioni tra diverse
imprese così intense da dare corpo ad una organizzazione a rete24.
La seconda è quella dell’impresa–rete, che si ha quando l’organizzazione si sviluppa
intorno ad un nucleo centrale o dominante con affidamento di più segmenti a soggetti
terzi “serventi” attraverso contratti commerciali (appalto, franchising, subfornitura,
trasporto, convenzione) o di lavoro autonomo. Si realizza in tal modo un’ipotesi di
integrazione contrattuale (contractual integration)25, dando vita all’impresa leggera,
caratterizzata cioè dalla esternalizzazione di parti o fasi dell’attività produttiva.
La terza ed ultima manifestazione è quella del gruppo di imprese, e cioè di società
collegate tra loro (a volte attraverso meccanismi proprietari) con struttura gerarchica
(società capogruppo)26; si configura in tal modo un’ipotesi di integrazione societaria27.
L’elemento comune ai tre fenomeni è “la rete”, che sia di imprese, di contratti o di
società, con possibile intersezione tra di esse.
Possiamo introdurre, infine, una quarta declinazione del concetto di rete, quella del
world wide web, sempre più applicata alla produzione tanto da parlarsi ormai di
“Internet of Things”, di cui più diffusamente si tratterà nella Parte Terza.
4. L’interesse del diritto del lavoro per il datore di lavoro
Può considerarsi un dato acquisito che il diritto del lavoro, abbandonando il suo
tradizionale disinteresse verso l’impresa, abbia spostato il proprio baricentro da una
all’altra parte del rapporto di lavoro, occupandosi in maniera sistematica proprio
dell’impresa, assunta, nelle sue trasformazioni e nuove articolazioni, al centro delle
riflessioni della dottrina giuslavoristica28, anche per esigenze di responsabilizzazione
23
Vallauri, 2003, 728.
Tosi, 2014a.
25
Corazza, 2004.
26
Lunardon, 1996.
27
Carabelli, 2009, 92-93; Carinci M.T., 2015, 3.
28
Molto articolata è la riflessione sulla nozione di impresa di Marzia Barbera (2014), secondo la quale un
terreno di incontro tra il diritto del lavoro e il diritto dell’impresa è costituito dalla analisi dell’impresa a
partire dalle norme di organizzazione che la connotano. Tale approccio consente di far valere la pretesa
del diritto del lavoro di governare i rapporti di autorità insiti nell’impresa – organizzazione. Un secondo
terreno di incontro è costituito dalle teorie che studiano l’evoluzione del concetto di interesse sociale e
vedono emergere l’idea che esiste un interesse comune (o meglio zone di interesse comune) tra tutti gli
stakeholder (idea dell’impresa come bene comune, ovvero come risorsa condivisa la cui sostenibilità
dipende dalla partecipazione di più constituencies al suo governo). Sulla base di queste premesse, Barbera
analizza, ovviamente, in senso critico, le diverse concezioni di impresa oggi in circolazione. La prima
riguarda il rapporto che intercorre tra l’impresa e le unità minori nelle quali essa si articola, sul quale
Cavallini evidenzia il diverso approccio del giudice nazionale rispetto a quello europeo, avendo il primo
adottato una nozione funzionale di unità produttiva, a differenza del secondo che opta per una nozione
puramente fisico – geografica. Differenza che rinviene dalle diverse finalità perseguite ai due livelli. Da
questo diverso approccio emerge la molteplicità di significati attribuibili alla nozione giuridica di
impresa. La seconda concezione è quella che guarda all’impresa come espressione della libertà
economica dell’imprenditore. È quanto emerge dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione
Europea sugli ostacoli alla concorrenza prodotti dall’esercizio dell’autonomia collettiva (sentenze Viking,
24
6
della stessa in ordine a valori, principi e norme costituzionali (compatibilità della libera
iniziativa economica con la sicurezza, la libertà e la dignità umana e comunque con
l’utilità sociale)29.
Secondo Treu, il diritto del lavoro, prima dei recenti sviluppi, si è occupato dell’impresa
sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro, come proiezione della iniziativa
economica del datore di lavoro30 — in assonanza con le tesi giuscommercialistiche —
per la sua capacità di compressione dei diritti del lavoratore31. Tale approccio è stato
adottato dal legislatore che è intervenuto sull’organizzazione del lavoro, limitando il
potere dell’imprenditore di modellarla a misura esclusiva delle sue esigenze produttive
(ma v. infra) e considerando come patologiche o fraudolente le articolazioni
dell’impresa finalizzate a depotenziare le tutele dei lavoratori (v. l’art. 2112 c.c. e la l. n.
1369/1960)32.
Nel Congresso di Catania si discusse di come l’innovazione tecnologica33 e la
globalizzazione avessero inciso sul contratto di lavoro, determinando la scissione tra
esercizio del potere datoriale e imputazione delle responsabilità connesse al rapporto di
lavoro, nonché della facoltà accordata al datore di lavoro di scegliere la disciplina
applicabile al rapporto.
Sotto il primo profilo, si è preso atto che nei processi di esternalizzazione l’impresa si
avvale di varie forme di collegamento negoziale. Questi rapporti tra imprese diverse
possono essere “semplici” (è il caso della somministrazione), oppure “più complessi”
(come nell’appalto); in altri casi si attinge a modelli di integrazione produttiva o di
collaborazione (gruppi di imprese e reti di imprese)34, con una dilatazione dello spazio
interno delle imprese35.
Sotto il secondo profilo, il datore di lavoro, operando su scala transnazionale
(frammentazione in ambito europeo36) può scegliere tra più sistemi giuridici,
realizzandosi una sorta di competizione regolativa37.
L’atteggiamento della dottrina giuslavoristica verso il fenomeno della frammentazione
dell’impresa è stato abbastanza sofferto, nella misura in cui ha dovuto prendere atto che
esso si poneva in antitesi con il contratto di lavoro costruito su una configurazione
Laval e Ruffert). La terza concezione è quella della impresa socially embedded, cioè nella quale i
lavoratori partecipano alla gestione dell’impresa, rivalutando la costruzione di democrazia industriale
elaborata da Sinzeihmer, 1916). Tale costruzione, ritenuta datata da Barbera, si ricollega all’idea della
impresa come bene comune (socially embedded), teorizzata dall’economista Masahiko Aoki. Teoria in
realtà approfondita da studiosi di diritto commerciale ed economisti, meno dai giuslavoristi, con qualche
eccezione (Perulli, 2013a), condizionati dalla contrapposizione concettuale e ideologica tra autonomia e
funzionalizzazione dell’impresa. Queste riflessioni sulla concezione dell’impresa come bene comune
potrebbero aiutare a ripensare il significato della libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41
Cost.). L’ultima idea di impresa è quella dell’impresa come organizzazione del lavoro digitalizzata, che
Barbera abbina alla rivoluzione tecnologica (Impresa 4.0).
29
Zoppoli L., 2015, 204.
30
Persiani 1966.
31
Treu, 2012, 7 ss.
32
Tosi, 2014a, XIV, che mettendo in parallelo rete di imprese e gruppo di imprese evoca, in relazione a
queste ultime «l’antico approccio patologico e il sospetto dell’abuso del diritto, consumato sotto lo
schermo della personalità giuridica (incorporat veil)»; v. anche Romei, 2016.
33
Ma prima ancora v. Carinci F., 1986.
34
Romei, 2016, 510.
35
Secondo Mazzotta (2013, 22) la disarticolazione dell’organizzazione produttiva ha acquisito sembianze
diverse col passare del tempo, in quanto al decentramento produttivo conseguente alla fuga dalle rigidità
imposte dallo Statuto dei lavoratori si è sostituito un fenomeno nuovo di interscambio tra centro e
periferia e di integrazione e disintegrazione del ciclo produttivo che richiede una continua ridefinizione
dei confini dell’impresa.
36
Romei, 2016, 521-522.
37
Barbera, 2014, 631-632.
7
binaria del rapporto di lavoro, come tale difficilmente armonizzabile con una
organizzazione del lavoro caratterizzata dalla compresenza di più soggetti che possono a
vario titolo e in forme diverse interagire con l’esecuzione della prestazione di lavoro.
Secondo Romei, la reazione della dottrina lavoristica può essere ricondotta a due diversi
approcci.
Il primo richiama il principio della unicità del datore di lavoro, desumendolo dall’art.
2094 c.c. 38, pur se alla nozione codicistica di datore di lavoro “formale”, inteso come
colui che stipula il contratto di lavoro (e quindi è creditore della prestazione e titolare di
tutti i diritti, poteri e obblighi che la legge riconnette al contratto di lavoro, desumibili
dagli artt. 2082, 2086, 2094 c.c.), l’ordinamento, a partire dalla l. n. 1369/1960, ha
sostituito la nozione di datore di lavoro “sostanziale”, inteso come soggetto titolare
dell’organizzazione produttiva in cui opera il prestatore di lavoro a prescindere dalla
stipula con esso del contratto di lavoro (criterio di effettività)39.
Nell’arco di circa sessant’anni il legislatore, senza mai manomettere l’impianto
codicistico, a più riprese ha ribadito tale scelta con una serie di disposizioni che arrivano
ai giorni d’oggi.
Una conferma dell’opzione a favore del datore di lavoro sostanziale proviene proprio
dall’art. 29, co. 1, d.lgs. n. 276/2003, allorquando individua le caratteristiche
dell’appalto genuino, tra le quali l’organizzazione dei mezzi necessari all’esecuzione
dell’appalto con assunzione del rischio di impresa40.
Anche dalla cessione d’azienda ex art. 2112 c.c. può desumersi la rilevanza
dell’inserimento nell’organizzazione produttiva che, ceduta, porta con sé i contratti di
lavoro dei prestatori ivi impiegati senza necessità del loro consenso, per cui anche in
questo caso datore di lavoro è il titolare dell’organizzazione41.
Molti Autori concordano sulla utilizzazione, per l’individuazione del datore di lavoro,
della stessa grammatica concettuale utilizzata in materia di accertamento della natura
subordinata di un rapporto di lavoro42. Il criterio della effettiva utilizzazione viene poi
declinato in senso soggettivo, per cui è datore di lavoro chi esercita di fatto i poteri
direttivo e disciplinare, ma anche in senso oggettivo, individuandosi il datore di lavoro
in colui che beneficia anche indirettamente delle utilità che derivano dall’inserimento
della prestazione lavorativa all’interno del ciclo produttivo della propria azienda (datore
di lavoro in senso funzionale)43.
Si tratta, secondo i sostenitori di tale teoria, di un principio generale dell’ordinamento
lavoristico, sopravvissuto alla stessa abrogazione della l. n. 1369/1960, avendo corretto
in senso sostanziale l’art. 2094 c.c., offuscandosi la nozione di parte del contratto di
lavoro (infra)44.
La teoria dell’unicità del datore di lavoro ha prodotto come effetto la configurazione
come norme eccezionali – quindi soggette ad una interpretazione restrittiva – delle
disposizioni che regolano tutti i fenomeni di outsourcing.
38
Romei, 2016, 514, nel chiedersi se il principio della unicità della figura del datore di lavoro rappresenti
davvero uno strumento in grado di tutelare il prestatore di lavoro o se al contrario costituisca una scatola
vuota, parla di vera e propria «ossessione» per tale principio.
39
Mazzotta, 2006, 159.
40
Mazzotta, 2006, 165; Tosi (2017, 3), che preferisce l’espressione «filo conduttore»; Alvino, 2014, 87;
Carinci M.T., 2016, 734.
41
Carinci M.T., 2016, 735; ancor prima v. Cester, 2005.
42
In specie v. Mazzotta, 2006, 162, e Idem, 2013, 27; v. altresì Del Punta, 1995.
43
Folta è la schiera dei c.d. “funzionalisti”; tra di essi v. Mazzotta, 2013; Barbera, 2010, 223 ss.; Carinci
M.T., 2015, 14-15; Nicolosi, 2012, 66-67. Secondo Romei (2016, 515) è la legge ad adottare un
approccio funzionalistico distribuendo diritti e oneri in capo ai soggetti coinvolti in relazione alle
rispettive sfere di incidenza e di vantaggio.
44
Contra Romei, 2016, 512, che nega viceversa valore di principio alla «unicità del ciclo produttivo»,
che pur utilizzato come criterio empirico per risolvere casi dubbi, non ha un fondamento normativo.
8
Atteggiamento ben diverso ha assunto un’altra parte della dottrina, che, abbandonando
il principio dell’unicità del datore di lavoro e cercando di ricondurre i fenomeni di
frammentazione dell’impresa all’interno dello schema tradizionale ex art. 2094 c.c.,
sostiene l’ipotesi della pluralità di datori di lavoro con una titolarità congiunta del
rapporto di lavoro. Si tratta della teoria della codatorialità (v. infra), che propone una
declinazione al plurale del principio sostenuto dall’altra parte della dottrina45.
Invero, la codatorialità viene prospettata anche in senso «sostanziale», a proposito di
fenomeni normativamente non riconducibili alla codatorialità in senso «formale»; è il
caso della somministrazione, la cui disciplina prevede un esercizio dei poteri datoriali
scisso tra somministratore e utilizzatore; lo stesso dicasi per la responsabilità solidale,
tramite cui si aggiunge al debitore principale un ulteriore debitore46.
Al dilemma “codatorialità sì, codatorialità no” si è preferita, nello sviluppo della
relazione, l’opzione per la “codatorialità anche”, sostenendosi la valenza generale delle
tecniche di tutela che presuppongono la unicità del datore di lavoro e la eccezionalità,
allo stato47, dell’ipotesi della codatorialità.
5. La “rimaterializzazione” dell’impresa tra ricentralizzazione del contratto
di lavoro e autonormazione
Nell’analisi della dilatazione degli spazi, interno ed esterno, dell’impresa, si parte
dall’assunto che quest’ultima abbia subito una progressiva smaterializzazione e
deterritorializzazione.
La smaterializzazione conseguirebbe alla sua evoluzione da organizzazione di beni
materiali a insieme di conoscenze, competenze, relazioni e procedure, immesse sul
mercato: consisterebbe cioè in una immateriale «capacità di stare sul mercato»48.
Tale analisi spesso ha assunto come postulato la perdita di centralità della funzione del
contratto di lavoro nell’organizzazione di impresa, dandosi per scontato che la ricerca
da parte delle imprese di una maggiore adattabilità al mercato e di una maggiore
flessibilità attraverso le esternalizzazioni costituissero condizioni di contesto durevoli se
non proprio irreversibili.
Tale postulato è stato da ultimo fondatamente messo in discussione da Barbera, secondo
la quale tali condizioni sono di recente, in parte, cambiate, nel senso che la crescente
instabilità dei vantaggi competitivi e la temporaneità dei risultati economici ad essi
associati hanno annullato i benefici della smaterializzazione dell’impresa, ridisegnando
la geometria delle relazioni economiche tra imprese. Oggi la capacità competitiva delle
imprese si impernia sulle competenze, sul sapere (tecnologico, organizzativo,
relazionale) e sulla capacità di percepire i cambiamenti, il che richiede relazioni di
scambio continuative e strutturate, nonché coordinamento sia tra le imprese legate sul
piano produttivo sia tra le imprese e i lavoratori. Ecco che il contratto di lavoro è tuttora
centrale, in quanto consente di conservare il capitale di conoscenze accumulate e di
garantire la cooperazione durevole del lavoratore al raggiungimento del risultato
produttivo49.
45
Speziale, 2006.
De Luca Tamajo, 2007, 16; Carinci M.T., 2008, 14 e 118.
47
Tosi, 2014a, XVII, secondo cui il diritto del lavoro è costretto ad ammettere «la prevalenza delle
letture pluralistiche nell’approccio al tema, a ben vedere le sole compatibili con gli istituti di nuova
introduzione».
48
Romei, 2000, 175.
49
Barbera M., 2014, 633; non dissimilmente Caruso, 2017, 13-14, secondo il quale «Senza poter
ampliare il discorso, basta limitarsi, a questo proposito, a evidenziare il fatto che nell’organizzazione del
lavoro post fordista, e ancor di più in quella che scaturisce dalla quarta rivoluzione tecnologica digitale
(l’industria 4.0 e l’ufficio 2.0), accreditate ricerche, a partire da documenti OCSE, dicono che la risorsa
umana fortemente riqualificata sarà fattore strategico di aumento della produttività. Alle risorse umane
46
9
Questo modello di impresa istituisce un rapporto nuovo con i lavoratori e richiede un
approccio altrettanto nuovo con cui guardare al lavoro, considerato che il capitale
umano e la conservazione delle competenze interne diventano centrali nel
riposizionamento strategico delle imprese.
Il lavoratore nella nuova organizzazione di impresa è mobilitato come soggetto e non
solo come individuo, ponendosi su un orizzonte di maggiore ricchezza professionale, di
maggiore responsabilità e quindi di maggiore libertà50, pur con le inevitabili
disuguaglianze nelle opportunità legate al lavoro svolto tra chi è incluso nei processi di
innovazione e chi ne è escluso51.
Questa nuova organizzazione del lavoro incide, poi, sul contratto di lavoro. Nelle
riflessioni sul tema fatte da Giugni, e di seguito da Liso, sulla questione del rapporto tra
contratto e organizzazione, si è dato atto della rilevanza della organizzazione nel
contratto di lavoro, escludendosi però che ciò potesse ampliare l’area del debito
gravante sul lavoratore, ovvero influire sulla qualità della subordinazione52. In tale
costruzione, attraverso le esigenze dell’organizzazione si misurava il carattere oggettivo
dell’interesse dell’impresa, costituente il presupposto del legittimo esercizio del potere
imprenditoriale53. Sulla stessa lunghezza d’onda si poneva Liso, sia pure in un contesto
mutato, riguardandosi alla impresa come luogo in cui vengono fatte valere anche le
ragioni dei lavoratori, con l’effetto che l’inerenza del contratto all’organizzazione non
rileva solo ai fini della puntualizzazione dei comportamenti dovuti dal lavoratore, come
sostenuto da Persiani54 e da Marazza55, ma anche per definire posizioni di vantaggio ed
interessi del lavoratore diversi da quello alla percezione del salario56 (sul punto v. infra).
Nell’attualità v’è ancora fiducia nella capacità del contratto di catturare la dinamica dei
rapporti sociali e produttivi con la doppia funzione di rispondere alle richieste di
differenziazione delle tutele che provengono dalle imprese e a quelle di
autodeterminazione che provengono dai lavoratori57. Ancora, si ritiene che il contratto
di lavoro possa svolgere, unitamente alla contrattazione collettiva e alla legge, una
funzione di regolazione del lavoro con una valenza negativa di protezione della sfera
personale e positiva di affermazione di libertà e diritti personalizzati e individualizzati58.
Su quest’ultima prospettazione solleva qualche, non contestabile, perplessità Barbera,
che dubita della possibilità che l’impresa standard, pur richiedendo maggiore
intelligenza e flessibilità nell’uso delle risorse dei lavoratori, sia disponibile poi a dare
spazio alla loro domanda di libertà e alla loro capacità di determinarsi.
Per altro verso, l’evoluzione dell’organizzazione dell’impresa basata sulla
combinazione tra tecnologia e capitale umano spinge la stessa verso l’autonormazione,
nella doppia declinazione di regolare le condizioni di lavoro sulla base dell’autonomia
individuale e di assumere su base volontaria obblighi di natura sociale, con il declino
della eteroregolamentazione delle condizioni di lavoro (legge, contratto collettivo). Ciò
determina il venir meno di un controllo esterno dei valori e degli interessi di cui
verranno richieste caratteristiche di performance inedite in termini di controllo delle nuove tecnologie
digitali»; pur se l’A. aggiunge che «Si tratta, spesso, di competenze acquisibili solo nel mercato esterno
all’impresa e non disponibili nel mercato interno anche con relativi processi di riqualificazione; ma
anche caratteristiche di adattabilità, talento, responsabilità individuale, relazionali e psicologiche e che
tutto questo darà luogo a profondi processi di sostituzione del lavoro».
50
Tiraboschi, 2006; Guarriello, 2000, 192.
51
Barbera, 2014.
52
Persiani, 1966.
53
Giugni, 1963, 233 e 318; Persiani, 1970.
54
Persiani, 1966.
55
Marazza, 2002.
56
Liso, 1982, 32-71, nonché Carabelli, 2004.
57
Del Punta, 2014, 36.
58
Caruso, 2010.
10
l’impresa è portatrice, fonte di possibili vincoli e condizioni di legittimità del suo agire.
Si assiste sostanzialmente ad una “aziendalizzazione” delle regole59.
La contrattazione individuale delle condizioni di lavoro costituisce il percorso
regolativo più idoneo per processi gestionali che tendono ad ottimizzare le risorse
disponibili, nonché lo strumento più funzionale ad una partecipazione del singolo
lavoratore ai programmi aziendali. A monte, v’è un crescente divario tra i lavoratori a
bassa qualificazione e quelli ad alto potenziale di conoscenza e di sapere tecnologico
che possono fare a meno della eteroregolamentazione, con una sostituzione al conflitto
tradizionale tra capitale e lavoro di un conflitto interno al mondo del lavoro; bisogna
però affrettarsi a dire che questo distinguo non va sopravvalutato in quanto anche i
soggetti ritenuti (professionalmente) più forti soggiacciono alla regola di mercato della
domanda/offerta che quindi incide fortemente sul loro potenziale di contrattazione,
specie quando la concorrenza è a livello globale (amplius infra – Parte terza della
relazione)60.
L’altra faccia dell’autonormazione sono le strategie di responsabilità sociale
dell’impresa (RSI) con un recupero della dimensione collettiva o pubblica degli
interessi. Le prassi di RSI sono rivolte sia all’ambiente interno, e quindi verso i
lavoratori, sia all’ambiente esterno, con un crescente ruolo, quale attore politico e non
solo economico, delle imprese. In questa accezione, la RSI non costituisce più un
vincolo esterno eteroimposto dallo Stato al mercato, ma una scelta volontaria
dell’impresa che ne accresce la legittimità nei confronti del territorio e dei lavoratori
(amplius infra). L’impresa si erge a “garante” del benessere dei dipendenti, dei fornitori,
dei consumatori, della comunità locale, della salubrità dell’ambiente circostante.
Emerge, quindi, un’etica di impresa.
Anche sulla tendenza dell’impresa post-fordista a porsi come centro autoreferenziale del
processo di ri-regolazione dei rapporti di produzione, Barbera61 solleva perplessità nella
misura in cui essa porta con sé una cultura tesa necessariamente (e naturalmente) ad
aggravare la posizione d’obbligo che i lavoratori assumono con il contratto di lavoro. Il
lavoratore è obbligato a condividere le regole di fondo del contesto, dilatandosi l’area
del debito del lavoratore che deve collaborare al raggiungimento di un risultato
produttivo, senza essere tenuto a fare propri quell’interesse e quei fini62; ovviamente, il
rischio è che dall’apertura alla società si passi alla sua colonizzazione63.
La prospettiva e le connesse perplessità sono degne della massima attenzione, evitando
facili entusiasmi e preconcetti pessimismi e, piuttosto, cercando un realistico punto di
equilibrio, tra valori costituzionalmente tutelati.
6. Frammentazione, potere organizzativo e libertà di iniziativa economica
privata
Dalle considerazioni sin qui svolte emerge che il fenomeno del decentramento64, nelle
sue varie declinazioni, pone due interrogativi: se il fenomeno della dissociazione tra
datore formale e datore sostanziale (utilizzatore) sia comunque riconducibile allo
schema dell’art. 2094 c.c. (rapporto binario), ovvero se richieda un riadattamento della
fattispecie alla struttura delle organizzazioni complesse; come si atteggi il rapporto tra
contratto di lavoro e organizzazione.
59
Bavaro, 2012.
Del Punta, 2014, 15 ss.
61
Barbera (2014, 643), in modo molto efficace, cita l’esempio delle auto di marche straniere dei
dipendenti Fiat dello stabilimento di Mirafiori, che su iniziativa aziendale vengono coperte con un telo
trasparente sormontato da un cuore spezzato!
62
Carabelli, 2004.
63
Barbera, 2014, 644.
64
Marinelli 2002, 2 ss., nonché Quadri, 2004, 23 ss.
60
11
Per rispondere al primo interrogativo, conseguente all’incidenza delle trasformazioni
organizzative sull’identità del datore di lavoro65, si vuol richiamare quanto affermato da
Ghera, secondo cui si avverte nelle massime giurisprudenziali la tendenza a rivisitare, in
sintonia con una parte della dottrina, la nozione della subordinazione accogliendo un
modello diverso da quello tradizionale della subordinazione-eterodirezione; si tratta del
«modello della subordinazione continuità o semplice coordinamento della prestazione
nello spazio e nel tempo, incentrato più che sulla struttura gerarchica, sulla
cooperazione funzionale e quindi sull’inserimento della prestazione nell’organizzazione
produttiva»66. Quindi, al modello di stampo taylorista-fordista della subordinazioneeterodirezione, si affianca quello post-fordista della subordinazione-coordinamento,
connotato da un livello elevato di autoregolazione (autonomia nella subordinazione)67.
Tale evoluzione è resa possibile proprio dalla configurazione in chiave tecnicofunzionale e non socio-economica della subordinazione-obbligazione, in grado di
ricomprendere le molteplici e diversificate modalità attuative dell’obbligo lavorativo,
comprese quelle degerarchizzate e professionalmente elevate (subordinazioneeterodirezione vs subordinazione-coordinamento)68. La previsione codicistica, infatti,
non visualizza un tipo sociale-normativo di lavoratore, identificandolo con quello
eterodiretto della fabbrica fordista, ma piuttosto visualizza nell’impresa un modello
sociale-normativo di organizzazione del lavoro e della attività produttiva, sicché nella
definizione dell’art. 2094 c.c. il modello del prestatore, e quindi del contratto di lavoro
non è riducibile alla figura del lavoratore eterodiretto ma è piuttosto da riferire alla
figura più ampia del collaboratore nell’impresa; è dunque il modello dell’impresaorganizzazione con le sue trasformazioni a proiettare le sue caratteristiche mutevoli
sulla fattispecie tipica del contratto di lavoro subordinato69. Nel codice civile non si
rinviene un tipo sociale-normativo di prestatore di lavoro subordinato oppure autonomo,
bensì viene in rilievo una figura onnicomprensiva di lavoratore, identificato dalla
inseparabilità della persona dal lavoro70, non esclusiva del lavoro subordinato, come
viene confermato dalla stessa Costituzione (artt. 4, 35)71.
Per rispondere al secondo interrogativo, tenendo a mente il fecondo dibattito sul tema,
alimentato dai contributi di Ghera, Persiani, Liso, Marazza e Carabelli, prima citati,
giova qui fare qualche considerazione (costituendo un passaggio obbligato ai fini della
complessa valutazione delle conseguenze dei fenomeni di decentramento produttivo sui
singoli rapporti di lavoro) sull’incidenza della organizzazione dell’imprenditore non
solo sul contratto di lavoro, ma anche sulle modalità indirette di utilizzazione del lavoro
altrui attraverso l’impiego di varie fattispecie negoziali che prevedono il coinvolgimento
di altri soggetti che assumono la veste del datore di lavoro72.
In questa prospettiva, di sicuro rilievo teorico è la problematica dell’eventuale
riconoscimento normativo in capo all’imprenditore fruitore del lavoro altrui (ma non
parte del contratto) di un potere di conformazione della prestazione che possa
estrinsecarsi nei poteri direttivo, disciplinare, di controllo e nello ius variandi; ciò sia in
65
Treu, 2012, 9.
Ghera, 2003, 66; Tosi, 2017, 4.
67
Ghera, 2003, 67.
68
Ghera, 2003, 67; Ferraro, 1998, 485 ss.
69
Ghera, 2003, 61; Ferraro, 1998, 475-480 ss.; Garilli, 2002; Tosi, 2017.
70
Grandi, 1999, 309 ss.
71
Ghera, 2003, 62.
72
Pone per primo la questione Marazza, 2002, 27 ss., in relazione ad imprenditori «che dirigono la
prestazione di lavoro di dipendenti altrui o di propri dipendenti che non hanno mai varcato i cancelli
della fabbrica», allo scopo proprio di sondare «l’origine dei poteri che vengono esercitati sul lavoro
altrui o da parte di soggetti che formalmente non sono parti del contratto».
66
12
termini di indagine sulla eventuale esistenza di siffatta fattispecie sia in chiave
delimitativa delle posizioni potestative dell’imprenditore in punto di disciplina73.
Da un punto di vista squisitamente organizzativo, l’utilizzo di tipologie contrattuali che
consentono all’impresa — proprio attraverso le varie forme di decentramento — di
organizzarsi diversamente dall’impresa tradizionale (oltre ad essere suggerito da
un’accurata valutazione dell’alternativa costi74/benefici economici e normativi rispetto
al modello standard) è determinato dal vantaggio competitivo connesso alla scelta di un
contratto commerciale in luogo di un contratto di lavoro subordinato75.
Posta la necessità di utilizzare il lavoro altrui per le finalità perseguite
dall’organizzazione produttiva, nell’ipotesi in cui tale bisogno viene soddisfatto con
l’assunzione diretta di personale nulla garantisce al datore di lavoro di poter
raggiungere il risultato sperato, atteso che – com’è noto – l’obbligazione di lavorare
(con tutte le disquisizioni teoricamente sostenibili76) non è un’obbligazione di risultato
ma di mezzi o di diligenza; viceversa, se la medesima esigenza viene soddisfatta
attraverso l’utilizzo di un contratto commerciale, esso consente a chi fruisce della
prestazione indiretta di lavoro di garantirsi il risultato dedotto nel contratto.
La conseguenza sul piano economico è quella di poter traslare il rischio dell’inutilitas
della prestazione (come l’impossibilità della prestazione che incombe sul datore di
lavoro) sul soggetto titolare del contratto di lavoro, che non è il fruitore, andando ad
allocare quindi tale costo economico altrove77, salvo l’utilizzo di strumenti di contrasto
di tali effetti indiretti quali, ad esempio, quelli in materia di assenteismo di cui agli
accordi FIAT del 2010 (Pomigliano d’Arco e Mirafiori)78. Il fine chiaramente
ravvisabile è quello di cercare di raggiungere quell’optimum “weberiano” costituito
dalla razionale esigenza di calcolare le conseguenze delle scelte economiche, specie in
ordine ai profili di certezza del diritto, godendo per esempio del vantaggio di “scaricare”
il costo sociale del lavoro all’esterno dell’organizzazione produttiva, con la creazione
delle diseconomie esterne, appunto, all’impresa.
Ciò posto in breve quanto all’analisi economica del fenomeno in esame, sui profili
relativi all’incidenza dell’organizzazione dell’imprenditore nel diritto del lavoro,
l’attenzione non può che andare alle consolidate elaborazioni degli Autori che si sono
approfonditamente occupati del tema79, a cominciare dalla monografia di Persiani del
1966, con la precisazione preliminare che la riflessione classica della veste giuridica da
attribuire all’organizzazione nel contratto di lavoro dell’impresa tradizionale sonda
l’area del debito del lavoratore tradizionale, mentre gli interrogativi relativi all’impresa
diversamente organizzata consentono anche di soffermarsi su ulteriori situazioni
creditorie del prestatore (nei confronti del fruitore oltreché verso il datore di lavoro).
La ripresa del fondamentale contributo di Persiani80, tuttavia, consente di evidenziare
una netta distinzione di piani (almeno in dottrina, perché in giurisprudenza – come si
73
Atteso che il discorso che ha come riferimenti il potere e l’organizzazione si sviluppa in chiave di
apposizione di limiti a tali prerogative imprenditoriali: Liso, 1979, 24. V. anche l’interessante rilettura
della posizione di Liso effettuata da Gaeta, 2014.
74
Si impiega questa nozione in un’accezione ampia, essendo ricompresi per esempio i cc.dd. “costi
transattivi” (Coase, 1995) perché la scelta di organizzare diversamente l’impresa consente di abbattere la
gestione della negoziazione con i singoli lavoratori. Su questi aspetti cfr. Carabelli, 2005a; Idem, 2005b;
Corazza, 2004 e Razzolini, 2012a, ed ivi ulteriori indicazioni dottrinali.
75
Corazza, 2004.
76
Da ultimo, per una rilettura della distinzione fra obbligazioni di mezzi e di risultato, v. Borzaga, 2012,
24 ss.; Marazza, 2005, ed ivi riferimenti di dottrina; Menegatti, 2012.
77
Per alcune notazioni si v. Carabelli, 2004, § 7.
78
V. Carinci F., 2011.
79
Si fa propria la considerazione, ma al contempo l’invito, di Magnani (2005a), che ragionando proprio di
«Contratti di lavoro e organizzazione» invoca il metodo storico «oggi fuori moda» perché esso fa parte
del metodo generale della discussione razionale.
80
Sul potere di conformazione della prestazione di lavoro v. Persiani 1966, 187 ss.
13
vedrà alla luce di Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201 – il discorso parrebbe assestarsi su
nuove fondamenta) proprio in merito al fondamento giuridico dell’organizzazione
dell’imprenditore: premessa l’inesistenza di una autonoma situazione giuridica
soggettiva di “potere di gestione aziendale”81, se nel contratto di lavoro il potere
organizzativo del datore (quale manifestazione tipica dell’interesse “esclusivo” del
datore, nel senso di essere del tutto estraneo al prestatore, all’efficiente funzionamento
dell’organizzazione produttiva) viene giuridificato grazie proprio al contratto, tipo
normativo che consente di legittimare questo potere in una relazione negoziale di tipo
collaborativo82, fuori dal singolo rapporto di lavoro — nell’assunzione della decisione
imprenditoriale di organizzare “diversamente” l’azienda decentrandola — il
fondamento normativo non sta nel contratto di lavoro (che non c’è, di proposito)83, ma
nell’ordinamento generale, in primis negli artt. 4184 e 42, co. 285 Cost.
Dove termina l’area coperta dalle norme applicabili in presenza della fattispecie di cui
all’art. 2094 c.c. e dove inizia la sfera che sta fuori dal contratto ma trova l’ombrello
protettivo della proprietà e della impresa economica è operazione non suscettibile di
misurazione precisa. Ciò che è indubbio è che l’impresa diversamente organizzata
sfrutta una posizione tutelata dall’ordinamento ma non dal contratto di lavoro
subordinato, con tutti i pro e i contra che tale allocazione comporta; la pretensività del
risultato atteso dal fruitore, concernente l’attuazione del rapporto commerciale, non
influisce direttamente sulla posizione dei lavoratori, non esposti ad alcun potere
giuridico dello stesso. In questo senso, la presenza di una doppia organizzazione (del
datore e dell’utilizzatore) interessata all’esecuzione della prestazione non si traduce in
una duplicazione di posizioni creditorie86.
In ogni caso, difettando la fattispecie del contratto di lavoro, la posizione d’interesse del
fruitore della prestazione all’efficiente esecuzione del lavoro non è ‘armata’ (con
l’esclusione della somministrazione87) del complesso di situazioni creditorie che
accedono al rilievo che l’ordinamento attribuisce al momento organizzativo nel rapporto
di lavoro, nel senso che i poteri direttivo, disciplinare, di controllo e lo ius variandi non
possono essere esercitati nei confronti di persone che non sono propri dipendenti88 e la
tutela dell’interesse organizzativo dell’utilizzatore viene dall’ordinamento mediata
attraverso l’attribuzione di tali situazioni giuridiche soggettive attive al datore di lavoro
formale, che però è tenuto ad eseguire diligentemente l’obbligazione – di risultato –
dedotta nel contratto commerciale. Ove si consideri poi che sovente, nella filiera del
decentramento, il datore di lavoro formale si trova in una posizione squilibrata, che
spesso assume le forme della dipendenza economica nei confronti dell’utilizzatore
(infra), l’interesse comune degli imprenditori all’esecuzione corretta della prestazione
da parte dei lavoratori comporta una continua ingerenza del fruitore sulla
organizzazione del lavoro del datore. Inoltre, in particolari tipologie contrattuali quali la
81
Marazza, 2012, 119 ss.
Carinci F., 2010.
83
Liso (1979, 40) sottolinea la distinzione fra organizzazione di lavoro e quell’organizzazione «più ampia
e complessa». Ancor prima Persiani (1966, 270 ss.) confrontava il potere organizzativo del datore di
lavoro con la possibilità di conformare l’obbligazione (ma non la prestazione di lavoro) presente in altri
contratti – quali l’appalto e il lavoro autonomo – ma per far risaltare in maniera netta l’evidente diversità
dei due fenomeni. Da ultimo si vedano le considerazioni di Voza, 2015, § 3.
84
Su questi aspetti cfr. Marazza (2012, 1272 ss.) che parla di «poteri di organizzazione dell’attività».
85
Carabelli, 2012, 82.
86
Ma v. Carabelli, 2004, secondo il quale le modifiche organizzative si riflettono sull’obbligazione di
lavoro con un’accentuazione della collaborazione a scapito della subordinazione.
87
Alla quale Marazza (2012, 69) passim, affianca la fattispecie del distacco.
88
Né, ovviamente, il solo art. 41 Cost. consente all’imprenditore di «incidere, unilateralmente e senza il
previo consenso, sulla posizione giuridica altrui» (Marazza, 2012, 126), difettando appunto la fonte del
contratto di lavoro inter partes.
82
14
subfornitura, la concessione di vendita, il franchising e i cc.dd. “appalti a regia”89, il
tipo negoziale prescelto dalle parti potrà attribuire al committente un sempre più intenso
potere di ingerenza che, pur formalmente indirizzato alla controparte commerciale, di
fatto si potrà tramutare nell’organizzazione dell’attività dei lavoratori.
È il fenomeno della contrattazione diseguale fra imprese, ipotesi in cui tra soggetti
imprenditoriali che operano sul mercato quali operatori in posizione di formale parità
vengono a strutturarsi una serie di rapporti che, a dispetto dell’anodina forma della
relazione negoziale, sono caratterizzati da legami di autorità-subordinazione istituiti dal
contratto; reti caratterizzate da dominanza ‘relativa’, ove alcune imprese risultano
“economicamente dipendenti” nei confronti di un’altra, in forza di un rapporto
negoziale che consente all’impresa dominante di «estendere ad una relazione esterna la
stessa gerarchia che caratterizza i suoi rapporti di produzione interni»90.
Insomma, la scelta dell’impresa diversamente organizzata di optare per il mercato
(opzione esterna, col contratto commerciale), in luogo della gerarchia (opzione interna,
col contratto di lavoro) per l’utilizzo del lavoro altrui, sconta, sul piano giuridico, la
diminuzione delle posizioni creditorie e organizzative del fruitore sui singoli prestatori,
riequilibrata tuttavia da un’organizzazione di tipo verticale che, comunque, consente al
committente di ristabilire con il legame contrattuale il rapporto di potere nei confronti
del datore di lavoro formale.
D’altro canto, poi, la circostanza che non vi sia un contratto a fondare (e quindi
legittimare) quel potere di organizzare diversamente l’impresa — perché già
predeterminato in astratto dall’ordinamento giuridico — consente prima facie di
liberarsi da quel sistema di limiti all’esercizio del potere organizzativo del datore di
lavoro che la normativa legale e contrattuale impone a protezione della persona che
lavora. Sotto questo profilo l’assenza di limiti (sostanziali, formali, procedurali, interni,
esterni, ecc.) di fronte alla scelta dell’impresa diversamente organizzata — opzione che
pur incide sul versante delle tutele lavoristiche — è un dato acquisito, forse solo
leggermente mitigato da alcune prerogative che l’autonomia collettiva è riuscita a
conquistarsi nell’ambito della contrattazione (ma che non incidono sulla scelta
organizzativa dell’impresa) e dai larghi margini costituti dai contro-limiti enucleabili
dalla trama costituzionale (quali l’utilità sociale ed il rispetto della dignità umana che
pur sempre sono finalizzati ad arginare operazioni economiche ai limiti del patologico)
e dal saggio bilanciamento con altri principi (art. 4 Cost.) e norme (art. 2103 n.t. c.c.).
Se si escludono, infatti, le manifestazioni patologiche del fenomeno in cui «l’esercizio
del potere non autorizzato dal tipo contrattuale prescelto dalle parti può anche
determinare la riqualificazione giuridica del rapporto di lavoro» (e «al di fuori dei casi
in cui la dissociazione tra titolarità del rapporto ed esercizio del potere direttivo è
consentita dalla legge»)91, in tutte le ipotesi in cui il potere di conformazione della
prestazione che nasce con il contratto di lavoro viene concretamente esercitato dal
fruitore, vanno individuati, nella fisiologia dei rapporti commerciali, gli strumenti con i
quali i singoli lavoratori possono rappresentare i propri interessi.
Quanto, invece, alla possibilità di soffermarsi sui contro-limiti al potere
dell’imprenditore di organizzare diversamente — polverizzandola — l’azienda, il
richiamo al costituzionalizzato diritto al lavoro e alla disposizione in materia di mobilità
endoaziendale come modificata dall’art. 3, d.lgs. n. 81/201592, si badi, può servire solo
nel momento genetico della scelta organizzativa senza incidere sul momento funzionale
89
V. Marazza, 2012, 115 ss.
In termini, Lo Faro, 2008.
91
Marazza, 2009, 1282 ss. In giurisprudenza, da ultimo, sull’utilizzazione indiretta di lavoro con appalti
sprovvisti dell’essenziale elemento della organizzazione dell’appaltatore, con conseguente riconduzione
del rapporto in capo al committente, v. Cass., sez. lav., 7 febbraio 2017, n. 3178, inedita.
92
Garilli, 2016; Brollo, 2016a.
90
15
dell’integrazione contrattuale di tipo commerciale venutasi a generare93 e solo nelle
ipotesi in cui la scelta imprenditoriale determini nei confronti dei lavoratori la
conseguenza di modificare il datore di lavoro formale. Se si escludono, cioè, i casi nei
quali l’utilizzo di forza lavoro viene a monte pianificata senza alcuna assunzione in
capo al vero fruitore della prestazione (es.: subfornitura o franchising, dove i dipendenti
delle imprese “affiliate” non hanno alcun rapporto giuridico col committente), in tutte le
altre fattispecie nelle quali l’imprenditore primo datore di lavoro decide di liberarsi di
personale destrutturando l’organizzazione produttiva (es.: insourcing, classico caso in
cui si verifica un “cambio di casacca”), si pongono due interrogativi: il primo, relativo
al diritto alla stabilità dell’occupazione dei dipendenti, protetto dal principio
costituzionale richiamato, che sollecita un necessario bilanciamento con l’art. 41
Cost.94; il secondo concerne la dilatazione della flessibilità interna all’organizzazione
riconosciuta dopo il Jobs Act, che, ampliando i poteri di gestione nell’azienda,
attribuisce al datore una nuova alternativa al decentramento (v. infra par. 7)95.
L’intervento della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza del 7 dicembre 2016, n.
2520196, statuisce che il fondamento giuridico del giustificato motivo oggettivo (da ora
g.m.o. per brevità) si può rintracciare nell’autonoma e libera scelta organizzativa
dell’impresa di strutturarsi in maniera differente dal momento antecedente al
licenziamento, anche nella prospettiva di un aumento del profitto e di riduzione dei
costi, e quindi che l’art. 3, l. n. 604/1966 consente opzioni di riorganizzazione del
lavoro e di ristrutturazione dell’azienda comportanti recessi97; tale pronuncia,
confermando l’insindacabilità delle scelte imprenditoriali di esternalizzare segmenti del
ciclo produttivo98, si segnala per l’aggancio di tale scelta, oltre che ai noti principi
costituzionali, anche all’art. 3, l. n. 604/1966, e dunque non più solo ad un principio
ordinamentale esterno al rapporto di lavoro e riferito alla libertà d’iniziativa economica
privata, ma anche ad una norma che regola in maniera diretta il singolo contratto di
lavoro subordinato99.
Definito «liberista»100, quest’approdo della Sezione Lavoro consente anche di
completare la parabola che ha portato al progressivo avvicinamento (sia sul piano della
fattispecie sia su quello della disciplina) del g.m.o. al licenziamento collettivo per
riduzione del personale: se fino a ieri nessuno dubitava della legittimità di una
procedura di espulsione delle eccedenze definitive di personale motivata, a monte, dalla
scelta dell’impresa di appaltare, delocalizzare, ecc., oggi nessuno può più dubitare che
se l’assunzione della medesima decisione comporta, a valle, dei licenziamenti
individuali per g.m.o., quest’ultimo sussiste e giustifica la condotta datoriale101.
Insomma, mantenendo l’impostazione del discorso sui licenziamenti economici
ancorato alla duplice fase, la prima relativa alla decisione aziendale (oggi ancor più
rafforzata e garantita, dopo la decisione del Supremo Collegio) e la seconda funzionale
all’individuazione dei singoli dipendenti da estromettere, «l’unico vero limite al
93
E, dunque, poco o nulla serve nel discorso sui possibili poteri che il fruitore può esercitare sui
dipendenti del datore di lavoro formale.
94
Già Liso, 1979, 65.
95
Ancora, Liso, 2015.
96
Per un primo commento v. Maresca, 2017; Speziale, 2017a; Caruso, 2017; diversa è la posizione di
Persiani (2017, 134), che valuta positivamente l’intervento della Corte di Cassazione riconoscendole di
aver «correttamente verificato i risultati del ragionamento problematico confrontandoli con l’autorità del
punto di vista giuridico». Tale principio è stato ribadito da Cass. 19 aprile 2017, n. 9869. Sul tema v.
Balletti, 2017.
97
Espressamente Speziale, 2017a, 29.
98
Atteso che la pronuncia, di fatto, inibisce qualsiasi valutazione a monte delle ragioni economiche ed
organizzative del recesso (Speziale, 2017a, 20).
99
Caruso, 2017, 1 ss.
100
Speziale, 2017a, 4.
101
Si cfr. già Cass. nn. 662/1998; 13021/2003; 18416/2013.
16
licenziamento economico»102 resta la regola del repechâge e, in relazione al
licenziamento collettivo, il rispetto dei criteri di scelta, ma nella consapevolezza che –
sul piano rimediale – tanto nei confronti del primo quanto nei confronti del secondo
limite, dopo l’introduzione del contratto a tutele crescenti103, sono ridotte al lumicino le
ipotesi in cui il giudice potrà annullare la decisione imprenditoriale, imponendo la
reintegrazione, che è previsto nei casi di discriminazione e in quelli comportanti nullità
radicale dell’atto di recesso.
7. Flessibilità versus decentramento: alternativa o concorso?
La riforma del diritto del lavoro del 2003 (c.d. riforma Biagi) ha dato sostegno alle
«pratiche di disintegrazione verticale, decentramento produttivo, esternalizzazione,
outsourcing, ecc.»104.
Allargando lo spettro temporale di riferimento all’ultimo quindicennio e tenendo conto
anche della elaborazione giurisprudenziale, ci si chiede se sia del tutto condivisibile tale
affermazione.
L’abrogazione della l. n. 1369/1960 ad opera del d.lgs. n. 276/2003 e la contestuale
adozione di una disciplina, invero abbastanza scarna, dei principali strumenti attraverso
i quali si realizza il decentramento, e cioè l’appalto, il distacco e i gruppi di impresa
(artt. 29, 30 e 31), sembrerebbero avvalorare l’opinione prima richiamata.
Di seguito il legislatore ha normato il fenomeno del contratto di rete (d.l. n. 5/2009,
cit.), avendo disciplinato quello di subfornitura già nel 1998 (l. n. 192/1998) e la
direzione ed il coordinamento delle società nel 2003 (art. 5, d.lgs. n. 6/2003, come
modificato dall’art. 5, d.lgs. n. 37/2004); interventi che hanno giuridificato modelli di
organizzazione produttiva già esistenti nella realtà economica.
Di tanto ha preso atto il legislatore lavoristico implementando il nucleo di disciplina
introdotto nel 2003, tendenzialmente in funzione protettiva del lavoratore, con
l’estensione della responsabilità solidale in relazione: a) alla tipologia di appalto; b) al
periodo di operatività della stessa; c) ai soggetti nei cui confronti essa opera, con le
uniche due eccezioni, in materia di appalto, della derogabilità alla responsabilità
solidale ad opera della contrattazione collettiva e del beneficio accordato all’appaltante
della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore, deroghe, guarda caso,
entrambe investite dall’iniziativa referendaria, evitata con l’abrogazione delle norme
“incriminate” (d.l. n. 25/2017 conv. in l. n. 49/2017).
Quindi, un intervento legislativo in materia di decentramento tutto sommato molto
contenuto, a fronte di quello ben più massiccio sul versante della flessibilità intra
moenia, che ha investito l’intera disciplina del rapporto di lavoro, dapprima puntando
alla pluralizzazione dei sottotipi (d.lgs. n. 276/2003) e alla liberalizzazione dell’utilizzo
degli stessi (l. n. 92/2012), incentrati sulla durata del rapporto e della prestazione onde
sfuggire alle rigidità della disciplina del rapporto di lavoro standard; successivamente,
privilegiando il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, flessibilizzato
nella misura massima consentita (sono stati modificati gli artt. 4, 13 e 18, Stat. lav.), e
alleggerito dalla concorrenza delle fattispecie di lavoro non subordinato, con
l’eliminazione dell’associazione in partecipazione e l’applicazione alle collaborazioni
etero-organizzate dal committente della disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
Come si vede, confrontando l’intervento legislativo in tema di decentramento con
quello in tema di flessibilità, si ha la netta percezione di un’azione a due velocità o se si
preferisce a diversa intensità, il che induce a interrogarsi sul perché di tale scelta
legislativa.
102
Speziale, 2017a, 1; v. anche Brollo, 2016b, 244-247.
Scarano, 2015.
104
Ex plurimis Voza, 2004, 190.
103
17
Prima di dare una risposta non appare fuori luogo un richiamo della vicenda FIAT,
consumatasi a cavallo tra il 2009 e il 2011, caratterizzata dalla scelta aziendale di
depotenziare la minacciata delocalizzazione, in cambio di un recupero di efficienza e
produttività, intervenendo in via di contrattazione collettiva sull’organizzazione del
lavoro e sull’assenteismo105.
Una spiegazione possibile potrebbe essere ricercata nella volontà di incentivare, e in
ogni caso assecondare, una riverticalizzazione dell’impresa, ovvero il recupero
dell’autorità a scapito del mercato, attraverso una flessibilità organizzativa interamente
ricondotta all’interno dell’impresa.
Gli indici della disponibilità del legislatore ad assecondare le istanze imprenditoriali di
flessibilità organizzativa intra moenia sono disseminati nel Jobs Act e in special modo
nei decreti legislativi nn. 23, 81 (spec. art. 3) e 151 (spec. art. 23) del 2015106. A tali
indici normativi si potrebbe aggiungere anche la diversa configurazione del giustificato
motivo oggettivo proposta nella recente sentenza della Cass. n. 25201/2016 (v. supra §
6). Tale enunciazione, innegabilmente recessiva a livello di tutela del lavoratore, appare
in perfetta sintonia con il Jobs Act, potendosi ipotizzare una spinta alla
reinternalizzazione nell’assecondare e non ostacolare le scelte organizzative
dell’impresa.
