La cronobiologia nella ricerca psichiatrica

Rassegne
La cronobiologia nella ricerca psichiatrica
Chronobiology in the Psychiatric Research
DANIELE RUSSO, GIUSEPPE BERSANI
Dipartimento Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica, Università La Sapienza, Roma
RIASSUNTO. Negli ultimi venti anni è cresciuto costantemente il numero degli studi psichiatrici a impronta cronobiologica. È noto, infatti, che i fenomeni psichici, come altre funzioni biologiche umane, possono presentare una specifica organizzazione temporale. Nel seguente articolo saranno riportate le principali acquisizioni d’interesse psichiatrico che sono state
realizzate in ambito cronobiologico, con particolare attenzione per il concetto di “stagionalità”, la descrizione dei disturbi
da desincronizzazione e il riconoscimento dell’influenza che gli elementi circadiani esercitano nei principali disturbi mentali.
PAROLE CHIAVE: cronobiologia, stagionalità, disturbi da desincronizzazione, ritmi circadiani.
SUMMARY. The number of psychiatric study in chronobiology has grown in the last twenty years. In fact it is widely accepted that psychic functions have a specific temporal organization, like as other human biological functions. Most important theoretical acquisitions in this field will be mentioned in this article, with particular focus on “seasonality”, the description of desynchronization disorders and the role of circadian factors in the main mental disturbances.
KEY WORDS: chronobiology, seasonality, desynchronization disorders, circadian rhythms.
LA CRONOBIOLOGIA
Una delle principali caratteristiche della materia vivente è la sua intrinseca capacità evolutiva e dinamica
nel tempo. La dimensione temporale dei fenomeni biologici è studiata dalla cronobiologia, quella disciplina che
indaga, quantifica e studia secondo i principi del metodo
sperimentale i processi biologici a carattere ritmico.
Le prime osservazioni che hanno evidenziato come
i fenomeni naturali presentino un andamento ritmico
sono state realizzate nel IV secolo a.C. da Androstene,
studioso alla corte di Alessandro Magno. Studi a carattere scientifico, inizialmente condotti nell’ambito della
botanica, risalgono al XVII secolo d.C. Le prime indagini sugli animali, compiute da Luigi Rolando e Pierre
Flourens, risalgono al XIX secolo. La cronobiologia
moderna, invece, comincia a svilupparsi nella metà del
XX secolo, con gli studi di Franz Halberg.
Halberg definì la cronobiologia: “La scienza che oggettivamente investiga e quantifica i meccanismi della
struttura temporale biologica, incluse le manifestazioni ritmiche della vita”. Il dato di realtà su cui si basa la
cronobiologia è che a tutti i livelli d’organizzazione
della materia vivente, dagli organismi unicellulari ai
mammiferi, sono presenti processi regolati da specifici
ritmi biologici. I bioritmi, nella prospettiva della cronobiologia, possono essere studiati interpretandone la
“struttura temporale”, ovvero valutando “la somma
delle variazioni biologiche, non casuali e quindi prevedibili, dipendenti dal tempo” (1).
In ambito biologico le osservazioni di Halberg hanno rappresentato una vera e propria rivoluzione culturale.
ASPETTI NEUROBIOLOGICI DEI BIORITMI UMANI
La capacità degli esseri viventi di modificare i propri bioritmi in funzione delle condizioni esterne è una
proprietà adattativa fondamentale, indispensabile per
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sincronizzare l’organismo con l’ambiente circostante.
Da un punto di vista evolutivo sembrerebbe una caratteristica acquisita in tempi molto antichi (2,3).
I ritmi biologici umani sono regolati da specifiche
strutture cerebrali. Queste determinano un’attività
spontanea detta free-running, che normalmente risente
dell’influenza di diversi elementi esogeni chiamati in
cronobiologia Zeitgeber (“segnapassi”), ovvero agenti
o eventi ambientali (come la luce solare) che forniscono un’indicazione per la regolazione o il ripristino di un
ritmo biologico (1,4,5). Le principali strutture nervose
deputate al controllo dei ritmi biologici sono: il nucleo
soprachiasmatico dell’ipotalamo e l’epifisi.
