UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE
FACOLTA’ DI ECONOMIA
Corso di laurea in Economia e commercio
Tesi di laurea in MARKETING (Imprese industriali e commerciali)
“Strategie di posizionamento e immagine di marca:
aspetti teorici e casi empirici nel largo consumo”
Relatore Prof. ALDO BURRESI
TESI DI LAUREA DI
FABIO MORETTI
ANNO ACCADEMICO 1999/2000
INDICE
PREMESSA
7
Capitolo 1
DALLA VISIONE AL POSIZIONAMENTO
12
1.1 – Le ragioni del posizionamento
12
1.1.1 – Il rapporto strategico impresa-mercato tra presente e visione:
una prospettiva.
13
1.1.2 – Nuove sfide e nuove spinte per il posizionamento.
20
1.2 – La strategia di posizionamento
1.2.1 – Struttura di mercato e posizionamento.
1.2.2 – Definizione di posizionamento.
1.2.3 – I requisiti del posizionamento.
1.2.4 – Il rapporto tra strategia e posizionamento.
23
23
26
28
32
1.3 – Origine e natura del posizionamento
1.3.1 – Vantaggio competitivo e posizionamento.
1.3.2 – Differenziazione e posizionamento.
39
39
44
1.4 – Concetto, identità ed immagine di marca come decisioni
strategiche
1.4.1 – La relazione tra prodotto e cliente.
1.4.2 – Il concetto di marca.
1.4.3 – Ideazione e gestione dell’identità di marca.
50
51
56
63
-2-
Capitolo 2
STRUTTURA E DINAMICA DEGLI SPAZI MENTALI: IL
RAPPORTO CONSUMATORE-MARCA
71
2.1 – I processi mentali che sovrintendono alla percezione e alla scelta
della marca
71
2.1.1 – Dallo stimolo al comportamento. Un modello esplicativo del
processo di percezione, elaborazione, valutazione.
72
2.1.2 – Il legame tra memoria e comportamento.
81
2.1.3 – Il processo di categorizzazione delle percezioni
88
2.2 – Il consumatore e la marca
97
2.2.1 – Le diverse tipologie di processi decisionali del consumatore. 98
2.2.2 – Il ruolo socio-psicologico della marca.
105
2.2.3 – L’interazione sociale come vettore comunicativo dell’immagine
di marca.
107
2.2.4 – L’auto-concetto.
112
2.3 – Le associazioni cognitive come basi per il posizionamento
2.3.1 – Le associazioni.
2.3.2 – Tipi di associazioni.
114
114
117
Capitolo 3
IL POSIZIONAMENTO E LE STRATEGIE COMPETITIVE
127
3.1 – Il sistema di attività dell’impresa
3.1.1 – Strategia ed efficacia operazionale.
3.1.2 – La sostenibilità delle posizioni strategiche: i trade-off.
3.1.3 – Identificazione e sviluppo delle associazioni e delle reti di
attività.
127
127
133
3.2 – L’approccio strategico alla competizione per le posizioni
3.2.1 – Strategia difensiva.
3.2.2 – Strategia offensiva.
3.2.3 – L’attacco ai fianchi.
3.2.4 – La competizione basata sulla “guerriglia”.
145
148
153
155
158
-3-
136
3.3 – La marca e le diverse fasi della competizione
3.3.1 – La gestione del ciclo di vita della marca.
3.3.2 – L’entrata nel mercato.
3.3.3 – Il riposizionamento.
163
163
167
181
3.4 – L’estensione di marca
3.4.1 – Le ragioni dell’estensione di marca.
3.4.2 – Aspetti problematici delle estensioni di marca.
3.4.3 – L’approccio multimarche.
3.4.4 – Le estensioni di marca verticali.
187
188
192
196
200
Capitolo 4
LA COMUNICAZIONE DEL POSIZIONAMENTO
206
4.1 – Il ruolo della comunicazione nel governo del posizionamento 206
4.1.1 – La funzione comunicativa degli elementi del marketing mix. 207
4.1.2 – Posizionamento e modelli comunicativi.
217
4.1.3 – Lo stimolo delle percezioni.
224
4.2 – Il messaggio: nome, simbolo, slogan
4.2.1 – Il primato della parola.
4.2.2 – La scelta del nome.
4.2.3 – I simboli.
4.2.4 – Lo slogan.
228
230
236
248
252
4.3 – Posizionamento e persuasione
4.3.1 – Persuasione, potere e comunicazione.
4.3.2 – Tecniche di persuasione.
4.3.3 – Dinamicità delle posizioni strategiche: la marca tra
cambiamento di prospettiva e adattamento.
256
256
259
269
Capitolo 5
IL POSIZIONAMENTO DEI PRODOTTI ALIMENTARI DI LARGO
CONSUMO: ALCUNE EVIDENZE EMPIRICHE
272
5.1 – Presentazione
272
-4-
5.1.1 – Il mercato dei pasti destrutturati.
5.1.2 – Il mercato dei prodotti a supporto del pasto.
5.1.3 – Il mercato del cioccolato.
5.1.4 – Il mercato del caffè.
277
280
281
285
5.2 – Il posizionamento e la capacità della marca di generare nuove
categorie
286
5.2.1 – Ambiente concorrenziale e generazione di significati come
determinanti della posizione competitiva.
286
5.2.2 – Market-creators.
296
5.2.3 – Category-innovators.
323
5.2.4 – Alcune evidenze empiriche per l’interpretazione della relazione
tra market creation capability e posizionamento della marca.
340
5.3 – Analisi del trend e prospettive di sviluppo per il posizionamento
343
5.3.1 – Il rapporto tra i trend e la strategia.
343
5.3.2 – Dinamica del posizionamento e trend di fondo.
349
CONCLUSIONI
357
BIBLIOGRAFIA
366
-5-
Alla mia famiglia
-6-
PREMESSA
L’interesse per i concetti che ruotano attorno alla nozione di
posizionamento è cresciuto notevolmente negli ultimi anni, sia da parte
degli studiosi, che di coloro i quali, nelle imprese, traggono da esso utili
indicazioni – a livello strategico ed operativo – per affrontare la multiforme
e dinamica realtà del mercato. I primi trovano nel posizionamento una
formidabile ed inesauribile fonte alla quale attingere e da cui prendere
spunto per conferire nuove connotazioni a temi che, altrimenti,
risulterebbero per molti aspetti sviscerati, ponendosi in una differente
prospettiva rispetto ad essi in modo da integrarne e svilupparne i contenuti
ormai acquisiti. Gli operatori d’impresa beneficiano, invece, di una sintesi
rappresentativa della competizione che, ponendo le basi per l’avanzamento
dall’orientamento al mercato conseguito, ha, in particolare, il merito di
rendere più diretta e immediata la relazione con esso.
Una prima definizione che deriviamo da Valdani esprime il
posizionamento come «lo spazio che un prodotto o una marca occupano in
un dato mercato in relazione al modo in cui sono percepiti da un gruppo
“rilevante di consumatori” rispetto ai prodotti con i quali sono in
concorrenza»1. A ciò Kotler aggiunge un più spiccato riferimento agli
aspetti percettivi del rapporto con il consumatore affermando che per
posizionamento si intende «l’insieme di iniziative volte a definire le
caratteristiche del prodotto dell’impresa e ad impostare il marketing mix
più adatto per attribuire una certa posizione al prodotto nella mente del
consumatore»2. Tuttavia, soprattutto da parte del management d’impresa, il
termine viene spesso travisato rispetto al suo messaggio originale,
mancando ancora una piena consapevolezza e conoscenza di ciò che il
1
E. VALDANI, Marketing strategico. Gestire il mercato per affermare il
vantaggio competitivo, ETAS Libri, 1986, p. 283.
2
P. KOTLER, Marketing management. Analisi, pianificazione e controllo, ISEDI,
1986, p. 348.
-7-
posizionamento strategico significhi e comporti per il nuovo rapporto
impresa-mercato che tale concetto va a configurare.
L’argomento in questione è quanto di più vasto ed eterogeneo si
possa trovare sebbene sia riscontrabile un senso comune alle sue
articolazioni. Confluiscono, infatti, nel posizionamento concetti e
significati appartenenti un po’ a tutte le aree del marketing. Nella sua più
significativa accezione, quella per cui rappresenta, come sottolineano
Guatri e Vicari, «la collocazione del prodotto in un sistema di percezioni,
riguardanti l’offerta complessiva al consumatore» esso si lega a doppio filo
con la differenziazione. In proposito, proseguono gli autori: «Ciò è
possibile in quanto ogni prodotto ha un complesso di caratteristiche che lo
differenziano più o meno dai prodotti concorrenti e che lo qualificano in un
certo modo nelle considerazioni del consumatore, consentendogli di
occupare una certa posizione relativamente ad altri prodotti»1.
Valdani si spinge oltre affermando: «Il concetto di posizionamento è
il frutto dell’applicazione dei principi e della politica di differenziazione
dei prodotti e delle marche in uno specifico segmento di mercato»2.
L’autore coglie, inoltre, l’inscindibile relazione tra posizionamento e
immagine evidenziando che «Il concetto di posizionamento è supportato
dal profilo simbolico dell’immagine del prodotto che rafforza la realtà
fisica di una marca in termini di significati, motivi, atteggiamenti, e
reazioni espresse dal consumatore». Infatti, descrivendo il processo di
posizionamento, Valdani sottolinea come «il prodotto e, più in generale,
l’offerta dell’impresa ha valore per i benefici che promette/assicura al
consumatore. Tali benefici hanno natura tangibile e intangibile e sono
percepiti dal consumatore attraverso simboli e segni. L’impresa deve perciò
costruire un’offerta il più possibile rispondente alle attese della
clientela/obiettivo, distinta da quella dei concorrenti e fare in modo che
l’immagine e il valore che ne risultano vengano percepiti e memorizzati,
così da fidelizzare il consumatore».
Il posizionamento ha una valenza strategica che prescinde dalle
possibilità che le imprese hanno di applicarne i principi a livello operativo.
1
2
L. GUATRI, S. VICARI, Il marketing, Giuffrè, 1986, p. 601.
E. VALDANI, 1986, op cit., pp. 281-290.
-8-
Se, cioè, taluni degli strumenti utilizzati per la generazione di una strategia
di posizionamento possono essere appannaggio solamente di quelle
imprese che dispongono di adeguate competenze e potenzialità (anche
finanziarie), ciò non implica, tuttavia, che le altre non possano seguire,
seppure in maniera più approssimativa ed intuitiva, le principali indicazioni
offerte da questo concetto il cui valore non risulta, solo per questo,
inficiato. Al contrario, cimentarsi con lo studio e l’analisi del proprio
posizionamento costituisce, di per sé, un utile esercizio in grado di
sviluppare la capacitò strategica dell’impresa.
L’evidente impronta strategica del posizionamento connota i diversi
suoi aspetti che andremo ad analizzare e la relazione tra strategia e
posizionamento è al centro del primo capitolo dal quale emergerà, inoltre, il
fondamentale ruolo di sviluppo svolto dall’immagine di marca nel conferire
valore alla particolare posizione che essa assume nel mercato. Se in passato
il successo di un prodotto dipendeva soprattutto da tre fattori – qualità,
marca, distribuzione –, oggi, con il raggiungimento di un livello di qualità
accettabile da parte della maggioranza dei concorrenti, è soprattutto la
conoscenza che il consumatore ha della marca, assieme al grado di
aderenza di questa alle attese del primo, a costituire l’elemento
discriminante tra il successo ed il fallimento dell’impresa nell’arena
competitiva.
Strettamente legata alle problematiche dell’immagine di marca è la
comprensione dei meccanismi percettivi e interpretativi che sono alla base
delle scelte del consumatore, oggetto di studio del secondo capitolo. Una
marca diviene tanto più forte e affermata, quanto più rispecchia la
personalità di chi acquista, consentendone una identificazione ideale e
gratificante: è attraverso il posizionamento strategico della marca e
l’immagine ad essa associata che l’impresa può riuscire ad orientare la
scelta del potenziale acquirente tra le diverse offerte presenti sul mercato.
A tal fine, occorre riuscire a comprendere quali siano i meccanismi
attraverso i quali avvengono i processi mentali di percezione,
interpretazione ed assegnazione di significati dei messaggi comunicativi da
-9-
parte della mente, nonché le ragioni che sono alla base del mutare degli
atteggiamenti del mercato verso una data marca1.
Una volta completata l’analisi della marca e della sua relazione con
le associazioni indotte nella mente dei potenziali acquirenti, si pone per
l’impresa il problema di tradurre ciò in una condotta idonea a realizzarne
gli obiettivi. Nel terzo capitolo, quindi, l’attenzione è rivolta alla
determinazione della strategia competitiva che meglio si accorda con il
posizionamento perseguito e con la situazione concorrenziale in cui
l’impresa è inserita, con un particolare riguardo per le problematiche
connesse ai diversi aspetti del riposizionamento.
Nel quarto capitolo, vedremo come una particolare attenzione vada
posta alla comunicazione nelle diverse forme in cui essa può esplicitarsi
nella realtà, nel tentativo di determinare la generazione e la successiva
accettazione di un’idonea identità ed immagine di marca. Il concetto di
posizionamento strategico comporta una nuova e diversa attitudine di
pensiero in grado di ribaltare i canoni tradizionali del sistema comunicativo
d’impresa, ponendo al centro dell’attenzione non il prodotto, ma la mente
del potenziale consumatore.. Se è vero che tutto comunica e che non si può
non comunicare, allora diviene subito manifesta tutta l’importanza che
riveste per le imprese un simile concetto che, andando oltre la pura e
semplice strategia pubblicitaria, investe i diversi aspetti nei quali si esprime
la loro offerta.
L’analisi empirica di alcuni casi aziendali relativi a brand operanti
nel largo consumo permette, infine, di comporre in un quadro d’insieme gli
aspetti teorici sviluppati nei quattro capitoli precedenti. In particolare viene
messa in risalto la relazione che sussiste tra la capacità dell’impresa di dare
origine, attraverso una sagace strategia di posizionamento, ad una nuova
categoria concettuale e la possibilità che da essa derivi un duraturo
vantaggio competitivo differenziale e la leadership del relativo mercato.
Le strategie di posizionamento sono di natura tipicamente relativa e
circostanziale, da ciò derivando i principali problemi che le imprese
incontrano nel delinearle. Lungi dal costituire un riferimento costante per la
1
Scriveva Leucippo nel V sec. A. C.: «Nulla accade per nulla, ma tutto da
un’origine e per necessità».
- 10 -
competizione delle imprese tali strategie si sviluppano in itinere secondo le
indicazioni offerte dai concetti che, di volta in volta, sono presi a
riferimento dal potenziale acquirente nell’assegnare un valore alla marca e,
più in generale, alla categoria cui essa viene ricondotta.
È con la consapevolezza della rilevanza delle problematiche che
queste prime considerazioni aprono che ci accingiamo ad affrontare un
tema, quello della relazione tra strategie di posizionamento ed immagine di
marca, il quale si erge tra gli altri affrontati dal marketing come uno dei più
attuali, interessanti e ricchi di spunti, cercando di offrirne una prospettiva
che, per certi aspetti diversa, cerca di mantenere un approccio il più
possibile aderente con la realtà dei fatti.
- 11 -
Capitolo 1
DALLA VISIONE AL POSIZIONAMENTO
1.1 – Le ragioni del posizionamento
Lo studio e l’applicazione del concetto di posizionamento, lungi dal
costituire e delineare un modello definitivo di comportamento per le
imprese, rappresentano in realtà, almeno in prima battuta, un approccio
mentale al problema della loro collocazione nel mercato, ma soprattutto
nella mente dei consumatori.
In altre parole, il posizionamento è, prima di tutto, posizionamento
nella mente dei clienti e, più in generale, delle persone. Occorre lasciare
un’impronta (quella voluta) non solamente sugli acquirenti, ma anche sugli
altri pubblici aziendali. Così, diventa senz’altro utile e prioritario generare
e proiettare un’adeguata immagine di sé sui concorrenti, sui fornitori, e
sugli altri pubblici aziendali (sindacati, mondo politico, media…). Come
vedremo questa immagine è l’espressione dell’identità dell’impresa, e
appare fondamentale, ai fini di un suo rafforzamento attraverso la leva della
credibilità, riuscire a mantenere una certa coerenza di fondo, anche
nell’evolversi e dispiegarsi nel tempo delle particolari strategie adottate.
Nondimeno, risulta molto importante creare un’immagine ed
un’identità forti e nitide all’interno dell’impresa e provvedere alla loro
implementazione nell’organizzazione e in chi al suo interno opera. Ciò
consente di avere una linea direttrice chiara e definita verso cui far
convergere gli sforzi aziendali, un importante punto di riferimento che
contribuisce a consolidare la stessa proiezione all’esterno della visione
desiderata.
Non si tratta, questa, di una rappresentazione mentale destinata ad
un’applicazione limitata alla realtà d’impresa. La sua valenza è assai più
- 12 -
estesa, venendo a toccare ogni situazione nella quale sia presente un
soggetto che emana segnali e un altro che tali segnali riceve e interpreta.
Poco importa che i messaggi siano o meno il frutto di una volontarietà da
parte di chi li pone in essere: ognuno emette continuamente segnali, anche
inavvertitamente, e di questo occorre tenere conto. Così, è possibile
procedere al posizionamento non solo di un’impresa, di un prodotto o
servizio, ma anche di un politico, uno spettacolo, una particolare decisione
presa, ecc.… Con riferimento alle situazioni più svariate sorge, infatti, la
necessità di portare l’attenzione su un aspetto o su un altro e fare in modo
che si formi e si mantenga nell’interlocutore un’immagine ad esso coerente.
1.1.1 – Il rapporto strategico impresa-mercato tra presente e
visione: una prospettiva.
L’azione portata avanti dalle imprese operanti nel mercato è andata
affrontando nel tempo situazioni ambientali che, lungi dal farsi riconoscere
in stereotipi assimilabili attraverso lo studio e l’analisi di fatti esperenziali e
funzioni e modelli incontrovertibili, sono diventate sempre più complesse e
sfuggenti a qualsiasi tentativo di ricavarne, sia da parte del mondo
accademico che di quello imprenditoriale ad esso parallelo, una
sistemazione paradigmatica e finalmente definitiva. L’affidamento troppo
speranzoso di chi, negli anni Sessanta, vedeva nella pianificazione
strategica la chiave che avrebbe portato le imprese nel cuore della
competizione si è successivamente sfaldato fino ad infrangersi contro le
turbolenze di un ambiente competitivo diventato sempre più caotico ed
imprevedibile, ostile e refrattario ad ogni tentativo di inquadramento
attraverso la lente della razionalità estrapolativa.
Quello che è seguito è stato un tentativo di reazione al mutamento
attraverso una logica che, portata ad un’estrema sintesi, si è presentata
come affatto differente rispetto alla precedente: l’impresa, sostenuta da un
attento monitoraggio delle variabili in gioco, avrebbe dovuto essere stata in
grado di agire in anticipo rispetto al cambiamento, agendo essa stessa
sull’ambiente esterno in modo da determinarne, in maniera per essa
favorevole, la direzione di movimento. Tale nuova impostazione del
- 13 -
rapporto impresa/ambiente concorrenziale appare quindi solamente come
una diversa forma di quella stessa velleità di controllo del mercato che
avrebbe inteso eliminare. In effetti, le singole imprese, specialmente nel
lungo periodo, non possono incidere nel mercato se non in maniera
marginale ed in ogni caso comunque discutibile, dal momento che è molto
difficile stabilire se l’azione delle imprese sia stata la causa o l’effetto di un
determinato movimento di mercato.
Verso la fine degli anni Settanta, i sistemi di posizionamento
anticipatorio hanno iniziato a mettere in mostra tutti i propri limiti
nell’affrontare le crescenti turbolenze di un ambiente caratterizzato dal
succedersi di eventi sempre più imprevedibili nel sorgere e nello
svilupparsi. Le risposte non potevano più essere tempestive e incidevano
perciò sulla realtà in maniera tardiva e inefficace. Il tempo ha così reso
giustizia ad un mercato che, esso sì, è sovrano, pur nelle sue numerosissime
e all’apparenza inspiegabili contraddizioni. Se contraddizioni vi sono,
infatti, ciò non può essere che all’apparenza, posto che non si voglia
ritenere invalido il principio di causalità intercorrente tra qualsivoglia date
situazioni. Probabile appare, semmai, l’individuazione a posteriori di un
errore di valutazione o di interpretazione di fenomeni peraltro niente affatto
facili – ma non per questo impossibili – da comprendere già nelle loro linee
essenziali. Quella che invece è possibile riconoscere e senz’altro va
riconosciuta alle imprese è l’appartenenza a un ecosistema relazionale di
cui esse stesse sono elementi vitali e del quale, però, non è ammissibile
violare le norme di funzionamento, esistenza ed evoluzione. In tale sistema
di relazioni – per sua natura aperto – gli organismi-impresa nascono, si
sviluppano, muoiono e operano ciascuno portando il suo particolare
contributo di conoscenza e di azione che va a modificare lo status quo del
sistema stesso. Ma un’analisi che si basi esclusivamente sull’osservazione
di variabili ritenute oggettive, per quanto numerose e definite con
precisione nel loro dettaglio, poco ha da offrire alla comprensione dei
complessi e sfuggenti fenomeni che caratterizzano quel magma di
sommovimenti che è il mercato.
Nasce da qui l’esigenza di un ripensamento con una prospettiva e
visione potremmo dire dal dentro e dal basso del rapporto tra l’impresa e il
- 14 -
suo ambiente di riferimento, alla quale se ne dovrebbe affiancare una
dall’esterno e dall’alto il più possibile autonoma, disincantata e
obiettivamente critica verso il variegato e pluridimensionale oggetto del
proprio giudizio.
Il primo modo di guardare alla dinamica dei rapporti di mercato
esprime tutta la rilevanza della partecipazione sistemica e organica da parte
dell’impresa: solo chi è completamente immerso in una situazione può
comprenderne appieno significati, evoluzione nei comportamenti e
risvolti1. Il mercato deve permeare di sé l’impresa. Il contatto diretto e
ravvicinato con la realtà non deve essere perciò quello di un corpo
estraneo: dobbiamo fonderci il più possibile sia idealmente che
materialmente con il vissuto, il vivendo ed il vivente2 in una simbiosi
talmente spinta da giungere idealmente in una situazione di aspazialità e
atemporalità nella quale non abbiamo bisogno alcuno di sforzarci per
comprendere i cambiamenti che avvengono in un ambiente che ormai non è
più esterno, dal momento che quegli stessi cambiamenti avvengono in noi.
In questo modo è certo che ci stiamo muovendo nella direzione del
mercato. Spostarsi con il mercato significa essere in grado di distinguerne
ogni singolo movimento scorgendo fino le più minute onde e increspature
all’interno della corrente poiché siamo parte integrante di essa. Quella che
in questo modo abbiamo raggiunto non è una rappresentazione in scala del
mercato, bensì l’essenza stessa di esso: dobbiamo essere noi stessi il
mercato. Quest’impostazione presenta poi il notevole pregio di permettere
e agevolare, all’occorrenza, un rapido riposizionamento, mettendo in
evidenza quella qualità principe dell’evoluzionismo che è la reattività,
intesa come la capacità di un adattamento rapido ed efficace alle mutate
condizioni ambientali.
Non è più reale la questione se sia il consumatore a ruotare attorno
alle imprese o semmai queste ad orbitargli intorno nel continuo cercare di
1
Un detto pellerossa, sicuramente estensibile a qualsiasi entità intelligibile,
afferma: «Per comprendere veramente un uomo occorre camminare per due lune nei
suoi mocassini».