Ancora, in sintonia con tale impostazione appare anche la riformata disciplina in tema di
eccedenze temporanee di personale. Infatti, nel riformulare la normativa sulla CIGS,
ribadita la causale della crisi ed elevata ad autonoma causale la solidarietà, sono
scomparse le due causali della ristrutturazione e della conversione aziendale,
sopravvivendo solo quella della riorganizzazione. Prima facie, tale scelta legislativa ha
suscitato qualche perplessità, ponendo agli interpreti interrogativi sul motivo della
messa fuori gioco dall’ambito di intervento della CIGS delle scelte aziendali tese alla
ristrutturazione dell’apparato produttivo o alla sua riconversione. La scelta, viceversa,
appare perfettamente coerente con l’impostazione complessiva del Jobs Act, che è
quella di supportare, anche nei momenti di crisi, i sistemi produttivi organizzati intra
moenia; del resto, un supporto al reddito a fronte di una riorganizzazione realizzata
attraverso l’esternalizzazione non avrebbe senso.
In ogni caso, tra i criteri adottati per l’approvazione dei programmi di intervento CIGS
per riorganizzazione aziendale (d.m. n. 94033/2016) campeggia l’ipotesi «della
ricomposizione dell’assetto dell’impresa e della sua articolazione produttiva», nonché
gli «investimenti per impianti fissi ed attrezzature direttamente impegnate nel processo
produttivo», oltre che «l’attività di formazione e riqualificazione professionale rivolta
al recupero e alla valorizzazione delle risorse interne».
Stona con tale impostazione il solo criterio del recupero occupazionale dei lavoratori
sospesi nella misura minima del 70%, per la cui realizzazione al rientro in azienda e al
riassorbimento in altre unità produttive della medesima impresa, il legislatore ha
affiancato il «riassorbimento (…) all’interno (…) di altre imprese». Nel silenzio del
decreto ministeriale quest’ultima ipotesi potrebbe riguardare fenomeni di
105
Nell’accordo FIAT 15 giugno 2010 rilevano i punti 5 e 8; il punto 5 sulle pause prevede una riduzione
delle pause con monetizzazione dei minuti di decremento da corrispondere solo per le ore di effettiva
prestazione lavorativa con esclusione delle assenze la cui copertura retributiva è per legge e/o contratto
parificata alla prestazione. Il successivo punto 8 disciplina è specificatamente destinato al contrasto
dell’assenteismo, prevedendosi la non copertura retributiva a carico dell’azienda (ma resta quella a carico
dell’INPS) delle assenze per malattie ricadenti in periodi di astensioni collettive, manifestazioni esterne,
messa in libertà. Inoltre, per le assenze connesse allo svolgimento delle tornate elettorali, con esclusione
di chi svolge funzione di presidente, segretario e scrutatore di seggio con regolare nomina, certificata, si
prevede la chiusura dello stabilimento con l’utilizzo degli istituti retributivi collettivi (PAR/ferie) e con
recuperi produttivi senza oneri a carico dell’azienda; infine, è prevista la gestione “equilibrata” dei
permessi retribuiti nell’arco della settimana lavorativa. Sul punto v. Balletti, 2011.
106
Ricci M., 2016.
18
decentramento, salvo a non leggere nella previsione una riedizione della mobilità ex l. n.
675/1977.
Ulteriore conferma della scelta di politica legislativa effettuata dal Jobs Act promana
dall’emananda disciplina del “lavoro agile”107, nel quale l’opzione di riportare il lavoro
all’interno dell’organizzazione aziendale emerge in maniera direi quasi prepotente. Si
registra la compresenza, in tale disciplina, dello scopo dell’incremento della
competitività unitamente ad una organizzazione del lavoro per “obiettivi”; detto in
termini più espliciti, la diversa organizzazione del lavoro prevista attraverso lo smart
working punta allo stesso proposito sottostante ai fenomeni di esternalizzazione,
ponendosi in concorrenza con essi.
In sintesi, l’ipotesi sostenibile è che l’iniezione da parte del Jobs Act di massicce dosi di
flessibilità nella gestione del rapporto di lavoro (in entrata, in corso e in uscita), possa
costituire un antidoto al decentramento, ovvero, detto in altre parole, che è proponibile
una nuova e diversa declinazione della flexicurity, coniugando flessibilità e
monodatorialità.
Certo, non può affatto escludersi il rischio che la flessibilità gestionale, ancorché
agevolare una ricentralizzazione dell’impresa, riportando il lavoro “all’interno delle
mura”, si riversi proprio nel lavoro esternalizzato, abbassando ulteriormente i livelli di
tutela dei lavoratori non solo esternalizzati, ma ancor più flessibilizzati.
Il recente passato è segnato, purtroppo, da interventi legislativi caratterizzati da una
eterogenesi dei fini: si può citare il contratto a termine acausale, pensato per le grandi
realtà (Poste italiane) ma poi utilizzato dal monodipendente; o ancora il lavoro
accessorio, ideato (come occasionale) per remunerare il giardiniere dei condomini ma
poi adoperato dalle Pubbliche Amministrazioni.
Tale constatazione empirica ci porta a contatto con quella che si ritiene essere una sorta
di “palla al piede” del diritto del lavoro, e cioè l’uniformità regolativa riguardata non
dall’angolo di visuale del lavoratore, bensì da quello del datore di lavoro. Se ci si
colloca in questa prospettiva le poche differenziazioni regolative esistenti nel nostro
ordinamento sono riconducibili alla consistenza dell’organico aziendale, peraltro mai
normata in relazione al momento fisiologico della vita dell’impresa. Non da ora, si è
evidenziata l’insufficienza di tale criterio, richiamandosi la nozione comunitaria che
distingue la PMI rispetto alla grande impresa con il riferimento anche al volume di
affari o al fatturato.
Inoltre, la dimensione dell’organico aziendale, se si eccettua il collocamento dei
disabili, riguarda essenzialmente l’intervento CIG e la disciplina del licenziamento;
viceversa, nessun limite è dato rinvenire in quella della flessibilità gestionale (sottotipi)
ed organizzativa, che quindi possono concorrere. Si è in presenza, dunque, di una totale
omologazione che ha finito con l’incidere anche sulle scelte dell’impresa.
A incentivare l’omologazione delle stesse ha concorso peraltro anche il legislatore, che,
sia pure per il “nobile” fine di favorire l’occupazione dei soggetti svantaggiati, ha
incoraggiato nei fatti la flessibilità organizzativa, accordando determinati benefici a chi
ha optato per la somministrazione, in luogo dell’assunzione diretta108, per di più con il
vantaggio di non dover sottostare ai limiti e alle condizioni previsti in materia.
È evidente che alla omologazione regolamentare ha corrisposto quella delle scelte
organizzative, specie a livello di piccole imprese.
Probabilmente è arrivata l’ora di liberarsi (anche) di questo condizionamento e
prevedere una diversificazione in base al modello organizzativo prescelto per l’accesso
ai benefici assunzionali e per gli investimenti. A livello UE una differenziazione è già
107
V. il d.d.l. n. S-2233-B, approvato dal Senato della Repubblica il 3 novembre 2016.
Si allude al riconoscimento dei benefici assunzionali in favore dell’utilizzatore a cui oggi si aggiunge
anche la computabilità nella quota d’obbligo dell’utilizzatore dei disabili somministrati ove la missione
duri più di 12 mesi; sul punto v. interpello Min. lav. 30 dicembre 2016, n. 23, in tema Filì, 2015.
108
19
prevista utilizzandosi il criterio della occupazione sufficientemente stabile109; a tale
criterio si potrebbe aggiungere quello del modello organizzativo prescelto.
L’ipotesi è quella di mettere in alternativa tra di loro la flessibilità organizzativa, non
governabile dal legislatore se non nella misura limitata già in essere, e quella gestionale,
questa sì nella disponibilità del legislatore. Un esempio di dualismo regolamentare è la
disciplina del licenziamento per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 (d.lgs. n.
23/2015).
Se scelte di questo tipo fossero accusate di attentare ai cardini della libertà di iniziativa
economica privata e della libera concorrenza, si potrebbe replicare che le scelte
dell’imprenditore restano libere ed insindacabili, in quanto condizionato attraverso la
diversificazione regolamentare sarebbe l’accesso ai benefici accordati dal legislatore.
Del resto, un esempio lampante di diversificazione è rinvenibile nella aziendalizzazione
della regolamentazione autonoma110.
PARTE SECONDA – I MODELLI DI TUTELA
8. Ricondurre la riflessione sul lavoratore: i modelli di tutela
Dall’analisi delle varie manifestazioni del fenomeno è dato constatare come l’ampia
riflessione sul tema si sia per così dire biforcata.
Da un lato, l’attenzione si è focalizzata sulle forme di decentramento consolidate
(potremmo dire tradizionali) che non mettono in discussione l’unitarietà del centro di
imputazione (appalti, subappalti, trasferimento di ramo di azienda con coevo appalto,
subfornitura, trasporto, distacco e somministrazione)111; dall’altro lato, una riflessione
parallela si è sviluppata su forme di decentramento affidate a relazioni tra imprese
(collegamenti societari o tra imprese, cioè gruppi di imprese e reti di imprese) delle
quali il legislatore si è occupato, ma non a livello giuslavoristico con un evidente vuoto
di disciplina.
Tale ampia e feconda riflessione ha messo a nudo un sistema per nulla coerente e
razionale112 al quale solo in parte può sopperire il criterio funzionalistico della
individuazione del datore di lavoro con quanto ne consegue in termini di imputazione
del rapporto di lavoro, incentrata sull’effettiva utilizzazione del lavoro altrui. Peraltro
tale criterio, secondo Treu, riflette le incertezze del concetto di subordinazione, definita
in base a criteri diversi, quali l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione (eteroorganizzazione) in abbinamento o in alternativa all’assoggettamento al potere direttivo
del datore di lavoro (eterodirezione), o, ancora, la sopportazione del rischio economico
o la titolarità dell’interesse soddisfatto dalla prestazione. Ciò conferma la difficoltà di
individuare un assetto regolativo unificato in questa materia e l’utilità di affidarsi
piuttosto a un insieme di tecniche articolate che «valorizzino anche gli strumenti di
autoregolazione contrattuale, quelli intercorrenti tra le singole imprese e quelli
collettivi»113.
A supporto di tale impostazione si possono richiamare per un verso i recenti interventi
della giurisprudenza sui gruppi di imprese e sulla operatività del regime di solidarietà
109
Si fa riferimento ai regolamenti UE in tema di incentivi all’occupazione, ultimo dei quali è il reg. n.
651/2014.
110
Barbera, 2014.
111
Sul trasferimento d’azienda come forma giuridica di esternalizzazione, v. Perulli, 2003a; Idem, 2007,
35 ss., con ricchi spunti comparati.
112
Barbera, 2010, 228.
113
Treu, 2012, 14.
20
nella subfornitura114; per altro verso, l’intervento legislativo del 2013 (d.l. n. 76/2013,
conv. in l. n. 99/2013) in tema di codatorialità nelle reti di impresa (art. 30, co. 4-ter,
d.lgs. n. 276/2003)115 o di assunzione congiunta in agricoltura o da imprese in rete (art.
31, co. 3-bis e 3-ter, d.lgs. n. 276/2003).
Un siffatto intervento del legislatore, diversificato per istituti, denota un atteggiamento
dello stesso che evita di imporre alle imprese tutele protettive classiche, ma al contempo
non accetta supinamente le nuove realtà organizzative e tenta di contemperare le
contrapposte esigenze, sovrapponendo alla titolarità formale del contratto di lavoro
l’effettivo utilizzo delle prestazioni di lavoro: a ben vedere in alcuni casi l’utilizzo
sostituisce la titolarità, in altri si affianca ad essa, mettendo in discussione uno dei
cardini della tradizione lavoristica che è quella della unicità del datore di lavoro116.
Le tecniche di imputazione del rapporto adottate dal legislatore sono pertanto
estremamente variegate; una prima ipotesi è quella della distribuzione di poteri e
obblighi tra più soggetti (è quanto accade nella somministrazione e nel distacco); una
seconda ipotesi attinge alla tecnica della responsabilità solidale (appalto, a volte
combinato con la cessione del ramo di azienda, nonché trasporto e figure contermini)117;
infine, si prevede la coimputazione del rapporto (nella codatorialità tra aziende in rete e
nell’assunzione congiunta da parte di imprese agricole in gruppo o in rete con imprese
non agricole).
Quest’ultimo intervento legislativo è stato letto in modo antitetico, essendovi chi lo
richiama a supporto della tesi della codatorialità e chi, al contrario, proprio in ragione
dello stesso, esclude che tale tesi possa avere cittadinanza nel nostro ordinamento fuori
dalle ipotesi espressamente previste.
Il nodo da sciogliere, a mio parere, non è tanto quello della fondatezza di tale tesi, pur
ben argomentata dai suoi sostenitori, quanto quello dell’area da essa coperta; per essere
più chiari, bisogna stabilire che rapporto esista tra la tecnica di tutela strutturata in
relazione alle varie manifestazioni del fenomeno della frammentazione organizzativa e
la codatorialità, potendosi ipotizzare un rapporto concorrente, alternativo o meramente
residuale.
La vasta letteratura formatasi sul tema, riguardata nella sua globalità, dà la netta
sensazione dei “separati in casa”: da un lato, si collocano quelli che si occupano delle
tecniche di tutela invocabili nelle ipotesi di esternalizzazione; dall’altro lato, i
“codatorialisti” che si concentrano sul lavoro prestato nelle organizzazioni di lavoro
complesse, con l’effetto di complicare, anziché semplificare la soluzione di un problema
che è già complesso.
Di seguito si intende verificare se esistono tecniche di tutela a valenza generale
utilizzabili indifferentemente in relazione ad entrambi i fenomeni, riservando alla
codatorialità un ruolo residuale (ma non marginale) o se si preferisce di rincalzo alle
tecniche di tutela generali; sostanzialmente, si rifugge, come già detto, dall’angoscioso
dilemma “codatorialità sì / codatorialità no”, optandosi per “codatorialità anche”.
L’analisi dei modelli di tutela viene articolata in tre parti, dapprima esaminandosi quelli
più consolidati, con un andamento ad intensità crescente, e poi quelli proposti,
utilizzandosi come ponte tra i primi e i secondi proprio la codatorialità.
SEZIONE I - I CARDINI DEL SISTEMA DI TUTELA.
114
V. App. Venezia (ord.) 13 luglio 2016, che ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di
legittimità dell’art. 29, co. 2, d.lgs. n. 276/2003, nella parte in cui non estende il regime di solidarietà
anche al contratto di subfornitura per contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost. e 31 CDFUE.
115
Razzolini, 2015.
116
Treu, 2012, 11.
117
Quadri, 2004, 295 ss.
21
9. La perdurante vigenza del divieto di interposizione
Le coordinate ordinamentali all’interno delle quali la frammentazione organizzativa è
stata realizzata sono state tradizionalmente segnate dalla l. n. 1369/1960, attraverso la
regolazione – rectius individuazione dei presupposti di ammissibilità – degli schemi
interpositori consentiti e la repressione di quelli che si ponevano al di fuori di questa
area di legittimità.
Il venir meno, con l’espressa abrogazione stabilita dal d.lgs. n. 276/2003, di questa
normativa – che ha rappresentato in un certo arco temporale la “codificazione” del
divieto di rapporti interpositori – è tuttavia qualcosa di diverso dal venir meno del
divieto di rapporti interpositori ex se.
Il nuovo ordine normativo ha mutuato, infatti, dalla l. n. 1369/1960 la stessa tecnica
regolatoria basata sulla diade “disciplina dell’interposizione ammessa/repressione
dell’interposizione diversa da quella ammessa”; ciò rappresenta pertanto una diversa
codificazione del divieto di rapporti interpositori, ma nulla di più.
La progressiva dilatazione dell’area di legittimità dei modelli interpositori che si è
registrata nell’evoluzione legislativa degli ultimi anni – sino allo sganciamento da
requisiti causali della somministrazione che ne rappresenta la forma più estrema – è
comunque sottoposta a precise condizioni, che ne segnano al contempo la liceità.
È questa la ragione che ha portato la massima parte dei commentatori a ritenere che
l’abrogazione della l. n. 1369/1960 non abbia travolto il divieto di interposizione118.
I “modi” attraverso cui questa tesi è stata espressa sono stati differenti ed estremamente
raffinati – si è detto che la «macrogeografia delle esternalizzazioni» non è mutata,
sebbene ci siano stati cambiamenti a livello micro119; ancora, si è affermato che il d.lgs.
n. 276/2003 ha compiuto un’operazione «inversa e allo stesso tempo speculare» rispetto
a quella della l. n. 1369/1960, configurando la somministrazione quale “fattispecie
assorbente” di tutte le pattuizioni che consentono di utilizzare lavoro subordinato
attraverso un soggetto interposto e, quindi, «catalizzatore idoneo a verificare la
legittimità e/o a sanzionare tutte le pattuizioni atipiche aventi ad oggetto la mera
fornitura di lavoro subordinato altrui»120; – ma ognuno di essi prende atto di un dato
semplice ed innegabile: il d.lgs. n. 276/2003 prima e il d.lgs. n. 81/2015 dopo ampliano
l’area di ricorso alla flessibilità organizzativa, ma, allo stesso tempo, pongono una
delimitazione a quest’area e sanzionano tutte le fattispecie che si collocano all’esterno
della stessa.
La sanzione – non inaspettatamente – è nella sostanza quella “antiquata” stabilita dalla
altrettanto “antiquata” l. n. 1369/1960: l’imputazione del rapporto al soggetto che ha
utilizzato la prestazione121; ma è più che questo. Il divieto di interposizione ha la sua
matrice nello stesso contratto di lavoro subordinato: «la grammatica concettuale spesa
per l’individuazione dei tratti del lavorare “in modo subordinato”» è la stessa di quella
utilizzata per ricostruire le fattispecie interpositorie122.
118
Si vedano, oltre agli Autori citati di seguito nell’analisi dei vari profili di questa tematica, Bonardi,
2004; Del Punta, 2004; Ichino, 2004a; Quadri, 2004, 274; Speziale, 2004a, Magnani, 2005b. Minoritaria è
invece la tesi secondo cui il divieto di interposizione è stato, a seguito del d.lgs. n. 276/2003,
definitivamente espunto dall’ordinamento, cfr. Romei, 2005; Miscione, 2004; Tiraboschi, 2003 e, sia pure
in posizione estremamente critica, Chieco, 2004.
119
Carinci M.T., 2004, 4 ss.
120
Zappalà, 2004, 293-294.
121
Su questi profili vedi gli Autori citati a nota 127.
122
È questa l’incisiva immagine di Mazzotta, 2006, 159-163, che osserva come il “disvalore
dell’ordinamento” verso la scissione tra utilizzazione del lavoro e titolarità del rapporto vada oltre la
regolazione data della materia dell’interposizione in un determinato (e mutevole) assetto regolativo, ed «è
insito nella invenzione stessa del concetto di subordinazione». Il tipo contrattuale dell’art. 2094 c.c. – già
“prima e oltre” l’introduzione del divieto di interposizione di cui alla l. n. 1369/1960 – «dà concreto
sviluppo alla mediazione, operata a livello costituzionale, fra la regola mercantilista che considera
22
L’art. 2094 c.c. stabilisce il principio secondo cui «chi presta attività di lavoro in
condizioni date […] è lavoratore dipendente proprio di quell’impresa, quale che sia lo
schema giuridico apparentemente utilizzato»123, stabilendo un nesso tra effettiva
utilizzazione della prestazione e schema del lavoro subordinato, lo stesso che è
(inevitabilmente) posto alla base dell’indagine giurisprudenziale sulle fattispecie
interpositorie124.
Il graduale ampliamento legislativo della legittimità di tali fattispecie determina una
speculare riduzione dell’area del divieto di interposizione, ma non ne determina
l’eliminazione e, pertanto, esemplificando in questa sede profili che saranno
partitamente analizzati successivamente, non si ha più una preclusione assoluta «di
affidare in appalto o subappalto o in qualsiasi altra forma anche a società cooperative
l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante l’impiego di manodopera assunta e
retribuita dall’appaltatore» [art. 11, lett. a), l. n. 1369/1960], ma è ammesso il contratto
con il quale un soggetto «mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori
suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la propria attività
nell’interesse e sotto la direzione e il controllo dell’utilizzatore» (art. 31, d.lgs. n.
81/2015); tuttavia questo contratto deve essere stipulato con un’agenzia di
somministrazione autorizzata ai sensi del d.lgs. n. 276/2003 (che prevede al Capo I del
Titolo III una dettagliatissima regolazione in materia di regime autorizzatorio e
accreditamenti), oltre ad essere sottoposto a una serie di limiti formali e sostanziali
enucleati ora agli artt. 31 ss., d.lgs. n. 81/2015. La violazione di tali “precondizioni” di
ammissibilità determina l’instaurazione di un rapporto diretto tra lavoratore e
utilizzatore (art. 38, d.lgs. n. 81/2015)125.
Stesso discorso vale per gli appalti, consentiti dall’art. 29, co. 1, d.lgs. n. 276/2003, in
una gamma di ipotesi sicuramente maggiore rispetto al passato, comunque delimitata
dalla legge, al di fuori della quale scatta la sanzione dell’imputazione del rapporto di
lavoro subordinato al «soggetto che ne ha utilizzato la prestazione» (così il co. 3-bis
indifferente la forma acquisitiva del lavoro e la dimensione protettiva di stampo solidaristico, che collega
al rapporto di lavoro subordinato e tendenzialmente solo ad esso una serie di tutele/posizioni di
vantaggio (art. 41 Cost.)».
123
Mazzotta, 2006, 159. Valorizza la centralità dello schema codicistico, all’interno di una più generale
riflessione sui mutati scenari, Barbera, 2010, 235 ss.: «la “dematerializzazione” dello spazio interno
dell’impresa sembra aver prodotto fra i suoi effetti una “ripersonalizzazione” del rapporto, vale a dire
una riconsiderazione del datore di lavoro come parte di un contratto, con una contemporanea
rivitalizzazione delle tecniche civilistiche di controllo della relazione contrattuale. Un processo che si
potrebbe descrivere come un ritorno dal nesso materiale al nesso contrattuale».
124
Non è un caso che la giurisprudenza assolutamente dominante ritenga vigente il divieto di
interposizione anche a seguito dell’espressa abrogazione della l. n. 1369/1960: si vedano, ex multis, Cass.
S.U. 26 ottobre 2006, n. 22910; Cass. 12 ottobre 2006, n. 21818. L’immediata riconducibilità del divieto
di interposizione alla fattispecie codicistica è recisamente affermata da Cass. 4 novembre 2011, n. 22894:
«già soltanto ex art. 2094 c.c. non è consentito separare la titolarità ex parte datoris del rapporto di
lavoro dal soggetto che in concreto ha utilizzato e diretto la prestazione del lavoratore». Ancora in
questo, senso costante giurisprudenza penale (Cass. pen., Sez. III, 20 aprile 2006, n. 20758; Cass. pen. 18
aprile 2007, n. 21789; Cass. pen. 30 novembre 2005, n. 4454; Cass. pen., Sez. III, 25 novembre 2004;
Cass. pen., Sez. III, 6 aprile 2005; Cass. pen., Sez. III, 28 gennaio 2005).
125
Analogamente Del Punta, 2008, 131 ss.: «la permanenza di un divieto generale, e sia pure non
assoluto, di interposizione, che si presenta qui come matrice categoriale di un divieto di
somministrazione, scaturisce, altresì, da un preciso vincolo di sistema. In un contesto nel quale la
somministrazione di manodopera è considerata lecita soltanto in quanto svolta professionalmente e
debitamente autorizzata da un organismo pubblico, non si può ammettere che essa venga esercitata
surrettiziamente, celandosi dietro le forme di un contratto di appalto». Il principio del divieto di
intermediazione di manodopera rappresenta pertanto ancora oggi un «elemento centrale del sistema»
(Speziale, 2010, 30), «una forma ordinaria di organizzazione dell’impresa» (Carinci M.T., 2000, 19).
23
della norma)126. La medesima reazione è collegata dall’ordinamento alla violazione
delle condizioni di cui all’art. 30, co. 1, per il distacco, secondo la logica binaria che è
stata evidenziata in apertura.
L’identico esito di queste sanzioni – al di là del loro differente meccanismo di
operatività (nullità del contratto ovvero ricorso giudiziale volto a chiedere la
costituzione del rapporto di lavoro)127 – conferma la permanente «forza di attrazione
che sui processi di disgregazione dell’impresa ha ancora il tipo contrattuale del lavoro
subordinato»128, scilicet il fondamento nel paradigma dell’art. 2094 c.c. di un generale
principio di divieto di interposizione.
Il principio in esame, per altro verso, ha conservato intatto il suo rilievo sul piano penale
anche a seguito del d.lgs. n. 276/2003129, e nell’art. 603-bis c.p.130 sullo sfruttamento di
manodopera131.
La legislazione della “flessibilità organizzativa” va letta dunque come actio finium
regundorum dell’area del divieto, non come soppressione di questo.
Uguali considerazioni possono essere svolte per i più complessi fenomeni dei gruppi di
impresa e dei contratti di rete di cui al d.l. n. 5/2009, conv. in l. n. 33/2009132, riportati
dai più recenti orientamenti giurisprudenziali all’interno dello schema codicistico
126
Per tutti De Luca Tamajo, 2002, 46 ss., che individua l’area di liceità dell’appalto in relazione al solo
profilo “giuslavoristico” dell’esercizio dei poteri direttivi e gerarchici dell’appaltatore, evidenziando
l’inidoneità del profilo “commercialistico” ad evitare la «discrasia sistematica» dell’imputazione del
rapporto in deroga all’art. 2094 c.c. Non va peraltro dimenticato – come osserva Speziale, 2010, 30 – il
riferimento all’“interposizione illecita” contenuto nello stesso d.lgs. n. 276/2003, all’art. 84, co. 2, nella
prevista elaborazione di «codici di buone pratiche e indici presuntivi in materia di interposizione illecita
e appalto genuino, che tengano conto della rigorosa verifica della reale organizzazione dei mezzi e della
assunzione effettiva del rischio tipico di impresa da parte dell’appaltatore».
127
Sottolineano l’uniformità sostanziale dell’apparato sanzionatorio del d.lgs. n. 276/2003 rispetto a
quello del precedente assetto normativo, inferendone la permanenza del generale divieto di
interposizione, Scarpelli, 2004; Speziale, 2010, 30 ss.; Zilio Grandi, Sferrazza, 2012. Una differente
lettura in Maresca, 2007, secondo il quale la frammentazione dei vari apparati sanzionatori collegati alle
diverse forme di decentramento produttivo illegittime esclude la permanenza nell’ordinamento di un
divieto generale di interposizione nelle prestazioni di lavoro; e in Romei, 2005, 735, che ritiene che
l’apparato sanzionatorio abbia nel d.lgs. n. 276/2003 una funzione diversa da quella del previgente
regime: «non più il mezzo per far reagire sul piano giuridico una situazione di fatto che già presentava i
caratteri del rapporto di lavoro, […] ovvero un apparato puramente repressivo a presidio di un divieto
occhiutamente vigilato dal legislatore; ma la semplice previsione dei presupposti di legittimità
dell’istituto; una semplice reazione dell’ordinamento all’utilizzo di istituti al di fuori dei presupposti di
legge».
128
Mazzotta, 2006, 163. Ritiene invece che «nella nuova disciplina del decentramento produttivo, il
principio della necessaria coincidenza tra titolarità formale e titolarità sostanziale del rapporto di lavoro
sembra svaporare, a favore di un principio che afferma la distribuzione delle responsabilità tra i diversi
attori dell’operazione di decentramento» Corazza, 2009, 18.
129
Per una disamina delle più significative pronunce sul tema (Cass. pen. 20 aprile 2006, n. 20758; Cass.
pen. 6 aprile 2005, n. 17851; Cass. pen. 25 novembre 2004, n. 861) si rinvia a Zilio Grandi, Sferrazza,
2012, 129 ss.
130
In argomento v. Miscione, 2017 e Silva, 2016, 474 ss.
131
Sul tema del contrasto al lavoro irregolare v. la ricerca curata da Gottardi, 2016.
132
Sugli ultimi arresti giurisprudenziali in subiecta materia (Cass. 21 aprile 2016, n. 8068, Cass. 25
febbraio 2016, n. 9682 e Cass. 12 aprile 2016, n. 7121) vedi Carinci M.T., 2016, 733 ss., che sottolinea la
valenza di «presidio, esterno ed aggiuntivo, del principio di inderogabilità delle norme giuslavoristiche»
della tradizionale regola che individua in via generale il datore di lavoro nel datore di lavoro
“sostanziale”. Una differente lettura del fenomeno dei gruppi societari, che esclude la possibilità di criteri
di imputazione del rapporto di lavoro fondati sul concetto di datore di lavoro effettivo, in Romei, 2016,
519 ss.
24
attraverso l’ascrizione della «titolarità del rapporto al soggetto-datore che utilizzi
effettivamente le prestazioni dei dipendenti dell’appaltatore»133.
10. La responsabilità solidale
10.1. Responsabilità solidale versus codatorialità
La tecnica di tutela più diffusa nelle ipotesi fisiologiche di frammentazione
dell’organizzazione produttiva è senza dubbio quella della responsabilità solidale, in
forza della quale al debitore «naturale» (il datore di lavoro) se ne affianca un altro
(l’utilizzatore della prestazione di lavoro)134.
La ratio di tale tecnica di tutela varia a seconda dell’istituto per il quale essa è prevista.
Nell’appalto genuino il committente non ha potere direttivo nei confronti dei lavoratori
e, pertanto, prevale la finalità di garanzia e di tutela della concorrenza nei rapporti tra
imprese, il che spiega la scelta dell’inutilizzabilità della regola della parità di
trattamento (v. infra). Per altro verso, risponde ad una finalità protettiva del lavoratore,
addossando al committente una responsabilità per il sol fatto di ricavare delle utilità
dall’esecuzione di prestazioni di lavoro da parte di soggetti che non sono suoi
dipendenti. Viceversa, nella somministrazione, fermo restando la funzione di garanzia
nei confronti dei lavoratori somministrati, la responsabilità solidale corrisponde ad una
diversa ripartizione dei poteri all’interno dello schema contrattuale con attribuzione
all’utilizzatore del potere direttivo tipico del rapporto di lavoro135.
Il coinvolgimento dell’utilizzatore nella garanzia dei crediti e della posizione
contributiva del lavoratore “esternalizzato” viene ritenuta una forma di «codatorialità
sostanziale»136.
A quest’ultimo riguardo, secondo Speziale137, il legislatore, con l’introduzione di nuove
tutele, si pensi alla responsabilità solidale prevista da più disposizioni normative138,
avrebbe influenzato la soluzione del problema dell’individuazione del datore di lavoro.
Le tutele di cui innanzi sono espressione a loro volta delle responsabilità congiunte,
come tecnica di regolazione delle esternalizzazioni e delle forme di decentramento
produttivo, sostenendosi che queste costituiscano scelte organizzative non contrastabili,
cui si riconducono varie tecniche di tutela quali la penalizzazione delle
esternalizzazioni, sub specie di imputazione del rapporto al reale utilizzatore della
prestazione; la condivisione di responsabilità non necessariamente economiche; la
responsabilità solidale, quale paradigma generale per tutelare il lavoratore coinvolto nel
decentramento139, accrescendo la garanzia patrimoniale del dipendente e realizzando
una coazione economica indiretta alla selezione dei partners contrattuali. Si tratta
comunque di tecniche che «non sono di per sé sufficienti a determinare una fattispecie
di codatorialità».
Nella codatorialità – prosegue Speziale – «il rapporto fondamentale nascente dal
contratto di lavoro rimane invariato nei suoi obblighi principali (lavoro, retribuzione,
sicurezza), ma incrementa il numero delle parti coinvolte, determinando obbligazioni
soggettivamente complesse. La esistenza di prestazioni che coinvolgono, nelle rispettive
posizioni di debito e credito, tre soggetti configura una forma di responsabilità solidale
133
Mazzotta, 2013, 27, nell’analisi di Cass. 29 novembre 2011, n. 25270 (su questa pronuncia v. anche
Razzolini, 2012b).
134
Tosi, 2012; Perulli, 2007, 33, il quale sottolinea, giustamente, l’incidenza del dispositivo di tutela
nell’orientare la scelta dell’impresa principale al momento dell’elezione del partner commerciale.
135
Romei, 2016, 516.
136
De Luca Tamajo, 2007, 16; Carinci M.T., 2008, 14 e 118.
137
Speziale, 2010, 21 – 25.
138
Artt. 1676 c.c., 2112, co. 6, cc., 29, co. 2, d,lgs. n. 276/2003, 35, co. 28, d.lgs. n. 223/2006 e 26, co. 4,
d.lgs. n. 81/2008.
139
Corazza, 2009, 104.
25
attiva e passiva in capo ai due datori di lavoro, ben conosciuta nel diritto civile e
confermata dalla stessa giurisprudenza nei pochi casi in cui si è occupata del problema
di più datori nel medesimo rapporto. Non è, viceversa, possibile parlare di obbligazioni
alternative o facoltative, che presuppongono sempre una possibilità di scelta tra
prestazioni diverse, che, nel nostro caso, non sussiste. (…) I codatori di lavoro sono
responsabili delle obbligazioni nascenti dal rapporto (ad esempio la retribuzione o
l’obbligo di sicurezza). In base ai principi in tema di solidarietà, il lavoratore potrà
pretendere le intere prestazioni nei confronti di ciascun debitore, che, dopo aver
adempiuto, potrà rivalersi nei confronti dell’altro. Il vincolo solidale nasce
direttamente dall’art. 1294 c.c. e non richiede alcuna espressa manifestazione di
volontà perché vi è un'unica fonte delle obbligazioni»140.
La solidarietà prevista dal codice può determinare un'estensione delle responsabilità. Ad
esempio, mentre l'art. 29, d.lgs. n. 276/2003, prevede la solidarietà solo per «i
trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti» (anche premi Inail), se vi è la
codatorialità l’impresa principale risponderà anche del risarcimento di tutti i possibili
danni subiti dal lavoratore. Inoltre, il debito di sicurezza del committente, sempre
nell'ipotesi di codatorialità, è quello generale che deriva dall'art. 2087 c.c. e dalle
disposizioni speciali in materia che riguardano il datore di lavoro e non quello previsto
dall'art. 26, d.lgs. n. 81/2008. Nel caso di previsione normativa espressa in materia di
responsabilità solidale, come nel caso della somministrazione, sarà applicabile solo
quella141.
Quindi, i sostenitori della codatorialità preferiscono quest’ultima alla responsabilità
solidale in ragione della portata della tutela, che è generalizzata nella codatorialità e
limitata nella responsabilità solidale, con riferimento sia alle posizioni tutelate sia alle
fattispecie negoziali per le quali essa è prevista.
A questo riguardo la dottrina è divisa; secondo alcuni anche la responsabilità solidale, a
prescindere dalla codatorialità, ha una portata generale in quanto la legge richiederebbe
che i processi di esternalizzazione e disintegrazione verticale dell’impresa comportino
l’obbligo di quest’ultima di rispondere delle eventuali distorsioni che queste modalità di
organizzazione e di produzione comportano. Tutte le imprese così coinvolte saranno
responsabilizzate rispetto ai crediti dei lavoratori attinti da esternalizzazione in
considerazione del fatto che i contratti commerciali tra imprese determinano modalità
organizzative e di produzione che concretamente incidono sui rapporti di lavoro di chi
concorre con il proprio lavoro alla realizzazione dei contratti commerciali posti in
essere. In quest’ottica, il collegamento contrattuale fra contratto commerciale e contratto
di lavoro costituirebbe una forma di “contatto sociale qualificato”. Pur in assenza di
contratti che leghino i dipendenti dell’appaltatore al committente, appare innegabile che
tra questi sussista un contatto sociale che consiste nella partecipazione alla medesima
operazione economica. Analoga riflessione viene svolta per il trasferimento
d’azienda142.
Di avviso contrario sono quelli che qualificano la responsabilità solidale come tecnica
di tutela non generalizzabile, in quanto rinviene la propria fonte in specifiche, anche se
sempre più diffuse, norme di legge143.
L’ordinamento non reprime ma reagisce al fenomeno, apprestando protezione alle
imprese decentrate e ai loro dipendenti (infra), così riconoscendo i poteri di fatto del
soggetto che governa l’integrazione contrattuale. Si tratta di un’azione dall’esterno del
contratto, imponendo una regola di proporzionalità tra intensità dei poteri esercitati
dall’impresa principale e oneri su di essa incombenti, con un rapporto direttamente
140
Speziale, 2010, 77-79; Pilati, 2015, 150.
Speziale, 2010, 79-80.
142
Venturi, 2010, 847.
143
Così Romei, 2016, 517; in senso adesivo Maio, 2016, 795, che assumendo la responsabilità solidale
come meccanismo sanzionatorio, esclude che si possa sanzionare ciò che la legge ammette con l’art. 30,
co. 4-ter, d.lgs. n. 276/2003.
141
26
proporzionale. L’art. 29, co. 2, d.lgs. n. 276/2003, norma apparentemente generale,
contiene in sé il germe della differenziazione, proprio in relazione all’interesse del
lavoratore ad agire nei confronti del committente che sarà assente nelle relazioni
contrattuali non caratterizzate da disparità di forza tra committente e appaltatore.
Viceversa, nelle relazioni rette da elementi gerarchici e di potere con la presenza di
piccoli subappaltatori, l’ordinamento consente di mobilitare il sistema della
responsabilità condivisa144.
Le due tesi innanzi sinteticamente richiamate vanno assoggettate a verifica, in quanto
ove la responsabilità solidale fosse ricollegabile a tutte le possibili forme di
decentramento e/o esternalizzazione, dandosi così fiato alla tesi dell’applicazione
generalizzata della responsabilità solidale, quest’ultima potrebbe assurgere al rango di
principio generale dell’ordinamento.
10.2. La responsabilità solidale nella normativa dell’Unione europea
In ambito UE la responsabilità solidale costituisce strumento contro eventuali effetti
distorsivi indotti dalle esternalizzazioni145. L’opzione dell’allargamento della base
debitoria attraverso l’imputazione delle obbligazioni derivanti dal contratto di lavoro ai
soggetti imprenditoriali, parti contrattuali nell’ambito di rapporti di subcontracting, è
considerata funzionale alla garanzia dell’adempimento in favore dei dipendenti del
subcontractor146. Tuttavia, non si coglierebbe lo spirito della normativa europea
laddove non si evidenziasse il “contrappeso” dalla stessa apprestato a garanzia della
libertà economica (che può legittimante estrinsecarsi anche in esternalizzazioni), ovvero
il cd. principio di proporzionalità, in forza del quale gli Stati membri devono prevedere
la possibilità per il committente di sottrarsi alla responsabilità mediante l’adempimento
di obblighi di diligenza147.
In tema, in base agli artt. 53, par. 1 e 62 del TFUE, è stata adottata la dir. 2014/67/UE
concernente l’applicazione della dir. 96/71/CE148 relativa al distacco dei lavoratori
nell’ambito di una prestazione di servizi e recante modifica del regolamento (UE) n.
1024/2012 relativo alla cooperazione amministrativa attraverso il sistema di
informazione del mercato interno (“Regolamento IMI”), il cui art. 12 disciplina la
«Responsabilità di subcontratto»149. La responsabilità solidale, salvo che per il settore
edile150, è configurata come una facoltà («possono») nei casi di subcontratto a catena151.
144
Ferruggia, 2013, 818-820.
Cfr. CGUE 12 ottobre 2004, causa C-60/03, Wolff-Muller c. Pereira Felix, in https://curia.europa.eu.
146
Cfr. Risoluzioni del Parlamento europeo 11 luglio 2007 e 26 marzo 2009. In argomento v. Nicolosi,
2012, 35.
147
Cfr. CGUE 9 novembre 2006, causa C- 433/04, Commissione c. Regno del Belgio, in curia.europa.eu.
148
Direttiva relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi, attuata in Italia
con l’emanazione del d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 72, abrogato dal d.lgs. 17 luglio 2016, n. 136, emanato in
attuazione della successiva dir. 2014/67/UE.
149
Subcontract si traduce “subappalto”: cfr. Picchi F., 2006.
150
La normativa in esame prevede, con disposizione precettiva, che nell’esecuzione di contratti di servizi
nel settore edile (art. 12, paragrafo 2), gli Stati membri emanino misure atte a garantire che, in caso di
subcontratti a catena, il contraente diretto del datore di lavoro prestatore di servizi che distacca i propri
lavoratori, sia solidalmente responsabile – in aggiunta o in luogo del datore di lavoro - per le «eventuali
retribuzioni nette arretrate corrispondenti alle tariffe minime salariali e/o contributive dovute a fondi o
istituzioni comuni» (cfr. art. 12, paragrafo 1, cit.).
151
Il paragrafo 1 dell’art. 12 prevede per gli Stati, previa consultazione delle parti sociali, la facoltà
(«possono») di adottare misure addizionali, in modo non discriminatorio e proporzionato, atte a garantire
che, nei casi di subcontratto a catena, «il contraente di cui il datore di lavoro (prestatore di servizi)
rientrante nell'art. 1, par. 3, della direttiva 96/71 sia un subcontraente diretto (…), in aggiunta o in luogo
del datore», possa essere tenuto responsabile dal lavoratore distaccato riguardo a eventuali retribuzioni
nette arretrate corrispondenti alle «tariffe minime salariali» ed alla contribuzione «a fondi o istituzioni
comuni delle parti sociali», purché l’obbligo attenga alle condizioni di lavoro e occupazione disciplinati
145
27
Dalla lettura della normativa viene subito in rilievo che la disciplina comunitaria non
ritiene necessario prevedere una tutela in favore dei lavoratori nell’ipotesi di
insussistenza della “catena”, ovvero a fronte della stipulazione di un solo subcontratto,
salva la possibilità di deroga consentita agli Stati membri (art. 12, par. 4).
Nel settore edile (contraddistinto dalle attività elencate nell’allegato alla dir. 96/71/CE),
la dir. 2014/67/UE configura, viceversa, un vero e proprio obbligo in capo agli Stati in
quanto tenuti a garantire i crediti dei lavoratori attraverso il vincolo solidale gravante sul
committente ove contraente diretto. Per inciso, in ambito edile, alla luce delle
specificazioni dettate nell’allegato alla dir. 96/71/CE, la responsabilità solidale, pur
presupponendo la sussistenza di una catena subnegoziale, si estende a figure ulteriori
rispetto all’appalto, quali il nolo a caldo, la fornitura e posa, la subvezione152.
Le legislazioni degli Stati membri possono, tuttavia, introdurre forme di esonero dalla
richiamata responsabilità, prevedendo l’assunzione e l’adempimento di obblighi di
diligenza (art. 12, paragrafo 5). Ai sensi della citata normativa, infatti, gli «Stati
possono, nei casi di cui ai paragrafi 1, 2 e 4, prevedere che il contraente, che abbia
assunto gli obblighi di diligenza definiti dal diritto nazionale, non sia responsabile». La
norma deve essere letta alla luce del considerando n. 37 della direttiva, ai sensi del quale
gli Stati possono garantire al contraente l’esonero da responsabilità in caso in cui questi
abbia «adottato misure di dovuta diligenza (…) che possono comprendere (…) misure
(…) in merito alla documentazione comprovante il rispetto degli obblighi
amministrativi e delle misure di controllo necessarie per assicurare l’effettiva vigilanza
sul rispetto delle norme applicabili».
Come già rilevato, la direttiva pare fare applicazione dei principi giurisprudenziali
fissati dalla Corte di Giustizia UE in tema di libertà economica in base ai quali
meccanismi di attribuzione automatica e inderogabile di responsabilità in capo al
committente (ove non sia disciplinata la possibilità per il committente stesso di
sottrarvisi) possono integrare una “sproporzionata” compressione della libertà
economica dello stesso153.
Sul punto v’è da ricordare, tuttavia, che la dir. 2014/67/UE, ai sensi dell’art. 12, par. 4,
offre agli Stati membri la facoltà, purché nel rispetto dei principi di non discriminazione
e proporzionalità, di prevedere regimi di solidarietà “più rigorosi”, anche in settori
ulteriori rispetto a quello edile (… in settori diversi da quelli di cui all’allegato della
direttiva 96/71/CE).
La discrezionalità affidata agli Stati membri nella regolamentazione della materia
potrebbe essere comunque oggetto del vaglio dei giudici europei, nel caso in cui, nel
recepire la dir. 2014/67/UE, i primi abbiano adottato (o confermino) regimi di
solidarietà troppo “gravosi” per il committente, come tali lesivi del principio di
proporzionalità. Quest’ultimo chiarisce perché la direttiva configuri la responsabilità
solidale solo in capo al «contraente di cui il datore di lavoro è un subcontraente
diretto», nonostante l’esplicito riferimento ai «casi di subcontratto a catena».
In estrema sintesi, la normativa europea in tema di responsabilità in materia di appalto si
connota per un regime che cerca di coniugare in nome del principio di proporzionalità le
esigenze dell’impresa con la tutela dei lavoratori. Quindi, da un lato, è esclusa
l’estensione della responsabilità del committente all’intera catena di subappalto, fermo
restando la derogabilità da parte degli Stati membri (art. 12, par. 4); dall’altro lato, nei
rapporti di subcontraenza diretta, la responsabilità solidale può essere sostituita con
«altre misure esecutive appropriate», purché sanzionino in maniera «efficace e
proporzionata» il contraente in caso di frodi ed abusi nei confronti dei lavoratori
dalle fonti nazionali in relazione alle materie ed istituti fissati dall’art. 3, par. 1, dir. 96/71/CE. Agli Stati è
già riconosciuta la facoltà di prevedere il vincolo della solidarietà in caso di appalti transnazionali, in virtù
dei generali principi del mercato interno come interpretati dalla CGUE 12 ottobre 2004, causa C-60/03,
Wolff-Müller, cit.
152
In tal senso, Carosielli, 2014.
153
CGUE 9 novembre 2006, causa C-433/04, Commissione c. Regno del Belgio.
28
distaccati154. Sull’applicazione della normativa citata è chiamata a vigilare la
Commissione UE (cfr. art, 12, par. 7).
A completamento del quadro normativo sovranazionale va menzionata, altresì, la dir.
2009/52/CE, emanata in materia di sanzioni e provvedimenti a carico dei datori di
lavoro occupanti cittadini di Paesi terzi, il cui soggiorno sia irregolare. Tale direttiva è
stata recepita dall’Italia con il d.lgs. n. 109/2012 al fine di rafforzare la normativa atta a
disincentivare l’utilizzo non regolamentato di manodopera extracomunitaria, con la
previsione della responsabilità solidale dell’appaltante di cui il datore di lavoro è
subappaltatore diretto, per le sanzioni finanziarie e gli arretrati retributivi, con
potenziale coinvolgimento di tutti i soggetti della filiera negoziale in caso di loro
conoscenza/conoscibilità dell’irregolare soggiorno del lavoratore occupato, salvo che
non abbiano serbato la diligente condotta stabilita e richiesta dal legislatore nazionale155.
A fronte di tale quadro normativo europeo, si passa a verificare quale modello di
responsabilità contrattuale ha adottato il nostro ordinamento, e nello specifico se, a
fronte di un criterio selettivo tipologico, possa ipotizzarsi la vigenza di un principio di
carattere generale in tema di responsabilità solidale negli appalti156.
10.3. (segue) … e nell’ordinamento interno
Come rilevato da Romei tale tecnica di tutela sta avendo una diffusione crescente e, se
non prevista dalla legge, viene riconosciuta dalla giurisprudenza.
Le ipotesi legali riguardano: la somministrazione (art. 35, co. 1, d.lgs. n. 81/2015;
l’appalto e il subappalto (art. 29, co. 2, d.lgs. n. 276/2003)157; il contratto di trasporto
(art. 83-bis, co. 4-bis - 4-sexies, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv., con modificazioni, in
l. 6 agosto 2008, n. 133 e novellato dalla l. n. 190/2014); la cessione di ramo d’azienda
con contestuale contratto di appalto (art. 2112, co. 6, c.c.); la codatorialità (art. 30, co. 4ter, d.lgs. n. 276/2003); i gruppi di impresa (art. 31, co. 3-bis e 3-quinquies, d.lgs. n.
276/2003); le reti di impresa (art. 31, co. 3-ter e 3-quinquies, d.lgs. n. 276/2003)158; il
distacco transnazionale (art. 4, co. 4 e 5, d.lgs. n. 136/2016).
Un’ipotesi ulteriore di responsabilità solidale, letteralmente circoscritta ad appalti e
subappalti, è quella prevista in materia di risarcimento dei danni, in favore del
lavoratore dipendente dall'appaltatore o dal subappaltatore, ove non risulti indennizzato
ad opera dell’INAIL o dell’IPSEMA. Detta responsabilità è esclusa per i danni
154
Tale disposizione sembra indicare che la “sanzionabilità” del committente debba essere connessa ad un
comportamento colposo o doloso dello stesso; in una parola, ad una responsabilità del contraente a monte
della catena, nel verificarsi dell’inadempimento degli obblighi dettati dalla normativa giuslavoristica,
perpetrato in danno dei dipendenti del subcontractor. Così Carosielli, 2015a.
155
Per ulteriori approfondimenti si veda Carosielli, 2015b.
156
In questo senso v’è chi ritiene che l’art. 12, § 4, dir. 2014/67/UE, riconosca agli Stati membri la
possibilità di prevedere la responsabilità solidale lungo l’intera filiera degli appalti «in settori diversi da
quelli di cui all’allegato della direttiva 96/71/CE», nella sostanza facendo assurgere l’istituto a
meccanismo regolatore privilegiato dei fenomeni di outsourcing latamente intesi (Carosielli, 2015a).
157
Cester, 2008; Izzi, 2014.
158
L’operatività della responsabilità solidale anche in relazione al fenomeno delle reti di impresa è
desunta da Perulli (2014, 473-474) da una assimilazione tra il contratto di rete e il negozio di affidamento
tra consorzio e consorziati, in relazione al quale la giurisprudenza ha esteso il sistema della responsabilità
solidale previsto per gli appalti. In questa ipotesi, il negozio di affidamento tra consorzio e consorziati è
stato qualificato come fenomeno di sub-derivazione dal negozio di appalto e in definitiva di subappalto.
Secondo Perulli, tale scelta giurisprudenziale può essere applicato anche allo schema della rete di
impresa, estendendo in tal modo la responsabilità solidale, così responsabilizzando le imprese retiste
rispetto ai crediti dei lavoratori coinvolti, pur se non si tratta di una soluzione di carattere generale, ma
verificata in base alla tipologia di rete (gerarchica o paritetica), nonché alle concrete modalità di impiego
del fattore lavoro.
29
conseguenti ai rischi specifici propri dell'attività delle imprese appaltatrici o
subappaltatrici159.
Le ipotesi di estensione giurisprudenziale afferiscono ai rapporti riconducibili, nei
gruppi di impresa, all’unico centro di imputazione (c.d. UCI), nonché al contratto di
subfornitura.
Un’ulteriore problematica riguarda il contratto di trasporto in quanto, pur essendo stata
introdotta da ultimo una responsabilità solidale anche per tale fattispecie contrattuale (v.
art. 83-bis, cit. supra), questa, come tecnica di tutela, si presenta attenuata rispetto a
quella prevista per l’appalto e il subappalto, per cui rimane tutt’ora attuale il dibattito
circa la assimilabilità del contratto di trasporto a quello di appalto (v. infra), onde
invocare il più favorevole regime rimediale previsto per quest’ultimo.
Appare evidente come la tecnica di tutela qui esaminata copra tutte le forme di
dissociazione tra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione, anche indiretta, della
prestazione lavorativa.
10.4. Le alternative alla responsabilità solidale
Trasferendoci dal piano della estensione della responsabilità solidale (regola) a quello
della esclusione della stessa (eccezione), sono prospettabili, come alternativa alla
responsabilità solidale, ben cinque ipotesi.