Il nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo
Il nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo (SCN)
costituisce il principale pace-maker endogeno. Anatomicamente appartiene ai nuclei dell’ipotalamo.
Ciò che rende il nucleo soprachiasmatico il principale segnapassi fisiologico è la sua posizione centrale
tra le strutture nervose deputate a registrare i segnali
provenienti dall’esterno (principalmente retina e via
ottica) e gli effettori che modulano le funzioni biologiche ritmiche.
Il principale input che raggiunge il SCN è lo stimolo luminoso, che viaggia attraverso la via retino-ipotalamica (nella retina è presente una popolazione cellulare, distinta da quella deputata alla funzione visiva, la
cui finalità è trasformare la radiazione luminosa in segnali elettrici destinati al SCN). Il SCN, a sua volta, genera un output in grado di esercitare una funzione di
controllo sia sulla secrezione ormonale ipofisaria sia
sul rilascio della melatonina da parte dell’epifisi, attraverso vie che coinvolgono l’ipotalamo dorso-mediale,
l’area ipotalamico-posteriore e il ganglio cervicale superiore (6,7).
L’epifisi
L’epifisi è una piccola ghiandola situata nel sistema
nervoso centrale, che sporge all’estremità posteriore
della volta del terzo ventricolo, sotto lo splenio del corpo calloso.
Istologicamente è costituita da due popolazioni cellulari: i pinealociti, cellule d’origine neuroectodermica
con funzione secretiva, e le cellule gangliari, con funzione di sostegno.
È una ghiandola filogeneticamente antica. Per molto tempo si è pensato che nei mammiferi fosse un organo vestigiale. Alcuni studi, tuttavia, hanno dimostra-
to che l’epifisi è una struttura funzionale anche nell’uomo (8,9).
La principale sostanza prodotta da tale ghiandola è
la melatonina, ormone isolato per la prima volta nel
1958 da Lerner (10).
La melatonina è un peptide sintetizzato a partire dal
triptofano, attraverso la biotrasformazione della serotonina a opera dell’enzima 5-idrossindolo-O-metiltransferasi. La produzione e il rilascio della melatonina sono influenzati dal fotoperiodo: sono massimi nelle ore notturne e minimi nelle ore diurne. Il ruolo della melatonina è centrale nella sincronizzazione del ciclo sonno-veglia con l’ambiente circostante. Inoltre, regola la secrezione di diversi ormoni: la melatonina, infatti, ha un effetto inibitorio sulla secrezione del CRH
ipotalamico, contribuendo a mantenere i livelli di
ACTH e cortisolo ridotti nelle ore notturne, e al livello degli ormoni sessuali, esercitando un’azione inibitoria sullo sviluppo e sull’attività delle gonadi (9,11).
La melatonina esercita la propria azione attraverso
il legame con tre diversi recettori: Mel1A, Mel1B e
Mel1C. Sono tutti recettori associati a una proteina G,
in grado di regolare la concentrazione del calcio intracellulare e con effetti sulla trascrizione delle proteine
C-FOS. (12).
Attualmente si stanno valutando le potenzialità terapeutiche della melatonina. Inizialmente è stato considerato l’impiego della melatonina come trattamento
per le forme d’insonnia legate ai disturbi del sonno da
desincronizzazione. La somministrazione di melatonina nelle prime ore della sera, infatti, sembrerebbe indurre un avanzamento di fase del ritmo sonno-veglia
(senza interferire sulla periodicità e ampiezza del bioritmo), mentre la somministrazione nelle prime ore del
mattino sembrerebbe determinare un ritardo di fase
del ciclo (13).
L’utilizzo della melatonina come ipnoinducente con
indicazioni più generali, tuttavia, è limitato da un’emivita piuttosto breve della molecola e un metabolismo
di primo passaggio molto elevato. Allo scopo di ottenere un farmaco con caratteristiche farmacocinetiche
più favorevoli, sono al momento in fase di sperimentazione farmaci “agonisti selettivi dei recettori della melatonina” (Agomelatine, Ramelteon, LY156735) (14).
