Scuola di Dottorato di Ricerca in “Sociologia e Ricerca Sociale” – XXIII ciclo Indirizzo specialistico: Information Systems and Organizations Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale Università degli Studi di Trento UNA PROSPETTIVA DI GENERE NELL’ANALISI DEL SINDACATO Abstract Con questo progetto desidero approfondire il tema della costruzione del genere nelle organizzazioni sindacali. L’obiettivo principale del progetto è comprendere se uomini e donne che lavorano e militano nel sindacato, e che appartengono a categorie e generazioni diverse, aderiscano o meno al modello di maschilità dominante, o se vi siano pratiche sociali e discorsive che costruiscono forme alternative di maschilità e femminilità. La ricerca sarà condotta attraverso lo studio di caso di tre categorie della Camera del Lavoro della Cgil di Milano, la Fiom, la Fp e Nidil, attraverso una combinazione di differenti tecniche di analisi, tra cui privilegerò l’approccio narrativo. Parole chiave: sindacato, organizzazione, genere, narrazione. Monica Soldà 14 ottobre 2008 1 Indice Pg. Premessa 1. 3 Il contesto teorico 4 a. Il mestiere del sindacalista 4 b. Il genere negli studi organizzativi 7 2. Finalità e obiettivi del progetto 10 3. Disegno della ricerca 12 a. Il campo 12 b. La metodologia 14 Bibliografia 19 2 Premessa La prospettiva di genere per lo studio delle organizzazioni sindacali è stata a lungo ignorata nella letteratura italiana. Fino ad oggi si è sempre privilegiato un approccio che poneva al centro dell’analisi la questione femminile, partendo dalla considerazione storica che, sebbene numericamente presenti con percentuali pari o quasi a quelle degli uomini, le donne hanno raggiunto sempre con molte difficoltà posizioni dirigenziali, trovandosi di fronte un soffitto di cristallo che solo negli ultimi anni, con l’introduzione ad esempio di norme statuarie antidiscriminazione e di azioni positive, sulla scia della legge 125/91, è stato messo in discussione. Con questo progetto è mia intenzione introdurre il genere come categoria di analisi delle organizzazioni sindacali, riprendendo teorie e concetti formulati nell’ambito della letteratura organizzativa. Il genere qui è quindi inteso come pratica sociale e discorsiva che posiziona le persone in contesti di potere asimmetrico ed è costruito e negoziato continuamente nelle pratiche quotidiane di interazione con gli altri. L’obiettivo del progetto è dunque quello di analizzare in qual modo il genere venga costruito nelle pratiche sociali e discorsive all’interno di queste organizzazioni. Il campo in cui intendo realizzare la mia indagine è la Camera del Lavoro della Cgil di Milano. La Cgil, infatti, oltre ad essere la più antica e numerosa organizzazione sindacale italiana, negli ultimi anni ha introdotto una norma statutaria anti-discriminazione e ha visto realizzarsi, in alcune realtà locali, come quella lombarda, una serie di azioni positive volte a riequilibrare la presenza di uomini e donne all’interno delle strutture e degli organismi dirigenziali. Milano, nella fattispecie, è sempre stata un contesto molto vivace, anche per la presenza femminile nel mercato del lavoro e nelle organizzazioni dei lavoratori. In questa ricerca intendo avvalermi dell’analisi di testi, ovvero di narrazioni e immagini. Da un lato, quindi, interviste a uomini e donne che, appartenenti a generazioni e categorie diverse, militano a diverso titolo nell’organizzazione sindacale; dall’altro immagini, ovvero fotografie, manifesti, riviste e altro materiale propagandistico conservato negli archivi sindacali. Questo allo scopo di rilevare la dimensione del genere, così come è narrata dai membri dell’organizzazione e così come è rappresentata dall’organizzazione stessa nella sua pubblicistica ufficiale. La prospettiva con cui intendo analizzare questi testi è quella narrativa, ovvero chiedermi non tanto cosa viene detto e rappresentato, ma come e perché. Una prospettiva di tipo narrativo consente di analizzare gli aspetti soggettivi dei vissuti organizzativi, il significato attribuito dalle persone alle loro esperienze all’interno delle organizzazioni e confrontarli con quelle che sono le narrazioni ufficiali, che possono essere problematiche e nascondere delle voci alternative. 3 1. Il contesto teorico In questa sezione illustrerò brevemente il contesto teorico all’interno del quale vuole collocarsi il progetto. In un primo momento focalizzerò la mia attenzione sulle posizioni presenti in letteratura rispetto alla questione della professione sindacale come professione “maschile” e sulle ricadute che questo ha avuto nelle politiche e nelle forme di organizzazione dei sindacati in Italia. Successivamente passerò in rassegna la letteratura che si è occupata dello studio del genere in ambito organizzativo, sottolineando la necessità di adottare questa prospettiva anche per lo studio delle organizzazioni sindacali. a. Il mestiere del sindacalista La storia del sindacato in Italia è la storia di una professione tradizionalmente maschile: da un punto di vista culturale, infatti, il fare sindacato è un’attività che si colloca all’interno dell’universo simbolico del maschile (Biadene e Piazza, 1994). Questo, come diversi studi hanno messo in luce, è in parte dovuto al fatto che il sindacalismo italiano (ed europeo), a partire dalla seconda guerra mondiale, abbia avuto come obiettivo la tutela dei lavoratori maschi, dipendenti, assunti stabilmente e a tempo pieno, capifamiglia e nelle classi centrali di età, i cosiddetti male breadwinner (Acker, 1990; Connell, 1995; Regalia, 2000; Accornero, 2003), mostrando, nei confronti delle lavoratrici, un atteggiamento che alcune autrici hanno definito ambiguo (Biancheri, 1986; Biadene e Piazza, 1994). La professione stessa del sindacalista è una professione tradizionalmente segregata al maschile, contraddistinta dall’indiscussa disponibilità di tempo e dalla capacità di condurre la contrattazione. Secondo Biadene e Piazza (1994) nel sindacato è proprio il tempo il criterio dell’omologazione al maschile: quello del sindacato, infatti, è un “tempo senza orario”, perché regolato da norme arbitrarie, rigido e al contempo dilatato. Il tempo senza orario è da un lato considerato come un segno di status, dall’altro come momento in cui si esperiscono sensazioni “forti”, che rientrano nell’universo simbolico del maschile: viaggi, incontri, notti insonni. Le donne, qualora si debbano sobbarcare il lavoro di cura e quello riproduttivo, tendono ad essere escluse da questo status, e ad essere quindi svantaggiate nell’acceso alle cariche più importanti (Bombelli, 2000). Nel sindacato, sin dal dopoguerra, uomini e donne sono stati/e segregati/e in attività diverse, in base ad una pratica discriminatoria diffusa a tutti i livelli dell’organizzazione. Per le donne questo ha significato sostanzialmente