2
Rispettivamente con le esperienze (tutte, percettibili e non) che generano il
presente, quelle che sono da esso generate e ancora in itinere e quelle che ne
costituiscono l’essenza.
- 15 -
coglierne la luce oscurando quella ricevuta emanata dalle altre. La
questione si pone invece nella logica di un continuo avvicinamento da
perseguire fino a che le due identità diventino una sola e unica, termine
ultimo di un vicendevole implementarsi che, solo, può portare ad un
vantaggio competitivo duraturo, valido sino a quando non avvenga un
rigetto o prevalga una diversa forza attrattiva (la cui capacità di inserimento
dipende dalle possibilità offerte dalla nostra incapacità di vivere e gestire
tale connubio).
Per far sì che questo modo di vivere il rapporto impresa-ambiente sia
effettivamente realizzato, l’intera organizzazione deve possedere
determinati attributi ed essere pervasa da una mentalità in sintonia con
l’ideale di fusione sopra delineato. Ogni sua parte costituente deve riuscire
ad intuire – e, ancor meglio, a comprendere – quale sia la direzione
intrapresa e per quali motivi la si è intrapresa. L’assenza di chiarezza in
proposito inevitabilmente porta a problemi di messa a fuoco di ruolo e
missione nella e dell’impresa con inevitabili conseguenze negative nel
portare avanti l’azione strategica. Occorre, in particolar modo da parte di
chi detiene la leadership decisionale, una spiccata propensione alla
flessibilità soprattutto mentale consentendo il divenire viva creta nelle mani
di eventi che siamo in grado di avvertire già e in parte di indirizzare.
Sebbene la diffusione iniziale di un tale nuovo, coinvolgente modo di
intendere il reale debba inizialmente seguire un andamento top-down, in
seguito, l’organizzazione tutta, come fosse un organismo segnato in ogni
sua parte da una medesima impronta genetica, deve rendersi capace di
respirare in un moto unico e nutrirsi di valori condivisi in modo da potersi
inserire senza alcuna remora nelle turbolenti correnti del mercato.
Riuscire a vivere emotivamente la frammentarietà e la precarietà dei
diversi moti del mercato come un progresso desiderato costituisce la chiave
per la soluzione di ogni problema di posizionamento. Possiamo dire con
Gerken che «Solo mediante la pratica della partecipazione è possibile fluire
con gli avvenimenti e accordarsi con le discontinuità dell’ambiente»1. Ed è
sempre la partecipazione a sottrarre l’impresa dall’anonimato, conferendole
quella credibilità che è tipica di chi è compartecipe di un evento o processo
1
G Gerken, Addio al marketing, ISEDI, 1994, pag. 130.
- 16 -
e si pone a fianco di chi – come il consumatore – è coinvolto in prima
persona nell’affrontare il cambiamento. Quest’ultimo aspetto risulta
decisivo nel conquistare la fiducia del mercato che, alla lunga, sempre
premia chi mostra la capacità di mettersi in discussione insieme alle
posizioni acquisite nel tentativo costante di raggiungere qualcosa di
superiore. «Tramite l’apertura e la disponibilità ad identificarsi con gli
scenari, i temi e le opinioni e la disponibilità a integrare la propria
personalità nel flusso dei mutamenti e a lasciarsi formare – prosegue
Gerken – si ha che tutti apprendono da tutti». In assenza di ciò vengono a
determinarsi situazioni di dissonanza e contrasto col mercato che, oltre a
non arrecare alcun vantaggio in termini di competitività, rischiano di
minare il futuro dell’impresa aggredendone la struttura strategica.
Ai fini di un reale apprendimento occorre, a tutti i livelli, la
mobilitazione dell’intelligenza dell’impresa, insieme al mantenimento
dell’armonia tra cultura e strategia. L’idea che il campo di applicazione
della strategia sia anche e in primis l’interno dell’azienda non deve
rimanere un enunciato fine a se stesso: apertura e mobilitazione devono
essere le parole d’ordine, fondamenta sulle quali costruire la competitività
d’impresa. La capacità di azione deve divenire il più immediata possibile
riducendo al minimo il rischio di paralisi derivante da una troppo lunga
fase di analisi preliminare che spesso produce solo un ulteriore incremento
del carico informativo. L’impresa sa già, nell’ottica della fusione, quello
che deve fare: la volizione è già in itinere, deve solo esplicitarsi. L’intera
organizzazione deve essere votata all’azione e a un sentire diffuso (dove
per sentire va intesa l’accezione più incline alla percezione, alla sensibilità
partecipe).
Tale visione, tuttavia, pure se vissuta e portata fino ai suoi termini
estremi, non può essere sufficiente in quanto persiste, dal dentro, un angolo
cieco. Se, nel contempo, riuscissimo ad avere una visione dall’esterno e
dall’alto della situazione nella quale siamo immersi potremmo determinare
dov’è che ci stiamo portando e giungere da subito laddove il mercato
arriverà nel futuro, arrivando addirittura noi stessi ad “educare”, attraverso
l’applicazione di una volontà creativa, il mercato, in modo che raggiunga
quella posizione più rapidamente oppure che non ne raggiunga un’altra
- 17 -
altrettanto plausibile e a noi invisa (questo potrebbe succedere perché nella
sua instabilità, a volte, esso si rende suscettibile di prendere questa o quella
via influenzato da minime e imprevedibili oscillazioni del momento).
L’impresa deve cioè essere in grado di seguire nell’ambito del mercato una
propria rotta, di sapere dove esattamente si trova, dove sta andando e
perché. Non deve comunque essere dimenticato il limite derivante da
un’inevitabile miopia a causa del quale più lontano guardiamo e più è facile
incorrere in valutazioni errate.
Secondo l’intensità con cui sono perseguite e del risultato ottenuto
nel raggiungere queste visioni, l’impresa inserita in un ambiente
caratterizzato da turbolenze e incertezza è esposta a rischi diversi quanto a
natura e portata. Possiamo dare una rappresentazione di ciò attraverso la
matrice esposta nella figura 1.1.
Visione dal dentro
Bassa
Elevata
Elevata
Disorientamento
sclerotico
Perfetta
simbiosi
Deriva strategica
Disorientamento
miòpico
Visione
dall’alto
Bassa
Figura 1.1 – Relazione tra prospettiva dell’impresa e situazione competitiva
Ponendo sulla dimensione orizzontale la forza con cui l’impresa si
sforza di penetrare l’intimo del mercato divenendone essenza (visione da
dentro) e su quella verticale il modo con cui essa cerca di darsi una più
imparziale e spassionata visione dal di fuori, possiamo dividere la matrice
che ne risulta in quattro quadranti corrispondenti a quattro diverse
- 18 -
situazioni.
Un’impresa che non sia dentro appieno ai flussi del mercato, ma che
abbia la pretesa di conoscere, attraverso una visione distaccata e oggettiva,
non partecipe, la direzione da esso seguita, rischia di ritrovarsi,
disorientata, da tutt’altra parte, per giunta con l’aggravio di un peso
costituito da una cultura e un’organizzazione poco duttile e dinamica,
sclerotizzata nel suo incedere alla deriva. Il pericolo è quello di non riuscire
a rimettersi in rotta rimanendo esclusi dalla competizione o quantomeno ai
suoi margini. Lo sforzo da compiere è dunque quello di immergersi
appieno nelle correnti concorrenziali e recuperare una completa e cosciente
fusione con l’ambiente competitivo.
Se in aggiunta ad una poco sensibile visione dal dentro non si riesce
neppure a compiere uno sforzo di inquadramento delle varie forze che
sommuovono l’ambiente di riferimento, la situazione diviene altamente
critica e le possibilità di risollevarsi e non uscire dal mercato dipendono
ora, oltre che dalla capacità di cambiare rapidamente e decisamente rotta
(esigua, vista l’assenza di flessibilità e di perspicacia), dal fatto che la
situazione di mercato non si allontani troppo dalle nostre attuali posizioni
consentendoci il rientro. L’impresa, in alte parole, è in piena deriva
strategica e, se anche dimostrasse una certa capacità ad operare, a lungo
andare soffrirà le conseguenze delle carenze a livello di visione venendosi a
restringere il tempo che essa ha a disposizione per riorientarsi alle
condizioni di mercato in essere.
Nel caso in cui l’impresa abbia una completa visione dall’interno, ma
manchi di proiezioni riguardo quella dall’esterno, essa si muoverà sì
assieme al suo mercato, tuttavia non ne conoscerà il movimento
complessivo e non saprà o non riuscirà ad intendere dove esso stia in realtà
andando a parare. Se ad esempio la direzione presa portasse verso un
globale suo restringimento a causa e in favore di altri mercati spinti da più
potenti elementi, staremmo, in effetti, andando verso la dissoluzione
assieme ad esso. La miopia, in questo caso, può portare all’impatto con
scogli e vortici concorrenziali che, giungendo inaspettati e cogliendo
l’impresa impreparata, ne mettono seriamente a repentaglio le prospettive
future. Occorre pertanto cercare di mettere la testa fuori dell’ordinario e
- 19 -
sapersi muovere attraverso le visioni.
Essere al contempo coscientemente visionari e parte attiva della
fusione con il mercato è la caratteristica vincente che contraddistingue le
imprese che realizzano una simbiosi perfetta tra moti e realtà del presente e
del futuro, con la cultura, sempre aperta a nuovi contributi e foriera di
adattamenti di tipo olistico, a fare da cerniera tra presente e visione.
Se la fusione tra impresa e ambiente di riferimento (visione dal
dentro) e l’aspetto puramente prospettico-visionario (visione dall’alto)
costituiscono un elemento fondamentale per affrontare la competizione, le
condizioni imposte per il loro conseguimento risultano essere tuttavia sì
necessarie, ma non sufficienti. L’impresa deve in realtà disporre, come
sopra enunciato, di risorse idonee per percorrere questa strada e soprattutto
di un’adeguata cultura, promotrice del nuovo e del cambiamento, che
pervada l’intera organizzazione.
1.1.2 – Nuove sfide e nuove spinte per il posizionamento.
In passato, sapersi posizionare era importante, ma non determinante.
Le imprese e chi le dirigeva dovevano confrontarsi con una mutevolezza
dell’ordinario relativamente bassa. Una vera e propria necessità di
ripensare la propria posizione strategica emergeva solo al verificarsi di
eventi di rottura1. Fino ad alcuni decenni fa esisteva un numero inferiore di
marche che potevano competere sulla base di reali differenze nelle
rispettive offerte. Le imprese, di solito, potevano trovare qualcosa che fosse
allora effettivamente superiore ai concorrenti e cercare una particolare e più
appetibile posizione sull’arena competitiva. Tuttavia, ancora non si può
parlare correttamente di vere e proprie strategie di posizionamento,
mancando la coscienza di tutte le implicazioni che il in tali termini
comporta.
Pensiamo, per esempio, all’industria automobilistica degli anni Venti ed al
successo della nuova organizzazione produttiva e della strategia di ampia diffusione
adottate dalla Ford, la quale costituiva una sfida che fu affrontata con successo dalla
General Motors attraverso un’estesa gamma di prodotti rivolti ai numerosi segmenti di
un mercato ormai aperto e in espansione.
1
- 20 -
Quella che oggi sta emergendo è invece l’incombente esigenza di
pensare alla propria collocazione sul mercato o su un suo segmento e tenere
sempre ben saldo il controllo della propria posizione, l’importanza del
quale va continuamente aumentando. Si è costantemente esposti al pericolo
che venga a mancare il terreno da sotto i piedi, magari quello stesso terreno
che abbiamo sempre considerato come saldo e ormai una certezza
acquisita. Tutto traballa, ma il rischio maggiore è quello di non avvertire o
di sottovalutare le scosse.
Numerosi sono gli elementi che stanno determinando la nuova realtà
con la quale si devono confrontare le imprese, tutti comunque riconducibili
a quella globalizzazione che, come un titanico sistema di vasi comunicanti
è potenzialmente in grado di livellare le posizioni competitive ad oggi
raggiunte. Una notevole spinta in questo senso è data dalla sempre più
diffusa e rilevante presenza delle nuove tecnologie le quali, annullando
d’un colpo tutte le principali certezze spazio-temporali, costituiscono il
vero condotto di collegamento di codesti vasi comunicanti attraverso il
funzionamento del cui sistema si vengono a determinare equilibri e
squilibri.
L’intero globo, poi, sta assorbendo a grossi sorsi una mentalità e un
modo di pensare ed agire di matrice occidentale e liberista orientata dagli
assetti sociali ed economici tipici dei paesi anglosassoni (in particolare
degli Stati Uniti). Gli effetti di questo mutato paradigma socio-psicologico
dovranno naturalmente fare i conti con le particolarità locali di tradizioni ed
esperienze già radicate e con le resistenze dei diversi orgogli nazionali. I
freni saranno più potenti laddove prevale ancora la coscienza del vissuto e
delle proprie radici. Il percorso, tuttavia, salvo improvvisi e inattesi
sconvolgimenti che mettano in discussione la stessa struttura economica
(prima ancora che sociale) statunitense, subirà soltanto delle ulteriori
articolazioni ed arricchimenti, rimanendo però segnato quanto alla
direzione principale.
La convergenza circolare di questi fenomeni accresce ulteriormente
la dinamicità che caratterizza ormai i più diversi settori nel loro divenire.
Se la globalizzazione, alimentandosi dell’apporto delle nuove tecnologie
che svolgono il ruolo di un fermento, dà la spinta alla crescente
- 21 -
liberalizzazione dei mercati, quest’ultima, da parte sua, esprime
nell’espandersi tutte quelle premesse che sono alla base della forza della
prima. Il risultato di questo continuo rincorrersi e mordersi la coda è che i
settori diventano realtà instabili e sempre meno definite, con confini labili e
variabili che ne mutano aspetto e significato ad ogni istante. L’arena
competitiva diventa un’entità quasi astratta, tanto evanescenti sono i suoi
contorni. Vi confluiscono players della più diversa origine e natura attratti,
a volte si direbbe, dalla sua stessa confusione e marasma. La leva del
prezzo, inoltre, sta diventando un elemento essenziale di competizione in
molti settori rappresentando allo stesso tempo una possibilità e un limite
per le strategie d’impresa.
Ci stiamo progressivamente avviando verso un mondo del
provvisorio, in cui tutto – pensieri e azioni, imprese, sentimenti, … – nasce
dal niente come una bolla di sapone e nel niente può altrettanto facilmente
tornare senza dare troppe spiegazioni né suscitare grossa indignazione o
recriminazioni tanto da parte di chi tali eventi promuove, quanto da parte di
chi li subisce. La velocità sarà sempre più la regina incontrastata del tempo
futuro, vera raffigurazione e personificazione del nuovo spirito, nell’attesa
che nuovi modelli comportamentali riescano a ridurne la portata o a
dominarla occupandone il posto. I pericoli derivanti dalla velocità sono
palesi. Se la mente non riesce a stare al passo con gli eventi, rimarrà in sua
balia, venendole a mancare quell’importante freno stabilizzatore che è la
ponderazione.
Nel mondo delle imprese le conseguenze avranno, e in parte stanno
iniziando ad avere sin da adesso, una portata epocale. Quelle fra esse che
oggi si sentono al sicuro, se non verranno prontamente erette barriere tanto
imponenti, quanto forse a volte solo utili a ritardare il corso degli eventi,
vedranno sgretolarsi o sparire sotto gli occhi la propria posizione
competitiva. Diventa, infatti, quasi inimmaginabile concepire un mercato in
cui si sia coperti dal rischio che arrivi qualcun altro, magari proveniente da
qualche altra parte del globo, il quale, anche pur mancando di una rilevante
tradizione, sappia fare quello che facciamo noi, probabilmente con risultati
migliori e a costi inferiori. Sarebbe pura utopia pretendere che il mondo
segua le nostre (cieche) presunzioni.
- 22 -
La libera concorrenza, se non opportunamente contrastata dalle
imprese con azioni volte a renderle diverse e appetibili da un mercato che
consente la floridezza soltanto a pochi eletti, condurrà alla riduzione dei
margini di profitto nella maggior parte dei settori (a loro volta caratterizzati
da un’elevata mutevolezza e sfuggenti ad una precisa definizione), fino a
porre i più piccoli e deboli ai margini della competizione, in attesa di essere
traghettati fuori dal mercato. Allora, distinguere fra politiche di
differenziazione o di leadership dei costi non avrà più un senso dal
momento che serviranno entrambe, e potrebbero non essere neppure
sufficienti, ad assecondare i fini di sopravvivenza e continuo sviluppo delle
imprese. La regola aurea diverrà l’elevazione e l’evidenziazione, con ogni
mezzo disponibile, rispetto al gruppo di concorrenti, più o meno diretti, con
i quali l’impresa si trova a competere per la conquista di una posizione di
rilievo nella mente del consumatore.
1.2 – La strategia di posizionamento
1.2.1 – Struttura di mercato e posizionamento.
Il risultato cui sta conducendo la crescente tendenza all’apertura dei
mercati alla concorrenza è, come visto, quello di appiattire i significati e le
percezioni delle imprese e dei prodotti in competizione, con la susseguente
difficoltà ad emergere dalla densa e caotica massa informativa la quale
riduce la capacità percettiva ed interpretativa del potenziale cliente.
Il rischio maggiore che incontrano le imprese diventa, allora, quello
della banalizzazione dei concetti, dei valori e dei simboli che le
rappresentano. Il pericolo è cioè quello di vedere scivolare la propria
immagine da una condizione di marca con una propria definita identità a
quella di commodity.
I commodity market sono, appunto, quelli che si caratterizzano per
l’assenza di una differenziazione fra i competitori percepita da parte degli
acquirenti. I prodotti assumono agli occhi di chi li compra più o meno la
medesima veste e rilevanza, e, sebbene possano in realtà sussistere delle
differenze qualitative anche ragguardevoli, esse non vengono rilevate dal
- 23 -
consumatore – e, perciò stesso, potremmo affermare ed assumere che non
esistano1 – il quale non fa distinzioni tra questo o quel prodotto. In
situazioni come queste le decisioni di acquisto sono prese in conseguenza
del prezzo, della disponibilità, o comunque di fattori sempre contraddistinti
da un certo pragmatismo, piuttosto che in base all’immagine di marca o alla
reputazione del produttore. Appare evidente come in questi mercati i
margini di manovra per orientare le preferenze verso di sé si facciano
ristretti. L’impresa scivola verso l’anonimato e il suo futuro si fa più
incerto, diventando sempre più difficile risalire la china. Non bisogna,
pertanto, permettere alle marche, anche quelle che appaiono ad una prima
osservazione forti e solide nella propria posizione, di diventare commodity.
A volte ciò accade per eccesso di sicurezza e troppa sufficienza da parte dei
detentori della visione d’impresa (in queste situazioni vengono a mancare
soprattutto il contatto e la visione dal dentro del mercato) i quali conducono
ad una erosione del valore di marca tanto inavvertita quanto infine
repentina nel manifestarsi in tutta la sua forza.
Esistono, tuttavia, casi in cui vengono seguite traiettorie opposte con
il passaggio dallo status di commodity a quello di marca ben definita e di
successo. Il modo con il quale avvengono queste mutazioni è sempre
riconducibile all’adozione di adeguate strategie di affermazione della
propria immagine che trovano nell’evidenziazione della propria diversità la
leva principale.
1
A questa forse provocatoria conclusione giungiamo seguendo le tracce del
pensiero hegeliano per il quale la verità di un’asserzione non è concetto assoluto, ma
relativo, derivando dalla coerenza dell’asserzione stessa con il sistema di assunti di cui
fa parte (in contrapposizione alla concezione aristotelica che vede la presenza, per
definizione, di una sola verità).
- 24 -
Alta
Branded
market
Differenziazione
di prezzo
Commodity
market
Bassa
Alta
Bassa
Differenziazione dell’immagine
Figura 1.2 – Da marca a commodity
Il percorso che la marca compie nell’involvere alla condizione di
commodity è illustrato nella figura 1.2. Nel mercato di marca l’elevata
differenziazione operata sull’immagine consente, in considerazione del
relativo valore aggiunto all’offerta, di poter richiedere un prezzo più alto ai
potenziali acquirenti. L’erosione del valore di marca che conduce a
scivolare verso il commodity market può essere dovuta a una diminuzione
dell’impatto della differenziazione di immagine oppure agli effetti di azioni
incentrate sul taglio dei prezzi, anch’essi indicatori di diversità e perciò da
governare con estrema cautela ed accortezza.
Quello che differenzia la marca dalla commodity è costituito dal
valore supplementare che l’acquirente riconosce – e nel riconoscere
conferisce – all’oggetto della sua scelta o anche solo del suo desiderio. Il
valore della marca va oltre la mera somma dei pesi degli attributi
oggettivamente presenti nel prodotto o servizio, incorporando tutti quegli
elementi che, pure apparentemente intangibili, vengono resi reali proprio in
virtù del fatto che sono stati riconosciuti come valori dal cliente.
- 25 -
1.2.2 – Definizione di posizionamento.
Il posizionamento costituisce un concetto chiave per l’intera strategia
d’impresa ed è riconducibile, in prima istanza, al problema della
differenziazione dei propri prodotti e della propria immagine da quelli della
concorrenza. Come già espresso, la sua importanza è accresciuta
decisamente a causa del sovraffollamento di marche che caratterizza la
competizione in molte categorie di prodotti e di servizi e che conduce ad un
eccesso informativo con un sovraccarico non più gestibile da parte dei
consumatori. In una società contraddistinta da una marcata e sempre
crescente sproporzione tra l’informazione emessa e quella in grado di
essere percepita e trattenuta e in mercati nei quali i prodotti sono sempre
più uguali agli occhi dei consumatori – con la tendenza a divenire
commodity – il principale problema è quello di riuscire a creare una
differenza tra i prodotti. Il posizionamento costituisce, allora, un mezzo per
uscire dalla condizione di confusione del mercato o almeno per cercare di
gestirla nel modo migliore. Nel momento in cui il posizionamento diviene
fattore particolarmente critico per il successo, esso, tuttavia, diviene anche,
se possibile, maggiormente complicato e problematico da affrontare.
Il termine posizionamento fu coniato e utilizzato per la prima volta
nel 1972 ad opera di due pubblicitari, Al Ries e Jack Trout, in una serie di
articoli pubblicati sotto il titolo di “The Positioning Era” dalla rivista
Advertising age. In essi venivano posti i primi principi di base della nuova
nozione introdotta. Il contributo offerto dagli autori, proseguito attraverso
successive pubblicazioni, è quello che più si inoltra sul terreno della mente
e del posizionamento, pur mancando ancora di un’adeguata e strutturata
sistemazione teorica.
Possiamo definire il posizionamento come il punto strategico, lo
spazio-momento ideale, che una qualsiasi entità (un’impresa, una marca,
una qualsiasi persona, o creazione od organizzazione di persone) occupa o
cerca di occupare nella mente di un’altra entità allo scopo di indirizzarne il
pensiero e l’azione1.
L’unico elemento determinante è che le entità, qualunque sia la loro natura,
siano caratterizzate dalla presenta di due sistemi di percezione, volizione e azione da
interrelare.