CRONOBIOLOGIA E PSICHIATRIA
I primi lavori che hanno studiato il ruolo dei fattori
cronobiologici nella patologia mentale risalgono agli
anni Cinquanta. Tuttavia, è solo negli ultimi venti anni
che si è osservato lo sviluppo di una ricerca psichiatrica a impronta propriamente cronobiologica.
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Tra le numerose acquisizioni che si devono a tale filone di ricerca le più rilevanti, per i riflessi che hanno
avuto in ambito pratico e teorico, sono: a) l’introduzione del concetto di “stagionalità”; b) la descrizione dei
“disturbi da desincronizzazione”; c) la dimostrazione
dell’esistenza di una relazione tra elementi circadiani e
disturbi psichiatrici.
Il concetto di “Stagionalità”
La “Stagionalità”, in psichiatria, è quel fenomeno
per cui le variazioni ambientali stagionali determinano
modificazioni nel comportamento umano. Tale fenomeno sembrerebbe influenzare l’andamento dei sintomi fisici e psichici di diversi disturbi mentali.
Il riconoscimento di una relazione tra malattie mentali e modificazioni stagionali dei parametri ambientali risale a tempi antichissimi. Le prime osservazioni sono attribuite ad Areteo di Cappadocia, vissuto nel II
secolo d.C. Facendo riferimento alla psichiatria moderna, dati al riguardo possono essere ritrovati nel manuale di psichiatria redatto da Bucknill e Tuke nella
metà del XIX secolo (15). Lo stesso Kraepelin ha commentato l’influenza delle stagioni sulla malattia mentale (16). Tuttavia, è con gli studi di Rosenthal (17) che,
nella metà degli anni Ottanta, il concetto di stagionalità s’impone all’interesse degli psichiatri. Si deve a tale autore, infatti, la descrizione del Disturbo Affettivo
Stagionale (SAD).
La descrizione del SAD permette di comprendere
nel modo più chiaro cosa sia il fenomeno della stagionalità.
Il SAD
Il SAD è un disturbo cronico caratterizzato da episodi depressivi a carattere ciclico circannuale che esordiscono tipicamente durante la stagione autunnale,
raggiungono un picco durante la stagione invernale e
si risolvono all’inizio della stagione primaverile (“Forma invernale”). In una minoranza dei pazienti, invece,
gli episodi esordiscono all’inizio della stagione primaverile, raggiungo l’acme nella stagione estiva e si risolvono all’inizio di quella autunnale (“Forma estiva”).
Clinicamente la sintomatologia depressiva si manifesta
nella sua forma “atipica”: l’umore è depresso, ma reattivo; è presente iperfagia; i pazienti lamentano ipersonnia. Il SAD colpisce prevalentemente individui di
sesso femminile (rapporto M/F da 1:2 a 1:4), soprattutto nel corso dell’età riproduttiva (17). Benché il disturbo sia stato ampiamente riconosciuto, nel DSM-IV
non figura in una categoria nosografia autonoma, ma è
menzionato come modalità di decorso dei disturbi dell’umore (18).
È suggestivo riportare che le manifestazioni depressive “atipiche” del SAD sono condivise anche da
altri disturbi dell’umore a carattere ciclico, quale per
esempio il Disturbo Disforico Premestruale (quadro
caratterizzato dall’insorgenza di sintomi affettivi e
comportamentali nei giorni precedenti il ciclo mestruale) (19).
Sono stati elaborati diversi modelli patogenetici nel
tentativo di spiegare la fisiopatologia del SAD. Rosenthal ha ipotizzato che il disturbo si sviluppi in soggetti geneticamente predisposti, che presentano un’aumentata sensibilità all’accorciamento invernale del fotoperiodo (“Ipotesi del fotoperiodo”). Lewy sostiene,
invece, che il SAD è indotto da un ritardo di fase del
pattern di secrezione della melatonina, espressione di
un’alterazione dei regolatori endogeni circadiani
(“Ipotesi dello spostamento di fase”). La serotonina,
comunque, sembrerebbe avere un ruolo centrale nella
patogenesi del disturbo e, più in generale, nelle sindromi psichiatriche ad andamento stagionale: i livelli del
neurotrasmettitore presentano, infatti, fluttuazioni a
carattere circannuale (20) con riduzioni nel corso dei
mesi invernali ed elevazioni nei mesi estivi (21).