essere relegate a compiti subalterni ed esecutivi ed essere escluse 4 dalla contrattazione, dai rapporti con i lavoratori e dagli organismi dirigenti, trovandosi di fronte quello che viene definito un soffitto di cristallo (Bombelli, 2000; Biancheri, 2003; Chianese, 2008 ). Nonostante l’impegno di molte donne nella Resistenza, al momento della ricostruzione del sindacato, dopo gli anni della clandestinità, a poche venne riconosciuto il diritto di fare parte della classe dirigente, di fatto legittimando un modello etico e politico di leadership esclusivamente maschile (Lunadei et al., 1999). Al primo congresso del sindacato unitario, tra la fine del gennaio e il febbraio 1945, una sola donna, Maddalena Secco, entrò nel direttivo nazionale. Per le donne vennero invece istituite delle Commissioni femminili, sia a livello nazionale che locale che, dopo la scissione, in Cisl vennero smantellate già nel 1959, mentre nella Cgil continuarono a lavorare fino ai primi anni Sessanta, quando furono sostituite dagli Uffici confederali di settore (Lunadei et al., 1999). Di fatto, queste Commissioni, svuotate di ogni potere di governo e decisione, furono dei ghetti per le donne (Guerra, 2008), che in tali sedi erano tenute ad occuparsi di maternità, infanzia e welfare e a non interferire con la “vera” politica sindacale. Le poche che riuscirono comunque a raggiungere posizioni apicali nel dopoguerra vissero la contraddizione insita nell’essere donna pubblica (che, contrariamente alla locuzione di uomo pubblico, nel linguaggio comune era marchio di infamia) in un momento in cui alle donne si chiedeva di tornare nell’ambito del domestico e “rimettersi la gonna” (Lunadei et al., 1999). A queste donne era chiesto di essere combattive come gli uomini, pronte a lasciare tutto, anche la famiglia, per il sindacato, ma al tempo stesso di non trasgredire l’immagine rassicurante dell’angelo del focolare. Queste donne quindi erano impegnate in un lavoro continuo di riparazione dell’offesa dovuta alla rottura dell’ordine simbolico di genere, nel quale non erano previste le loro azioni e la loro parola (Gherardi, 1995; Lunadei, 1999). Nel sindacato, inoltre, le donne con leadership formale non dovevano scontrarsi solo con gli stereotipi e le pratiche di discriminazione messi in atto dagli uomini, ma anche con l’ostilità che veniva dalle altre donne che si trovano in posizioni più basse nella gerarchia (Lunadei et al., 1999), fenomeno che si verifica, come mostrano alcuni studi, anche in ambito aziendale (Moss Kanter, 1977; Gherardi e Poggio, 2003). Le donne però non hanno mancato di sfidare questa cultura discriminante. In questa sfida il movimento femminista ha avuto un ruolo centrale, al punto che in Italia, caso unico tra i paesi industrializzati, è possibile parlare di femminismo sindacale (Beccalli, 1986). I primi collettivi femministi nel sindacato sono nati a metà degli anni Settanta, nelle organizzazioni dei metalmeccanici della Cgil, nelle fabbriche di Milano e Torino. In quegli anni le donne hanno portato all’interno del sindacato due tipologie di pratiche mutuate dal femminismo, il separatismo e l’autocoscienza, e con esse il linguaggio elaborato dal pensiero della differenza, strumento utilizzato per smascherare la struttura di potere nascosta al di sotto dell’ideologia egualitaria e universalistica 5 e rendere visibile la marginalità delle donne nel sindacato (Beccalli, 1986; Biadene e Piazza, 1994). I temi dibattuti dai collettivi, tra il 1975 e il 1978, furono quelli del rapporto tra identità femminile e militanza politica, temi che sottoposero il sindacato ad una critica radicale. L’obiettivo dei collettivi era infatti il confronto con l’organizzazione, ma non tanto sul piano delle politiche sindacali nei confronti del lavoro femminile, bensì su quello simbolico. Riprendendo il concetto proposto da Gherardi (1994), questi gruppi posero all’interno dell’organizzazione la questione della cittadinanza di genere, dal momento che il modello di cittadinanza vigente, di tipo universale, taceva le narrative di coloro che erano più deboli e svantaggiati all’interno del sindacato, tra cui le donne. Il dibattito riguardò anche la questione organizzativa: le donne chiedevano, infatti, il diritto di sperimentare dentro il sindacato la nuova pratica politica femminista, il separatismo (Beccalli, 1986). Alla fine ottennero di organizzarsi in Coordinamenti, spazi separati e autonomi di elaborazione di iniziative, accompagnati da momenti di confronto con le classi dirigenti. Tra i primi a riconoscere questo tipo di aggregazione furono i metalmeccanici, nel 1977. Il riconoscimento ufficiale venne dal X Congresso della Cgil, nel 1981, proprio negli anni in cui il femminismo sindacale si avviava al tramonto e si faceva sempre più forte la crisi del sindacato stesso (Guerra, 2008). Gli anni Ottanta sono stati anche gli anni in cui, dopo due decenni in cui era stata scarsa l’attenzione alle problematiche delle donne sui luoghi di lavoro, si è arrivati all’attuazione di politiche contro la discriminazione e per le pari opportunità (Beccalli, 1986). In quel periodo si è infatti assistito ad una ripresa delle lotte per le donne lavoratrici, le grandi assenti negli anni del femminismo sindacale, momento che ha coinciso con il crollo numerico della classe operaia, e con una crisi anche culturale per il sindacato, per il quale, abbiamo visto, l’operaio era il modello del lavoratore tipo (Accornero, 1992; Reyneri, 2005). Nel corso degli anni Novanta il dibattito ha riguardato invece l’introduzione nella contrattazione di tematiche che venivano considerate connesse al lavoro femminile, come la conciliazione e l’istituzione delle quote. Nel 1991, la Cgil ha inserito nel suo statuto una norma antidiscriminatoria, la quale prevede che “nessuno dei sessi può essere rappresentato al di sotto del 40 per cento o al di sopra del 60 per cento”. In questo caso ha prevalso una logica che si poneva l’obiettivo di premiare la presenza femminile, ma è ancora da dimostrare che questa norma venga rispettata a tutti i livelli dell’organizzazione, anche per la storica mancanza di dati sulla presenza delle donne negli organi elettivi e tra i delegati (Biadene e Piazza, 1994; Biancheri, 2003). A partire dalla fine degli anni Novanta, all’interno dei sindacati stessi sono state sperimentate diverse azioni positive, a seguito dell’introduzione della normativa sulle pari opportunità (la legge 125/91), aventi come finalità la 6 formazione dei quadri sindacali e l’aumento del numero delle donne negli organismi dirigenziali1. Tuttavia, per quante azioni positive nell’ottica delle pari opportunità un’organizzazione possa adottare, se continua a svalutare sistematicamente tutto ciò che è legato al femminile non sarà mai democratica (Gherardi, 1995). Per questo sarebbe erroneo pensare che