1
- 26 -
Nell’originale definizione data da Ries e Trout il posizionamento è
«La concezione di un prodotto e della sua immagine allo scopo di dargli,
nel giudizio del consumatore, un posto favorevole e diverso da quello
occupato dai prodotti concorrenti»1. Il suo ruolo è, quindi, quello di
definire il modo con cui la marca o l’impresa vogliono essere percepite
dagli acquirenti potenziali. Infatti, il posizionamento non concerne tanto
quello che viene e può essere fatto al prodotto, quanto quello che viene
fatto alla mente del potenziale cliente. Il prodotto viene cioè posizionato
nella mente del cliente. Il problema consiste, allora, nel trovare un varco,
una finestra, attraverso cui accedere alla mente, e il posizionamento, basato
sulla convinzione che solo la comunicazione possa farlo al momento giusto
e sotto le giuste circostanze, è un sistema organizzato in vista di tale
finalità. La posizione deve essere chiara e facilmente riconoscibile dal
pensiero dei consumatori. Nell’era del posizionamento inventare o scoprire
qualcosa non solo è importante, ma diventa necessario e prioritario. Di più:
il riuscire a penetrare per primi la mente del potenziale acquirente diventa
elemento fondamentale, pena il dover affrontare seri problemi di
posizionamento. Per aprirsi un varco bisogna avere l’abilità e la forza di
sviluppare e portare avanti un pensiero capace di invertire, rovesciare,
capovolgere l’ordinario rompendo le cristallizzazioni e sedimentazioni
delle convenzioni. Altre volte, invece, è preferibile appoggiarsi in maniera
sapiente ad esse per cercare di incanalarne il potenziale espressivo nella
direzione voluta.
L’importanza che l’immagine ricopre nell’ambito delle strategie di
posizionamento è rimarcata anche da Aaker, il quale, anch’egli proveniente
dall’ambiente pubblicitario e che all’ambito pubblicitario tale concetto
riconduce (rappresentando quest’ultimo aspetto limitativo forse il maggiore
appunto che possa essere rivolto al pensiero dell’autore), quasi identifica
immagine e posizionamento, distinguendo il secondo dalla prima in virtù
del fatto che quello viene contestualizzato nella concorrenza2.
1
Citato in J. J. LAMBIN, Marketing strategico. Una prospettiva europea,
McGraw-Hill, 1996, p. 196.
2
«Di recente a indicare l’immagine si sono spesso impiegati i termini “position”
e “positioning”, con l’avvertenza però che implicano un contesto di riferimento, e che
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Il posizionamento sfugge per sua natura a qualsiasi tentativo di
inquadramento e riconduzione ad una stretta logica di pianificazione. Le
critiche che alcuni autori muovono al posizionamento circa una sua
presunta rigidità paiono non comprenderne la vera essenza e non tenere
conto della sua multiformità, confondendola con le più tradizionali tecniche
delle matrici a sostegno della teoria delle scelte di portafoglio. In effetti,
non siamo di fronte a un modello nel quale occorra e sia sufficiente inserire
gli input per ottenere delle indicazioni (peraltro solamente orientative). Il
processo che conduce alla realizzazione di un posizionamento prende il via
da concetti quali la visione, la cultura, la percezione, l’apprendimento, i
quali, sintetizzati attraverso la fusione, guidano l’impresa verso la
posizione competitiva e ne rappresentano gli essenziali requisiti.
1.2.3 – I requisiti del posizionamento.
Posizionare un prodotto o un’impresa non significa solo e
semplicemente allestire una campagna pubblicitaria in grado di “parlare e
farsi ascoltare” dal consumatore: anche se il trucco consiste nel trovare il
varco giusto al momento giusto credere e affidarsi solamente a questo
sarebbe pericolosamente fuorviante e riduttivo. Proprio per riuscire ad
aprire una finestra praticabile nella mente del consumatore occorre tenere
presente che, affinché un posizionamento risulti valido, esso deve
presentare alcune caratteristiche basilari. Myers individua nell’unicità,
nell’importanza/desiderabilità e nella credibilità – alla quale possiamo
affiancare la coerenza – i tre requisiti indispensabili per una strategia di
posizionamento efficace1.
esso è dato, di solito, dalla concorrenza. È importante capire che livelli di
un’organizzazione possono essere considerati degli “oggetti” – la società stessa, i suoi
prodotti o le sue marche –, che a ciascuno di essi è associata un’immagine, e che
ciascuno di essi può essere posizionato rispetto alle alternative della concorrenza» (D.
A. AAKER, J. G. MYERS, Management della pubblicità, Franco Angeli, 1991, p. 178).
1
J. H. MYERS, Segmentation and positioning for strategic marketing decisions,
American Marketing Association, 1996, p. 171.
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UNICITÀ – L’unicità, discendente per linea diretta del carattere e
dell’identità di marca, è il principio cardine di tutto quanto attiene alle
strategie di posizionamento, e non potrebbe essere diversamente, dal
momento che esso trova la sua ragion d’essere proprio nella ricerca della
differenziazione dai concorrenti. In mezzo a tanti segnali fra i quali il
consumatore rischia di trovarsi disorientato, occorre trovare almeno un
punto su cui insistere per portare alla sua attenzione la nostra diversità, la
quale deve poi riferirsi a quegli argomenti che sono veramente importanti
ai suoi occhi, cogliendolo nel vivo per ottenere l’accesso alla sua mente.
L’importante è, comunque, riuscire ad attraversare la confusione e il
disordine in modo da essere notati tra i tanti e ricevere l’attenzione e
l’interesse del nostro target.
Una volta ottenuto il riconoscimento della nostra unicità occorre dare
ulteriore forza e rilievo all’identità e alla personalità di marca, in modo da
rendere palpabile e partecipe la nostra presenza nel vissuto del consumatore
divenendo parte essenziale di esso.
Naturalmente si tratta di un’impresa ardua, specialmente nei mercati
maturi dove a contendersi l’attenzione e il consenso dei potenziali
acquirenti sono numerosi competitors, ciascuno con le proprie peculiarità.
Qui, trovare un lato distintivo e sostenibile diventa fattore decisivo per il
successo; raggiungere uno stato di fusione con il mercato, nei termini che
abbiamo visto, può risultare decisivo.
Sebbene la comunicazione svolga un ruolo di primissimo piano, essa
non riesce tuttavia ad essere una panacea. Non è sufficiente, infatti, dire al
consumatore che siamo diversi e migliori della concorrenza, ma occorre
dargli l’occasione e il modo di appurarlo e crederlo con convinzione.
IMPORTANZA/DESIDERABILITÀ – Attribuire una eccessiva importanza
all’essere unici e ricercare con ogni sforzo la diversità a volte può essere
fuorviante e deleterio. Questo accade se si dimentica che l’unicità non è
fine a se stessa. Offrire qualcosa che altri non offrono, per lo meno nei
medesimi termini, ma che non risulta conforme ai desideri e alle aspettative
del potenziale cliente ci riporta al punto di partenza, con l’aggravante che
abbiamo gettato via tempo e risorse in una direzione che avremmo potuto
facilmente riconoscere come un miraggio strategico. Anzi, potremmo
- 29 -
trovarci ora nella necessità di doverci riposizionare, dal momento che il
consumatore ormai potrebbe averci associato ad un’immagine sbagliata,
quando non propriamente negativa ed estranea alle sue esigenze. Lasciare
libero il passo alla creatività, elemento pur determinante, può perciò
significare perdere terreno riguardo alla focalizzazione sulle effettive
condizioni ed esigenze del mercato (questo non dovrebbe accadere se
avessimo un adeguato orientamento alla visione dal dentro della relazione
tra impresa e ambiente competitivo). Emerge, in questo modo la necessità
di mantenere un certo realismo e pragmatismo nell’applicare una
qualsivoglia strategia di posizionamento.
Occorre riuscire ad essere differenti in termini di qualcosa che sia
rilevante e importante agli occhi dell’acquirente, divenire oggetto di
desiderio per i potenziali consumatori, dei quali dobbiamo estrinsecare e
fare emergere l’esigenza di ottenere quello che noi offriamo, e alimentare
tale desiderio e stato di bisogno attraverso i mezzi che a ciò più si rivelino
idonei secondo i casi e le circostanze.
COERENZA E CREDIBILITÀ – Attraverso la coerenza viene a stabilirsi e
a compiersi una intima connessione tra il pensiero strategico e l’azione
strategica dell’impresa di modo che l’una non contraddica l’altro, ma ne
vada a rafforzare la portata e rinsaldare la direzione1. Se la coerenza costa a
causa delle più proficue opportunità che impone di trascurare, essa trova
anche un suo premio costituito dalla credibilità, virtù che, una volta
riconosciuta dal mercato, si fa portatrice di un valore aggiunto
supplementare ogni volta che poniamo in essere un’azione. La credibilità è
un riconoscimento di merito che ci viene conferito, in seguito alla
continuità e linearità della nostra condotta, anticipatamente rispetto al
momento della reale valutazione
Non dobbiamo tuttavia riportare tutto sotto l’impronta della coerenza: se in
questo contesto essa trova la sua ratio nell’esigenza di credibilità che il raggiungimento
e mantenimento di una qualsiasi posizione richiede; in altri contesti, quale può essere ad
esempio l’insorgere della necessità di un repentino e radicale cambiamento di rotta,
diventa al contrario auspicabile il contributo creativo e di rottura dell’incoerenza (qui il
riferimento è quello generale all’incoerenza all’interno del pensiero strategico non a
quella che lega questo all’azione).
1
- 30 -
Al di là di un naturale margine di manovra concesso dalla riluttanza
della persona a rinunciare a una infatuazione mentale o illusione (per non
riconoscere in essa una propria sconfitta), prima o poi l’incongruenza tra
quanto comunicato e quello che in realtà si è capaci di esprimere viene alla
luce. Sostenere creduti, almeno in un primo momento, la propria unicità e
diversità senza che esse siano effettive (mentre in realtà poggiano su basi
poco consistenti, quando addirittura inesistenti e senza alcun serio
fondamento) può condurre rapidamente a crisi di immagine che spesso si
rivelano irreversibili. Di qui, l’importanza del mantenersi coerenti con
quanto è effettivamente nelle nostre possibilità e non eccedere nel
proiettare un’immagine poco sostenibile in quanto mancante di credibilità.
Sono minori le possibilità di successo per un’impresa che occupa una
posizione di per sé favorevole, ma senza avere le carte in regola per farlo,
di quelle di un’impresa che sceglie una posizione magari meno attraente o
anche distante da quella ideale, ma che lo fa sulle più solide basi della
coerenza.
La particolare visione che caratterizza le strategie d’impresa, le
peculiarità dei prodotti o servizi offerti, i punti di forza e di debolezza
dell’organizzazione e della cultura di cui l’oggetto da posizionare è
portatore costituiscono dei vincoli di cui tenere conto nello stabilire se un
determinato spazio, il quali risulti occupabile ed astrattamente appetibile,
risponda alle inevitabili esigenze dettate dalla coerenza.
In verità è possibile adottare una strategia che preveda, per
l’immediato, di lanciare messaggi che sembrano, almeno in apparenza, non
considerare il peso di questi elementi nella futura verifica da parte
dell’acquirente della rispondenza ai valori promessi, proponendosi nel
contempo di sviluppare in seguito quegli aspetti di cui è più forte la
mancanza. Si tratta, però, di una scelta assai discutibile e rischiosa, da
prendere con la consapevolezza che prima o poi il re i reali elementi di
giudizio emergeranno e, allora, la situazione potrebbe risultare ormai
insostenibile e difficilmente sanabile.
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1.2.4 – Il rapporto tra strategia e posizionamento.
Una strategia consiste nel generare e nel dar corso, in maniera più o
meno consapevole, a un comportamento atto a consentire il raggiungimento
di un obiettivo. Questo non implica, tuttavia, che la valutazione degli esiti
di una strategia si riferisca banalmente alla verifica di quanto degli obiettivi
fissati in origine sia stato realizzato, potendo, tali esiti, venire a dipendere
non soltanto dal modo in cui sono perseguiti, ma anche dal verificarsi o
meno di eventi imprevisti e nuove circostanze generatrici di diversi scenari.
La valutazione circa l’esito positivo o negativo della strategia adottata
dall’impresa deve, infatti, essere misurata con il metro dettato dal giudizio
di convenienza contingente del momento in cui gli effetti dell’azione si
realizzano. Questo perché è evidente che alcuni degli esiti auspicabili in
partenza possano non esserlo più in seguito al manifestarsi di una nuova
scala valoriale e al verificarsi di diverse circostanze che gettano nuova luce
e nuove ombre sul cammino della strategia, rendendo invece desiderabili
esiti che in precedenza non lo sarebbero stati. Magari, il successo
dell’azione intrapresa, pur conseguito tenendo conto degli iniziali criteri di
giudizio, può derivare proprio dal mancato o diverso raggiungimento di
quanto inizialmente desiderato, senza poi considerare il fatto che possono
essere intervenuti in suo soccorso fatti meramente aleatori e assolutamente
al di fuori della volizione strategica.
Ma la strategia deve essere anche uno strumento di riflessione e non
soltanto un mezzo per portare avanti l’azione d’impresa. Attraverso essa,
sia nella sua fase generativa che in quella attuativa, vengono infatti ad
enuclearsi nuovi scenari ciascuno portatore di una diversa prospettiva
attraverso la quale osservare le relazioni e le interdipendenze tra impresa e
mercato. Il valore di questi momenti di introspezione circa l’evolversi della
dinamica del rapporto impresa/mercato sta nel fatto che essi consentono di
mantenere viva la sensibilità della rotta in cui ci muoviamo, mettendo in
evidenza le necessarie correzioni da apportare. Affinché ciò possa avvenire
non bisogna rimanere troppo legati a quanto si è precedentemente valutato
e deciso. È vero, il darsi una strategia comporta sforzi così grandi che
spesso l’impresa si può attaccare ad essa in quanto frutto di enormi sacrifici
il senso dei quali potrebbe sembrare andare perduto nel distaccarsene, ma
- 32 -
l’innamorarsi di un’idea e il lasciarsi affidati ciecamente ad essa diviene
oltremodo pericoloso in un ambiente competitivo così turbolento e in
evoluzione.
Non bisogna dare alla strategia un’eccessiva fumosità la quale
potrebbe facilmente trasformarsi in evanescenza. Essa deve sempre essere
orientata all’azione, al vivere, alla pratica1. L’enfasi posta sull’aspetto
strategico del comportamento d’impresa deve essere controbilanciata da un
utilitarismo opportunistico e dal pragmatismo strategico.
A ben osservare una qualsiasi definizione riservata al concetto di
strategia, non si può fare a meno di riconoscere in essa almeno un elemento
che riconduca all’idea di posizionamento2.
Spesso, infatti, viene sottolineato come la strategia inerisca l’andare
verso una direzione prestabilita e il perseguire il raggiungimento di un
obiettivo di medio-lungo periodo verso il quale fare convergere tutte le
linee guida aziendali. Allo stesso modo il posizionamento prevede il
perseguimento di una posizione – nel mercato e, soprattutto, nella mente
del consumatore – qui, però, solamente indicativa e figurativa: siamo ad un
livello di mèta-volizione, inferiore come taglio, ma forse più adeguata e
aderente ai processi ed alle dinamiche che si sviluppano nel reale.
Il rapporto tra questi due concetti va ad ogni modo oltre la mera e
semplice relazione di continuità. In effetti, preso nella sua accezione più
estesa e con un orizzonte di ampio respiro, si potrebbe affermare che il
posizionamento sia, in ultima analisi, sinonimo di strategia costituendone il
nucleo primordiale dal quale si generano per gemmazione tutte le
articolazioni di questa e nelle cui sfumature sono già visibili le varie
caratterizzazioni da essa assunte. Stabilire un posizionamento ideale che
funga da costante riferimento e obiettivo per tutta la futura attività
d’impresa viene così a significare imprimere a tale attività un determinato
E questo è il senso della visione dall’alto che si affianca a quella dal dentro,
come descritto nel paragrafo 1.1.1.
2
Per una disanima dei principali apporti teorici riguardo alla definizione di
strategia vedi L. ZAN, Strategia d’impresa. Problemi di teoria e di metodo, CEDAM,
1985.
1
- 33 -
codice genetico riscontrabile in ogni sua successiva decisione ed
espressione di volontà, pure se ancora in fieri.
*****
Il posizionamento strategico necessita di un adeguato arco temporale
per far sentire i suoi effetti sui sistemi valoriali ed interpretativi delle
persone. L’orizzonte temporale di riferimento per lo sviluppo della marca
è, quindi, quello medio-lungo, abbisognando, essa, di un esteso periodo di
tempo lungo il quale costruire e proiettare la propria immagine.
Conseguentemente, uno dei principali ostacoli alla creazione di valore da
parte della marca è costituito dalla tendenza che molte imprese denotano ad
avere maggiore attenzioni per il conseguimento di risultati nel breve
termine evidenziando l’assenza o la scarsa rilevanza di disegni strategici di
più ampio respiro sui quali costruire la propria competitività a venire.
Seppure ponendo l’accento sui problemi tattici sia possibile produrre
risultati positivi, talvolta anche nel lungo periodo, tuttavia, esiste il reale
pericolo che tali risultati siano conseguiti sfruttando e spremendo la marca,
determinandone in tal modo un indebolimento. Quella che viene a mancare,
in simili situazioni, è proprio la consapevolezza che la marca è una vera e
propria risorsa – la più preziosa, in quanto riassume in sé tutte le
considerazioni e gli elementi valutativi con cui un certo prodotto o servizio
viene giudicato dal mercato – e come tale deva essere gestita, al pari di
ogni altro asset d’impresa. Del resto, non basta riuscire ad evitare di
danneggiare una marca, ma occorre alimentarla continuamente
incrementandone il valore percepito, dal momento che il suo mancato
sviluppo costituisce un serio pregiudizio per la capacità competitiva
dell’impresa1.
La miope propensione all’analisi prospettica basata sulla fusione che molte
imprese denotano, come abbiamo visto, favorisce quelle attività in grado di produrre
risultati tangibili e valutabili nel breve-medio periodo, mancando, rispetto al mediolungo termine la capacità di esprimere una strategia di più ampio respiro.
A riguardo, un importante impedimento alla costruzione di una immagine di
marca valida ed efficace, è dato dall’assenza di incontrovertibili modelli valutativi che
1
- 34 -
Altrettanto sbagliato sarebbe sminuire a tal punto le problematiche
tattiche rispetto a quelle strategiche da non accreditarle – andando oltre un
inevitabile bisticcio di parole – di un proprio ruolo “strategico”. Del resto,
attribuendo alla strategia un potere indipendente dai risultati tattici cadiamo
in un errore di impostazione delle problematiche da affrontare che potrebbe
esserci fatale. In realtà, la strategie dovrebbe seguire la tattica seguendo un
approccio ed uno sviluppo bottom-up e, viceversa, il conseguimento di
apprezzabili risultati tattici è lo scopo unico e finale di una strategia, dal
momento che se così non avvenisse essa risulterebbe essere sbagliata
indipendentemente dall’arguzia, dall’ingegnosità e dalla correttezza e
ricercatezza formale con cui viene concepita e sviluppata. Una strategia,
per quanto elaborata e teoricamente ineccepibile, non ha, cioè, alcun valore
se non riesce a far conquistare alla marca quelle posizioni che, ponendola
nel posto giusto al momento giusto e, soprattutto, sotto la prospettiva ideale
(con riferimento alla relatività del contesto ambientale nel quale essa si
trova ad operare), effettivamente servono per la sua affermazione nel
sistema valoriale dei consumatori1. In definitiva, non si tratta di preparare
piani per poi attendere gli eventi o cercare di far piegare ad essi le
circostanza, ma, al contrario, di fare piani che, in sintonia con il concetto
ne esprimano appieno il potenziale strategico, in modo da offrire una sicura
giustificazione per le dispendiose attività che il suo sviluppo richiede.
1
La valorizzazione della strategia adottata è, inoltre funzione del sistema di
percezioni e di preferenze proprio dei decisori d’impresa, dai quali vengono a dipendere
tanto il successo, quanto l’insuccesso. In proposito, Ciappei e Poggi (C. CIAPPEI, A.
POGGI, Apprendimento e agire strategico di impresa. Il governo delle dinamiche
conoscitive nella complessità aziendale, CEDAM, 1997, p. 40) fanno giustamente
notare che «L’aleatorietà del successo richiama la possibilità di non raggiungere gli
obiettivi. Ma l’ambiguità del successo è assai più profonda e si connette sia alla
possibilità di ingannarsi nella selezione degli esiti auspicati sulla base delle proprie
preferenze, sia al problema, in parte connesso, del mutamento delle preferenze in corso
d’azione».
Per l’attore, il successo è, quindi, un concetto estremamente variabile e relativo.
Continuano gli autori: «Per l’attore il successo non sta tanto nel raggiungimento di un
eventuale prefissato obiettivo, quanto nel vantaggio della propria azione valutato con i
contingenti giudizi di convenienza empiricamente adottati al momento in cui i suoi
effetti si producono (ex post)».
- 35 -
di mimesi e fusione profonda e ispirata tra impresa e mercato, si adattino
alle circostanze.
Non esistono, aprioristicamente intendendo, strategie buone o
cattive, discendendone la validità esclusivamente dai risultati conseguiti sul
campo1 e, poiché questi ultimi esprimono il modo con cui vengono
raggiunti gli obiettivi tattici nell’arena competitiva, ne consegue che un
adeguato livello conseguito di fusione con il mercato rappresenta un
fondamentale prerequisito per conquistare una determinata posizione negli
spazi mentali del consumatore (che costituiscono il naturale campo di
battaglia della competizione tra le imprese). Solo una conoscenza intima e
profonda di come funziona la dinamica degli spazi mentali con riferimento
a un dato mercato ed ai potenziali acquirenti che ad esso fanno riferimento,
infatti, consente ai decisori d’impresa di sviluppare una strategia
appropriata ed efficace.
Paradossalmente, mentre la strategia si evolve partendo da una
profonda comprensione della tattica, una buona strategia deve dimostrare di
saper prescindere da tattiche superlative. In altre parole, se per conseguire
una posizione di rilievo sul mercato è necessario affidarsi a delle tattiche
straordinarie, ciò indica, di per sé, che la strategia di fondo non è affatto
solida. La strategia, quindi, deve essere tale da mettere l’impresa nelle
condizioni di seguire una tattica sufficientemente “facile” per conseguire
gli obiettivi prefissati e si dimostrerà tanto migliore, quanto più riuscirà in
questo intento.
Se da una parte la strategia di posizionamento deve seguire,
attraverso il perseguimento di una simbiosi con il mercato, l’aspetto tattico
e se, dall’altra, deve saper dimostrare di poter prescindere da tattiche
eccellenti, qual è, allora, il vero ruolo della strategia? Una volta assunta una
determinata posizione, se ciò non avviene in seguito ad un’approfondita
analisi tattica della situazione, l’impresa, venendosi a trovare nella
condizione di dover prendere decisioni immersa in mezzo ai flussi
concorrenziali, potrebbe ritrovarsi a cambiare spesso idea e ad essere
Le strategie – ed in particolar modo quelle di posizionamento – dovrebbero
essere giudicate per la loro efficacia solo nel momento in cui vengono a contatto con il
cliente e con la concorrenza.
1
- 36 -
troppo sensibile alla tattica attenendosi ad una stretta visione “dal dentro”
mancando, invece, di un’adeguata visione prospettica “dall’alto”.
Viceversa, se la strategia dell’impresa è bene impostata sulla base di
fondate considerazioni tattiche, una volta in posizione nell’arena
competitiva, dovrebbe essere la strategia a orientare e guidare la tattica
informandola sugli obiettivi di pari grado che sono stati alla base della sua
generazione e facendo prevalere una prospettiva “dall’alto” in grado di
indirizzare quella “dal dentro”. A volte, infatti, può rendersi necessario
saper trascurare le necessità tattiche per potersi dedicare al raggiungimento
degli obiettivi strategici, dopodiché seguiranno, a corollario, gli effetti
tattici ricercati.
