La rivoluzione francese ha prodotto un mutamento radicale della

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La rivoluzione francese ha prodotto un mutamento radicale della società europea
distruggendo l’antico regime. Trionfatrice fu la borghesia che con la rivoluzione industriale
aveva impresso al divenire storico un impulso decisivo. L’economia politica aveva acquisito, o
cercava di acquisire, lo statuto di una vera e propria scienza, con un valore superiore a quello
posseduto dall’etica individuale.
Effetti sociali della rivoluzione industriale
Le macchine automatiche avevano favorito la
creazione dell’industria manifatturiera che impiegava molti operai. Costoro erano per lo più
contadini che abbandonavano la campagna e si trasferivano nei distretti manifatturieri, di volta
in volta collocati o presso le materie prime o presso le fonti di energia (corsi d’acqua, miniere di
carbone), sperimentando i disagi di abitazioni inadeguate, di trasporti pubblici precari, di
protezione sociale inesistente. Per di più, come piaghe d’Egitto, giungevano i problemi
dell’alcolismo, della prostituzione, della delinquenza organizzata causati dai nuovi assetti
sociali. La produzione di massa trasformò l’artigiano in operaio, ossia servitore della macchina
automatica che sostituiva la perizia dell’artigiano. Poiché il lavoro femminile e infantile era
pagato di meno e il servizio alla macchina poteva essere uguale, aumentò l’impiego di donne e
bambini con ulteriori problemi sociali e morali. Il fenomeno dell’industrializzazione dapprima
interessò solamente alcuni paesi, ma nella seconda metà del XIX secolo si diffuse nell’intera
Europa ponendo alla Chiesa cattolica nuovi problemi.
Pio VII A partire del 1796 le armate della rivoluzione francese si erano riversate in Italia, in
Germania, in Belgio, in Olanda, in Svizzera. Napoleone guidò per quasi due anni la campagna
militare in Italia, costellata da tredici vittorie campali che trasformarono l’assetto politico della
penisola. Lo Stato della Chiesa dovette pagare una somma enorme per avere una tregua, ma poi
fu ugualmente inglobato in una repubblica giacobina che ordinò la deportazione dell’anziano
Pio VI in Francia. Egli morì a Valence nel Delfinato nel 1799. Il conclave si aprì nella
primavera successiva a Venezia, nell’isola di San Giorgio, sotto la protezione dell’Impero. Fu
eletto Pio VII Chiaramonti, già vescovo di Imola (1800-1823). Il nuovo papa ebbe l’aiuto di un
notevole diplomatico, il cardinale Ercole Consalvi che seppe collaborare in modo intelligente
con Pio VII. Quando Napoleone propose, con un gesto che gli era tipico, di stringere un
Concordato tra la Francia e la Santa Sede, Pio VII accolse immediatamente la proposta, anche
se il decisionismo di Napoleone non lasciava margini di contrattazione alle trattative. Nel 1801
fu firmato il Concordato con la Francia, il primo dell’epoca contemporanea. Il governo francese
lasciò cadere le decadi che avevano tentato di sostituire le settimane, tornando ad accettare il
culto pubblico cattolico, ma imponeva le dimissioni di tutti i vescovi e nuove nomine dosate in
modo da ammettere vescovi giurati, vescovi refrattari e vescovi di nuova nomina. La Chiesa
accettava di pregare ogni domenica per il capo dello Stato e di leggere dal pulpito i bandi statali.
Accettava inoltre la redazione di un Catechismo concordato con le autorità civili.
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Il fatto nuovo era la caduta delle cosiddette libertà gallicane, dovuta al fatto che Napoleone era
un generale abituato all’obbedienza di tutti i subordinati. Il papa era considerato il generale dei
vescovi che perciò gli dovevano obbedienza, ma Napoleone si riteneva in grado di piegare il
papa al suo volere. Molti francesi giacobini o anticlericali criticarono il Concordato, inducendo
Napoleone ad aggiungere i famosi Articoli organici che in fase applicativa ritiravano ciò che era
stato concesso nel testo ufficiale del Concordato.