l’introduzione di queste misure abbia comportato automaticamente un cambiamento in positivo nella cultura di genere del sindacato. In questi anni, il sindacato sta attraversando un momento di crisi generale della rappresentanza, ma allo stesso tempo sperimentando nuove forme di partecipazione e inclusione delle donne e di altri soggetti tradizionalmente deboli, come i/le giovani e i/le lavoratori/trici migranti. È da dimostrare, obiettivo che mi pongo con questo progetto, se questi cambiamenti normativi e organizzativi siano, in primo luogo, applicati anche a livello locale e, in secondo luogo, se vi siano delle conseguenze anche nei termini della cultura organizzativa di genere. b. Il genere negli studi organizzativi Nel paragrafo precedente abbiamo visto come, nella storia del sindacato, la questione di genere abbia avuto poca incidenza sulle strategie politiche di lungo termine, sui modelli di organizzazione e i rapporti tra uomini e donne, ma abbia acquisito negli ultimi anni una certa rilevanza, almeno dal punto di vista delle politiche formali portate avanti dalle organizzazioni (Chianese, 2008). Il genere, come categoria di analisi, è stato escluso a lungo anche dalla letteratura sui sindacati e sulle relazioni industriali ma, come sostenuto da diverse autrici (Biancheri, 2003; Briskin, 2006), è fondamentale nell’analisi delle vecchie e nuove pratiche di militanza, per comprendere le interazioni e rapporti di potere all’interno di queste organizzazioni. In Italia manca una riflessione sistematica sulla questione del genere nel sindacato: i lavori esistenti hanno articolato lo specifico punto di vista delle donne, giustificando questa scelta col fatto che, nella storia sindacale, le donne siano state discriminate, benché numerose (Biadene e Piazza, 1994; Lunadei et al., 1999; Biancheri, 2003; Chianese, 2008). In questo progetto intendo utilizzare un approccio di genere per guardare al sindacato, problematizzando il modo in cui il genere viene culturalmente costruito nelle pratiche sociali che costituiscono l’attività sindacale (Bruni, Gherardi e Poggio, 2000). In questo lavoro adotterò la prospettiva che considera il genere come pratica sociale, che posiziona le persone in contesti di 1 Tra i progetti realizzati dalle principali organizzazioni vi sono: “Negoziare non è mai neutro: sapere contrattare le pari opportunità” (progetto promosso dalla Uil Piemonte), “Sistema Gender Friendly” (progetto Equal coordinato dalla Ugl), “Mainstreaming nell’organizzazione sindacale” e “Valorizzare le differenze” (progetti finanziati dalla Legge 125/91 e promossi rispettivamente dalla Cgil di Milano e del Friuli Venezia Giulia). 7 potere asimmetrico (Bruni, Gherardi e Poggio, 2000) ed è costruito e negoziato continuamente nelle pratiche quotidiane di interazione con gli altri (West e Zimmerman, 1987; Butler, 1990). Non un insieme di tratti che denotano la maschilità e la femminilità, come entità fisse e determinate, ma un insieme di pratiche che consentono di esplorare come alle donne vengano attribuite caratteristiche femminili e agli uomini maschili. Secondo Connell (1995), infatti, la maschilità e la femminilità sono dei progetti e dei processi di configurazione delle pratiche nel tempo che risentono di tre differenti strutture di genere: i rapporti di potere (la subordinazione delle donne e il predominio degli uomini nella struttura patriarcale), i rapporti di produzione (caratterizzati dalla divisione del lavoro in base al genere, con le sue conseguenze economiche) e la cathexis (l’elaborazione e realizzazione dei desideri). Connell (1995) ha definito le organizzazioni sindacali come l’istituzionalizzazione di una forma di maschilità, la maschilità operaia. L’espulsione delle donne dall’industria, processo che in Italia si è verificato al termine dei due conflitti mondiali (Casalini, 2008), è stata una tappa fondamentale nella formazione di questa forma di maschilità, organizzata sull’attività lavorativa, la capacità salariale personale, le abilità meccaniche, il patriarcato domestico e la solidarietà combattiva tra gli operai (Connell, 1995; Bruni, Gherardi e Poggio, 2000). In Italia, a causa del ritardo con cui si è verificato rispetto agli altri paesi europei il processo di industrializzazione, il tratto forte della maschilità nel sindacato non era tanto l’essere operaio, quanto l’essere metalmeccanico, ambiente dove l’ostilità verso le donne, all’indomani del secondo conflitto mondiale, ha raggiunto livelli estremi (Casalini, 2008). Possiamo comunque dire che nel sindacato italiano la maschilità operaia è stata a lungo la forma di maschilità egemone, nelle parole di Connell (1995), una “configurazione della prassi di genere che incarna la risposta, in quel dato momento accettata, al problema della legittimità del patriarcato, e che garantisce la posizione dominante degli uomini e la subordinazione delle donne” (pag. 68, trad. it.) La maschilità egemone nel sindacato è divenuta in questo modo invisibile, rendendo il modello del sindacalista maschile universalizzato e privo di genere. Come abbiamo visto, nella storia del sindacato le donne hanno sfidato questa supremazia (Beccalli, 1986; Biadene e Piazza, 1994; Biancheri, 2003; Chianese, 2008), ma questa maschilità egemone non ha discriminato solo le donne, nel tentativo di ricondurle a un ordine simbolico di genere dominato dalla dicotomia pubblico/privato, ma anche gli uomini che non corrispondevano a questa forma di maschilità. Le altre forme di maschilità sono state infatti osteggiate, nascoste, al pari delle dimensioni della femminilità, come ad esempio nel caso di tutti quei lavoratori che non rientrano nel modello del male breadwinner (Connell, 1995). Solo un’analisi dell’organizzazione sindacale in ottica di genere permette di evidenziare anche questi aspetti che, come ho ricordato, sinora sono stati tralasciati nella letteratura sul 8 sindacato italiano. A questo scopo, importanti spunti teorici ed empirici possono essere ripresi dagli studi condotti in ambito organizzativo. La categoria del genere è stata introdotta nell’ambito degli studi organizzativi per spiegare la persistente disparità tra uomini e donne nel mondo del lavoro. Joan Acker (1990), una delle prime ad utilizzare questa categoria nell’ambito degli studi organizzativi, ha definito il genere come principio costitutivo dell’organizzare. Secondo Acker (1990) le strutture organizzative non sono neutre e il genere è alla base di cinque processi che si verificano nell’interazione tra uomini e donne: a) la produzione di una divisione del lavoro e del potere in base al genere; b) la creazione di simboli e immagini che spiegano, giustificano o contrastano tale divisione; c) le interazioni tra gli individui, che possono produrre forme di dominanza/sottomissione; d) l’identità individuale, che implica la scelta