La prima è quella dell’esonero ad opera dell’autonomia collettiva, prevista dall’art. 29,
co. 2, d.lgs. n. 276/2003 e dall’art. 8, co. 2, lett. c), d.l. n. 138/2011, conv. in l. n.
148/2011. Com’è noto, il d.l. n. 25/2017, conv. in l. n. 49/2017160, onde evitare il
referendum abrogativo della prima disposizione richiamata, dichiarato ammissibile dalla
Corte costituzionale161, ha espunto dal testo dell’art. 29, co. 2, sia la previsione relativa
alla preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore sia quella della non
operatività della responsabilità solidale ove i contratti collettivi nazionali sottoscritti da
associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative
del settore individuino metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità
complessiva degli appalti162.
La soppressione del primo periodo dell’art. 29, co. 2, d.lgs. n. 276/2003 potrebbe
contribuire a rinvigorire la mai decollata facoltà di deroga alla predetta disposizione
prevista dall’art. 8, co. 2 lett. b), d.l. n. 138/2011, conv. in l. n. 148/2011 che, tuttavia,
per un verso, resta sottoposta a vincoli funzionali in ragione della circostanza che le
intese raggiunte a livello aziendale o territoriale devono essere finalizzate agli specifici
obiettivi indicati nel co. 1 del citato art. 8163 e, per altro verso, fa riemergere i dubbi e le
criticità prospettate dalla dottrina all’indomani della introduzione del meccanismo
derogatorio in discorso164.
Salvo un ulteriore intervento legislativo volto a ripristinare la disposizione testé
abrogata non può non destare perplessità l’aver voluto eliminare una norma derogatoria
affidata alla contrattazione collettiva nazionale, lasciando in vita quella affidata alla
contrattazione di prossimità, sia pure nei limiti e alle condizioni ivi previste.
159
Riccobono, 2012, 993, che auspica de iure condendo l’estensione anche della responsabilità solidale
prevista per i soli lavoratori impiegati in appalto dall’art. 26, co. 4, d.lgs. n. 81/2008.
160
V. l’art. 2, co. 1, lett. a), e b), d.l. 17 marzo 2017, n. 25.
161
Corte cost. 21 gennaio 2017, n. 27.
162
Apprezzava tale meccanismo esonerativo Tursi, 2015, 123. Qualche cenno in Lozito, 2016, 134-140.
163
Cfr., in tal senso, Mutarelli, 2013, 725. Uno dei rari esempi di ricorso alla derogabilità prevista dall’art.
2, d.l. n. 138/2011 al regime legale di responsabilità solidale, è costituito dall’accordo aziendale del 27
marzo 2015 con il quale la Oropan s.p.a. (assistita da chi scrive), in qualità di committente, si è impegnata
ad assumere, con contratti di lavoro a tempo indeterminato, i dipendenti della cooperativa che eseguiva in
appalto la produzione, ricevendo, come contropartita l’esonero dal vincolo di solidarietà. V. in proposito,
Garilli 2012; Izzi, 2016, 824, nt. 30.
164
In tema, v. amplius, Albi, 2012, 1638 ss. V. altresì Scarpelli, 2012, 1440-1441.
30
La seconda ipotesi è riconducibile al meccanismo previsto dall’art. 83-bis, co. 4-bis, d.l.
n. 112/2008, conv. in l. n. 133/2008, come novellato dalla l. n. 190/2014, che prevede
l’esonero dalla responsabilità solidale in presenza della verifica preliminare da parte del
committente della regolarità del vettore e del subvettore in ordine agli adempimenti
degli obblighi fiscali, retributivi, contributivi e assicurativi.
La terza ipotesi è quella che potrebbe essere prevista dal contratto di rete165. Con
riferimento a quest’ultimo, pur escludendo l’operatività automatica tra tutti i
partecipanti al contratto di rete166, al quale occorre far riferimento, Treu ritiene che con
la codatorialità si instaura volontariamente un regime di solidarietà tra i codatori, come
conseguenza fisiologica dell’istituto167. Si discute se il contratto di rete possa derogare
al regime di responsabilità solidale, prevalendo la risposta negativa, non potendosi
consentire una responsabilità solidale affidata alla autonomia delle imprese retiste, in
quanto si legittimerebbe il contratto di rete a introdurre una eccezione persino più ampia
di quella prefigurata dall’art. 8, d.l. n. 138/2011, cit.168. Si aggiunge che «accordi volti a
limitare o escludere la responsabilità solidale per alcuni dei codatori possono avere
effetti solo nei rapporti interni tra i codatori stessi, ma non possono essere opposti al
lavoratore. Una volta riconosciuta, cioè, la qualità di datore di lavoro a tutti i retisti,
non sembra possibile escludere alcuni degli effetti, come per l’appunto la
responsabilità per i diritti derivanti dal rapporto di lavoro»169.
Secondo altri la codatorialità ha un’efficacia derogatoria rispetto al consueto regime di
responsabilità solidale, ma subordinatamente all’accettazione delle regole di ingaggio da
parte dei lavoratori retisti, da formalizzarsi attraverso il rinvio nel contratto
individuale170; a tale lettura si obietta che la norma non prevede l’accettazione, ma ove
fosse ammissibile, la stessa andrebbe estrinsecata in sede assistita171.
La quarta ipotesi attinge non al meccanismo esonerativo, bensì alla manleva tramite il
fondo patrimoniale comune172 o un apposito patrimonio destinato173 per garantire
l’adempimento delle obbligazioni solidali, ex art. 29, co. 2, d.lgs. n. 276/2003174.
La quinta ed ultima ipotesi, de iure condendo, potrebbe essere quella di un esonero
condizionato, ove la contrattazione collettiva istituisca forme alternative assicurativo –
165
Tursi, 2015, 125.
V. circ. Min. lav. n. 35/2013.
167
Treu, 2015, 19-23; secondo Perulli (2014, 473 ss.) il principio giurisprudenziale di estendere il sistema
della responsabilità solidale prevista per gli appalti e subappalti anche all’ipotesi in cui l’appaltatore sia
un consorzio che ha affidato l’esecuzione del contratto ad impresa consorziata, potrebbe essere esteso alle
reti di impresa, in ragione di una assimilazione dal punto di vista funzionale.
168
Razzolini, 2014a. Adesivamente Perulli (2014, 502), secondo cui «se il legislatore ha statuito l’effetto
inderogabile di responsabilità congiunta nella fattispecie di codatorialità derivante dall’assunzione di
lavoratori effettuata da imprese legate mediante un contratto di rete, non si capisce perchè si dovrebbe
ritenere che nell’ipotesi analoga in cui i lavoratori vengano “ingaggiati con le regole stabilite attraverso
il contratto di rete stesso”, tale effetto legale tipico di datorialità possa venire eliminato dall’autonomia
privata».
169
Alessi, 2015, 103.
170
Biasi, 2014.
171
Maio, 2016, 796, nota 32.
172
V. l’art. 3, co. 4-quater, d.l. n. 5/2009, cit.; ai sensi del n. 2 del co. 4-ter al fondo patrimoniale comune
si applicano in quanto compatibili gli artt. 2614 e 2615, co. 2, c.c.; in ogni caso, per le obbligazioni
contratte dall’organo comune in relazione al programma di rete, i terzi possono far valere i propri diritti
esclusivamente sul fondo comune. Per un commento critico a tale disposizione v. Bredariol, 2015, 86 ss.,
nonchè Cafaggi, Iamiceli, Mosco, 2012, 491. Secondo Di Salvatore (2015, 254-255), «la costituzione di
un fondo patrimoniale ad hoc sembra escludere la responsabilità personale e solidale degli imprenditori
aderenti alla rete».
173
V. l’art. 2247-bis, co. 1, lett. a) c.c.
174
Tursi, 2015, 125, che parla di neutralizzazione degli effetti della responsabilità solidale per le
obbligazioni derivanti dai contratti di lavoro in regime di codatorialità.
166
31
mutualistiche che garantiscano lo stesso tipo di tutela e fermo restando in ogni caso che,
ove tali strumenti di garanzia si rivelino inefficaci, resta salva la possibilità per il
lavoratore di azionare il meccanismo della responsabilità solidale175.
10.5. Responsabilità solidale e termini decadenziali
Un profilo critico della disciplina della responsabilità solidale, stranamente passato sotto
silenzio nella riflessione sul tema, afferisce al termine decadenziale previsto dall’art. 29,
co. 2, d.lgs. n. 276/2003, in due anni dalla cessazione dell’appalto, ridotto ad un anno
per il contratto di trasporto, entro cui il lavoratore può avvalersene; viceversa, nessun
limite temporale è previsto per la somministrazione e la codatorialità, ex art. 31, co. 3quinquies, d.lgs. n. 276/2003.
Pur comprendendo le ragioni sottostanti all’apposizione del termine decadenziale, con
tutta evidenzia individuabili nella tutela dell’“affidamento” da parte di appaltante e
committente, nella realtà la diversificazione tra il termine decadenziale per invocare la
responsabilità solidale e quello di prescrizione dei diritti del lavoratore produce un
doppio effetto negativo, soprattutto nel caso, più che frequente, del cambio di appalto.
Il primo effetto negativo si riverbera in capo ai prestatori di lavoro che non solo si
vedono di fatto restringere il termine prescrizionale da 5 a 2 anni, onde farlo coincidere
con quello decadenziale della responsabilità solidale, ma sovente non esercitano
l’azione di responsabilità solidale nel termine breve fissato dalla legge in quanto,
essendo utilizzati dall’impresa subentrante nello stesso appalto, subiscono il metus
dell’appaltante. Si tratta in sostanza di applicare alla responsabilità solidale negli appalti
o nel trasporto lo stesso principio enunciato dalla nota sentenza della Corte
costituzionale n. 63/1966, in materia di decorrenza della prescrizione. A ben guardare il
secondo effetto negativo si riverbera anche in capo all’impresa appaltatrice
(economicamente debole), che, a fronte di un termine prescrizionale quinquennale a
tutela dei crediti dei propri dipendenti (ma nel cambio di appalto ex dipendenti), vede
chiudersi l’ombrello della responsabilità solidale anni prima di quanto spiri il termine
prescrizionale, con l’effetto (che sovente si verifica nella realtà) che gli ex dipendenti
attendano il decorso del termine decadenziale prima di agire nei confronti del proprio ex
datore di lavoro, onde tenere indenne l’appaltante. Ciò spiega il perché, sempre nella
prassi, al momento del cambio di appalto si chieda al dipendente una rinuncia a pretese
pregresse anche non in sede protetta, confidando nello spirare del termine di
impugnativa semestrale, ex art. 2113 c.c., prima che spiri quello decadenziale per la
responsabilità solidale. La rinuncia intanto viene sottoscritta dai lavoratori se v’è
“l’assenso” dell’appaltante, onde scongiurare il rischio che il lavoratore cessato per
qualunque ragione dal rapporto col nuovo appaltatore entro i due anni possa avvalersi
della responsabilità solidale.
Alla luce di tali considerazioni forse è arrivato il momento di agganciare il termine per
l’esercizio dell’azione per far valere la responsabilità solidale a quello prescrizionale,
facendo retrocedere le ragioni dell’“affidamento” a favore di quelle della tutela dei
soggetti economicamente deboli, come già accade nel caso della somministrazione, così
escludendosi una violazione del canone UE della proporzionalità.
10.6. La responsabilità solidale come regola e non come eccezione
Alla luce del ragionamento sin qui svolto è possibile sostenere che la frontiera della
responsabilità solidale è decisamente mobile176, e, allo stato, salvo a mettere in
175
V. l’art. 90, co. 4 e 5, Carta dei diritti universali del lavoro. Va precisato che, secondo la Carta, la
gestione delle forme assicurative sarebbe affidata al Fondo di garanzia di cui al d.lgs. n. 297/1982.
176
Carosielli, 2017.
32
discussione le ipotesi di estensione giurisprudenziale177, ha un ambito di applicazione
generalizzato, sia pure con differenze tra un’ipotesi e l’altra in ordine
all’assoggettamento o meno ad un termine decadenziale di vigenza e alla durata dello
stesso termine. Si è parlato di un «sistema a geometria variabile nel tempo e nello
spazio»178.
Il nodo da sciogliere sta nella qualificazione di tale tutela, e cioè se costituisce una
eccezione alla regola che delle obbligazioni retributiva e contributiva risponde solo il
datore di lavoro, ovvero sia divenuta regola tutte le volte in cui della prestazione
lavorativa si avvantaggi un soggetto diverso dal datore di lavoro, per la realizzazione del
proprio fine produttivo, a prescindere dalla localizzazione intra o extra moenia della
prestazione.
Può allora rispondersi affermativamente all’interrogativo prima posto nel senso che la
responsabilità solidale è divenuta oramai un principio immanente nell’ordinamento
lavoristico al pari del divieto di interposizione, operante tutte le volte in cui non ricorra
quest’ultimo fenomeno179; sarebbe, quindi, il rovescio della medaglia
dell’interposizione nel senso che in qualsiasi fenomeno di decentramento opererebbe
nelle manifestazioni fisiologiche la responsabilità solidale ed in quelle patologiche
l’interposizione vietata.
11. La tutela nel cambio di appalto
Al fenomeno del cambio di appalto il legislatore ha dedicato a distanza di poco tempo
due disposizioni; si allude agli artt. 29, co. 3, d.lgs. n. 276/2003 e 7, co. 4-bis, d.l. n.
248/2007, conv. in l. n. 31/2008, i quali si (pre)occupano rispettivamente
dell’appaltatore entrante, escluso dal regime dell’art. 2112 c.c., e di quello uscente, cui
non si applica la disciplina dei licenziamenti collettivi. Si tratta, quindi, di due norme
esonerative. In sintesi, nel caso di cambio di appalto in uscita non v’è licenziamento
collettivo e in entrata non v’è trasferimento di ramo d’azienda; in mezzo v’è un
licenziamento individuale plurimo per g.m.o. da parte dell’uscente e una coeva
assunzione ex novo da parte del subentrante: chi si occupa abitualmente di cambi di
appalto ben conosce i problemi conseguenti a questo farraginoso meccanismo
“mirabilmente” ideato dal legislatore, nel quale l’impresa uscente e quella entrante
abitualmente assumono le sembianze dei due capponi nelle mani di Renzo (alias, il
committente).
Di taglio concessivo all’impresa è la norma del 2015 che accorda l’esonero contributivo
al datore di lavoro che subentra in un appalto di servizi e assume, ancorché in attuazione
di un obbligo preesistente stabilito da norme di legge o di contrattazione collettiva, un
lavoratore per il quale il datore di lavoro cessante fruisce di detto esonero, ovviamente
nei limiti della durata e della misura che residua180.
Della tutela del lavoratore coinvolto nel cambio di appalto, in funzione di garanzia
dell’anzianità maturata nell’attività appaltata, si è occupato nel 2015 il Jobs Act,
equiparandola a quella aziendale, per tutelare il lavoratore nel caso di
177
Mollo, 2015, 113 ss., secondo il quale se il rinvio operato dall’art. 29, co. 1, d.lgs. n. 276/2003 all’art.
1655 c.c. assolve alla funzione di definire, delimitandolo, il perimetro applicativo della disciplina del
titolo III della legge Biagi è arduo oltrepassare il dato letterale senza violare le regole basilari dell’attività
ermeneutica.
178
Costa, 2016.
179
Dello stesso avviso è Riccobono, 2012, 993, sia pure de iure condendo. Sui vantaggi derivanti
dall’applicazione generalizzata del principio di responsabilità solidale v. Corazza, 2009, 20.
180
V. l’art. 1, co. 181, l. n. 208/2015, che accorda per le nuove assunzioni uno sgravio biennale pari al
40% dei contributi obbligatori.
33
sospensione/riduzione dell’attività181, ovvero nel caso di licenziamento illegittimo per il
calcolo delle indennità risarcitorie nel contratto a tutele crescenti182. In entrambi i casi,
nel silenzio delle norme, la tutela opera a prescindere dalla fonte (legge, contratto
collettivo o clausola di bando di gara) in forza della quale è avvenuta l’assunzione.
La ratio di tali interventi legislativi è rinvenibile, a mio parere, nell’incipit della norma
esonerativa del 2007, secondo cui nelle more della «completa attuazione» della
normativa in materia di tutela dei lavoratori impiegati in imprese che svolgano attività
di servizi in appalto, al fine di favorire la piena occupazione e di garantire l’invarianza
del trattamento economico complessivo dei lavoratori, il passaggio di questi ultimi dal
vecchio al nuovo appaltatore non comporta l’applicazione della disciplina sui
licenziamenti collettivi, a condizione che il passaggio sia avvenuto a parità di condizioni
economiche e normative previste dai CCNL o a seguito di accordi collettivi, sottoscritti
dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.
Tale disposizione fa chiaramente riferimento al fenomeno del cambio di appalto,
essendole totalmente estraneo il diverso fenomeno della genuinità dell’appalto, che anzi
viene presupposta.
La “completa attuazione” deve, quindi, essere intesa come implementazione delle
tecniche di tutela già previste dall’ordinamento in favore dei lavoratori coinvolti nei
fenomeni di esternalizzazione, ma che nel cambio di appalto sono assenti a livello
legislativo, ad eccezione delle due disposizione introdotte nel 2015 prima richiamate.
Si ha motivo di ritenere, per converso, che la piena tutela di questa categoria di
lavoratori sia già normata dovendosi applicare l’art. 2112 c.c. che però l’art. 29, co. 3,
d.lgs. n. 276/2003 esclude operi nel cambio di appalto183. La tesi si regge su una lettura
di tale dispositivo alla luce della normativa in materia emanata successivamente, la cui
ratio è riconducibile al principio della continuità occupazionale, sia pure diversificando
la tecnica utilizzata, e cioè esonerativa dai vincoli tipici del licenziamento con
riferimento al datore di lavoro perdente appalto, e di garanzia dell’anzianità nell’attività
appaltata, con riferimento al lavoratore coinvolto nel cambio di appalto.
Partendo dal primo profilo, se non fosse garantita la continuità occupazionale dei
lavoratori, il datore di lavoro che perde l’appalto sarebbe obbligato innanzitutto al
rispetto della procedura prevista per i licenziamenti collettivi e per quelli individuali, a
seconda che si configuri l’una o l’altra fattispecie estintiva. In ogni caso, il datore di
lavoro sarebbe obbligato al pagamento del contributo di licenziamento184.
Viceversa, proprio in ragione della supposta continuità occupazionale, il legislatore ha
esonerato il datore perdente appalto da tali vincoli/oneri185.
Al riconoscimento dell’anzianità nell’attività appaltata in funzione di tutela del
lavoratore coinvolto nei cambi di appalto, provvedono le due disposizioni del Jobs Act
prima richiamate.
Di rilievo, ai nostri fini, è il rinvio della norma sulla CIG all’«attività appaltata», che
viene assimilata o equiparata all’«unità produttiva». Non potendo per ovvi motivi qui
riprodurre l’ampio dibattito sulla nozione di unità produttiva186, va preso atto che la
riflessione sull’attività svolta in appalto si è concentrata sulla cantieristica edile e
industriale, riconoscendosi l’esistenza dell’unità produttiva a condizione che vi sia
181
V. l’art. 1, co. 3, d.lgs. n. 148/2015, in relazione all’anzianità di effettivo lavoro presso l’unità
produttiva per l’intervento CIG.
182
V. l’art. 7, d.lgs. n. 23/2015.
183
Cester, 2014.
184
V. rispettivamente gli artt. 7, l. n. 604/1966, 4, l. n. 223/1991 e 2, co. 34, l. n. 92/2012.
185
Quanto alla non applicazione dell’art. 24, l. n. 223/1991, v. l’art. 7, co. 4-bis, d.l. n. 248/2007, cit.; per
la non applicazione dell’art. 7, l. n. 604/1966, nuovo testo, v. il co. 6 della stessa disposizione, come
modificato dall’art. 7, co. 4, d.l. n. 76/2013, cit.; ed infine, quanto all’esonero dal contributo v. l’art. 2, co.
43, l. n. 92/2012, come modificato dall’art. 1, co. 164, l. n. 232/2016, che ha reso definitivo l’esonero
prima limitato ad un triennio (2013-2015), prorogato al 2016.
186
Per un’efficace sintesi v. Ponte, 2015.
34
adibito, in via continuativa, un certo numero di lavoratori e che venga gestito un appalto
della durata di almeno un mese187.
Poiché il legislatore valorizza l’anzianità nell’attività appaltata, è sostenibile che
l’appalto si sia di fatto sovrapposto alla nozione di unità produttiva, tanto più che ai fini
della identificazione di quest’ultima si ritiene alternativo e non più concorrente il
requisito dell’autonomia finanziaria o tecnico funzionale188.
Tutti gli interventi legislativi innanzi citati stanno progressivamente estendendo ai
lavoratori coinvolti nei cambi di appalto le tutele accordate dall’art. 2112 c.c., la cui
diretta applicazione è stata esclusa nel 2003 con la discussa disposizione contenuta
nell’art. 29, co. 3, d.lgs. n. 276/2003, fortemente criticata per la non aderenza alla
normativa europea in materia di trasferimento d’azienda189.
Il fenomeno della cessione di ramo di azienda è stato ed è tuttora al centro di un
dibattito vivacizzato dal ripetuto intervento del legislatore e dall’atteggiamento della
giurisprudenza. Sintetizzando tale dibattitto, si discute se l’autonomia funzionale del
ramo d’azienda oggetto di cessione debba preesistere a quest’ultima (tesi retrospettiva),
ovvero possa essere valutato in relazione alla potenzialità di quanto ceduto a consentire
l’esercizio dell’attività d’impresa (tesi proiettiva). Il legislatore del 2003, sopprimendo
il termine «preesistente», ha mostrato di aderire alla seconda tesi, ma la giurisprudenza
ha continuato ad aderire alla prima tesi190.
Le censure alla disposizione sub art. 29, co. 3, personalmente condivise, trovano valido
fondamento nell’errata formulazione della norma che valorizza la «struttura
organizzativa e operativa» del nuovo appaltatore e non anche l’attività ed i lavoratori
acquisiti col subentro, che negli appalti labour intensive costituiscono “l’azienda”
oggetto di traslazione191.
Per come è scritta, detta norma appare orientata più verso lo pseudo-appalto che non a
disciplinare il diverso fenomeno del cambio-appalto.
Tale errata formulazione della norma crea una inammissibile diversificazione tra
aziende manifatturiere e terziarie, per cui ciò che è trasferimento nel settore della
produzione potrebbe non esserlo nel settore dei servizi.
Un tentativo adeguatore della norma in esame ai parametri comunitari192 si è avuto con
la legge comunitaria del 2016 che ha inserito due incisi nel corpo del co. 3, e cioè
«dotato di propria struttura organizzativa e operativa» (riferito al nuovo appaltatore) e
più oltre «ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica
identità d’impresa»193; anche tali modifiche fanno nuovamente ed erroneamente
riferimento all’appaltatore e non all’attività (azienda) acquisita tramite il cambio di
appalto. Probabilmente al legislatore non è chiara la nozione di ramo di azienda, oggetto
di traslazione; ed è altrettanto verosimile che il legislatore ignori la posizione in materia
187
V. circ. INPS 19 gennaio 2017, n. 9.
V. circ. INPS 19 gennaio 2017, n. 9, pt. 2.1; da ultimo v. msg. INPS 31 marzo 2017, n. 1444.
189
Vedi l’art. 1, n. 1), lett. b), dir. 01/23/CE. Per la giurisprudenza comunitaria in tema di ramo di azienda
vedi CGCE 18 marzo 1986, causa C-24/85, Spijkers; CGCE 9 dicembre 2004, causa C-460/02
Commissione vs Repubblica Italiana; CGCE 12 febbraio 2009, causa C-466/07 Klarenberg; CGUE 6
marzo 2014, causa C-458/12, Amatori; con riferimento specifico al cambio di appalto vedi CGCE 11
marzo 1997, causa C-13/95, Suzën. Cfr. Quadri, 2004, 99 ss.
190
Per un’efficace sintesi di tale dibattito, con una opzione per la tesi proiettiva, in quanto aderente al dato
normativo, come novellato nel 2003, v. Tosi, 2014b. V. anche Cester, 2014.
191
V. l’art. 50, d.lgs. n. 50/2016, sul quale si rinvia a Lamberti, 2016; per la cessione di ramo di azienda
dematerializzato v. Cass. nn. 21917/2013 e 17366/2016.
192
Va detto che la Commissione europea aveva aperto nei confronti dell’Italia una procedura di preinfrazione, sollevando dubbi circa la compatibilità dell’art. 29 col diritto dell’Unione Europea, e nello
specifico con la dir. 2001/23/CE, anche alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia, che ritiene
sufficiente per la configurabilità del trasferimento d’azienda il passaggio di un gruppo organizzato di
lavoratori impiegato nell’appalto.
193
V. l’art. 30, co. 1, l. 7 luglio 2016, n. 122.
188
35
della Corte di Cassazione, ribadita da due recenti pronunzie del 2016; nella prima (n.
9682/2016) si valorizza l’autonomia funzionale del ramo ceduto; nella seconda (n.
7121/2016) pronunziata proprio in un caso di ramo dematerializzato, si identifica
quest’ultimo nell’attività dei lavoratori quando essa risulti il bene aziendale prevalente.
Non si condivide pertanto la lettura delle modifiche apportate all’art. 29, co. 3, fondata
su tale orientamento del Supremo Collegio, sostenendosi che quest’ultima disposizione
leghi l’effetto successorio tipico dell’art. 2112 c.c. al fatto che l’appaltatore subentrante,
che abbia assunto la manodopera precedentemente impiegata, si limiti a proseguire
pedissequamente un servizio «senza disimpegno particolare della propria autonoma
organizzazione di impresa (…) e senza apporto di alcuna reale innovazione operativa
in termini strumentali e funzionali»194.
L’errore commesso dal legislatore ed avallato da tale interpretazione sta nel far
rimbalzare sul ramo oggetto di traslazione ciò che avviene dopo che quest’ultima è stata
realizzata, cioè le scelte organizzative e di innovazione che il cessionario possa per
ipotesi apportare al cespite acquisito dopo la sua cessione.
La norma era e rimane illegittima rispetto alla normativa UE nella misura in cui
aprioristicamente esclude ciò che secondo quest’ultima costituisce cessione di ramo
d’azienda. Al contempo è costituzionalmente illegittima perché dispone della fattispecie
legale (cessione d’azienda o ramo), al solo fine di agevolare i cambi di appalto, e cioè il
committente, per gratificarlo una seconda volta dopo avergli consentito
l’esternalizzazione.
Un’ulteriore conferma di quanto sin qui sostenuto promana da un’altra recente sentenza
della Corte di Cassazione, che ha ritenuto sussistente la fattispecie dell’art. 2112 c.c. nel
caso opposto al cambio di appalto, e cioè quello della reinternalizzazione dell’attività.
La Corte, richiamando l’elaborazione della CGUE arriva alla conclusione che nel
processo di reinternalizzazione è rinvenibile un’ipotesi di trasferimento d’azienda o di
ramo d’azienda, specie quando l’attività si fonda essenzialmente sulla manodopera195.
Come si vede la Corte di fatto ha disapplicato l’art. 29, co. 3, d.lgs. n. 276/2003.
A questo punto diventa singolare che la stessa attività, se retrocessa, configura il
trasferimento di ramo d’azienda, mentre se trasferita da un appaltatore ad un altro non lo
sia.
Peraltro, giova ricordare che l’inapplicabilità al cambio di appalto dell’art. 2112 c.c.
penalizza oltre ai lavoratori, anche l’impresa in scadenza di appalto, creando un effetto
distorsivo; quest’ultima, infatti, a differenza delle altre imprese che concorrono
all’aggiudicazione dell’appalto, sarà condizionata nell’offerta per il nuovo appalto dai
costi connessi all’anzianità dei propri dipendenti, con verosimile non aggiudicazione del
nuovo appalto.
Conclusivamente, non sembra che i profili di criticità che caratterizzano la disposizione
contenuta nell’art. 29, co. 3, cit., anche dopo la sua novellazione, possano ritenersi
superati.
Passando ora ad esaminare la tutela occupazionale dei lavoratori coinvolti nel cambio di
appalto, disciplinata nel settore pubblico dal codice degli appalti (si rinvia sul punto alla
relazione di Franca Borgogelli), in quelli privati essa è affidata alle previsioni della
contrattazione collettiva, che si limita a prevedere la conservazione del livello
occupazionale (ma non dei trattamenti economici e normativi), attraverso l’assunzione
ex novo da parte del datore di lavoro subentrante, sempre che non risultino modificate le
condizioni generali del contratto di appalto, in quanto in tale ipotesi non v’è alcun
obbligo, ma solo un confronto sindacale finalizzato a verificare in che misura può
garantirsi il posto di lavoro alle dipendenze del subentrante.
La gran parte dei CCNL prevede clausole specifiche dedicate alla regolazione della
cessazione di appalto e/o subentro di nuovo appaltatore, sebbene con livelli di dettaglio
e di tutela molto differenziati da settore a settore. È quasi superfluo rilevare che le
194
195
Esposito, 2016, 757.
V. Cass. 15 marzo 2017, n. 6770.
36
pattuizioni di fonte collettiva più significative -sotto il duplice profilo sia della
procedimentalizzazione dei processi di affidamento all’esterno e di gestione del
subentro di nuovo affidatario196, sia delle previsioni mirate alla tutela dei livelli
occupazionali- si rinvengono nei CCNL che regolano i rapporti di lavoro nei comparti
economico-produttivi maggiormente interessati dal fenomeno degli appalti.
In alcuni di questi si coglie bene la tensione sopra evidenziata in quelle clausole che, nel
regolare le operazioni di successione tra imprese appaltatrici, distinguono tra subentro a
parità di termini, modalità e prestazioni contrattuali [ipotesi nella quale il subentrante si
impegna a garantire l’assunzione di tutti i lavoratori occupati nell’esecuzione
dell’appalto con il predecessore (in genere l’obbligo opera per i dipendenti a tempo
indeterminato ovvero per quelli in possesso di una certa anzianità aziendale al momento
della cessazione del precedente contratto di appalto)] e subentro a condizioni differenti,
ipotesi in cui, invece, l’assunzione dei lavoratori dipendenti dell’appaltatore cessante
dovrà costituire oggetto di consultazione (ed eventuale accordo) al fine di preservare,
nel nuovo contesto tecnico-organizzativo, quanto più possibile, i livelli
occupazionali197.
Ebbene, alla luce della novellata formulazione dell’art. 29, co. 3 d.lgs. n. 276/2003, in
situazioni analoghe a quelle del primo tipo, specie se trattasi di servizi ad elevata (se
non esclusiva) incidenza del fattore lavoro, è ipotizzabile che sarà ben difficile, in
concreto, accertare la presenza di quegli «elementi di discontinuità che determinano una
specifica identità di impresa», con la conseguente applicabilità dell’art. 2112 c.c.
In alcuni casi l’autonomia collettiva giunge a stabilire, in caso di cambio di appalto o di
subentro, garanzie sostanzialmente analoghe a quelle stabilite dalla disposizione
codicistica da ultimo richiamata, prevedendosi la prosecuzione del rapporto di lavoro
con il nuovo appaltatore, senza soluzione di continuità e con salvaguardia delle
«condizioni economiche e normative individuali in godimento con riguardo ai
trattamenti fissi e continuativi e agli istituti legati all’anzianità di servizio»198. In altri
settori, gli obblighi di assunzione in caso di cambio di appalto sorgono solo al
raggiungimento di soglie numeriche di lavoratori coinvolti199 e, talvolta, sono limitati ad
una percentuale di quelli precedentemente occupati dall’appaltatore cessante200.
12. Decentramento e sostegno al reddito
Un profilo dei fenomeni di decentramento tendenzialmente poco esplorato è quello del
sostegno al reddito in favore dei lavoratori che in essi sono coinvolti.
I problemi riguardano essenzialmente il campo di applicazione degli ammortizzatori
sociali in costanza di rapporto di lavoro, recentemente riformati dal d.lgs. n. 148/2015.
196
V. l’art. 9-bis CCNL Metalmeccanica e installazione impianti Industria del 26 novembre 2016, che con
specifico riferimento alla cessazione di appalti pubblici di servizi, introduce incisivi obblighi di
informazione e consultazione sindacale.
197
V. in tal senso l’art. 4, CCNL 31 maggio 2011 Pulizia e servizi integrati multi servizi – Industria; l’art.
146, CCNL Metalmeccanica e installazione impianti PMI del 29 luglio 2016; l’art. 16, CCNL
Mobilità/area contrattuale – Attività ferroviarie del 16 dicembre 2016, parr. 2.3 e 2.4; l’art. 6, CCNL
Igiene ambientale aziende private del 6 dicembre 2016 e art. 6, CCNL Igiene ambientale aziende
municipalizzate del 6 dicembre 2016; l’art. 36 CCNL Autonoleggio e autorimesse, del 26 luglio 2016;
l’art. 53 CCNL Telecomunicazioni del 30 maggio 2016; l’art. 94, CCNL Agenzie di sicurezza sussidiaria
non armata – aziende di servizi del 16 aprile 2014; l’art. 43 CCNL Pulizia e servizi integrati multiservizi
– artigianato del 18 settembre 2014; l’art. 9 CCNL Istituzioni socioassistenziali –Fenascop, del 3 luglio
201; l’art 74 CCNL Istituzioni socioassistenziali – Uneba, del 8 maggio 2013.
198
V. l’art. 16, CCNL Mobilità/area contrattuale – Attività ferroviarie del 16 dicembre 2016, par. 2.3;
nonché l’art. 37 CCNL Trasporto a fune del 12 maggio 2016.
199
V. l’art. 18 CCNL Agenzie di sicurezza sussidiaria non armata del 22 dicembre 2014; l’art. 208 CCNL
Amministratori di condominio – aziende di servizi, del 28 gennaio 2016.
200
V. l’art. 208 CCNL Amministratori di condominio – aziende di servizi, del 28 gennaio 2016.
37
Il condizionamento che discende dal decentramento può riguardare o l’esclusione delle
imprese utilizzate in outsourcing dal campo di applicazione della cassa integrazione
guadagni (si pensi alla non fruibilità della CIGS da parte delle imprese del terziario),
oppure l’esclusione in ragione del numero dei dipendenti (si pensi alla non fruibilità
della CIGS da parte delle imprese industriali con meno di 16 dipendenti).
Di tale situazione si è reso conto il legislatore, ormai da più di trent’anni, estendendo la
fruizione della CIGS alle imprese tradizionalmente riconducibili al c.d. indotto della
grande impresa industriale, che operano in favore della stessa in appalto o in
subfornitura201.
L’intervento nel caso di appalti di mensa e di pulizia è in diretta connessione con la
contrazione dell’attività dell’impresa committente e in ogni caso è circoscritto alla
durata del contratto.
Nel caso di intervento a sostegno delle imprese artigiane con influsso gestionale
prevalente l’intervento, da un lato, deve essere in diretta connessione con la sospensione
o riduzione dell’attività dell’impresa che esercita detto influsso e, per altro verso, è
limitato al periodo in cui quest’ultima impresa faccia ricorso agli strumenti di sostegno
al reddito.
Con specifico riferimento a questa ipotesi, il legislatore ha precisato, invero sin dal
1991, che si ha influsso gestionale prevalente quando in relazione ai contratti che hanno
ad oggetto l’esecuzione di opere o la prestazione di servizi o la produzione di beni o
semilavorati costituenti oggetto dell’attività produttiva o commerciale dell’impresa
committente, la somma dei corrispettivi fatturati abbia superato nel biennio precedente
il 50% del fatturato complessivo dell’impresa artigiana202.
All’indotto sono riconducibili altre due attività e cioè quella di vigilanza e quella di
logistica. Nel primo caso l’estensione introdotta in via temporanea nel 1993 è stata
stabilizzata nel 2012; si deve viceversa alla riforma del 2015 l’estensione dell’intervento
CIGS alle attività di logistica, che sono ricomprese tra le imprese esercenti attività
commerciali («comprese quelle della logistica»), a condizione che impieghino più di 50
dipendenti. Il legislatore ha opportunamente colmato una lacuna nell’intervento di
sostegno al reddito in favore delle imprese che operano in appalto, che costituiscono
una delle realtà più diffuse proprio nel settore della logistica. Va detto che v’erano stati
precedenti giurisprudenziali che, attingendo ai criteri qualificatori dell’attività di
impresa ai fini dell’intervento CIG, speciali rispetto a quelli validi per l’inquadramento
previdenziale, avevano già ritenuto fruibile l’ammortizzatore da parte di tale tipologia di
imprese, pur con gli opportuni distinguo in relazione al tipo di attività svolta. Non del
tutto condivisibile, quanto a soglia numerica, appare l’equiparazione alle aziende
esercenti attività commerciali, considerata la enorme diffusione anche nel settore
manifatturiero (si pensi al fenomeno dello scorporo della logistica effettuata anni
addietro dalla FIAT previa cessione del relativo ramo d’azienda). Viceversa, non
condivisibile è la non ricomprensione nel campo di intervento della CIG dei lavoratori
somministrati, espressamente richiamati dal d.m. 1 agosto 2014, n. 83473, che detta(va)
i criteri di concessione degli ammortizzatori sociali in deroga (art. 2, co. 1).
Quest’ultima inclusione paradossalmente convalida l’esclusione, in quanto le agenzie di
201
Il primo intervento è riconducibile all’art. 23, l. n. 155/1981, per le aziende che forniscono servizi di
mensa; è seguito quello del 1991 per le aziende artigiane con influsso gestionale prevalente; e da ultimo,
l’intervento è stato esteso in via definitiva alle imprese di pulizie dalla l. n. 92/2012. Va segnalato anche il
decreto interministeriale 23 marzo 2011 che introduce una misura strutturale, complementare
all’intervento per le grandi imprese in amministrazione straordinaria, a sostegno delle aziende
subfornitrici che potranno accedere al Fondo Centrale di Garanzia.
202
V. l’art. 20, co. 5, d.lgs. n. 148/2015.
38
somministrazione sono inquadrate a livello previdenziale nel settore terziario, e non
commercio e pertanto sono escluse dal campo di applicazione della CIG203.
Ovviamente tale conclusione si regge sull’inquadramento delle agenzie per il lavoro ai
fini previdenziali, ben diverso da quello autonomo e rilevante ai fini dell’intervento
CIGS, ancorato alla definizione civilistica dell’art. 2195, n. 1, c.c., in base alla quale «è
industriale l’attività produttiva non solo di beni ma anche di servizi, purché l’attività
produttiva sia finalizzata alla costituzione di una nuova attività»204. L’operatività
dell’inquadramento civilistico è peraltro fatto salvo proprio dall’art. 49, co. 3, l. n.
88/1989, che provvede all’inquadramento previdenziale delle aziende205. È da verificare
a questo punto se le agenzie per il lavoro producano un servizio finalizzato alla
costituzione di una nuova utilità. Orbene, la forza lavoro somministrata partecipa in
maniera diretta all’attività svolta dall’impresa utilizzatrice, mutuandone le
caratteristiche; si pensi ai servizi di pulizia, per i quali è previsto l’intervento CIGS, ove
questi ultimi risentano della crisi dell’impresa industriale, in favore della quale gli stessi
sono effettuati, con l’effetto che non può escludersi che lo stesso valga per i lavoratori
somministrati, a condizione che il loro impiego avvenga all’interno di imprese
industriali. L’obiezione che l’agenzia può somministrare forza lavoro indifferentemente
in favore di imprese industriali e commerciali non è idonea a scalfire detta soluzione, al
pari di quanto accade per l’indotto, in relazione al quale l’intervento CIGS è ammesso
solo per i lavoratori impiegati in appalti in favore di imprese industriali.
In ogni caso, escludere i lavoratori somministrati in favore delle imprese industriali,
dall’intervento CIGS crea una palese disparità rispetto alla concessione della CIGS a
tutte le imprese riconducibili al c.d. indotto delle imprese industriali, prima richiamate,
anche quando le agenzie per il lavoro risentono della crisi delle imprese utilizzatrici,
come ha dimostrato l’estensione ai lavoratori somministrati della Cassa Integrazione
Guadagni in deroga.
Un sostegno al reddito in favore dei somministrati può provenire dal Fondo bilaterale
istituito sin dal 1997, a parziale compensazione di tale esclusione. Ed infatti, già prima
del d.lgs. n. 148/2015, sono stati sottoscritti una serie di accordi, integrati da quello del
25 novembre 2015, attuativo delle previsioni contenute nel d.lgs. n. 148/2015, e recepiti
con appositi decreti interministeriali. Il Fondo, istituito presso Forma.Temp con
gestione e contabilità separata, assicura ai lavoratori somministrati a termine una
prestazione di sostegno al reddito in caso di cessazione del rapporto, cui consegua un
periodo di disoccupazione, residuando la possibilità di individuare ulteriori prestazioni
ai sensi del d.lgs. n. 148/2015.
Il modello di tutela bilaterale, con la doppia riforma degli ammortizzatori sociali del
2012-2015, è stato esteso a tutta l’area non coperta con l’intervento dei Fondi bilaterali
di sostegno al reddito e, in mancanza, del FIS, tenuto conto che la riforma del 2015 ha
abbassato la soglia per l’obbligatoria iscrizione agli stessi dagli originari 16 agli attuali
6 dipendenti.
Una riflessione a parte va fatta con riferimento al requisito per l’accesso alla CIG,
dell’anzianità di effettivo lavoro di almeno 90 giorni, alla data di presentazione della
domanda di concessione, presso l’unità produttiva per la quale è richiesto il
trattamento206; ma sul punto si rinvia supra al §11 sul cambio di appalto.
203
Sia pure con riferimento alla disciplina previgente al d.lgs. n. 148/2015, il Ministero ha ribadito
l’esclusione dal campo di intervento della CIGS dei lavoratori somministrati, anche nella ipotesi in cui
l’utilizzatore versi in una situazione di crisi aziendale (interpello Min. lav. 20 gennaio 2016, n. 3).
204
Circ. INPS 6 marzo 2000, n. 58, a proposito delle attività di logistica, distingue tra servizio
commerciale e servizio industriale, ricorrendo il primo nel caso di mera intermediazione tra il produttore
e il distributore finale.
205
V. Cass. 25 marzo 2015, n. 6012, in MGI, 2015, e prima ancora Cass. 5 marzo 2004, n. 4535, in MFI,
2004, 3, nonché Cass. 25 gennaio 2007, n. 1675, in MGI, 2007, 1.
206
V. l’art. 1, co. 2, d.lgs. n. 148/2015.
39
SEZIONE II – LA CODATORIALITÀ DE IURE CONDITO ET DE IURE
CONDENDO
13. La codatorialità
13.1. La teoria della codatorialità
Il ponte tra i modelli di tutela già normati e quelli proponibili (v. infra) è rappresentato
dalla codatorialità nei termini che di seguito si vanno a precisare.
La teoria della codatorialità207 — che ha trovato cittadinanza in altri ordinamenti208 —
parte da un assunto per arrivare ad una conclusione209. L’assunto è la specialità delle
tecniche di tutela predisposte dall’ordinamento in favore dei lavoratori coinvolti nei
fenomeni di organizzazione del lavoro non tradizionale, ricomprendendo in tale
espressione tutte le ipotesi in cui tra il lavoratore e il datore di lavoro formale si
interpone a vario titolo un terzo soggetto. Tali tecniche di tutela differiscono a seconda
che il fenomeno si manifesti in modo patologico o fisiologico, essendo peraltro a volte
difficile individuare la linea di confine tra le due manifestazioni210.
Alla tecnica di tutela della codatorialità211 non viene ricondotta l’ipotesi patologica di
simulazione del rapporto di lavoro in capo a un soggetto per dissimulare quello esistente
in capo ad un altro soggetto, normativizzata nel 1960, in relazione alla quale opera il
meccanismo della imputazione del rapporto al reale datore di lavoro212.
Viceversa, nelle ipotesi di manifestazione fisiologica del fenomeno, che vede il suo
campo elettivo nel lavoro prestato all’interno dei gruppi di imprese, all’interrogativo
“chi è il datore di lavoro?”213 si risponde che sono (co)datori di lavoro tutti i soggetti ai
207
Un riferimento già in Natoli A., 1979, I, 414 ss.
Per una analisi comparata v. De Luca Tamajo, 2007, 16; Perulli, 2007, 30. Sull’esperienza statunitense
v. Speziale 2010, 12 ss. ed ancor prima Corazza, 2004, 227. Con specifico riferimento all’esperienza
francese, ed in particolare al groupements d’employers v. Barbera, 2010, 53; Belardi, 2015, 282-287.
Sulla codatorialità d’Oltralpe e d’Oltremanica v. Ratti, 2012, 309 ss. (responsabilità vicaria inglese) e 311
ss. (coemployeurs francesi).
209
Speziale, 2006; Idem, 2010; Razzolini, 2009; Corazza, 2009; Raimondi, 2012; Pilati, 2015, 149 ss.;
Treu, 2015; Belardi, 2015, 275 ss. Nutrita è la schiera di quelli che non la condividono tra i quali si
segnalano Nogler, 1994; Carinci M.T., 2007; Barbera, 2010; Pinto, 2010; Nicolosi, 2012; Alvino, 2014;
Biasi, 2014; Borelli, 2014; Ratti, 2015.
210
Sul differente approccio, specie da parte della giurisprudenza, nel caso di situazioni patologiche,
ovvero fisiologiche, v. Greco, 2013, 134 ss.
211
Per la codatorialità non solo tecnica rimediale, ma anche «opportunità, implicante una chiara
assunzione delle responsabilità datoriali, che può essere consapevolmente scelta», v. Pilati, 2015, 152.
212
Speziale, 2010.
213
Nogler (1994, 208), intitolando il paragrafo «A la recherche de l’employer perdu», in relazione al
lavoro prestato nel gruppo di imprese richiama il pensiero di Vardaro (1989, 109 ss.) secondo cui
«consegue una diversa inquadratura della stessa fattispecie portante del diritto del lavoro, dal momento
che il punto di osservazione risiede non tanto nell’analisi della “mutazione antropologica del lavoratore
subordinato”, quanto in quella dell’evoluzione della posizione e della nozione di datore di lavoro, “sul
cui interesse creditorio è modulata la presa in considerazione della persona del lavoratore subordinato
da parte dell’ordinamento giuridico statale”». La ricerca del datore di lavoro, secondo Barbera (2010,
16), non sarebbe influenzata dal fenomeno della smaterializzazione dell’impresa atteso che «dall’impresa
si risale pur sempre ad un soggetto giuridico, sia esso singolo (l’imprenditore) o collettivo (la società o il
gruppo) e non si è smaterializzata neppure come luogo in cui si svolge il lavoro umano si forma l’identità
sociale della persona, né come luogo di esercizio dei diritti». Peraltro, la domanda sembrerebbe
addirittura “oziosa”, atteso che, sempre secondo Barbera (2010, 24) «per il codice, non solo non importa
chi sia il datore di lavoro, ma non importa neppure chi sia il datore di lavoro effettivo, nel senso di
effettivo utilizzatore della prestazione, a meno ché non vi siano finalità fraudolente (art. 1344 c.c.),
208
40
quali è riconducibile l’organizzazione in cui è inserito il lavoratore214. Si tratta, quindi,
di una tecnica rimediale215 a valenza generale, con una amplificazione del principio di
effettività, a cui attinge il diritto del lavoro, in forza di specifiche coordinate normative
(si pensi alla indisponibilità del tipo contrattuale ovvero alla repressione dei fenomeni
interpositori).
Quindi, per codatorialità si intende la imputazione o la imputabilità stabile e perdurante
del rapporto di lavoro a più soggetti, formalmente autonomi, quali imprenditori216 che,
per collegamenti societari o per integrazione contrattuale,217 possono essere considerati
codatori e quindi rispondere congiuntamente delle obbligazioni rivenienti dal contratto
di lavoro; alla tradizionale coppia binaria del rapporto di lavoro (datore / lavoratore)218
si sostituisce la presenza dal lato del creditore di lavoro di una pluralità di soggetti (una
sorta di job sharing a parti invertite e cioè un master sharing219).
13.2. Le varie nozioni di codatorialità
Prima di esaminare le critiche opposte a tale teoria e i problemi che essa pone, giova
evidenziare che in assenza di una definizione legale220 anche dopo l’intervento
legislativo del 2013, l’elaborazione sul tema ha prodotto una serie di nozioni a seconda
dell’angolo prospettico utilizzato.
Una prima lettura distingue tra codatorialità in senso debole e in senso forte.
simulazione (art. 1414 c.c.), ovvero specifici divieti», tanto che «superato il divieto generale di
interposizione di manodopera, è stato possibile al legislatore tornare all’art. 2094 e rinviare anche per il
lavoro somministrato a terzi alla disciplina tipica del lavoro subordinato». Sempre con riferimento alla
domanda “chi è il datore di lavoro?” cfr. Ratti (2016, 383) secondo il quale nel dialogo diacronico delle
relazioni presentate al convegno AIDLASS di Trento del 1999 e di Catania del 2009, l’interrogativo «di
chi sei dipendente?» avrebbe perso centralità, facendo «sorgere la questione di determinare quali siano le
esigenze di tutela connesse al trattamento in concreto applicabile al prestatore di lavoro e chi siano i
soggetti obbligati a garantire per esso». Ancor prima Ratti (2012, 307 ss.) sottolineava l’importanza delle
trasformazioni del capitalismo e dell’organizzazione produttiva per dare risposte all’interrogativo «di chi
sei dipendente?», donde la teoria della codatorialità.
214
De Simone, 1995; Eadem, 2015; Speziale, 2006; Idem, 2010; Razzolini, 2009; Raimondi, 2012;
Esposito, 2014; Ciucciovino, 2014. Sulla peculiare definizione di datore di lavoro contenuta nel d.lgs. n.
81/2008, indipendente dalla tipologia contrattuale, e concentrata sul contatto tra il soggetto protetto e
l’ambiente lavorativo in cui si viene a trovare v. ancora Speziale, 2010, 17 ss.
215
Contra Chieco (2015, 212), secondo il quale «la codatorialità è una tecnica positiva di formale
legittimazione ex ante di più soggetti partecipi di un contratto di rete all’utilizzazione delle prestazioni di
lavoro acquisite mediante uno speciale contratto di lavoro e non più uno strumento per sanzionare ex
post l’utilizzazione promiscua delle prestazioni lavorative».
216
Speziale (2006, 44) esclude la codatorialità «nei casi in cui il committente sia una persona fisica che
non esercita attività professionale o di impresa, perché in questo caso, anche se vi sono relazioni di
mercato, non sussistono le condizioni che giustificano una tutela speciale dei lavoratori dell'appaltatore.
Ed ovviamente l'esclusione deve operare anche in tutti i casi in cui il fornitore sia una persona fisica
senza addetti alle proprie dipendenze».
217
Speziale, 2006, 43 ss.; Alessi, 2015, 94. Contra Alvino (2014, 117 ss.), che ricostruisce i rapporti tra
lavoratore e potenziali codatori come più contratti di lavoro subordinato bilaterali.
218
Nicolosi, 2012, 58 ss. Per contro, Speziale (2010, 72 ss.) attinge alla definizione enucleata dalla
giurisprudenza comunitaria sull’art. 39 TCE in materia di libera circolazione, per identificare la
codatorialità anche nei confronti della impresa che promuove il decentramento produttivo in ambito
comunitario.
219
Biasi, 2014, 19; Tursi, 2015, 119.