Il regime napoleonico Poco dopo Napoleone trasformò la repubblica nel Primo Impero e il 2
dicembre 1804 volle incoronarsi in Notre Dame, alla presenza del papa che dovette assistere alla
cerimonia con gli altri dignitari. Indubbiamente l’incoronazione del 1804 doveva correggere
nell’immaginario collettivo quella dell’anno 800, quando Carlo Magno fu incoronato dal papa
Leone III, ammettendo qualche limitazione al proprio potere. L’anno successivo Napoleone fu
sconfitto a Trafalgar dalla flotta inglese di Nelson, anche se continuò a collezionare vittorie
campali, peraltro sempre più risicate, nel resto d’Europa. Quando Napoleone avvertì la forza
crescente della marea del nazionalismo che ricorreva alla guerriglia micidiale per i suoi eserciti
di occupazione nel Tirolo e in Spagna, si trovò costretto ad aggravare le misure di polizia e i
sospetti verso tutti. Nel 1809 fece arrestare e trasferire in Francia Pio VII, dopo aver proclamato
l’annessione all’Impero dello Stato della Chiesa. In seguito Napoleone ripudiò la prima moglie
incapace di dargli un erede, per sposare Maria Luisa d’Austria. Tra i cardinali, alcuni
approvarono il fatto, altri lo respinsero e perciò costoro non ebbero più la facoltà di indossare la
veste rossa. A Fontainebleau il papa Pio VII fu sottoposto a pressioni continue perché
sottoscrivesse un nuovo Concordato che concedeva all’imperatore la nomina dei vescovi. Alla
fine il papa Pio VII sembrò cedere, ma pochi mesi dopo ritirò la firma al documento disposto
anche al martirio. Nel frattempo Napoleone era stato sconfitto a Lipsia (1813) e l’anno dopo
dovette andare in esilio nell’isola d’Elba. Nel 1814, Pio VII poté tornare a Roma dove, con
molta fatica a causa della ristrettezza dei mezzi, iniziò il lavoro di ricostruzione delle strutture
ecclesiastiche sconvolte dagli avvenimenti rivoluzionari.
Il Congresso di Vienna
Le potenze che avevano sconfitto Napoleone cercarono di dare un
assetto al continente europeo sconvolto da guerre durate un quarto di secolo. Due furono i criteri
adottati nel corso dei lavori: mantenere l’equilibrio tra le potenze e restaurare i governi travolti
dalle rivoluzioni. Non furono restaurati i vecchi principati ecclesiastici presenti soprattutto in
Germania, a eccezione dello Stato della Chiesa, ripristinato in quasi tutta la sua dimensione
precedente, ma unicamente per impedire all’Austria una completa egemonia sulla penisola. A
ben vedere, non fu un atto di politica lungimirante. Alcune riforme introdotte dai francesi
furono mantenute, ma fu anche mantenuto il sistema di mettere a capo di ciascuna delle
legazioni un ecclesiastico, un regime ibrido che non poteva durare a lungo. L’introduzione di un
governo civile di laici su base democratica fu escluso da quella strana coalizione di potenze
conservatrici denominata Santa Alleanza, formata da Austria, Prussia, e Russia. Anche il papa
fu invitato a farne parte, ma ebbe il buon senso di rifiutare. Gli anni successivi al periodo
napoleonico furono molto difficili anche per il disordine climatico e per la smobilitazione di
enormi eserciti che aggravava il numero degli scontenti.
Dal giacobinismo al liberalismo
Il passaggio dall’epopea napoleonica alla grigia vita delle
monarchie restaurate a Vienna indusse una parte della borghesia inquieta a operare il passaggio
verso ideali nazionali anche sulla scorta della nuova cultura romantica che celebrava le origini
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medievali delle lingue moderne, operando il recupero dell’arte, della letteratura, della filosofia
di un’epoca disprezzata dalla cultura illuminista. La Chiesa cattolica ne ebbe qualche beneficio
perché con le sue istituzioni aveva salvato quel patrimonio: ci furono alcune conversioni di
intellettuali. Il nuovo ideale al quale aspirare divenne il governo inglese che nel corso di un
decennio, tra il 1822 e il 1832, promosse alcune riforme ritenute liberali, ossia la riforma della
polizia, il riconoscimento delle Trade Unions ovvero sindacati operai, l’abolizione del Test Act
che discriminava i cittadini di religione cattolica e infine una nuova legge elettorale che non
favoriva i proprietari terrieri, come era avvenuto in precedenza. I liberali europei apprezzavano
soprattutto le elezioni a suffragio ristretto che poneva nelle mani della borghesia le decisioni
della spesa pubblica. Gli antichi giacobini divennero perciò nazionalisti liberali.