della professione, dell’abbigliamento, del linguaggio e delle modalità di presentazione di sé appropriate alla propria identità di genere; ed infine e) la logica organizzativa, basata su tempi, corpi e aspettative maschili. Anche Gherardi (1995) ha sviluppato una riflessione su come si fa genere mentre si lavora e su come le organizzazioni fanno genere, affermando che “le organizzazioni presentano caratteri di genere e [...] i processi organizzativi sono modi di organizzare relazioni di genere”, e che “il genere non costituisce solo una chiave interpretativa delle culture organizzative, ma è anche uno dei suoi tratti distintivi” (Gherardi, 1995, trad. it. pag. 16). L’autrice ha messo in luce l’ambiguità sottesa al fare genere nei luoghi di lavoro, dovuta da un lato all’indivisibilità delle dimensioni del maschile e del femminile, dall’altro alla loro opposizione nell’ordine simbolico di genere dominante (Gherardi, 1995). Successivamente Gherardi e Poggio (2003), in uno studio avente come oggetto l’entrata delle donne in posizioni lavorative tradizionalmente maschili, hanno definito il genere un insieme di pratiche per mezzo delle quali le persone si posizionano reciprocamente all’interno di discorsi situati, riprendendo il concetto di positioning, introdotto da Davies e Harré (1990), per definire il processo discorsivo tramite il quale i sé si situano nelle conversazioni, in quanto partecipanti alla produzione congiunta di una trama. Secondo Gherardi e Poggio (2003) nelle conversazioni si verificano dei processi di posizionamento di genere dove si esprimono una serie di valori, regole e significati che costituiscono le culture organizzative. Il dibattito sul genere come pratica è stato ripreso e affrontato anche da Patricia Y. Martin (2003) che mette in luce come nei contesti organizzativi uomini e donne si costruiscono l’un l’altra in una dinamica a due dimensioni, costituita dalle gendering practices e dal practicing gender. Le gendering practices sono un insieme di attività culturalmente, discorsivamente, fisicamente disponibili per essere praticate nei contesti sociali, mentre il practicing gender è il fare, mostrare, narrare e performare il genere, che spesso avviene senza che il soggetto ne abbia l’intenzione. Il practicing gender è quindi un fenomeno dinamico, rapido, direzionale (nel tempo), spesso irriflessivo, informato di una consapevolezza 9 liminale, prodotto nella relazione con gli altri: uomini e donne praticano il genere sistematicamente, in interazioni incarnate, fluide, radicate nelle competenze e conoscenze pratiche (Martin, 2003). Un ultimo elemento del dibattito che ritengo sia interessante riprendere per lo studio delle organizzazioni sindacali fa riferimento all’undoing gender, vale a dire al processo di decostruzione del genere. Butler (2004) ha definito il genere non un prodotto finito, stabile, determinato, “ma come ambito di azione individuale e collettiva che può e deve essere costantemente essere occupato e contestato da soggetti e pratiche a un tempo decostruttive e ri-costruttive” (pag. 11, trad. it.). Anche Deutsch (2007) ha contribuito al dibattito riprendendo e riformulando il concetto di genere di West e Zimmerman (1987). La proposta dell’autrice è quella di studiare l’interazione considerando non solo il persistere della disuguaglianza basata sugli stereotipi di genere, ma anche le possibilità di cambiamento. È possibile analizzare questo aspetto esaminando a) quando e come le interazioni sociali sono meno gendered; b) le condizioni in cui il genere è meno rilevante nelle interazioni sociali; c) se tutte le relazioni gendered rafforzano l’ineguaglianza; d) come i livelli istituzionali e interazionali possono collaborare per produrre cambiamento; e) l’interazione come luogo del cambiamento. L’autrice propone di mantenere la definizione doing gender per descrivere le interazioni sociali che riproducono le differenze di genere, e di usare la definizione di undoing gender per quelle situazioni che tentano di ridurle (Deutsch, 2007). In questo contesto, mi sembra interessante tenere in considerazione anche questa prospettiva, per valutare se e come vi siano all’interno dell’organizzazione sindacale, oggi, delle pratiche sociali e discorsive sul genere diverse, che riducono l’asimmetria di potere o che sfidano il modello di maschilità egemonica, soprattutto in seguito all’introduzione delle azioni positive e delle norme statuarie antidiscriminatorie. 2. Finalità e obiettivi del progetto Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come diversi siano stati gli studi che hanno considerato la questione femminile all’interno del sindacato, senza problematizzare la questione di genere. Con il presente progetto intendo realizzare un’analisi della costruzione del genere nelle organizzazioni sindacali, riprendendo spunti teorici ed empirici dall’ambito degli studi organizzativi (Acker, 1990; Gherardi, 1998; Martin, 2003). In questo lavoro cercherò di problematizzare l’idea che esista una dicotomia e una gerarchia tra il maschile (l’Uno) e il femminile (l’Altro), guardando alle relazioni di genere come interdipendenza, ambiguità, e alle pratiche di genere come reciprocità ed intersezioni (Gherardi, 1995). L’ordine simbolico di genere e i rapporti di genere sono infatti intesi come contestualizzati, storicizzati, dinamici e mutabili, anche se sono sempre in relazione con gli archetipi del maschile e femminile (Bruni, Gherardi e Poggio, 2000). Concentrerò quindi la mia 10 attenzione non solo sulle donne all’interno del sindacato, ma sulle dimensioni del maschile e del femminile, poiché ritengo siano due categorie che costruiscono il costrutto di genere in maniera relazionale e che non debbano necessariamente escludersi a vicenda. Il problema che vorrei affrontare è in questo senso proprio il fatto che il fare sindacato si collochi entro l’universo simbolico del maschile e, in quanto maschilità egemone, costituisca una barriera culturale tanto per le forme di femminilità che per quelle di maschilità che si discostano da quella egemone (Bruni, Gherardi e Poggio, 2000). Nello specifico, mi propongo di indagare se uomini e donne che a diverso titolo lavorano e militano nel sindacato, e che appartengono a categorie e generazioni diverse, aderiscano o meno al modello di maschilità dominante, o se vi siano pratiche sociali e discorsive che costruiscono forme alternative di maschilità e femminilità. Per rispondere alla mia domanda di ricerca mi concentrerò sull’analisi di testi che mi permettano di ricostruire le pratiche discorsive sul genere presenti nell’organizzazione sindacale. I testi, infatti, sono il risultato di negoziazioni di differenti discorsi sul genere e analizzarli significa individuare come questi significati vengano costruiti (CrannyFrancis et al., 2003). I testi di cui intendo avvalermi