Un problema che spesso pesa sulla strategia di posizionamento
dell’impresa è costituito dall’assenza di una comunità d’intenti nel
perseguirla. A monte della questione troviamo l’inadeguatezza della
comunicazione interna e dell’organizzazione di ruoli e competenze, con il
proliferare di centri periferici cui vengono demandate scelte strategiche
anche rilevanti e che, sebbene possano offrire risultati incoraggianti nel
breve periodo, a lungo andare sono fonte di incomprensioni e distorsioni
rispetto a quell’unitarietà della direzione strategica che sempre deve
fungere da riferimento per le diverse attività aziendali.
La strategia non è, in altre parole, qualcosa che posa essere esteso,
tirato, contratto e mutato a piacimento senza intaccarne il significato:
muovere un suo elemento dall’alveo concettuale di riferimento,
aggiungerne di nuovi od eliminarne altri ha come conseguenza inevitabile
alterarne le connotazioni e la natura, conducendo a qualcosa che è diverso
rispetto alle originarie intenzioni. Di qui, la necessità di pensare in modo
unitario e concorde rispetto al sentire del mercato, onde non incorrere in
riposizionamenti che portino l’impresa fuori dal cuore della competizione,
affievolendo o addirittura distorcendo il senso ed il valore dell’identità e
dell’immagine di marca. Il governo di una strategia da parte dell’impresa
dovrebbe essere sempre dominato da un solo obiettivo il quale, pur
articolato in sotto-obiettivi, dovrebbe avere la priorità assoluta rispetto ad
ogni altro possibile intendimento, informando di sé tutte le attività poste in
essere dall’impresa (non seguire questa strada significa, in sostanza, andare
- 37 -
contro il più basilare ed elementare dei principi: quello della
concentrazione della forza).
Altro fattore determinante nel valutare le possibilità di successo di
una strategia è dato dalla considerazione o meno della naturale norma
derivata dalla fisica secondo cui ad ogni azione corrisponde una reazione
uguale e contraria. In caso ciò non avvenga, a dimostrazione dell’esistenza
di una situazione di disorientamento miopico1, le possibilità che la strategia
segua la strada tracciata ex ante sono minime, andando incontro a
mutamenti del contesto concorrenziale non inclusi nell’analisi delle forze
dalla quale deriva la sua determinazione. Una buona strategia di
posizionamento, quindi, è quella che, oltre ad orientare la marca verso una
posizione idonea ad affrontare la competizione, non trascura di anticipare le
mosse reattive della concorrenza. Ad esempio, l’impresa che si trovi in una
posizione di leadership e, pertanto, debba temere un attacco che si
concentri sull’elemento di gracilità che inevitabilmente risiede nella sua
stessa forza (risultando, anzi, amplificata tale debolezza all’aumentare della
forza che la marca manifesta)2, si troverà a dove prendere, in anticipo, la
difficoltosa decisione di indebolire (relativamente) la sua stessa posizione
di forza per minimizzare l’efficacia potenziale di un’offensiva su quel
fronte da parte dei competitori3.
Sintetizzando, vale la considerazione che qualunque azione
un’impresa voglia intraprendere, tale azione non può mai essere separata
dalla strategia che essa implica: l’azione è la strategia. La continuità tra
azione, strategia e tattica, secondo cui la tattica aiuta a elaborare la strategia
la quale, a sua volta, permette all’impresa un certo corso d’azione,
costituisce un punto di riferimento fondamentale per quanto riguarda la
competitività espressa dall’impresa stessa. Una volta decisa l’azione, poi,
entra in gioco la strategia per dirigere la tattica: una barriera rigida tra
strategia e tattica servirebbe solo a frustrare l’intero processo. Come
1
V. par. 1.1.1.
2
V. par. 3.2.1.
3
In effetti, spesso le imprese sono riluttanti ad indebolire deliberatamente la
propria posizione ritenendo remoto il rischio che esse stesse contribuiscono a rendere
vicino con il suo mantenimento.
- 38 -
evidenziano Ciappei e Poggi, azione e governo strategico vanno a
comporre, in un processo ricorsivo basato sulla loro complementarietà
(dove la prima è orientata e ordinata dal pensiero strategico ed il secondo
cerca di compiersi attraverso essa), l’agire strategico, il quale «non si
esaurisce nella sola azione, ma, quale compimento ed espressione di una
strategia, comprende un vero e proprio sistema di governo che la ordina e
la orienta»1.
1.3 – Origine e natura del posizionamento
Il concetto di posizionamento ha diretta attinenza con quello di
differenziazione, ed in verità è nell’attuazione di tale linea direttrice che
esso manifesta appieno la sua valenza e il suo potere.
Occorre, tuttavia, risalendo a monte alle origini del vantaggio
competitivo, liberare il campo da ogni possibile equivoco circa la natura
del rapporto intercorrente tra strategie di posizionamento e, appunto,
vantaggio competitivo.
1.3.1 – Vantaggio competitivo e posizionamento.
Porter afferma che il vantaggio competitivo può essere conseguito
attraverso due strategie alternative: offrendo al consumatore un prodotto o
servizio ad un costo più basso rispetto ai concorrenti, oppure offrendone
uno che sia differenziato contando sul fatto che i potenziali acquirenti siano
disposti, in virtù di tale differenziazione, a pagare per esso un prezzo
superiore (naturalmente entro certi limiti)2. Quindi, inserendo il vantaggio
competitivo (distinto nelle due origini che può avere) come prima
dimensione di una matrice e ponendo nell’altra l’ambito competitivo scelto
dall’impresa (l’intero settore o un suo particolare segmento), Porter
1
2
C. CIAPPEI, A. POGGI, 1997, op. cit., p. 1.
M. E. PORTER, Il vantaggio competitivo, Edizioni Comunità, 1987.
- 39 -
individua tre possibili strategie di base: la leadership dei costi, la
differenziazione e la focalizzazione1.
Fonte del vantaggio competitivo
Basso costo
Intero settore
Differenziazione
Leadership
dei costi
Differenziazione
Ambito
competitivo
Un
particolare
segmento
Focus
cost
Focalizzazione
Differentiation
focus
Figura 1.3 – Le strategie di base di Porter
Le imprese che intendono praticare una strategia di costi bassi
vengono nettamente distinte da quelle che puntano ad una competizione
basata sulla differenziazione. Secondo Porter, infatti, le due tipologie di
strategia si escludono vicendevolmente e le imprese che non sanno o non
riescono a darsi un’impronta decisa rimanendo «a metà del guado» ne
risentono le conseguenze negative. L’autore individua il centro del
problema asserendo che «L’impresa che si blocca in mezzo al guado ha
probabilmente una cultura di impresa poco definita e opera in una
situazione organizzativa e motivazionale conflittuale»2.
1
La strategia di focalizzazione è quella attuata in un particolare segmento di
mercato. Essa segue comunque la medesima caratterizzazione praticabile a livello di
settore: anche a livello di segmento ci si può orientare verso il basso costo o verso la
differenziazione.
2
M. E. PORTER, 1987, op. cit.
- 40 -
Il fatto che una simile situazione di stallo possa venire a determinarsi
anche frequentemente non deve però implicare – ed in realtà non implica –
che i decisori si trovino di fronte ad un bivio riguardo alla strategia di base
da seguire. Nel mondo reale le possibilità offerte agli occhi di chi
concepisce le strategie sono ben più fluide di quanto sostenuto da Porter, ed
il fatto che sia pur sempre difficile comporre una forte differenziazione con
bassi costi non deve portare ad una immediata conclusione circa la loro
inconciliabilità. Il concetto stesso di posizionamento mostra come esistano
delle alternative praticabili e spesso auspicabili, circostanze nelle quali
l’optare per la strategia di differenziazione o per quella di leadership dei
costi non significa tralasciare l’aspetto posto in secondo piano. Occorre,
invece, riuscire a miscelare entrambi i punti focali in modo da ottenere
l’integrazione più congrua per affrontare l’arena competitiva. Ad esempio,
chi potrebbe affermare che McDonald’s, offrendo un prodotto essenziale e
a basso costo, non persegua una decisa differenziazione della propria
immagine e una chiara collocazione sul mercato?
Se è vero che il vantaggio competitivo si basa sulla creazione di
valore per il consumatore (sia perché la nostra offerta costa meno di quella
dei concorrenti e presenta analoghi benefici, sia perché presenta benefici
unici che consentono di rendere accettabili prezzi superiori), è altrettanto
vero che il posizionamento risulta essere il prodotto finale degli sforzi e dei
contributi sinergici e coerenti di tutte le aree aziendali. Ridurre i costi non
significa necessariamente abbassare la qualità del prodotto, dal momento
che, pur tralasciando la non banale considerazione che i minori costi
possono essere il risultato di economie di scala, di apprendimento, o
dell’utilizzo di nuove tecnologie, può essere lo stesso mercato di
riferimento a richiedere la non presenza di attributi ridondanti in favore di
risparmi di costo.
Possiamo esprimere la posizione della marca nell’arena competitiva
attraverso le combinazioni che scaturiscono dall’adozione di strategie
incentrate sulla creazione di un valore per il cliente o sul vantaggio di
- 41 -
costo. Ponendo le prime sulla dimensione verticale di una matrice1 e le
seconde su quella orizzontale otteniamo per risultato la determinazione di
quattro tipizzazioni che corrispondono a quattro situazioni fondamentali in
cui la marca può venirsi a trovare: commodity brand, benefit brand,
productivity brand, power brand.
Alto
Vantaggio
di
differenziazione –
Valore
addizionale
BENFIT
BRAND
POWER
BRAND
COMMODITY
BRAND
PRODUCTIVITY
BRAND
Basso
Alto
Basso
Costo relativo
Figura 1.4 – Classificazione delle marche su una base strategica
Una commodity brand non offre particolari vantaggi rispetto alle
altre marche, né quanto alla differenziazione e ai bisogni soddisfatti, né
quanto ai risparmi di prezzo. Essa presenta una scarsa caratterizzazione
che, insieme ad elevati costi relativi, pone la marca stessa in una situazione
difficile e pericolosa. La mancanza di una spiccata identità e di elementi
che forniscano valore al cliente comportano la percezione della marca
come qualcosa che offre una utilità relativa assai bassa; la sua collocazione
sul mercato non le offre la possibilità di trovare uno spazio di azione
adeguato e praticabile e neppure le conferisce una rilevante visibilità in
mezzo al gruppo dei competitori. Il fatto poi che la marca non possa
1
L. DE CHERNATONY, M. MCDONALD, Creating powerful brands in consumer,
service and industrial market, Butterworth Heinemann, 1998, p.289.
- 42 -
vantare bassi costi relativi impedisce che possa essere posizionata come
una (v.) productivity brand. Il futuro della marca risulta perciò minato su
due fronti: da una parte essa offre un valore inferiore (o nella migliore delle
ipotesi pari) ai concorrenti che si differenziano; dall’altra, a parità di valore
percepito, le verranno preferiti altri prodotti o servizi più a buon mercato.
Una benefit brand è tipicamente una marca che non offre particolari
risparmi di costo, ma può vantare un buon servizio. Si tratta spesso di
imprese che si focalizzano, per scelta o per necessità, su un determinato
segmento, cercando di soddisfarne appieno le particolari esigenze
trascurate dai competitori che operano su un più ampio fronte 1.In questa
situazione, soprattutto al fine di erigere barriere all’entrata su un mercato
che potrebbe farsi molto appetibile, è fondamentale riuscire ad accrescere
ulteriormente la propria differenziazione incrementando continuamente il
livello di soddisfazione arrecato al segmento di riferimento. Nel contempo
resta importante, quand’anche non impellente, cercare di ridurre il gap dai
migliori concorrenti riguardo ai costi relativi, a meno che la riduzione di
prezzo abbia un impatto negativo sulla percezione della qualità della marca,
nel qual caso va assolutamente ed accuratamente evitata.
Una productivity brand è una marca che fa del basso costo il suo
punto di forza e la sua sopravvivenza non è per questo necessariamente a
repentaglio. In effetti, esistono numerose imprese che prosperano
incentrando i propri sforzi nel soddisfare le esigenze di chi ha come
principio guida per le sue scelte l’economicità. Su un più lungo orizzonte
temporale, comunque, l’insorgere di problemi derivanti dall’ingresso sul
mercato di concorrenti che offrono analoghi prodotti o servizi più a buon
mercato e magari dotati di una certa caratterizzazione pare ineludibile. Il
controllo dei costi in ogni punto in cui viene esplicata la sua attività deve
costituire per l’impresa un obiettivo totalizzante e chi la dirige deve
ignorare ed evitare di rispondere alle possibili sirene di segmenti che siano
al di sotto di una soglia critica.
È proprio l’offerta di particolari e specifici benefici di cui il segmento target è
portatore ad essere apprezzata ed a realizzare un legame con l’impresa il quale
costituisce, per le benefits brands, l’asset più prezioso e importante da salvaguardare.
1
- 43 -
Le power brand sono marche che offrono ai clienti molti ed
importanti benefici in più rispetto agli altri competitori presenti sul
mercato. Le imprese che godono di simili vantaggi hanno saputo instaurare
un circolo virtuoso basato sulla loro capacità di affermare e sostenere la
propria unicità. Grazie all’alto livello di soddisfazione dell’acquirente che
raggiungono, esse possono, infatti, vantare elevate quote di mercato, le
quali, portatrici di vantaggi riguardo alla scala e all’esperienza, consentono
di trasferire parte di tali vantaggi ai clienti sotto forma di risparmi di
prezzo. Quando la marca si trova in questa condizione la priorità è quella di
accrescere continuamente il senso di soddisfazione dell’acquirente in modo
da poter alimentare il ciclo di produzione del valore della marca; deve
inoltre essere mantenuto uno stretto controllo dei processi all’interno
dell’organizzazione di modo che detto circuito non subisca interruzioni
dovute alle nuove complicazioni insite nel suo stesso accrescimento.
Una marca sviluppa valore attraverso il posizionamento se riesce a
capitalizzare le sue caratteristiche uniche che altri trovano difficile emulare.
La posizione raggiunta, insieme al terreno conquistato nella mente del
consumatore, è il vero nucleo del vantaggio competitivo, non importa se
conseguito spostandoci più sul lato dei costi o su quello della
differenziazione. Il saper creare posizioni che costerebbero troppo ai
concorrenti in termini di trade-off e di coerenza con la propria immagine
fino ad allora sedimentata costituisce poi l’arma più potente a disposizione
delle imprese per difendere posizione e vantaggio competitivo.
1.3.2 – Differenziazione e posizionamento.
Nonostante il posizionamento comporti la mobilitazione di tutte le
possibili energie e strategie a disposizione dei decisori, il suo centro
naturale è costituito dalla differenziazione.
La ragione che sta alla base di ciò è costituita dal crescente livello di
rumorosità riscontrabile nel mercato. Il consumatore, bombardato da flussi
informativi divenuti ormai esasperanti, non riesce più a distinguere i singoli
messaggi emessi dalle imprese, i quali si confondono e perdono tra i rumori
di fondo. Egli, ormai disorientato e frastornato, si dirige verso la sirena del
- 44 -
momento, quella che, per prima o con un impatto maggiore, in qualche
maniera è riuscita ad attirarne l’attenzione. Oppure, se deve procedere
all’acquisto di prodotti tradizionali e di uso comune, si affida a quei pochi
nomi che gli offrono una sensazione di stabilità e sicurezza, approdi
affidabili in mezzo a improbabili novità. Altre volte, invece, se prevale il
lato pragmatico dell’acquisto con la sola considerazione della mera
funzionalità da soddisfare, si orienta verso una scelta guidata dalla
convenienza: in fondo il denaro risparmiato, essendo misurabile e tangibile,
rappresenta una concreta e affidabile certezza.
I rischi che si corrono nell’apparire uguali agli altri competitori sono
evidenti. L’impresa che non possa godere di una diversità agli occhi del
mercato non potrà naturalmente pretendere di essere oggetto di scelta da
parte degli acquirenti, i quali la preferiranno solamente se altri non
cattureranno la loro immaginazione o se i vantaggi da essi offerti in termini
di acquisto differenziato risultassero inferiori rispetto ai costi per esso
percepiti. Rimanendo indistinte nel branco le imprese sarebbero cioè
preferite solo se, venendo a mancare più forti criteri di scelta, potessero
portare un senso di sicurezza derivante dalla conferma degli abiti
comportamentali di cui si riveste il consumatore oppure se gli arrecassero
una palpabile economicità. Ad ogni modo l’impresa non differenziata non
potrà certamente praticare prezzi ingiustificabilmente superiori a quelli dei
concorrenti nella ricerca di margini più alti.
Nel momento in cui la competizione non porta nessuna impresa a
prevalere perché qualunque mossa si faccia essa viene rapidamente imitata
dai rivali, occorre spezzare il gioco della libera concorrenza sfruttando le
imperfezioni del mercato e cercando di conquistare quello che è il campo di
battaglia decisivo: la mente del consumatore. Il fatto che i mercati stiano
tutti progressivamente tendendo ad avvicinarsi a una condizione di libera
concorrenza è il principale fattore di spinta delle imprese verso l’adozione
di una differenziazione. Per sopravvivere bisogna creare le condizioni per
uscire dall’anonimato e cercare di evitare la concorrenza pura. Grande
rilievo assume, ora, l’immagine di marca insieme ad una politica di
fidelizzazione della clientela che opponga alla sostituibilità l’onerosità
materiale (elevando barriere di costo) e immateriale (elevando barriere di
- 45 -
immagine) di trade-off derivanti da una scelta diversa.
Ancora, in favore dell’adozione di una strategia di differenziazione,
gioca l’importante constatazione di una più agevole difendibilità di un
vantaggio competitivo che si basi su di essa rispetto ad uno che poggi sulla
leadership dei costi.
Il conseguimento di un’appropriata differenziazione viene così a
rappresentare un obiettivo prioritario per l’impresa. Il problema è che sul
mercato non può esserci spazio a sufficienza per tutti i players. Vero è che i
confini e le dimensioni dello spazio competitivo sono in continuo
mutamento e permettono, a chi li sappia interpretare, sempre nuove,
inesplorate, opportunità di differenziazione. Ciononostante, la
compressione esercitata dalla concorrenza limita notevolmente la libertà di
movimento e di strategia. Con margini di manovra ridotti al minimo, si
rischia di cadere in una guerra di posizione che potrebbe condurre al
logoramento e allo sfaldamento delle strategie, oltreché delle strutture
dell’organizzazione e del mercato.
E’ per rompere questa situazione o, muovendosi d’anticipo, per
mettersi in posizione di superiorità, che le imprese si stanno rivolgendo
sempre con maggior frequenza e impegno (soprattutto finanziario) a
logiche espansive attuate attraverso strade alternative quali fusioni e
acquisizioni. Divenire grandi consente di strozzare la concorrenza e guidare
il mercato in virtù dei nuovi rapporti di forza instaurati. Spesso, anzi, pare
che le imprese adottino simili aggressive strategie espansive per battere la
concorrenza proprio perché riluttanti a seguirne altre, come quelle di
riposizionamento, ritenute più aleatorie e rischiose e richiedenti comunque
anch’esse ingenti risorse finanziarie. Di fronte a situazioni competitive
contorte e ardue da affrontare attraverso le consuete armi del marketing la
tentazione è, cioè, quella di risolvere la complessità facendone un nodo
gordiano. In mancanza di una strategia vincente e decisiva per guadagnare
quote di mercato e sopraffare le imprese rivali, un numero sempre più
elevato di imprese dei più vari settori ricorre così alla fusione con i
concorrenti o alla loro acquisizione.
Al di là dei vincoli intrinseci che possono derivare dall’estrema
semplicità e stringatezza delle caratteristiche di un prodotto, non esiste altro
- 46 -
limite alla differenziazione che quello della sensibilità e immaginazione
umana. Tutto quello che rende i nostri prodotti o servizi migliori, o
quantomeno differenti dagli altri, agli occhi degli acquirenti inducendoli ad
esprimere una preferenza nei nostri confronti, può essere assunto come una
base di lavoro per sviluppare una differenziazione di successo. Laddove si
apre una nuova possibilità di differenziazione se ne apre poi una più grande
per il posizionamento.
Nella realtà lo scontro che si genera tra marche concorrenti si
sviluppa sul delicato terreno della mente del consumatore. Le scelte operate
sulla considerazione di basi oggettive ed elementi e prestazioni misurabili,
e quindi ponderabili attraverso la razionalità non sono molto frequenti. Le
possibilità che si aprono alla differenziazione diventano viceversa tanto
maggiori, quanto minore è la valutabilità obiettiva delle caratteristiche del
prodotto o servizio. Si presenta, in quest’ultimo caso, l’opportunità di
aprirsi un varco attraverso l’immaginario dei potenziali acquirenti.
La scelta, in effetti, è il frutto dell’influenza di fattori sociali,
emozionali, psicologici ed estetici1, come appare in figura 3.1. E questi
sono i fianchi da colpire con ogni mezzo per riuscire ad accedere alla
mente. Conquistare e difendere questi punti strategici significa costruire un
guscio valoriale attorno al vantaggio competitivo. Diventa, allora,
fondamentale riuscire a comprendere la natura e gli effetti prodotti da tali
fattori nella loro reciproca interazione e nel sistema percettivo e decisionale
della mente.
1
R. M. GRANT, L’analisi strategica nella gestione aziendale, Il Mulino, 1994, p.
218.
- 47 -
Fattori
emozionali
Fattori
sociali
Mente
Fattori
psicologici
Fattori
estetici
Figura 1.4 – Fattori che influenzano la scelta
Per creare valore e diventare vettore di sviluppo, la differenziazione
e la marca, sua manifestazione nell’arena competitiva, devono riuscire a
interpretare in modo originale il contesto in cui è immerso il cliente. Come
vedremo più avanti (par 1.4) diventa necessario costruire valore attorno ad
una identità forte ed essere in grado di interpretare per primi i mutamenti
strutturali a livello socioculturale che avvengono nella società. È attraverso
la fusione con lo spazio che è attorno che diviene possibile giungere a una
comprensione profonda del mondo in cui vive il consumatore.
La differenziazione tuttavia non può più solamente avvalersi dei
classici criteri di segmentazione per stili di vita, reddito, ecc. Accanto alla
segmentazione per benefici apportati, che mantiene intatta la sua rilevanza
e consente di attuare strategie di posizionamento incentrate sulle attività
- 48 -
svolte e sulla loro relazione con i bisogni soddisfatti, irrompe un nuovo
criterio per la segmentazione legato alla particolare condizione di
fascinabilità che sembra esprimere il consumatore dei nostri giorni.
Possiamo riferirci ad essa definendola segmentazione per immaginari
collettivi. Gli immaginari collettivi, a volte simili a miraggi di gruppo, altre
a ondeggiamenti dell’idem sentire di ampi strati della società (quand’anche
non tutta, presa nel suo complesso) che si muovono in modo coordinato o
concatenato, paiono essere i veri vincitori di questo tempo di
disorientamento e intima insicurezza nel quale le menti cercano una
comune lenizione del disordine nell’identificazione di punti comuni su cui
ritrovarsi. L’immaginario collettivo si nutre del luogo comune e nel luogo
comune ritorna, ma proprio questa, non a caso, sembra essere la sua forza,
essendo, esso, divenuto il centro della socialità. Lo stesso significato
letterale di “luogo comune” esprime la constatazione che si tratti di un
posto dove ritrovarsi, ognuno con le proprie problematiche (vere o
presunte, comunque avvertite), per esorcizzare le rispettive debolezze di
fronte alle sempre nuove avversità da affrontare. L’immaginario collettivo
viene ad essere allora un sicuro approdo in mezzo al caos
ipercomunicativo, e poco importa che per definizione abbia vita breve:
dopo di esso ne seguirà un altro e poi un altro ancora. Nel momento in cui
l’immaginario inevitabilmente va a sfumare, esso viene, infatti, sostituito
da uno che meglio si adatta alla mutata visione del reale. La temporaneità è
ormai divenuta parte del nostro vivere e l’illusione, pur consapevole di
esserlo, di aver trovato anche solo per poco il senso di una qualsiasi cosa
pare avere sulla mente un effetto catartico.