Il Risorgimento italiano In Europa esistevano alcuni focolai rivoluzionari: i più gravi erano
la mancata unificazione italiana e tedesca, l’Irlanda sotto il giogo inglese e la Polonia sotto
occupazione russa. C’era inoltre la marea crescente delle etnie slave sotto il dominio degli
Absburgo e dell’Impero Osmanlio. Si cominciò con i complotti delle società segrete simili alla
carboneria, che hanno goduto nella storiografia italiana un posto di onore eccessivo. Per primo
il Mazzini condusse una critica nei loro confronti anche se nei fatti usò gli stessi metodi della
sollevazione popolare, sempre falliti. Mazzini dette vita a una intensa propaganda politica con
slogan come “Dio patria e famiglia”: certamente il primo termine era ambiguo, perché il
Mazzini professava un vago deismo che poteva andar bene in Inghilterra, ma non in Italia dove
il culto religioso si identificava con la Chiesa cattolica. La collocazione a sinistra del pensiero
mazziniano si deve alla sua opzione per il regime repubblicano. Il Mazzini si prestò a operazioni
come quella della Repubblica romana del 1849 che ancora una volta poteva andar bene in
Inghilterra ma non in Italia. L’unica lingua estera largamente conosciuta in Italia era il francese
e agli ordinamenti politici di quel paese sempre si ispirarono i nostri politici. La Francia tuttavia
si presenta come un paese con un unico centro, Parigi, mentre l’Italia presenta molte città che
potrebbero fungere da capitale: detto in altri termini essa presenta una tendenziale struttura
federale come la Germania. Il federalismo appariva consigliato anche dalla presenza in Italia del
papa che rappresenta un unicum mondiale. Vincenzo Gioberti sembrò cogliere questo fatto
come anche l’esistenza di un viceré austriaco a Milano. Mediante un libro di ostica lettura, con
una triplice aggettivazione per ogni sostantivo, il Gioberti indicava la possibilità della
riunificazione italiana sotto una presidenza onoraria del papa e una effettiva del governo
piemontese, in possesso di un buon esercito e di una monarchia ben radicata sul territorio.
Antonio Rosmini e Alessandro Manzoni che ne fu il più convinto sostenitore, furono fautori di
una soluzione che prevedesse il potere assegnato al governo piemontese, ma a patto di non
entrare in conflitto acuto col papa, dal momento che l’unica cultura popolare diffusa in Italia era
quella cattolica: doveva essere una soluzione graduale senza aggressioni rivoluzionarie. Si sperò
per qualche tempo che il Rosmini fosse nominato cardinale e Segretario di Stato per guidare una
riunificazione italiana che non avvenisse mediante traumi. A Milano, la città più avanzata sotto
il profilo tecnico-scientifico, operava Carlo Cattaneo, ostile alle chiacchiere romantiche, fautore
di una federazione repubblicana nello stile della Confederazione Elvetica o degli Stati Uniti
d’America. Odiava la prospettiva che Milano divenisse una prefettura piemontese e perciò, dopo
il 1848 abbandonò la Lombardia. Esisteva un partito d’azione fedele all’ideale della guerriglia,
del movimento senza troppi impacci ideologici, guidato da un vero genio della guerriglia,
Giuseppe Garibaldi, ricco dell’esperienza fatta in Sud America.
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Infine c’era a Torino l’unica grande mente politica di quegli anni, Camillo Cavour, che tuttavia
aveva il difetto di non conoscere la realtà italiana fuori del Piemonte, avendo molta più
consuetudine con gli ambienti di Ginevra, di Parigi e di Londra. Fu un giocatore spericolato e
alla fine conseguì qualcosa di grandioso, la riunificazione italiana, ma a prezzo di compromessi
mai più risolti in seguito.