sono narrazioni orali e visuali (Riessman, 2008). Analizzare le narrazioni individuali significa mettere in luce le strategie discorsive e testuali attraverso cui i membri dell’organizzazione attribuiscono senso e significato alle pratiche che realizzano e alle interazioni in cui sono immersi (Bruni, Gherardi e Poggio, 2000); esse consentono inoltre di esplorare come gli individui formulano se stessi in relazione alle narrazioni e alle rappresentazioni che caratterizzano le organizzazioni in cui lavorano (Cranny-Francis et al., 2003). Le narrazioni visuali permettono invece di analizzare la cultura ufficiale dell’organizzazione e quindi la cultura di genere dominante. Il testo visivo, in questo caso le immagini prodotte dall’organizzazione sindacale, racconta infatti come l’organizzazione rappresenta il genere, legittimando il ruolo che uomini e donne rivestono nell’organizzazione stessa. Storicamente, i sindacati hanno utilizzato questa modalità per trasmettere la cultura e la memoria collettiva, perché maggiormente fruibile del testo scritto, da una platea di destinatari che nel primo dopoguerra era costituito da un numero non trascurabile di analfabeti (Motti, 2008) e ad oggi rimane un veicolo importante di socializzazione e diffusione della cultura sindacale. 11 3. Disegno della ricerca a. Il campo La ricerca riguarderà la CGIL, l’organizzazione sindacale italiana più antica (è nata infatti nel 1904) e che oggi conta il maggior numero di iscritti/e, più di cinque milioni e mezzo. La CGIL è anche, tra i confederali, il sindacato in cui la questione della rappresentanza di genere è stata storicamente più dibattuta e su cui esiste un’ampia documentazione. Un altro motivo che mi ha portato a questa scelta è che la CGIL è l’unica organizzazione sindacale in Italia ad aver introdotto, nel 1991, la misura delle quote, e negli ultimi anni è stata interessata da diversi progetti nell’ambito delle azioni positive e del gender mainstreaming (in Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Toscana, solo per citarne alcune). Per quanto riguarda il campo, mi è sembrato più opportuno focalizzare l’attenzione in un ambito locale, per due ordini di motivi. Il primo è legato alla possibilità di indagare se anche a livello locale sia stata recepita e applicata la norma statuaria antidiscriminatoria e di valutare le conseguenze delle azioni positive, messe in atto solitamente a livello di singole categorie o Camere del Lavoro. In secondo luogo la scelta di una realtà territoriale mi permette di coinvolgere più livelli dell’organizzazione: segretari/e di categoria, funzionari/e, ma anche delegati e delegate delle aziende presenti sul territorio. L’ambito territoriale che ho scelto è la Camera del Lavoro Metropolitana di Milano. Milano ha una lunga tradizione di lotte e presenza femminile nel sindacato: già prima dell’unità d’Italia, nel 1859, le nastraie avevano dato vita ad una delle prime leghe operaie della città. In seguito, negli anni Cinquanta, fu la città dove più attive si mostrarono le lavoratrici (Righi, 2008) e negli anni Settanta i primi collettivi femministi nacquero proprio all’interno della categoria dei metalmeccanici milanesi. Oggi Milano è un contesto in cui il mercato del lavoro è molto dinamico e a bassa disoccupazione, dove il tasso di occupazione femminile è molto elevato e dove è importante il fenomeno del lavoro flessibile, come è emerso in diverse indagini condotte negli ultimi anni (Fullin, 2004; Magatti e Fullin, 2002). All’interno di questa organizzazione intendo considerare in particolare tre casi, tre categorie confederali, in base alla logica del campionamento teorico. La prima è la Fiom, la Federazione degli Impiegati ed Operai Metalmeccanici. Questa categoria, tradizionalmente a maggioranza maschile (a livello nazionale nel 2007 gli uomini erano quasi l’85% degli iscritti), ha custodito e difeso negli anni la cultura della maschilità operaia, anche osteggiando l’ingresso delle donne in fabbrica 12 (Chianese, 2008). Ma è proprio dall’iniziativa delle donne milanesi di questa categoria che, negli anni Settanta, sono nati i primi collettivi femministi sindacali (Beccalli, 1986; Biadene e Piazza, 1994; Chianese, 2008). Oggi, su tutto il territorio nazionale, i gruppi dirigenti sono a maggioranza maschile e vi è solo una donna nella segreteria nazionale. La segreteria della Fiom di Milano si distingue per una forte componente femminile (tre donne su sei) e per la giovane età dei segretari (tre al di sotto dei 35 anni). La seconda categoria è la Fp, la Funzione pubblica, che da statuto “promuove la libera associazione e l’autotutela solidale e collettiva delle lavoratrici e dei lavoratori che operano nelle pubbliche amministrazioni, nelle attività e nei servizi inerenti le funzioni pubbliche, gestiti sia in forma diretta che indiretta, siano essi pubblici che privati”. La Fp è la categoria che, a livello nazionale, registra da anni il trend maggiormente positivo in termini di iscrizioni; lo stesso avviene anche nella realtà di Milano. Il dato nazionale indica che le donne nel 2007 erano il 60% degli iscritti. Al momento non sono disponibili dati disaggregati relativi alla realtà milanese, ma possiamo ipotizzare che vi sia un certo contributo delle donne alla crescita di questa organizzazione poiché in Italia la pubblica amministrazione è uno dei settori in cui si concentra maggiormente l’aumento dell’occupazione femminile (Reyneri, 2005). La terza categoria che intendo analizzare è la NidiL, acronimo per le Nuove Identità di Lavoro, dove le donne sono il 60% degli iscritti: questa organizzazione, nata proprio a Milano nel 1998, non agisce nell’ambito di un determinato settore merceologico, ma si pone come interlocutrice delle lavoratrici e dei lavoratori con un contratto non standard trasversalmente al mondo del lavoro, sia esso pubblico, privato o autonomo. La categoria è nata sulla spinta della crescita dei lavori cosiddetti atipici (collaborazioni continuate e continuative, lavori a progetto, partite Iva, associazioni in partecipazione, lavoro in somministrazione, ecc.), così definito considerando “tipico il contratto dipendente, a tempo pieno e indeterminato. La categoria, sin dalla sua costituzione, registra un tasso di crescita delle iscrizioni costante, sia a livello nazionale che locale. Ho scelto di considerare nella mia indagine categorie diverse per settore (una del pubblico, una del privato ed una categoria trasversale), ma soprattutto categorie con una diversa tradizione e presenza di uomini e donne, proprio per indagare le forme di maschilità egemonica (tradizionalmente legata alla figura del metalmeccanico) e la presenza di forme di maschilità e femminilità alternative, forse taciute, presenti nell’organizzazione. La scelta di intervistare sindacalisti e sindacaliste che appartengono a generazioni