Il fenomeno non sembrerebbe riguardare solamente i soggetti con sindromi depressive unipolari, ma anche pazienti affetti da un Disturbo Bipolare: in alcuni
individui, infatti, l’andamento della patologia sembrerebbe influenzato da elementi cronobiologici, presumibilmente legati a variazioni ambientali stagionali. I
dati epidemiologici più significativi, a tal proposito, sono quelli pubblicati da Shapira, et al. (22): gli autori, infatti, riferiscono di aver osservato, attraverso un’indagine retrospettiva condotta su un campione di 4117 pazienti, una distribuzione bimodale nella frequenza di
presentazione degli episodi maniacali nel corso dell’anno, con un primo picco all’inizio della primavera e
un secondo a metà estate.
I Disturbi da Desincronizzazione
I Disturbi da Desincronizzazione sono condizioni
caratterizzate da un disaccoppiamento tra i bioritmi
endogeni e il ritmo dei sincronizzatori ambientali. Tali
disturbi evidenziano come l’omeostasi psichica dipenda da una corretta sincronizzazione dell’organismo
con l’ambiente circostante.
I principali Disturbi da Desincronizzazione sono stati inseriti nel DSM-IV tra i Disturbi del Ritmo Circadiano del Sonno, e si dividono in primari e secondari.
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Tra i primari i più rilevanti sono la Sindrome da Ritardo di Fase del Sonno, la Sindrome da Avanzamento
di Fase del Sonno e la Sindrome Ipernictemerale. I secondari, invece, sono la Sindrome del Jet-Lag e la Sindrome dei Turnisti.
La Sindrome da Ritardo di Fase del Sonno
La Sindrome da Ritardo di Fase del Sonno è stata
descritta per la prima volta da Witzman, et al. nel 1979
(23) ed è il più comune tra i disturbi del sonno legati a
un’alterazione degli oscillatori endogeni circadiani. È
caratterizzata dall’incapacità di addormentarsi o svegliarsi spontaneamente all’ora desiderata e da un ritardo progressivo nell’orario di addormentamento. I
pazienti tipicamente presentano un profilo circadiano
serotino, con un orario d’addormentamento e risveglio
spontanei posticipati rispetto ai sani (orario medio
d’addormentamento compreso tra le 3:00 e le 6:00;
orario medio di risveglio compreso tra le 10:00 e le
15:00). I pazienti lamentano, inoltre, gravi e persistenti
difficoltà nell’addormentamento, con una latenza del
sonno superiore ai 30 minuti, e disturbi durante le ore
diurne come: stanchezza, sonnolenza e difficoltà di
concentrazione.
Tipicamente la qualità e la struttura del sonno, se i
pazienti non sono forzati a rispettare rigidi orari d’addormentamento e risveglio, sono normali.
Alcuni dati suggeriscono che potrebbero essere implicati fattori genetici all’origine di questo disturbo: in
uno studio compiuto nel 2000 da Ebisawa, et al. (24),
sono state osservate nel 15% degli individui affetti da
Sindrome da Ritardo di Fase del Sonno mutazioni del
gene Per3. Il gene Per3 appartiene, infatti, alla famiglia
dei clock genes, ovvero a quei geni in grado di esercitare un controllo sulle funzioni biologiche a carattere
ritmico.
È un disturbo che si riscontra frequentemente negli
anziani e sembrerebbe dovuto a una disfunzione legata all’invecchiamento dei pace-maker circadiani endogeni (25).
Nei soggetti giovani, la cui incidenza è minore, l’origine del disturbo sembrerebbe legata a fattori genetici.
A tal proposito, Jones, et al. (26) sostengono, in uno
studio pubblicato nel 1999, che l’avanzamento di fase
del sonno sarebbe un tratto ereditabile, che tenderebbe a segregare in alcune famiglie costituite da soggetti
predisposti. Inoltre, in base ai dati di uno studio di
linkage realizzato su famiglie affette da Sindrome da
Avanzamento di Fase del Sonno pubblicato nel 2001
da Toh, et al. (27), il disturbo sembrerebbe correlato ad
alleli mutati del clock gene Per2.