Gregorio XVI e le missioni estere
Dopo i papati brevi di Leone XII Della Genga (18231829) e di Pio VIII Castiglioni (1829-1830), fu nominato Gregorio XVI Cappellari (18311846), un erudito duro e spigoloso come le montagne da cui proveniva. La storiografia italiana
l’ha trattato nel modo più aspro non riuscendo a capire che il suo atteggiamento era dettato dal
bisogno di guadagnare tempo in attesa di una qualche soluzione del problema italiano
accettabile. Esistono due aforismi ai quali poteva affidarsi: pacta sunt servanda e quieta non
movere. Ogni governo ha sempre avuto il diritto di reprimere con la forza i turbamenti
dell’ordine pubblico e perciò anche il governo di Gregorio XVI ricorse alle forze di polizia,
senza che per questo lo si possa qualificare di feroce repressore. Prima della nomina papale,
Gregorio XVI si era occupato della congregazione de Propaganda Fide dove impresse notevole
sviluppo alle missioni estere, con risultati notevolissimi che collocano il secolo XIX accanto al
XVI per importanza in questo settore. Occorre dire che anche governi come quelli di Napoleone
I e poi del nipote Napoleone III furono interessati alle missioni e le finanziarono, giudicandole il
mezzo migliore per preparare il terreno a una possibile occupazione militare successiva. Nel
1822, Pauline Jaricot creò in Francia un’associazione missionaria i cui soci si impegnavano a
mettere da parte un soldo alla settimana per le missioni. Quelle offerte poterono finanziare una
serie di esplorazioni e di missioni in Africa e in Oceania dove furono aperti molti campi
promettenti di apostolato, non necessariamente come preludio a una successiva occupazione
coloniale, peraltro non condannata da alcun europeo: allora tutti erano convinti che la cosa
migliore per gli abitanti fuori d’Europa fosse diventare un poco più simili agli europei.
Pio IX
L’apologetica patriottica ha sempre riservato un rude trattamento alla persona di Pio
IX Mastai-Ferretti, ma sempre tacendo che sia il mito creato intorno alla sua persona sia la
successiva demolizione hanno poco a che fare con Pio IX. Fu eletto nel 1846 e morì all’inizio
del 1878 dopo il più lungo pontificato della storia. Non avendo il temperamento del
predecessore, non poteva seguire il suo stile di governo. Subito dopo l’elezione fece qualcosa
che era usuale in simili occasioni, un’amnistia che comprese anche i detenuti politici e subito
per tutta l’Italia i dimostranti si misero a gridare “Viva Pio IX”, ma unicamente perché la polizia
non poteva arrestarli per un’acclamazione del genere. Pio IX era considerato un liberale, ma si
trattava di fama usurpata: si sapeva che aveva letto il libro di Gioberti senza farlo condannare.
Amava molto i giochi di parole, le sciarade e spesso chiamava le cose col loro vero nome, cosa
che il predecessore non avrebbe mai tollerato. Dopo due anni di cattivi raccolti, che in Irlanda
divennero tragedia, nel 1848 iniziò una serie di sollevazioni, ciascuna con obiettivi e
motivazioni peculiari, spesso frutto di infatuazione romantica. A gennaio ci fu la ribellione di
Palermo sul fondamento di vecchie ruggini con Napoli, usando come manovalanza il
sottoproletariato locale, come l’avrebbe definito Marx. Poi a febbraio fu la volta di Parigi dove
fu proclamata una seconda repubblica da parte di gente che sognava il secondo impero: a
giugno, dopo una strage di operai fu deciso che la festa era finita.
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A marzo fu la volta di Vienna dove i liberali erano stanchi del cinismo di Metternich, tranne poi
a ricredersi prontamente quando sperimentarono la possibile caduta dell’Impero: si
accontentarono della proclamazione a imperatore del giovanissimo Francesco Giuseppe che
sembrava ridare slancio all’Impero. A Venezia e Milano fu colta al volo la possibilità della
ribellione, con richiesta di intervento al governo piemontese di Carlo Alberto. Costui spese un
mese in Lombardia, dopo la ritirata di Radetzki in direzione di Verona, per chiarire che la
regione doveva ritenersi annessa al Piemonte e poi andò incontro alla sconfitta militare a luglio.