diverse e di analizzare la produzione visiva delle categorie in questione mi permette, infatti, di indagare se vi siano all’interno del sindacato culture di genere diverse. L’arco temporale su cui intendo concentrare la mia analisi vuole includere gli ultimi trent’anni della vita del sindacato, partendo quindi dalla fine degli anni Settanta, 13 quando la questione di genere è entrata all’interno dell’organizzazione con il costituirsi di quello che Beccalli (1986) ha definito femminismo sindacale. b. La metodologia L’approccio con cui intendo studiare queste tre categorie confederali è lo studio di caso (Eisenhardt, 1989; Stake, 1994; Yin, 1994), che mi consente di utilizzare diverse metodologie di raccolta dei dati: 1. un’indagine quantitativa sulla presenza di donne e uomini nelle tre organizzazioni considerate, cercando di ricostruire una serie storica, a partire dagli anni Settanta, del tesseramento, numero di delegati e delegate, composizione dei Coordinamenti Territoriali e delle Segreterie di Categoria. 2. Interviste a uomini e donne, delegati/e, funzionari/e, membri dei Coordinamenti e delle Segreterie Territoriali, che appartengono a generazioni diverse di sindacalisti/e, per sollecitare le narrazioni e le interpretazioni di questi soggetti relative alle pratiche messe in atto nell’agire organizzativo e rispetto alla cultura e all’immaginario simbolico di genere. 3. L’analisi di archivio di documenti visivi, prodotti dalle organizzazioni, nell’arco temporale che va dalla fine degli anni Settanta ad oggi. Obiettivo di questa analisi è quello di esaminare la rappresentazione e la costruzione di genere, e quindi delle forme di maschilità e femminilità, a livello istituzionale. Poiché il focus della mia ricerca vuole essere la costruzione del genere nell’organizzazione sindacale, costruzione che secondo Teresa de Lauretis (1987) si può analizzare sia nelle rappresentazioni che nelle auto-rappresentazioni degli individui, l’oggetto della ricerca saranno da un lato le storie e i vissuti delle persone, uomini e donne, che lavorano all’interno della organizzazione sindacale e che appartengono a generazioni e a categorie diverse, dall’altro la pubblicistica che l’organizzazione ha prodotto nel corso della sua storia recente. Utilizzare il genere come categoria di indagine mi permette di svelare l’ordine simbolico del maschile e femminile che determina la cultura, le pratiche e le relazioni all’interno delle organizzazioni (Acker, 1990; Gherardi, 1998; Bruni, Gherardi e Poggio, 2000). Cercherò quindi di guardare principalmente alle pratiche, alla cultura e alle simbologie organizzative, così come queste sono interpretate e narrate dai soggetti e rappresentate dall’organizzazione stessa. 14 Una pratica è, in una recente “working definition” di Gherardi (2006), è intesa come “il modo relativamente stabile nel tempo e socialmente riconosciuto, di ordinare elementi eterogenei in un insieme coerente” (pag. 34). Affinché una serie di elementi possa essere definito pratica deve ripetersi nel tempo, per poter essere appreso e socialmente condiviso. Una pratica viene riconosciuta nel contesto organizzativo se sostenuta da un apparato normativo che ne permette la riproduzione: in questo modo le pratiche determinano le scelte e le azioni degli attori che le agiscono creando un sistema di aspettative, regole e procedure (Gherardi, 2000, 2006, 2008). Una cultura organizzativa è fatta di simbologie, credenze, valori e modelli di azione appresi, prodotti e ricreati dalle persone (Strati, 2004), e può essere studiata esaminando l’immagine, la rappresentazione che l’organizzazione dà di sé (Bruni, 2003): analizzando le norme, i valori, il linguaggio, i miti, le metafore e le storie narrate, oppure le cerimonie, i simboli, gli artefatti, i riti e i tabù (Wilson, 1999). Il simbolo può essere infine definito come un artefatto, un elemento non umano che trasforma un’aggregazione di persone in un collettivo (Strati, 2004). Operativamente, dopo l’analisi della letteratura, intendo quindi articolare il progetto nelle seguenti fasi, caratterizzate dall’utilizzo di differenti strumenti metodologici: La prima fase consisterà nella raccolta e analisi di dati sulla presenza di donne e uomini in ciascuna delle tre categorie, monitorando il tesseramento e la presenza negli organi dirigenti. È necessario premettere che il sindacato non mette a disposizione dati nazionali e locali disaggregati sul tesseramento per uomini e donne, tranne quelli resi disponibili da alcune categorie, come la stessa Fiom. I dati che ho riportato nei paragrafi precedenti, sono, infatti, tratti dalla relazione del Dipartimento di Organizzazione della Cgil Nazionale per il 2007, che manca però di dati disaggregati sulla presenza maschile e femminile a livello di tesseramento e organi dirigenti. La mancanza di dati sistematici sulla presenza femminile è un fenomeno evidenziato da molte autrici in letteratura, e che costituisce già di per sé un elemento di riflessione sull’attenzione alla questione di genere nel sindacato. Biadene e Piazza (1994) a questo proposito sostengono come la mancanza di dati sulla presenza femminile denoti ancora un’attenzione all’universale, al generale, che rende le donne invisibili. La seconda tecnica di indagine che intendo utilizzare in ciascuno studio di caso sono le interviste a donne e uomini che appartengono alle tre organizzazioni. Intendo realizzare almeno venti interviste in ognuna delle tre categorie, Fiom, Fp e Nidil, equamente suddivise tra uomini e donne. Ho inoltre intenzione di intervistare persone che appartengono a generazioni diverse di sindacalisti: sia coloro che sono entrati nel sindacato negli ultimi anni, sia persone che invece hanno 15 un’esperienza di militanza più lunga, che risalga possibilmente agli anni Settanta. La motivazione che fonda questa scelta è quella di valutare se e come le politiche del sindacato attuate negli ultimi anni, che da un lato hanno avuto un’attenzione maggiore alla presenza delle donne negli organi dirigenziali, e dall’altro sono state investite dalle trasformazioni in corso nel mercato del lavoro dovute ai processi di deregolamentazione, abbiano prodotto dei cambiamenti nelle pratiche e nella cultura di genere nel sindacato. Scopo delle interviste sarà quello di sollecitare delle narrazioni rispetto al percorso che le/li ha portati ad aderire al sindacato e ad accedere alle diverse cariche che ricoprono, incluse le motivazioni e le aspettative individuali, i rapporti con colleghi e colleghe, con i lavoratori e le lavoratrici, e il vissuto quotidiano all’interno della organizzazione. Le narrazioni mi permetteranno, infatti, di far emergere le interpretazioni soggettive che gli attori danno delle organizzazioni in cui si situano, dal momento che costituiscono una via di accesso privilegiata alle