La Sindrome Ipernictemerale
La Sindrome Ipernictemerale è una condizione rara
nella popolazione generale, ma che spesso si riscontra
in pazienti ipovedenti. Si diagnostica, a volte, in soggetti affetti da Disturbo di Personalità Schizoide o da
un disturbo appartenente allo Spettro Schizofrenico. È
una patologia che, inoltre, colpisce alcune categorie
particolari di lavoratori, costretti a lavorare in condizioni in cui il ciclo luce-oscurità è riprodotto in modo
artificiale (astronauti, personale dei sottomarini). I pazienti affetti da tale disturbo lamentano cicli sonno-veglia molto irregolari, insonnia periodica e sonnolenza
diurna. Alla base di tale sindrome vi è l’impossibilità di
rispondere correttamente all’effetto sincronizzante
della luce. Il ritmo sonno-veglia assume allora un andamento tipo free-running di 25-26 ore, cui consegue
uno spostamento dell’orario d’addormentamento di 12 ore ogni notte (28).
La Sindrome del Jet-Lag
La Sindrome da Avanzamento di Fase del Sonno
La Sindrome da Avanzamento di Fase del Sonno i
soggetti affetti da tale disturbo lamentano una desincronizzazione del ritmo sonno-veglia, che si manifesta
con addormentamento e risveglio precoci. I pazienti tipicamente riferiscono sonnolenza difficilmente contrastabile, che li costringe ad andare a dormire alle prime
ore della sera (orario medio d’addormentamento compreso tra le 18:00 e le 20:00). Il risveglio avviene normalmente alle prime ore del mattino (orario medio di
risveglio compreso tra le 4:00 e le 6:00). La struttura
del sonno, invece, non risulta alterata.
La Sindrome del Jet-Lag colpisce tipicamente coloro che, viaggiando in aereo, si spostano rapidamente in
continenti con fuso orario diverso. È determinata da
una desincronizzazione dei ritmi circadiani, che normalmente presentano un certo grado d’inerzia nell’adattarsi alle nuove condizioni ambientali. La gravità
del disturbo è influenzata dall’età del soggetto, dal numero di fusi che vengono attraversati, dalla direzione
del viaggio (è noto che i viaggi verso est tendono più
frequentemente a indurre tale sindrome, poiché l’organismo umano sembrerebbe più sensibile a un allungamento del fotoperiodo piuttosto che a un suo accorciamento). Il disturbo si presenta con sintomi somatici
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e psichici quali: nausea, gastralgie, irregolarità intestinali, inappetenza, malessere generale, spossatezza, insonnia, riduzione dell’efficienza mentale, deflessione
del tono dell’umore e irritabilità (29).
La Sindrome dei Turnisti
La Sindrome dei Turnisti colpisce coloro che frequentemente, per motivi di lavoro, sono costretti a variare ripetutamente nel corso della settimana le ore di
sonno e l’orario d’addormentamento. La sintomatologia, che è sovrapponibile a quella della Sindrome del
Jet-Lag, si presenta con sintomi psichici (deflessione
dell’umore, irritabilità, confusione mentale) e somatici
(problemi gastrointestinali e malessere generale) (18).
Disturbi psichiatrici e ritmi circadiani
Una parte importante della ricerca psichiatrica, in
ambito cronobiologico si occupa d’indagare le relazioni esistenti tra i disturbi mentali e i ritmi biologici circadiani.
Le patologie in cui è stato studiato maggiormente il
ruolo dei fattori cronobiologici circadiani sono i Disturbi dell’Umore (Disturbo Depressivo e Disturbo
Bipolare) e la Schizofrenia.
Disturbo Depressivo
La presenza di modificazioni delle funzioni biologiche circadiane, nel corso di Disturbo Depressivo, è stata ampiamente riconosciuta. Non a caso, tra i criteri
diagnostici del DSM-IV della Distimia e della Depressione Maggiore sono incluse alterazioni di funzioni che
presentano un andamento circadiano, come il ritmo
sonno-veglia, l’appetito, la concentrazione e l’energia
fisica.