La Repubblica Romana
Come avviene per le valanghe, tutti si misero d’impegno per
realizzare ciascuno il proprio progetto. A Roma il papa fu costretto a concedere la Consulta e
poi un governo democratico. Fu scelto a presiederlo un diplomatico che in Francia si era fatto
una certa nomea di costituzionalista, Pellegrino Rossi, pugnalato a morte da un oste prezzolato
da alcuni esagitati che si ritenevano menti politiche. Rosmini si era fatto accreditare dal governo
piemontese come ambasciatore per ottenere dal papa l’intervento nella guerra di Lombardia e
per stipulare un nuovo concordato col governo piemontese. Era pronta per lui la nomina a
cardinale e Segretario di Stato. Dopo l’assassinio del Rossi e dopo un assalto al Quirinale che
costò la vita a un segretario del papa, Pio IX decise la fuga da Roma con asilo politico a Gaeta,
non a Napoli, per non figurare al seguito del governo di Ferdinando II di Borbone. Il fallimento
della missione del Rosmini significò un mutamento di politica nei confronti del movimento di
riunificazione dell’Italia. A Roma prese il potere il Mazzini con l’aiuto militare di Garibaldi. Fu
proclamata la Repubblica Romana mentre nel resto d’Europa quasi tutti i focolai d’incendio
venivano spenti da governi ben decisi a rafforzare le misure di polizia. A Roma e nel resto dello
Stato della Chiesa ci furono le solite sopraffazioni: confisca di beni ecclesiastici, omicidi, furti,
profanazioni di chiese e conventi. In Francia prese il potere come presidente Luigi Napoleone
che aveva fatto il suo apprendistato da complottista carbonaro, trascorrendo il tempo
dell’università, come amava dire, in prigione. Per avere il consenso dei cattolici, ma soprattutto
per avversare un possibile intervento austriaco, decise l’invio di alcune divisioni a Roma per
sloggiare Garibaldi. Nel luglio 1849 il progetto riuscì. Il papa Pio IX rimandò il ritorno a Roma
fino alla primavera del 1850.
Cavour Nel 1849 in Piemonte c’era stata un’assurda coda della guerra dell’anno precedente,
terminata in tre giorni con la disfatta di Novara. Carlo Alberto lasciò il trono al giovane figlio
Vittorio Emanuele II, un personaggio di modesta levatura intellettuale che ebbe la fortuna di
incontrare un vero statista sul suo cammino, il Cavour. Unico tra gli Stati usciti dalla tempesta
dell’anno precedente, il Piemonte mantenne il sistema costituzionale con una Camera elettiva,
anche se gli elettori erano meno del 3% della popolazione. Cavour fu ministro dell’agricoltura e
dal 1852 primo ministro oltre che titolare di altri ministeri importanti. Decise di accendere
prestiti ingenti a Londra e Parigi legando le sorti del Piemonte a quei paesi. Furono costruite
strade, porti, ferrovie obbligando l’economia piemontese ad accettare le regole del libero
scambio commerciale. La tassazione era pesante, secondo un’antica tradizione piemontese. Poi
ci fu l’intervento nella guerra di Crimea nel 1854 per accreditare di liberale la politica
piemontese. Nel 1855, con la guerra ancora in corso, Cavour realizzò il suo progetto di politica
ecclesiastica, col pretesto di ottenere risparmi di gestione del bilancio statale. Fece compiere un
accurato censimento degli stabilimenti ecclesiastici piemontesi e ne fece chiudere la metà. Col
ricavato dalla vendita di quei beni stabilì le nuove regole degli enti risparmiati. Già era stato
abrogato il diritto d’asilo e il funzionamento dei tribunali ecclesiastici.
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I Gesuiti erano stati cacciati dal Piemonte fin dal 1848 e le loro scuole chiuse (erano in tutto una
ventina di persone, spesso imparentate con la nobiltà locale): si trattava di stabilire con
chiarezza chi governava in Piemonte, ma era anche un modo per far capire come si intendeva
governare in futuro a Roma. La nuova sensibilità per le opere antiche impedì episodi gravi di
iconoclastia con distruzione di dipinti e altre forme artistiche. Non andò altrettanto bene per le
biblioteche monastiche, con molte opere mandate al macero. Il contraccolpo interno fu duro e
alle elezioni furono eletti alcuni deputati ostili al Cavour. Il primo ministro reagì annullando le
elezioni in quei collegi. Ci furono petizioni popolari con molte più firme dei voti che
mandavano al parlamento i deputati, ma della cosa non si tenne alcun conto. Ora bisognava fare
la guerra all’Austria, ma con l’aiuto della Francia, perché diversamente la guerra non sarebbe
mai stata vittoriosa. Il progetto si realizzò nella guerra, molto sanguinosa, del 1859, che tuttavia
fruttò solamente l’annessione della Lombardia, perché Napoleone III incontrò in patria una
crescente ostilità. A valanga seguirono le annessioni dei ducati padani di Parma e Modena, delle
legazioni di Romagna e del granducato di Toscana. Nel maggio 1860 con aiuti del governo,
partirono i Mille di Garibaldi e nel giro di poche settimane cadde il regno delle Due Sicilie. Nel
marzo 1861 avvenne a Torino la proclamazione del regno d’Italia: all’appello mancavano
solamente Roma e Venezia, un obiettivo raggiunto nel corso del decennio seguente.