pratiche e al modo in cui queste vengono interpretate dagli attori dell’organizzazione (Poggio, 2004). Inoltre, anche la stessa cultura organizzativa può essere colta e analizzata in base all’analisi del comportamento verbale dei singoli (Wilson, 1999). Analizzare le narrazioni individuali significa infatti capire il processo di produzione di senso della realtà organizzativa in cui sono immersi gli attori e il loro situarsi in essa, dal momento che permette di fare luce sulle diverse voci esistenti in ogni organizzazione, incluse quelle silenziose, discorso che vale particolarmente per le organizzazioni che, come il sindacato, sono dominate da narrazioni maschili egemoniche (Gherardi e Poggio, 2001, 2003, 2007). L’ultima fase prevede invece l’analisi dei documenti organizzativi, con l’obiettivo di esaminare come l’organizzazione rappresenti ufficialmente le relazioni di genere al suo interno. Tra i documenti intendo privilegiare il materiale visivo prodotto dalle tre categorie, presente negli archivi sindacali della Camera del Lavoro di Milano. Ho scelto di utilizzare questo tipo di dati perché, nella storia del sindacato, come messo in luce da un’analisi sulla rappresentazione di uomini e donne nel movimento operaio di Motti (2008), le immagini e la comunicazione visuale hanno avuto, sin dalla sua fondazione, un ruolo importante nella trasmissione della cultura e dei valori dell’organizzazione e possono, anche oggi, essere una fonte importante per la comprensione della cultura di genere nel sindacato. Attraverso le immagini è infatti possibile esaminare come l’identità individuale e collettiva siano costruite, performate o nascoste visivamente (Riessman, 2008). Le immagini possono essere efficacemente utilizzate anche per lo studio del genere. Si pensi ad esempio al lavoro di Goffman che, in Gender Advertisements (1979), ha analizzato i modi in cui le differenze sociali di genere sono visualizzate e rafforzate dalle immagini pubblicitarie. Per gli scopi della mia ricerca, in particolare, intendo soffermarmi sulle immagini prodotte su manifesti, volantini e documenti, in occasione dei Congressi di categoria, delle ricorrenze come il Primo Maggio, le 16 fotografie raccolte nel corso di manifestazioni e scioperi e quelle riprodotte nelle riviste del sindacato. L’approccio che ho scelto di adottare fa quindi principalmente riferimento alle narrazioni, laddove per narrazione si intende, riprendendo la più recente definizione di Riessman (2008), sia la storia che il/la ricercatore/trice costruisce a partire dai dati, che quella storia evocata da una serie di immagini, e/o narrazioni orali e scritte. In questo caso, quindi, narrazioni orali e visuali, la cui analisi mi permetterà di analizzare gli aspetti soggettivi dei vissuti organizzativi, il significato attribuito dalle persone alle loro esperienze all’interno delle organizzazioni e il confronto con quelle che sono le narrazioni ufficiali che, come abbiamo visto, possono essere problematiche e nascondere delle voci alternative. Nell’analisi delle narrazioni sono possibili diversi approcci e domande di ricerca, che ritengo utile tenere in considerazione (Poggio, 2004). Il primo approccio è quello paradigmatico/grammaticale: oggetto è il cosa, il contenuto, per cui nelle narrazioni si possono raccogliere temi e concetti, trasformandoli in dati, categorie e tassonomie. Il secondo approccio si concentra sulle dimensioni strutturali delle narrazioni, rispondendo alla domanda “come è organizzata la narrazione?”, e consiste nell’individuare innanzitutto le sequenze narrative, analizzabili seguendo molteplici criteri. Un esempio viene dall’analisi di Gherardi e Poggio (2007) sulle narrazioni prodotte in contesti organizzativi tradizionalmente maschili, dove indagare l’organizzazione del racconto ha significato individuare come le sequenze narrative producessero e riproducessero un ordine simbolico di genere specifico. Il terzo approccio ha a che fare con il perché chi narra lo fa in un particolare modo e non in un altro. Questo tipo di analisi, definita contestuale, rende possibile l’esame degli aspetti culturali problematici, cioè quelli che possono produrre, tra gli altri, silenzi e contraddizioni (Gherardi e Poggio, 2007). Questa posizione è propria dell'approccio decostruzionista, cui scopo è mettere in evidenza l’ambivalenza di ogni discorso e minare le pratiche discorsive egemoniche. Tale approccio è particolarmente utile quando si studiano le pratiche di genere all’interno delle organizzazioni, per due ordini di motivi: il primo è che dimostra l’artificiosità degli ambiti che la narrazione dipinge come parti di un ordine naturale; secondo perché rivela le retoriche usate per giustificare forme consolidate di discriminazione e segregazione (Gherardi e Poggio, 2007). Così come le narrazioni, anche le immagini sono testi che possono essere interpretati con particolare attenzione non solo a cosa viene rappresentato, ma anche a come e perché chi ha composto l’immagine lo ha fatto in quel modo (Riessman, 2008). Tra le prospettive possibili vi è quella di analizzare la storia della produzione dell’immagine (quando e da chi è stata fatta, ecc.), 17 oppure si può interrogare l’immagine stessa, dal punto di vista della composizione, gli elementi presenti, l’uso del colore e delle tecnologie. Di fronte ad un’immagine, quindi, una delle domande che ci si può porre riguarda gli eventi che sono inclusi e/o esclusi dalla documentazione visuale. Anche in questo caso quindi si possono identificare delle narrazioni dominanti e dei soggetti invisibili (Riessman, 2008). Essendo il focus di questo progetto costituito dalla rappresentazione di uomini e donne che lavorano nel sindacato, intendo utilizzare le immagini presenti negli archivi delle tre categorie confederali oggetto della ricerca per individuare come vengano visivamente costruiti e narrati i modelli di maschilità e femminilità egemoni e non, alternativi. Infine, una riflessione: utilizzare un approccio qualitativo implica la consapevolezza di posizionarmi in questi processi, come partecipe alla produzione dei significati e alla narrazione di storie e parte dell’oggetto di cui aspiro a tratteggiare il profilo (Cardano, 2002). Adottare una prospettiva narrativa non implica, infatti, solo il fatto di essere una story-taker che sollecita e raccoglie le storie, ma anche di partecipare attivamente alla loro costruzione. 