220
Mazzotta (2013, 19) sottolinea l’assenza di una nozione legale di codatorialità con tutto ciò che ne
consegue in termini di riconduzione ad essa dei vari fenomeni in cui entra in crisi la tradizionale
bilateralità del rapporto di lavoro subordinato.
41
Quest’ultima ricorre nel caso di impiego cumulativo e promiscuo del lavoratore da parte
di vari datori di lavoro, come accade nelle imprese di gruppo e da ultimo nelle reti di
impresa, con contitolarità del rapporto di lavoro; in tale accezione la codatorialità
impatta con la struttura bilaterale del rapporto di lavoro, imputandosi quest’ultimo a più
soggetti tra di loro solidalmente responsabili221.
Viceversa, alla codatorialità in senso debole sono riconducibili sostanzialmente tre
ipotesi; la prima ricorre quando v’è una distribuzione atipica dei poteri fra datore
(formale) e utilizzatore (sostanziale); la seconda si ha quando ad un terzo che intrattenga
relazioni commerciali col datore di lavoro vengono accollati oneri economici a favore
dei dipendenti di quest’ultimo (solidarietà)222; la terza ricorre quando il lavoratore si
muove all’interno dei gruppi societari; in questo caso, l’impiego del lavoratore può
essere alternativo, e cioè, pur permanendo la titolarità del rapporto in capo ad una
determinata società, il lavoratore può essere distaccato presso società collegate.
Sostanzialmente, in questa nozione “debole” di codatorialità rientrano tutte le ipotesi
legalmente previste di scissione tra chi assume il lavoratore e chi lo utilizza, nelle quali
si crea un disallineamento tra la posizione formale di datore di lavoro e il creditore della
prestazione.
Ancora, la codatorialità può essere intesa come formula descrittiva o prescrittiva; nel
primo caso è descrittiva di un determinato istituto di diritto positivo (utile anche per
colmare lacune normative), ad esempio, nel caso della somministrazione (ove c’è una
scissione autorizzata tra datore e utilizzatore)223, del distacco (resta anche in questo caso
distinta la posizione dei due soggetti implicati), degli appalti (ove opera, per garantire il
lavoratore, il meccanismo della responsabilità solidale, senza alterare la struttura binaria
del rapporto di lavoro)224. L’espressione è, quindi, utilizzata a fini meramente
descrittivi, in quanto è la legge ad escludere la riconducibilità del rapporto di lavoro a
più soggetti225.
Più problematico è il discorso relativo alle organizzazioni di lavoro complesse per le
quali la nozione di codatorialità assume valenza prescrittiva, cioè tale da delineare uno
statuto protettivo (ma non solo) per il lavoratore che in esse si trovi ad operare226.
13.3. La giuridificazione della codatorialità
Il quid novi rispetto alla enunciazione della tesi della codatorialità è rappresentato
ratione temporis dall’intervento legislativo del 2013 (d.l. n. 76/2013, cit.)227, con
l’intenzione di favorire la mobilità del personale all’interno del nuovo modello di
impresa in rete228; si fa riferimento nello specifico all’art. 30, d.lgs. n. 276/2003, in tema
221
Mazzotta, 2013, 19; De Simone, 1995, 13; Nicolosi, 2012, 63-64 [secondo la quale la ricostruzione
binaria troverebbe addentellato anche nella giurisprudenza comunitaria (CGUE 21 ottobre 2010, causa C242/09, in RIDL, 2011, II, 470 ss.)]; Raimondi, 2012, 307. Secondo Speziale (2006, 37-39), la
codatorialità «può essere realizzata senza mutare la struttura del rapporto di lavoro».
222
De Luca Tamajo, 2007, 16.
223
Nella somministrazione il legislatore ha disciplinato la scissione distribuendo poteri, responsabilità e
tutele, ed escludendo che durante il periodo di missione possa insorgere una coimputazione del vincolo;
così Corazza, 1999a; Ichino, 2000; Niccolai, 2003.
224
Carinci M.T., 2008, 14.
225
Niccolai, 2016, 163 ss.
226
Mazzotta, 2013, 20.
227
Si tratta secondo Perulli (2014, 492) di un disposto che nella sua estrema sinteticità lascia insoddisfatti
per molteplici motivi; ciononostante, secondo Chieco (2015, 206 ss.), l’introduzione del «regime
“legale”» di codatorialità per le imprese in rete, al pari dell’assunzione congiunta, rappresenta un vero e
proprio cambio di rotta del diritto del lavoro, testimonianza di quella stratificazione normativa di cui ha
parlato in passato Gino Giugni.
228
Greco, 2014, 380. Treu (2015, 8) nel ricordare che prima dell’intervento del 2013 l’impiego del
personale da parte di imprese diverse, anche partecipanti a un contratto di rete, è stato regolato per lo più
42
di distacco, che al co. 3-ter, con una disposizione che non ha nulla a che vedere con il
distacco229, prevede la codatorialità dei lavoratori «ingaggiati»230 con regole stabilite
attraverso il contratto di rete231.
Alla codatorialità sembra far riferimento anche il successivo art. 31, che consente
l’assunzione congiunta di lavoratori per lo svolgimento di attività da parte di imprese
agricole appartenenti allo stesso gruppo, ovvero da imprese legate da un contratto di
rete, quando almeno il 40% di esse sono imprese agricole232.
Tale intervento, si sostiene, esplicita una possibilità già esistente nell’ordinamento,
escludendosi che viga il principio (come vincolo di sistema) della unicità del datore di
lavoro233. La norma del 2013 ha quindi un valore confermativo e promozionale234 e
trasforma la codatorialità da rimedio giudiziario235 a strumento ordinario di gestione
delle risorse umane all’interno delle reti236.
L’intervento legislativo del 2013 ha suscitato un ampio dibattito che non accenna a
placarsi e che ha prodotto a livello sistemico tre ipotesi interpretative.
La prima valorizza detto intervento che legittimerebbe nel nostro ordinamento il
rapporto di lavoro unico con una pluralità di datori, riconducibile alla figura delle
obbligazioni soggettivamente complesse237, ovvero alla prestazione cumulativa238. Il
con il ricorso agli istituti del distacco, del comando, o del prestito di manodopera, elaborati dalla
giurisprudenza e precisati dal legislatore nel 2003, ne ha evidenziato l’inadeguatezza, per le loro
caratteristiche strutturali, a soddisfare le necessità espresse dalle aziende in rete.
229
V. anche De Michele (2013, 71) che utilizza la locuzione «codatorialità da “distacco”».
230
Secondo Alessi (2015, 99) «quando la legge parla di dipendenti “ingaggiati” fa riferimento non solo
ai lavoratori (subordinati e autonomi) i cui contratti di lavoro sono conclusi specificamente per
l’attuazione del programma, ma anche ai dipendenti delle singole imprese che vengano destinati a
svolgere la loro prestazione a favore della rete attraverso l’esercizio del potere direttivo del datore di
lavoro, senza che ciò comporti una novazione del rapporto di lavoro».
231
La scarsa diffusione della codatorialità tra le imprese in rete, nonostante la diffusione di quest’ultimo
fenomeno, è evidenziata da Alvino, 2016, 761.
232
Secondo Biasi (2014, 7-8) l’intervento legislativo del 2013 ha elevato la codatorialità a «elemento di
sistema», ma in assenza di definizione e di regolamentazione. Sul rapporto tra le due norme, peraltro, le
posizioni non sono uniformi, giacché vi è chi individua nella codatorialità una vera e propria contitolarità
del rapporto e nell’assunzione congiunta una mera condivisione degli oneri burocratici-amministrativi
connessi all’assunzione dei lavoratori (Alessi, 2015, 93; Carinci M.T., 2015, 32 ss.; Chieco, 2015, 208
ss.), e chi li legge come istituti analoghi ed equivalenti (Alvino, 2014, 141; Perulli, 2014).
233
Razzolini, 2013, 33. Sulla scomposizione dell’unicità della figura datoriale, vero “classico” del diritto
del lavoro, v. Nicolosi, 2012, 10.
234
Treu, 2015, 13.
235
V. Cass. n. 25270/2011 ed ancor prima la n. 4274/2003. A proposito di quest’ultima pronuncia Greco
(2013, 125 ss.) ritiene che il Supremo Collegio consideri il collegamento economico – funzionale tra le
imprese gestite da società del medesimo gruppo di per sé non sufficiente a far ritenere che gli obblighi
inerenti a un rapporto di lavoro con una sola delle società siano estensibili anche alle altre, se non quando
sia possibile provare l’esistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. La Corte
avrebbe accolto quell’orientamento dottrinario secondo cui «può esserci un’impresa unitaria senza
esserci un soggetto altrettanto unitario» (Galgano, 2004, 686), pur senza giungere ad una compiuta
elaborazione che rivede la subordinazione in chiave di possibile contitolarità nel contesto dell’impresa di
gruppo, richiamando semplicemente la responsabilità solidale.
236
Tursi, 2015, 119.
237
Greco, 2014, 397 s.; naturalmente da questa impostazione deriverebbe, secondo l’A., che «nel caso in
cui uno soltanto dei datori in rete risolve il contratto di lavoro, il rapporto si estingue». V. anche Perulli,
2014, 492.
238
Biasi, 2014, che intravede nella codatorialità, ex art. 30, co. 4-ter, d.lgs. n. 276/2003 un’ipotesi di
«pluralità di negozi tra loro collegati ed in rapporto di principalità-accessorialità», individuando nel
contratto di assunzione originario il logico antecedente dei rapporti obbligatori, accessori o ausiliari, del
lavoratore con le altre imprese retiste.
43
legislatore del 2013 non ha dettato la disciplina della codatorialità, rimettendola alla
normatività privata239 e quindi al contratto di rete (o meglio alle regole di ingaggio
stabilite attraverso il contratto di rete240). Quindi, l’autonomia privata può configurare la
codatorialità in termini di obbligazione soggettivamente complessa, promanante da un
unico contratto di lavoro, anziché (ma ciò resta possibile) come pluralità concorrente di
contratti. Tale configurazione determina un potere direttivo distribuito tra tutti i
codatori: una sovranità diffusa in luogo della tradizionale monarchia241.
Una diversa posizione, agganciandosi alla ricorrenza delle specifiche condizioni
previste dalla norma, ne fa derivare che l’intervento del 2013 confermerebbe l’esistenza
della regola generale, secondo cui il rapporto di lavoro non può essere complesso, ma al
più plurimo, relegando la codatorialità (ma anche la contitolarità per le imprese
agricole) al rango di eccezione a questa regola242.
In posizione minoritaria, ma sostanzialmente adesiva a quest’ultima tesi, v’è chi
sostiene che il legislatore abbia utilizzato il concetto di codatorialità non nel senso di
contitolarità del rapporto, bensì «quale modalità di declinazione del distacco,
specificamente un’ipotesi di distacco “a parte complessa” nel contesto di un contratto
di rete»243. La contiguità tra codatorialità e distacco è peraltro evidenziata dalla lettura
del dato normativo. La compenetrazione tra i due istituti può argomentarsi a partire
dalla sedes materiae in cui è collocata la disciplina della codatorialità, inserita nell’art.
30, d.lgs. n. 276/2003 e non nell’art. 31; inoltre tra codatorialità e distacco v’è in
comune l’automatica sussistenza dell’interesse del distaccante in forza dell’operare
della rete. A tali elementi si aggiunga, altresì quello della temporaneità che caratterizza
intrinsecamente il distacco e la codatorialità, ove quest’ultima si caratterizza quale
modalità di declinazione del primo. L’elemento di distinzione tra i due istituti,
parafrasando la circolare del Ministero del lavoro n. 35/2013, consiste nella possibilità
che rispetto al «personale ingaggiato» «il potere direttivo (possa) essere esercitato da
239
«Perno della riforma», secondo Sitzia, 2015, 230-235, Sul punto v. Emiliani (2015, 197 ss.), secondo
il quale in tema di codatorialità emerge preponderante il nuovo ruolo riconosciuto generalmente ai privati
quali produttori di diritto (appunto la c.d. normatività privata), pratica applicazione del principio di
sussidiarietà orizzontale ed effetto della c.d. abstention of the law o della materiale incapacità dello Stato
a governare determinati fenomeni. In materia di codatorialità il legislatore quindi, ha affidato ai privati la
disciplina delle regole, «dettata non già dall’esigenza di una degiuridificazione, ma dalla diversa
esigenza di assicurare, in una materia nella quale l’efficienza la fa da padrone qual è indubbiamente
quella delle reti di imprese, la produzione di un diritto efficiente» (201-202). Di contrario avviso è Perulli
(2014, 500), secondo il quale la codatorialità non implica rinvio in bianco alle capacità dell’autonomia
privata, dovendo «filtrare i valori e i principi dell’ordinamento, nonché le soluzioni tecniche individuate
dalla dottrina».
240
Il riferimento all’ingaggio potrebbe essere segnale di possibilità applicative della codatorialità anche al
di fuori dello schema del 2094 c.c. (per tutti, Alessi, 2015, 99) e quindi anche riferita ai collaboratori,
nonché ad un momento successivo a quello della originaria assunzione. E tuttavia il termine potrebbe far
semplicemente riferimento all’impiego dei lavoratori (la norma parla chiaramente di “dipendenti
ingaggiati”) oltre che forse rendere in italiano il francese ‘engagé’, nella suggestione della disciplina
francese della codatorialità.
241
Tursi, 2015, 120.
242
Tursi, 2015, 121; Alvino, 2014, 141, per il quale «il contratto di lavoro subordinato con pluralità di
datori di lavoro […] costituisce, invece, un “contratto di lavoro subordinato speciale». Un contratto, in
altri termini, dotato di una propria autonomia tipologica rispetto al contratto di lavoro subordinato
bilaterale enunciato dall’art. 2094; e già, prima dell’introduzione della norma, Pinto, 2013, 67: «Allorché
il legislatore è intervenuto a regolare questa o quella situazione riconducibile ai fenomeni di integrazione
produttiva, infatti, lo ha sempre fatto riconoscendo che anche l’operatore economico sottordinato svolge
una reale e concreta funzione imprenditoriale (per di più, giuridicamente rilevante). E ciò vale anche
sotto il profilo dell’organizzazione e della gestione dei dipendenti; i quali, quanto meno dal punto di vista
giuridico, non possono essere affatto considerati quali «terminali produttivi» dell’impresa capofila».
243
Peruzzi, 2015a, 265.
44
ciascun imprenditore che partecipa al contratto di rete»244. A questa tesi, non restrittiva
al pari della seconda, ma “negazionista”, si obietta che lascerebbe totalmente scoperto il
fenomeno, pur esistente nella realtà, dell’uso promiscuo di lavoratori e dell’esercizio
promiscuo del potere direttivo sui dipendenti, anche al di fuori di reti o gruppi di
impresa245.
Di poco successivo all’intervento legislativo in parola è una recente pronuncia del
Supremo Collegio, in tema di distacco nei gruppi di imprese, dalla quale si è desunto il
superamento della regola imperativa che individua come datore di lavoro quello
“sostanziale”, lasciandosi ai soggetti che partecipano della struttura complessa la scelta
se assumere congiuntamente il lavoratore, divenendo codatori formali, oppure optare
per il distacco con una ripartizione delle posizioni giuridiche contrattuali tra il datore di
lavoro formale e quello o quelli sostanziali che utilizzano il lavoratore. L’effetto è
quello di elevare a regola generale la scelta da parte dei partecipanti all’organizzazione
complessa di scegliere a chi imputare le posizioni soggettive proprie del datore di
lavoro246.
Di contrario avviso è chi ritiene la norma sul distacco nelle reti di imprese norma
speciale non elevabile a regola generale per tutte le organizzazioni plurisoggettive247.
Oltre che per le ricadute sul piano sistemico non v’è unanimità neanche in relazione
all’interpretazione delle nuove disposizioni, in ragione della diversa espressione
utilizzata dal legislatore nelle due norme, disquisendosi circa la sovrapponibilità248 o
meno249 dei due concetti di codatorialità e di assunzione congiunta.
La diversità tra le due fattispecie viene ricondotta alla fonte, nel senso che nella
codatorialità, ex art. 30, cit., si è in presenza di una struttura più complessa, consistente
nel collegamento tra un contratto di rete e un contratto di lavoro250; viceversa, nel caso
dell’assunzione congiunta ex art. 31, cit., si è in presenza di un contratto di lavoro con
una pluralità di parti a latere datoris251. In tale ipotesi il lavoratore instaura un rapporto
di lavoro con una pluralità di datori sotto il profilo sia formale, sia sostanziale, che
244
Peruzzi, 2015b, 20 ss.
Tursi, 2015, 121, che definisce la tesi «semplificatrice».
246
V. Cass. n. 8068/2016. Ancor prima, si era espressa in questi termini Razzolini, 2014b, 693; Cagnin
(2015, 279 ss.), secondo la quale la possibilità di estensione della codatorialità al distacco infragruppo
trovava conforto nell’interpretazione dell’introduzione della codatorialità quale tentativo del legislatore di
andare oltre la sfera del datore di lavoro formale fino a ricomprendere tutti i datori di lavoro sostanziali
consentendo di garantire maggiori tutele ai lavoratori coinvolti, v. anche Pinto, 2013, 55 ss.; nonché
Razzolini, 2013, 50. A livello giurisprudenziale, l’A. segnala un atteggiamento ondivago (prima
ovviamente della pronuncia del 2016), diversamente da quanto accade oltralpe in relazione al co-emploi.
247
Carinci M.T., 2016, 738, nonché Esposito, 2016, 753, secondo cui il riferimento alla rete da parte
dell’art. 30, co. 4-ter, d.lgs. n. 276/2003, «segni un ambito preciso e non un’apertura indistinta – quasi
un disinvolto abbrivio per nuove flessibilità gestionali – a rilievo lavoristico di qualsivoglia
cointeressenza economica fra imprese».
248
Perulli, 2014, 502; Alvino, 2015, 223 ss. In giurisprudenza, v. Cass. n. 8068/2016.
249
Biasi, 2014, 117; Greco, 2014, 380; Alessi, 2015, 90-93 (codatorialità e assunzione congiunta come
istituti distinti ma potenzialmente cumulabili); Chieco, 2015, 208-209: Peruzzi, 2015a, 257; Idem, 2015b,
12 ss.; Sitzia, 2015; Romei, 2016, 519.
250
Romei, 2016, 519; Maio, 2016. Ma v. anche Peruzzi, 2015a, 258-269, nonché Idem, 2015b, 15 ss., che
fa discendere la distinzione tra fattispecie da altri fattori, come l’affidamento della disciplina in un caso
alla contrattazione e nell’altro alla decretazione ministeriale, ovvero la qualificazione dell’assunzione
congiunta, diversamente dalla codatorialità, come contitolarità del rapporto e non semplice istituto
funzionale ad adempimenti burocratico – amministrativi, oppure l’immediata operatività della
codatorialità.
251
Secondo Chieco (2015, 208-209) «con l’assunzione congiunta, quindi, ci troviamo di fronte alla
tipizzazione normativa di una fattispecie ascrivibile alla (discussa) categoria del contratto
plurisoggettivo di scambio caratterizzato dalla presenza di più parti senza che, tuttavia, sussista una
comunione di scopo, una finalità comune capace di unificare gli interessi diversi delle parti medesime».
245
45
rispondono in solido delle obbligazioni contrattuali, previdenziali e di legge, che
scaturiscono dal rapporto di lavoro.
La condizione fissata dalla legge è il collegamento tra le imprese agricole che
procedono all’assunzione congiunta, rinvenibile o dall’appartenenza allo stesso
gruppo252, o dall’identità proprietaria (stesso proprietario o soggetti legati da un vincolo
di parentela o affinità entro il terzo grado), ovvero infine dal contratto di rete (ma in
questo caso con presenza anche di imprese non agricole nel limite massimo del 60%).
Interessante è la modalità di comunicazione dell’assunzione congiunta, che fa capo nei
gruppi alla capogruppo, nella monoproprietà al proprietario, ed infine nelle restanti
ipotesi delle “imprese di famiglia” e in rete al soggetto ad hoc individuato in base ad
uno specifico accordo253 o dal contratto di rete254. Sugli stessi soggetti ricadono gli
adempimenti previdenziali255.
Dovendo optare tra la sovrapponibilità o meno delle due espressioni utilizzate dal
legislatore, va detto che milita in senso negativo il criterio ermeneutico secondo cui tra
due possibili interpretazioni di una norma deve essere privilegiata quella che dà un
senso alla stessa, legittimandone l’esistenza; appare chiaro che la tesi della
sovrapponibilità priva totalmente di significato la seconda disposizione con l’aggravante
che se fosse sovrapponibile concettualmente introdurrebbe una inspiegabile e
ingiustificabile limitazione, prevedendo la presenza di almeno il 40% di imprese
agricole.
A tale argomento se ne può aggiungere uno ulteriore, ricavabile dal nesso che esiste tra
il co. 3-ter e il co. 3-bis, che prevede la possibilità di assunzione congiunta da parte di
imprese agricole tra loro collegate a livello proprietario, per cui il successivo co. 3-ter
rappresenta l’estensione alle imprese in rete della facoltà prevista nel co. 3-bis, ma a
condizione di una presenza “agricola” nella rete.
La diversità tra le due fattispecie si riverbera sulle conseguenze riconducibili
all’utilizzazione di uno schema piuttosto che l’altro; e infatti, mentre nell’assunzione
congiunta la legge prevede la responsabilità solidale a carico dei datori di lavoro, parte
del contratto, nulla dice per la codatorialità, pur se la responsabilità solidale dovrebbe
discendere in maniera automatica dall’assunzione della posizione di datore di lavoro256.
Circa l’ambito soggettivo di operatività della responsabilità solidale tra le imprese in
rete, in caso di assunzioni congiunte, si pone l’interrogativo se la stessa ricade su tutte le
imprese in rete o solo su quelle che procedono all’assunzione congiunta, come previsto
dall’art. 31, co. 3-quinquies, d.lgs. n. 276/2003. A tale riguardo, lo stesso Ministero del
lavoro ha escluso una solidarietà “automatica” tra tutti i partecipanti al contratto di rete,
dovendo rifarsi ai contenuti dello stesso257.
252
Per la nozione di gruppo di impresa la norma rinvia all’ipotesi del collegamento/controllo ex art. 2359
c.c., nonché alla nozione di gruppo di imprese enunciata nella normativa in materia di istituzione di un
CAE (dir. 2009/38/CE, attuata con il d.lgs. 22 giugno 2012, n. 113, in sostituzione del d.lgs. 2 aprile
2002, n. 74, attuativo della dir. 94/45/CE ).
253
L’accordo deve essere depositato presso una associazione di categoria che va individuata nella
denunzia aziendale presentata dal referente unico (v. circ. INPS 2 luglio 2015, n. 131).
254
V. l’art. 2, d.m. 27 marzo 2014; d.d.g. 28 novembre 2014, e 4 dicembre 2014, nonché circ. Min. lav. 6
maggio 2015.
255
V. circ. INPS 2 luglio 2015, n. 131, che definisce tale soggetto «referente unico».
256
Greco, 2014, 398.
257
V. circ. Min. lav. n. 35/2013, letta da Alvino (2016, 763) nel senso della possibile esclusione ad opera
del contratto di rete della responsabilità solidale dei codatori, il che colliderebbe con la previsione sub art.
31, co. 3-quinquies, d.lgs. n. 276/2003; lettura contraddetta dal chiaro riferimento della circolare «a tutti i
partecipanti al contratto» (v. anche le critiche di Perulli, 2014, 501). Le posizioni della dottrina sono
tuttavia, quanto all’ambito ed alle possibilità regolative del contratto di rete e dell’ingaggio, tutt’altro che
uniformi; rispetto a chi ritiene la norma – e l’interpretazione ministeriale – come una delega in bianco alle
geometrie variabili determinate dai codatori, altra parte della dottrina, invece, pone come conseguenza
della duplicità della posizione soggettiva dal lato datoriale la condivisione delle responsabilità in materia
46
Al di là delle questioni interpretative evidenziate, si pone il quesito se queste due norme
abbiano tipizzato il fenomeno della codatorialità, sostenendosi che essa è stata
“nominata”, più che tipizzata; l’art. 30, comma 4-ter, riconduce la codatorialità
all’esercizio del solo potere direttivo e non invece alla contitolarità del rapporto nel suo
complesso, a differenza di quanto accade nell’art. 31, comma 3-quater. Perciò la facoltà
del contratto di rete di regolare la codatorialità va intesa come diretta a stabilire quale
tra i vari datori di lavoro in rete sia abilitato all’esercizio del potere direttivo come può
desumersi dalla natura permissiva della disposizione258.
13.4. Le critiche alla teoria della codatorialità
Le critiche alla teoria della codatorialità non sono venute meno neanche dopo
l’intervento del 2013 testè riassunto, anzi hanno paradossalmente tratto da esso nuova
linfa.
Le obiezioni mosse alla teoria della codatorialità, pur nella loro varietà, possono essere
sintetizzate, richiamando il pensiero di Mazzotta259, il quale parte dalla constatazione
che i fenomeni di integrazione tra cicli produttivi portano in emergenza il gap che esiste
tra la dimensione economica e quella giuridica del fenomeno; sotto quest’ultimo profilo
rileva l’esistenza di un interesse organizzativo aziendale condiviso da più imprese che
trascende la pluralità di contratti e la soggettività giuridica delle singole imprese.
Discendono dalla proiezione giuridica del fenomeno una serie di questioni sintetizzabili
in quattro interrogativi e cioè: qual è il grado di integrazione tra i codatori; qual è la
distribuzione tra i codatori dei poteri tradizionali attribuiti al datore di lavoro; quali
effetti si riverberano sul trattamento dei lavoratori; quali sono gli schemi giuridici che
possono consentire di inquadrare sistematicamente la fattispecie, tenuto conto della
specificità delle singole ipotesi di codatorialità.
L’obiezione di fondo che l’A. oppone alla tesi della codatorialità è di carattere
sistematico, in quanto «la materia è il terreno di elezione della distinzione, più che della
ricerca di un denominatore comune o di un comune filo conduttore che consenta di
riannodare fili altrimenti sparsi. In buona sostanza, occorrerà discettare di una
pluralità di codatori, a seconda delle diverse esigenze economiche che la scelta della
codatorialità intende soddisfare e, soprattutto, alla luce degli strumenti giuridici
utilizzati allo scopo»260.
Sulla base di questa premessa, Mazzotta critica la tesi di Speziale, qualificandola «un
coraggioso sforzo» per dare una risposta strutturata a tali problematiche, definendo
prescrittivamente i tratti fondanti della codatorialità, facendo leva, da un punto di vista
civilistico sul collegamento negoziale e da quello lavoristico rivisitando il concetto di
di salute e sicurezza e la responsabilità congiunta per crediti pecuniari; per questi Autori, le regole di
ingaggio potrebbero riguardare solo i profili funzionali della prestazione resa a favore della rete o i modi
di impiego congiunto dei lavoratori (Alessi, 2015, 89; Chieco, 2015, 211); secondo una terza posizione la
solidarietà nel debito prevista come ineludibile nel caso di assunzione congiunta troverebbe nella
codatorialità il valore di regola, suscettibile di incontrare limitazioni pattizie nel regime di responsabilità
concretamente individuato da parte dei retisti, fermo restando che le regole stabilite nel contratto di rete
dovrebbero in ogni caso - salvo a trovare regolamentazione nell’autonomia collettiva - essere portate, e
quindi accettate, nel contratto individuale di lavoro (Sitzia, 2015, 240; Biasi, 2014, 145; Zoppoli L., 2015,
211 s. che valorizza una lettura del contratto di rete come contratto normativo o da riportarsi all’autonoma
categoria del “terzo contratto”).
258
Ratti, 2015, 166; Greco, 2014, 398-399; Peruzzi, 2015a.
259
Mazzotta, 2013.
260
Mazzotta, 2013; ma ancor prima Idem, 1988, 362; Nogler, 1994, 223. Secondo Ratti, 2015, 165, la
prospettiva codatoriale deve rispondere ad una logica funzionalistica per la quale essa si connota in guise
differenti, a seconda del contesto e dei fini che l’ordinamento intende realizzare; la codatorialità può
richiamarsi per la soluzione del caso concreto, ossia per estendere la portata di taluni schemi giuridici al
ricorrere di elementi specifici.
47
subordinazione, onde riadattarlo alle strutture economico – organizzative complesse col
risultato di non mettere in discussione l’imputazione formale del rapporto, ma
estendendola ad un altro soggetto (il codatore).
Secondo Mazzotta, la teoria della codatorialità, più che ancorabile al presente, è
proiettabile sul futuro261, potendo costituire la base per un nuovo modello di normazione
meno legata agli elementi fondanti della materia262.
Quanto accaduto a livello normativo nel 2013 sembrerebbe dar ragione a Mazzotta,
visto che per poter parlare di codatorialità c’è stato bisogno di un intervento legislativo
nel 2013, peraltro circoscritto a due specifiche ipotesi, non potendosi elevare
l’eccezione a regola o per confermare una regola che non c’è263.
Ma la vera obiezione che Mazzotta oppone alla tesi della codatorialità è che la stessa
rende “opaca” la distinzione tra appalto lecito e interposizione illecita264, estendendo a
forme lecite di integrazione orizzontale del ciclo produttivo, ancorchè caratterizzate da
una situazione di sottoprotezione sociale dell’impresa appaltatrice, le conseguenze
sanzionatorie proprie dell’interposizione vietata, anzi va oltre, in quanto
nell’interposizione vietata il datore di lavoro resta uno, e cioè quello sostanziale,
viceversa con la codatorialità si ha un raddoppio della posizione del datore di lavoro265.
Tutti coloro i quali attingono alla codatorialità come congegno rimediale, amplificano il
principio di effettività utilizzato dal legislatore266, che ne predetermina gli effetti
giuridici, nel caso sia di diversa qualificazione del rapporto, sia di diversa imputazione
dello stesso; per cui l’ampliamento di tale principio oltre la previsione legale va
assoggettato a ripensamento, in quanto più che recuperare sicurezze, produce nuove
incertezze267. L’individuazione del datore di lavoro sostanziale va effettuata utilizzando
l’armamentario messo a disposizione dell’ordinamento e non certo scalvacandolo268.
Passando, poi, alla confutazione degli assunti posti a base della teoria della
codatorialità, e partendo dal primo, e cioè il collegamento negoziale, Mazzotta esplicita
le ragioni del suo dissenso in relazione al fenomeno dei gruppi di imprese.
Preliminarmente, Mazzotta evidenzia la difficoltà di trasferire sul piano lavoristico lo
schema del collegamento negoziale, come detto posto a base della tesi della
codatorialità, che, viceversa, è utile a ricostruire i nessi che legano i contratti
commerciali. La tesi della codatorialità non è in grado di superare il salto o il gap che
esiste tra la dimensione economica e giuscommercialistica del fenomeno (che
presuppone una causa unitaria e complessa dell’operazione) e la dimensione lavoristica
261
Tale valutazione sembra essere condivisa dallo stesso Speziale, 2013, 3 ss., quando, evidenziando la
non rinviabilità della questione della codatorialità con riferimento ai gruppi di impresa genuini, auspica
una legislazione speciale che a fini generali regoli la materia, sulla falsariga di altri Paesi quali Francia,
Gran Bretagna e Canada.
262
In tal senso, ancor prima, v. Pinto (2010, 406), secondo il quale il ragionamento di Speziale sarebbe
coerente de iure condendo, ma suscita perplessità de iure condito. Peraltro, sempre secondo Pinto, la tesi
della codatorialità striderebbe con alcune previsioni normative al cui fondo v’è un forte intreccio tra
diversi soggetti economici (es. artt. 4, co. 15-bis, 12, e 24, l. n. 223/1991; 31, d.lgs. n. 276/2003). Contra
Speziale (2013, 10 ss.), secondo il quale le disposizioni in questione non sembrano tali da poter confutare
la tesi della codatorialità, non essendo pensate per regolare ipotesi in cui il coordinamento tra soggetti
economici si svolga con un’intensità tale da costituire un’impresa integrata secondo determinate
caratteristiche. In replica v. ancora Pinto, 2013, 60-66.
263
Romei, 2016, 519; adesivamente Greco, 2014, 394.
264
Quadri, 2004, 227 ss.
265
Mazzotta, 2013; Romei (2016, 518) che richiama a tale riguardo il fenomeno della subfornitura.
266
Sul principio di effettività v. Barbera, 2010, 29.
267
Pinto, 2013; Niccolai, 2016, 164.
268
Pinto, 2013.
48
che non può prescindere dall’autonomia formale e strutturale delle singole imprese
implicate nell’affare269.
La fragilità della tesi della codatorialità emerge prepotentemente proprio dalle
riflessioni, come detto risalenti, del rapporto di lavoro nei gruppi di impresa, che non
sono andate oltre una mera descrizione del fenomeno270.
Non miglior fortuna hanno avuto le tesi del «soggetto unitario», che hanno valorizzato
l’organizzazione del complesso imprenditoriale prescindendo dalla soggettività delle
singole società271 e rischiando di far scivolare il rapporto di lavoro verso prospettive
neo-istituzionaliste272.
In ogni caso, i tentativi di individuazione all’interno dei collegamenti societari di un
centro unitario di imputazione del rapporto di lavoro subordinato finiscono, come già
detto, col rendere “opaca” la linea di confine tra fenomeni di gruppo leciti e fenomeni
illeciti o fraudolenti; altrettanto fa rispetto a forme organizzative complesse
perfettamente lecite, a fronte di una realtà caratterizzata da un moto pendolare tra
accentramento e decentramento273. Ancora, la tesi della codatorialità rischia di
accreditare prospettive comunitaristiche del rapporto di lavoro estranee alla nostra
cultura274.
A supporto di tali obiezioni, soccorre l’atteggiamento della giurisprudenza che ha optato
per tecniche funzionaliste275, preservando lo schermo della soggettività giuridica delle
varie società, senza avventurarsi sul terreno scivoloso della ricerca del datore di lavoro,
cui imputare il rapporto di lavoro276. Nella sostanza o si è ipotizzato un uso promiscuo
del lavoratore, oppure il collegamento societario è stato utilizzato al fine di individuare
l’organico a cui agganciare l’applicazione di determinate discipline lavoristiche.
In altri casi la giurisprudenza ha coinvolto nel rapporto di lavoro la società capofila,
utilizzando indici empirici, quali a) l’unicità della struttura organizzativa e produttiva;
b) l’integrazione tra le attività esercitate tra le varie imprese del gruppo e il correlativo
interesse comune; c) il coordinamento tecnico e amministrativo finanziario tale da
individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle
singole imprese verso uno scopo comune; d) l’utilizzazione contemporanea della
prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese con uno
svolgimento indifferenziato e contemporaneo in favore dei vari imprenditori.
La rilevanza della soggettività giuridica dei soggetti coinvolti nelle organizzazioni di
lavoro complesse caratterizza a ben guardare anche la disciplina dell’appalto, in
relazione al quale emerge l’ipotesi vietata solo quando l’apporto dell’appaltatore
(esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati
nell'appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio
d'impresa) sia totalmente assente.
269
Mazzotta, 2013; v. anche Romei, 2016, 518 e 520, il quale minimizza la portata di Cass. n.
25270/2011, in ragione del rinvio da parte di quest’ultima all’art. 2497 c.c., che disciplina la
responsabilità della società controllante nei confronti dei soci della controllata e non è estensibile alla
imputazione del rapporto di lavoro.
270
Branca, 1965; Nogler, 1994, 208; con riferimento al profilo collettivo v. Lunardon, 1996.
271
Carabelli, 1991; Carinci F., 1991; Meliadò, 1991. Per una ricostruzione delle concezioni soggettiva ed
oggettiva dell’imprenditore, anche con riferimento agli ordinamenti spagnolo, tedesco, inglese e francese,
v. Nogler, 1994, 210 ss.
272
Mazzotta, 2013, 24.
273
Perulli, 2004a, 7-12; Mazzotta, 2013, 25.
274
Mazzotta, 2013, 25, secondo cui l’inerenza del rapporto di lavoro all’azienda e non alla persona del
datore di lavoro, dedotta dall’art. 2112 c.c. e dal suo antecedente nella legge sull’impiego privato del
1924, che Speziale richiama a conferma della propria ricostruzione, era non a caso l’argomento forte della
dottrina corporativo-istituzionalista del rapporto di lavoro. In tema v. Carinci F., 1983.
275
Barbera, 2010, 33. Sull’importanza dell’approccio funzionalistico nell’ideazione della codatorialità v.
Alessi, 2015, 88.
276
Nogler (1994, 212-213) parla di «binario tendenzioso».
49
Conseguentemente, la tesi della codatorialità rischia di contraddire il dato positivo277. Se
quest’ultimo viene individuato nelle due disposizioni introdotte nel 2013 (d.l. n.
76/2013, cit.), la portata delle stesse va fortemente ridimensionata, con l’effetto che
risulta preferibile ricondurre la codatorialità tra gli strumenti di regolazione del potere
datoriale e se tali disposizioni attribuiscono il potere direttivo ad un soggetto diverso dal
datore, la codatorialità finisce per assolvere alla funzione di “esimente”, integrando
un’ulteriore eccezione, oltre a quelle della somministrazione e del distacco278, rispetto al
divieto di dissociare la titolarità del rapporto e l’esercizio del potere direttivo279. Un
diverso utilizzo dell’istituto, pensato a tutela del lavoratore potrebbe viceversa
moltiplicare gli obblighi posti a carico dello stesso, e quindi indebolirne la posizione,
manifestando una indesiderabile eterogenesi dei fini280.
Con riferimento, poi al secondo assunto, e cioè la rivisitazione del concetto di
subordinazione, per riadattarlo alle strutture economico – organizzative complesse, onde
comprendere le obiezioni di Mazzotta conviene riepilogare la posizione di Speziale281.
Secondo quest’ultimo, la codatorialità «non è una tecnica inconciliabile con la
subordinazione o uno strumento incompatibile con mercati globali e competitivi, ma
costituisce, al contrario, una risposta già sperimentata per contrastare la “perdita di
senso” del diritto del lavoro a fronte dei nuovi processi di segmentazione dei processi
produttivi»282. Il recupero del senso del diritto del lavoro, quindi, passerebbe attraverso
l’attribuzione a soggetti estranei ai rapporti di lavoro della titolarità formale e
sostanziale del contratto, riconoscendo la validità di una subordinazione di fatto. La
causa unitaria e complessa dell’unico contratto derivante dal collegamento negoziale
determina l’importazione degli effetti legali dei contratti di lavoro anche in capo al
committente283.
Per tentare di dimostrare questa tesi, Speziale attinge alternativamente a quelle di Ghera,
relativa alla subordinazione – coordinamento, ovvero di Napoli, della subordinazione
come inserimento nell’organizzazione altrui284, oppure ancora alla tesi di matrice
giurisprudenziale (Corte cost. 12 febbraio 1996, n. 30 – relatore Mengoni) della
subordinazione come doppia alienità, secondo cui la subordinazione «è determinata dal
concorso di due condizioni che negli altri casi non si trovano mai congiunte: l’alienità
(nel senso di destinazione esclusiva ad altri) del risultato per il cui conseguimento la
prestazione di lavoro è utilizzata, e l’alienità dell’organizzazione produttiva in cui si
inserisce»285. A ben guardare, però, l’Autore ritiene sufficiente ricorrere alla teoria
generale del diritto e al dibattitto sulla subordinazione, andando oltre la lettura fordista
dell’art. 2094 c.c., con una interpretazione della disposizione orientata all’attuale
situazione socio-economica, che implicherebbe una nozione plurale e non monista di
subordinazione. Si tratterebbe di applicare all’art. 2094 c.c. il metodo tipologico
funzionale, giungendosi ad affermare la possibilità di costituire il vincolo di
277
Romei, 2016, 517.
Sulla non riconducibilità del distacco e della somministrazione alla codatorialità v. Speziale, 2010, 7172.
279
Chieco, 2015, 212, secondo cui fuori dalla fattispecie disegnata nel 2013 «la fattispecie che si
configurerà non potrà che essere quella dell’utilizzazione indiretta delle prestazioni da parte dei soggetti
diversi dal datore di lavoro: utilizzazione illecita ed irregolare, con applicazione delle relative sanzioni
(ad es. somministrazione irregolare ma anche - ove concretamente configurabile - appalto privo dei
requisiti richiesti), salvo che essa non risulti lecitamente formalizzata e concretamente strutturata in
termini di distacco».
280
Ratti, 2015, 166-167.
281
Speziale, 2010, 54-58 e 65 ss.
282
Speziale, 2010, 54.
283
Speziale, 2010, che combina il canone lavoristico della subordinazione con il principio civilistico del
collegamento negoziale; Raimondi, 2012.
284
Napoli, 1995.
285
Speziale, 2010, 58.
278
50
subordinazione in capo all’imprenditore principale, anche se non esercita direttamente il
potere direttivo, secondo un modello già consolidato a livello normativo (si pensi alla
somministrazione o al distacco). In questa prospettiva, Speziale evidenzia la perdita di
valore della direzione per finalità qualificatorie. Se si considera l’impresa integrata, poi,
il potere direttivo sovente è esercitato dal soggetto utilizzatore della prestazione, che lo
fa anche nell’interesse dell’impresa principale o committente che dir si voglia, con una
sorta di utilizzazione delegata del potere direttivo, invero non incompatibile con le
categorie civilistiche di riferimento (v. art. 1338 e 1392 c.c.), che induce ad invocare la
c.d. contemplatio domini e cioè la esteriorizzazione al terzo lavoratore che il potere
direttivo è esercitato in nome e per conto dell’impresa principale. Tale stato di cose non
appare ostativo alla configurazione della codatorialità nell’impresa integrata, in quanto
la condivisione degli assetti organizzativi e degli interessi coinvolti giustifica l’identità
o la somiglianza tra disposizioni dell’impresa principale e direzione delle prestazioni
lavorative, in quanto entrambe finalizzate a soddisfare esigenze comuni nell’impresa
integrata286.
Secondo Mazzotta, la tesi di Speziale (apparentemente) ancorata all’art. 2094 c.c.287, sia
pure in una versione rivisitata, costituisce la tecnica antitetica della subordinazione che
porta alla individuazione della interposizione con la quale condivide la stessa
grammatica concettuale288. Ne è dimostrazione la svalutazione dell’esercizio del potere
direttivo che viceversa costituisce il discrimen tra appalto e interposizione.
La subordinazione, ancorché fondare la codatorialità, resta l’unico criterio selettivo per
distinguere il vero datore di lavoro da quello fittizio289. Una conferma promana dalla
giurisprudenza che ricava dall’art. 2094 c.c. il criterio identificativo della
interposizione290.
Obiezioni specifiche alla teoria della codatorialità vengono poi sollevate con riguardo al
fenomeno dei gruppi di imprese, in relazione ai quali la stessa punta su tre concetti
chiave.
Il primo è quello della dipendenza economica o dell’impresa dominante291, ma la
normativa che se ne occupa (subfornitura) afferisce ad una relazione tra imprese di cui
riafferma l’autonomia, ancorchè l’una economicamente dipendente dall’altra, che la
teoria della codatorialità di fatto invece esclude292.
Il secondo concetto chiave riguarda la forte integrazione contrattuale o societaria con un
richiamo all’art. 2497 c.c., in tema di responsabilità della controllante293; ma in questo
286
Speziale, 2010, 65 ss.
Speziale (2010, 33 ss., 39-40), secondo il quale la disposizione del codice civile non esclude, in
astratto, la possibilità di un unico contratto di lavoro con diversi datori; Chieco, 2015, 209.
288
Mazzotta, 2006, 159 ss.
289
Veneziani, 1990, 617; Nogler, 1994, 213.
290
V. Cass. n. 25270/2011; ma ancor prima Cass. S.U. n. 22910/2006 che, secondo Nicolosi (2012, 61)
avrebbe preso atto della coesistenza di più datori di lavoro nei gruppi di impresa, di cui uno avente
rapporti contrattuali con i lavoratori e l’altro rapporti non contrattuali, oltrepassando l’apparente
multidatorialità, con selezione di un solo soggetto cui imputare il rapporto di lavoro. «In tale selezione
essa trascura la barriera formale del contratto di lavoro e guarda oltre, concentrandosi sulla reale
consistenza del rapporto, svoltosi permanentemente alle dipendenze di colui il quale non detiene il
relativo contratto». A sua volta Alessi (2015, 85-86) ritiene che la conclusione cui è pervenuta la
Cassazione a Sezioni Unite, omaggio del dogma dell’unicità del datore di lavoro, cozzi con la possibilità
di immaginare situazioni in cui la prestazione lavorativa soddisfa simultaneamente l’interesse di più
datori di lavoro, si pensi a quanto accade con la somministrazione.
291
Speziale, 2006, 37 e 44.
292
Pinto, 2013.
293
L’importanza della disciplina codicistica rinvenibile sub art. 2497 ss. c.c. promanerebbe dalla valenza
di «embrionale statuto organizzativo» della suddetta regolamentazione che, secondo Perulli (2014, 493),
attesterebbe la nascita del fenomeno della codatorialità nel campo della regolazione giuslavoristica dei
gruppi di imprese.
287
51
caso, si attinge ad un aspetto patologico che nulla ha a che vedere con la diversa
imputazione dei rapporti di lavoro. Distinguendo tra il ruolo di coordinamento e
direzione, fisiologico, dalla ingerenza della società capogruppo nella gestione del
rapporto di lavoro, la verifica va fatta in questa seconda direzione a nulla rilevando il
rapporto societario294.
Con riferimento infine al terzo concetto chiave, e cioè all’immanente interesse di
gruppo (ma ciò potrebbe valere anche per l’interesse di rete), può obiettarsi che lo stesso
rinnega l’essenza della subordinazione ancorata non alle finalità produttive
dell’imprenditore, ma alla ricorrenza dei poteri tipici del datore295.
L’ultima obiezione, opponibile alla teoria della codatorialità, di carattere sistematico, è
l’inerenza alla stessa della responsabilità solidale che si fonda su disposizioni
eccezionali, in quanto tali insuscettibili di applicazione estensiva o analogica296 (su
questo profilo v. supra), il che osta ad una codatorialità elevata a sistema297.
Dalle considerazioni svolte emerge la impraticabilità sul piano concreto delle teorie
sulla codatorialità, ove si abbandoni il tradizionale terreno dell’imputazione del
rapporto.
Invocare l’intervento del legislatore con disposizioni generali e astratte significherebbe
appiattire le diversità e vanificare le scelte organizzative tendenti a recuperare
competitività, considerato che il fenomeno dei gruppi e delle reti «è il regno delle
differenze»298. Diverso sarebbe un intervento della contrattazione collettiva, più idonea
al governo delle differenze e a modellare trattamenti adeguati alle singole specifiche
realtà. Solo la contrattazione collettiva può dare un fondamento alla codatorialità,
coniugando flessibilità e competitività da un lato e strumenti di protezione dall’altro
lato299.
13.5. I problemi indotti dalla codatorialità
Mettendo da parte le critiche opposte alla teoria della codatorialità, la contitolarità dei
rapporti di lavoro ove prevista dalla legge (artt. 30 e 31 d.lgs. n. 276/2003) determina
una serie di implicazioni, tra le quali possono segnalarsi: 1) le modalità di esercizio dei
poteri dei datori contitolari del rapporto, con specifico riferimento all’esercizio dello ius
variandi e del potere disciplinare; 2) la qualificazione giuridica (se distacco o
trasferimento) dell’utilizzo dei lavoratori presso le diverse unità produttive dei codatori;
3) la possibile continuità del rapporto di lavoro, ove il lavoratore intrattenga successivi
contratti alle dipendenze di diverse società del gruppo; 4) l’applicazione dei diritti
sindacali; 5) la parità di trattamento da osservarsi da parte dei diversi datori300.
Una risposta articolata a tali interrogativi è stata fornita da Razzolini301.
Partendo dalla codatorialità vista sotto il profilo del condebito, l’A., attingendo alla tesi
di Busnelli, individua l’effetto tipico del condebito (o usando l’espressione di Busnelli
dell’obbligazione soggettivamente complessa) nella solidarietà ex art. 1294 c.c., che si
specifica nel caso come obbligazione collettiva. Detta solidarietà si estende non solo
agli obblighi retributivi e contributivi, ma a tutti gli obblighi del datore di lavoro302.
294
Cass. n. 25270/2011.
Niccolai, 2016, 169.
296
Sostanzialmente adesiva la posizione di Corazza (2004, 250), considerato che invoca un intervento
legislativo per introdurre un generale sistema di responsabilità solidale.
297
Niccolai, 2016.
298
Mazzotta, 2013; viceversa auspicato da Speziale, 2010, e Biasi, 2011.
299
Niccolai, 2016, 170-171.
300
Treu, 2012, 15.
301
Razzolini, 2009, § 5.
302
Nello stesso senso, Speziale, 2010, 78-79, secondo cui «Il vincolo solidale nasce direttamente dall’art.
1294 c.c. e non richiede alcuna espressa manifestazione di volontà perché vi è un'unica fonte delle
295
52
La soluzione prospettata da Razzolini è stata poi estesa da Speziale (v. supra)303.
In materia di sicurezza opereranno i principi fissati dal d.lgs. n. 81/2008 e quindi gli
obblighi di prevenzione graveranno sui soggetti individuati dal Testo Unico304; per
quanto riguarda la delega di funzioni, pensata per un datore di lavoro singolo, ben può
essere conferita da più codatori ad un unico soggetto nel rispetto del principio di
effettività e dei requisiti anche formali previsti dall’art. 16, d.lgs. n. 81/2008305.
Per quanto concerne, poi, il profilo del trattamento retributivo, applicabile ad un
dipendente del gruppo, non c’è alcun trattamento aggiuntivo, salvo lo svolgimento di
mansioni superiori, oppure la previsione di una “indennità di funzione”.
Passando alla codatorialità vista sotto il profilo del concredito, quest’ultimo coinvolge
le modalità di esercizio delle facoltà e delle prerogative riconducibili alla contitolarità.
L’interesse del gruppo orienta il modo di esercizio dei poteri del datore di lavoro, ma
non ne postula un esercizio congiunto o simultaneo che sarebbe impossibile dal punto di
vista pratico. La soluzione si avvicina alla tesi della obbligazione correale attiva,
secondo la quale se un unico rapporto fa capo ad una pluralità di soggetti, ciascuno di
essi ne dispone per intero come se fosse un unico creditore306; ne consegue che se
l’attività lavorativa è finalizzata a perseguire gli scopi comuni del gruppo,
cionondimeno ciascuna società esercita singolarmente il proprio potere direttivo e
conformativo307.
L’adempimento dei generali obblighi di diligenza e fedeltà deve conformarsi alle
caratteristiche dell’organizzazione della rete, con la conseguenza che l’inadempimento
da parte del lavoratore sarà tale nei confronti di tutti i codatori, perché ad essi è diretta la
prestazione e l’esercizio del potere direttivo e disciplinare di ciascuno è da presumersi
iuris et de iure conforme alla volontà di tutti gli altri308; è pertanto indispensabile
regolare nel contratto di rete non già la titolarità del potere direttivo quanto le sue
modalità di esercizio309.
Come ipotesi specifica di esercizio del potere direttivo Razzolini richiama la mobilità
del lavoratore presso un’altra società, qualificabile piuttosto che come distacco come
trasferimento, quindi assoggettato alla sussistenza delle comprovate ragioni tecnicoorganizzative-produttive.
Per altri profili del condebito e del concredito, Razzolini sostiene che si può ricavare la
soluzione applicando analogicamente norme che regolano casi simili o materie
analoghe, cioè, ipotesi di più soggetti co-datori di lavoro. Il riferimento è alla disciplina
della somministrazione, invocata ad esempio per quanto concerne la parità di
trattamento e l’esercizio dei diritti sindacali310.