I primi studi che hanno evidenziato tale fenomeno
sono stati realizzati negli anni Settanta da Carpenter e
Bunney (30). Gli autori hanno osservato, in un gruppo
di pazienti depressi, un aumento diurno nella secrezione del cortisolo (sintetizzato e secreto con una ritmicità tipicamente circadiana) e un avanzamento di fase
nel ritmo di secrezione notturno dell’ormone. Gli autori hanno interpretato tali fenomeni come diretta
espressione di un disturbo dei ritmi circadiani. Risultati analoghi sono stati pubblicati nel 2005, in uno studio
condotto da Burke, et al. (31).
È stato evidenziato, inoltre, nei soggetti depressi, un
avanzamento di fase nel ritmo circadiano della tempe-
ratura corporea (la temperatura basale, fisiologicamente, presenta oscillazioni periodiche nel corso della
giornata di 0,5°-1° C) e un’elevazione del picco termico notturno (32,33).
Anomalie rilevanti riguarderebbero anche l’architettura e l’andamento del sonno: nei soggetti depressi,
infatti, sarebbe possibile osservare un accorciamento
della latenza della fase REM e una riduzione complessiva delle ore di riposo notturno, determinata da
un’anticipazione nell’orario medio di risveglio (34).
I dati più consistenti, tuttavia, riguardano il ritmo
giornaliero di produzione della melatonina (che presenta un pattern di secrezione tipicamente circadiano,
strettamente correlato al fotoperiodo). I primi dati al
riguardo sono stati pubblicati nel 1979 (35-37). Gli autori riferiscono di aver osservato nei soggetti depressi
una riduzione della concentrazione plasmatica della
melatonina nella fase attiva della patologia e un’elevazione nel corso del trattamento antidepressivo. Questo
ultimo dato è stato confermato, almeno in parte, da
uno studio condotto nel 1997 da Sekula, et al. (38).
Le indagini più rilevanti, tuttavia, sono state pubblicate negli anni Ottanta: diversi autori hanno osservato
nei pazienti depressi un avanzamento di fase del picco
notturno di secrezione della melatonina e un picco
anomalo di secrezione diurna (39,40).
Alcuni autori, poiché la serotonina rappresenta il
principale precursore dell’ormone epifisario, interpretano le modificazioni nel ritmo di secrezione della melatonina come una diretta conseguenza delle alterazioni del sistema serotoninergico, tipiche dei Disturbi Depressivi (41,42). Alla luce di tali osservazioni è stato
valutato il possibile impiego della melatonina nella terapia dei Disturbi Depressivi. In due studi è sostenuta
l’efficacia dell’ormone nel ridurre, almeno parzialmente, i sintomi depressivi (43,44). Wirz-Justice (45), invece, avrebbe osservato un effetto depressogeno della
sostanza, se somministrata a dosaggi elevati. I dati
pubblicati, tuttavia, non sono ancora definitivi e necessitano di ulteriori approfondimenti.
Rimanendo in ambito terapeutico, sono state elaborate strategie d’intervento per i Disturbi Depressivi
fondate sulla manipolazione dei ritmi biologici. Già alla fine degli anni Cinquanta, Schulte (46) osservò che
la deprivazione di sonno era in grado di indurre un rapido miglioramento della sintomatologia depressiva. È
ormai noto, infatti, che una singola notte di deprivazione totale di sonno è in grado di ridurre i sintomi affettivi in una percentuale compresa tra il 40 e l’80%
dei soggetti depressi. L’effetto antidepressivo della deprivazione di sonno sembrerebbe determinato da
un’elevazione del tono serotoninergico e dopaminergico al livello del sistema nervoso centrale (47,48). Il li-
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mite principale di tale strategia terapeutica, tuttavia, è
quello di determinare un miglioramento clinico solamente transitorio, della durata di pochi giorni o addirittura di poche ore. Sembrerebbe possibile prolungare gli effetti indotti dalla deprivazione di sonno associando l’intervento ad altre strategie terapeutiche di
manipolazione dei ritmi biologici come la “Light therapy” o “L’avanzamento di fase del ritmo sonno-veglia” (gli orari d’addormentamento e di risveglio vengono anticipati di circa 6 ore per risincronizzare tale ciclo con quello circadiano del cortisolo e della temperatura basale, che nei depressi sembrerebbero soggetti
a un avanzamento di fase) (49).