Gli immaginari collettivi si sviluppano lungo un orizzonte temporale
più lungo rispetto al semplice trend1, che ha portata più limitata, spesso
limitata a un anno o a una stagione, e l’impresa deve riuscire a far evolvere
i significati e i valori della marca insieme all’evoluzione degli immaginari
1
Il riferimento al trend è, come vedremo nel capitolo quinto (par. 5.6), è qui
generico e corrisponde a quelli che chiameremo “trend secondari” e “trend terziari”,
mentre quello agli immaginari collettivi corrisponde, almeno in una prima
approssimazione, a quello che indicheremo come “trend primario”.
- 49 -
collettivi e dei mondi di riferimento, comunque nel rispetto della propria
identità1.
Tra i concetti di differenziazione e di posizionamento non esiste,
però, una corrispondenza biunivoca. Mentre una scelta di differenziazione
implica il perseguimento di un posizionamento, non è vero il contrario:
possiamo posizionarci sul mercato o su un suo segmento anche senza
adottare una politica che metta in risalto la nostra diversità e unicità. Sarà
questo un posizionamento “periferico” che tuttavia, in alcuni contesti, può
portare a risultati soddisfacenti soprattutto in assenza si risorse interne che
possano rivelarsi risolutive, o quantomeno all’altezza dei maggiori
concorrenti. Si pensi ad esempio a situazioni che ci vedono come piccoli
players in un business dall’evoluzione ancora non ben definita e con una
limitata visione dall’interno e dall’alto. In questo caso la priorità è quella di
sopravvivere per cercare poi di cambiare i connotati all’impresa e al
prodotti, incrementando i segni di distinzione e la distanza dai diretti
competitori.
1.4 – Concetto, identità ed immagine di marca come
decisioni strategiche
Le strategie che basano il posizionamento sull’aumento del valore
dell’offerta non possono, tuttavia, costruire il proprio successo
esclusivamente sulle funzionalità soddisfatte dal particolare prodotto o
servizio. L’immagine viene allora ad essere l’asse portante per la conquista
del vantaggio competitivo.
Possiamo definire l’immagine di marca come l’espressione che
sintetizza in sé il prodotto o servizio così come viene percepita dal
ricevente il messaggio, la quale assume forma e significato attraverso la
rappresentazione che questi pone in essere nella sua mente. Essa deve
essere forte, chiara e definita. La forza dell’immagine è strettamente
connessa alla personalità di cui essa è portatrice. Pertanto, l’immagine deve
possedere una propria personalità: non deve sembrare un qualcosa messo lì
1
Questo è un criterio valido da seguire anche nella prospettiva di un
allungamento della del ciclo di vita della marca.
- 50 -
e attaccato al prodotto per caso, ma apparire evidente, inequivocabile e
naturale (anzi, esserlo, in quanto espressione della fusione tra impresa e
mercato), quasi non ci fosse nemmeno il bisogno di indagarne e
comprenderne natura ed origine. Il risultato ideale sarà ottenuto quando
l’acquirente potenziale, avvertendo un qualsiasi stato di bisogno rientrante
tra quelli cui intendiamo rivolgerci, identificherà assieme ad esso, in un
unico e inscindibile processo, la sua naturale ed ovvia soluzione nella scelta
della nostra marca.
La definizione e la chiarezza dei concetti espressi dall’immagine di
marca attengono alla sua identificabilità ed all’impossibilità percepita dal
cliente di compiere errori di valutazione circa la scelta del problem-solver
più adatto alla sua particolare esigenza, e sono inscindibilmente legate al
requisito di forza.
1.4.1 – La relazione tra prodotto e cliente.
La comprensione del reale ruolo svolto dall’immagine di marca nella
relazione tra impresa e mercato deve confrontarsi con la confusione
generata dalla sovrapposizione di concetti spesso fraintesi.
Dare una definizione del prodotto può, quindi, varcando la soglia
dell’ovvietà, riportare le cose nella giusta prospettiva. Il prodotto, in
estrema sintesi, altro non è che un problem-solver, nel senso che possiamo
concepirlo come un mezzo atto a risolvere le problematiche avvertite, più o
meno consapevolmente, dal consumatore, di qualunque derivazione e
natura – funzionale, simbolica, ecc.… – esse siano. Di più: il prodotto è
quello che il consumatore compra, indipendentemente da ciò che l’impresa
offerente ritiene che esso sia o rappresenti. È il consumatore, in altre
parole, ad attribuire il significato al prodotto, e il comprenderlo significa
per le imprese fare un notevole passo in avanti verso l’orientamento alla
fusione con il mercato, evitando di incorrere nell’assai frequente peccato di
presunzione (frutto probabilmente di un disorientamento miopico) che da
quell’orientamento invece allontana. La conseguenza che ne traiamo è che,
se ad esempio viene a prodursi la decadenza e il fallimento di un prodotto,
non sono i potenziali acquirenti a non avere capito il messaggio, ma è
- 51 -
l’esatto contrario. La responsabilità della mancato convergenza tra
l’immagine della marca e le aspettative del mercato viene ad essere
imputabile alla carenza di sensibilità da parte dell’impresa.
Un’impresa la quale cada nell’errore di non pensare alla sua offerta
in termini dei benefici apportati al consumatore, è un’impresa che corre
seriamente il pericolo di perdere la sua posizione competitiva.
PRODOTTI
Quello che noi
vendiamo
Incontro
CLIENTI
Quello che i clienti
vogliono
Segnali
Figura 1.5 – Relazione tra prodotto e cliente.
Osserviamo la figura 1.4. Questa pur semplicistica rappresentazione
del rapporto che intercorre tra chi esprime una domanda e chi a quella
domanda vuole dare una interpretazione e una risposta, pone in evidenza il
ruolo del prodotto quale elemento che deve muoversi e convergere verso il
bisogno percepito. Anche nel caso in cui si voglia prospettare un
movimento in senso contrario per il quale, a volte, sarebbe il cliente a
muoversi verso il prodotto, si tratta, in realtà, del medesimo rapporto, che è,
e permane, invariabile; tale diverso senso è soltanto apparente e deriva dal
fatto che i bisogni, pur non essendosi manifestati apertamente, sono stati in
qualche modo (più o meno inconsapevole) ugualmente avvertiti
dall’impresa e raggiunti dall’azione strategica espressa nel prodotto. Il
cliente sta solo seguendo una strada che era già esistente, ma non ancora
visibile agli occhi suoi e dei più.
Da parte sua, il mercato emette continuamente segnali, che sì,
possono risultare estremamente difficile da percepire da parte dell’impresa,
ma non per questo devono portare a dubitare circa la loro esistenza. Sono
- 52 -
del resto la complessità e l’apparente contraddittorietà dei modi con cui il
mercato esprime i suoi bisogni ad accrescere il valore delle informazioni in
essi contenute. Interpretarli in un senso e non in un altro può tuttavia
condurre lontano dal cuore della competizione.
Può risultare conveniente, a questo punto, indagare il modo con cui il
prodotto, proponendosi come problem-solver, riesce a fare breccia nella
mente del consumatore. A tale fine rappresentiamo il prodotto come il
risultato dell’aggregazione dei diversi elementi di soddisfazione dei
bisogni. Secondo l’intensità e le peculiarità con cui tali elementi sono
presenti possiamo osservare risposte diverse al medesimo bisogno.
Gli elementi di base che caratterizzano il core product – il nucleo
dell’offerta – sono quelli che esprimono la ragione per cui l’impresa è sul
mercato e rispondono alle primarie esigenze funzionali, estetiche, di prezzo
delle quali l’azione dell’impresa vuole essere la risposta. Con l’espressione
lateral product intendiamo tutte quelle attività di contorno che servono a
dare una particolare caratterizzazione e attenzione ai bisogni secondari (per
ordine, non necessariamente per importanza) dei potenziali acquirenti. Il
terzo livello del prodotto – image – è costituito da tutte quelle attività che
sono riconducibili all’affermazione dell’immagine del prodotto o, più in
generale, della marca.
- 53 -
CORE
PRODUCT
-
Funzione
Prezzo
Packaging
Design
…
LATERAL
PRODUCT
-
-
-
Consegna
Servizio
preacquisto
Servizio
postacquisto
Garanzia
…
IMAGE
-
Unicità
Importanzadesiderabilità
Coerenzacredibilità
Figura 1.6 – Livelli di efficacia del prodotto
I tre livelli di espressione del prodotto hanno un diverso impatto sul
rapporto che l’impresa intrattiene con il mercato. A livello di core product
la concorrenza porta spesso a situazioni nelle quali le differenze tra i vari
competitor sono poco evidenti; qui i margini per la differenziazione sono
quelli che derivano dalle attività o il riflesso delle scelte operate a un altro
livello del prodotto (pensiamo, per esempio, allo stretto legame tra
immagine da una parte e design e packaging dall’altra). Inoltre è questo
livello che assorbe le maggiori energie dell’organizzazione e comporta i
- 54 -
maggiori costi. Se l’azione strategica dell’impresa si arresta a questo livello
incorre, come denota l’arrestarsi al primo stadio del vettore in figura 1.6, in
una minore efficacia e nel rischio di trovarsi a competere in un ambiente
dove i prodotti si avvicinano sempre più ad essere delle commodity con le
relative difficoltà a distinguersi.
PRODUCT
SURROUND
Percezione
della qualità
Serv.prevendita
Percezione
del valore
Serv.
durante
vendita.
Serv. postvendita
Funzione
Garanzie
Organizzazione
Packaging
Design
Disponibilità
Prodotto
Aggiunte
Caratterizzazione
Efficacia
Prezzo
Altre
raccomandazioni
dell’utente
Consegna
Consulenza
Brand
name
Finanza
Reputazione
Corporate
image
IMAGE
CORE
PRODUCT
LATERAL
PRODUCT
Figura 1.7 – I livelli del prodotto in una visione concentrica
- 55 -
A livello di lateral product, che contribuisce principalmente a una più
marcata caratterizzazione e, soprattutto, a livello di image, troviamo,
invece, le attività che maggiormente contribuiscono ad arrecare valore e
incisività al prodotto. È qui che prende spessore e vigore la forza di impatto
della marca.
Ricollegandoci all’impostazione di De Chernatony e McDonald
(figura 1.7) possiamo rappresentare il prodotto come un’insieme
concentrico di circonferenze il cui nucleo è costituito dal core product e
dove le circonferenze più esterne, rispettivamente riconducibili al lateral
product e alla image, formano quello che gli autori chiamano product
surround, la dimensione del prodotto che in maggiore misura contribuisce
alla creazione del valore1.
La classificazione proposta non vuole comunque essere intesa come
normativa, limitandosi a consentire un inquadramento meno nebuloso e più
razionale e sistemico delle caratteristiche del prodotto. In realtà core
product, lateral product ed image non sono distinguibili e riconoscibili
facilmente, dal momento che ogni elemento costituente un determinato
livello è intimamente legato a tutti gli altri. Il senso proprio di ogni
prodotto deriva proprio dalla forma e intensità che assumono le relazioni
che sussistono tra i suoi diversi elementi e tra questi ed i potenziali clienti.
1.4.2 – Il concetto di marca.
Per concetto di marca intendiamo un significato attribuibile alla
marca derivante dai bisogni di base dei clienti (funzionali, simbolici,
esperenziali) e scelto dall’impresa. La gestione del concetto di marca
rappresenta il mezzo per mantenere il controllo, attraverso la definizione
dell’identità di marca, sull’immagine di marca.
I passi logici della creazione e governo del concetto di marca, così
come individuati da Park, Jaworski e MacInnis2, sono sintetizzabili come di
seguito:
1
L. DE CHERNATONY, M. MCDONALD, 1998, op. cit., p. 6.
2
C. W. PARK, B. J. JAWORSKI, D. J. MACINNIS, Strategic brand Concept – image
management, in “Journal of marketing”, ottobre 1986, p. 136.
- 56 -


selezione di un concetto di marca;
gestione nel tempo del concetto di marca attraverso le fasi di:
- introduzione;
- elaborazione;
- fortificazione.
SELEZIONE DEL CONCETTO DI MARCA
La selezione di un concetto di marca deve opportunamente basarsi su
un’attenta considerazione dei bisogni dei clienti, mettendo in atto, in questo
modo, un posizionamento che tenga conto delle ragioni d’uso e delle
attività dell’impresa. I bisogni possono essere ricondotti a tre fondamentali
categorie: funzionali, simbolici, esperenziali.
I primi sono individuabili in quelli che spingono alla ricerca di
soluzioni per problemi relativi al consumo, in grado, cioè, di risolvere un
problema corrente, prevenire un problema potenziale, risolvere un conflitto
o intervenire su una situazione divenuta frustrante per riformarla. Un
prodotto in grado di offrire un beneficio funzionale è quindi un problemsolver orientato a dare risposta ad esigenze riguardanti il consumo e
generate esternamente al sistema valoriale della persona.
I bisogni simbolici sono definibili come desideri di acquisto che
nascono in funzione della soddisfazione di esigenze di auto-stima o di
differenziazione della propria personalità, oppure in relazione alla
posizione relativa riguardo ai ruoli assunti in un determinato contesto o alla
partecipazione e appartenenza a gruppi sociali. Una marca il cui concetto
risponda a un bisogno simbolico – che appare all’esterno, ma viene
avvertito e imposto all’interno – svolge, infatti, il ruolo di dare evidenza a
un ruolo, una posizione, un’immagine di sé.
I bisogni esperenziali esprimono il desiderio verso quei prodotti che
arrecano piacere per i sensi e per la mente, offrendo stimoli per la
- 57 -
cognizione dovuti spesso ad un’esigenza di varietà1. Una marca che si
orienti alla soddisfazione di questo genere di necessità, siano esse di
stimolo o di varietà, sta rispondendo ad esigenze generate internamente.
Ogni marca può essere posizionata in base a ciascuno di questi
bisogni e proiettare perciò un’immagine funzionale, simbolica o
esperenziale. Risulta possibile, tuttavia, anche un posizionamento fondato
su una loro combinazione. In questo caso aumentano però i problemi,
dovendo la marca fronteggiare una minore definizione del proprio focus
(rischiando di incorrere in vere e proprie crisi di identità da parte sua e di
identificazione da parte del cliente). Aumenta inoltre il numero di avversari
che creiamo con la nostra scelta di porci su più terreni di battaglia2. È
indubbio, per concludere, che una siffatta scelta aumenti i costi di gestione
della strategia di marca sia nella fase di introduzione, che in quelle di
elaborazione e fortificazione.
Una volta stabilito, il concetto di marca viene utilizzato per guidare
le decisioni relative al posizionamento. Il concetto deve rimanere il più
stabile possibile per tutta la vita della marca incrementando così il livello di
coerenza e credibilità della stessa. Questo ovviamente non significa che la
particolare posizione assunta debba restare invariabilmente la stessa. Al
contrario, il perseguimento dell’affermazione della marca impone che la
specifica posizione da essa perseguita vari con le mutate condizioni del
mercato.
Appare opportuno specificare che il concetto di marca non va a
sostituire la nozione di posizionamento. Il suo ruolo è piuttosto quello di
coadiuvarlo e conferirgli, allo stesso tempo, una maggiore flessibilità.
1
È notorio che la soddisfazione non dipenda soltanto dal livello del consumo,
ma anche dalla sua variabilità, ovvero dalla percezione dell’oscillazione e, in
particolare, della crescita. La psicologia e la biologia dimostrano, infatti, come siamo
molto meno sensibili al livello assoluto di uno stimolo sensoriale, piuttosto che alle
variazioni rispetto al suo livello abituale o agli standard che derivano all’esperienza.
2
Una importante implicazione della creazione di un concetto di marca consiste
proprio nel fatto che è esso a determinare quali siano i concorrenti dell’impresa.
- 58 -
GESTIONE DEL CONCETTO DI MARCA
La relazione tra concetto ed immagine di marca deve essere gestita
nel tempo in modo da consentire l’adozione di strategie di posizionamento
che permettano alla marca di svolgere appieno il suo ruolo di tramite tra
impresa e cliente.
Nella fase di introduzione l’obiettivo principale è quello di
insediare l’immagine di marca in una posizione nel mercato in modo da
darle già una prima connotazione che deve però permettere tutti quegli
aggiustamenti (anche rilevanti) che si possono rendere necessari e che sono
ancora particolarmente numerosi in questo passaggio e nei successivi. Gli
sforzi di posizionamento nell’introduzione del concetto di marca
dovrebbero, cioè, essere mirati a facilitare quelli nell’elaborazione e nella
fortificazione. Le leve strategiche da attivare sono quella comunicativa e
quella legata al porre in essere attività orientate alla interazione e
transazione con il mercato (in verità una enucleazione e specificazione
della prima). La prima vede coinvolto tutto il marketing mix nella prima
proiezione e affermazione dell’immagine di marca oltre che nella
differenziazione dai concorrenti. La seconda tende a favorire la
familiarizzazione con la nuova marca e mette in campo una disponibilità a
trecentosessanta gradi a farsi conoscere e a mettersi a disposizione,
abbattendo le barriere e le resistenze che si possono frapporre fra impresa e
cliente.
Il posizionamento di una marca con un concetto di funzionalità
dovrebbe orientare il marketing mix a mettere in rilievo la particolare
capacità e performance della marca nel risolvere gli specifici problemi
connessi al consumo (l’originaria natura di problem-solver del prodotto
viene qui fuori in tutta la sua portata). La performance della marca
dovrebbe essere, qui, differenziata da quella delle marche concorrenti.
Le marche basate su concetti simbolici dovrebbero porre i maggiori
sforzi nell’avvicinare e attirare l’attenzione dell’uditorio che ne costituisce
il target per poi imporsi come oggetto di desiderio riguardo alla risposta
alle specifiche esigenze di cui esso è portatore. Adottare un prezzo elevato
e riuscire ad entrare nel ristretto ed esclusivo circuito distributivo dal
- 59 -
cliente riconosciuto come naturale sbocco del particolare tipo di marca che
va ricercando, potrebbe costituire un buon primo passo. L’importante,
comunque, è che si metta implicitamente o esplicitamente in evidenza che
la marca è qualcosa che distingue i clienti che rientrano nel target da quelli
che non vi rientrano, invitando così i primi a fare parte di un qualcosa di
speciale, un mondo a parte dove le proprie esigenze troveranno
appagamento.
Le strategie adottate da marche che si appellano a bisogni
esperenziali dovrebbero essere impostate in modo da porre in risalto la
capacità della marca di esprimere quella stimolazione cognitiva e
soddisfazione sensoria che sono alla base del concetto di marca.
Nella fase di elaborazione lo sforzo delle strategie di
posizionamento, guidate dal concetto elaborato, va rivolto e focalizzato
all’incremento del valore dell’identità di marca di cui l’immagine è
espressione, in modo da stabilire e sostenere la percezione della sua
superiorità su quella dei concorrenti. Per ottenere l’effetto desiderato, la
strada da percorrere può essere quella di rivolgerci a un più specifico
bisogno oppure migliorare uno o più attributi del prodotto tra quelli
avvertiti come particolarmente importanti. Qualora si renda necessario
procedere ad un aggiustamento riguardo alla posizione assunta nella prima
fase, ciò non deve comunque coinvolgere il concetto di marca.
Sebbene tutti i concorrenti abbiano gli stessi obiettivi di
rafforzamento e differenziazione, i risultati che essi conseguono, oltre che
dalle diverse capacità e risorse a disposizione e dai conseguenti diversi
livelli di fusione con il mercato raggiunti, sono determinati anche dai
diversi concetti di marca che rappresentano le rispettive basi per la
competizione. Rilevante è poi la constatazione che la strategia adottata in
questo stadio si presenta come l’estensione di quella seguita
nell’introduzione.
Una marca imperniata sul concetto della funzionalità ha la facoltà di
scegliere tra una ulteriore specializzazione1 nel proporsi come problem1
Stiamo concentrandoci su un segmento più ristretto, ma in grado di generare
grandi profitti potenziali, anche se la marca non resterà isolata nella sua posizione felice
per molto tempo, dal momento che la profittabilità del segmento attirerà sul mercato
- 60 -
solver di una determinata esigenza (scelta che diventa particolarmente utile,
se non necessaria, quando i prodotti diventano sempre più complessi e
sofisticati, i bisogni specifici, il mercato frammentato), oppure una strategia
di generalizzazione con l’obiettivo di rendere la marca utile in tutta una
serie di occasioni di uso per le quali in precedenza non lo era. Nel primo
caso, l’impresa goderà, a corollario, del beneficio legato alla restrizione del
numero di concorrenti presenti sulla sua stessa arena competitiva. Nel
secondo, andrà incontro allo scenario opposto, anche se potrà disporre di un
prodotto dalle caratteristiche più versatili. L’optare per l’una o per l’altra di
queste strategie dipenderà allora dalla particolare struttura e dalle
specifiche connotazioni del mercato preso in considerazione.
Una marca con un concetto simbolico ha per obiettivo, nella fase di
elaborazione, il mantenimento dell’associazione e del legame con il gruppo
che ne rappresenta il target di riferimento. La strategia di posizionamento
adottata in tal senso e volta al mantenimento dell’esclusività della marca
viene definita “market shielding strategy”. Si tratta di erigere barriere a ché
il consumo della marca risulti difficoltoso a chi non appartiene al target
magari agendo in modo tale da far nascere poi in questi ultimi il desiderio
di entrare a far parte dello stesso mondo – di riferimento – cui si rivolge la
marca allargando così su essi la propria sfera di influenza. Mantenere
l’immagine è molto difficile, date le crescenti pressioni concorrenziali,
tuttavia può rappresentare l’unica via per estendere la vita di una marca.
Le marche esperenziali, enfatizzando l’aspetto sensoriale/cognitivo,
promuovono per propria vocazione e natura l’uso frequente. Il rischio è che
questa frequenza arrivi a determinare una sensazione di sazietà o addirittura
una situazione di overdose con un’inevitabile riflusso ed il seguente
indebolimento dell’immagine di marca1. Si rende perciò necessario il
mantenimento di un certo livello di controllo degli stimoli e del consumo.
Per evitare di vedere ridurre il grado di stimolazione sotto livelli critici le
nuovi agguerriti concorrenti. Aumentare il valore dell’immagine percepita ed essere
riconosciuti come coloro che fanno il mercato potrà comunque servire ad opporre
resistenza all’erosione della quota di mercato.
1
Si tratta, questa, di una situazione evidentemente difficilmente verificabile per
una marca che si incentri su un concetto simbolico.
- 61 -
marche il cui concetto si basa sui bisogni esperenziali possono seguire due
diverse strategie principali. Da una parte possono allargare l’offerta
attraverso il rendere disponibili prodotti o servizi accessori da usare
congiuntamente alla marca. Oppure può essere creata una rete di marche
ciascuna portatrice di qualcosa di diverso garantendo in questo modo una
pluralità di stimoli differenti.