Del pari dalla disciplina della somministrazione possono ricavarsi le modalità di
esercizio dello ius variandi, ma nel caso di assegnazione a mansioni superiori, intanto si
potrebbe invocare la solidarietà se le altre società siano state informate.
obbligazioni». V. anche Greco, 2014, 398; Perulli, 2014, 492; Tursi, 2015, 127. Sulla solidarietà come
elemento strutturale della codatorialità v. Chieco, 2015, 211.
303
Speziale, 2010, 79-80.
304
Tursi, 2015, 128 e 129 e Treu, 2015, 23-25, il quale evidenzia l’importanza della formalizzazione dei
ruoli nelle imprese retiste.
305
Treu, 2015, 25. Per un approfondimento in tema di tutela della salute e sicurezza nella frammentazione
d’impresa v. Camasta, 2016.
306
Branca, 1957, 154; Nogler, 1994, 222.
307
Secondo Greco (2014, 398), la risoluzione del rapporto da parte di un solo codatore determina
l’estinzione anche nei confronti degli altri. In senso conforme, Tursi, 2015, 129. Sull’ampliamento degli
obblighi del lavoratore e conseguentemente del potere disciplinare dei codatori, Raimondi, 2016, 158.
308
Speziale, 2010, 86; sull’esercizio dei poteri disciplinare, direttivo e di controllo, singolarmente ed in
autonomia da parte del datore di lavoro v. Perulli, 2014, 492-493.
309
Greco, 2014, 398; Tursi, 2015, 125-128.
310
Pinto, 1999, 456, sostiene la parità di trattamento, ma desumendola dall’art. 2358 c.c. a proposito delle
facilitazioni concesse ai dipendenti di società controllante e controllata per l’acquisto di azioni.
53
Lo stesso dicasi per l’esercizio del potere disciplinare, con una gestione da parte della
direzione o amministrazione del gruppo.
Per quanto riguarda la continuità del rapporto di lavoro, attingendo ad esperienze estere,
la si potrebbe riconoscere ove il lavoratore abbia intrattenuto successivi contratti alle
dipendenze di diverse società del gruppo311.
Estremamente problematico risulta essere il computo dei dipendenti sotto un duplice
profilo; da un lato, a quale impresa retista si imputano i lavoratori codati312; dall’altro
lato, qual è l’organico di riferimento per individuare la tutela (ad esempio in materia di
licenziamenti) applicabile a questi ultimi: come si vede, l’alterazione del rapporto
binario ingenera siffatte problematiche.
Sotto il primo profilo sono state prospettate due ipotesi; la prima è quella della
imputazione del lavoratore codato a tutti i codatori313; la seconda è quella della
imputazione a ciascun imprenditore retista pro parte314; si applicherebbe in buona
sostanza il criterio di computo previsto dalla legge per i lavoratori part-time. Più
problematico è rispondere al secondo interrogativo. Se si attinge al criterio dell’unico
centro di imputazione, elaborato dalla giurisprudenza per il gruppo di imprese, si
dovrebbe concludere per l’organico unico, cioè quello risultante dalla sommatoria degli
organici delle varie imprese retiste315. La soluzione convince, ma con la precisazione
che tale meccanismo di computo varrebbe solo per individuare la disciplina applicabile
al lavoratore codato, con un’applicazione rovesciata del noto principio “cuius
incommoda et eius commoda”.
Un ulteriore problema si pone in relazione al licenziamento per motivi economici, sia
individuale sia collettivo; per entrambi si discute se i criteri di scelta debbano essere
rapportati alla singola impresa retista che procede al licenziamento o a tutte; idem per
quello individuale in relazione all’obbligo del repechâge. La soluzione di entrambi i
problemi riporta ovviamente alla considerazione unitaria o meno delle imprese retiste,
ma questa volta in riferimento non al solo lavoratore codato (per il quale si può
richiamare quanto detto a proposito del computo dell’organico), ma anche a quelli
assunti dalle singole imprese retiste. Soluzioni massimaliste non sono proponibili,
dovendosi tener conto del livello di integrazione contrattuale esistente tra le imprese316.
La giurisprudenza d’oltralpe estende la valutazione circa la giustificazione del
licenziamento economico all’intero gruppo d’imprese a cui appartiene quella che ha
disposto il licenziamento317.
311
Razzolini, 2009, § 5.
Concreta applicazione della soluzione da dare al problema è poi quella di come “gestire” i limiti del
contingentamento nelle percentuali fissate dalla legge o dalla contrattazione collettiva nell’utilizzo delle
forme flessibili di impiego (per tutti, il contratto a termine), consentendo ad esempio di collegarle al
numero dei lavoratori impiegati nel conseguimento del programma di rete (Alessi, 2015, 97; più prudente,
Perulli, 2013b, 87).
313
Speziale, 2010, 84.
314
Tursi, 2015, 129-130.
315
Speziale, 2010, 84; Greco, 2014, 398.
316
Speziale, 2010, 84-85; con specifico riferimento al repechage, Tursi, 2015, 130, obietta alla soluzione
positiva che per il passaggio da una impresa retista all’altra occorre il consenso di quella che dovrebbe
ricevere il lavoratore in esubero; ovviamente, su questo aspetto potrebbe giocare un ruolo decisivo quanto
previsto nel contratto di rete o in accordi ad hoc. Analogamente, sulla corretta individuazione
dell’organizzazione realizzata con il contratto di rete come parametro di riferimento per valutare la
legittimità o l’illegittimità del licenziamento e per individuare le tutele applicabili, Carinci M.T., 2015,
41. Più perentorio Biasi, 2014, 160, per il quale il datore “originario” fungerebbe da primo e principale
obbligato, specialmente nelle ipotesi di condanna alla reintegra.
317
La Corte di Cassazione francese prende atto della sostanziale confusione di interessi, attività e gestione
prevedendo che l’obbligo di reclassement sia adempiuto all’interno del gruppo, pena l’ingiustificatezza
del licenziamento. Alla responsabilità derivante dalla declaratoria di illegittimità del licenziamento si fa
conseguire la responsabilità solidale dei diversi datori coinvolti. Nonostante il diffuso richiamo da parte
312
54
Le soluzioni innanzi indicate sono astrattamente condivisibili, pur se non sempre
coerenti con l’unitarietà dell’impresa di gruppo318. Al rinvio operato da Razzolini alla
disciplina della somministrazione, può fondatamente obiettarsi che detta disciplina
stante la sua eccezionalità è insuscettibile di applicazione analogica, in quanto essa vede
succedersi nella posizione di titolare del potere direttivo diversi soggetti che restano
distinti sul piano diacronico, mentre sul piano sincronico l’astratta codatorialità che
coinvolge somministratore e utilizzatore non crea situazioni di sovrapposizione, in
ragione della finalità dell’istituto che è quella di consentire ad un soggetto che non è
datore di lavoro di utilizzare e dirigere le prestazioni del lavoratore somministrato319.
Sul problema degli effetti indotti dalla codatorialità, questa volta rimbalzati sul
fenomeno delle reti di imprese, è tornato di recente Maio secondo cui la giuridificazione
della codatorialità quale strumento (fattore di convenienza) gestionale nella regolazione
del personale chiamato a lavorare per la rete pone varie questioni con riguardo alla
tenuta dello statuto protettivo del lavoratore retista, nonché alla imputazione degli effetti
protettivi del contratto di lavoro320.
Come emerge da quanto innanzi detto e dall’elaborazione giurisprudenziale sulle realtà
organizzativamente complesse, a molti degli interrogativi posti da Maio è stata già data
esauriente risposta. In ogni caso la complessità dei problemi (e delle connesse soluzioni)
indotti dalla codatorialità non milita certo a favore della sua assunzione a paradigma di
tutela dei lavoratori coinvolti nei fenomeni da essa considerati.
dell’ordinamento francese al coemploi è tuttora controverso se i co-employeur siano responsabili per
imputazione indiretta del rapporto di lavoro ovvero per via extracontrattuale, avendo la giurisprudenza
francese sempre considerato in senso bilaterale il contratto di lavoro (Ratti, 2016, 387 – 388, ed ivi ampi
richiami alla giurisprudenza d’oltralpe). Sulla codatorialità in Francia, sia in dottrina (gruppo come
“personne morale”), sia in giurisprudenza (employer conjoint) v. Perulli, 2014, 496 ss.
318
Treu, 2012, 15.
319
Tursi, 2015, 120.
320
Secondo Maio (2016, nota 6) nello specifico si tratta di analizzare: 1. la disciplina delle influenze e dei
poteri all’interno della rete e le conseguenti ricadute sul rapporto di lavoro; 2. le conseguenze sul
contratto di lavoro in caso di recesso di una impresa dalla rete o per effetto della ridefinizione degli
accordi originari; 3. la riferibilità della ricordata normativa alle sole reti di fatto, atteso che distacco e
codatorialità sembrerebbero presupporre l’esistenza di soggetti distinti; 4. cosa debba intendersi per
«operare della rete» che fa sorgere in automatico l’interesse organizzativo del distaccante, legittimando il
distacco dal titolare formale del contratto di lavoro; 5. se anche nel caso della codatorialità resti centrale il
requisito della c.d. temporaneità del distacco e della determinatezza dell’attività o se, invece, l’istituto non
possa essere impiegato per far fronte ad esigenze permanenti di utilizzo condiviso di una prestazione di
lavoro; 6. se la norma presupponga implicitamente la condizione che il dipendente in regime di distacco o
codatorialità venga poi effettivamente impiegato per lo svolgimento delle attività che le imprese hanno
deciso di svolgere in comune; 7. quale sia l’ampiezza effettiva del rinvio in bianco operato dal legislatore
alle regole stabilite attraverso il contratto di rete stesso, attesa la natura essenzialmente inderogabile del
tradizionale statuto protettivo del lavoratore; 8. l’estendibilità di questo modello anche al di fuori della
rete al lavoro nelle c.d. Società collegate e nei gruppi di impresa e la possibilità altrimenti di sperimentare
nei casi non contemplati dalla norma altre forme di codatorialità; 9. quale sia nel caso della c.d.
codatorialità il regime della responsabilità (ad es. per gli obblighi di sicurezza, per i pagamenti dei crediti,
per l’adempimento degli obblighi assistenziali e previdenziali, per l’illegittimo esercizio del poteri ecc.)
con riferimento ai diversi modelli di imputazione possibili (complementare, cumulativa, solidale,
alternativa); 10. quale sia l’inquadramento corretto dell’obbligazione soggettivamente complessa assunta
dal lavoratore nei confronti di una pluralità di creditori; 11. quali siano gli effetti del recesso dal rapporto
di lavoro irrogato da uno soltanto dei datori in rete; 12. come si calcolano i requisiti dimensionali che
danno adito all’applicazione delle diverse discipline di legge protettive del lavoratore; 13. se ricorra la
possibilità di sviluppare una contrattazione collettiva di rete e in che rapporto si ponga con le altre
contrattazioni di diverso livello.
55
SEZIONE III - LE PROSPETTIVE
Premessa
I limiti che connotano i modelli di tutela sin qui esaminati inducono a chiedersi se non
si possa “alzare l’asticella”, ipotizzandone ulteriori.
Le strade percorribili sono diverse e vanno dalla generalizzazione di quelli già normati
(è il caso della somministrazione tramite agenzia e della parità di trattamento)
all’incentivazione della responsabilità sociale d’impresa ovvero al rafforzamento della
tutela della “dipendenza economica” come tecnica di tutela riflessa.
14. La somministrazione: un modello di tutela
All’ipotesi prospettata nel titolo del presente paragrafo giova premettere un veloce
excursus sull’evoluzione della disciplina della somministrazione, all’origine fornitura di
lavoro temporaneo.
La coincidenza tra titolarità del rapporto di lavoro e sua fruizione – risultato di una
evoluzione normativa in cui l’edificazione del sistema di tutela del lavoro si era mossa
insieme alla rigorosa determinazione sia dei soggetti tutelati sia dei soggetti gravati
degli obblighi relativi321, definitivamente consacrata dalla l. n. 1369/1960 – era stata nel
corso del tempo “manipolata” dalla giurisprudenza in conseguenza dei mutamenti del
sistema produttivo322.
La prima incrinatura normativa di tale assetto è stata determinata dalla l. n. 196/1997323,
che aveva introdotto la fornitura di lavoro per ipotesi tassative e connotate da una chiara
straordinarietà o transitorietà324, rappresentando pertanto una «eccezionale deroga al
generale divieto di interposizione»325.
Tale divieto viene successivamente travolto dal d.lgs. n. 276/2003, che introduce una
nuova tipologia di somministrazione a tempo indeterminato, per la quale si riprende la
precedente tecnica normativa di individuazione dell’area di accesso attraverso una
puntuale elencazione casistica delle ipotesi ammesse326; e ridefinisce l’area di agibilità
della somministrazione a tempo determinato, attraverso una formulazione ampia e
generica che fa riferimento a ragioni di carattere «tecnico, produttivo, organizzativo o
sostitutivo», con una sostanziale liberalizzazione del ricorso a questo istituto che trova
un argine nella sola fissazione – demandata alla contrattazione di livello nazionale dei
sindacati comparativamente più rappresentativi – di «limiti quantitativi di
utilizzazione».
Il processo di apertura legislativa verso la somministrazione viene brevemente interrotto
con la l. n. 247/2007, che abolisce la somministrazione a tempo indeterminato, ma
riprende successivamente con la l. n. 191/2009, che, oltre a reintrodurre la possibilità di
ricorrere a questa tipologia negoziale, demanda alla contrattazione aziendale e
321
Su questi profili, v. per tutti Mazzotta, 1979, 295 ss.; Caruso, 2005, 523. Il divieto di interposizione,
per altro verso, era riconducibile a una regola di trasparenza nell’acquisizione del fattore lavoro, diretta a
garantire ai lavoratori subordinati l’effettivo esercizio dei loro diritti fondamentali (De Simone, 1995, 173
ss.), e ad un «principio di non dissociazione» collegato alla logica di intervento dell’ordinamento nel
governare le forme di impiego del fattore lavoro (Carinci M.T., 2000, passim).
322
Si è rilevato (Del Punta, 1995, 630 ss.; De Luca Tamajo, 2002, 40 ss.) come la giurisprudenza avesse
aperto la disciplina del 1960 ad equilibrate soluzioni sostanzialmente adeguate alle mutate esigenze del
sistema produttivo, con una pragmatica opera di “legittimazione” di operazioni di esternalizzazione
motivate da effettive necessità di organizzazione dei processi produttivi.
323
Quadri, 2004, 81 e 212; Nicolosi, 2012, 65.
324
Elencate all’art. 1, co. 2.
325
Carinci M.T., 2002, 25.
326
V. l’art. 20, co. 3.
56
territoriale il potere di prevedere nuove ipotesi; e continua con la l. n. 134/2012, che
amplia ulteriormente il ventaglio di queste.
Parimenti nel senso della liberalizzazione si muove l’intervento che riguarda la
somministrazione a tempo determinato, che con la l. n. 92/2012 viene svincolata dal
requisito causale in caso di primo rapporto di durata non superiore a dodici mesi e nelle
ipotesi individuate da contratti collettivi nell’ambito di processi organizzativi
determinati da particolari ragioni (nel limite complessivo del sei per cento del totale dei
lavoratori occupati nell’ambito dell’unità produttiva)327.
L’eliminazione del vincolo causale è poi la strada seguita dal legislatore del Jobs Act nel
realizzare la completa apertura dell’accesso all’istituto328.
Nella prima fase della riforma (d.l. n. 34/2014, conv. in l. n. 78/2014) l’intervento
riguarda la somministrazione a tempo determinato, il ricorso alla quale diviene del tutto
acausale, nei limiti quantitativi individuati dai contratti collettivi329 applicati
dall’utilizzatore330.
Nella fase successiva, l’abolizione del requisito causale viene operata anche nella
somministrazione a tempo indeterminato: il d.lgs. n. 81/2015 sostituisce alle precedenti
condizioni di accesso il semplice limite del «venti per cento del numero dei lavoratori a
tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore».
La progressiva liberalizzazione dell’istituto qui sommariamente ripercorsa accompagna
un mutamento del contesto produttivo e della strutturazione stessa dei modi di
produzione; e, per altro verso, si inserisce in un processo di regolazione più ampio delle
modalità di frammentazione dell’impresa che parimenti è volto a eliminare vincoli
pregressi (vedi in particolare l’evoluzione della disciplina in materia di appalti).
Se la somministrazione di lavoro, al momento della sua introduzione, ha rappresentato
un paradigma eversivo nella regolazione del rapporto tra impresa e lavoro331, in questo
mutato scenario, paradossalmente, vale di fatto sia a riportare «all’interno del perimetro
aziendale»332 lavorazioni altrimenti esternalizzate attraverso contratti di appalto e reti di
imprese, sia a recuperare alcune tutele per il lavoratore perse negli assetti in esame.
Quanto al primo profilo, la somministrazione consente la «reinternalizzazione di
segmenti del processo produttivo prima affidati all’esterno tramite contratti di
appalto», riportandoli sotto il controllo dell’imprenditore, e coniugando pertanto le
esigenze – altrimenti difficilmente conciliabili – di flessibilità organizzativa e di diretta
conformazione delle prestazioni lavorative333.
Tale mediazione – attualmente sancita nella stessa definizione normativa della
somministrazione quale contratto «con il quale un’agenzia di somministrazione […]
mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per
tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell’interesse e sotto la
327
Indicate all’art. 5, co. 3, d.lgs. n. 276/2003; v. Riccardi, 2013.
In tema Filì, Riccardi, 2015, 293 ss.
329
Che, ai sensi dell’art. 51, d.lgs. n. 81/2015, sono «i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali
stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti
collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza
sindacale unitaria».
330
Con la specificazione che «è in ogni caso esente da limiti quantitativi la somministrazione a tempo
determinato di lavoratori di cui all’articolo 8, co. 2, l. n. 223 del 1991, di soggetti disoccupati che
godono, da almeno sei mesi, di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali, e
di lavoratori “svantaggiati” o “molto svantaggiati” ai sensi dei numeri 4) e 99) dell’art. 2, reg. UE n.
651/2014 della Commissione, del 17 giugno 2014, come individuati con decreto del Ministro del lavoro e
delle politiche sociali».
331
Vedi, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, Speziale, 2004a, 277 ss.; Chieco, 2004.
332
Calcaterra, 2016, 581 ss.
333
Ibidem.
328
57
direzione e il controllo dell’utilizzatore»334 – rimanda immediatamente al problema del
fondamento di questi poteri, tradizionalmente propri della figura datoriale.
Secondo Ghera l’inserimento del lavoratore temporaneo (ora somministrato) nella
organizzazione dell’impresa utilizzatrice modifica sostanzialmente più che il contenuto
tecnico-funzionale della subordinazione il tipo della collaborazione, essendo questa
finalizzata esclusivamente alla somministrazione di lavoro alle imprese utilizzatrici e
non, secondo le previsioni dell’art. 2094 c.c., al coordinamento organizzativo delle
attività lavorative. Il contratto per prestazioni di lavoro temporaneo realizza, quindi, un
sottotipo qualificato da una speciale forma di subordinazione. La tecnica utilizzata dal
legislatore per “specializzare” il contratto di lavoro temporaneo, secondo Ghera, è
degna di nota perché influisce più in profondità e dall’interno, attraverso il nesso
subordinazione – collaborazione, sulla funzione organizzativa e quindi sulla causa del
contratto335.
Secondo altri, l’istituto, sin dalla sua introduzione nel 1997, rimanda alla tesi della
codatorialità, sostenendosi che dalla relazione trilaterale tra i soggetti coinvolti in questo
tipo di operazioni (somministratore, utilizzatore, lavoratore) scaturisce un rapporto di
lavoro caratterizzato dalla duplicazione del creditore della prestazione lavorativa: tanto
l’utilizzatore quanto il somministratore sono da qualificare come codatori di lavoro336.
Si è sostenuto che – una volta acquisito il dato che il rischio delle sopravvenienze
negative nel rapporto può essere oggetto di una “transazione commerciale” volta al
trasferimento della funzione assicurativa nei confronti del lavoratore (tipica della
posizione datoriale) a un soggetto specializzato nella gestione del relativo rischio –
«viene meno ogni ostacolo concettuale allo sdoppiamento della figura del datore di
lavoro e alla configurabilità di un rapporto di lavoro caratterizzato dalla compresenza
di due creditori di un’unica prestazione lavorativa», soggetti che sono per altro verso
condebitori, per numerosi titoli, nei confronti del lavoratore337.
A conferma che la formulazione dell’art. 2094 c.c. non presenta argomenti in senso
contrario alla “compatibilità logica” fra il tipo legale del lavoro subordinato e la
dissociazione tra titolare del contratto di lavoro e utilizzatore della prestazione338, si
osserva che «la norma nulla dice circa il soggetto con il quale il lavoratore può
contrarre e obbligarsi: essa dunque non esclude la possibilità che, con il contratto di
lavoro subordinato, il lavoratore A si obblighi verso il soggetto B a prestare il proprio
lavoro in favore e sotto la direzione del soggetto C o di una serie indeterminata di altri
soggetti»339.
334
Art. 30, d.lgs. n. 81/2015.
Ghera, 2003, 80-81; Romei, 2005, 735 ss.
336
Per questa ricostruzione Tiraboschi, 1999, 315 ss.
337
Ichino, 2004a, 297. Sull’emersione di una figura di datore di lavoro in senso “funzionale” nella
fattispecie della somministrazione di lavoro v. Barbera, 2010, 223 ss. Contra Romei, 2016, 514, secondo
il quale lo schema della somministrazione “per definizione” esclude la codatorialità, stante l’asimmetria
della distribuzione di poteri e diritti tra somministratore e utilizzatore nonché l’eccezionalità della
dislocazione del potere direttivo. Sulla duplicazione di posizioni creditorie nella somministrazione, che
non dà luogo a codatorialità, v. anche Speziale, 2010, 31.
338
La dottrina maggioritaria ha invece tradizionalmente affermato l’incompatibilità del rapporto
interpositorio con il tipo legale di cui all’art. 2094 c.c., considerando la coincidenza tra titolarità e utilizzo
del rapporto lavorativo elemento essenziale e qualificante della stessa fattispecie di cui alla norma
codicistica (per tutti Mazzotta, 1979, 263 ss.).
339
Ichino, 2004a, 295. In critica a questa costruzione Chieco, 2005, 340 ss., secondo il quale l’identità
dell’oggetto dei due contratti (prestazione di lavoro) «non comporta la duplicazione della posizione
creditoria, in quanto, a fronte dello stesso oggetto del credito, vi sono diversi soggetti obbligati nei due
contratti, quindi due diversi rapporti obbligatori».
335
58
La compatibilità tra lo schema dell’art. 2094 c.c. e la dissociazione fra titolarità del
contratto ed esercizio delle prerogative datoriali è stata affermata anche – in
elaborazioni concettuali che seguono percorsi diversi – da altra parte della dottrina340.
Consegue alla sostenuta possibilità di una duplicazione del creditore della prestazione
lavorativa la negazione che il rapporto tra lavoratore e utilizzatore costituisca un
rapporto di mero fatto: «si tratta invece di un rapporto intessuto di precisi obblighi
giuridici reciproci tra queste due parti, fondato su due contratti che esse hanno
rispettivamente stipulato con lo stesso soggetto: il somministratore, il quale svolge così
un ruolo di “cerniera” contrattuale tra i due»341.
La negazione della qualificazione del rapporto de quo come di mero fatto si ritrova, per
altro verso, anche in costruzioni differenti dell’istituto, e segnatamente nella
riconduzione della somministrazione allo schema del contratto a favore di terzi – che
rinviene la fonte costitutiva della «relazione giuridica, fonte cioè di diritti ed obblighi»
fra lavoratore ed utilizzatore nel «doppio ordine di impegni» contenuti nei contratti (di
somministrazione e di lavoro) che vi sono a monte342 –; o nel richiamo, a vario titolo,
dello schema del collegamento negoziale come connotativo di tale operazione
commerciale343.
L’attribuzione all’utilizzatore dei poteri di conformazione della prestazione di lavoro
viene conseguentemente “letta” in modi diversi: quale conseguenza diretta della
duplicazione del creditore della prestazione lavorativa che connota l’istituto344; quale
risultato mediato dei rapporti tra i vari schemi contrattuali – fondato, volta a volta, sulla
«sommatoria degli impegni contenuti nei due schemi» nelle ricostruzioni della
somministrazione quale contratto a favore di terzo345, su una “clausola di rinvio” che
innesta sul contratto commerciale di somministrazione le regole che costituiscono la
disciplina del contratto di lavoro346, sul collegamento negoziale tra contratto di
somministrazione e contratto di lavoro347) –; quale oggetto di una delega (implicita e
parziale) dal somministratore all’utilizzatore348 o oggetto «di un nuovo tipo contrattuale
che è direttamente finalizzato a fornire un “servizio” (il lavoro) che deve garantire la
340
Si veda Spagnuolo Vigorita L., 1992, 81; Bellocchi, 2001, 174 ss.; Marazza, 2004, 104 ss.; Corazza,
2009, 9 ss.
341
Ichino, 2004a, 294.
342
Mazzotta, 2009, 948-949.
343
Perulli, 1999a, 237 ss., sostiene che il collegamento negoziale, nella sua accezione propria di
«situazione rilevante per l’ordinamento e produttiva di effetti giuridici», rappresenta il fondamento della
radicale scissione tra titolarità del contratto di lavoro ed effettiva fruizione e gestione della prestazione
lavorativa». Sul collegamento negoziale quale base della somministrazione ex d.lgs. n. 276/2003 – e, in
precedenza, della fornitura di lavoro ex l. n. 196/1997 – si veda anche Maresca, 1998, 202 ss.; Corazza,
1999b, 65 ss.; Carinci M.T., 2000, 425 ss., Tullini, 2003, 92 ss.; Ferraro, 2004, 157 ss.; Romei, 2016, 514,
515. Contra Chieco, 2005; Speziale, 2004a, 313 ss.; Ichino, 2004a, 292 ss.
344
Secondo Ichino, 2004b, 94, 95, «tra gli elementi costitutivi della posizione giuridica del datore di
lavoro che nel rapporto trilatero vengono imputati contemporaneamente all’uno all’altro soggetto spicca
per importanza il diritto al corretto svolgimento da parte del lavoratore della prestazione lavorativa,
prestazione che costituisce oggetto al tempo stesso del contratto di lavoro temporaneo e del contratto di
fornitura e della quale entrambe le imprese devono essere considerate a tutti gli effetti come creditrice
nei confronti del lavoratore (mentre la somministratrice, ne è, al contempo stesso, condebitrice con il
lavoratore verso l’utilizzatrice)».
345
Mazzotta, 2009, 948, 949: «risponde alla ratio della legge, che è interna alla causa del contratto di
lavoro fra agenzia e lavoratore e del contratto di somministrazione, che il lavoratore somministrato sia
inserito a tutto tondo nell’organizzazione produttiva dell’utilizzatore. Il che significa che quest’ultimo è
destinato a divenire, per tutta la durata del rapporto, il datore di lavoro sostanziale»
346
Chieco, 2005, 344 ss.
347
Per questa tesi Corazza, 1999b, 65 ss.; Carinci M.T., 2000, 425 ss., Perulli, 1999a, 237 ss.; Ferraro,
2004, 157 ss.; Ciucciovino, 2004, 98 ss.
348
Bonardi, 2004, 136, 137.
59
stessa utilità propria del lavoro subordinato e, quindi, deve necessariamente essere
organizzata dal destinatario finale della prestazione»349.
Quale che sia la ricostruzione teorica alla quale si acceda sui meccanismi attraverso cui
si realizza, la somministrazione determina così l’attribuzione al soggetto utilizzatore dei
tipici poteri datoriali di disposizione del fattore lavoro350, consentendo a questo di
gestire in via diretta e all’“interno” della propria organizzazione produttiva le
lavorazioni per le quali si avvale di lavoratori somministrati351.
Nell’attuale assetto di regolazione dei fenomeni di esternalizzazione, il principio di
parità di trattamento – che costituisce un architrave della somministrazione sin dal
momento della sua introduzione352 – provvede il lavoratore di una fondamentale
protezione che non sussiste in modelli “alternativi” quali gli appalti o le reti di imprese.
La parità di trattamento tra lavoratori somministrati e lavoratori dell’utilizzatore –
imposta ex ante dalla legislazione comunitaria/UE353, anche nel caso di fornitura di
lavoro temporaneo transnazionale tramite agenzia354 – è stata estesa355 dalle norme da
ultimo intervenute in subiecta materia al complessivo «trattamento economico e
normativo»356, nella logica di una tendenziale e globale357 equiparazione dei soggetti
che prestano il proprio lavoro in una stessa organizzazione produttiva358.
Alla stessa matrice di tutela del lavoratore è da ricondurre il regime di responsabilità
solidale tra somministratore e utilizzatore, che nell’assetto delineato dal Jobs Act ha una
latitudine sconosciuta ai modelli di responsabilità stabiliti negli appalti o nei gruppi di
impresa.
L’art. 35, co. 1, d.lgs. n. 81/2015 prevede che «l’utilizzatore è obbligato in solido con il
somministratore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e a versare i
relativi contributi previdenziali, salvo il diritto di rivalsa verso il somministratore»,
stabilendo in tal modo una responsabilità del soggetto che fruisce della prestazione che
è solidale, indipendente da quella del titolare del rapporto lavorativo (e nella specie non
349
Speziale, 2004b, 303 ss.
Oltre che i poteri direttivo e di controllo contemplati dall’art. 30, lo ius variandi, che trova espresso
riconoscimento nell’art. 35, co. 5, d.lgs. n. 81/2015, e «compete all’utilizzatore come corollario del
potere organizzativo sulla prestazione lavorativa oggetto del contratto di somministrazione» (Ichino,
2004a, 300).
351
La disciplina della somministrazione – come osserva Persiani, 2012, 413 – «consegna un modello
legale di sdoppiamento delle prerogative datoriali, cioè tra titolarità del rapporto e del potere direttivo,
che però mantiene i suoi contenuti e le sue caratteristiche proprio perché queste sono condizioni
dell’utilità del lavoro somministrato come del lavoro di chi è distaccato».
352
V. l’art. 23, co. 1, d.lgs. n. 276/2003.
353
La dir. 2008/104/CE stabilisce all’art. 5: «per tutta la durata della missione presso un’impresa
utilizzatrice, le condizioni di base di lavoro e d’occupazione dei lavoratori tramite agenzia interinale
sono almeno identiche a quelle che si applicherebbero loro se fossero direttamente impiegati dalla stessa
impresa per svolgervi il medesimo lavoro».
354
V. art. 1, par. 3, lett. c, dir. 96/71/CE.
355
La norma previgente faceva riferimento, più limitatamente, «a condizioni di base di lavoro e
d’occupazione».
356
Così l’art. 35, co. 1, d.lgs. n. 81/2005: «Per tutta la durata della missione presso l’utilizzatore, i
lavoratori del somministratore hanno diritto, a parità di mansioni svolte, a condizioni economiche e
normative complessivamente non inferiori a quelle dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore». Il
riferimento al principio di parità di trattamento ritorna, strumentalmente a questa previsione, nel co. 2
dell’art. 33, relativo alla forma del contratto di somministrazione.
357
Il principio di parità di trattamento e non discriminazione sancito nel co. 1 dell’art. 35 viene
completato dal co. 3 della stessa norma, per quanto riguarda le erogazioni economiche correlate ai
risultati e la fruizione dei servizi sociali e assistenziali.
358
Valorizza altresì la funzionalità dell’obbligo della parità di trattamento all’imposizione di «regole di
correttezza tra le imprese, garantendo una concorrenza genuina e non basata sul costo del lavoro»,
Romei, 2016, 215.
350
60
condizionata all’inadempimento o alla previa escussione di quest’ultimo)359, non
derogabile (né a livello individuale, né a livello collettivo)360, e non sottoposta a termini
decadenziali.
Il rafforzamento della posizione creditoria dei lavoratori somministrati derivante dalla
disposizione è di immediata evidenza, come pure lo è la loro maggiore tutela rispetto a
quella stabilita per i lavoratori in appalto (v. supra).
Una maggiore protezione per il lavoratore in somministrazione può essere individuata
anche sul piano della stabilità occupazionale. Il dato che le agenzie operano su un
mercato che sopravanza quello della singola impresa e, quindi, sono di per sé idonee a
garantire ai propri dipendenti una continuità occupazionale superiore a quella assicurata
da un comune operatore economico361, acquista una maggiore pregnanza a seguito del
nesso stabilito tra somministrazione a tempo indeterminato e assunzione del prestatore
con contratto a tempo indeterminato dall’art. 31, d.lgs. n. 81/2015.
La tutela del lavoratore che scaturisce da questa innovazione, per altro verso, è
particolarmente significativa ove si consideri il generale trend di precarizzazione dei
rapporti di lavoro che segna il lavoro “ordinario” nella recente legislazione (si pensi, tra
l’altro, alla liberalizzazione dei contratti di lavoro a termine e allo smantellamento delle
tutele per i licenziamenti individuali).
La somministrazione conclusivamente, combinando flessibilità dello strumento e
meccanismi di tutela dei lavoratori (tra i quali il collegato sistema di welfare privato),
pare realizzare un equilibrato «contemperamento tra libertà economica e protezione
sociale»362, consentendo così di superare la valutazione negativa che di essa è stata
fatta, sostenendosi, da un lato, che il mercato del lavoro non è più connotato da incontro
tra domanda e offerta di lavoro, bensì tra domanda e fornitura di lavoro363, con una
sostanziale appropriazione dell’offerta di lavoro da parte delle imprese fornitrici di
manodopera364; dall’altro lato, che i contratti temporanei, «perfettamente in linea con
obiettivi economici, al contrario non rispecchiano una “scelta di valori” operata
dall’ordinamento giuridico a favore della stabilità occupazionale e tale, pertanto, da
dover condizionare la diversa finalità perseguita dall’economia»365.
Non sembra azzardato, pertanto, annoverare la somministrazione tra i modelli di tutela
del lavoratore esposto alla scissione tra datore di lavoro formale ed utilizzatore
sostanziale della sua prestazione nei vari modi consentiti dall’ordinamento.
15. La parità di trattamento tra diritto interno e dell’Unione Europea
359
Filì, 2015, 219, 220, sottolinea il collegamento tra la norma in commento e l’art. 33, co. 2 – che
stabilisce che con il contratto di somministrazione l’utilizzatore assume l’obbligo di «rimborsare al
somministratore gli oneri retributivi e previdenziali da questo effettivamente sostenuti in favore dei
lavoratori» – e le positive ricadute in termini di protezione dei prestatori: «nel caso in cui l’utilizzatore
abbia già versato il dovuto al somministratore ma questo abbia omesso di provvedere al pagamento delle
retribuzioni ovvero dei contributi, escusso dai lavoratori o dall’Inps come obbligato in solido,
l’utilizzatore potrà rivalersi sul somministratore per ripetere quanto già versatogli». Contra Furlan,
2016, 623.
360
Su questo profilo Bano, 2004, 338.
361
Schmid, 2011, 1.
362
Romei, 2016, 516, che porta a conferma di ciò l’utilizzo di questo strumento per promuovere
l’occupazione dei soggetti svantaggiati. Analoghe osservazioni in Ciucciovino, 2014, 19 ss.
363
Barbera, 2014, 632.
364
Carabelli, 1999; Lo Faro, 2003, 56.
365
Speziale, 2017b, 62.
61
Come già detto il principio della parità di trattamento è stato confermato per i lavoratori
somministrati, ma è scomparso per i dipendenti dell’appaltatore366, anche quando gli
stessi lavorino all’interno dell’impresa appaltante, fianco a fianco dei dipendenti di
quest’ultima (art. 29 cit.).
La scelta legislativa è criticabile quanto meno sotto due profili: in primo luogo, la parità
di trattamento è idonea a contrastare una competitività tra imprese basata
esclusivamente sull’abbattimento del costo del lavoro367 e, quindi, sul c.d. dumping
sociale (v. infra); in secondo luogo, proprio negli appalti c.d. interni non è agevole
giustificare la disparità di trattamento solo in ragione della diversa dipendenza
(“casacca”)368.
Non condivisibile appare a questo riguardo la critica di Treu, il quale, dopo aver dedotto
l’evanescenza del concetto di appalti interni, afferma che «(…) il principio di
eguaglianza non è in grado da solo di superare la frammentazione dello status
lavorativo determinato dai processi di flessibilità dell’impresa e di “bucare il velo”
della personalità giuridica dietro cui si celano entità economicamente unitarie»369;
infatti, il principio di parità di trattamento non tende “a bucare il velo”, ma
semplicemente a superarlo, o se si preferisce a neutralizzarlo; comunque, si conviene
con Treu quando afferma che, in ogni caso, la scelta legislativa ha definito l’ambito
entro cui tale principio può agire, escludendolo a partire dal 2003 per gli appalti370.
Con riferimento a questi ultimi, l’abrogazione del principio di parità di trattamento ha
creato un nuovo fronte di criticità, riferito a rischi di discriminazione sulla base della
nazionalità in contrasto con il diritto comunitario (UE). Ricordiamo che l’art. 3, d.lgs. n.
72/2000, in materia di distacco dei lavoratori nell’ambito di prestazioni transnazionali di
servizi, aveva stabilito, in attuazione di quanto previsto dalla dir. 96/71/CE, il principio
di parificazione dei trattamenti attribuiti ai dipendenti delle imprese appaltatrici
transnazionali rispetto a quelli applicati ai dipendenti delle appaltatrici nazionali (co. 1),
nonché, con riferimento agli appalti endoaziendali, l’obbligo, per le imprese
transnazionali, di applicare ai lavoratori distaccati trattamenti minimi non inferiori a
quelli applicati dall’impresa committente ai propri dipendenti (co. 3). Tale ultima
disposizione, fino all’abrogazione dell’art. 3, l. n. 1369/1960, è stata ritenuta
superflua371 per effetto, appunto, del combinato disposto della norma della legge del
1960 e dell’art. 3, co., 1, d.lgs. n. 72/2000, con l’effetto che la regola stabilita dall’art. 3,
co. 3, d.lgs. n. 72/2000 avrebbe comunque trovato applicazione per i dipendenti delle
imprese appaltatrici transnazionali poiché rientrante tra quelle disposizioni legislative
(ivi inclusa la disposizione di cui all’art. 3, l. n. 1369/1960) applicabili ai lavoratori che
effettuano prestazioni lavorative analoghe nel luogo di esecuzione del contratto di
appalto372. L’abrogazione dell’art. 3, l. n. 1369/1960, come evidenziato dalla dottrina373,
ha determinato una situazione di discriminazione tra le imprese appaltatrici
transnazionali, ancora assoggettate, per effetto dell’art. 3, co. 3, d.lgs. n. 72/2000, al
principio di parificazione dei trattamenti minimi (assumendo come parametro di
366
Carabelli, 2009, 105-106, che critica la scomparsa dell’uniformità di trattamento dei dipendenti degli
appaltatori e subappaltatori in una realtà come quella italiana caratterizzata dall’assenza di una
legislazione sui minimi di trattamento salariale, nonché di un sistema di contrattazione collettiva ad
efficacia generale in grado di coprire tutte le imprese operanti sul territorio.
367
Treu, 2012, 12, e Angiolini, Carabelli, 2016.
368
Barbera, 2010, 226.
369
Treu, 2012, 13.
370
Treu, 2012, 13.
371
Chieco, 2002, 798.
372
Lozito, 2013, 46, ricostruisce la vicenda.
373
Chieco, 2004, 94-95 che riteneva l’abrogazione della norma ex lege n. 1369/1960, produttiva di una
discriminazione basata sulla nazionalità vietata ai sensi degli artt. 49 e 50 TCE (oggi, rispettivamente,
artt. 56 e 57 del TFUE), nonché di dubbia legittimità costituzionale perché in contrasto con gli artt. 11 e
117, co. 1 Cost. Sulla questione v. altresì i rilievi di Orlandini, 2012, 54-55.
62
riferimento quelli applicati dal committente) e le appaltatrici nazionali non più soggette
alla medesima regola.
Ma anche nella disciplina italiana del distacco transnazionale il principio della parità di
trattamento tra lavoratori distaccati e lavoratori nazionali si è venuto via via sfumando,
apparendo, quindi, ormai superata la cennata criticità.
Il d.lgs. n. 136/2016 di attuazione della dir. 2014/67/UE, abrogando il d.lgs. n. 72/2000,
attuativo della dir. 96/71/CE, si è, infatti, limitato a prevedere che «al rapporto di
lavoro tra le imprese di cui all'articolo 1, commi 1 e 4, e i lavoratori distaccati si
applicano, durante il periodo del distacco, le medesime condizioni di lavoro e di
occupazione previste per i lavoratori che effettuano prestazioni lavorative subordinate
analoghe nel luogo in cui si svolge il distacco» (art. 4, co. 1, d.lgs. n. 136/2016),
laddove l’espressione «medesime condizioni di lavoro e occupazione» va letta ai sensi
dell’art. 2, lett. e), del medesimo decreto secondo cui «condizioni di lavoro e di
occupazione» sono «le condizioni disciplinate da disposizioni normative e dai contratti
collettivi di cui all'articolo 51 del decreto legislativo n. 81 del 2015 relative alle
seguenti materie: 1) periodi massimi di lavoro e periodi minimi di riposo; 2) durata
minima delle ferie annuali retribuite; 3) trattamenti retributivi minimi, compresi quelli
maggiorati per lavoro straordinario; 4) condizione di cessione temporanea dei
lavoratori; 5) salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; 6) provvedimenti di tutela
riguardo alle condizioni di lavoro e di occupazione di gestanti o puerpere, bambini e
giovani; 7) parità di trattamento fra uomo e donna nonché altre disposizioni in materia
di non discriminazione».
Come si può notare, si tratta di istituti per i quali esiste già una disciplina inderogabile
di legge (generalmente in attuazione di direttive europee) e pertanto l’autonomia della
contrattazione sia collettiva sia individuale su tali aspetti è fortemente condizionata.
Dal punto di vista sistematico ed ermeneutico rileva il dato che il principio di parità di
trattamento nel d.lgs. n. 136/2016 ha perso quella valenza generale che si coglieva nella
formulazione dell’art. 3, d.lgs. n. 72/2000374, frutto di una scelta autonoma e creativa del
legislatore italiano che poneva l’Italia fuori dal solco tracciato dalla dir. 96/71/CE che
nulla prevedeva in merito trattandosi di direttiva, emanata sulla base del capo III (I
servizi) del titolo IV (Libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali) del
TFUE e non del titolo X (Politica sociale) del TFUE375.
Il riferimento alla disciplina del distacco transnazionale e all’assenza di un principio
generale di parità di trattamento, sposta dunque la riflessione dall’ambito interno a
quello europeo e cioè all’atteggiamento delle istituzioni dell’UE di fronte ai fenomeni di
frammentazione organizzativa e delle conseguenti ricadute sui diritti sociali,
registrandosi una dissociazione tra l’esigenza di tutela del mercato interno e dei suoi
pilastri (libertà di stabilimento delle imprese, artt. 49-55 TFUE; libera prestazione di
servizi, artt. 56-62 TFUE; tutela della concorrenza) e la promozione e protezione dei
diritti sociali che con il Trattato di Lisbona (firmato nel 2007 ma in vigore dal 2009)
sono stati elevati al rango di norme primarie376.
Dallo studio realizzato dal Parlamento europeo nel 2015 dal titolo «EU social and
labour rights and EU internal market law»377 emerge chiaramente questa dissociazione
nonché la continua tensione che a partire dal 2007 si è creata tra i principi fondamentali
374
Svaluta tale differente formulazione della norma, ribadendo il principio di parità di trattamento, circ.
INL n. 1/2017, § 6.
375
Corti, Sartori, 2016, 274-477; Corti, 2016, 505 ss. e ivi ulteriori riferimenti bibliografici.
376
Quanto alla dottrina che si è ampiamente occupata di questi temi, rinunciando a qualsiasi pretesa di
esaustività, si rinvia agli Atti del convegno AIDLASS (2016), e segnatamente alle relazioni di Chieco,
2016; Pizzoferrato, 2016; Ales, 2016; si rinvia inoltre alla bibliografia presente in Carinci F., Pizzoferrato,
2015, e segnatamente a quella contenuta nei capitoli IV.2 di Casale, IV.3 e IX di Traversa.
377
European Parliament, Directorate General for Internal Policies, EU social and labour rights and EU
internal
market
law,
2015,
http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2015/563457/IPOL_STU(2015)563457_EN.pdf
63
del mercato interno e i diritti sociali. Sotto questo profilo si tratta quasi di un upgrade
del rapporto che la Commissione UE aveva commissionato nel 2010 a Mario Monti378.
Nello studio del 2015 si mette in luce la necessità di porre al centro dell’agenda delle
istituzioni UE proprio il principio di parità di trattamento per i lavoratori che svolgono
la loro prestazione in un Paese membro diverso da quello di residenza in connessione
con l’esercizio da parte di un’impresa della libera prestazione di servizi in un Paese
diverso da quello in cui è stabilita.
I c.d. «posted workers», cioè i lavoratori utilizzati nel distacco transnazionale all’interno
dell’Unione, rappresentano, infatti, l’anello più debole della catena, con addirittura una
importante differenziazione al loro interno tra uomini e donne, che fa emergere, anche
in questa situazione, un diverso impatto di genere del fenomeno.
La delicatezza e centralità delle questioni che ruotano intorno ai lavoratori distaccati
all’interno dell’UE appare inconfutabilmente dall’esame di alcuni atti del Parlamento
europeo e della Commissione.
Proprio la Commissione europea, a marzo 2016, ha elaborato una proposta di direttiva
che tende ad una «revisione mirata della direttiva sul distacco dei lavoratori per
contrastare le pratiche sleali e promuovere il principio che lo stesso lavoro nello stesso
posto dovrebbe essere retribuito nello stesso modo», da aggiungersi alla direttiva di
applicazione del 2014, a sua volta complementare e rafforzativa rispetto a quella del
1996379. «La Commissione si è prefissata di puntare ad un mercato unico più profondo
e più equo quale priorità tra le principali del suo mandato. La proposta di apportare
modifiche mirate alla direttiva sul distacco dei lavoratori integra e completa le
disposizioni di cui alla direttiva di applicazione, che va recepita entro il 18 giugno 2016
(…) Secondo una giurisprudenza costante, le restrizioni alla libera prestazione dei
servizi sono ammissibili solo se giustificate da motivi imperativi di interesse generale,
relativi in particolare alla tutela dei lavoratori, e devono essere proporzionate e
necessarie. La presente proposta di direttiva rispetta tale requisito perché non
armonizza il costo del lavoro in Europa e si limita a quanto necessario per garantire
378
Il rapporto “Una nuova strategia per il mercato unico” del 9 maggio 2010 è stato commissionato a
Mario Monti dal Presidente della Commissione europea Barroso, con ampia discrezionalità di indagine e
di coinvolgimento delle Istituzioni Ue e delle parti sociali europee, leggilo in
http://www.politichecomunitarie.it/comunicazione/17368/rapporto-monti-una-nuova-strategia-per-ilmercato-unico. Nel rapporto si dà atto che «fra il 2007 e il 2008 le decisioni della Corte di giustizia
dell'Unione europea sulle cause Viking, Laval, Rüffert e Commissione contro il Granducato del
Lussemburgo hanno riproposto una vecchia frattura mai sanata: la divisione fra i sostenitori di una
maggiore integrazione del mercato e coloro che considerano l'appello alle libertà economiche e alla
soppressione delle barriere normative la parola d'ordine per smantellare i diritti sociali tutelati a livello
nazionale. Riproporre questa scissione potrebbe allontanare dal mercato unico e dall'UE una parte
dell’opinione pubblica - i movimenti dei lavoratori e i sindacati – che nel corso del tempo è stata una
sostenitrice fondamentale dell'integrazione economica. Le sentenze della Corte hanno evidenziato le
fenditure createsi in due direzioni fra il mercato unico e la dimensione sociale a livello nazionale. In
primo luogo, le cause hanno portato alla luce le tensioni cui è soggetto l'attuale quadro normativo
relativo al distacco dei lavoratori, in un contesto di condizioni di lavoro e sociali divergenti fra Stati
membri, e la particolare sensibilità ai rischi di dumping sociale e di concorrenza sleale percepiti. In
secondo luogo, le decisioni della Corte hanno dimostrato che il campo di applicazione del diritto dell'UE
si estende al contenzioso collettivo di lavoro». E, ancora, nello stesso documento si precisa che: «le
sentenze della Corte di giustizia precedono l'entrata in vigore del trattato di Lisbona, che fissa
esplicitamente l'economia sociale di mercato come uno degli obiettivi dell'Unione e rende la Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione europea vincolante a livello del trattato. Questi elementi dovrebbero
definire un nuovo contesto giuridico nel quale le preoccupazioni e i problemi sollevati dai sindacati
dovrebbero trovare una risposta adeguata. Tuttavia, se così non fosse, andrebbero esaminati i margini
per ulteriori azioni strategiche».
379
Dir. 96/71/CE e successiva dir. 2014/67/UE.
64
condizioni adeguate al costo della vita e al tenore di vita nello Stato membro ospitante
per la durata della missione dei lavoratori distaccati. (…) La presente proposta di
direttiva non va pertanto al di là di quanto necessario per il conseguimento del suo
obiettivo»380.
È molto interessante osservare le reazioni a tale iniziativa della Commissione da parte
dei c.d. portatori di interesse («stakeholders»).
Come si legge nella relazione di accompagnamento, «l’Austria, il Belgio, la Francia, la
Germania, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Svezia hanno chiesto un sostegno per una
modernizzazione della direttiva sul distacco dei lavoratori che stabilisca il principio
della “parità di retribuzione a parità di lavoro nello stesso posto”. (…) La Bulgaria,
l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Polonia, la Repubblica ceca, la Romania, la
Slovacchia e l’Ungheria hanno sostenuto, con lettera comune, che un riesame della
direttiva del 1996 è prematuro e dovrebbe essere rinviato (…). Detti Stati membri
hanno espresso la preoccupazione che il principio della parità di retribuzione a parità
di lavoro nello stesso posto possa essere incompatibile con il mercato unico, in quanto
le differenze di retribuzione costituiscono un legittimo elemento di vantaggio
competitivo per i prestatori di servizi (…). Non particolarmente positiva è stata la
reazione delle organizzazioni e associazioni sindacali europee381.
Alla citata proposta di direttiva ha fatto seguito, nell’agosto 2016, una iniziativa della
Commissione per l’occupazione e gli affari sociali del Parlamento europeo (relatore
Guillame Balas) in materia di dumping sociale nell’UE382.
Considerato come elemento che può portare ad una distorsione della concorrenza con
conseguenti danni anche a lungo termine (con riferimento all’aumento del precariato, al
deterioramento dei livelli di tutela dei lavoratori e della qualità del lavoro in generale, ai
sistemi di previdenza sociale), il dumping sociale, seppur non normativamente definito,
è un fenomeno che le istituzioni dell’UE devono affrontare stante la «crescente
tendenza alla esternalizzazione e al subappalto» e al connesso pericolo di elusione del
vigente diritto sociale e del lavoro, partendo dal presupposto che «la lotta agli abusi è
essenziale per garantire la libertà di circolazione nel mercato interno e la solidarietà
all’interno dell’Unione»383. Dalla relazione della Commissione per l’occupazione e gli
affari sociali emerge che il «“dumping sociale” è in aumento in ragione di rapporti di
380
COM (2016) 128 final, «proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante
modifica alla direttiva 96/71/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 1996, relativa
al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi».