L’azione religiosa di Pio IX
Sembra che Pio IX, di fronte a questi avvenimenti, assumesse
un atteggiamento distaccato: se Dio voleva salvare lo Stato della Chiesa doveva indicargli i
mezzi per farlo, perché di scienza propria non aveva alcuna possibilità di intervento.
Contrariamente a quel che si ripete, Pio IX riteneva che l’Italia unita fosse una grande idea. La
cosa curiosa è che anche le decisioni propriamente religiose del papa furono criticate. La
proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione era da secoli in gestazione, una
conclusione ritardata da polemiche tra scuole teologiche, alcune delle quali non negavano il
fatto in sé, ma solamente l’opportunità della decisione. L’8 dicembre 1854 l’obbligatorietà del
dogma fu proclamata nella cattedrale di San Pietro. Quattro anni dopo, con le apparizioni di
Lourdes, si può affermare che avvenne una specie di ratifica soprannaturale della decisione.
Nel 1864, sempre nella data dell’8 dicembre evidentemente gradita al papa, avvenne la
pubblicazione dell’enciclica Quanta cura, seguita da una silloge intitolata Syllabum. Il
documento raccoglie numerosi interventi dei papi suoi predecessori, quasi per confermare che si
tratta di un insegnamento usuale nella Chiesa. Non fu compiuto alcun tentativo di addolcimento
del linguaggio, compromettendo ogni sforzo volto a risolvere la questione di Roma con
trattative.
Seguì la terza decisione epocale di Pio IX, ossia la convocazione di un concilio ecumenico
dopo tre secoli dall’effettuazione del precedente. Il concilio doveva riunirsi l’8 dicembre 1869 e
fu preparato come si poteva fare coi mezzi di allora.
Problemi di comunicazione Era difficile per la Chiesa, nel XIX secolo, comunicare ai fedeli,
sul piano razionale, i contenuti della fede. Le secolarizzazione, ossia la tendenza ad escludere
l’esistenza o la rilevanza del soprannaturale, sembrava assodata. La cultura egemone appariva
ottimista, fiduciosa nel futuro. Il mondo era stimato un’immensa riserva di materie prime in
attesa di essere valorizzate dall’intraprendenza della borghesia ricca. Le grandi potenze europee,
Francia e Inghilterra, dominavano il mondo; Germania e Russia si apprestavano a emergere
come grandi potenze; in grave ritardo appariva l’Impero turco, risparmiato dalla politica
internazionale per impedire alla Russia un ingresso in forze nel Mediterraneo.
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Le riunificazioni italiana e tedesca apparivano la naturale conclusione del processo politico che
cercava di identificare ogni nazionalità con uno Stato, un principio abbastanza problematico,
perché moltiplicava i conflitti etnici specialmente nella regione dei Balcani. La Chiesa cattolica,
fondata su un principio universalista, non poteva accettare la logica del nazionalismo, ma in
paesi come l’Irlanda e la Polonia essa era trascinata nelle contese politiche in quanto religione di
una minoranza oppressa.