Nel terzo (eventuale) stadio, la fase di fortificazione, l’obiettivo è
quello di procedere al collegamento dell’immagine di marca elaborata con
altri prodotti della stessa impresa appartenenti a differenti classi di
prodotto. I prodotti multipli, almeno nelle intenzioni, si rafforzano
vicendevolmente e conferiscono alla aggregazione di marca un senso di
unità e coesione aumentandone il valore. Questo, tuttavia, non significa
un’interruzione per la fase di elaborazione, la quale, al contrario, continua
per tutta la vita della marca. L’adozione si una strategia di fortificazione
presenta, inoltre, ulteriori vantaggi: i costi si comunicazione verrebbero
ripartiti su una più ampia base; la presenza di immagini simili potrebbe
aiutare a creare la percezione di una complementarità dei prodotti
inducendo ad un utilizzo congiunto; le singole immagini potrebbero
concorrere all’incremento del valore dell’immagine di impresa. I rischi
sono quelli che derivano dal non costituire dei compartimenti stagni: una
eventuale perdita di immagine di una marca potrebbe, per un’inevitabile
associazione questa volta negativa, trasmettersi rapidamente alle altre,
rendendo estremamente arduo qualsiasi tentativo di ripristinare l’originario
valore di marca.
In questa fase le strategie di posizionamento dovrebbero enfatizzare
il collegamento all’originale concetto e immagine di marca (“bundling
strategies”) e l’impresa dovrebbe riuscire ad avere, se possibile, una
ampiezza di visione ancora maggiore. Le marche basate su un concetto
funzionale devono fare risaltare il collegamento con altri prodotti orientati
alla performance. Un processo analogo vale per quelle che rispondono a
problemi esperenziali dando una particolare enfasi alla complementarità tra
i prodotti.
Maggiori appaiono le potenzialità di una bundling strategy se essa
viene applicata a prodotti che rispondono ad esigenze simboliche. In questo
- 62 -
caso, diventa possibile giocare con i collegamenti in modo tale da creare
veri e propri stili di vita dei quali i singoli prodotti sono ognuno parte.
1.4.3 – Ideazione e gestione dell’identità di marca.
L’approccio al concetto di marca, inserito nel contesto del
posizionamento, viene sempre più riconosciuto come passaggio obbligato
da affrontare da parte della strategia ai fini della generazione e
dell’accrescimento del valore d’impresa e per il conseguimento del
successo della marca nel mercato, andando a ribaltare, in questo modo, i
rapporti di forza con la nozione di prodotto a lei simmetrica. La marca ha,
cioè, conquistato quel ruolo di primo piano che prima non le era
riconosciuto, distaccandosi ed elevandosi sopra la passata inclinazione a
fare del prodotto la leva strategica principale e di riferimento per l’azione
strategica.
Nel concetto di marca vengono così a convergere sia gli attributi
tangibili dell’offerta dell’impresa (quelli che ineriscono al core product)
che quelli intangibili e riconducibili al surround product, fra i quali spicca
senz’altro l’identità di marca assieme all’immagine di marca, la sua
proiezione nella mente del cliente così come viene da questi percepita.
Identità di marca ed immagine di marca non sono comunque
sinonimi e perciò non vanno confuse. La prima attiene al momento della
proiezione della visione della quale siamo portatori e della personalità che
ci caratterizza. In primo luogo, questa proiezione avviene verso l’ambiente
esterno nelle forme del target cui ci rivolgiamo, del comune sentire della
realtà sociale, economica, culturale, di potere propria del contesto di
riferimento. Ma importante è anche la proiezione che ne facciamo
all’interno dell’impresa, nel tentativo di informare l’intera organizzazione
secondo un codice genetico idoneo a farla pensare e muovere
coerentemente con la visione proposta.
L’immagine di marca è, invece, un concetto che attiene al momento
in cui l’identità proiettata dall’impresa giunge, attraverso un percorso in cui
i significati originari di questa possono essere alterati in seguito ai
condizionamenti della concorrenza, delle barriere percettive e delle
- 63 -
circostanze, alla mente del ricevente il segnale. Questi, alla fine del
processo appena descritto, implementerà un’immagine che non sarà
necessariamente coincidente con il sistema valoriale e simbolico contenuto
nel concetto di identità che è stato emesso.
La relazione tra identità ed immagine di marca è illustrata in figura
1.8. Come sappiamo, core product e surround product sono tipicamente
CORE PRODUCT
SURROUND PRODUCT
ATTRIBUTI TANGIBILI
ATTRIBUTI INTANGIBILI
CONCETTO
DI MARCA
FEEDBACK
FEEDBACK
IDENTITA’
DI MARCA
MENTE
IMMAGINE
DI MARCA
Figura 1.8 – Concetto, identità ed immagine di marca
portatori, rispettivamente, di attributi tangibili ed intangibili che esprimono,
confluendovi, il concetto di marca cui essa farà costante riferimento e che
assumerà le connotazioni di una vera e propria identità di marca.
Quest’ultima, ben definita, costituisce il modo di essere della marca e va ad
- 64 -
esprimere tutti i valori ed i significati che ne costituiscono il codice
genetico tanto nei rapporti che l’impresa intrattiene con il mercato, quanto
nei rapporti che si sviluppano al suo interno. L’immagine di marca, infine,
è la risultante della proiezione dell’identità nella mente dei potenziali
acquirenti operata dall’impresa nel suo sforzo comunicativo ed espressivo
generalmente inteso.
L’identità fa riferimento al particolare mondo di significati della
marca ed in ciò si distingue dalle identità delle marche concorrenti. Con il
tempo, attraverso la condivisione partecipata degli eventi che determinano
il sentire dell’acquirente e il prendere parte al particolare immaginario cui
egli si richiama, l’identità di marca viene a definire un’area di possibilità
legittimate.
Sarebbe tuttavia pericolosamente riduttivo e fuorviante intendere la
costruzione dell’identità di marca come circoscritta allo stabilire quale sia
l’architettura giusta per gli attributi di cui sono portatori i prodotti e a quale
prezzo questi vadano portati sul mercato. Il ruolo dell’identità è in realtà
molto più importante, dovendo essa rendersi promotrice di un mondo che il
cliente deve riconoscere come possibile e auspicabile attraverso il disegno
dei contesti comunicativi, di quelli nei quali il prodotto vive e attraverso le
storie che esso racconta.
L’identità di marca, in ogni caso, non trova solitamente modo,
nell’immediato, di sviluppare e manifestare la propria forza ed esprimere
appieno la capacità di generare tutto il valore di cui è potenzialmente
portatrice. Essa si sviluppa nel tempo secondo un processo evolutivo che
vede la marca attraversare tre fasi attraverso le quali diventerà sintesi dei
nuclei ideali in cui è suddivisibile il prodotto1:
- Marca come sintesi di attributi di prodotto. In una prima fase il potere
di cui dispone la marca è indirizzato (e solo sufficiente) a consentire la
distinzione del prodotto di un’impresa da quelli della concorrenza
attraverso l’adozione di un sistema di segni di riconoscimento.
All’inizio sono perciò i prodotti a dare un senso alla marca.
S.SAVIOLO, Gestire l’identità di marca nella moda. Il caso Artime – Sector No
Limits, in “Economia & management”, settembre 1997, p. 52.
1
- 65 -
- Marca come sistema di valori. Se all’inizio i prodotti contengono in sé
elementi di differenziazione, successivamente, in seguito all’operare
dell’azione strategica da parte dell’impresa, essa riesce a dispiegarsi
attraverso l’affermazione di attributi intangibili quali ad esempio valori
evocati, forme, prezzo. È questa la fase centrale dell’evoluzione della
marca, nella quale essa acquista una propria personalità e organicità e
viene associata a un insieme di elementi tangibili e intangibili. Sono
appunto codesti elementi – ed in particolare quelli intangibili – a
innescare un processo che ha come risultato ultimo (anche se non
definitivo e da sviluppare senza soluzione di continuità) quello di creare
sia per l’impresa sia per il cliente un valore che va oltre la mera somma
degli attributi di prodotto. Il concetto di marca si fa, in questa fase,
corposo, superando l’iniziale sua astrattezza e inconsistenza.
- Marca come vettore di sviluppo. Il risultato ultimo dell’evoluzione
dell’identità di marca è quello in cui la marca si distacca completamente
dal prodotto che le è sottostante per giungere a godere di vita autonoma,
Non sempre le imprese raggiungono questo stadio di sviluppo della
propria identità di marca, vedendo invece arrestata la sua evoluzione a
una delle fasi precedenti.
La sequenza con cui una marca si muove da una fase all’altra non ha
una valenza determinata in partenza, essendo il limite fra esse assai
sfumato e valendo come fattore determinante la struttura e le caratteristiche
proprie del settore o segmento in considerazione. Così, in alcuni settori si
può verificare l’accesso diretto all’accezione valoriale della marca saltando
il primo momento in cui essa rappresenta solamente il segno nel quale
riconoscere un insieme di attributi. Ciò può valere, per esempio, nel settore
moda, dove da subito riveste un’importanza primaria una comunicazione
incentrata sull’espressione di mondi di riferimento capaci di essere
riconosciuti come effettivamente desiderabili dal consumatore (invece che
fondata sull’evidenziazione del complesso di attributi presenti nel
prodotto).
Il passaggio alla seconda e alla terza fase diviene ancora più
opportuno e auspicabile nei marcati maturi, dove ormai il livello di
- 66 -
rumorosità è molto elevato e il consumatore si trova a dover scegliere tra
prodotti che ai suoi occhi risultano essere sullo stesso piano, e dove
l’affermazione di una forte personalità di marca può essere risolutiva nel
determinare la scelta. Ad ogni modo, è in quei settori dove sono dominanti
gli aspetti evocativi e quelli simbolici che l’identità di marca ha i maggiori
margini di sviluppo e può apportare i più elevati incrementi di valore.
L’importanza del creare una personalità di marca forte e definita
appare in tutta la sua evidenza se consideriamo i livelli di complessità che
la mente si trova ad affrontare, esposta come è ad un eccesso di
informazione sempre crescente. La mente, in genere, ama la semplicità e
poco tollera un bombardamento di segnali che alla fine produce soltanto
disorientamento1. Così, per ogni categoria di prodotti riusciamo a trattenere
e ad associare al bisogno sottostante solamente un numero limitato di
immagini corrispondenti ad altrettante marche. Compito dell’identità di
marca diventa allora quello di far rientrare il nostro prodotto tra la ristretta
schiera di eletti che hanno accesso alla mente del cliente attraverso il
riconoscimento della loro funzione di adeguati problen-solver riguardo al
bisogno che è alla base della scelta2. Per ogni segmento/mercato, il
consumatore assegna la leadership soltanto a poche imprese. Questo non
deve però sorprendere, essendo la caratteristica di qualsiasi rapporto di
interlocuzione. Nessuno ha la capacità di esprimere un numero elevato di
preferenze pariteticamente sopra tutte le altre, qualsiasi sia l’argomento
della scelta da operare. Perciò, dobbiamo tenere in considerazione, per
esempio, che anche i nostri distributori, nel caso non siano legati a noi da
1
Solo in rare eccezioni il disorientamento potrebbe risultare un effetto gradito ed
anzi ricercato per il suo particolare effetto ottundente i sensi.
2
Poco importa che non si tratti di un bisogno meramente funzionale o comunque
avvertito distintamente come tale dal potenziale acquirente. Anche il bisogno di
apparire e di esprimere una simbolicità attraverso l’acquisto non esimono dal
riconoscere, sia pure solo implicitamente, all’acquisto stesso l’attribuzione di problemsolver. L’unica cosa che cambia è la diversa natura del problema e della soluzione per
esso prospettata.
- 67 -
un rapporto di esclusiva, manifestano delle preferenze e tra esse dobbiamo
cercare di ricadere1.
Il processo che porta all’ideazione e allo sviluppo dell’identità di
marca si articola in momenti che, al fine della loro comprensione, possiamo
distinguere, ma che in realtà si intersecano in una vicendevole convergenza
verso il saper essere e il saper rappresentare.
Per la costruzione o il riposizionamento di una identità di marca, è
innanzitutto fondamentale riuscire ad interpretare il contesto socioculturale
e gli immaginari collettivi di riferimento, trovando, attraverso una fusione,
la sintonia tra impresa e mercato, in modo da prospettare per l’identità un
ampio potenziale di sviluppo.
La visione si pone, allora, come il risultato strategico di questa
interpretazione svolgendo allo stesso tempo una funzione di informazione
dell’azione strategica e di riferimento per tutta l’organizzazione. Dalla
visione scaturisce direttamente la concezione di identità di marca, la quale,
una volta progettata nei suoi aspetti tangibili2, viene proiettata verso il
mercato esprimendo in tal modo il senso compiuto dell’idea cui siamo
pervenuti. La progettazione dell’identità di marca si matura in tre momenti:
1. Diagnosi dell’identità di marca attuale.
Questa prima attività, necessaria se il problema è quello di procedere a
un riposizionamento, è volta a comprendere, attraverso un’analisi
obiettiva, quale sia al momento l’essenza dell’offerta dell’impresa
intendendo con ciò la sua ragion d’essere, i simboli e i codici
comunicativi utilizzati per lasciare la propria impronta nella mente del
target e se essi siano riconoscibili e condivisi. In questa prima fase,
occorre verificare, inoltre, se l’identità di marca concorda o meno con
gli attributi tangibili del prodotto, potendo ben verificarsi l’eventualità
che la visione non abbia trovato in essa una consona espressione.
L’esempio è peraltro estensibile al caso di un rapporto di esclusiva, dal
momento che si può sempre presentare la possibilità di troncare tale rapporto in favore
della costituzione di uno nuovo con una marca ritenuta più appetibile proprio perché
portatrice di una identità più forte.
2
È questa l’attività propriamente detta “di posizionamento”.
1
- 68 -
2. Visione prospettica del posizionamento.
Può costituire la prima attività da portare a compimento nel caso in cui
il problema sia quella di creare ex novo un posizionamento. Il passo
logico che deve necessariamente precedere l'indagine della migliore
posizione assumibile è rappresentato dal chiedersi a che punto stiano le
visioni dal dentro e dall’esterno. Questa valutazione risulta spesso
difficile per la mancanza di obiettività di chi la esegue e per le stesse
cause che sono alla base degli effetti di disorientamento descritti in
precedenza. I limiti in cui incorre, viceversa, ne aumentano
ulteriormente l’importanza e la decisività.
Domandarsi quale siano la visione e la missione che intendiamo portare
avanti e quale sia il traguardo che, raggiunto, possiamo ritenere
soddisfacente serve poi ad orientare la marca in una precisa direzione. È
la visione a dettare i punti salienti, tangibili e intangibili, che debbono
ritrovarsi nel prodotto. Occorre identificare quale sia il gruppo di clienti
cui intendiamo rivolgerci, quali siano le occasioni d’uso (magari con
possibilità di essere ampliate) su cui basare la nostra azione, e,
soprattutto, quali siano le reali posizioni, attuali e potenziali, dei nostri
concorrenti.
Con la definizione e la creazione di una identità di marca coerente con
la visione emergono le tematiche relative a come, operativamente,
manifestarla in modo da ricrearla nell’immagine percepita.
3. Sviluppo e alimentazione iterativa del concetto di marca.
La conquista di una posizione di rilievo non deve far ritenere acquisito
tale risultato. Essa deve essere continuamente alimentata e riorientata.
Assumono, allora, rilevanza le esperienze vissute dalla marca e
l’implementazione della riflessione circa quanto esse ci possono
insegnare. Il ruolo della cultura e dell’apprendimento d’impresa
risultano fondamentali nel cercare di ricostruire i terminali e i
collegamenti delle relazioni causa-effetto e nello scoprire nuovi sentieri
di sviluppo per l’identità e per l’immagine di marca. Una valutazione
del genere non può, naturalmente, prescindere da una considerazione
circa l’adeguatezza delle competenze aziendali e da una loro
ridefinizione nel caso in cui ciò appaia necessario. Inoltre, se da una
- 69 -
parte la marca deve rendersi partecipe del processo di innovazioni dei
valori del proprio contesto di riferimento, dall’altra deve mantenersi
ancorata ad un gruppo di valori stabili, capaci di informare l’azione
strategica in qualunque situazione l’impresa si venga a trovare, e attorno
ai quali viene fatto ruotare il “senso profondo” dell’identità di marca1.
1
S. SAVIOLO, 1997, op. cit., p. 58.
- 70 -
Capitolo 2
STRUTTURA E DINAMICA DEGLI SPAZI
MENTALI: IL RAPPORTO
CONSUMATORE-MARCA
2.1 – I processi mentali che sovrintendono alla
percezione e alla scelta della marca
Ogni strategia richiede, al fine della sua generazione ed attuazione,
l’analisi del terreno di battaglia, l’ambito nel quale andrà ad inserirsi.
Abbiamo già rimarcato come il particolare obiettivo per le strategie di
posizionamento è dato dalla conquista degli spazi della mente. Ne consegue
la necessità, da parte degli strateghi d’impresa, di conoscere in maniera
profonda quali siano i principali meccanismi che presiedono al suo
funzionamento e che sono alla base del comportamento delle persone (e, in
particolar modo, degli acquirenti potenziali).
Evitiamo, in questo contesto, di spingerci sul terreno
dell’elucubrazione del significato da attribuire al concetto di mente, per
spostare la nostra attenzione sul suo funzionamento. Innumerevoli sono,
infatti, le teorie filosofiche, psicologiche ecc.… che affrontano la questione
dell’attribuzione di una determinazione alla mente. Nessuna di esse,
tuttavia, pare pervenire ad una soluzione finalmente definitiva. Meglio,
allora, impegnarsi nella più concreta e proficua comprensione di ciò che la
mente fa e di come essa funzioni, con l’avvertenza che neppure qui
possiamo affidarci senza alcun tema di smentita a questa o a quella
interpretazione dei meccanismi che la muovono. Il punto di partenza di un
simile percorso di analisi non può non essere costituito da quel
fondamentale mattone della conoscenza e fattore stimolativo del suo
sviluppo che è la percezione. Le leggi dell’associazione e le altre leggi
- 71 -
empiriche del mondo psichico che approfondiremo in questo capitolo, non
possono, in ogni caso, mai essere trasformate in equazioni causali. Esse
non sono mai in grado di farci comprendere perché da una particolare causa
antecedente debba assolutamente risultare l’effetto che di fatto risulta, pur
conservando un importante valore indicativo1.
2.1.1 – Dallo stimolo al comportamento. Un modello esplicativo
del processo di percezione, elaborazione, valutazione.
Tutte le scelte che una persona effettua delle scelte, anche quelle che
sembrano immediate e operate per riflesso sono, in realtà, il frutto
dell’interazione di informazioni contenute in macrosistemi mentali aperti e
dinamici i quali contengono già in se stessi tutto quanto occorre a che una
decisione sia presa. In ogni individuo coesistono, cioè, un sistema
percettivo, un sistema interpretativo e un sistema valutativo. Lungi dal
costituire compartimenti stagni inseriti in un circuito logico sempre uguale
a se stesso, essi si sovrappongono ed intersecano ad ogni istante,
promuovendo tra i propri elementi combinazioni sempre particolari e
diverse (pur nell’ambito di una ricorsività che, comunque, tende a
prevalere).
Il sistema percettivo presidia l’accesso ai circuiti elaborativi della
mente stabilendo di volta in volta se un determinato stimolo debba o meno
raggiungere tale livello e, nel caso in cui più stimoli si prospettino
contemporaneamente all’attenzione del soggetto, assegna le priorità e
determina la rilevanza relativa. La percezione, quindi, può essere resa non
attiva o rigettata, oltre che in funzione dei peculiari limiti fisiologici degli
organi preposti ad essa, per l’intervento di filtri che ne impediscono il
passaggio al sistema interpretativo, permettendo a quest’ultimo di evitare
1
Gli ambiti di validità incondizionata che costituiscono il correlato oggettivo
degli atti logici, etici, estetici, … rappresentano, nel loro insieme, i modi differenti in
cui si declina l’identità del mondo. Ciò che in particolare gli atti conoscitivi hanno di
mira è, in qualche modo, il livello primario dell’identità del mondo così come risulta dal
fluire dell’esperienza.
- 72 -
inutili dispendi di energie1. È su questo sistema che il posizionamento deve,
in prima istanza, intervenire: riuscire ad ottenere l’attenzione
dell’acquirente è una condizione necessaria, ancorché non sufficiente, per
conseguire una posizione di preminenza nella sua mente e divenire poi
l’oggetto della scelta. Ma il superamento delle barriere percettive, come
vedremo, si presenta impresa tutt’altro che agevole, dovendoci confrontare
da una parte con una elevata numerosità ed intensità di segnali che
perseguono il medesimo obiettivo, e dall’altra con le limitate possibilità che
esprime il sistema percettivo delle persone.
Il sistema interpretativo è il centro del pensiero dell’individuo. Qui,
avviene l’attribuzione ai segnali ricevuti di un significato, contestualizzato
rispetto al patrimonio di esperienze della persona ed al sistema di valori che
da questo deriva e di cui essa si fa portatrice nel muoversi e confrontarsi
con le situazioni che le vengono a pararsi davanti. Non sempre
l’interpretazione che un soggetto dà di un segnale è il frutto di un
ragionamento puramente razionale, potendosi anzi sostenere che ciò
costituisca un’eccezione alla regola. Più spesso, le conclusioni cui giunge il
processo elaborativo sono originate da commistioni tra elementi razionali
ed altri caotici e apparentemente illogici, difficilmente prevedibili a priori.
Certe decisioni sono poi il frutto di ragionamenti “di comodo” attraverso i
quali l’individuo semplifica a proprio arbitrio e attribuisce sensi non propri
ai segnali ricevuti e ai processi che razionalmente dovrebbe seguire, in
modo da porsi in condizione di non avvertire il peso delle conseguenze che
il ragionare in quei diversi termini potrebbe fare emergere. E qui sta il
nucleo del posizionamento: nell’abilità di individuare – attraverso la
fusione – il particolare percorso seguito dall’individuo e nella capacità di
inserirsi nel punto giusto del processo interpretativo in modo da procedere
con esso verso la scelta.
Il sistema valutativo sovrintende al momento della verifica dei
risultati conseguiti attraverso la decisione presa. Risulta tutt’altro che
banale evidenziare come la reiterazione di un qualsiasi comportamento
derivi dalla presa in considerazione del grado di successo conseguito
1
Quello interpretativo è, in effetti, il momento di organizzazione del pensiero
che richiede il maggiore sforzo e in cui maggior si fa il consumo di energie
- 73 -
attraverso le analoghe precedenti scelte. La soddisfazione e l’appagamento
di un individuo, in altre parole, sono direttamente collegati alla percezione
della giustezza delle scelte operate. È, questo, uno dei più potenti criteri di
comprensione delle ragioni alla base del comportamento, anche se spesso si
tende a dimenticarlo. Rimarcare quest’aspetto, sottolineando la relazione
intercorrente tra il prodotto e la scelta portatrice di soddisfazione,
costituisce, perciò, la condotta di base da tenere nella costruzione di una
forte immagine di marca.
Un semplice modello che illustra i meccanismi attraverso i quali la
mente, ricevuto uno stimolo, giunge a determinare un corso per l’azione
dell’individuo, è espresso in figura 2.11. Essa, in sintonia con la
fondamentale dicotomia soggettività-oggettività, prevede due principali
linee direttrici seguite a partire dalla ricezione di un segnale. Ciascuna di
queste linee è governata dall’intervento di uno specifico aspetto
ricollegabile alla parte più marcatamente emozionale/soggettiva della
persona, oppure a quella razionale/oggettiva.
1
Tale modello trova conforto, tra gli altri, in: J. TROUT, S. RIVKIN, Il nuovo
positioning, McGraw-Hill, 1997, pp. 25-26; B. BUSACCA, S. CASTALDO, Il potenziale
competitivo della fedeltà alla marca e all’insegna commerciale. Una metodologia di
misurazione congiunta, EGEA, 1996, pp. 36-39; D. A. AAKER, J. G. MYERS, 1991, op.
cit., pp. 295-310.