381
«La Confederazione europea dei sindacati (CES) si è espressa a favore di una revisione per garantire
il rispetto del principio della parità di trattamento. In tale contesto tuttavia la CES ha invitato la
Commissione a rispettare il principio di autonomia delle parti sociali nel negoziare le retribuzioni (…).
Business Europe (…) ha suggerito che la “riapertura” della direttiva potrebbe ridurre le attività di
distacco a causa dell’incertezza che il negoziato rischia di creare tra le imprese (…) [e] che il principio
della “parità di retribuzione a parità di lavoro” comporti un’indebita interferenza dell’UE nella libera
determinazione dei livelli salariali ad opera delle parti sociali (…). Tali argomentazioni sono state
condivise anche dai rappresentanti dei datori di lavoro del settore metalmeccanico (CEEMET) e dalla
Confederazione europea dei quadri (CEC). Anche la Confederazione dell’industria della Repubblica
ceca e le associazioni di categoria di Finlandia, Svezia, Danimarca, Islanda e Norvegia hanno espresso
preoccupazioni (…) in merito all’introduzione, nella direttiva sul distacco dei lavoratori, del principio
della parità di retribuzione a parità di lavoro. Analogamente l’UEAPMI (Unione europea
dell’artigianato e delle piccole e medie imprese) [e] Eurociett, che rappresenta il settore delle agenzie
interinali (…).».
382
Parlamento europeo, Commissione per l’occupazione e gli affari sociali, Relazione sul dumping
sociale
nell’Unione
europea
del
18
agosto
2016,
A8-0255/2016,
http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+REPORT+A8-20160255+0+DOC+XML+V0//IT . Sulla diversa ricaduta del dumping sociale nei vari paesi dell’UE, vedi le
contrapposte posizioni di Pessi, 2011, e Treu, 2017.
383
Relazione sul dumping sociale nell’Unione europea del 18 agosto 2016, A8-0255/2016, cit., lett. a).
65
lavoro che presentano caratteristiche extraterritoriali» ed è «contrario ai valori
europei in quanto mette in pericolo la protezione dei diritti dei cittadini dell’UE»384;
inoltre, viene anche sottolineata una declinazione di genere del fenomeno che vede le
donne quali principali vittime, specie in determinati settori385.
Emblematico è poi il riferimento ai «rischi connessi alle lunghe catene di subappalto»
tanto da spingere la Commissione per l’occupazione e gli affari sociali a chiedere alla
Commissione europea: a) di monitorare attentamente il rispetto dell’obbligo derivante
agli Stati membri dalla dir. 2014/67/UE «di fornire misure volte a garantire che nel
settore dell’edilizia i lavoratori distaccati nella catena dei subappalti possano
considerare responsabile del rispetto dei loro diritti il committente del quale il loro
datore di lavoro sia subappaltante diretto»386; b) di esaminare «la possibilità di
adottare misure a livello dell’UE per affrontare i vari aspetti dell’esternalizzazione,
compresa l’estensione della responsabilità in solido nella catena del subappalto»; c)
«di esaminare la possibilità istituire uno strumento in base al quale le imprese possono
essere assoggettate a un maggiore dovere di diligenza che le ritenga responsabili sia
rispetto alle filiali che ai subappaltatori che operano in un paese terzo, al fine di
prevenire la violazione dei diritti umani, la corruzione, le lesioni personali o danni
ambientali gravi e la violazione delle convenzioni dell’OIL»387.
Gli atti e gli studi della Commissione europea e del Parlamento europeo, cui abbiamo
fatto breve cenno, dimostrano come il conflitto tra le libertà economiche e i diritti
sociali non si è affatto risolto, ed anzi è ancora in salita la strada per trovare una
composizione che metta d’accordo tutti, in primis i diversi Paesi membri, specie i
vecchi e i nuovi, e, in secundis, le parti sociali.
Le indicazioni che provengono dagli interventi della Corte di Giustizia UE non sono
molto rassicuranti; infatti, nella sentenza AGET Iraklis388 al riconoscimento delle libertà
economiche fondamentali sancito dal TFUE si aggiunge quello accordato alla libertà
d’impresa dall’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, assurta al rango di
diritto fondamentale; l’effetto che ne consegue è una prevalenza degli interessi
dell’impresa su quelli dei lavoratori colpiti dai licenziamenti collettivi (art. 30 Carta dei
diritti cit.)389.
16. L’impresa tra responsabilità sociale e interesse economico
16.1. Dalla hard law alla soft law nell’era della globalizzazione
Accanto ai modelli di hard law sin qui analizzati, per rispondere all’esigenza di un
ragionevole contemperamento degli interessi in gioco all’interno dei fenomeni di
frammentazione organizzativa, emergono con sempre maggiore insistenza meccanismi
“soft” elaborati e adottati dagli attori economici in una prospettiva di autonormazione
volontaria390.
Trattasi di forme di regolazione spontanee, non cogenti, talora sprovviste di sanzioni,
ma dotate ad ogni modo di efficacia regolativa tra le parti, accostabili al noto “Metodo
di Coordinamento Aperto” (MAC) tanto caro al diritto europeo (già comunitario), che
384
Relazione sul dumping sociale, ult. cit., lett. h) e s).
Relazione sul dumping sociale, ult. cit., nn. 11), 46).
386
Relazione sul dumping sociale, ult. cit., n. 21).
387
Relazione sul dumping sociale, ult. cit., nn. 54), 55), 56).
388
Corte di Giustia UE, 21 dicembre 2016, C-201/15, AGET Itaklis.
389
Un giudizio fortemente negativo sulla citata sentenza della Corte di Giustizia UE è espresso da
Orlandini, 2017.
390
Tursi (2006b, 87), secondo il quale «La rincorsa del diritto si è fatta tanto affannosa, oggi, da
suggerire, quell’alleggerimento e quella flessibilizzazione della regola giuridica – il soft law – di cui si
nutre culturalmente la RSI»; Idem, 2006a, 65-82; Perulli, 2008, 898-902. Da ultimo Barbera, 2014, 631645.
385
66
conscio della sua impotenza ad agire in maniera incisiva nell’ambito dei diritti sociali,
attraverso la Strategia Europea per l’Occupazione (SEO), ha messo a punto una serie di
congegni regolativi flessibili e non strettamente vincolanti, finalizzati al raggiungimento
di obiettivi individuati mediante linee guida che impegnano le parti senza ledere troppo
le rispettive sfere di sovranità.
Così all’interno del dibattito attuale sulla globalizzazione e di fronte alla crisi del diritto
del lavoro tradizionale in affanno nel contrastare le crescenti prassi di dumping sociale e
di law shopping391, un ruolo potenzialmente di rilievo viene attribuito alla
“Responsabilità sociale d’impresa” (RSI), strumento “soft” che cerca di far progredire i
diritti dei lavoratori al di là e più efficacemente di quanto avviene con le attuali tecniche
di hard law e che consiste in un’«integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali
ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le
parti interessate»392.
Attraverso la RSI si propone all’imprenditore di superare l’approccio tradizionale
dell’homo oeconomicus393, interessato unicamente a creare profitto per l’azionista, e di
considerare gli effetti delle sue azioni nei confronti degli stakeholders, ovvero delle
“parti interessate” all’agire imprenditoriale394, secondo il paradigma che «ciò che è
buono per la società è buono anche per l‘impresa»395.
In tal senso risulta essenziale far comprendere agli imprenditori che il business e la
società hanno bisogno l’uno dell’altra perché si integrano in una logica di
interdipendenza propositiva: l’istruzione, l’assistenza sanitaria e le pari opportunità
sono essenziali per una forza lavoro produttiva; il miglioramento delle condizioni
lavorative e la sicurezza riducono i costi interni dovuti agli incidenti; la sicurezza dei
prodotti e la garanzia di qualità attirano i consumatori più attenti e sensibili, che sono
disposti a pagare anche un sovrapprezzo per il surplus del valore del prodotto realizzato
nel rispetto dell’ambiente e/o dei diritti umani e sociali; l’utilizzo efficiente di suolo,
acqua, energia e altre risorse naturali accresce la produttività delle imprese, riducendo i
costi di produzione.
Le ricadute “lavoristiche” della RSI sono molteplici: da una parte la tutela della libertà
sindacale, la lotta al lavoro minorile, forzato, coatto, le garanzie di condizioni minime di
dignità del lavoro (sul piano salariale, temporale, dell’incolumità fisica e della sicurezza
sociale); dall’altra la valorizzazione delle risorse umane, la partecipazione, la
fidelizzazione e la formazione del personale, la conciliazione tra i tempi di vita e di
lavoro, la tutela dell’integrità fisica e morale della persona del lavoratore, la gestione
delle ristrutturazioni, la disciplina delle esternalizzazioni. Si tratta – come si vede –
proprio degli ambiti in cui emergono le insufficienze delle tecniche di tutela del diritto
del lavoro396.
Ciò detto, si deve però rilevare che la RSI nasce per affiancarsi, in via di arricchimento
e completamento, alla regolazione classica, e non pretende di porsi in alternativa ad
essa, in una prospettiva di deregolamentazione397. L’approccio sociale, infatti, intende
391
Ferraresi, 2012, 21; Speziale, 2017b, 20 ss.
Libro Verde della Commissione Europea, Promuovere in quadro europeo per la responsabilità sociale
delle imprese, COM(2001)366def, in europa.eu.it, 2001, § 20; Commissione Europea, Responsabilità
sociale delle imprese: un contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile, COM(2002) 347 def.
393
Per l’economia neoclassica il comportamento aziendale-razionale consiste esclusivamente nella
creazione di valore, onde la funzione sociale dell’impresa si esaurisce nel perseguimento del profitto.
L’impresa è un’entità economica e come tale la sua responsabilità sociale è quella di incrementare i propri
profitti. Così Friedman, 1962, 133; Del Punta, 2005, 118.
394
Caruso, 2016, 248 secondo cui il profitto e il dividendo degli azionisti non è più lo scopo pervasivo e
unico dell’operare soggettivo dell’imprenditore e oggettivo dell’impresa, bensì uno degli obiettivi,
insieme ad altri meno egoistici.
395
Tursi, 2006b, 71.
396
Ferraresi, 2012, 21-26; Sacchi, 2015, 318-319.
397
Tullini, 2006, 63.
392
67
“volontariamente” farsi carico di “preoccupazioni sociali” e di interessi più ampi
rispetto a quelli considerati dal legislatore e dalla disciplina lavoristica398.
Ci si è domandati se è opportuno (rectius conveniente) parlare di RSI nell’ambito di
“sistemi protettivi maturi”, caratterizzati da un alto tasso di normazione dove si
potrebbe verificare una sovrapposizione fra ciò che è imposto dalla norma e ciò che
l’impresa è disposta volontariamente a fare399, condividendo l’imbarazzo a suo tempo
manifestato da Dell’Olio400, quando si vuole attribuire il carattere di “volontarietà” e
addirittura di “responsabilità sociale”, a quello che per il nostro ordinamento è
obbligatorio da oltre un secolo401.
Non è un caso che l’area nella quale la RSI sembra, per il momento, manifestare il suo
maggior impatto è proprio quella “globale” che è caratterizzata da uno scarso tasso di
normazione. In questo settore la RSI si sta mostrando come il più efficace (o meno
inefficace) degli strumenti di promozione dei diritti sociali fondamentali nei Paesi in via
di sviluppo402.
Tuttavia se ci si arrendesse di fronte a questa evidenza, si dovrebbe abbandonare a priori
il tema della RSI, ritornando nell’alveo giuspositivistico e del “normativamente
disciplinato”.
Al contrario è utile tentare di riconoscere alla RSI un ruolo attivo, e cioè di strumento in
grado non solo di affermarsi lì dove manca o è quasi inesistente l’intervento
dell’autorità pubblica, ma anche dove, pur in presenza di un alto tasso di normazione, si
riscontra un’insufficienza delle tecniche di tutela apprestate dal diritto del lavoro. In
quest’ultima ipotesi la RSI interviene ad ausilio, sostegno, completamento o dove,
necessario, sostituzione del diritto del lavoro tradizionale403, garantendone
l’effettività404.
La RSI diventa perciò una manifestazione del processo di trasformazione pluralistica e
policentrica delle fonti di regolazione dei fenomeni sociali, che va sotto il nome di
“governance multilivello”, espressione con la quale Tursi intende riferirsi al processo in
atto di alleggerimento della componente autoritativa della norma e di allentamento della
struttura gerarchica dell’ordinamento, a vantaggio della funzione compositiva dei
conflitti veicolata dalla normazione c.d. soft, basata sull’orientamento ai risultati e agli
obiettivi e sulla cooperazione istituzionale tra una pluralità eterogenea di centri di
regolazione405.
398
Cfr. Libro Verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”, 18
luglio 2001, § 2.20.
399
Del Punta, 2005, 124.
400
Dell’Olio, 2006, 247 ss.
401
Sul punto cfr. Guarriello (2007, 135), secondo cui la nozione di responsabilità astrattamente condivisa
(“comportamenti a carattere volontario che vanno nel senso del miglioramento degli standard normativi e
contrattuali”) è generatrice di equivoci «in quanto talora viene intesa come osservanza delle leggi e dei
contratti collettivi da parte dell’impresa: ma la mera osservanza del quadro giuridico non può di per sé
configurarsi come un comportamento socialmente responsabile, anche se in un paese in cui è frequente
l’elusione degli obblighi di legge e l’irregolarità, costituisce già un comportamento socialmente
responsabile il rispetto delle legge e dei contratti collettivi».
402
Perulli, 1999b, 261 ss.
403
Ferraresi, 2012, 21-26.
404
Secondo Perulli (2013a, 46) la RSI non si pone al di fuori del contesto giuridico- istituzionale ma anzi
lo presuppone e lo apprezza quale terreno di sviluppo di comportamenti che oltrepassano la stretta
aderenza alla norma giuridica. È evidente che in tale prospettiva la RSI si pone al centro di nuovi processi
di interpretazione e applicazione del diritto, di fonte legale e convenzionale, svolgendo una funzione di
rafforzamento e/o integrazione della prescrizione normativa.
405
Tursi, 2006a, 78.
68
16.2. La responsabilità sociale d’impresa come veicolo di garanzie sociali nella
filiera produttiva
Se la RSI ha acquisito un ruolo di sicuro rilievo nei processi di globalizzazione per
superare la barriera rappresentata dalle regole dello Stato ospitante, concorrendo al
miglioramento della governance sociale e alla promozione delle norme fondamentali del
lavoro, è lecito domandarsi se lo stesso meccanismo possa essere esportato, in piccola
scala, all’interno di una filiera produttiva composta da imprese operanti nello stesso
territorio e perciò destinatarie della medesima disciplina normativa.
All’impresa, il cui unico e fisiologico scopo è di realizzare profitto, viene chiesto di
assumere la responsabilità delle proprie decisioni e delle proprie azioni, sul piano
economico, sociale, ambientale, lungo tutta la catena del valore406.
La c.d. “tracciabilità sociale” - intesa quale possibilità di rilevare e verificare le modalità
gestionali che assicurino il rispetto e l’implementazione dei diritti umani sociali,
economici e del lavoro riconosciuti dalle normative internazionali, europee e nazionali,
nell’attività di produzione e distribuzione di beni e servizi lungo tutta la filiera –
potrebbe assolvere alla rilevante funzione di veicolare il rispetto di vere e proprie norme
giuridiche oltre il loro naturale campo di applicazione, ovvero in condizioni di
sostanziale ineffettività della regolazione e di conformare la condotta dell’impresa a
canoni di diligenza altrimenti non esigibili, anche nelle ipotesi in cui la produzione sia
affidata a sistemi di esternalizzazione407.
Così ad esempio, in tema di appalti, la RSI potrebbe agire in una fase preliminare,
influenzando la selezione dell’appaltatore e/o del subappaltatore o in una fase
successiva, imponendo il rispetto dell’“etica” della committente all’interno dell’intera
filiera produttiva.
Nella prima ipotesi, le imprese committenti di fronte al concreto rischio di incorrere in
una responsabilità solidale, potrebbero essere indotte a sviluppare procedure sempre più
accurate di scelta e di monitoraggio degli appaltatori e della loro correttezza
complessiva, che vengono solitamente presentate all’esterno (nonché propagandate
all’interno) in chiave di RSI. Gli strumenti di RSI potrebbero diventare dei criteri di
selezione qualitativa degli operatori economici, sulla falsa riga del «Sistema del rating
di impresa e delle relative penalità e premialità»408, previsto nella disciplina degli
appalti pubblici dal d.lgs. n. 50/2016 (art. 83), quale misura volta a promuovere
l'introduzione di princìpi etici nei comportamenti aziendali e a misurare la capacità
strutturale e di affidabilità dell’impresa409.
Nella seconda ipotesi, invece, l’impresa committente potrebbe inserire clausole sociali o
anche solo di trasparenza all’interno dei contratti di appalto e di subappalto410, lì dove
manca un obbligo giuridico, oppure potrebbe imporre a tutta la filiera produttiva il
rispetto di un codice di condotta o di uno degli strumenti di RSI (certificazioni sociali,
406
Del Punta, 2006a, 7. In un’ottica evolutiva cfr. Scarpelli (2012, 1428), secondo cui in tema di
decentramento «la regola lavoristica non esaurisce la sua funzione nella classica tutela di valore della
persona, ma ambisce a farsi diritto dell’economia che dà ordinamento alla pratica mercantile
indirizzandola e conformandola secondo obiettivi socialmente apprezzabili, e verso modelli di
competitività del sistema ispirati alla valorizzazione delle persona, della sicurezza, della professionalità
individuale e collettiva, alla riduzione dei bisogni, alla contrazione dei costi sociali ecc.».
407
Così Addante, 2015, 252.
408
Il «Rating di legalità» è stato istituito dall'art. 5-ter d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, conv., con
modificazioni, in l. 24 marzo 2012, n. 27 (c.d. decreto liberalizzazioni) integrato dal richiamo, seppur
facoltativo, previsto dall'art. 1, co. 17, l. 6 novembre 2012, n. 190, per gli avvisi, bandi di gara o lettere di
invito e inerente il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di
integrità, che costituisce causa di esclusione dalla gara. Di seguito il recentissimo d.lgs. 18 aprile 2016, n.
50 con l'art. 83, co. 10, ha introdotto il sistema del «rating di impresa» e delle relative penalità e
premialità, da applicarsi ai soli fini della qualificazione delle imprese.
409
Addante, 2015, 250-251.
410
Ferraresi, 2012, 103.
69
bilanci sociali, rendiconto sociale, marchio sociale etc.) che si pongono l’obiettivo di
implementare le leggi, i regolamenti, le obbligazioni e i grandi principi internazionali,
attraverso un meccanismo integrativo, nell’ottica dell’innalzamento dei livelli di tutela,
o del loro completamento.
Trattandosi di strumenti volontari e di autoregolamentazione, però, è necessario
garantire la loro effettività non solo attraverso il monito di una sanzione sociale e
reputazionale da parte del mercato e dei consumatori, ma anche attraverso meccanismi
di “giuridificazione”, prevedendo la risoluzione dei contratti commerciali in caso di
mancato rispetto degli impegni assunti con i codici di condotta o l’attribuzione
unilaterale agli stessi di forza obbligatoria411.
In questo modo in tutta la filiera produttiva, sotto l’egida dell’“etica” dell’impresa
committente, si diffonderebbe indirettamente il rispetto di una serie di garanzie e di
tutele dei lavoratori (normative ed economiche), che supererebbe l’obbligo legale
dettato dalla norma inderogabile e cogente, in quanto espressione dell’autonomia
negoziale degli attori economici che decidono (spontaneamente) di sottoscrivere un
accordo commerciale. Con la conseguenza che il mancato rispetto della clausola e degli
obblighi ad essa sottesi integrerebbe un inadempimento contrattuale potendo l’impresa
committente richiedere la risoluzione del contratto commerciale.
Invero, nel panorama della RSI esiste già una certificazione etica in grado di influenzare
le condizioni di lavoro e i diritti dei dipendenti in tutta la filiera produttiva: si tratta della
certificazione etica SA8000, proposta soprattutto alle imprese che operano in settori in
cui sono diffuse pratiche di delocalizzazione produttiva.
Il sistema SA8000 è basato infatti proprio sul concetto di influenza del cliente sul
fornitore: ogni anello della catena produttiva deve impegnarsi per la tutela dei diritti dei
lavoratori informando e stimolando l’adeguamento allo standard dei propri fornitori,
sub-fornitori e sub-appaltatori; in sostanza tutta la filiera deve garantire il rispetto dei
requisiti stabiliti nelle norme412.
Cosicché l’azienda conforme allo standard assume su di sé la responsabilità, nella fase
preliminare, di selezionare i propri fornitori e partner commerciali sulla base della
rispondenza ai requisiti di cui alla SA8000 e, nella fase gestionale del rapporto
negoziale, di controllare, monitorare e valutare il loro operato in base ai principi in essa
applicati sino a rimediare prontamente alle eventuali non conformità.
Va detto che un simile strumento di certificazione sociale non deve essere però
(soprav)valutato nel suo contenuto, peraltro considerato per alcuni “banale”413, ma
nell’effetto che la sua diffusione potrebbe ingenerare. Ed infatti se da un lato è vero che
la SA8000 impone standard sociali, già previsti e disciplinati dal nostro ordinamento,
tramite un corposo apparato normativo, dall’altro lato è indubbio che, ove inserita in un
accordo commerciale, il suo rispetto si trasforma in una vera e propria clausola
obbligatoria da cui dipende la validità del contratto.
In questo modo i diritti dei lavoratori vengono rispettati non attraverso il monito della
sanzione legale, ma attraverso il timore di una conseguenza economica, e cioè di non
essere selezionato come parte contraente (nella fase preliminare) o di perdere la
commessa o l’affare commerciale (nella fase gestionale).
In quest’ottica per un’impresa ottenere una certificazione etica rappresenta certamente
un vantaggio competitivo diversamente inteso: in termini di immagine e di
fidelizzazione dei consumatori e degli utenti, in quanto la collettività, i clienti, la
pubblica amministrazione sapranno di avere a che fare con un’azienda dal
comportamento eticamente corretto e saranno dunque stimolati a instaurare rapporti con
essa; in termini organizzativi, in quanto i rapporti tra impresa e lavoratori saranno
caratterizzati da minore conflittualità; in termini meramente commerciali poiché un
comportamento corretto nei confronti dei fornitori e dei partners commerciali fa sì che
411
Perulli, 2011, 220-221.
Perulli, 2004b, 3629.
413
Dell’Olio, 2006, 247-249.
412
70
venga ad instaurarsi un rapporto fiduciario vantaggioso anche in termini economici; in
termini competitivi in quanto un’impresa eticamente responsabile potrebbe essere
preferita ai suoi concorrenti nella aggiudicazione di appalti o di commesse.
Nella logica della profittabilità dell’impresa, quindi, la RSI può diventare uno strumento
efficace per garantire o innalzare i livelli di tutela dei lavoratori influenzando tutto il
sistema produttivo attraverso un positivo “effetto domino”.
16.3. La responsabilità sociale d’impresa: volontaria ma incentivata
Questa lettura della RSI presta il fianco alle obiezioni di coloro secondo i quali la
“giuridificazione” del fenomeno di fatto lo snatura. Ci si è interrogati, infatti, sulla
correttezza dell’operazione ermeneutica di inserire la RSI, ontologicamente fondata sul
concetto di “spontaneità” (autonormazione), all’interno di meccanismi sanzionatori che,
seppur di stampo privatistico, sono previsti dalla legge (eteroregolazione)414.
Tuttavia non può sottacersi che uno dei profili di maggior criticità in tema di RSI è
rappresentato proprio dalle difficoltà che le imprese incontrano nell’adottare
spontaneamente comportamenti responsabili allorché, isolate in un clima altamente
competitivo e spregiudicato, vedano compromessa la propria redditività sino alla
possibile espulsione dal mercato.
Per tale ragione l’adozione di pratiche “responsabili” non può essere esclusivamente
frutto di una scelta individuale dell’impresa, ma si ritiene debba essere effettivamente
incentivata dall’azione pubblica con idonei sostegni giuridico- finanziari, che Kahn
Freund chiama “indirect legal sanction”, ovvero sanzioni legali indirette che lasciano
incontaminata la natura sociale delle norme deputate alla sua regolamentazione secondo
l’assunto che «la promessa di un vantaggio può supplire adeguatamente all’assenza di
giuridicità della norma»415.
La norma incentivante viene infatti valutata sul piano dell’efficacia e non dell’effettività
tipico della norma inderogabile416. Mentre quest’ultima, in presenza di interessi
considerati dal legislatore superiori e prevalenti, mortifica la volontà individuale,
impedendo, con il monito della sanzione, il compimento dei comportamenti non
desiderati, il diritto promozionale ha la capacità di alterare il calcolo delle convenienze
dell’impresa che orienta il proprio comportamento a quello che la legge desidera non
attraverso il meccanismo dell’imposizione, ma quello dell’incentivo417.
E dunque il diritto promozionale può esortare le imprese ad adottare codici di condotta
per migliorare (ma non regolare) il funzionamento di un determinato settore di mercato,
adottando a tal fine misure di incentivazione (premi, agevolazioni fiscali, esoneri da
responsabilità etc.) la cui attivazione è subordinata all’applicazione del codice
medesimo: il soggetto interessato se adotterà il codice etico e lo osserverà beneficerà
della “sanzione premiale”418; mentre se omette di provvedere, non acquisterà il diritto di
conseguire la situazione di vantaggio prevista dalla legge419.
De iure condito, a livello statale si registrano pochi interventi legislativi di stampo
promozionale che prevedono principalmente, se non esclusivamente, benefici
414
Del Punta, 2006, 11-12; Idem, 2005, 127; Peruzzi, 2006, 211-213.
Kahn – Freund, 1969, 14. V. anche Peruzzi, 2006, 187.
416
Osservava Kant (2004, 64) che le «ricompense come mezzo per compiere azioni buone sono più adatte
che non le pene per tralasciare azioni cattive».
417
Bobbio, 1969, 1318. L’A. precisa che «col minimo di parole si può utilmente distinguere un
ordinamento protettivo-repressivo da un ordinamento promozionale, dicendo che al primo interessano
soprattutto i comportamenti socialmente non desiderati, onde il suo fine precipuo è di impedirne quanto
più è possibile il compimento; al secondo interessano soprattutto i comportamenti socialmente desiderati,
onde il suo fine è di provocarne il compimento anche nei confronti dei recalcitranti».
418
Ghera, 1979, 10 ss.; Pinto, 2008.
419
Senigaglia, 2013, 90-91.
415
71
normativi420, mentre sono abortiti innumerevoli disegni o progetti di legge che
stanziavano anche incentivi economici421. Al contrario il legislatore regionale ha
mostrato un interesse crescente e non meramente nominale per la RSI, ed infatti, nel
timore che se lasciata all’iniziativa privata la RSI avrebbe stentato a decollare
(soprattutto per le spese iniziali da sostenere per le certificazioni da parte degli enti
accreditati), ha adottato degli impegni in termini di spesa e di organizzazione che si
sono tramutati in benefici economici, specie nella forma di rimborsi di spesa e sgravi
fiscali, nell’istituzione di Albi o Registri di pubblica evidenza per le imprese
socialmente responsabili, nella creazione di commissioni o consulte composte dagli
stakeholder con ruoli di verifica e monitoraggio, nella preferenza riconosciuta alle
imprese responsabili nell’aggiudicazione di appalti pubblici422.
L’applicazione della norma incentivante non è coattiva, ma neanche del tutto spontanea,
pur se rimane volontaria, potendo diventare l’unico strumento di promozione
compatibile con la RSI423.
16.4. La responsabilità sociale d’impresa tra valutazione teorica ed effetti
sistemici
Tuttavia quando si parla di diritto promozionale associato alla RSI si rischia di cadere in
un “circolo vizioso” che vanifica la pura eticità dell’agire dell’impresa, facendo
emergere nuovamente il profilo “patrimoniale” delle sue scelte424.
L’osservanza di una regola etica, di per sé, è consegnata alla spontaneità del soggetto il
quale liberamente e in modo disinteressato decide di adeguare il proprio comportamento
all’uno e all’altro precetto. Quando invece azioni oggettivamente buone (rectius etiche)
vengono compiute sulla base di un calcolo dei guadagni per il soggetto agente queste
azioni, proprio perché motivate dal guadagno, non possono essere classificate come atti
autenticamente morali425. In queste ultime ipotesi il codice etico è adottato dall’impresa
perché spinta da un interesse di carattere economico ovvero, in quanto ravvisa nel
contenuto della regola etica una risorsa patrimoniale la cui appropriazione, pur
comportando inevitabilmente dei costi, fa conseguire un vantaggio economico (inteso
420
Ad esempio v. l’art. 93, co. 7, d.l.gs. n. 50/2016 ove si stabilisce che «Nei contratti di servizi e
forniture, l'importo della garanzia e del suo eventuale rinnovo è ridotto del 30 per cento per gli operatori
economici in possesso del rating di legalità o della attestazione del modello organizzativo, ai sensi del
decreto legislativo n. 231/2001 o di certificazione social accountability 8000, o di certificazione del
sistema di gestione a tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, o di certificazione OHSAS 18001,
o di certificazione UNI CEI EN ISO 50001 riguardante il sistema di gestione dell’energia o UNI CEI
11352 riguardante la certificazione di operatività in qualità di ESC (Energy Service Company) per
l’offerta qualitativa dei servizi energetici e per gli operatori economici in possesso della certificazione
ISO 27001 riguardante il sistema di gestione della sicurezza delle informazioni”; v. anche l’art. 6, d.lgs.
n. 231/2006 che prevede per le società l’esenzione dalla responsabilità amministrativa qualora dimostri di
aver adottato efficacemente un modello di controllo interno atto a prevenire le forme di reato previste,
facilmente identificabile nel codice di condotta.
421
V. p.d.l. C 354 del 3 maggio 2006; d.d.l. S 1237 dell’11 gennaio 2007; d.d.l. S 386 del 6 maggio 2008;
d.d.l. S 370 del 6 maggio 2008; p.d.l. C 3565 del 22 giugno 2010; d.d.l. S 81 del 15 marzo 2013; p.d.l. C.
812 del 19 aprile 2013.
422
Per un’analisi delle normative regionali in tema di RSI v. Le Regioni e la Responsabilità sociale di
impresa. Report della Ricognizione delle iniziative in tema di RSI realizzate dalle Regioni/PA e
Contributo delle Regioni/PA per “Action Plan Nazionale 2013-2014 sulla responsabilità d’impresa”. V.
anche Peruzzi, 2006, 205-210.
423
In tale senso Perulli (2011, 210) secondo cui il diritto premiale rappresenta «la via più mite alla
clausola sociale»; v. inoltre Cagnin, 2013, 211-217; Addante, 2015, 250-251.
424
Di questo parere sono Tursi, 2006a, 101, e Nogler, 2006, 158-160.
425
Bauman, 2010, 62-63.
72
sia nell’accezione della citata “sanzione premiale” sia in termini di ricaduta e di impatto
sul mercato426).
Si è consci che ricondurre la RSI al vantaggio competitivo, acquisito anche attraverso il
diritto promozionale, può sembrare una contraddizione, considerato che si è partiti
dall’assunto secondo cui è necessario spronare gli imprenditori a superare l’approccio
dell’homo oeconomicus, per cui ritenere che l’impresa rispetti un’etica sociale solo al
fine di ottenere un vantaggio, di qualsiasi natura esso sia, significa abbandonare l’idea
che può esserci uno spazio per una responsabilità sociale spontaneamente assunta
dall’impresa che si conferma un’entità “senza cuore e senza anima” ancorata alla ricerca
del profitto o della profittabilità delle sue azioni427.
Ecco quindi che è necessario fare una scelta di campo e decidere se approcciarsi al tema
della RSI in maniera diffidente, negando all’impresa qualsiasi velleità etica in quanto
interessata unicamente alla massimizzazione del profitto oppure attribuire a
quest’ultima un ruolo istituzionale o come ha sostenuto Barbera di “attore politico”,
cioè di soggetto decisore che dà voce non solo ai propri interessi ma anche a quelli
collettivi e che assume obblighi, non imposti dalla legge, di tutela dell’ambiente, del
benessere e della qualità dell’ambiente di lavoro interno; che si attiene a pratiche
commerciali leali; che stabilisce garanzie a tutela dei consumatori; che impone il
rispetto dei diritti umani alla catena dei fornitori e subfornitori. In questi termini la RSI
non si pone come un vincolo esterno etero-imposto dallo Stato al mercato, ma come
scelta dell’impresa che non soltanto accresce la produttività, ma ne rafforza la
legittimità nei confronti del territorio d’origine e degli stakeholders, diventando essa
stessa garante del benessere di tutti coloro che forniscono condizioni di produzione428.
Non si può che aderire a questa seconda visione della RSI più aderente ad un approccio
pragmatico che cerca soluzioni e non solo teorie429.
17. La “dipendenza economica”: dal diritto dell’impresa al diritto del
lavoro (una tecnica di tutela riflessa)
Al fenomeno dell’impresa economicamente dipendente e ai riflessi negativi in termini
di tutela che tale condizione riverbera sui lavoratori in essa impiegati si è fatto cenno a
proposito dei cambi di appalto. Il discorso merita un approfondimento in un’ottica
invertita volendosi verificare se dalla tutela del soggetto imprenditoriale debole possa
discendere quella dei suoi dipendenti430.
Nella più recente regolazione del diritto dei contratti (anche fra imprese) emerge la
tendenza ad attribuire rilevanza giuridica ad elementi di fatto non presi in alcuna
considerazione dall’impostazione tradizionale del diritto privato431. Oltre al settore del
diritto dei consumatori, una menzione particolare dev’essere riservata al fenomeno della
contrattazione diseguale fra imprese. Si tratta di ipotesi in cui tra soggetti
imprenditoriali che operano sul mercato quali operatori in posizione di parità vengono a
426
Numerosi studi hanno rilevato che le imprese percepite come socialmente responsabili sono in grado
di conquistare una maggiore quota di mercato «grazie al fatto che i consumatori esprimono una maggiore
(o minore) disponibilità a pagare per prodotti che incorporano o meno caratteristiche che i consumatori
valutano positivamente o negativamente sulla base di determinati valori e preferenze»; così Venturini,
2010, 31; Senigaglia, 2013, 106-108.
427
Si rinvia agli Autori citati nella nota 393.
428
Barbera, 2014, 631-645.
429
Del Punta, 2006a, 14-15; Idem, 2006b, 61-62 secondo cui la CSR non deve essere giudicata secondo il
metro dell’inafferrabile «sincerità» dei propositi dell’impresa, bensì guardando ai suoi effetti sistemici, o,
per dirla altrimenti, alla sua capacità di coinvolgimento sociale e culturale e di promozione di una logica
cooperatoria negli interstizi delle contemporanee società «riflessive».
430
Marinelli, 2002, 38.
431
Mazzotta, 2006, 164.
73
strutturarsi una serie di rapporti che, a dispetto dell’anodina forma della relazione
negoziale, sono caratterizzati da un legame di autorità-subordinazione istituito dal
contratto432.
Già la legge (antitrust) n. 287/1990 si preoccupa, com’è noto, di regolare la posizione
dominante che un’impresa può assumere sul mercato, al fine di vietarne l’abuso e
garantire un tendenziale assetto concorrenziale dello stesso mercato.
Sulla scorta di questi dati normativi - e se si lascia sullo sfondo l’eventualità in cui due
imprese diano vita ad una relazione formalmente e sostanzialmente paritaria - le forme
di manifestazione della posizione potestativa che un’impresa può assumere conoscono,
quindi, diverse declinazioni: può trattarsi di una posizione di assoluta dominanza sul
suo mercato di riferimento (e quindi nei confronti di tutti gli altri operatori economici
dello stesso), come può verificarsi l’ipotesi in cui ad essere dominato non è l’intero
settore del mercato, ma solo alcune imprese, giuridicamente partecipi dell’intrapresa
economica della società capo-gruppo perché integrati verticalmente nella sua
organizzazione433.
Fra le polarità dell’integrazione verticale e del ricorso al libero mercato è possibile
rilevare l’esistenza di relazioni commerciali caratterizzate da un’ipotesi di dominanza
relativa, ove alcune imprese risultano economicamente dipendenti nei confronti di
un’altra in forza di una relazione negoziale che consente ad un’impresa dominante di
«estendere ad una relazione esterna la stessa gerarchia che caratterizza i suoi rapporti
di produzione interni»434.
Il quid novi che ha sollecitato l’attenzione della dottrina, si diceva, è la circostanza che
nei più recenti provvedimenti normativi il legislatore ha iniziato a disciplinare in
maniera speciale alcuni aspetti di quelle relazioni negoziali spesso contrassegnate da
una diseguaglianza giuridificata, al fine di de-limitare l’uso del potere insito nel
432
La disciplina della subfornitura industriale è un tipico esempio della recente tendenza
dell’ordinamento ad attribuire rilevanza giuridica ai rapporti di potere determinati dalla conclusione di
contratti di durata che, ben lontani dalle scarne regole predisposte dal codice civile in materia di
obbligazioni, sono disciplinati dalla volontà del contraente forte (in grado di colmare in maniera
funzionale alle proprie esigenze i vuoti determinati dalla tipica incompletezza del contratto); cfr.: Nogler,
Reifner, 2010; Supiot, 2006, 131 (nella dottrina francese si è già coniata la categoria dei contracts de
dépendance). V. anche l’approfondito studio di Lucchesi, 2012. Sul fenomeno di contratti formalmente
paritari (di mercato), ma in realtà costitutivi di relazioni (gerarchiche) di potere e subordinazione fra
imprese la dottrina giuslavoristica ha da tempo iniziato ad interrogarsi; cfr.: Garofalo M.G., 1999, § 10;
Idem, 2006, 137 ss.; Idem 2008, 1566; Idem 2009; Supiot, 2000, 224 ss.; Perulli, 2003b; Voza, 2004, 17 e,
amplius, cap. IV, spec. § 1; Barbera, 2010; Speziale, 2010.
433
Scarano, 2013.
434
In termini, Lo Faro, 2008, 231. V. Barbera, 2010, 635 ss. (ivi altra bibliografia) e, nella civilistica:
Orlandi, 2010, 1823 («La dominanza relativa appare allora segnata da due caratteri essenziali: essere
generata e comunque rilevare nei rapporti contrattuali commerciali, anche a prescindere dal contesto di
mercato; essere il contratto collocabile nella categoria della cogestione e non del mero scambio»); Villa,
2008, 119. Come si legge chiaramente in Sacco, De Nova (2004, 610-611): «La posizione dominante e il
cartello qualificano la situazione di un potenziale concorrente nei riguardi di tutti i suoi potenziali
concorrenti, i quali possono venire a trovarsi con lui in un rapporto cosiddetto orizzontale. Ma la lotta
contro l’abuso della situazione economica può portare a darsi carico dei rapporti cosiddetti verticali: nei
quali un’impresa, cliente o fornitrice di un’altra, legata cioè da un rapporto con quest’altra
organizzazione, dipende economicamente da essa». Il tertium genus delle relazioni imprenditoriali si
ottiene attraverso un sapiente uso delle regole del diritto delle società (come nel caso dei gruppi) o con
norme del diritto dei contratti (come nel caso delle reti di impresa et similia): Supiot, 2000, 224; ma nella
consapevolezza che se “il rischio dell’affare è eterodeterminato e disciplinato ab externo, allora si esce
dalla logica del mercato e si entra nella logica della eteronomia economica”, così Orlandi, 2010, 1831.
74
rapporto (e non solo sul mercato) e di conseguenza apprestare forme di tutela della parte
‘debole’ dello stesso435.
In questa prospettiva dev’essere letta la regolamentazione del rapporto di subfornitura
industriale dettata dalla l. n. 192/1998, finalizzata a vietare «l’abuso da parte di una o
più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro
riguardi, un’impresa cliente o fornitrice» (art. 9, co. 1). Il legislatore si è anche
preoccupato di dare una definizione normativa della nozione di dipendenza
economica436, di individuarne alcuni indici sintomatici437 e di regolare l’apparato
rimediale a tutela dell’impresa dipendente438.
L’ambito di applicazione della disposizione costituisce oggetto di dubbi
interpretativi439.
Infatti, secondo l’opinione prevalente in dottrina, che ha trovato ampio seguito in
giurisprudenza, l’art. 9, l. n. 192/1998 contiene una disposizione che non si limita a
regolare i rapporti di subfornitura ma ha una portata generale, estendendosi
potenzialmente a tutti i contratti dei quali siano parti imprenditori commerciali.
Depongono in questo senso sia l’uso del termine “cliente” accanto a quello di
“fornitore”, sia l’integrazione dell’art. 9 con il co. 3-bis - introdotto dall’art. 11, co. 2, l.
5 marzo 2001 n. 57 – che legittima l’intervento, a certe condizioni, dell’Autorità garante
della concorrenza e del mercato.
Il dibattito giurisprudenziale sembra essersi placato a seguito dell’ordinanza della Corte
di Cassazione a Sezioni Unite del 25 novembre 2011 n. 24906. Ed infatti, i successivi
pronunciamenti giurisprudenziali si sono uniformati all’intervento de quo propendendo,
quindi, per l’applicazione estensiva dell’art. 9, l. n. 192/1998440.
Secondo le Sezioni Unite l’art. 9 trova applicazione a condizione che vi sia una
situazione di dipendenza economica. L’elemento massimamente in grado di disvelare
una situazione di dipendenza economica è rappresentato dall’esecuzione da parte
dell’impresa “debole”, di investimenti specifici per far fronte agli obblighi derivanti
dal rapporto contrattuale. Altri indici rivelatori sono costituiti dalla concentrazione del
fatturato verso pochi committenti, dall’entità dei costi di commutazione o riconversione
per spostarsi verso un’altra relazione contrattuale e dall’asimmetria informativa tra i
contraenti.
Tale filone giurisprudenziale ritiene applicabile la disciplina de qua a tutti i rapporti
contrattuali tra imprese, non ritenendo il comportamento-tipo punito dalla norma
ascrivibile esclusivamente ai contratti di subfornitura.
435
Più il «potere economico si immerge nell’intrico delle reti d’imprese, più questa subordinazione
assume nuovi volti», così Supiot (2006, 151); v. anche Voza, 2004, cap. III, §§ 1 e 2). In quest’ottica,
nella dottrina privatistica, v. amplius Monateri, 2005.
436
Art. 9, co. 1: «Si considera dipendenza economica la situazione in cui un’impresa sia in grado di
determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di
obblighi».
437
Art. 9, co. 1: «La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la
parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti»; art. 9, co. 2: «L’abuso
può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni
contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nell’interruzione arbitraria delle relazioni
commerciali in atto».
438
Art. 9, co. 3: «Il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è nullo». La
disciplina si completa con una serie di prescrizioni che impongono obblighi di forma ed alcune
disposizioni finalizzate a limitare lo ius variandi ed il diritto di recesso in capo all’impresa sovra-ordinata;
ma per tutti questi aspetti v. Caso, Pardolesi, 1998 e, amplius, Colangelo, 2004.
439
Marinelli, 2012, 1676 ss.
440
Per la giurisprudenza di merito v. Trib. Bassano del Grappa 2 maggio 2013; Trib. Roma 30 novembre
2009; Trib. Torino 11 marzo 2010; Trib. Trieste 20 settembre 2006; Trib. Isernia 12 aprile 2006; Trib.
Roma 5 novembre 2003; Trib. Bari 6 maggio 2002; Trib. Bari 11 ottobre 2004. Contra, Trib. Roma 17
marzo 2010, 19 febbraio 2010, 24 settembre 2009, 5 maggio 2009; Trib. Bari 2 luglio 2002.
75
Il filo conduttore di tali pronunciamenti, nonché dell’orientamento dottrinale a questi
conforme, sta nell’aver qualificato il divieto di abuso di dipendenza economica come un
rimedio generale volto a contemperare gli squilibri contrattuali esistenti nei rapporti tra
la committente e la fornitrice.
Tornando alla disciplina contenuta nella l. n. 192/1998, l’importanza di questo
provvedimento normativo nel disegno complessivo finalizzato a regolare le relazioni
imprenditoriali caratterizzate da squilibrio (reputato) giuridicamente rilevante (e, quindi,
oggetto di disciplina tendenzialmente correttiva) è da ascrivere alla circostanza che il
legislatore prende atto dell’esistenza di posizioni di potere strutturalmente insite nella
dinamica fisiologica delle relazioni negoziali formalmente paritarie441, al fine di
predisporre una disciplina normativa applicabile a tutti i rapporti caratterizzati dallo
squilibrio descritto nella norma442.
Un ulteriore tassello di comprensione delle recenti prospettive regolative può essere
desunto dalla disciplina sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali
introdotta dal d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, in attuazione della dir. 2000/35/CE, emanata
nell’ottica di predisporre delle regole di tutela del creditore di prestazioni pecuniarie in
presenza di accordi gravemente iniqui dei suoi interessi443.
Anche in questo caso, la tecnica normativa utilizzata non è nuova (e solo per aspetti di
dettaglio si distacca parzialmente dal regime utilizzato dal legislatore per i contratti del
consumatore e per la disciplina generale in materia di subfornitura): previsione di norme
che fissano i termini del pagamento e la misura degli interessi di mora (art. 4) con il
solito rimedio della nullità - pronunciabile dal giudice a seguito dell’accertamento della
presenza di clausole risultanti gravemente inique della posizione del creditore (art. 7, co.
1) - comportante l’applicazione delle condizioni legali ovvero la riconduzione ad equità
degli accordi (art. 7, co. 3)444.
441
Posizioni di potere che esulano da fenomeni di patologia nel procedimento di formazione del consenso
in cui può occasionalmente venirsi a trovare la libertà negoziale del singolo (Roppo, 2007, 685, anche nt.
36; Voza, 2007, 208); prova ne sia la circostanza che - a differenza della disciplina consumeristica l’eventuale presenza di una volontà liberamente formatasi ed il corrispondente svolgimento di una
trattativa individuale non valgono ad escludere l’abuso. Nei rapporti fra imprese in cui emergono profili
di dipendenza economica l’asimmetria strutturale si esprime nel classico take it or leave it in presenza
dell’empirico «difetto d’interesse del potente, il quale non è disposto a negoziare clausole o statuti
individuali perché può trovare sul mercato molte altre imprese disposte ad accettare discipline vessatorie
pur di conseguire l’opportunità economica dell’affare. Lo squilibrio è in ciò: pochi o nulli sono i soggetti
capaci di offrire l’opportunità dell’affare; molti i soggetti interessati ad aderire» (Orlandi, 2008, 1828).
442
Nonostante alcune voci discordi espresse dalla giurisprudenza (e riportate da Volpe, 2007, 709), la
dottrina è unanime nel considerare la subfornitura industriale, così come tipizzata nell’art. 1, legge n.
192/1998, una fattispecie trasversale che non dà vita ad un nuovo tipo contrattuale, ma che invece risulta
applicabile a qualsiasi relazione negoziale fra imprese connotata dalla dipendenza economica come
enucleabile dalla norma. Cfr., nella nostra dottrina, Marinelli, 2002, 39 ss.; Perulli, 2003, 253 e Voza,
2004, 196.
443
Il ‘naturale’ campo di applicazione del d.lgs. n. 231/2002 coincide con il raggio di operatività della
disciplina della subfornitura industriale (ciò emerge anche dalla lettura dei considerando della dir.
2000/35/CE e dall’art. 3, l. n. 192/1998, come riscritto a seguito dell’emanazione del suddetto d.lgs.),
posta la finalità di “prevenire l’accumulo di potere da parte dell’impresa dominante che possa ottenere
liquidità aggiuntiva a spese dei suoi creditori” (Villa, 2008, 120-121).
444
Diversa è la posizione sostenuta da Volpe, 2007, 708, che mette in evidenza come nel d.lgs. n.
231/2002 sia riconosciuta alle parti la possibilità di fissare i termini concreti del pagamento e di
concordare gli interessi di mora anche diversi da quelli fissati nel d.lgs. n. 231/2002. L’Autore conclude
per la natura dispositiva di tali disposizioni, che troverebbero applicazione se le parti nulla hanno stabilito
(art. 4, co. 2) ovvero nell’ipotesi in cui le clausole derogatorie siano considerate inique, ma solo a seguito
di un intervenuto controllo giudiziale. Come mette in evidenza Voza (2004, 202, anche nota 44), in
aderenza al dato normativo, la disciplina s’impone anche contro la difforme volontà dei contraenti,
limitandosi l’art. 4, co. 2 a prevedere la legittimità di una regolamentazione diversa (peggiorativa per gli
76
Non a caso parliamo di istituti che a breve il legislatore applicherà al “lavoro autonomo
non imprenditoriale” tout court445 con l’approvazione del d.d.l. n. S-2233-B
d’imminente approvazione: si pensi all’art. 2 (Tutela del lavoratore autonomo nelle
transazioni commerciali) che espressamente sancisce l’estensione delle «disposizioni
del decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 … anche alle transazioni commerciali tra
lavoratori autonomi e imprese o tra lavoratori autonomi»; ovvero all’art. 3 (Clausole e
condotte abusive), volto a sanzionare quegli ‘abusi di potere’ che si sostanziano in
clausole attributive in favore del committente della «facoltà di modificare
unilateralmente le condizioni del contratto o, nel caso di contratto avente ad oggetto
una prestazione continuativa, di recedere da esso senza congruo preavviso nonché le
clausole mediante le quali le parti concordano termini di pagamento superiori a
sessanta giorni dalla data del ricevimento da parte del committente della fattura o della
richiesta di pagamento» (co. 1), ovvero «il rifiuto del committente di stipulare il
contratto in forma scritta» (co. 2), con la previsione in capo al lavoratore autonomo del
«diritto al risarcimento dei danni» (co. 3)446.
Insomma, il profilo emergente dalle ultime tendenze regolative in materia contrattuale
continua a segnare un’evidente «laburizzazione» del diritto che disciplina i rapporti
economici interprivati, ormai consapevole di non poter più ignorare quanto sotto la
forma della struttura negoziale le neutre costruzioni dogmatiche tendono ad occultare:
l’asimmetria di potere fra gli operatori economici, con un tessuto normativo che inizia
ad essere permeabile alle istanze di protezione di particolari interessi sui quali
s’innervano i rapporti produttivi447. E ciò che ancor più assume rilevanza, il diritto
privato “contemporaneo” si interessa delle relazioni di potere che strutturano il mercato,
non reputando più quest’ultimo come uno spazio libero nel quale avvengono isolati
incontri di volontà, ma come un luogo che sotto la forma giuridica delle varie fattispecie
negoziali si compone di organizzazioni basate su vincoli di potere e subordinazione che
investono direttamente il singolo rapporto contrattuale448.
Tale svolta nella regolamentazione dei rapporti economicamente dipendenti finisce con
l’incidere sulla organizzazione integrata fra imprese, tutelando quella più debole e
indirettamente i suoi dipendenti.
interessi del creditore) applicabile solo se prevista per iscritto e rispettosa degli accordi interprofessionali
siglati “dalle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale della produzione, della
trasformazione e della distribuzione per categorie di prodotti deteriorabili specifici”.
445
Perulli, 2004a, 19 ss.