Disturbo Bipolare
Le alterazioni delle funzioni biologiche circadiane
hanno un ruolo di primo piano nel Disturbo Bipolare
(DB). Le modificazioni dei bioritmi, infatti, sembrerebbero influenzare sia la genesi sia l’andamento della
sintomatologia clinica dei DB.
Tra le diverse attività ritmiche circadiane, quella che
risulta essere maggiormente coinvolta nel DB sembrerebbe essere il ritmo sonno-veglia. Wehr (50), a tal proposito, sostiene che la perdita della ritmicità di tale
bioritmo rappresenti un importante fattore precipitante per il disturbo e non semplicemente un epifenomeno della malattia bipolare. Tale ipotesi è sostenuta dall’osservazione che: a) gli elementi psicologici, farmacologici, medici e situazionali che partecipano alla genesi di un episodio maniacale spesso interferiscono con il
sonno; b) la riduzione sperimentale delle ore di sonno
è in grado di slatentizzare di per sé, in soggetti predisposti, episodi maniacali e ipomaniacali.
Inoltre, tra le diverse patologie mentali, il DB sembrerebbe quello in cui le alterazioni delle funzioni circadiane sono maggiormente legate a fattori genetici
(gli studi più recenti, infatti, mirano a individuare i
clock genes direttamente implicati nella genesi della
patologia). I dati attualmente presenti in letteratura
associano la suscettibilità a sviluppare un DB a polimorfismi dei clock genes Hper2 e Clock (51,52).
Anche per il DB sono stati proposti interventi terapeutici basati sulla manipolazione dei ritmi circadiani.
Il più noto è probabilmente la InterPersonal and Social Rhythm Therapy (IPSRT): una terapia comportamentale che mira a ripristinare un’adeguata routine
sociale, stabilizzando e regolarizzando i ritmi individuali. Alcuni studi, anche se numericamente limitati,
hanno dimostrato che tale tipo di approccio psicosociale, associato a una terapia farmacologica, determina
un prolungamento delle fasi libere dalla malattia e un
sensibile miglioramento della sintomatologia nel corso
degli episodi di deflessione dell’umore (53,54).
Studi per valutare la presenza di alterazioni nel bioritmo della melatonina sono stati condotti anche su pazienti affetti da un DB. I dati al riguardo, tuttavia, non
sono univoci. Alcuni autori (55-57) riferiscono di aver
osservato un aumento dei livelli plasmatici di melatonina nel corso delle fasi maniacali e una riduzione nel
corso delle fasi depressive, ipotizzando che nei pazienti bipolari sarebbe presente un’ipersensibilità della
ghiandola pineale allo stimolo luminoso. Tali affermazioni, tuttavia, non trovano un consenso universale
(58).
Sulla scorta di tali osservazioni sono stati elaborati
alcuni modelli patogenetici del disturbo a impronta
cronobiologica. Uno dei più noti è il “Modello dell’instabilità del Disturbo Bipolare” di Goodwing e Jamison (59). Secondo tale modello, infatti, la vulnerabilità
al disturbo, geneticamente determinata, sarebbe legata
a un’aumentata sensibilità del sistema di regolazione
circadiano a stimoli neurochimici endogeni e ambientali.
Schizofrenia
Le modificazioni delle funzioni biologiche circadiane, anche se non possono essere considerate aspetti
primari della schizofrenia, sono frequentemente diagnosticate nel corso di tale disturbo.
I primi studi che hanno indagato il rapporto tra schizofrenia e ritmi circadiani risalgono alla metà degli anni Settanta. I dati più rilevanti riguardano l’andamento circadiano della temperatura corporea e le sue modificazioni nei soggetti schizofrenici. Morgan e Cheadle (60), a tal proposito, hanno registrato in un studio
condotto su un campione di 107 schizofrenici, un’anticipazione del picco diurno della temperatura basale e
un valore complessivo più elevato nel corso della giornata. Nella regolazione della temperatura basale, non
a caso, sembrerebbero coinvolti neurotrasmettitori dopaminergici e noradrenergici (61,62).