- 74 -
FEED – BACK
STIMOLI
ANELLI DI
DIFESA
Esposizione selettiva
Attenzione selettiva
Comprensione selettiva
Ritenzione selettiva
RAGIONE
EMOZIONE – FASCINAZIONE
MONDO
OGGETTIVO
MONDO
SOGGETTIVO
ATTEGGIAMENTO E
COMPORTAMENTO
DECISIONE E
AZIONE
Figura 2.1 – Modello di funzionamento della mente
- 75 -
Il processo che conduce il soggetto a prendere una determinata
decisione e porre in essere un’azione prende avvio invariabilmente dalla
ricezione di stimoli che, una volta decodificati e interpretati secondo il
proprio personale sistema valoriale, vanno ad originare il comportamento
dell’individuo. Tra gli stimoli prevalgono quelli di origine esterna: anche
quando l’acquisto pare dettato da stimoli interni alla persona, è sempre
possibile rintracciare un’influenza esterna che guida comunque la scelta,
sia che agisca in maniera diretta, sia che lo faccia in modo mediato e
indiretto1. L’influenza degli stimoli sul comportamento deriva, quindi,
dall’interazione della struttura dei bisogni dell’individuo con l’ambiente, il
quale offre incentivi a seguire una certa condotta e resistenze a seguirne
altre. E poco importa che gli stimoli recepiti siano non concordi con la
realtà, poiché quello che viene percepito diviene, per ciò stesso, realtà.
Non tutti gli stimoli che entrano in contatto con il sistema percettivo
della persona raggiungono tuttavia il momento dell’elaborazione e
dell’interpretazione. Di fronte ad una massa così imponente di informazioni
in entrata, infatti, viene posto in essere un meccanismo difensivo basato
sulla selezione e che impedisce l’accesso alla mente alle informazioni che,
per qualsiasi ragione, siano ritenute indesiderate2. Il nostro sistema di
selezione è strutturato in almeno quattro anelli di difesa:
- Esposizione selettiva. In forza di questo primo diaframma le
informazioni non desiderate o indesiderabili vengono deviate non
Ad esempio, i consumi cosiddetti “alternativi” seguono la logica della
contrapposizione a qualcosa con la quale, per definizione, chi li pone in essere si
confronta; resta salva in tutta evidenza la considerazione che la contrapposizione è
verso un elemento esterno e tiene comunque conto dei segnali che esso emette.
1
2
Come vedremo nel prossimo paragrafo, oltre al processo di selezione delle
percezioni esiste un altro meccanismo attraverso il quale la mente cerca di difendersi
dall’eccesso informativo: l’organizzazione delle percezioni. Essa avviene nel momento
in cui le informazioni che hanno superato la selezione vengono processate e si
estrinseca nella categorizzazione delle marche concorrenti.
La difesa basata sui meccanismi di perceptual selectivity e di perceptual
organization è espressa in L. DE CHERNATONY, M. MCDONALD, 1998, op. cit., pp. 8993.
- 76 -
esponendosi ad esse. Si tratta di una difesa che avviene a monte del
processo comunicativo, prima ancora, cioè, che il segnale entri in
contatto con il macrosistema percettivo.
- Attenzione selettiva. Impattando questa seconda barriera le informazioni
non desiderate sono deviate non venendo prese in considerazione e non
prestandovi attenzione, nonostante si resti esposti ad esse. In questo
stadio le informazioni sono filtrate in modo da costruire o rinsaldare un
supporto per le esistenti credenze e opinioni riguardo una marca,
evitando i significati in contraddizione con esse in quanto
costringerebbero a porre in essere un nuovo, più complesso e
impegnativo processo di interpretazione, il quale potrebbe, alla fine,
condurre ad una situazione di dissonanza cognitiva.
- Comprensione selettiva. È una caratterizzazione del momento
elaborativo per la quale, superate le barriere dell’esposizione e
dell’attenzione, il consumatore inizierebbe a interpretare il messaggio,
ma, trovando che parte delle informazioni non si adattano e concordano
bene con i suoi precedenti valori e credenze, distorcerebbe il messaggio
iniziale fino a che esso non sia allineato più strettamente a tali diverse
vedute.
- Ritenzione selettiva. Con il trascorrere del tempo ed il continuo reiterarsi
dei processi interpretativi, la memoria inizia a farsi più confusa e
nebulosa riguardo alla mole di significati che le si viene imposto di
trattenere. In virtù della ritenzione elaborativa, allora, le informazioni
che meno si adattano agli atteggiamenti esistenti, analogamente a
quanto accade per la comprensione selettiva, possono filtrare
(soprattutto attraverso l’esposizione e l’attenzione), ma poi non vengono
ritenute.
Passando ognuno di questi anelli di difesa ci avviciniamo al
momento in cui gli stimoli giungeranno alla mente e verranno elaborati, ma
di per sé ciò non significa necessariamente che essi non incontrino una
definitiva resistenza nell’anello successivo.
In seguito alle considerazioni appena espresse possiamo ritenere che,
attraverso la selettività, il consumatore si ponga come scopo quello di
- 77 -
ottenere informazioni sufficienti, e soprattutto rilevanti e non ridondanti,
perché una decisione possa essere presa. Questa si chiama vigilanza
percettiva.
Un ulteriore obiettivo che la persona si pone è dato dal
mantenimento delle precedenti attitudini e credenze, e viene indicato come
difesa percettiva. Come evidenziano Trout e Rivkin1, in seguito all’azione
operata dagli anelli di difesa, vengono generalmente recepiti quei segnali
che si accordano ai nostri interessi e attitudini preesistenti, in modo da
sostenerli o rifiutarli. In pratica il ricevente tende ad ascoltare solo il
proprio messaggio. Compito del posizionamento è allora quello di elevare
le aspettative che gli acquirenti già hanno, non quello di crearne di diverse.
Si badi bene: questo non implica che venga sminuita l’attività di sviluppo
delle aspettative, ma evidenzia come spesso si compiano azioni che, per il
fatto di proporre interpretazioni opposte rispetto a quelle effettivamente
sentite, finiscono per produrre conseguenze disastrose per chi le mette in
atto causando gravi problemi di riposizionamento.
La percezione dei segnali non ha sempre la stessa portata e lo stesso
impatto, essendo influenzata da una pluralità di fattori determinanti che
sono analizzati da Aaker2:
Esigenza – Lo stato di esigenza avvertita incrementa il peso del
segnale e la probabilità che esso penetri gli anelli di difesa: è l’esigenza
percepita stessa ad amplificare la forza del segnale inteso a darle soluzione.
Valori – I riferimenti utilizzati dal posizionamento che rispecchiano i
valori profondi di una persona vengono recepiti prima e più facilmente
degli altri, poiché offrono una gratificante convalida delle proprie strutture
concettuali di riferimento.
Preferenze – Un segnale noto e già accettato in passato ha, inoltre,
una velocità di percezione e una probabilità di superare i filtri superiori
rispetto ad uno stimolo del tutto nuovo la cui esposizione deve invece
essere prolungata.
Preferenze del gruppo – L’appartenenza a un gruppo sociale, o
comunque l’identificazione con un gruppo di riferimento, induce
1
2
J. TROUT, S. RIVKIN, 1997, op. cit., p. 26.
D. A. AAKER, J. G. MYERS, 1991, op. cit., pp. 325-328.
- 78 -
l’individuo ad una pressione autoindotta che può influenzare la percezione.
L’identificazione con il gruppo sarebbe, per la persona la quale ritenga che
esso percepirebbe il segnale in una certa maniera, una motivazione
sufficiente a spingerla a percepirlo allo stesso modo1.
Il processo interpretativo degli stimoli può, una volta che essi sono
pervenuti alla mente superando le barriere percettive, seguire due percorsi
che, almeno in partenza, si presentano come distinti e alternativi. Da una
parte i segnali possono essere incanalati dall’analisi razionale nella sfera
oggettiva della persona, dove ha inizio il processo di interpretazione il
quale mantiene una relazione di stretta causalità tra gli anelli della catena
logica. Dall’altra parte i segnali provenienti dall’esterno possono stimolare
maggiormente il lato emotivo/fascinabile dell’individuo, venendo così ad
essere posti all’attenzione del particolare mondo soggettivo che lo
contraddistingue. Qui, l’elaborazione si fa molto meno lineare seguendo,
invece, le pulsioni e i salti che sono tipici della soggettività.
Come accennato, questi due percorsi non sono sempre nettamente
distinguibili, potendosi avere delle commistioni e influenze reciproche.
Così, una volta che gli stimoli entrano, attraverso la ragione o
l’emozione/fascinazione rispettivamente nel mondo oggettivo o in quello
soggettivo (che sono, vale la pena di insistere, compresenti nella persona),
il fatto che seguano o meno un procedimento lineare (all’interno del
particolare mondo di riferimento) dipende dal prevalere di due attributi
distinti che possono caratterizzarlo e che sono riconducibili alla coerenza e
alla convenienza.
La coerenza è definibile come la capacità (o il limite, secondo i casi)
di mantenere una continuità tra quanto ci si propone e quanto si persegue in
ognuno dei momenti in cui suddividiamo la volizione e la sua attuazione.
1
Numerosi esperimenti hanno dimostrato che, se una persona appartenente ad
un gruppo di cui sente pressante il riferimento e il confronto viene posta di fronte ad
un’opinione anche palesemente errata, ma fatta propria dalla maggioranza del gruppo,
allora, frequentemente, quella persona tenderà a riformulare la sua opinione in modo da
renderla conforme ed in linea con quella maggioritaria. Si tende cioè a ritenere che la
maggioranza, proprio per il semplice fatto di essere preponderante, abbia ragione,
evitando nel contempo di entrare in contrasto con la percezione dominante..
- 79 -
Non sempre, tuttavia, la coerenza pare essere l’approccio mentale
preferibile, dovendo il soggetto confrontarsi con problematiche che esulano
da un orientamento lineare. Consideriamo e ci riferiamo, allora, alla
convenienza come a quel fattore che, in considerazione dei vantaggi offerti
relativi ad una maggiore gestibilità del bilancio psicologico del soggetto, fa
prevalere l’interesse a vedere da un diverso punto di osservazione gli
elementi oggetto dell’interpretazione originaria.
Venendo a prevalere la coerenza, il percorso seguito
dall’elaborazione attraverso il particolare mondo interpretativo vissuto, sia
quello oggettivo che quello soggettivo, è diretto come indicato dalla linea
tratteggiata, ideale prolungamento dell’iniziale indicazione dei due filtri
che portano gli stimoli alla mente. L’atteggiamento e poi il comportamento
tenuti dal soggetto sono in questo caso l’esito ultimo di un tragitto che, pur
nell’ambito delle differenti peculiarità riscontrabili nell’uno e nell’altro
caso, discende per linea diretta da tali filtri. Ogniqualvolta, per esempio, un
fattore emotivo spinge l’elaborazione oggettiva a trasferirsi nel mondo
soggettivo la prevalenza dell’attributo coerenza opera una spinta in
direzione opposta in modo da riprendere il percorso originario.
Quando invece a prevalere è la convenienza (avvertita) a riformulare
le proprie idee e convinzioni cambiando prospettiva ed allontanandosi da
quanto originariamente indicato per i segnali in entrata, allora i percorsi si
incrociano dando luogo ad un circuito che attraversa e si muove, ora
indistintamente, tra il mondo soggettivo ed il mondo oggettivo
dell’individuo, secondo le opportunità interpretative che ad ogni momento
si presentano più favorevoli (nella figura questo intersecarsi è rappresentato
dalle frecce che conducono, con moto circolare, da una parte all’altra della
sfera elaborativa).
È perciò all’interno del mondo oggettivo e di quello soggettivo che si
forma l’interpretazione del segnale, la quale costituisce, poi, la base per la
determinazione dell’atteggiamento seguito dal soggetto e del
comportamento che egli si appresta a tenere.
L’atteggiamento derivante dal processo elaborativo e il relativo
comportamento conducono ad una decisione che viene infine espressa
nell’azione posta in essere. In questo modo l’azione è portatrice dell’intero
- 80 -
sistema di percezione e di elaborazione dell’individuo. Attraverso l’azione,
qualunque ne sia l’origine, vengono a prodursi degli effetti che, tramite il
vaglio del sistema valutativo, producono informazioni di ritorno le quali
vanno a modificare il senso dei nuovi segnali in arrivo, consentendo una
più mirata selezione del filtro interpretativo e del particolare circuito da
attivare nei mondi di riferimento dell’individuo.
2.1.2 – Il legame tra memoria e comportamento.
Ogni atteggiamento e comportamento espresso da una persona trae le
sue origini dalle esperienze sensoriali che essa ha accumulato lungo la sua
esistenza. Di più: non viene mantenuta una traccia dell’esperienza pura e
semplice, ma ad essa restano associate, invece, le sensazioni ed impressioni
generatesi nella persona stessa. Se in passato, cioè, in risposta ad uno
stimolo è stato fatto seguire un determinato comportamento che ha
dimostrato di essere valido sia come solutore della situazione venutasi a
creare, sia in relazione al senso di soddisfazione ed appagamento
dell’individuo, con tutta probabilità al futuro manifestarsi di uno stimolo
analogo, il soggetto reitererà quel comportamento1.
A volte, poi, il timore nei confronti di una strada mai esplorata
comporta la messa in atto di una condotta che, pur nella consapevolezza
della sua assai probabile inadeguatezza e del fatto che essa rappresenta
solamente un palliativo, offre il conforto dell’abitualità. All’insicurezza e al
mettere in discussione i propri abiti comportamentali si preferisce in
sostanza l’adozione di un modo di agire per certi versi fatalistico, ma che
possiede la virtù di tranquillizzare la persona riducendone la dissonanza
cognitiva per il fatto stesso di consentirle di nascondere la testa sotto il
guscio protettivo del consueto.
1
Il consumatore deve ricevere un appagamento dal verificare che, attraverso
l’acquisto, ha operato la scelta giusta, ovvero ha raggiunto un successo.
Se questo accadrà il consumatore molto probabilmente si fidelizzerà e potrà
eventualmente indirizzare verso la scelta della nostra marca chi rientra nella sfera delle
sue conoscenze attraverso l’ostentazione del proprio successo (questo vale a maggior
ragione per gli acquisti che coinvolgono emotivamente l’individuo).
- 81 -
Altre volte, invece, accade l’opposto: la nuova e differente situazione
non viene affrontata mediante modelli del passato i quali, pur non offrendo
una completa sicurezza, parrebbero essere per lo meno sufficientemente
ragionevoli da suffragare la scelta. Si preferisce, al contrario, adottare
d’impulso un comportamento del tutto nuovo la cui affidabilità, peraltro
tutta da dimostrare, potrebbe venire screditata in partenza se solo si
mettesse in atto un processo più razionale di valutazione. E proprio questo
è il punto: nel bilancio psicologico il peso costituito dallo sforzo
elaborativo appare, in questi casi, superiore al beneficio che si ritiene
potrebbe da esso derivare. Intraprendere un processo di valutazione più
approfondito potrebbe condurci ad una condizione di incertezza e, ciò che è
peggio e ancora più temuto, mettere in discussione la stessa validità, ormai
data per assodata, dei nostri comportamenti passati.
Nell’uno e nell’altro caso, il riferimento è al principio per il quale il
livello di soddisfazione è strettamente legato alla conferma della validità
delle scelte effettuate intesa come manifestazione di successo (che avrà poi
bisogno di essere esternata per ottenerne una proiezione sugli altri assieme
ad una loro confortante approvazione).
Le esperienze effettuate e la relazione con i comportamenti tenuti
nelle diverse circostanze sono immagazzinate nella memoria, vero e
proprio archivio da utilizzare e al quale attingere nell’affrontare le
situazioni mano a mano che si presentano.
Stretta appare la correlazione tra apprendimento e memoria. Se il
primo concerne l’acquisizione di nuove informazioni e la modificazione di
quelle esistenti, la seconda è data dal sistema in cui quelle informazioni
vanno ad innestarsi e nel quale sono conservate nel tempo. Il legame tra
apprendimento e memoria è costituito dall’appercezione, ovvero il
processo di comprensione che presiede all’inserimento delle percezioni
umane nel complesso delle precedenti esperienze. L’esperienza passata,
così come ci è consegnata dalla memoria, funge cioè da alveo nel quale
l’apprendimento fa confluire le percezioni: si tratta, in sostanza,
dell’associazione di vecchie idee con nuove idee. Afferma Nietzsche che
«un uomo non ha orecchie per ciò a cui l’esperienza non gli ha dato
accesso». In altre parole, impariamo qualcosa di nuovo in relazione a
- 82 -
quello che già comprendiamo.
Non bisogna comunque credere che la funzione svolta dalla memoria
consista semplicemente nel riportare all’occorrenza alla luce pezzi di
informazione precedentemente immagazzinati. In realtà, essa si presenta
come un sistema dinamico governato dal meccanismo dell’associazione,
che interessa qualsiasi aspetto dell’elaborazione del pensiero. È proprio
sfruttando il modo di funzionamento della memoria, l’associazione, che chi
si occupa di posizionamento cerca di ottenere l’acceso alla mente del
potenziale cliente e di trovarvi un punto strategico di appoggio che offra un
vantaggio rispetto ai concorrenti.
La memoria non è un tutto unico, ma si struttura in una parte a breve
ed una a lungo termine, diverse per capienza e tempi di ritenzione delle
informazioni. Se lo stimolo contenente l’informazione (ovvero il
messaggio) riesce a superare il buffer costituito dagli anelli di difesa, allora
esso va ad insediarsi nella memoria a breve termine (detta anche
“working memory1”) le cui capacità contenitive sono piuttosto limitate sia
riguardo al volume di informazioni che è possibile immettervi, sia riguardo
al tempo che è possibile trattenerle.
Le limitazioni riguardanti la capacità della memoria a breve termine
determinano la quantità di informazioni che può essere processata in ogni
momento, ed influenzano, inoltre, il modo in cui le informazioni stesse
vengono processate. Le limitazioni relative al tempo di decadimento
implicano che le informazioni contenute nella working memory declinino
come la loro energia venga dissipata o persa. Si presume che il tempo di
permanenza dei pezzi di informazione nella memoria a breve termine si
riduca ad un poco elevato numero di secondi (qualche decina)2.
La capacità limitata a pochi pezzi di informazione3 ha notevoli
implicazioni per chi, nell’impresa, si occupa di studiare il modo di
1
Cfr. W. L. WILKIE, Consumer behavior, John Wiley & Sons, 1986, pp.82-93.
2
Comunque maggiore di quello relativo al contatto degli stimoli con i nostri
sensi, riconducibile ad una frazione di secondo.
3
Sette al massimo per ogni categoria, affermò lo psicologo George Miller (citato
in J. TROUT, S. RIVKIN, 1997, op. cit., p. 24, ed in W. L. WILKIE, 1986, op. cit., p. 87).
Di conseguenza trovarsi nell’ottava o in una successiva posizione nella graduatoria di
riconoscibilità dei consumatori significa praticamente non esistere ai loro occhi e va a
- 83 -
occupare una posizione nella mente di una persona, venendosi ad
accrescere l’importanza del rientrare fra quei pochi nomi che vengono
ricordati per la particolare categoria cui appartiene, per i potenziali
acquirenti, il nostro mercato di riferimento1. Appare allora in tutta la sua
evidenza il vantaggio che potrebbe essere conseguito dall’occupazione di
una posizione fino allora inesistente, legato all’iniziale identificazione tra
categoria e prodotto ed allo spiazzamento dei concorrenti2. L’immagine più
potente che la marca può ingenerare in una persona si ha, infatti, quando
questa utilizza il riferimento al nome del prodotto per indicare una
categoria (per esempio, “Coca Cola” è divenuta nel tempo l’espressione
generica per indicare una bevanda alla cola). In questo modo, la marca
assume le connotazioni di leader, potendo beneficiare di tutte le
potenzialità che l’essere parte dell’immaginario del cliente comporta . Una
volta stabilita la leadership del mercato e una volta impressa la sua
immagine e rinsaldate le associazioni che vanno a sostenerne la struttura,
diventerà ben difficile per i concorrenti scalzare la marca dalla posizione
conquistata, potendo questa godere dei vantaggi connessi al “giocare in
difesa”.
La memoria a lungo termine contiene una quantità notevolmente
superiore di informazioni che restano trattenute stabilmente al suo interno
per un più esteso periodo di tempo. Ma tutto ciò che transita nella memoria
a breve termine non si deposita necessariamente in quella a lungo. Le
nozioni immagazzinate nella memoria a breve rischiano perciò di andare
perdute se non interviene qualcosa a trasferirle a quella a lungo (e questo è
quanto solitamente accade: si ritiene che oltre l’ottanta per cento delle
informazioni contenute nella memoria a breve termine non vengano
trasferite). La linearità e la velocità di trasferimento dalla memoria a breve
limitare notevolmente le possibilità di sviluppo della marca. Diventa in quel caso
prioritario acquisire notorietà, e ciò può essere fatto solo mediante il dare nuovo corpo
all’identità di marca e attraverso il suo ispessimento.
1
Il processo di categorizzazione sarà affrontato nel paragrafo 2.1.3.
2
A condizione che si disponga delle necessarie risorse – anche finanziarie – per
dar seguito all’azione intrapresa. In mancanza di ciò, potrebbe essere preferibile non
muoversi in quella direzione per evitare di offrire lo spunto per un’azione alle imprese
meglio attrezzate di noi.
- 84 -
a quella a lungo termine possono sopperire ai limiti di capacità della prima
attraverso l’elevato grado di svuotamento e rinnovo che vanno a
determinare.
Memoria a breve termine e memoria a lungo termine differiscono
anche qualitativamente. La prima, infatti, pare essere prevalentemente di
tipo uditivo, mentre la seconda associa ad esso l’elemento visivo. Questo
significa, in altre parole, che la memoria a breve lavora più efficacemente
con dati espressi sotto forma di parole – sia udite che scritte1 – piuttosto
che di immagini. La constatazione e presa in considerazione della diversità
di comportamento dei due tipi di memoria sarà molto importante
nell’impostazione del messaggio con cui si intende comunicare l’identità di
marca ed occupare una posizione.
La memoria a lungo termine pare, inoltre, contenere due distinte
tipologie di memorie: le memorie episodiche e le memorie semantiche. Le
prime riflettono il modo in cui ci ricordiamo di eventi o episodi della nostre
passata esperienza personale e sono espresse in forma iconica, quasi
fossero delle istantanee o dei filmati ripresi nel passato e pronti a
riaffiorare. Le memorie semantiche riflettono fatti e altre informazioni cui
ci riferiamo dicendo di avere imparato qualcosa, e ci forniscono una base
per accrescere l’abilità ad usare il linguaggio2.
Una importante caratteristica della memoria a lungo termine è data
dal fatto che può essere rappresentata come un’organizzazione a rete. In
questa trama ogni nodo indica una parola, un’idea, un concetto, ed i
collegamenti tra essi sono governati dal meccanismo dell’associazione di
idee (ad esempio, se stiamo esaminando come viene percepita una bevanda
1
Appare opportuno evidenziare come, anche di fronte ad un testo scritto, il
suono predomini l’immagine. In effetti, le parole scritte hanno bisogno «dell’intervento
dell’orecchio» per assumere un significato: durante la lettura, per ritenere ciò che si
legge nella memoria a breve termine, si effettua una traduzione registrando in base al
suono. La traduzione appare poi più immediata in lingue come quella italiana, dove
quanto scritto corrisponde a quanto letto, rispetto ad esempio all’inglese nella quale
occorre un passaggio in più, dovendosi far accordare la parola scritta con quella udita.