446
Tra i primi commenti al d.d.l. n. 2233 v. Razzolini, 2016; con riferimento, invece, all’abrogato art. 69bis, d.lgs. n. 276/2003, v. Proia, 2015; De Salvia, 2015; Del Biondo, 2015.
447
Pedrazzoli, 1998, 553, che sottolinea l’atteggiamento dell’ordinamento giuridico nel senso di una
«considerazione giuslavoristica “controllata” dei rapporti di lavoro tra imprenditori».
448
Garofalo M.G., 2009, 192. Cfr. pure Femia, 2008, 281: «bisogna costringere il contratto a conoscere
il proprio sé oscuro: il potere. Siamo stati abituati a non vedere il contratto come strumento di
produzione di potere (…) il contratto non soltanto è generato dal potere, ma soprattutto crea e
distribuisce potere». La dipendenza economica, per esempio, «è definita in funzione del potere di
mercato, quindi ciò che entra nella struttura definitoria della fattispecie è il potere dell’impresa in
posizione di forza» (Zoppini, 2008, 245); il tutto allo scopo di disciplinare quel potere - presente già
prima della fattispecie - all’interno del rapporto, ove crea quel “plusvalore” da sempre espunto dalla
categoria contrattuale perché considerato una sovrastruttura (cfr. ancora Femia 2008, 283-284). In questo
senso, si affiancano alle tradizionali tecniche di controllo dei poteri privati (l’imposizione di obblighi
formali e procedimentali di esercizio del potere, l’utilizzo delle clausole generali in funzione limitativa,
l’attribuzione di un controllo giudiziale sulle sue forme di manifestazione, etc.), la posizione di diritti
soggettivi a favore della parte ‘debole’ tendenzialmente finalizzati a riequilibrare la relazione negoziale.
77
PARTE TERZA - OLTRE LA FRAMMENTAZIONE ORGANIZZATIVA: IL
LAVORO NELLA QUARTA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
18. Il lavoro tra quarta rivoluzione industriale e collaborative economy
L’analisi delle tecniche di tutela del lavoratore coinvolto nei processi di frammentazione
dell’organizzazione produttiva, esistenti e prospettabili, non vuole essere un punto di
arrivo ma di partenza in quanto il lavoro nella quarta rivoluzione industriale ci porta già
«oltre la frammentazione».
18.1. Il lavoro nell’industria 4.0
Con l’etichetta tanto efficace quanto evocativa di “Industry 4.0” o “Industria 4.0”449 ci
si riferisce al processo di trasformazione della produzione industriale450, derivante dalla
capillare diffusione delle tecnologie digitali e dall’interconnessione degli oggetti, c.d.
Internet of Things451 (IoT), che quindi acquisiscono una loro identità elettronica452, e
dallo sviluppo della robotica453.
Il Governo italiano ha presentato nel settembre 2016 un «Piano nazionale Industria
4.0», evidenziando che «la politica industriale è tornata al centro dell’agenda di
Governo» e prevedendo una serie di misure dirette a favorire gli investimenti per
l’innovazione e per la competitività, in parte con la legge di bilancio 2017 (l. n.
232/2016) in parte con altri provvedimenti di varia natura454.
Il nuovo processo di trasformazione delle organizzazioni produttive e della stessa
organizzazione del lavoro è stato denominato “quarta rivoluzione industriale” per
evidenziare la drastica rottura con il passato (disruption of incumbents) e la
rimodellazione dei sistemi di produzione, consumo, trasporto e spedizione: «We are at
the beginning of a revolution that is fundamentally changing the way we live, work, and
relate to one another. In its scale, scope and complexity, what I consider to be the
fourth industrial revolution is unlike anything humankind has experienced before.
(…)We are witnessing profound shifts across all industries, marked by the emergence of
new business models, the disruption of incumbents and the reshaping of production,
consumption, transportation and delivery systems»455.
Le tappe salienti che sintetizzano, convenzionalmente, i grandi cambiamenti di
paradigma456 (da cui il termine “rivoluzione”457) per ciò che concerne i metodi di
449
Nata in Germania nel 2011 come «Industrie 4.0», l’espressione nella versione inglese di «Industry
4.0». è ormai entrata nel linguaggio comune. Danno conto dell’origine dell’espressione Tiraboschi M.,
Seghezzi, 2016. La riflessione, anche politica, su questi temi in Europa è molto approfondita e articolata,
cfr. Bussemer, Krell, Meyer, 2016.
450
Aa.Vv., 2015a.
451
Fiani, 2017.
452
The Internet of Things Will Drive Wireless Connected Devices to 40.9 Billion in 2020, ABI Research,
20 Agosto, 2014 https://www.abiresearch.com/press/the-internet-of-thingswill-drive-wireless-connect/;
Internet of Things: Privacy & Security in a Connected World, Federal Trade Commission, Gennaio 2015,
https://www.ftc.gov/system/files/documents/reports/federal-trade-commission-staff-report-november2013-workshop-entitled-internet-things-privacy/150127iotrpt.pdf
453
Amplius cfr. http://www.mckinsey.com/; sui rischi ufficialmente riconosciuti v. World Economic
Forum, The Global Risks Report 2017, 12th Edition, www.weforum.org
454
Così si è espresso il Ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, cfr. comunicazioni e specifica
delle misure pubblicate sul sito http://www.mise.gov.it; per un commento cfr. Tiraboschi, Seghezzi, 2016,
2.
455
Schwab, 2016, 1-2.
456
L’ingresso nel linguaggio filosofico e scientifico del termine «paradigma» è sicuramente riconducibile
a Kuhn, 1979.
78
produzione manifatturiero/industriale, sono quindi riassumibili, ad oggi, in tre o quattro,
di cui le prime due sono dal punto di vista storiografico ed economico certamente
consolidate, mentre ancora in discussione è la categorizzazione dei fenomeni più
recenti.
La prima rivoluzione industriale viene collocata nella seconda metà del Settecento e si
caratterizzò per l’introduzione della macchina a vapore e del telaio meccanico negli
stabilimenti produttivi458; la seconda, collocabile negli ultimi trent’anni del XIX secolo,
viene ricordata per l’applicazione delle scoperte scientifiche e tecnologiche ai vari rami
dell’industria, per l’introduzione della catena di montaggio e l’avvio della produzione di
massa459.
Secondo il «World Economic Forum»460 e il Governo italiano461 la terza rivoluzione
industriale va collocata negli anni ’70 del Novecento, per l’utilizzo dell’elettronica e
dell’informatica nella produzione, mentre la quarta462 è in atto, qualificandosi e
differenziandosi dalla terza per l’ampio uso della robotica e dell’intelligenza artificiale,
dei «Cyber Physical Systems», per la connessione delle cose (IoT), e la gestione di
enormi quantità di dati, c.d. big data; viceversa, Rifkin, non distingue tra terza e quarta,
definendo quale terza rivoluzione industriale quel sistema ibrido che caratterizza la fine
del Novecento e il nuovo millennio, nel quale si trovano a convivere l’economia
capitalista fondata sul mercato e la c.d. sharing economy463.
A prescindere dalle classificazioni (sempre opinabili, specie nella categorizzazione
operata da chi vive il cambiamento), la portata di tali fenomeni, l’impatto
sull’organizzazione del lavoro e sullo stesso futuro del lavoro, nonché le ricadute sulle
categorie giuridiche tradizionali, hanno portato, in prima battuta, il Comitato per gli
affari legali464 del Parlamento UE, e a seguire lo stesso Parlamento UE465 a premere
sulla Commissione affinché si creino le categorie giuridiche per regolamentare l’uso
della robotica e dell’intelligenza artificiale (c.d. AI) nelle organizzazioni produttive, al
fine di chiarire anche gli aspetti connessi alla sicurezza, proprietà intellettuale, privacy,
gestione dei big data, responsabilità civile, oltre che stimolare un dibattito sulle ricadute
etiche e filosofiche466 di un tale impiego.
Nelle more che le istituzioni europee e nazionali sciolgano le riserve ideologiche e
delineino nuove regole giuridiche più idonee ad interpretare i nuovi fenomeni e le nuove
457
L’uso dell’espressione «rivoluzione industriale» è stata coniata agli inizi del XIX secolo in Francia:
alcuni attribuiscono la paternità dell’espressione all’economista liberale A. Blanqui altri a Natalis
Briavoine; solo a partire dalla metà dell’Ottocento l’accostamento dei due termini si espande oltre i
confini francesi e verrà ampiamente utilizzato prima da Engels, 1845 e successivamente da Marx, 1867,
per poi trovare ampia fortuna in Inghilterra con A. Toynbee e T. Rogers, verso la fine del secolo. Sulla
storia dell’espressione cfr. amplius Fohlen, 1976, 9-20; v. anche Castronovo, 1988, 3-14.
458
Hobsbawm, 1972; Landes, 1969, cap. II, 55-164 ; Deane, 1982.
459
Landes, 1969, cap. VI; Postan, Mathias, 1979-1980.
460
Schwab, 2016.
461
Cfr. «Piano nazionale Industria 4.0» presentato dal Governo italiano nel 2016.
462
Schwab, 2016.
463
Rifkin, 2012.
464
European Parlament - Commitee on Legal Affairs, Draft Report with Raccomandation to the
Commission on Civil Law Rules on Robotics, (2015/2103/INL), Rappoteur: Mady Delvaux; v. anche
Directorate-General for Internal Policies - Policy Department C, European Civil Law Rules in Robotics.
Study for the JURI Commitee, PE.571.379, 2016, www.europarl.europa.eu/committees/fr/supportinganalyses-search.html.
465
Parlamento UE, risoluzione del 16 febbraio 2017 recante raccomandazioni alla Commissione
concernenti norme di diritto civile sulla robotica (2015/2103(INL))
466
Floridi (2017) afferma: «The debate is not about robots but about us, and the kind of infosphere we
want to create. We need less science fiction and more philosophy».
79
relazioni, la società si adatta al cambiamento, anche delineando delle prassi467, per
affrontare le nuove sfide che — volenti o nolenti — ci attendono.
Queste rapidissime trasformazioni tecnologiche stanno modificando l’organizzazione
delle fabbriche468 con inevitabili ricadute sul futuro del lavoro469 e delle regole
giuridiche connesse.
Ciò che era stato considerato impossibile da David Ricardo470 si è avverato: una
macchina che può svolgere un certo lavoro senza alcuna assistenza da parte del lavoro
umano!
Fa specie pensare che il termine «robot» sia entrato nel nostro vocabolario per il tramite
di un drammaturgo boemo e che l’origine della parola derivi dalla lingua ceca evocando
il lavoro duro o forzato471, come pur colpisce che la paternità del termine «robotica» sia
attribuita a Isaac Asimov472.
Oggi le macchine sono sempre più autonome e intelligenti, anche in grado di apprendere
e prendere decisioni in modo indipendente, e questo progresso tecnologico, pur
rappresentando certamente una grande opportunità di sviluppo per l’economia e la
società, è altresì foriera di molti nuovi problemi e desta serie preoccupazioni, in gran
parte esplicitate dal Parlamento UE nella risoluzione del 16 febbraio 2017.
Nel delineare le strategie per il futuro, il Parlamento UE invita gli Stati membri a
sviluppare sistemi di istruzione e formazione più flessibili, in modo da garantire una
corrispondenza tra le strategie delle conoscenze e le esigenze dell’economia e della
robotica, e a puntare sul sostegno ai giovani e in particolare alle donne per una carriera
professionale nel digitale, richiamando l’attenzione sulla previsione della Commissione
secondo cui entro il 2020 l’Europa potrebbe trovarsi ad affrontare una carenza di
professionisti nel settore delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione,
c.d. TIC, e sul fatto che il 90% dei posti di lavoro richiederà competenze digitali almeno
di base; accanto agli effetti positivi che i cambiamenti in atto possono portare, tra cui
vengono menzionati da un lato la nascita di nuovi lavori e all’opposto la liberazione dal
lavoro473, vi sono quelli negativi, tra cui la perdita di posti di lavoro a seguito
dell’aumento dell’uso dei robot, le conseguenze negative sulla sostenibilità dei sistemi
di sicurezza sociale degli Stati membri, l’aumento dei nuovi rischi per la salute, la
sicurezza e la dignità dei lavoratori dovuti ad un aumento dell’interazione tra esseri
umani e robot sui luoghi di lavoro474.
Luci e ombre, quindi, evidenziate dalla risoluzione del Parlamento UE che pone infatti
una immediata e non trascurabile esigenza di normazione alla Commissione per
“governare” o almeno “contenere” alcuni effetti provocati dai fenomeni in atto.
467
Interessante il documento elaborato dall’Associazione Italiana per la ricerca industriale nel febbraio
2017 di supporto, integrazione e analisi critica del «Piano Nazionale Industria 4.0», cfr. www.airi.it.
468
Non a caso «Fabbrica Futuro 2017» è anche il nome di un progetto, partito nel 2012, rivolto a tutti gli
attori del mercato manifatturiero, di qualsiasi settore, che ha l’obiettivo di mettere a confronto idee,
raccontare i casi di eccellenza e proporre soluzioni concrete per accompagnare le aziende manifatturiere
in un percorso verso la digitalizzazione, www.airi.it/2017/02/fabbrica-futuro-2017/. Interessanti le
considerazioni contenute in Sacconi, Massagli, 2016.
469
Non a caso «Il futuro del lavoro» è anche il nome di un filone di ricerca attivato dalla Fondazione
Giangiacomo Feltrinelli, fondazionefeltrinelli.it/ricerca/le-aree-di-ricerca/futuro-del-lavoro/.
470
Ricardo, 2006; sul punto interessanti le considerazioni di Sylos Labini, 1989, 214-216.
471
Si tratta del dramma «R.U.R. Rossumovi univerzaini roboti» che Karel Čapek pubblicò nel 1920.
472
Ne danno conto Brynjolfsson, McAfee, 2015, § «Il paradosso del progresso robotico».
473
Brynjolfsson, McAfee, 2015; Rifkin, 2014, 169-180.
474
Cfr. Parlamento UE, risoluzione 16 febbraio 2017, cit.; amplius, sul tema degli effetti della
robotizzazione sul lavoro, sulla disoccupazione e sul tempo libero (anche detto “disponibile”): Sylos
Labini, 1989, 199-220; sugli effetti della c.d. sostituzione tecnologica, non si può non rinviare a Rifkin,
2014, 169-187, laddove si parla enfaticamente dell’«ultimo lavoratore» e si evidenzia come «anche i
lavoratori della conoscenza sono sacrificabili».
80
Tale è l’importanza delle nuove tecnologie digitali sull’economia che il 23 marzo 2017
il vice presidente della Commissione UE, nonché Commissario al digitale, A. Asip,
aprendo i lavori del «Digital Day 2017» in coincidenza con le celebrazioni, a Roma, del
sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma, ha enfaticamente dichiarato
che il digitale è oggi per l’Europa ciò che il carbone e l’acciaio erano agli inizi degli
anni ’50475. Il convegno, dedicato proprio al mercato unico digitale, ha portato alla
sottoscrizione di una dichiarazione di intenti intitolata «Cooperation framework on
High Performance Computing», sottoscritta da Germania, Portogallo, Francia, Spagna,
Italia, Lussemburgo ed Olanda, incentrata sulla realizzazione, in tutti i Paesi coinvolti,
di una rete di infrastrutture informatiche ad alte prestazioni (High Performance
Computing, c.d. HPC)476.
18.2. Sulle ceneri della fabbrica fordista nasce la fabbrica 4.0
La c.d. quarta rivoluzione industriale sta trasformando (e in alcuni casi ha già
modificato) la struttura stessa dell’impresa tradizionale, sin dalle fondamenta, e la
consueta combinazione dei fattori della produzione, capitale e lavoro, viene messa in
discussione nella sua essenza: «che cosa accade (…) quando le macchine sono
abbastanza intelligenti da diventare lavoratori, quando, insomma, il capitale diventa
lavoro?»477.
L’innovazione organizzativa nell’impresa è un costante work in progress a partire dalle
manifatture tessili della fine del XVIII secolo fino ad arrivare alla «World Class
Manufacturing» e alle piattaforme digitali del nuovo millennio (amplius infra),
passando per il fordismo, il post-fordismo, la «lean production» e il toyotismo (Toyota
Production System) 478 e chissà cosa ancora; i modelli organizzativi si succedono e
sostituiscono l’uno all’altro, con tratti di continuità e discontinuità.
La fabbrica torna sotto i riflettori, seppur nella versione «4.0» di smart factory o
fabbrica intelligente479 e lo fa nella sua concretezza fatta di spazi e macchine, ma il
ruolo giocato nella società non è più lo stesso perché non rappresenta più un bacino di
forza lavoro.
Se nel 1995 Jeremy Rifkin annunciava la «fine del lavoro»480 oggi lo stesso ci parla
dell’eclissi del capitalismo e della sua sostituzione con un nuovo paradigma economico,
un ibrido figlio del capitalismo, che chiama «collaborative Commons», cioè una
economia della condivisione fondata sull’Internet delle cose481 e sempre meno fondata
sui lavoratori: «La natura del lavoro sta per subire un cambiamento epocale. La Prima
rivoluzione industriale pose fine al lavoro schiavistico e servile. La Seconda rivoluzione
industriale ha drasticamente ridotto il lavoro agricolo e quello artigianale. La Terza
rivoluzione industriale si avvia a liquidare il lavoro salariato di massa nelle industrie
manifatturiere e nei servizi, nonché il lavoro professionale retribuito in un’ampia area
del settore del sapere. (…) L’interrogativo che gli economisti hanno tanta paura di
affrontare è il seguente: che cosa accadrà al capitalismo di mercato se gli incrementi di
produttività determinati dalla tecnologia intelligente continuano a ridurre la necessità
di lavoro umano? Stiamo assistendo alla rottura del legame tra produttività e
475
Leggilo integralmente su: www.innovationpost.it/2017/03/23/digital-day-opening/# 23 marzo 2017.
Leggilo su corrierecomunicazioni.it/upload/images/03_2017/170323164922.pdf.
477
Rifkin, 2014, 170.
478
Amplius Bonazzi, 2002 e 2008, in particolare la Parte I dedicata alla questione industriale (27 – 197);
interessante il numero monografico di Aa.Vv., 2015b, n, 3, tutto dedicato al World Class Manufactoring
(WCM) in FIAT, ed ivi in particolare i saggi di Tronti, 2015; Pero, 2015; Cerruti, 2015; Corazza, 2015;
Benvenuto, Cipriani, Bennati, 2015; v. anche Seghezzi, 2016, 188.
479
Magone, Mazali, 2016, cap. 4.3., la considerano uno «sviluppo e un affinamento del post fordismo (…)
più che un nuovo modello organizzativo».
480
Rifkin, 2015.
481
Rifkin, 2014, 5-25.
476
81
occupazione. Invece di favorire l’occupazione, oggi la produttività la sta eliminando. E
poiché nei mercati capitalistici lavoro e capitale si alimentano a vicenda, cosa accadrà
quando il numero di persone con un impiego redditizio diminuirà al punto che non ci
saranno abbastanza compratori per acquistare i beni e servizi offerti dai venditori?»482.
I cambiamenti dell’economia globale, della tecnologia e dell’organizzazione delle
imprese, mettono a dura prova i sistemi giuridici consolidati, specie quelli sviluppatisi
avendo come modello di riferimento l’impresa fordista con una visione fortemente
gerarchica della struttura aziendale, una concezione dei tempi e dei luoghi di lavoro
come elementi misurabili e coessenziali alla prestazione, con una idea della dimensione
collettiva del rapporto come fisiologicamente, se non ontologicamente, connessa a
quella individuale483.
Queste certezze cominciano a vacillare sotto i colpi delle novità, sempre più massicce e
sempre meno fronteggiabili con i tradizionali strumenti giuridici: i cambiamenti
generano cambiamenti, parafrasando D. S. Landes484.
18.3. Un potenziale rientro dei processi di produzione nell’UE ma senza un
aumento dell’occupazione
Il Parlamento UE, nella risoluzione del 16 febbraio 2017 recante raccomandazioni alla
Commissione concernenti norme di diritto civile sulla robotica485, alla «lett. j)» dei
considerando, formula l’ipotesi che l’incremento dell’automazione nei settori ad alta
intensità di manodopera possa riportare i processi di produzione entro i confini dell’UE,
una sorta di controtendenza rispetto al processo di delocalizzazione iniziato un po’ di
anni fa.
Questo ritorno della produzione in Europa, non determinerà però un aumento
dell’occupazione. I pronostici sono piuttosto pessimistici, prevedendosi una
diminuzione del lavoro di massa, a livello globale.
Secondo Jeremy Rifkin «la tecnologia intelligente si accollerà il grosso del lavoro più
pesante» e «non è improbabile che tra mezzo secolo i nostri nipoti guardino al periodo
del lavoro di massa svolto in un contesto di mercato con lo stesso senso di incredulità
con cui noi oggi guardiamo alla condizione di schiavitù e servitù dei secoli passati.
L’idea stessa che il valore di un essere umano fosse misurato quasi esclusivamente
sulla sua produttività di beni e servizi e ricchezza materiale apparirà primitiva, se non
barbara, e sarà guardata dai nostri posteri — cittadini di un mondo altamente
automatizzato in cui gran parte dell’esistenza sarà vissuta all’interno del Commons
collaborativo — come un terribile spreco di valore umano».
Pur non riuscendo a condividere la fiducia che Rifkin ripone nel c.d. Commons
collaborativo, la sua diagnosi sul presente e i suoi pronostici sul futuro (la fine?) del
lavoro retribuito, sono molto attendibili e condivisi da altri economisti e sociologi486.
482
Rifkin, 2014, 187.
Già ne parlava Carinci F., 1986, 3 ss.
484
Landes, 1969.
485
2015/2103(INL).
486
Parla di «sviluppo senza lavoro», di «Holodomor tecnologico» e di «Moloch digitali» De Masi (2017,
cap. 8), riferendosi al fatto che pochissimi monopolisti, come Google o Facebook o Apple, hanno di fatto
sottratto sovranità agli Stati e, raffinando i loro algoritmi sulla base delle informazioni spontaneamente
fornite dagli ingenui consumatori, arricchiscono solo pochi, ponendo, viceversa, le basi per una
«impietosa povertà per disoccupazione a centinaia di milioni di lavoratori». Interessante anche il libro
del giornalista Staglianò (2016, cap. 12) che passa in rassegna e critica le posizioni di vari economisti
internazionali formulando alla fine alcune proposte su come conciliare innovazione ed equità sociale, in
primis suggerendo una revisione dei sistemi di tassazione per contenere la fortissima e crescente
disuguaglianza che la concentrazione della proprietà delle macchine sta producendo e, in secundis,
concentrandosi su meccanismi di ridistribuzione dei benefici, ad es. il c.d. basic income o reddito di base.
483
82
Ne emerge una prospettiva inquietante che porta con sé l’esigenza di ripensare le regole
del lavoro perché quel lavoro, cioè il lavoro su cui si sono formate, tra poco non esisterà
più: come scrive Domenico De Masi prendendo in prestito le parole di Hanna Arendt:
«cosa succede se, in una società fondata sul lavoro, il lavoro viene a mancare?».
Come Rifkin, anche De Masi propone di ribaltare i termini della questione e cioè che «il
nostro modello di vita incentrato sul lavoro si trasformi in un modello nuovo incentrato
sul tempo liberato»487.
18.4. La trasformazione «in» lavoro «del» consumo: la c.d. «platform economy»
La nuova economia mondiale, quella, cioè, che utilizza le piattaforme digitali per
funzionare, rappresenta un ulteriore frutto dello sviluppo tecnologico e in particolare
della digitalizzazione e in cui, però non è più la “fabbrica”, nemmeno nella “versione
4.0”, al centro del sistema, ma un software, una applicazione o app fondata su algoritmi
che, tramite la rete e l’Internet of Things, mette in contatto produttori e consumatori,
consumatori tra loro, produttori tra loro. Jeremy Rifkin li chiama «imprenditori sociali»,
comunemente detti ormai prosumers (v. infra), allo stesso tempo causa ed effetto di
quello che lo stesso definisce «collaborative Commons»488.
In questo contesto qualunque soggetto, in qualunque parte del globo, dotato di un
dispositivo mobile (banalmente solo uno smartphone) può essere contemporaneamente
consumatore e produttore di beni/fornitore di servizi: «conflation of producer and
consumer. It happens when some entity occupies both roles in a system. In this case
citizens, who formerly consumed data, now become producers of it as well. They
become prosumers and their data becomes an asset or a commodity to trade»489.
La nascita dei «prosumers» è uno degli effetti delle nuove tecnologie: «il web 2.0
mostra in modo lampante come, attraverso le nuove tecnologie digitali, si riesca ad
estrarre valore da ciò che era riservato agli spazi del privato, della socialità, del gioco,
del loisir: incorporandosi nelle forme di vita, le macchine digitali le trasformano in
piattaforme permanenti dell’innovazione»490.
Questa nuova economia fondata sul digitale, sulla rete, sugli algoritmi, viene
chiamata491: «sharing economy», «peer to peer economy», «collaborative economy»,
«platform economy», «gig economy», «on demand economy». Ciascuna di queste
espressioni mette in evidenza un aspetto, una caratteristica peculiare che porta ad
enfatizzarne o valorizzarne alcuni effetti piuttosto che altri.
Se il concetto di «sharing economy» (e «collaborative Commons» per Rifkin492) pone
l’accento sulla condivisione senza un profitto, sul passaggio dal possesso all’accesso,
sul rapporto tra pari, «peer to peer»493, il concetto di «collaborative economy»
presuppone che un profitto vi sia, seppur occasionale, tanto che è questa l’espressione
scelta dalla Commissione europea nella redazione nel 2016 dell’«agenda europea per
l’economia collaborativa»494 (amplius infra).
Chi preferisce utilizzare l’espressione «platform economy»495 calca l’accento sul fatto
che le piattaforme digitali servono per creare un mercato parallelo e non solo per
487
De Masi, 2017, cap. 8.
Rifkin, 2014, 30.
489
Robertshaw, 2015.
490
Magone, Mazali, 2016, cap. 4.3.
491
Ne dà conto Degryse, 2016, 28-32.
492
Rifkin, 2014, 317-421.
493
Amplius cfr. Barberis, Chiriatti, 2017, 11- 12; sul concetto di «peer to peer economy» v. anche
Costantini, 2015.
494
COM(2016) 356 final «A European agenda for the collaborative economy».
495
Questa espressione è proposta da Drahokoupil, Fabo, 2016: «“Collaboration” does non tipically relate
to a market place, where the use of goods and services is facilitated. Major outsourcing platforms would
488
83
condividere, mentre chi usa le espressioni di «gig economy», cioè economia del
lavoretto, e «on demand economy», a chiamata, mette in risalto le caratteristiche
(rischi?) di flessibilità, individualismo e precarietà che questa nuova dimensione
comporta, come ad esempio ha fatto Hillary Clinton in uno dei discorsi tenuti nel 2015
durante la campagna per le presidenziali degli USA svoltesi nel novembre 2016: «Many
Americans are making extra money renting out a spare room, designing a website (...)
even driving their own car. This on demand or so called 'gig' economy is creating
exciting opportunities and unleashing innovation, but it's also raising hard questions
about workplace protections and what a good job will look like in the future »496.
18.5. L’Agenda Europea per l’economia collaborativa del 2 giugno 2016
Il 2 giugno 2016 la Commissione europea, scegliendo lo strumento della comunicazione
alle altre istituzioni, ha pubblicato «una agenda europea per l’economia
collaborativa»497 tentando una presa di posizione su temi di importanza globale e
dall’impatto non più circoscrivibile agli Stati membri dell’Unione Europea, ma sui quali
il legislatore europeo fa fatica a prendere una posizione.
La Commissione sceglie di parlare di «collaborative economy» intendendo valorizzare
l’aspetto della collaborazione e la duttilità della definizione, adattabile nel caso di
fornitori di servizi sia occasionali sia professionali, ovvero nel caso via sia uno scopo di
lucro o in assenza dello stesso.
Questa nuova economia, che fa leva sul nuovo mercato che si sviluppa sul web per il
tramite delle piattaforme digitali, rappresenta certamente una occasione di crescita e di
sviluppo ma solleva anche nuovi interrogativi e pone sfide importanti.
In particolare i paradigmi e le categorie del passato cominciano a frantumarsi di fronte a
nuovi fenomeni difficilmente inquadrabili negli antichi schemi: si sfuma la linea di
confine tra consumatore e produttore, quella tra lavoratore subordinato e autonomo,
quella tra fornitura di servizi professionale e non professionale. L’incertezza su quali
siano le regole applicabili aumenta anche in considerazione della diversità di approccio
dei vari ordinamenti.
Preso atto che il reddito prodotto nell’area dell’UE dalle piattaforme digitali sta
aumentando in modo esponenziale e che ciò rappresenta una occasione di crescita per
tutti i Paesi dell’UE, la Commissione cerca di evidenziare le luci e le ombre delle
trasformazioni in atto, dei fenomeni che stanno mettendo a dura prova la tenuta delle
categorie e dei sistemi tradizionali, invitando le istituzioni dell’UE e i singoli Stati
membri a cogliere le occasioni senza trascurare di affrontare i problemi che si pongono
al fine di assicurare eque condizioni di lavoro e di protezione sociale.
In particolare la Commissione si concentra sull’assenza di una netta linea di
demarcazione, nella legislazione dell’UE, tra “esercizio professionale” e “non
professionale” di una attività economica e come vi siano sul punto profonde differenze
tra gli ordinamenti degli Stati membri dell’UE. Queste incertezze definitorie hanno
pesanti ricadute dal punto di vista della riconduzione o meno delle attività svolte dalle
piattaforme digitali nelle fattispecie normate dalla UE e dai singoli Stati membri, in
particolare con riferimento ai requisiti necessari per lo svolgimento delle predette
attività e alle regole a questa applicabili.
Un altro aspetto molto delicato che viene messo in luce dalla Commissione riguarda il
fatto che la «collaborative economy» ha reso sfumata l’identificazione della “parte
debole” del contratto; le transazioni commerciali effettuate tramite piattaforme digitali
be better described as “renting” rather then “sharing”. We therefore propose to use the term “platform
economy”».
496
Ecco il video in cui Hillary Clinton lancia, in modo poi divenuto “virale”, l’espressione: «gig
economy»: cnbc.com/2015/07/13/in-economic-address-hillary-clinton-calls-out-gig-economy.html
497
COM(2016) 356 final «A European agenda for the collaborative economy»; cfr. il commento critico
di Kowalski, 2015.
84
non sempre fanno emergere nettamente quale sia il soggetto che necessita di protezione.
È venuta meno la linea di confine tra produttore, «producer», e consumatore,
«consumer», tanto da stimolare un neologismo, «prosumer»498, e si è resa ancora più
sfocata la linea di confine tra lavoratori subordinati, c.d. «workers», e non subordinati,
«self-employed», con la conseguenza di non riuscire a ricondurre i lavoratori digitali ai
modelli tradizionali, così lasciandoli completamente privi di tutele.
Anche la linea di demarcazione tra il tempo di lavoro e il tempo di non lavoro è ormai
diventata quasi impalpabile, poiché le nuove tecnologie fanno irrompere la vita
lavorativa in quella privata e viceversa, facendo emergere l’esigenza di un “diritto alla
disconnessione”, previsto espressamente nell’ordinamento francese499, nonché in nuce
nella normativa italiana500, e la identificazione di un nuovo concetto, quello della
porosità del tempo, «time porosity»501, ad indicare un fenomeno non completamente
nuovo ma certamente ormai dilagante a livello globale.
La Commissione non riesce però a tradurre in proposte concrete le indicazioni e
suggestioni espresse nella comunicazione, ma fa capire quanto sia imminente il
cambiamento e quanto possano essere dirompenti per tutti gli ordinamenti le
conseguenze di fenomeni economici lasciati legibus soluti.
Senza cadere in un nuovo luddismo502, emerge chiaramente l’esigenza di ripensare le
categorie giuridiche tradizionali, nate in un contesto di seconda rivoluzione industriale,
le quali, rebus sic stantibus, non riescono a dare risposte ai nuovi fenomeni503. La c.d.
quarta rivoluzione industriale (amplius infra) mette, infatti, a dura prova i tradizionali
schemi negoziali e le vigenti regole, facendo emergere la rigidità regolativa, impotente
di fronte alla frammentazione tipologica dei nuovi lavori prodotta dall’economia
digitale (amplius infra), ma come ha scritto Deakin: «(…) there is no reason to extemp
Uber from democratic control simply on the grounds that the driver’s app is not exactly
the same thing as the taximeter. If technology can evolve, so can the law. (…)»504.
18.6. Il lavoro on demand della gig economy: parole d’ordine “insicurezza e
discontinuità”
Beck nel 1999 ragionava di «lavoro all’epoca della fine del lavoro» mettendo in luce
una tendenza in atto nell’Occidente, quella che definiva «brasilianizzazione»: «ciò che è
sempre più evidente è la nuova analogia, nelle tendenze di sviluppo del lavoro
salariato, tra il cosiddetto Primo e il cosiddetto Terzo Mondo. Ciò a cui assistiamo è
l’irruzione della precarietà, della discontinuità, della flessibilità, dell’informalità
all’interno dei bastioni occidentali della società della piena occupazione. Il patchwork
sociostrutturale, in altre parole la varietà, la confusione e l’insicurezza delle forme
lavorative, biografiche ed esistenziali del Sud, si espande nel cuore dell’Occidente»505.
498
L’espressione è stata coniata da Robertshawn S., 2015: «A conflation of producer and consumer. It
happens when some entity occupies both roles in a system. In this case citizens, who formerly consumed
data, now become producers of ita s well. They become prosumers and their data becomes an asset or a
commodity to trade».
499
Cfr. Loi travail n. 2016-1088 dell’8 agosto 2016.
500
V. l’art. 19, d.d.l. n. 2233-B (come modificato dalla Camera dei Deputati in data 9 marzo 2017), in
tema di smart working, relativo proprio alla disconnessione del lavoratore dai dispositivi tecnologici.
501
Genin, 2016, 280–300; v. anche Moscaritolo, 2017.
502
Così Bronzini, 2016, 261.
503
Interessanti gli atti del Conferenza ETUI-ETUC svoltasi a Brussels nei giorni 27-29 giugno 2016, in
cui a più voci (giuristi, politici, sindacalisti, esponenti del mondo del lavoro, …) si è ragionato di
“Shaping a new world of work. The impact of digitalization and robotization”, cfr. Conference report, in
http://www.etui.org/Publications2/Conference-reports
504
Così Deakin, 2015.
505
Beck, 2000, 139 ss.
85
Beck propone di distinguere tra prima e seconda modernità, con il passaggio
dall’economia fordista, fondata sul lavoro, a quella post-fordista fondata sul rischio, in
cui la povertà «diventa una esperienza normale, sempre più spesso non solo transitoria,
anche del ceto medio»506 e «il lavoro viene “fatto a pezzi” sia per quanto riguarda i suoi
tempi sia per quanto riguarda i rapporti contrattuali»507.
L’agenzia dell’UE Eurofound (European Fondation for the improvement of living and
working conditions) ha tentato una prima categorizzazione dei c.d. nuovi lavori frutto
dell’era digitale e dell’Internet delle cose, individuando, nei Paesi membri, numerosi
fenomeni508. Si tratta di tipologie molto diverse tra loro che raggruppano sia fenomeni
riconducibili al lavoro subordinato, come quelle di employee sharing (diremmo “coworking”), job sharing (diremmo lavoro ripartito), interim management (diremmo
somministrazione di lavoro di elevata professionalità) e casual work (diremmo lavoro a
chiamata), sia riconducibili al lavoro autonomo, eventualmente parasubordinato, come
ad esempio il c.d. ICT-based mobile work, voucher-based work, portfolio work, crowd
employment, collaborative employment.
Il filo rosso che lega queste nuove forme di lavoro è quello della estrema flessibilità509.
Di fronte alla nascita di questi nuovi fenomeni, ciò che accomuna i diversi ordinamenti
dei Paesi membri, è il fatto che la politica interna e i legislatori li stanno
sostanzialmente ignorando510, non prendendo posizione e non esprimendosi sul
punto511. Una sorta di agnosticismo che, da un lato, favorisce la proliferazione delle
506
Beck, 2000, 102.
Beck, 2000, 108.
508
«1) employee sharing, where an individual worker is jointly hired by a group of employers to meet the
HR needs of various companies, resulting in permanent full-time employment for the worker; 2) job
sharing, where an employer hires two or more workers to jointly fill a specific job, combining two or
more part-time jobs into a full-time position; 3) interim management, in which highly skilled experts are
hired temporarily for a specific project or to solve a specific problem, thereby integrating external
management capacities in the work organisation; 4) casual work, where an employer is not obliged to
provide work regularly to the employee, but has the flexibility of calling them in on demand; 5) ICTbased mobile work, where workers can do their job from any place at any time, supported by modern
technologies; 6) voucher-based work, where the employment relationship is based on payment for
services with a voucher purchased from an authorised organisation that covers both pay and social
security contributions; 7) portfolio work, where a self-employed individual works for a large number of
clients, doing smallscale jobs for each of them; 8) crowd employment, where an online platform matches
employers and workers, often with larger tasks being split up and divided among a ‘virtual cloud’ of
workers; 9) collaborative employment, where freelancers, the self-employed or micro enterprises
cooperate in some way to overcome limitations of size and professional isolation» cfr. Eurofound European Fondation for the improvement of living and working conditions, New form of employment,
Luxemburg, 2015, https://www.eurofound.europa.eu
509
«In spite of the considerable differences among these employment forms, flexibility is the key concept
inherent in all: the new employment forms have been emerging due to an increased demand from
employers, employees or both for enhanced flexibility. And this demand is driven either by the
economically challenging times or societal developments. Consequently, some of the employment forms
discussed are opportunity driven while others emerge out of necessity, and these drivers might differ
between employers and workers» Eurofound, 2015, 135.
510
In Italia, il 27 gennaio 2016, è stata presentato alla Camera dei Deputati una proposta di legge su
iniziativa di alcuni deputati sulla «Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e
servizi e disposizioni per la promozione dell'economia della condivisione» (A.C.3564); tale proposta a
maggio 2017 risulta ancora all’esame nelle Commissioni IX e X e non è stata fissata alcuna data per la
discussione in Assemblea,
http://www.camera.it/leg17/126?tab=1&leg=17&idDocumento=3564&sede=&tipo=
511
Così chiaramente si esprime Eurofound, 2015, 129; Valenduc, Vendramin, 2016, 46, riprendendo
l’aforisma di Brynjolfosson e McAfee «little by little, than all at once» si augurano che la politica e i
sindacati inseriscano queste tematiche nella loro agenda.
507
86
fattispecie atipiche creando una matassa sempre più difficile da sbrogliare e un mercato
parallelo spesso irregolare, dall’altro lato, abbandona i lavoratori in un limbo senza
tutele né lavoristiche né assicurativo-previdenziali. Nemmeno i sindacati si stanno,
ufficialmente e concretamente, occupando di queste nuove tipologie di lavori così che,
sia in Italia, sia in Europa, i lavoratori coinvolti risultano generalmente privi di una rete
di protezione (fatta eccezione per le ipotesi del lavoro a chiamata, su cui più Paesi si
sono espressi per evitare abusi512).
18.7. Lavorare per (grazie a) un algoritmo
«Il mio capo è un algoritmo»513 è diventato uno slogan tanto efficace quanto evocativo
che descrive ciò che sta accadendo in quella parte dell’economia collaborativa che usa
le piattaforme digitali, basate su algoritmi, per fornire beni e servizi.
Il caso più emblematico è quello di Uber, ma solo perchè è diventato un caso
giudiziario in vari paesi europei (es. Gran Bretagna e Italia), ma gli stessi ragionamenti
valgono per Just Eat, Foodora, AirBnB, TaskRabbit, Amazon Mechanical Turk,
Lecigogne.net (etc.)514.
Come viene dettagliatamente spiegato dal Giudice del lavoro di Londra (Employment
Tribunals) nella sentenza del 28 ottobre 2016, la piattaforma tecnologica chiamata Uber
non serve solo a mettere in contatto soggetti diversi, che offrono e cercano un servizio,
ma costituisce una vera e propria organizzazione imprenditoriale che fornisce, essa
stessa, servizi515.
E la questione è proprio questa: capire se queste piattaforme che operano tramite
algoritmi svolgono un mero servizio di intermediazione tra domanda e offerta oppure
anche il servizio sottostante e, conseguentemente, se possono essere considerati datori
di lavoro o quanto meno committenti dei lavoratori che lavorano tramite le citate
piattaforme.
Che non si tratti di mera condivisione tra prosumers è evidente dal momento che esiste
una transazione commerciale con instaurazione di un sinallagma contrattuale: un
servizio a fronte del pagamento di un prezzo, ecco perchè è più corretto inquadrare tale
fenomeno nella collaborative o platform economy piuttosto che nella sharing economy,
che riguarda la condivisione di beni e la conseguente ripartizione dei costi (es. servizi di
car sharing).
In Italia il servizio reso da Uber è stato valutato alla luce della l. n. 21/1992, c.d. legge
quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea516, e del
d.lgs. n. 285/1992, c.d. codice della strada517.
512
«Most of the employment forms analysed do not have a specific legal or collectively agreed basis in
most Member States, which might be attributed to their newness and their emergence as practice rather
than as strategically planned labour market development. Exceptions are casual work and voucher-based
work, for which regulatory frameworks have been established to avoid abuse or to legalise undeclared
work», Eurofound, 2015, 136.
513
È il titolo di un ormai celebre articolo di Sarah O’Connor apparso sul Financial Times il 7 settembre
2016 https://www.ft.com/content/88fdc58e-754f-11e6-b60a-de4532d5ea35 e pubblicato anche in Italia
nella traduzione di “Internazionale” n. 1174/2016, 7/13 ottobre 2016.
514
Provocatoriamente Borelli (2016, 89 ss.) parla di «babysitting nell’epoca della uberizzazione del
lavoro».
515
«(…) it is plain to us that the agreement between the parties is to be located in the field of dependent
work relationships; it is not a contract at arm’s lenght between two indipendent business undertakings.
Moreover, the drivers do not market themselves to the world in general; rather, they are recruited by
Uber to work as integral components of its organization (…)», così «Employment Tribunals of London»,
Case Nos. 2202550/2015, 28 october 2016, Mr Y. Aslam, Mr. J. Farrar vs Uber B.V., Uber London Ltd.,
Uber Britannia Ltd., § 94, https://www.judiciary.gov.uk/wp-content/uploads/2016/10/aslam-and-farrar-vuber-reasons-20161028.pdf
516
Manzini, 2017, 126-137.
87
L’Autorità garante della concorrenza e del mercato518, nel settembre 2015, non si è
espressa apertis verbis, né per la qualificazione di Uber quale impresa che svolge
attività di trasporto pubblico non di linea né per una sua riduzione a mero servizio
elettronico di intermediazione, piuttosto auspicando l’intervento del legislatore che, nel
riconoscere e valorizzare i benefici concorrenziali di questa piattaforma, possa chiarirne
la natura «anche definendo un “terzo genere” di fornitori di servizi di mobilità non in
linea (in aggiunta ai taxi ed agli NCC), ovvero piattaforme on line che connettono i
passeggeri con autisti non professionisti».
Di lì a poco (novembre 2015) il Consiglio di Stato 519 dopo aver analizzato l’attività resa
da Uber ha ritenuto che la stessa deve essere esercitata nel rispetto della citata l. n.
21/1992, escludendo quindi si tratti di mera intermediazione (stessa conclusione cui è
giunto il Giudice del lavoro di Londra, cit.), viceversa dando per scontato che sia attività
di trasporto pubblico non di linea.
La Corte Costituzionale si è pronunciata con la sentenza del 15 dicembre 2016, n. 265,
solo sfiorando la questione, dichiarando l’illegittimità costituzionale della l. r. Piemonte
n. 14/2015 per aver regolamentato una materia, quale quella del trasporto pubblico non
di linea su strada, che è riconducibile alla competenza legislativa dello Stato in tema di
concorrenza [art. 117, co. 2, lett. e), Cost.], auspicando peraltro che «il legislatore
competente si faccia carico tempestivamente di queste nuove esigenze di
regolamentazione».
Il Tribunale civile di Roma, con ordinanza del 7 aprile 2017, ha ordinato a Uber di
bloccare il servizio Uber Black (quello delle auto nere con conducente) per concorrenza
sleale in quanto esercita una attività organizzata con scopo di lucro in violazione delle
norme pubblicistiche che regolano il servizio pubblico di trasporto non di linea.
Anche nell’ordinamento dell’UE manca chiarezza sulla natura dell’attività esercitata e,
al momento in cui si scrive, è in discussione un rinvio pregiudiziale alla Corte di
Giustizia UE, proposto dal «Juzgado Mercantil n. 3 de Barcelona» il 7 agosto 2015520 .
La questione è sempre qualificatoria: se l’attività di Uber è una attività di trasporto,
soggiace ai limiti previsti dalla normativa europea in materia, viceversa, se si tratta di
mera attività di intermediazione allora rientra nel novero delle attività che beneficiano
della libera circolazione ai sensi dell’art. 56 TFUE e delle direttive 98/34/CE,
2006/123/CE521.
Va, infine, ricordato che nemmeno la Commissione UE, nella c.d. «agenda europea per
l’economia collaborativa»522, prende una chiara posizione sulla natura delle piattaforme
“collaborative” («collaborative platforms», si legge), perché tutto dipende da quale
attività viene materialmente svolta e se vi è o meno uno scopo di lucro; pertanto, non è
in astratto ma in concreto che ci si deve esprimere sulla normativa applicabile perché la
qualificazione può variare da un caso all’altro.
Questa rapida rassegna delle posizioni al momento sul tappeto in merito alla difficoltà
di qualificare la natura delle attività svolte mediante piattaforma informatica, ci rende
517
Costantini, 2015.
AGCM, AS 1222, 29 settembre 2015, http://www.agcm.it/component/joomdoc/allegatinews/AS1222.pdf/download.html
519
Cons. St., sez. I, 25 novembre 2015, n. affare 00757/2015, risposta a quesito in merito all’applicabilità
della legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea (l. n. 21/1992) e
delle conseguenti sanzioni previste dagli artt. 85 e 86 del Codice della Strada alle nuove forme di
organizzazione e gestione telematica del trasporto di persone mediante autoservizi.
520
CGUE 3 novembre 2015, C-434/2015 (2015/C 363/27); l’altro rinvio pregiudiziale, affine a quello
cennato, proposto dal «Nederlandstalige rechtbank van koophandel Brussel» (tribunale del commercio di
lingua neerlandese di Bruxelles, Belgio) con decisione del 23 settembre 2015, nella causa C-526/15, è
stato dichiarato manifestamente irricevibile con ordinanza della CGUE (ottava sezione) del 27 ottobre
2016, (2017/C 063/08).
521
Manzini, 2017, 133-137.
522
COM(2016) 356 final «A European agenda for the collaborative economy».
518
88
avvertiti che il c.d. algoritmo è solo un mezzo per esercitare una attività, cosa che rende
più incerta la qualificazione della natura dell’attività effettivamente esercitata, ma non
esclude a priori che si tratti di una attività economica organizzata svolta in modo
professionale al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi ex art. 2082 c.c.;
la piattaforma, allora, ben può essere riconosciuta come centro di imputazione di
contratti di lavoro sia parasubordinato sia subordinato, sebbene questo sia contestato
dalle piattaforme, Uber in testa, che negano con determinazione una tale qualificazione,
affermando ripetutamente la loro natura di meri intermediari informatici (v. la difesa di
Uber nella causa avanti al Giudice del lavoro di Londra il quale però ha riconosciuto la
natura imprenditoriale della citata società ed escluso la natura autonoma dell’attività
esercitata dagli autisti, viceversa considerati come lavoratori alle dipendenze di
Uber)523.
Il problema, quindi, in un approccio giuslavoristico, è quello della qualificazione
dell’attività resa da chi utilizza la piattaforma informatica524. Le ipotesi astrattamente
possibili sono molteplici: lavoro autonomo, parasubordinato, subordinato o, addirittura,
c’è chi sostiene si tratti di attività micro-imprenditoriali525 (amplius infra).
18.8. Gli effetti collaterali della tecnologia: servification, stress, time porosity
I rischi di una servificazione degli esseri umani alle macchine vengono evidenziati da
più Autori, con riferimento a quei lavoratori dotati di una professionalità meramente
strumentale alla manutenzione e al funzionamento base di macchine e software, quasi
degli strumenti (tools) al servizio dei robot e degli algoritmi che governano le
piattaforme digitali. Alcune espressioni ormai comunemente utilizzate sono
emblematiche di questa situazione: «digital galley slaves»526, cioè gli schiavi delle
“galere digitali”, oppure «data janitors»527 cioè i “bidelli dei dati”.
Dall’altro lato, a sottolineare la dimensione di flessibilità estrema in cui si trovano i
lavoratori che lavorano tramite piattaforme viene usata un’altra emblematica
espressione: «tap workers»528, cioè i lavoratori “alla spina” della gig economy.
Dei rischi per la salute e sicurezza sul lavoro dà conto la «European Agency for Safety
and Health at work – EU OSHA» che mette in risalto come le nuove tecnologie, pur
fonte di grandi opportunità, comportano anche effetti collaterali, quali ad esempio: lo
stress da sovraccarico di lavoro e di informazioni da gestire ed elaborare; l’alienazione
provocata dalle relazioni solo virtuali o comunque con dispositivi e macchine, con la
conseguente perdita di una dimensione relazionale con altri esseri umani; i problemi
dovuti a cattive posture e gli effetti sul fisico dell’uso continuo di tecnologie529.
Un’ulteriore questione che emerge, poi, prepotentemente è quella dello sgretolamento
dei confini tra i tempi di vita e di lavoro: si utilizzano espressioni quali «time
523
«Employment Tribunals of London», Case Nos. 2202550/2015, 28 october 2016, Mr Y. Aslam, Mr. J.
Farrar vs Uber B.V., Uber London Ltd., Uber Britannia Ltd. Sul punto amplius v. Donini, 2017;
Daquino, 2017; Birgillito, 2016.
524
Tullini, 2016a; Idem, 2016b; Aloisi, 2016; Razzolini, 2014c. Fuori dall’Italia, la dottrina più avanzata
prova a fornire una risposta adeguata “scomponendo” le funzioni tipiche del datore di lavoro e andando
ad individuare quale dei soggetti coinvolti – piattaforma, cliente, lavoratore - possa dirsene di volta in
volta titolare (e quindi responsabile), al di là dello status formale; è la suggestiva ipotesi di Prassl, Risak,
2016, che riprende la nozione funzionale di datore di lavoro di Prassl, 2015, già influenzata
dall’elaborazione del metodo tipologico-funzionale di Nogler, 2009 e Idem, 2002.
525
Forlivesi, 2015.
526
Degryse, 2016, 36 e ivi ulteriori riferimenti bibliografici.
527
Degryse, 2016, 41.
528
Barberis, Chiriatti, 2017, 44.
529
European Agency for Safety and Health at work, 2013, 48, 49, 64, 65.
89
porosity»530, «blurring of boundaries between work and non work»531 o «e-nomads»532
per indicare, nei primi due casi, la continua promiscuità tra orario di lavoro e di non
lavoro, e, nel terzo, l’esasperata flessibilità di tempo e luogo dei lavoratori digitali,
sempre reperibili, sempre connessi ma mai fisicamente stanziali presso la sede
dell’impresa datrice di lavoro/committente.