Il Movimento di Oxford Appare di estremo interesse la vivace ripresa della Chiesa cattolica
in Inghilterra nel secolo XIX. Le riforme culminate nel 1832 col rinnovamento delle
circoscrizioni elettorali assicurarono per oltre un ventennio il potere politico al partito liberale. I
cattolici furono esonerati dalla discriminazione operata dal Test Act, l’obbligo di un certificato
di anglicanesimo per chi entrava in Parlamento, nell’amministrazione pubblica o nelle università
più prestigiose. Poiché i cattolici non potevano accettare quella specie di sincretismo, erano
esclusi da quegli ambiti. Per un decennio, tra il 1832 e il 1841, a Oxford operò un gruppo di
studiosi anglicani che fecero proprio il metodo storico-critico applicato alle questioni
teologiche. Il principale studioso fu John Henry Newman, Fellow all’Oriel College. Nel 1832
egli pubblicò un libro che conserva il suo valore, Gli ariani del IV secolo, seguito da novanta
trattati, più o meno lunghi, scritti da collaboratori ed amici di Newman, opere subito
riconosciute come favorevoli alla Chiesa cattolica. Infatti, tra i protagonisti della questione
ariana era possibile stabilire un confronto coi protagonisti della riforma protestante,
comprendendo che la Chiesa cattolica permaneva nell’ortodossia in entrambe i casi. Newman si
sentì costretto, per onestà intellettuale, ad abbandonare il suo ministero religioso e il suo
insegnamento a Oxford, perdendo una fama e un prestigio immensi. Poi chiese l’ingresso nella
Chiesa cattolica, dove non trovò consensi o porte spalancate, perché la comunità presentava un
profilo intellettuale e sociale piuttosto modesto in quel momento. Le conversioni al
cattolicesimo divennero alcune migliaia, tanto che a metà del secolo XIX fu deciso di ristabilire
una gerarchia ordinaria comprendente otto sedi vescovili. Wiseman, già rettore del seminario
inglese a Roma, fu nominato cardinale e primate d’Inghilterra. Ci fu qualche manifestazione di
trionfalismo fuori luogo che permise al governo essenzialmente radicale di Palmerston e Russel,
di votare una legge infliggente una multa di cento sterline a chi usurpasse il titolo di vescovo in
una città dove ci fosse un vescovo protestante. Il radicalismo anticattolico si manifestò
soprattutto nell’entusiasmo riservato dal governo britannico a personaggi come Garibaldi o
Mazzini o Cavour che si apprestavano distruggere la Stato della Chiesa e il regno delle Due
Sicilie, giudicato un fedele supporto del primo. Il Movimento di Oxford è importante perché
prelude a una grande ripresa delle scienze ecclesiastiche all’interno della Chiesa cattolica.
Newman, quand’era ormai anziano, fu nominato cardinale, un riconoscimento gradito a tutti gli
inglesi.
Il concilio Vaticano I I lavori preparatori per un concilio sono molto complessi. Per la prima
volta dovevano prendere parte ai lavori prelati di tutti i continenti del mondo. Furono formate
commissioni di teologi, ciascuna delle quali studiava la redazione di un documento da
sottoporre all’approvazione dei padri conciliari. Nelle sessioni generali i documenti, dopo esser
stati studiati ed aver accolto gli emendamenti suggeriti dai padri, potevano essere approvati.
C’era nell’aria il progetto di introdurre come dogma l’infallibilità del papa quando, in temi
relativi al dogma e alla morale, egli proponesse una verità da credere sottraendola alle
discussioni dei teologi.
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Il problema era stato dibattuto nel corso del concilio di Trento, ma era stato escluso per
affrettare la fine dei lavori di quel concilio, ma soprattutto perché il papa era allora a capo di
uno Stato e si considerava una dichiarazione indebita ritenerlo infallibile. Ora tutti sapevano che
lo Stato della Chiesa era avviato alla fine. L’ostacolo principale opposto a questa dichiarazione
venne da John Acton, professore di storia a Cambridge, un cattolico convinto che simile
dichiarazione avrebbe compromesso la felice congiuntura del cattolicesimo inglese.
Il primo documento approvato dai padri conciliari fu la Costituzione dogmatica Dei Filius
che riaffermava la natura divina di Cristo contro tutte le affermazioni tendenti a negare in Cristo
la pienezza della sua natura divina. Quando fu annunciato ai padri che il successivo documento
da discutere era quello relativo all’infallibilità papale avvenne qualche tentativo di bloccare la
discussione, ma in seguito il documento ebbe la necessaria approvazione. Nel corpo ecclesiale il
dogma fu accettato senza strappi eccessivi perché era dottrina comune nella Chiesa l’esistenza
di un ministero petrino assistito dallo Spirito Santo col compito di sovrintendere la dottrina
comune in tutta la Chiesa. Unico episodio rilevante fu il rifiuto del teologo tedesco Ignaz
Döllinger che creò con qualche vescovo la Chiesa dissidente dei Vecchi Cattolici.