Essendo la melatonina uno dei principali marker
circadiani è stato indagato, come per altri disturbi
mentali, se in pazienti schizofrenici è possibile registrare un’alterazione nella produzione e rilascio di tale ormone. Al momento attuale, tuttavia, i dati pubblicati sono contraddittori. Alcuni autori sostengono che
sarebbe possibile osservare nei pazienti schizofrenici
una riduzione complessiva della secrezione giornaliera
dell’ormone (63). Altri ritengono che sarebbe possibile osservare un’alterazione del metabolismo della melatonina e della ritmicità della sua secrezione. Rao, et
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al. (64), inoltre, riferiscono di aver osservato negli schizofrenici un avanzamento di fase nel ritmo di secrezione della melatonina. In alcuni studi, invece, non sono
state riscontrate differenze significative tra individui
sani e soggetti schizofrenici (65).
Alcuni dati in letteratura suggeriscono che le modificazioni del profilo circadiano osservate negli schizofrenici potrebbero essere legate, almeno in parte, alle
terapie assunte dai pazienti. Mills, et al. (66) sostengono, infatti, che l’assunzione di farmaci antipsicotici tipici determinerebbe un aumento della sensibilità alla
luce, cui conseguirebbe un avanzamento di fase dei
principali ritmi circadiani. Wirz-Justice, et al. (67), invece, sostengono che la somministrazione di litio determinerebbe una riduzione della sensibilità retinica
alla luce e un’anticipazione di fase dei principali ritmi
circadiani. Inoltre, gli effetti terapeutici e avversi legati ai farmaci antipsicotici sembrerebbero essere influenzati da fattori circadiani – Gardos, et al. (68), per
esempio, hanno osservato che l’acatisia indotta da neurolettici cambia d’intensità nel corso delle ventiquattro
ore, seguendo una periodicità tipicamente circadiana.
DISCUSSIONE
La ricerca cronobiologica, fin dai primi studi di Halberg, ha suscitato un interesse crescente nella comunità scientifica. Ciò è confermato dall’elevato numero
di lavori a impronta cronobiologica che vengono pubblicati ogni anno nella letteratura internazionale (digitando su Pubmed il termine Chronobiology e impostando come limiti temporali gennaio 2005-gennaio
2006 è possibile ottenere 2447 pubblicazioni).
Comunque le questioni che la ricerca cronobiologica deve ancora chiarire sono numerose: le acquisizioni
realizzate in questo ambito, infatti, sono frammentarie
e non permettono ancora l’elaborazione di modelli
teorici in grado d’integrare i dati esistenti.
Gli studi presenti in letteratura, tuttavia, suggeriscono che le scoperte realizzate nel contesto della ricerca
psichiatrica cronobiologica potrebbero avere importanti riflessi in ambito clinico.
Per esempio, dai risultati ottenuti da una nostra indagine retrospettiva condotta su 188 pazienti emerge
che lo studio del profilo circadiano potrebbe rappresentare uno strumento in grado di facilitare l’individuazione di soggetti caratterizzati da una particolare
vulnerabilità psichiatrica. I nostri dati dimostrano, infatti, che il profilo di soggetti affetti da disturbi dell’umore, disturbi d’ansia e schizofrenia, se confrontato
con quello d’individui sani, presenta alcune differenze
già nel corso dell’adolescenza e della giovinezza, ovve-
ro in una fase preclinica dei disturbi (i dati più rilevanti riguarderebbero i pazienti affetti da Disturbi Depressivi, il cui profilo circadiano adolescenziale e giovanile sarebbe caratterizzato da modificazioni del ritmo del sonno, dell’appetito, dell’energia fisica e della
capacità di concentrazione) (69).
CONCLUSIONI
In conclusione, la ricerca cronobiologica ha consentito d’interpretare in una nuova prospettiva numerose
problematiche mediche. In ambito psichiatrico, in particolar modo, ha assunto negli ultimi anni una rilevanza sempre maggiore: la cronobiologia, infatti, dato il
particolare campo d’indagine, potrebbe rappresentare
un anello di congiunzione tra ricerca psichiatrica a impronta neurobiologica e a impronta psicosociale.
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