Le nuove tecnologie rendono possibile, da un lato, al datore di varcare la soglia della
vita privata del lavoratore anche fuori dall’orario eventualmente concordato, dall’altro
lato, alla vita privata di sconfinare anche durante l’orario di lavoro, quindi una costante
interferenza, contaminazione, promiscuità temporale, con il concreto rischio di una
lesione del diritto al rispetto della vita privata e della vita familiare sancito dall’art. 7
della Carta dei diritti fondamentali dell’UE.
18.9. La nascita di nuove diseguaglianze e discriminazioni
La c.d. nuova età delle macchine e l’economia fondata sul lavoretto, con buona
probabilità, determineranno un aumento delle diseguaglianze. Questo è il principale
allarme lanciato dagli economisti, sociologi e altri esperti impegnati a studiare e
analizzare i fenomeni sopra descritti e a proporre delle soluzioni o dei paradigmi
alternativi533.
Le grandi opportunità che queste trasformazioni della tecnologia ci offrono si portano
appresso anche forti rischi ed effetti collaterali, che i legislatori e i governi dovrebbero
affrontare, prevenire o almeno contenere, con una serie di politiche e azioni per
realizzare una maggiore e migliore distribuzione della ricchezza e dei benefici che le
macchine pensanti potranno portare agli esseri umani; il pericolo, paventato da più parti,
è quello che si generalizzi la regola de: “il vincitore piglia tutto” («the winner takes
all»534) che potrebbe far cadere il pianeta in un «tecno-feudalesimo»535.
Inoltre se si legge l’aumento delle diseguaglianze secondo un’ottica di genere, ci si
rende conto che l’impatto della povertà e della precarietà lavorativa colpisce di più le
donne rispetto agli uomini, seppure stia rapidamente dilagando anche tra questi
ultimi536.
La diminuzione della forza lavoro necessaria, stante il sempre maggiore utilizzo delle
macchine, e la nascita di nuove forme di occupazione non regolamentate e precarie, in
cui molto spesso l’essere umano è alle dipendenze di “un algoritmo”, impongono delle
riflessioni sul futuro del diritto del lavoro e dei diritti sociali in generale (amplius infra).
Quello che emerge chiaramente è che non saranno solo le professionalità più semplici e
i lavori più ripetitivi, tendenzialmente di carattere manuale, a scomparire in quanto
svolti (anche meglio) dai robot, ma anche le attività considerate intellettuali verranno (in
alcuni casi già sono) svolte dalle macchine intelligenti, con evidente riduzione
complessiva dei livelli di occupazione generale, a livello mondiale537. Secondo le stime
di alcuni autorevoli studiosi «around 47 percent of total US employment is in the high
risk category. We refer to these as jobs at risk – i.e. jobs we expect could be automated
530
Genin, 2016, 285 – 293. Medesimo concetto, seppur espresso con altre parole, si legge in Weiss, 2016,
657-660.
531
Genin, 2016, 281; Degryse, 2016, 41.
532
European Agency for Safety and Health at work, 2013, 65.
533
Beck, 2000, 2000, 125 - 150; Rifkin, 2014, 317 ss.; Brynjolfsson, McAfee, 2015, § 9; D’Ovidio, 2016,
702 - 706.
534
«The newly developed platform-based business model has rewritten the rules of competition in the
market sectors in which these platforms operate by promoting a “winner takes all” approach», così
Valenduc, Vendramin, 2016, 12; ne parlano diffusamente anche Brynjolfsson, McAfee, 2015.
535
L’espressione è di Mayer, 2014.
536
Beck, 2000, 133.
537
Un tentativo di creare una mappature delle professionalità con indicizzazione del rischio di essere
svolte da macchine è stato realizzato da Frey, Osborne, 2013.
90
relatively soon, perhaps over the next decade or two»538.
La sfida per la sopravvivenza del lavoro umano si gioca sul terreno della “non
sostituibilità”, quindi potenziando la creatività e l’intelligenza sociale: «For workers to
win the race, however, they will have to acquire creative and social skills»539.
19. Le sfide per il diritto del (nuovo) lavoro
Viviamo in una «hyperconnected era» che rende necessario, anzi indispensabile —
parafrasando i quindici fondatori del Manifesto «On life» — rimodellare le tradizionali
categorie giuridiche perché per affrontare e governare i nuovi fenomeni abbiamo
bisogno di nuovi concetti, nuove strutture interpretative, altrimenti tendiamo a ignorare
quello che accade solo perché ci appare incomprensibile540.
La nuova dimensione è quella dell’interazione “essere umano – essere artificiale” (che
sia una macchina o un algoritmo) così venendosi a creare un nuovo ambiente, tutto da
regolamentare, che è stato emblematicamente chiamato da Floridi: «the infosphere»541.
Le nuove tecnologie applicate all’industria hanno inoltre portato profonde modifiche
nell’organizzazione del lavoro fordista, rigida e fortemente standardizzata e gerarchica,
che ha determinato l’elaborazione delle categorie giuridiche del diritto del lavoro e della
previdenza sociale, nonché delle relazioni sindacali.
Il modello organizzativo che si sta, viceversa, affermando («little by little, than all at
once», come scrivono Brynjolfosson e McAfee) è quello di un sistema frammentato,
destandardizzato, di sottooccupazione, con un impiego flessibile della forza lavoro in
cui si sbiadiscono i confini temporali e spaziali della prestazione, in cui si assiste ad una
promiscuità o porosità dei tempi di vita e di lavoro e non è più importante il luogo in cui
il lavoratore rende la prestazione. Anche la disoccupazione diventa meno visibile, in una
alternanza continua, ma sempre cangiante, di periodi di lavoro e periodi di non lavoro,
sciogliendosi e confondendosi con l’occupazione saltuaria, precaria, flessibile, se non
addirittura «informale»542, così definendosi quell’occupazione che si colloca — secondo
i nostri schemi — in una zona grigia tra legalità e illegalità543.
La stessa impresa è cambiata: «al posto di forme di impresa concentrate entro
grattacieli o capannoni industriali, subentra una organizzazione aziendale poliedrica,
diffusa e quindi invisibile, la quale non permette più, né verso l’esterno né verso
l’interno, di operare le chiare distinzioni tra mercati, prodotti, clienti, lavoratori
dipendenti e imprenditori, e quindi diventa invisibile»544.
L’immagine dell’impresa “invisibile” è tanto inquietante quanto realistica: e se
l’impresa sta diventando invisibile, davvero non resta che ripensare a nuove categorie
perché quelle esistenti non troveranno più corrispondenza con il reale.
Ignorare il fenomeno da parte del legislatore significa fare quello che Beck chiama «la
politica dello struzzo»545 che è un agire molto pericoloso perché, continua l’A.,
«proprio quando sul piano politico non succede nulla, succede molto».
538
Frey, Osborne, 2013, 44.
Frey, Osborne, 2013, 45.
540
Floridi, 2015; davvero emblematico quanto si legge a pag. 7: «The world is grasped by human minds
through concepts: perception is necessarily mediated by concepts, as if they were the interfaces through
which reality is experienced and interpreted. Concepts provide an understanding of surrounding realities
and a means by which to apprehend them. However, the current conceptual toolbox is not fitted to
address new ICT-related challenges and leads to negative projections about the future: we fear and reject
what we fail to make sense of and give meaning to».
541
Floridi, 2014.
542
Beck, 2000, 139.
543
Beck, 2000, 109-111; Casale, 2016, 2016, 1-8.
544
Beck, 2000, 111.
545
E che imputava al Governo federale del Cancelliere Kohl, v. Beck, 2000, 123-124.
539
91
La traslazione del rischio dalle imprese, sempre più snelle ed effimere, ai lavoratori, la
disoccupazione tecnologica dilagante, il dominio dell’economia fondata sul lavoretto
“informale” che impone di lavorare di più per compensare le perdite dei minori
guadagni, l’instabilità lavorativa che si trasforma in incertezze esistenziale sul futuro, la
disoccupazione sempre più mescolata a sotto-occupazione (con l’aumentare dei c.d.
working poor), la porosità dei tempi di vita e di lavoro, il potenziale collasso dei sistemi
previdenziali, tutto ciò impone una seria presa di coscienza seguita da azioni concrete ed
efficaci da parte del legislatore, nonché una discesa in campo degli esperti della materia,
prima di tutto dei giuristi, con delle proposte per rimodellare il futuro (v. infra).
Ma per rimodellare il futuro del diritto del lavoro è indispensabile avere in mente un
modello di riferimento, un’utopia di società, una visione.
Ecco perché intellettuali/economisti/sociologi come Rifkin, Beck, Bauman et al. sono
fondamentali: per delineare una nuova idea di società che consenta di guidare l’azione
modellatrice della politica e quindi dei legislatori; senza una idea di società cui tendere,
le regole saranno inutili o ineffettive. Questa è la vera sfida, ma con l’accortezza di non
ingurgitare acriticamente le utopie altrui, perché in ogni società ci sono visioni,
percezioni e valutazioni diffusamente diverse. Le culture dei diversi Paesi non sempre
possono essere uniformate, anzi, spesso si scontrano, il c.d. clash of cultures, proprio
per il fatto che viene attribuito un peso diverso ai valori fondanti, in primo luogo a
quelli di “libertà” ed “eguaglianza” con le connesse e conseguenti ricadute in termini di
intervento ovvero astensione da parte dello Stato nella regolamentazione dei fenomeni e
delle diseguaglianze prodotte dal mercato546.
Nonostante questi limiti e queste barriere culturali, l’esigenza di una regolazione
internazionale di molti fenomeni che riguardano il web e le piattaforme digitali appare
inevitabile. Emblematica l’espressione utilizzata da Weiss di «catena di montaggio
digitale e globale»547 che rende proprio l’idea dell’interconnessione oltre che delle cose
(Internet of things) anche delle persone e degli ordinamenti giuridici.
Se da tempo è ormai chiaro che «il fatto di produrre in un sistema globale e non
nazionale riduce le possibilità di controllo da parte delle autorità nazionali … e crea i
presupposti per un rilassamento dei diritti dei lavoratori e delle condizioni di lavoro in
nome del profitto, della produttività e della competizione»548, questa situazione si
amplifica in un mercato del lavoro con sempre meno occupati e con un numero
crescente di poveri che tentano di sbarcare il lunario accettando i lavoretti che la
gig/platform economy mette a disposizione.
In questo contesto di aumento della disoccupazione, dell’emergere delle nuove povertà
e delle nuove forme di “asservimento” (dell’essere umano alle macchine), può essere
utile ripensare al concetto di «decent work»549 coniato dall’OIL alla fine del secolo
scorso per far fronte alle sfide messe sul tappeto dalla globalizzazione, per adattarlo alle
sfide che ci attendono impietose, quelle poste dalle quarta rivoluzione industriale e dalla
c.d. infosfera.
Una qualche forma di tutela per i lavoratori occupati tramite Internet, le piattaforme
digitali, i dispositivi informatici di ogni tipo dovrà essere contemplata, pena la perdita
stessa del senso del diritto del lavoro550 (infra), allo stesso tempo approdo e punto di
partenza per l’accesso agli altri diritti civili e sociali.
Questi temi, e principalmente ciò che concerne le criticità e le diseguaglianze emergenti
da queste nuove forme di lavoro collegate alla economia fondata sul digitale e sulle
macchine intelligenti, sono al centro del dibattito internazionale, anche se non si
intravedono ancora proposte di regolamentazione che affrontino a tutto campo le varie
questioni sul tappeto.
546
Beck, 2000, 158 ss.
Weiss, 2016, 661.
548
D’Ovidio, 2016, 702.
549
Veneziani, 2010.
550
Speziale, 2017.
547
92
La confederazione dei sindacati europei, ETUC, per il tramite del collegato centro di
studio e ricerca ETUI, ha posto prepotentemente all’ordine del giorno delle agende dei
governi europei la tematica dell’impatto che la digitalizzazione e la robotizzazione
hanno sul lavoro animando il dibattito e fornendo spunti per una possibile
regolamentazione dei fenomeni in atto551.
Spicca nel nuovo contesto la figura del lavoratore economicamente dipendente, concetto
ben diverso da quello di lavoratore subordinato, cioè dipendente in senso giuridico (v.
supra).
Come ha chiaramente detto Weiss «la digitalizzazione rappresenta una nuova sfida per
il concetto di lavoratore subordinato: che la tradizionale linea di demarcazione tra
lavoro subordinato e autonomo abbia ancora senso è più in discussione che mai.
Tuttavia abbandonare i vecchi modelli potrebbe essere pericoloso (..)»552. Per Weiss il
pericolo è la delegittimazione dell’intero diritto del lavoro a fronte di una estensione del
campo di applicazione dello stesso oltre l’area del lavoro subordinato, includendo il
lavoro economicamente dipendente, ma in ogni caso riconosce la necessità di dover
costruire una rete di protezione per quest’ultimo.
Il diritto deve prendere atto delle realtà create dal nuovo contesto, cioè di quelle
situazioni che mettono in crisi la tradizionale idea di lavoratore autonomo come
lavoratore “sostanzialmente autarchico”, che non gode di particolari tutele perché il
legislatore non gliene riconosce il bisogno.
Ebbene, alla luce della innegabile frammentazione del lavoro autonomo — alimentata e
accelerata dal lavoro per il tramite delle piattaforme o comunque dal proliferare di
professioni fondate sul digitale e che usano il web tanto come “mezzo” quanto come
“ambiente” di lavoro — stanno emergendo delle figure di lavoro autonomo in cui il
legislatore comincia a riconoscere lo stato di bisogno.
Emblematico di questo atteggiamento è il disegno di legge n. 2233-B, presentato dal
Ministro del lavoro e delle politiche sociali, approvato dal Senato della Repubblica il 3
novembre 2016 e modificato dalla Camera dei Deputati il 9 marzo 2017, intitolato
«Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire
l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi di lavoro subordinato». Il capo primo di
questo disegno di legge è tutto dedicato alla tutela del lavoro autonomo, anche
comprendendo le professioni ordinistiche.
La debolezza socio-economica di questi soggetti trova esplicito riconoscimento dal
momento che, come già si è detto, si estendono in loro favore, e in quanto compatibili,
l’applicazione del d.lgs. n. 231/2002 di attuazione della dir. 2000/35/CE relativa alla
lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, nonché l’art. 9, l. n.
192/1998 in materia di abuso di dipendenza economica (v. supra). Inoltre nel d.d.l. si
ravvisano previsioni di carattere previdenziale/assistenziale volte ad affrontare il tema
delle nuove povertà anche con riferimento ai lavoratori autonomi (su tutti v. l’art. 6).
Emerge quindi una nuova figura social-tipica: quella del lavoratore autonomo
economicamente dipendente553.
Va comunque notato che non viene però riproposta nel d.d.l. cit. una norma come quella
contenuta nell’abrogato art. 63, d.lgs. n. 276/2003, concernente il compenso in favore di
tali lavoratori.
Degna di considerazione, anche per lo sforzo sistematico è la «Carta dei diritti
universali del lavoro. Nuovo statuto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori»554
proposta dalla CGIL a gennaio 2016, in cui si pone con forza, per tutti i lavoratori,
l’esigenza che il lavoro debba essere dignitoso, pur nella vaghezza di tale nozione, e
551
Cfr. Conference report - Shaping the new world of work. The impact of digitalization and robotization,
Bruxelles 27-29 giugno 2016, etui.org.
552
Weiss, 2016, 655-656.
553
Ancor prima vedi l’abrogato art. 69-bis del d.lgs. n. 276/2003.
554
Testo integrale su old.cgil.it/Archivio/CAMPAGNE/Carta_diritti_universali/Carta_dei_diritti_del_
lavoro_testo_finale_13.01.2016.pdf.
93
destinatario di una tutela minima non differenziata, con riferimento, ad esempio, al
diritto ad un compenso equo e proporzionato (art. 5), al diritto al riposo (art. 8), al
diritto alla formazione continua (art. 17), al diritto ad un preavviso di recesso o di
mancato rinnovo (art. 19)555.
Le questioni sono delicate e ricche di distinguo, dovendosi partire dalla constatazione
che non tutte le piattaforme tecnologiche sono uguali e che il lavoro tramite queste non
viene reso sempre nel medesimo modo.
Il legislatore italiano continua ad ignorare il fenomeno, avendo di recente manifestato
interesse (art. 4 del d.l. n. 50/2017) solo per quello delle locazioni di breve durata (con
un chiaro riferimento a AirBnB), configurando il titolare della piattaforma tecnologica
(che viene erroneamente appellato: «portale on line») quale sostituto d’imposta di una
sorta di cedolare secca del 21%. Il profilo giuslavoristico viene sistematicamente
ignorato, forse (volendo interpretare in bonam partem) ritenendo che le attuali categorie
giuridiche siano comunque in grado di dare delle risposte alle richieste di tutela
provenienti dai lavoratori.
Come già evidenziato556, a seconda del modello organizzativo prescelto dall’impresa
sottostante la piattaforma tecnologica e delle modalità di svolgimento della prestazione
lavorativa, sono configurabili un contratto di lavoro subordinato oppure eteroorganizzato (ex art. 2 d.lgs. n. 81/2015) o di collaborazione coordinata continuativa (ex
art. 409, n. 3, c.p.c.) o, ancora, di lavoro autonomo puro (ex artt. 2222 e ss. c.c.).
Questa estrema libertà organizzativa e contrattuale genera incertezza e indebolisce le
parti già deboli, anche in ragione del fatto che la scelta di una eventuale rivendicazione
giudiziale delle tutele può essere a monte disincentivata dalla prospettiva di una lunga e
defaticante battaglia giudiziale contro imprese straniere se non addirittura
multinazionali.
Il modello di tutela, anche per queste ipotesi, dovrebbe sostanziarsi nel garantire dei
minimi al lavoratore nel caso di dipendenza economica rispetto ad un committente, pur
se questo abbia le caratteristiche di una piattaforma tecnologica, senza ovviamente
escludere l’operatività dell’art. 2094 c.c. nel caso in cui ne ricorrano i presupposti.
Una tutela minimale potrebbe essere ravvisata nella garanzia delle libertà fondamentali
e nella protezione della dignità della persona che lavora tramite una piattaforma
tecnologica nonché nel divieto di ogni forma di discriminazione, nella previsione di un
compenso equo (che rappresenti anche un freno alla concorrenza al ribasso),
nell’accesso agevolato alla formazione professionale e ai servizi per l’impiego (per
favorire l’adeguamento delle professionalità alle esigenze del mercato e il reperimento
di nuove occasioni di lavoro) e — ultima ma non meno importante — nella garanzia di
una copertura previdenziale in modo da assicurare una forma di protezione sociale
durante i momenti più critici, quali la maternità (prima e dopo il parto), la malattia
(almeno quella che comporti il ricovero ospedaliero o la totale impossibilità di rendere
la prestazione), la vecchiaia e la disoccupazione involontaria. E proprio quest’ultima è
diventata (e lo sarà sempre di più) un elemento caratterizzante le nuove occupazioni,
specie quelle non subordinate, in cui la discontinuità lavorativa (che porta alla
disoccupazione involontaria) è diventata caratteristica intrinseca, potrebbe dirsi
tipologica.
Lo stesso appellativo di “gig economy” attribuito all’economia collaborativa che usa
internet e le piattaforme tecnologiche per ripartire oltre che beni e servizi anche
occasioni di lavoro, deriva proprio dalla constatazione che il “lavoretto” (gig, parola
originariamente usata nel contesto delle performance musicali nell’ambito della musica
pop) è diventato la regola, cosa che significa che sono diventate “regola” la precarietà,
l’incertezza e la discontinuità lavorative (con gli ovvi riflessi esistenziali).
Riprendendo le parole di Ghera (pronunciate oltre dieci anni fa in occasione di un
convegno svoltosi presso l’Accademia Nazionale dei Lincei proprio sul “Il nuovo volto
555
Angiolini, Carabelli, 2016, § 6.
Aloisi, 2016, 32.
556
94
del diritto italiano del lavoro”)557 «occorre assicurare l’estensione e il rafforzamento
dei diritti sociali finalizzati alla protezione della persona contro gli effetti negativi della
discontinuità lavorativa»dovendosi ormai prendere atto che «la dipendenza economica
acquista rilevanza in qualità di presupposto per la giuridificazione dello status di
attività (o cittadinanza professionale) funzionale alla titolarità dei diritti sociali
finalizzati alla protezione della discontinuità dell’occupazione».
Il riconoscimento sul piano giuridico del dato socio-economico della “dipendenza
economica” del lavoratore e della “discontinuità lavorativa” come elementi
caratterizzanti i c.d. nuovi lavori, specie quelli che usano le piattaforma tecnologiche
(pur nella varietà delle tipologie ipotizzabili), pongono le premesse per la creazione di
uno statuto protettivo dei lavoratori che sia plurale e variamente declinato558,
riconoscendo la necessità e l’urgenza di attivare una protezione per le figure socialtipiche diverse da quelle riconducibili all’art. 2094 c.c., ritenuto ancora oggi (ma chissà
per quanto ancora) quale modello del lavoratore che necessita di tutele, risultando,
viceversa in molti casi, il soggetto forte, in un mercato del lavoro in cui sono i lavoratori
autonomi o parasubordinati ad essere sempre più deboli559, ormai sprovvisti anche della
prospettiva di un guadagno adeguato che consenta loro di compensare le minori tutele
legali (come è stato nella lunga tradizione delle c.d. professioni libere).
Questo minimo di tutela, questo “zoccolo duro di diritti”560 dovrebbe essere considerato
quale requisito essenziale per il legittimo operare nel nostro Paese delle nuove imprese
della collaborative/platform economy, la cui sede legale può essere ovunque nel mondo,
ma la cui incidenza è immediata e diretta nel mercato del lavoro nazionale.
LAFUNZIONEREGOLATIVADELDIRITTODELLAVORODALL’UNIFORMITÀDI
TRATTAMENTOALLARAGIONEVOLEDIFFERENZIAZIONE
La conclusione della riflessione sin qui svolta in ordine alle ricadute della
frammentazione organizzativa sul rapporto individuale di lavoro non può essere
circoscritta al fenomeno analizzato in quanto esso, come già anticipato, coinvolge il più
generale tema della funzione del diritto del lavoro a fronte dei cambiamenti in atto
nell’economia e nella società.
Descrivere un cambiamento in atto e contemporaneamente tentare di darne una
sistemazione ordinata mediante la creazione di categorie interpretative che si pongano
in una qualche relazione con quelle esistenti non è affatto facile se la pretesa è quella di
(tentare di) essere oggettivi e di usare un metodo rigoroso e scientifico561.
Le trasformazioni nell’economia, nella società, nelle scienze e nella tecnologia,
consegnano ai giuristi degli inizi del terzo millennio un mondo profondamente diverso
da quello del Novecento, secolo in cui sono state create e si sono definite le categorie
fondamentali del diritto del lavoro in quanto strettamente connesse a quell’economia e a
quella società.
Tutte le periodizzazioni sono discutibili, anche quelle che utilizzano come metro di
misura temporale i secoli, tanto che Hobsbawm chiama «Il Secolo breve»562 quello che
557
Relazione tenuta da E. Ghera nel 2004 presso l’Accademia Nazionale dei Lincei in occasione del
convegno «Il nuovo volto del diritto italiano del lavoro» e poi pubblicata nel 2006.
558
V. Carta universale dei diritti presentata dalla CGIL nel 2016.
559
Di questa debolezza sembra in parte prendere atto il Parlamento con il d.d.l. n. S-2233-B già citato nel
testo.
560
Se ne parlava già nel «Libro Bianco del mercato sul mercato del lavoro in Italia. Proposte per una
società attiva e per un lavoro di qualità» del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, 2001.
561
Mazzotta, 2014, 181 ss.
562
Hobsbawm, 1997, 7 (prima edizione in lingua originale del 1994).
95
va dal 1914 alla fine dell’Unione Sovietica, quindi descrivendo e interpretando solo una
parte del XX secolo.
Questa premessa per dire che le trasformazioni che stiamo vivendo oggi, nella duplice
veste di protagonisti e spettatori, trovano le loro origini nella fine del millennio scorso,
in un continuum accelerato di cause ed effetti che, per ragioni che nulla hanno a che fare
con il diritto, stanno mettendo a dura prova le fondamenta e la struttura del sistema
giuridico (paradigma) tradizionale, specchio di un mondo che non c’è quasi più563.
La prima difficoltà è quindi quella di scegliere le parole e le categorie per interpretare i
cambiamenti, non solo in potenza, ma in atto.
«Quando gli uomini si trovano di fronte a qualcosa di nuovo che li coglie impreparati,
si affannano a cercare le parole per dare un nome all’ignoto, anche quando non
possono definirlo né comprenderlo. Nel terzo quarto del secolo possiamo vedere questo
processo in atto tra gli intellettuali occidentali. La parola chiave fu la breve
preposizione “dopo”, generalmente usata nella forma latina “post” come prefisso di
numerosi termini che, per alcune generazioni, erano stati adoperati per contrassegnare
il paesaggio mentale della vita del ventesimo secolo. Il mondo, o i suoi aspetti più
rilevanti, divenne post-industriale, post-imperiale, post-moderno, post-strutturalista,
post-marxista, post-Gutemberg e affini. Come i funerali, questi prefissi prendevano atto
ufficialmente della morte senza implicare alcun giudizio unanime e ancor meno alcuna
certezza circa la natura della vita dopo la morte»564.
La dottrina giuslavoristica è in prima linea nel cercare di interpretare il mutamento in
corso, visto che tutto ciò che avviene nell’economia e nella società ha una ricaduta
immediata e, direi, violenta proprio sul lavoro e sulle relazioni contrattuali ad esso
connesse565.
A tal proposito, Perulli parla di «mutamento di paradigma» con riferimento alla
funzione storica del diritto del lavoro stante «il diverso contenuto della filosofia
d’azione che esso incarna in vista delle soluzioni (le politiche)» e «il diverso
strutturarsi dell’agire pubblico rispetto al valore del paradigma»566; in sostanza, si
assisterebbe ad uno spostamento dell’asse valoriale intorno al quale si è costruito e si
costruisce il diritto del lavoro con un deciso ridimensionamento dei valori sociali ed una
preminenza degli interessi economici. Secondo Treu l’impostazione del Jobs Act
«implica non una rinunzia al ruolo regolatorio del diritto del lavoro, bensì la modifica
dei suoi contenuti e delle sue tecniche, resa necessaria per adeguare la regolazione al
mutato contesto dell’economia globale e dei mercati del lavoro»567. Per Speziale568 il
diritto del lavoro ha subito una «mutazione genetica», modificando «i propri obiettivi,
la scala di valori su cui si è basato e, in una parola, la stessa funzione che lo ha
contraddistinto e ne ha giustificato la nascita e lo sviluppo» e imputa tale radicale
563
Carinci F., 2014; ancor prima Persiani, 2003.
Hobsbawm, 1997, 339-340.
565
Sull’importanza dell’impatto dei mutamenti organizzativi e produttivi sul dibattito scientifico
giuslavoristico, con «accesi dibattiti, fino a contrapposizioni ideologiche, di carattere generalissimo sullo
stesso diritto del lavoro e su una sua presunta crisi di identità» v. Quadri, 2004, 1. Sui riflessi dei
mutamenti in atto sul diritto del lavoro si è ripetutamente interrogato Miscione, 1999 e Idem, 2003.
566
Perulli, 2016a, XLIV, che sembra aver mutato parere rispetto all’idea di diritto del lavoro formulata un
paio di lustri innanzi. Infatti, l’Autore (2008, 894), riteneva «naive limitarsi ad alzare barriere
comunicative sostenendo che il diritto del lavoro, di fronte alla materialità economica, corre il rischio di
perdere il suo statuto scientifico ed il suo orientamento assiologico, compendiabile nell’attitudine a
correggere le disparità di potere contrattuale e consentire il superamento della visione economica del
lavoro come merce. Infatti, il diritto del lavoro, con la sua componente di legittimazione dell’autorità
aziendale, è sempre stato anche strumento di Rationalisierung capitalistica, in un continuo processo di
razionalizzazione/adattamento della forma giuridica alle esigenze dell’economia e dell’organizzazione».
567
Treu, 2016, 27.
568
Speziale, 2017b, 2 ss.
564
96
trasformazione al rapporto instauratosi con l’economia569, quasi una colonizzazione del
primo da parte di quest’ultima570.
Rispetto alla «flessibilità nel garantismo» sostenuta da Giugni571, le prospettive della
legislazione del lavoro degli ultimi anni impongono al giuslavorista572, una volta posto
di fronte al diritto del lavoro della complessità573, di «rimettersi a studiare le nuove
forme che hanno assunto l’impresa ed il lavoro nelle società contemporanee»574, non
perdendo di vista i grandi mutamenti socio-economici, in primo luogo, la
globalizzazione e, in secondo luogo, la c.d. «new economy», a lungo sottostimati da una
parte della dottrina575, troppo concentrata sulle (improvvisate)576 dinamiche normative
interne577, per quanto importanti esse possano apparire.
A ben guardare, la comprensione dei macro fenomeni anzidetti appare fondamentale per
capire quali traiettorie dovrà seguire il diritto del lavoro per poter rispondere alle nuove
esigenze in modo “maturo”578, posto che la globalizzazione e la c.d. quarta rivoluzione
industriale stanno al futuro della nostra materia come la prima e la seconda rivoluzione
stanno al suo passato. Di conseguenza, così come lo sviluppo economico e i modelli di
industrializzazione non potevano, ieri, essere lasciati alla spontaneità del mercato a
tutela dei contesti sociali di riferimento579, appare insensato, oggi, opporsi
569
In argomento si rinvia alla riflessione di Quadri, 2004, 1 ss. ed al ricco apparato bibliografico a
supporto di essa.
570
Non a caso Quadri (2004, 6) parla di «tendenza pervasiva dell’economia, (…) una propensione del
ragionamento economico ad imporsi anche nel capo delle altre scienze, con una valenza, per cosi dire,
totalizzante». Sulla funzione del diritto del lavoro d’obbligo il rinvio a Vallebona, 2009, 3 e 10; l’Autore
trattando di fini e tecniche del diritto del lavoro esordisce affermando che «il fine del diritto, e quindi
anche del diritto del lavoro, è la realizzazione della giustizia sociale», evidenziando di seguito che i
diritti dei lavoratori vanno contemperati con la tutela dell’organizzazione produttiva con l’effetto che «tra
i fini del diritto del lavoro vi è anche la tutela dell’organizzazione».
571
Giugni, 1983.
572
Secondo Mazzotta (2014, 181 ss.), il giurista è un tecnico che collabora nella elaborazione e
successiva redazione della legge, con ruoli molto diversi tra loro, potendo assumere quello di «consigliere
del principe», ovvero di «controllore ex post dei documenti normativi, sui quali svolge la propria
influenza»; sempre ragionando del ruolo del giurista, Perulli (2008, 890 – 891) lo individua
«nell’occuparsi della norma sul piano dei valori e non su quello fenomenologico, che resta riservato
all’analisi sociologica o statistica, ovvero al dominio delle scienze empiriche». Con riferimento specifico,
poi, al ruolo del giuslavorista, lo stesso Autore (2016a, L) ritiene che esso sia impegnato a comprendere
se il diritto del lavoro dovrà svolgere solo la funzione di organizzare forme esteriori del processo
economico ovvero se possa costituire uno strumento attivo del processo economico, orientandolo in senso
sociale.
573
Così Del Punta (2016, 497), secondo il quale il diritto del lavoro della complessità implica «il rinnovo
della pratica bobbiana del dubbio metodico, una convinta umiltà metodologica, una cultura pragmatica e
consequenziale».
574
Mazzotta, 2014, 182.
575
De Luca Tamaio (2016a, 6 ss.), che non manca di rimarcare le responsabilità della cultura
giuslavoristica che «non ha saputo comprendere e guidare per tempo gli inevitabili processi strutturali in
corso, attestandosi su posizioni meramente difensive e trasformando talora la fedeltà al garantismo
storico in fuorviante barriera ideologica di misurati e ragionevoli moti riformistici». Riecheggia nelle
parole di De Luca Tamajo, ovviamente con le dovute differenze di contesto storico, il pensiero di Giugni
(1996, 270) che vent’anni fa invitava a modernizzare un sistema normativo intriso della cultura dei
divieti, non con la testa rivolta al passato.
576
Piace sul punto rileggere una riflessione datata, ma tuttora attuale, di Carnelutti (1961, 503), secondo il
quale «al solito la legge è redatta con l’inabilità tecnica che costituisce ormai un carattere costante della
nostra legiferazione sempre più improvvisata».
577
Perulli, 2016a, XLVI.
578
Romagnoli (1995, 7) sostiene che il diritto del lavoro è affetto dal «complesso di Peter Pan».
579
Garofalo M.G., 1999, 12.
97
ideologicamente alla globalizzazione e alle ragioni dell’economia quanto piuttosto è
importante «provare a contrastarne le forme più negative»580 che vorrebbero
trasformare il diritto del lavoro in strumento a servizio dell’economia581 nella logica
della c.d. desocializzazione capitalistica con elevazione della flessibilità a dogma582,
viceversa tentando di ribadire l’autonomia epistemologica del diritto del lavoro e
difendendo il suo assetto valoriale583.
Il diritto del lavoro post-costituzionale ha corretto il modello antropologico ottocentesco
dell’individualismo proprietario584 presupponendo, viceversa, l’uomo che lavora e non
semplicemente un proprietario di forza-lavoro che la offre sul mercato585. La
reificazione del lavoratore, scongiurata proprio dal diritto del lavoro post-costituzionale,
sembra purtroppo riproporsi anche nell’Italia del terzo millennio — si pensi al lavoro
degli immigrati nei campi di pomodoro o a quello dei fattorini che trasportano i pasti
per ordine di un algoritmo — «con l’effetto di dover rinverdire in forme nuove le radici
antiche del diritto del lavoro»586, radici che affondano nei valori costituzionali e che
non possono essere intaccate da qualsivoglia supposto mutamento di paradigma ogni
volta che il vento di una crisi inizia a soffiare, anche con vigore, minacciando la tenuta
del sistema.
La ciclicità delle crisi (1973-1975; 1980-1984; 1992-1995; 2008-2014) ha di fatto
cristallizzato una provvisorietà non più transeunte ma permanente, tanto che a fronte
dell’emergenza “che non si decideva a passare” si iniziò a parlare di «diritto del lavoro
della crisi»587, anche se «era il diritto del lavoro che stava cambiando e non in virtù di
una crisi passeggera, ma del mutare dello stesso referente socioeconomico, e cioè del
modo di stesso di produzione»588: quindi non un cambio di paradigma ma l’ontologica
580
Mariucci (2008, 678) il quale a fronte del modello desindacalizzato nordamericano e
dispotico/iperliberista asiatico, auspica una risposta europea all’evoluzione della scena globale, rinvenuta
nell’elevazione del vincolo dei diritti sociali come «limite sociale al mercato», dovendosi affermare
«un’altra concezione della competizione, in cui il parametro della qualità sociale sia assunto come
concreto punto di riferimento» (680-681).
581
Sul punto v. Perulli, 2008, 902 ss., che parla di «tendenza alla “delavorizzazione” del diritto del
lavoro in nome di un fondamentalismo dei valori del mercato libero concorrenziale». Amplius, Caruso,
2016, 241 ss., che si sofferma sul rapporto tra capitalismo e diritto del lavoro, evidenziando che la
progressiva perdita di autonomia epistemologica del diritto del lavoro è parte del più ampio dibattito sul
futuro del capitalismo, contrapponendosi due tesi. La prima è definita della convergenza neoliberale dei
sistemi di capitalismo occidentale (Streeck); la seconda è quella della differenziazione dei modelli e delle
risposte che ha come corollario la riformabilità dei capitalismi (Crouch). Nel primo caso si assisterebbe
ad un processo inarrestabile e travolgente di convergenza delle economie capitalistiche mondiali verso il
modello neoliberistico anglosassone, impermeabile all’azione dei movimenti di rappresentanza dei
lavoratori. La seconda ipotesi rimanda alla mente il primo Keynes, ammettendo la possibilità che il
capitalismo sia riformabile e che le azioni umane possano coniugare capitalismo e centralità del lavoro
umano, con la realizzazione di un nuovo umanesimo liberale.
582
Perulli, 2016a, XLVI-XLVII.
583
Santoni, 2015; Speziale, 2017b, 39.
584
Sul passaggio dallo status al contratto di lavoro v. amplius Garofalo M.G., 1999; ma sull’instabilità del
contratto di lavoro, quale meccanismo di distribuzione giuridica del rischio, v. ora Barbera, 2010, 8.
585
Mengoni, 1985, 127; non si può non ricordare che il principio fondativo dell’OIL è proprio «il lavoro
non è una merce».
586
Così Mariucci (2004, 31) secondo cui «il vero fenomeno caratteristico dell’epoca presente non è
costituito dal declino della natura subordinata dei rapporti di lavoro, di cui molto si parla, quanto
piuttosto dalla frammentazione, fino alla atomizzazione individualistica, dei mercati del lavoro». Più di
recente v. Bellavista, 2012.
587
De Luca Tamajo, Ventura L., 1979; Giugni, 1983; Quadri, 2004, 13; Aa.Vv., 2013.
588
Romei, 2012, 768; v. anche Prosperetti U., 1962, 50 e Branca, 1965, 67.
98
mutevolezza del diritto del lavoro in sé589, fermo restando l’apparato valoriale che
pervade la Carta costituzionale ed il nucleo più profondo e autentico dei diritti umani e
cioè quello della persona che lavora590.
Anche il mutamento del modo di produzione (e non solo del lavoro) è stato al centro
della riflessione giuslavoristica, come dimostrano gli inviti di Mazzotta591 e M.G.
Garofalo di rimettersi a studiare le nuove forme che ha assunto l’impresa, nonché i
rapporti tra imprese «retti, oggi più che mai, non da relazioni conflittuali di
concorrenza, ma da relazioni di autorità – subordinazione dettate dal reciproco
rapporto di forza»592, scenario su cui contestualizzare il diritto del lavoro della
complessità593.
L’emergere e il diffondersi dei gruppi di imprese e del modello di impresa-rete594
rappresentano la risposta alle crisi succedutesi nel corso degli anni, in tal modo
perseguendo la realizzazione di un prodotto e la sua collocazione sul mercato attraverso
la frammentazione dell’impresa tradizionale basata sul modello verticale, in una
pluralità di imprese di minori dimensioni tra loro collegate in rete, quindi strutturate in
orizzontale, con una serie intuibile di vantaggi595. Nel rapporto tra imprese si verifica,
quindi, un fenomeno simile a quello che nel fordismo si è verificato per gli operai di
mestiere596, separandosi l’intelligenza del processo produttivo dalla produzione
materiale ed i luoghi dove questa si svolge da quelli dove si assumono le decisioni
strategiche sul cosa e come produrre597.
Al mutamento organizzativo ha fatto da eco anche quello della funzione dell’impresa,
che assume i connotati di bene comune598, rilevando non solo gli interessi degli azionisti
(shareholders) e dei dirigenti (directors, managers), ma anche dei portatori di interesse
(stakeholders), assistendosi, sempre più frequentemente, al rafforzamento del legame tra
589
In senso analogo Deakin, 2015, e De Luca Tamaio (2016a, 6 ss.), secondo il quale «il diritto del
lavoro è posto di fronte all’ardua scelta tra resistenza e adattamento al cambiamento. La seconda
opzione non determina una perdita di identità del diritto del lavoro, comportando soltanto uno
spostamento della frontiera mobile della mediazione in favore di istanze diverse (efficienza e
competitività delle imprese nell’economia globalizzata, rilancio dell’occupazione, tutela degli outsiders).
Si tratta sostanzialmente di mantenere la propria cifra caratterizzante di tutela dei valori personalistici di
libertà, sicurezza e dignità dei lavoratori, ma all’interno di una ponderazione storicamente variabile, con
le esigenze di competitività e di sopravvivenza di un sistema capitalistico riconosciuto
dall’ordinamento».
590
Mariucci, 2008, 673.
591
Mazzotta, 2014.
592
Garofalo M.G., 1999, 21; Idem, 2006, 137.
593
Mentre si chiudeva la stesura della presente relazione, si è avuta notizia del numero monografico di
LD, 4/2016, con contributi di Romagnoli, Mariucci, Del Punta e Caruso, Lyon-Caen, Zoppoli L., Gaeta,
Bavaro, Speziale, Andreoni, Mc Britton, Vimercati, Ballestrero, De Luca Tamajo, Rusciano.
594
Ante litteram v. Branca, 1965.
595
Infatti, «l’impresa rete può presentarsi sull’esterno, secondo le convenienze, come pluralità di imprese
atomizzate (p. es. nelle relazioni sindacali) o come un’unica entità (p.es. nell’acquisizione di
commesse)»; di fronte ad un fenomeno socio-economico-produttivo siffatto, «L’unica risposta adeguata
sarebbe quella di un’azione sindacale che investa l’intera rete, ma questa richiederebbe la costruzione di
solidarietà amplissime, quasi sconosciute alle passate esperienze che dovrebbero andare oltre i confini
dello stato nazione e, finora, il sindacato non è stato in grado di realizzarla», così Garofalo M.G., 1999,
21-22; Idem, 2006, 138.
596
Barbera, 2010, 12-13, secondo la quale la logica dei processi di esternalizzazione, fondata sul «buy»,
sembra poter essere compromessa da una forma di supremazia giuridico economica, mediante cui
l’impresa dominante tenta di estendere ad una relazione esterna con un altro imprenditore la stessa
gerarchia che qualifica i suoi rapporti di produzione interni con i lavoratori.
597
Garofalo M.G., 1999, 21; Idem, 2006, 137.
598
Barbera, 2016, 679-685.
99
impresa e territorio di riferimento, e dunque conferendosi un ruolo non più secondario
alla responsabilità sociale d’impresa599.
Al quid novi, a latere datoris ac praestatoris, corrispondono i processi legislativi di
cambiamento che si pongono in una ambigua relazione rispetto a quelli preesistenti600,
così alimentandosi un vivace dibattito politico, sindacale e, ovviamente, scientifico. Il
più recente motore del cambiamento (e del dibattito) è rappresentato dal Jobs Act, del
quale non vi sono univoche letture.
Una critica severa cui si aggiunge una controproposta di riforma fondata sul
tradizionalismo costituzionale e statutario viene dalla CGIL601; da altre parti si propone,
quale alternativa al modello del Jobs Act, una regolamentazione inderogabile
estremamente ridotta con spazio al mercato e al contratto individuale, anche autonomo,
e nuovi diritti da riconoscere ai lavoratori602. Sul fronte opposto, v’è chi saluta con
entusiasmo il ciclo normativo avviato nel 2015603 e chi adotta la posizione di un
«riformismo ragionevole» o di «costruttivismo critico», secondo cui le riforme adottate
costituirebbero comunque una risposta del diritto ai mutamenti del sistema di
produzione e dell’organizzazione del lavoro604.
L’ultima stagione normativa, in ogni caso, ha tutt’altro che sopito il dibattito scientifico
sull’idea stessa di lavoro e sulle nuove forme di soggezione del lavoratore al potere
datoriale, ponendo nuovamente in agenda l’ampiezza della nozione di subordinazione605
e l’actio finium regundorum con le fattispecie considerate contermini, quali la
parasubordinazione e, più in generale, l’area (per ora di difficile categorizzazione) del
lavoro economicamente dipendente, che con la frammentazione dell’impresa e
l’irrompere della collaborative economy, acquistano visibilità e importanza giuridicosociale se è vero che «il diritto del lavoro serve, in ultima istanza, ad affermare i diritti
della persona che lavora anche contro i vincoli della economia data»606. Una tensione
endogena è poi creata dall’emergere, anche a livello normativo, del concetto di
codatorialità anche ai fini della sussumibilità sub art. 2094 c.c.607.
Anche nel terzo millennio va ribadito il «dovere pubblico di costruire un contesto
all’interno del quale le decisioni della persona possano essere effettivamente libere»,
599
Barbera, 2010, 636, ma anche Caruso, 2016, 258 ss.
Sulla passiva tendenza del legislatore ad assecondare una strumentalizzazione (c.d. ancillarità) del
diritto del lavoro all’economia v. Barbera, 2010, 6 - 7.
601
V. Carta universale dei diritti presentata dalla CGIL nel 2016.
602
Così Tiraboschi, 2015; Gottardi, 2015.
603
Ichino, 2016.
604
Questa è la tesi di Caruso (2016, 255), secondo il quale il Jobs Act costituirebbe «un abbrivio, non
privo di difetti, per una radicale innovazione del paradigma del diritto del lavoro (l’innovazione si
innesta nella tradizione non negandola ma mutandola, anche radicalmente, nella realizzata alchimia:
una modernizzazione controllata)», accedendosi «a una interpretazione orientata e dinamica dei principi
e dei valori costituzionali».
605
Sui rischi derivanti da un ampliamento incontrollato dell’area della subordinazione, attraendo altri
contraenti deboli non subordinati, caratterizzati dalla c.d. dipendenza economica v. Barbera (2010, 11) e
la riflessione svolta dalla stessa in materia di contratti relazionali. Sulla dipendenza economica come
dipendenza reddituale e non come dipendenza organizzativa v. Perulli, 2016b, 24.
606
Così Mariucci (2008, 680), secondo il quale «nel diritto del lavoro è infatti iscritta una istanza di
liberazione indeclinabile, che durerà quanto la storia dell’uomo», istanza che non può essere saldata al
solo lavoratore subordinato, ma va riferita a tutti i lavoratori nell’accezione più ampia possibile. Anche
Mazzotta, 2006, 167, riaffermando la perdurante vigenza del divieto di interposizione, ribadisce
l’ineliminabilità del rispetto di regole minime di garanzie per i diritti dei lavoratori, onde evitare la totale
abdicazione alle ragioni del diritto rispetto a quelle della economia e del mercato.
607
Sul punto v. Barbera (2010, 31), secondo cui la dinamicità del capitalismo cozzerebbe con
l’irrigidimento della nozione di subordinazione, atteso che se la forma dell’organizzazione è plurale, nulla
osterebbe alla pluralità di forme di subordinazione.
600
100
ma è necessaria una responsabilizzazione anche dei privati, imprenditori in primis, di
non svolgere l’attività lato sensu produttiva in contrasto con la dignità umana608.
Non va, infine, trascurata una riflessione su quello che dovrebbe essere l’atteggiamento
del cittadino al cospetto delle istituzioni pubbliche o del datore di lavoro, che non può
più essere di mera attesa o pretesa, ma di responsabilità individuale e compartecipazione
alle sorti comuni, valorizzandosi quel dovere di svolgere un’attività o una funzione che
concorra al progresso materiale o spirituale della società contenuto all’art. 4, co. 2,
Cost., troppo spesso dimenticato e del quale poco si parla, anteponendo
sistematicamente le posizioni giuridiche attive a quelle passive, senza contemperare il
legittimo anelare del singolo verso il lavoro desiderato (perché consente la realizzazione
della propria personalità), con la necessità che comunque il cittadino svolga un’attività o
una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società, anche se
diversa da quella che avrebbe voluto svolgere609.
Lavoro e dignità sono parole — e quindi concetti — spesso declinati insieme senza
tener conto della natura sociale dell’uomo e del fatto che non è sempre possibile
garantire il primo assicurando la seconda, poiché il cittadino che ritiene non dignitoso
un lavoro non coerente con il proprio percorso di studi o professionale o che vive inerte
l’obsolescenza delle proprie competenze, rischia di stagnare in una condizione di
ino/disoccupazione nociva per sé e per la propria comunità ove, pur legittimamente,
rifiuti un’offerta di lavoro non congrua rispetto alla propria professionalità610.
Indubbiamente vanno create le condizioni di contesto per favorire l’emersione della
dignità “del” e “nel” lavoro; da questa partita non può essere escluso chi (la c.d. entità
datoriale) provoca artificiosi aumenti dei costi della connessione sociale, consapevole
della possibilità di scaricare sulla comunità le diseconomie di sistema611, ma neanche
chi (il cittadino) graverà sul sostegno delle istituzioni, e quindi sulla fiscalità generale,
senza preoccuparsi della sostenibilità del Welfare State.
Nel primo caso si potrebbe ipotizzare l’introduzione di un sistema analogo al
meccanismo del c.d. bonus/malus, che stenta ad essere metabolizzato dal punto di
dogmatico612 e normativo613, e che premi gli imprenditori socialmente responsabili e,
viceversa, penalizzi quelli che riescono a spostare altrove, se non addirittura a dissolvere
in mille rivoli, il precipitato economico del rischio di impresa614. Nel secondo caso, si
potrebbe generalizzare il sistema della condizionalità/co-responsabilizzazione nelle (e
delle) scelte di vita e di lavoro che vedono protagonista il cittadino, specie in un
momento storico come questo, caratterizzato da elevati livelli di competitività e
concorrenza tra Paesi e sistemi economici, in cui il diritto del lavoro, con la sua
intramontabile funzione regolativa e anti-concorrenziale615, può giocare un ruolo
608
Così Rodotà, 2013, 11; Veneziani, 2011; Miscione, 2005.
V. Filì (2016, 114-115), secondo la quale l’obbligo a carico del disoccupato può essere “realizzabile”
se diventa efficace la politica attiva del lavoro; viceversa, Topo (2016, 196) opta per un bilanciamento tra
libertà dell’individuo e limitazione delle scelte professionali insite nei meccanismi di condizionalità.
610
Per la nozione di congrua offerta di lavoro v. l’art. 25 d.lgs. n. 150/2015.
611
Garofalo M.G., 1999, 27-28; Ratti 2009, 9.
612
CGIL, 2002, 570; Balletti, 2015. Sul punto, poi, giova soprattutto richiamare il d.d.l. 1481 (primo
firmatario Pietro Ichino), che reca la proposta del contratto di transizione prevedendo la costituzione di un
ente bilaterale cui affidare da parte delle aziende la gestione congiunta dell’assicurazione contro la
disoccupazione e dei nuovi servizi di riqualificazione e assistenza nella ricerca di una nuova occupazione.
Il finanziamento dell’ente sarebbe posto a carico delle imprese con un meccanismo di bonus/malus che
premia le imprese che ricorrono meno ai licenziamenti economici, penalizzando le altre. Maggiori dettagli
sono offerti dallo stesso Ichino sul suo sito pietroichino.it.
613
D.p.r. n. 1124/1965 e da ultimo gli artt. 5 e 13, c. 1, d.lgs. n. 148/2015, in materia di contribuzione
addizionale per la CIG.
614
Zingales L., 2012; Reich R., 2015.
615
In argomento v. De Luca Tamajo (2016b, 13 ss.), che si sofferma sulla deriva concorrenziale
determinata dalle pratiche di dumping sociale, economico e normativo e sui possibili argini ad esse,
609
101
strategico616, comunque mettendo il cittadino in condizioni di adempiere a tale dovere
sociale con la garanzia di un reddito minimo di cittadinanza, una volta esauriti gli
ammortizzatori sociali.
Si tratta di un ruolo strumentale più o meno consapevole di politica economica617 per
l’assunzione del quale, però, appare indispensabile un upgrade della funzione regolativa
classica, essenzialmente votata ad un’uniformità di trattamento in contrasto con la
declinazione giurisprudenziale del principio di uguaglianza, inteso come principio di
ragionevolezza, con l’adozione di un metodo non dissimile da quello rinvenibile nella
normativa comunitaria/UE, che potremmo definire di ragionevole differenziazione.
mediante la teorica dei diritti sociali fondamentali «originari e non superabili». Sul punto, ancor prima, v.
Barbera, 2010, 10.
616
Romei, 2012, 770.
617
Garofalo M.G., 1999, 27-28.
102
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