18 Bibliografia Accornero, A. La parabola del sindacato. Ascesa e declino di una cultura. Il Mulino, Bologna 1992. Accornero, A. Prefazione, in Carrieri, M. Sindacato in bilico. Ricette contro il declino, Donzelli, Roma 2003. Acker, J. Hierarchies, Jobs, Bodies: A Theory of Gendered Organizations. Gender & Society, Vol. 4 No. 2, June 1990, 139-158. Beccalli, B. Le politiche del lavoro femminile in Italia: donne, sindacati e Stato tra il 1974 e il 1984, in AA.VV. Il futuro del sindacato, Ediesse, Roma, 1986. Biadene S., Piazza M., Le sindacaliste, in David P., Vicarelli G., Donne in professioni maschili, FrancoAngeli, Milano, 1994 Biancheri, R. Donne nel sindacato. Rappresentanza e pari opportunità, Edup, Roma, 2003. Bombelli,M. C. Soffitto di vetro e dintorni. Etas, 2000. Briskin, L. Worker militancies revealed: interrogating the statistical data. Paper prepared for the Union module of the Gender and Work database, April 20, 2006 Bruner, J. Actual Minds, Possible Worlds. Harvard University Press, Cambridge (Mass.) London 1986 – traduzione italiana, La mente a più dimensioni. Editori Laterza, Bari, 2005. Bruni, A., Gherardi, S. e Poggio, B. All’ombra della maschilità. Storie di impresa e di genere, Guerini, Milano, 2000. Bruni, A., Gherardi, S. e Poggio, B. Doing Gender, Doing Entrepreneurship: An Ethnographic account of Interwined Practices. Gender, Work and Organization. Vol. 11, No. 4 July 2004, 406-429. 19 Bruni, A., Poggio, B. Doing and saying gender in organization: a methodological reflection on gender as a social practice. Contributo per EGOS Colloquium, Ljubljana, luglio 2004. Bruni, A., Lo studio etnografico delle organizzazioni. Roma: Carocci, 2003. Butler. J. Undoing gender, Routledge, New Work – London, 2004 – trad. it. La disfatta del genere, Meltemi, Roma, 2006. Cardano, M. Tecniche di ricerca qualitativa. Carocci, Roma, 2003. Casalini, M. Tra guerre e dopoguerra: donne e uomini nel movimento operaio. In Chianese, G. (a cura di) Mondi femminili in cento anni di sindacato. Ediesse, Roma, 2008. Cavarero, A. Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione. Feltrinelli, Milano, 1997. Chianese, G. (a cura di) Mondi femminili in cento anni di sindacato. Ediesse, Roma, 2008. Connel, R. Masculinities, 1995 – trad. it. Maschilità. Feltrinelli, Milano 1996. Cranny – Francis, A., Waring, W., Stavropoulos, P. and Kirkby, J. (eds). Ways of thinking. In Gender studies: Terms and debates. New York: Palgrave, 2003, pp. 42 – 88. Czarniawska, B. Narrating the Organization. Dramas of Institutional Identity. University of Chicago press, Chicago, Ill. USA 1997 – trad. it., Narrare l'organizzazione. Edizioni di Comunità, Torino, 2000. Davies, B. and Harré R. Positioning: the discursive production of selves. Journal of the Theory of Social Behaviour, 1990, 1, 1, 43-63. De Beauvoir, S. Le deuxième sexe, 1949 - trad. italiana, Il secondo sesso, Il Saggiatore, 2002. De Lauretis, T. Technologies of Gender: Essays on Theory, Film, and Fiction. Bloomington: Indiana University Press, 1987. 20 Deutsch, Francine M. Undoing Gender, Gender & Society, Vol. 21 No. 1, 2007, 106-127. Eisenhardt K. M. (1989), Building Theories from Case Study Research, in Academy of Management Review, vol. 14, n. 4. Fullin, G. Vivere l’instabilità del lavoro, Il Mulino, Bologna 2004. Gherardi, S. Gender, Symbolism and Organizational Culture, Sage, London, 1995 – trad.it. Il genere e le organizzazioni. Cortina Editore, Milano 1998. Gherardi S. La pratica quale concetto fondante di un rinnovamento nello studio dell’apprendimento organizzativo, Studi organizzativi, n. 1, 2000. Gherardi, S. Presentazione, in Czarniawska, B. Narrare l'organizzazione. Edizioni di Comunità, Torino, 2000, 2000b. Gherardi, S. e Poggio, B. Creating and recreating gender order in organizations. Journal of World Business, Vol. 36 No. 3, 2001, 245-259. Gherardi, S. e Poggio, B. Uomo per fortuna, donna per destino. Etas, Milano, 2003. Gherardi, S. Organizational knowledge: the texture of workplace learning, Blackwell, Oxford, 2006. Gherardi, S. e Poggio, B. Gendertelling in organizations. Narratives from male-dominated environments, Stockholm ; Malmö: Liber, 2007. Goffman, E. Gender Advertisements, Harper, 1979. Guerra. E. Una nuova presenza delle donne tra femminismo e sindacato. La vicenda della Cgil, in Chianese, G. (a cura di) Mondi femminili in cento anni di sindacato. Ediesse, Roma, 2008. 21 Kanter, Rosabeth M. Men and Women of the Corporation. New York: Basic Books, 1977. – trad. it. Maschile e femminile in azienda. Milano: Olivares, 1988. Lunadei, S., Motti, L. e Righi, M. L. (a cura di), È brava, ma... Donne nella Cgil 1944-1962, Roma, Ediesse, 1999. Magatti, M., Fullin, G. (a cura di) Percorsi di lavoro flessibile, Carocci, Roma 2002. Martin, J. Deconstructing organizational Taboos: the suppression of gender conflict in organizations. Organization Science, Vol. 1, No. 4, 1990, 339-359. Martin, Patricia Y., “Mobilizing Masculinities”: Women's Experience of Men at Work, Organization, Vol. 8 No. 4, 2001, 587-618. Martin, Patricia Y., “Said and Done” Versus “Saing and Doing”. Gendering Practices, Practicing Gender at Work, Gender & Society, Vol. 17 No. 3, June 2003, 342-366. Motti, L. Rappresentazione del maschile e del femminile nell’iconografia del movimento operaio dalle origini al fascismo. In Chianese, G. (a cura di) Mondi femminili in cento anni di sindacato. Ediesse, Roma, 2008. Piccone Stella, S., Saraceno, C. Introduzione. La storia di un concetto e di un dibattito, in S. Piccone Stella, C. Saraceno (a cura di), Genere: la costruzione sociale del maschile e del femminile, Il Mulino, Bologna, 1996, pp. 7-37. Poggio, B. Editorial: Outline of a Theory of Gender Practices. Gender, Work and Organizations, Vol. 13 No. 2, May 2006, 225-233. Poggio, B. Mi racconti una storia? Il metodo narrativo nelle scienze sociali. Roma, Carocci 2004. Regalia, I. Rappresentanza del lavoro e cittadinanza sociale. Riflessioni per un mutamento desiderabile. Sociologia del lavoro, n. 80, 2000, pp. 49-56. 22 Reyneri, E. Sociologia del mercato del lavoro (Volumi I e II). Il Mulino, Bologna 2005 Righi, M. L. Il lavoro delle donne e le politiche del sindacato: dal boom economico alla crisi degli anni Settanta, in Chianese, G. (a cura di) Mondi femminili in cento anni di sindacato. Ediesse, Roma, 2008. Riessman, C. K. Analysis of personal narratives, in J.F. Gubrium & J.A. Holstein (eds.) Handbook of Interviewing, Sage, Newbury Park, pp. 695-710, 2002. Riessman, C. K. Narrative methods for the human sciences. Sage publications, Inc. California, 2008. Scott, Joan W., Gender: A Useful Category of Historical Analysis, American Historical Review, 1986, Vol. 91, 1053-1075. Stake R. E. (1994), Case Studies, in Handbook of Qualitative Research, a cura di N. K. Denzin e Y. S. Lincoln, Sage, Thousand Oaks, Londra e New Delhi. Strati, A. L’analisi organizzativa. Paradigmi e metodi. Carocci, Roma, 2004 Yin R. K. (1994), Case Study Reasearch. Design and Methods, Sage, Londra e New Delhi West, C. e Zimmerman, Don H. Doing Gender, Gender & Society, Vol. 1 No. 2, June 1987, 125-151. Wilson, F. Lavoro e organizzazione, Il Mulino, Bologna, 2004 – trad. Organizational behavior. A critical introduction, Oxford, Oxford University Press, 1999. 23