A metà luglio 1870 la Francia dichiarò guerra alla Prussia e i padri conciliari si affrettarono a
fare ritorno ciascuno nella propria sede. Il 20 settembre, dopo il ritiro delle truppe francesi,
Roma fu occupata dall’esercito italiano: la resistenza opposta dalle truppe svizzere che
presidiavano la città fu meramente simbolica. Il papa si dichiarò prigioniero in Vaticano e la
diplomazia internazionale accettò Roma come nuova capitale dello Stato italiano.
La questione romana
La morte colse Pio IX circa un mese dopo la morte del re Vittorio
Emanuele II, nel febbraio 1878, dopo quasi trentatre anni di pontificato. Il papa defunto aveva
disposto la sua sepoltura nella basilica paleocristiana di San Lorenzo al Verano, che in
precedenza aveva fatto restaurare. Il trasporto funebre fu organizzato solamente due anni dopo e
dette luogo a spiacevoli incidenti a causa della mancata accettazione, da parte della Santa Sede,
della famosa Legge delle guarentigie che il parlamento italiano, nel maggio 1871, aveva votato.
Si trattava di una legge materialmente magnanima perché concedeva alla Santa Sede, per il suo
funzionamento, la somma trovata nell’ultimo bilancio dello Stato Pontificio e perciò sufficiente
per il mantenimento di quegli uffici. Tuttavia quella legge aveva il difetto di risultare come una
unilaterale dichiarazione di intenzioni dello Stato italiano, senza ammettere la Santa Sede come
alta parte contraente di un patto di diritto internazionale, e perciò una concessione che poteva
essere revocata da un qualunque governo successivo. Il giovane Stato italiano si era formato in
modo fortunoso e molti temevano che da un momento all’altro potesse crollare. Perciò si aprì un
contenzioso tra Chiesa e Stato che, a parole, fu molto aspro ma che nei fatti doveva trovare un
modus vivendi.
San Giovanni Bosco
Era noto che Pio IX nutriva particolare venerazione nei confronti del
sacerdote piemontese don Giovanni Bosco, una figura di spicco nel clero piemontese che in
quell’epoca conobbe una vera fioritura di santi. In Piemonte la monarchia dei Savoia aveva
secolari radici e a ogni piemontese il conflitto col papa appariva doloroso. Ci sono episodi della
vita di don Bosco, caratterizzata da carismi eccezionali, come quando il santo inviò un valletto a
corte annunciando nel 1855 un lutto. Poi il valletto fu inviato di nuovo dicendo che si trattava di
lutti: nel giro di un mese e mezzo morirono la regina e un bambino neonato, la madre del re e il
fratello minore. Vittorio Emanuele II non aveva un temperamento propriamente religioso, ma
era sicuramente superstizioso.
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Il Santo fece sapere che chi rubava alla Chiesa non arrivava alla quarta generazione. Il re non
aveva compreso tutte le implicazioni del regime costituzionale e continuamente cercava di
attuare una politica personale, scrivendo lettere a Pio IX dalle quali risulta il suo dissenso
rispetto alle decisioni prese dal primo ministro. Peraltro, la politica dinastica dei Savoia non era
mai andata tanto per il sottile: arraffava tutto quel che era possibile, senza scrupoli legalisti. Pio
IX doveva resistere a parole, ma si rendeva conto dei problemi creati nelle diocesi italiane dalla
mancanza dei vescovi quando venivano incarcerati o morivano. Lo Stato italiano pretendeva
d’aver ereditato il diritto di placet ed exequatur posseduti dai governi preunitari e se ne valeva
per imporre alla Santa Sede il riconoscimento dei fatti compiuti. Don Bosco era esemplare
suddito dei Savoia e fedele alle direttive del papa e perciò poteva fungere da canale ufficioso tra
le due entità che non avevano rapporti diplomatici tra loro. Egli compiva frequenti viaggi per
tutta l’Italia e dovunque arrivasse cercava di conoscere candidati idonei all’episcopato. Doveva
escludere le persone che avessero fatto parlare di sé, che avevano scritto qualcosa di
compromettente o che risultassero sgradite al prefetto locale. L’elenco delle persone idonee
veniva portato alla Santa Sede che conduceva l’inchiesta canonica e poi portato da don Bosco al
ministero competente che riconosceva la dirittura morale del fondatore dei Salesiani, una
congregazione di nuovo stile, con statuti peculiari per non ricadere nelle corporazioni religiose
abolite dal nuovo Stato. Si trattò di un evidente “compromesso”, di una “combinazione”, tipica
della mentalità italiana.
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