Cfr. par. 4.2.1
2
La semantica si riferisce, infatti, allo studio dei simboli e del significato delle
parole.
- 85 -
analcolica, dovremo tenere presente che l’idea di “ acqua ” non è collegata
a quella di “ zucchero ”, mentre lo è il concetto di “dolce”).
L’organizzazione a rete entra in gioco nel momento in cui la working
memory richiama certe informazioni da quella a lungo termine per poterle
processare nel momento un cui si deve prendere una decisione della quale
quest’ultima può fornire le basi di valutazione. Dal momento che alcuni
nodi avranno la preminenza sugli altri, essi saranno quelli attivati per primi.
Una volta attivato il primo nodo, saranno attivati anche gli altri ad esso
connessi fintanto che il processo continua.
Il processo di memorizzazione avviene continuamente senza che ce
ne accorgiamo. Le informazioni arrivano al cervello per restarvi il tempo
necessario perché esso stabilisca una condotta coerente, ed a volte, come
detto, passano alla memoria a lungo termine in funzione di una particolare
rilevanza loro attribuita. Tuttavia, è possibile identificare alcuni fattori che
paiono essere determinanti nell’attivazione della memoria e di cui tenere
conto.
La semplicità è il carattere che maggiormente favorisce la
memorizzazione, e la sua importanza aumenta di pari passo con l’eccesso
di informazione e rumorosità ambientale, i quali non provocano altro che
un disorientamento e un appiattimento in senso qualunquistico delle
posizioni su luoghi comuni1. La mente non ama, in genere, inutili
complicazioni che conducono unicamente a problemi di gestione della
massa di informazioni che le giungono e dai quali cerca di difendersi
attraverso l’opera di filtro degli anelli di difesa. La strada che conduce un
concetto complesso al diventare confuso (e per questo indesiderato) è assai
breve. Così, i concetti espressi nella posizione della marca e nella sua
comunicazione al target di riferimento devono essere il più possibile chiari
1
La banalizzazione è uno dei più grossi problemi che si devono affrontare nel
processo comunicativo. I concetti che la marca vuole trasmettere rischiano di venire
risucchiati dagli stereotipi che la persona pone in essere per attuare, lei stessa, quella
semplificazione che non è stata fatta da chi emette il messaggio. Il problema sta proprio
nel fatto che la semplificazione non è più, qui, frutto della volizione dell’impresa,
potendo assumere connotazioni indesiderate e incontrollate, fino a divenire deleterie per
l’immagine di marca.
- 86 -
e lineari, senza richiedere l’intervento di complicate e inutili elucubrazioni
da parte sua. Quando appaia utile si può poi procedere a ridurre i concetti in
più minuti e gestibili pezzi informazione, aumentandone in questo modo
l’intelligibilità.
Nella ricerca della semplicità non sono, comunque, i fatti a dover
essere cambiati, trattandosi, invece, di spostare il nostro punto di vista, in
piena sintonia con il concetto di fusione.
Il livello di interesse che le persone mostrano nei confronti dello
stimolo può costituire o meno l’elemento discriminante tra quanto è
destinato a rimanere impresso nella loro memoria e ciò che invece verrà
cancellato da essa in quanto percepito come superfluo. In effetti, si tende
spontaneamente a ricordare quello che più ci interessa. Dal momento che
ogni persona è portatrice di un proprio sistema di valori e di idee, uno
stesso pezzo di informazione può attivare livelli di interesse diversi
secondo i casi e le circostanze. Il punto principale da tenere in
considerazione riguardo all’interesse inteso come attivatore della
memorizzazione è che le associazioni tra stimolo ed interesse sono
fortemente sedimentate nella mente ancora prima che gli stimoli stessi si
manifestino. Questi non hanno la capacità di creare interesse dal niente, ma
devono necessariamente rifarsi a nessi già presenti che per loro tramite
vengono richiamati.
Semplicità ed interesse sono strettamente correlati. Se il concetto di
noia è usualmente ricondotto ad una situazione di assenza di stimoli, una
situazione analoga – e forse peggiorata dall’insorgenza nel consumatore di
apatia e insofferenza – si crea nel caso opposto di un’eccessiva
stimolazione e di un sovraccarico informativo. L’informazione tende,
nell’aumentare, a divenire nient’altro che rumore, ridondanza, banalità,
andando a compromettere i propri contenuti e significati, ormai
irriconoscibili.
Le emozioni, attraverso la contestualizzazione, costituiscono un altro
importante fattore di attivazione della memoria. Le informazioni apprese
nell’ambito di un determinato contesto emotivo, cioè, riemergono più
facilmente quando vengono a ricrearsi le condizioni che caratterizzavano
tale contesto. Semplificando la casistica più tipica, possiamo osservare
- 87 -
come, per esempio, quanto appreso quando si è contenti venga ricordato
meglio quando siamo nuovamente contenti, e quanto appreso quando siamo
tristi venga ricordato meglio quando siamo tristi.
L’impatto emotivo della circostanza nella quale va ad inserirsi il
segnale può essere così coinvolgente per l’intelletto che una cosa può
essere udita o percepita anche solo una volta e poi rimanere nella nostra
memoria per tutta la vita. Anzi, spesso il ricordo è più potente e completo
della cosciente osservazione iniziale, e vengono immagazzinate in memoria
maggiori e diverse informazioni rispetto a quanto era nelle nostre
intenzioni. Così, anche a distanza di molto tempo, è possibile rimanere
meravigliati nel constatare l’enorme e dettagliata mole di informazioni che
siamo in grado ricollegare a un particolare evento della nostra memoria ed
alle quali non avevamo allora prestato attenzione. Ad esempio, in caso di
esperienze traumatiche viene registrato un numero molto più elevato di
circostanze che connotavano quell’informazione.
Nell’ambito del posizionamento, tuttavia, occorre sgomberare il
campo da ogni possibile equivoco ed evitare che il fare appello
all’emozione porti il destinatario del nostro messaggio fuori strada.
L’emozione deve essere aderente e confacente al senso pratico mai
travalicandolo, mettendo invece in risalto il particolare vantaggio di cui il
prodotto è portatore, vero fulcro dell’azione comunicativa. Emozioni e
vendite possono essere in relazione tra loro, ma suscitare le prime in
assenza delle seconde non può essere di alcun conforto per l’impresa.
2.1.3 – Il processo di categorizzazione delle percezioni
Una volta che i segnali hanno superato gli anelli difensivi della
selezione, esiste un ulteriore livello di schermo verso l’eccesso di
informazioni: l’organizzazione selettiva o categorizzazione delle
percezioni. Essa consente al consumatore di prendere una decisione di
acquisto tra una pluralità di marche concorrenti sulla base della similarità
che queste hanno con le categorie mentali concepite precedentemente e
sedimentate, attraverso l’esperienza, nella mente dell’individuo. La
categorizzazione delle percezioni consiste, in altre parole, nel processo
- 88 -
mediante il quale la mente riconduce i continui, variabili e confusi stimoli
che riceve in categorie discrete e distinte, gli elementi di ognuna delle quali
si rassomigliano fra loro più di quanto non accada rispetto a quelli delle
altre categorie. Valutando a quale categoria la marca sotto osservazione sia
più simile, il consumatore può facilmente e rapidamente inserirla in uno dei
gruppi che compongono la propria struttura cognitiva, godendo, a
corollario, della possibilità di delineare inferenze evitando una ricerca
approfondita e richiedente il dispendio di tempo ed energia.
La categorizzazione della marca si aggiusta nel tempo ad opera
dell'esperienza e dell'apprendimento da essa originato. Una volta inserita in
una categoria mentale, il consumatore, anche se manca di precise
informazioni e ha scarsa esperienza della nuova marca categorizzata, può,
avvalendosi di questo processo percettivo, tentare di predire quali saranno
certe caratteristiche della marca stessa. Il naturale prerequisito perché il
soggetto possa procedere alla formazione di categorie mentali valide per il
sostenimento del momento elaborativo e interpretativo è proprio costituito
dall’accumulazione di esperienza circa i prodotti e le marche. Via, via che
impara a conoscere l’oggetto della propria attenzione e ne relaziona gli
attributi chiave con le indicazioni dell’esperienza, l’individuo pone in
essere un processo di apprendimento, che, attraverso uno sviluppo circolare
e ricorsivo, andrà a modificare lo schema interpretativo di partenza
riguardo a tali attributi affinandone la collocazione categoriale. Allora, la
ricerca di informazioni verrà riorientata e gli anelli di difesa si attiveranno
in una nuova forma.
Naturalmente, non tutti gli aspetti della categorizzazione
coinvolgono la sistemazione dei significati originati dall’apprendimento.
Esistono, cioè, oltre a quelle acquisite, delle categorie per così dire innate.
La ricerca sulla categorizzazione abituale di oggetti concreti e astratti
si è incentrata sulla velocità e facilità con cui un segnale viene giudicato
come facente parte di una categoria, e sulla natura della percezione
- 89 -
sottostante il processo verificato distinguendo tra percorsi puramente
sensoriali ed altri in cui a prevalere sono gli elementi cognitivi1.
Medin e Barsalou2 distinguono le categorie che vengono a formarsi
nella mente in sensory perception categories e general knowledge
categories3. Le prime sono riconducibili ai processi sensori e percettivi e
comprendono categorie come i suoni del parlato, i suoni non parlati, i
colori e così via. Le seconde ineriscono all’analisi semantica,
all’organizzazione della memoria ed al pensiero astratto, e tengono in
considerazione generi naturali (per esempio gli uccelli), artefatti (esempio:
automobili), eventi (esempio: andare al ristorante).
Un modo nel quale le sensory perception categories differiscono
dalle general knowledge categories riflette l’astrattezza degli attributi che le
definiscono, assai elevata nelle seconde, molto bassa nelle prime. Viene
così a delinearsi una distinzione tra categorie sensoriali e categorie che
possiamo invece chiamare concettuali.
Possiamo distinguere due diversi tipi di categorie: categorie all-inone e categorie graduate. All’interno delle prime troviamo due sottotipi:
nelle categorie "ben definite" tutti i membri condividono un comune set d
caratteristiche ed un ruolo corrispondente indica quali condizioni siano
necessarie e sufficienti per l’appartenenza alla categoria. Nelle categorie
“definite” – ma non “ben definite” – le caratteristiche non sono
necessariamente condivise da tutti i membri ed il ruolo non è cruciale.
La natura della rappresentazione delle categorie sensorie e di quelle
concettuali e il processo di categorizzazione dipendono dal fatto che si tratti
di una categoria all-in-one o di una graduata.
1
Naturalmente, in genere, al centro dell’analisi sarà una situazione nella quale,
nonostante il prevalere dell’uno e dell’altro tipo di percezione, quest’ultima risulterà
comunque da una loro interazione discostandosi dagli estremi appena delineati.
2
D. L. MEDIN, L. V. BARSALOU, Categorization processes and categorical
perception, in Categorical perception. The Groundwork of cognition, edito da S.
Harnad, Cambridge University Press, 1987, pp. 455-490.
3
Questa distinzione, utile come base di partenza, non appare però del tutto
soddisfacente ed esistono del resto numerose eccezioni riguardo a ciascun tipo di
categorie.
- 90 -
La classificazione di una categoria è strettamente dipendente dalle
connotazioni della sua struttura.
Riguardo alle categorie concettuali, Medin e Barsalou individuano
tre fondamentali criteri di classificazione:
- Classificazione per ruoli. Una volta che viene riconosciuto ed
assegnato un ruolo tipico per la categoria, l’appartenenza di un elemento
ad essa viene testata attraverso un confronto con il ruolo stesso.
- Classificazione per prototipi. Il prototipo di una categoria contiene gli
attributi caratteristici degli esemplari della categoria, senza però che
questi ultimi siano conseguentemente ed inevitabilmente necessari né
sufficienti per l’appartenenza alla categoria. Il nucleo centrale di questo
modo di categorizzare le percezioni sta nel fatto che spesso le persone le
confrontano sulla base della similarità riconducendole al prototipo che
hanno idealizzato nella propria mente per quella categoria. Capita, anzi,
che a volte si proceda ad una categorizzazione per prototipi a causa
dell’assenza di più forti criteri di ordinamento – per esempio quello
basato sui ruoli – a disposizione della persona, sia perché effettivamente
non ne esistono di chiari e definiti, sia perché essa può non dispone di
adeguate capacità di discernimento e comprensione delle informazioni
di cui sono portatori i segnali1. La facilità con cui si procede alla
classificazione è molto variabile secondo la somiglianza del segnale
percepito con gli attributi propri del prototipo. Si presentano anche
situazioni nelle quali è facile cadere in errore a causa della vaghezza di
tale somiglianza. La tipicità, riferita al prototipo, viene perciò qui ad
essere il principale fattore di inclusione od esclusione nella categoria.
- Classificazione per esemplari. Simile alla classificazione per prototipi,
quella per esemplari avviene, tuttavia, sulla base della similarità rispetto
alla memoria che si ha di elementi dei quali si ha una precedente
esperienza. Non si effettua un confronto con un ruolo od un prototipo
Altre volte manca poi la “volontà di vedere le cose”. Ciò può essere dovuto al
desiderio di non impegnarsi troppo nella ricerca di un significato, oppure all’esigenza
sentita di non andare contro a passate e ormai sedimentate interpretazioni del segnale
(cosa che significherebbe rimettersi in discussione, potendosi anche presentare
l’eventualità di dover riconoscere l’erroneità della propria condotta e con essa un
proprio insuccesso).
1
- 91 -
che è stato astratto dall’esperienza con un insieme di elementi che
conosciamo, bensì con la memoria di uno specifico elemento di una
categoria. Gli stimoli sono assegnati a quella categoria che presenta
l’esemplare o gli esemplari più simili.
Le categorie sensorie possono invece venire classificate in base ai
seguenti criteri:
- Classificazione per ideali. La conoscenza che le persone hanno di una
categoria sensoria deriva dagli specifici attributi che esse ritengano
dover essere idealmente presenti nei rappresentanti di quella categoria.
La verifica della loro appartenenza alla categoria pare caratterizzarsi per
il fatto che, ove non siano presenti tutti gli attributi ideali, allora
l’elemento oggetto della percezione non entra a far parte di essa. La
classificazione per ideali è analoga a quella per ruoli riguardo alle
categorie concettuali.
- Classificazione per prototipi. A differenza degli attributi ideali, che
devono essere tutti posseduti negli elementi della categoria, i valori
ideali di una categoria rappresentano solamente l’esempio prototipo, e
gli esemplari che ad essa appartengono possono variare ampiamente nel
modo in cui approcciano l’ideale. Anche qui, gli attributi dei prototipi
possono essere ideali oppure riflettere la tendenza centrale dell’esempio.
- Classificazione per limiti. Le persone determinano l’appartenenza alla
categoria in base ai limiti di questa, e non alle caratteristiche o agli
attributi ideali
Occorre precisare in che rapporto stiano le diverse categorie rispetto
all’uso che ne facciamo. Così, ad esempio, è evidente che le categorie
sensorie non siano fini a loro stesse, ma debbano essere intese nella
prospettiva di una classificazione di ordine più elevato coinvolgente le
categorie concettuali.
Le informazioni ed i significati che possono essere ricavate per
inferenza dalla classificazione di uno stimolo in una categoria concettuale
sono molto superiori rispetto a quanto può essere dedotto, sempre per
inferenza, da quelle sensorie. Per esempio, classificare qualcosa come un
- 92 -
auto ci consente di classificarne il particolar uso, il genere di produttore,
come (secondo quali criteri) può essere venduta, ecc.…
A volte, soprattutto per quanto riguarda le categorie concettuali, è
possibile assistere all’inverso procedimento della generazione. Mentre con
la classificazione si passa dagli esemplari alle categorie, con la generazione
si va, invece, dalle categorie agli esemplari. Quando per esempio
progettiamo un viaggio, gli elementi che costituiscono il particolare
concetto di viaggio che abbiamo in mente sono funzione di esso e da esso
vengono generati.
Entrambi i tipi di categorie possono poi essere usati nella costruzione
di categorie di livello più elevato. In questo modo i fonemi, tipicamente
appartenenti alle categorie sensorie, possono essere utilizzati nella
ideazione di nuove parole. Analogamente una categoria concettuale può
dare inizio al processo con cui nasce un concetto di più alto livello.
Nell’acquisizione di una ricorsività nella categorizzazione delle
percezioni intervengono diversi fattori determinanti sia riguardo alla sua
velocità e spontaneità, sia riguardo alla costituzione di circuiti preferenziali
che tendono a formarsi nel corso del tempo, dando anche origine a
meccanismi di difesa e consolidamento dei circuiti medesimi.
Gli individui paiono avere una innata predisposizione verso certe
strade e non altre seguite nell’apprendimento. A ciò va aggiunta l’influenza
del particolare contesto socioculturale nel quale essi sono inseriti, dove
l’affermarsi nel tempo, da parte della maggioranza delle persone, di
determinati modi di comporre gli stimoli in entrata derivandone le relative
conseguenze, tendono a diventare carattere comune a tutti, anche se
sviluppati in gradi e forme differenti.
L’enfasi sulle inclinazioni innate ed ambientali deve essere
comunque temperata dalla considerazione dell’importante ruolo svolto
dall’esperienza nel processo di categorizzazione. Nel momento stesso in
cui le persone assumono la consapevolezza dell’esistenza di una categoria,
vengono a determinarsi, sulla base dell’esperienza e dell’osservazione di
come ci si comporta nel contesto di riferimento, i primi schemi di
categorizzazione che, sulla base dell’adeguatezza dimostrata
nell’interpretare le percezioni, tenderanno a consolidarsi e divenire più
- 93 -
stabili.
Per propria natura le categorie sensoriali sono meno flessibili di
quelle cognitive, le quali vengono prontamente adeguate dalle persone in
seguito al mutare degli obiettivi che si propongono e, superando gli scogli
della sedimentazione, del contesto di riferimento.
Engel, Blackwell e Miniard1 evidenziano come sia possibile
riscontrare tre principi generali che intervengono nell’organizzazione degli
stimoli.
In base al principio della semplicità possiamo constatare come le
persone presentino la forte tendenza a organizzare le proprie percezioni in
strutture essenziali. Di fronte a segnali suscettibili di essere inquadrati
secondo una pluralità di schemi interpretativi prevale la loro disposizione
attorno a quello che risulta più semplice e diretto da decodificare.
A
B
C
Figura 2.2 – Il processo di semplificazione: un esempio.
Così, per esempio, l’individuo cui venga chiesto di unire con un
tratto i punti in A della figura 2.2 ben difficilmente lo farà nel modo
1
J. F. ENGEL, R. D. BLACKWELL, P. W. MINIARD, Consumer behavior, Seventh
Edition, 1991, pp. 40.
- 94 -
complesso di cui in C, mentre invece, assai più verosimilmente, traccerà un
cerchio come in B. L’attenersi a schemi interpretativi semplici consente
alla persona di attivare un circuito logico meno dispendioso e problematico
da gestire. Le posizioni che si vengono a determinare nella mente del
potenziale acquirente tendono, perciò, ad essere articolate in modo più
elementare di quanto generalmente vogliano intendere gli ideatori della
strategia di posizionamento. Un errore che viene spesso compiuto, venendo
a mancare la visione dal dentro da parte dell’impresa, è proprio quello di
credere in posizionamenti che prima o poi si dimostrano essere
eccessivamente sofisticati rispetto a quanto effettivamente i consumatori
percepiscono e inquadrano.
Il secondo principio che interviene nella sistemazione degli stimoli è
riscontrabile nei due principali elementi nei quali le persone tendono a
organizzare le proprie percezioni: la figura (intesa in senso ampio), e lo
sfondo. La prima rappresenta quegli elementi che, entro il campo
percettivo, ricevono l’attenzione principale. Il secondo è dato dagli
elementi rimanenti e meno significanti, i quali restano, per questo, nel
background. L’esperienza ha un ruolo molto importante nel determinare la
categorizzazione di un segnale fra quelli in primo piano o fra quelli di
contorno: la familiarità dell’oggetto dell’attivazione percettiva – nel caso
che ci interessa la marca1 – tende ad aumentarne la distinzione2.
Nella strutturazione dei segnali interviene poi il principio di
chiusura, il quale si riferisce alla tendenza a sviluppare una completa
percezione anche quando nel campo percettivo vengono a mancare alcuni
elementi. La ricostruzione dello stimolo viene fatta dalla mente nel
momento in cui l’informazione viene processata in base ad un modello in
1
La familiarità della marca riflette il livello di esperienze, dirette ed indirette che
si hanno rispetto ad un prodotto. Questo concetto ha, inoltre, implicazioni verso
l’interferenza competitiva, soprattutto per quanto attiene alla pubblicità (per uno studio
a riguardo v. R. J. KENT, C. T. ALLEN, Competitive Interference Effects In Consumer
Memory For Advertising: The Role Of Brand Familiarity, in “Journal Of Marketing”,
Vol. 58, Luglio 1994, pp. 97-105).
2
Di qui l’importanza rivestita dall’incrementare il numero, l’intensità e il
coinvolgimento dei momenti di contatti tra marca e consumatore, nel tentativo di riunirli
entro il medesimo mondo concettuale di riferimento.
- 95 -
precedenza acquisito che funge da riferimento. Quando una marca è
riuscita a costruire ed incrementare una relazione stabile e rispettata con i
consumatori, allora il concetto di chiusura può essere utilizzato con
successo nella comunicazione pubblicitaria.
A differenza di quanto si possa in un primo momento ipotizzare,
nella formazione dei gruppi mentali i consumatori usano per ogni marca un
set di diversi attributi – e non uno solamente – che poi confrontano con
quelli posseduti dalle marche concorrenti per procedere alla loro
categorizzazione. I diversi attributi oggetto dell’attenzione vengono inoltre
pesati in base all’importanza relativa che rivestono per il soggetto. Chi,
nell’ambito del posizionamento, proceda all’identificazione delle categorie
mentali prevalenti negli acquirenti potenziali, deve quindi, in prima istanza,
individuare gli attributi chiave per la categorizzazione della marca e poi
assicurarsi che, in relazione ad essi, questa sia percepita nella maniera
desiderata.
Secondo gli studiosi di gestalt psychology, le persone vedono gli
oggetti come un tutto unico, indistinto e integrato, anziché come
un’insieme di specifici elementi. Ciò significa, con le parole di De
Chernatony e McDonald1, che esse “Sentono e riconoscono un’armonia,
piuttosto che una successione di singole note”.
Di questi principi che servono da guida per l’elaborazione di una
struttura delle percezioni occorre tenere conto nel momento in cui si
procede all’identificazione sia dei luoghi mentali strategici attualmente
ricoperti dalle imprese che competono su un certo mercato, sia della
posizione che, in considerazione di ciò, più conviene assumere.
La rappresentazione dell’insieme delle categorie risultanti dal
processo di interpretazione dei segnali è figurata da Trout e Ries 2 attraverso
l’analogia con la cartografia. Si tratta, naturalmente, di un concetto
prettamente simbolico che, tuttavia, presenta il pregio di illustrare
efficacemente l’importanza dell’occupare una ben definita posizione.
Nel marketing come in guerra, seguendo gli autori, diventa
prioritario occupare o conquistare una posizione strategica. In questo
1
2
L. DE CHERNATONY, M. MCDONALD, 1998, op. cit., p. 93.
J. TROUT, A. RIES, Marketing è guerra!, McGraw-Hill, 1986, pp. 59-60.
- 96 -
contesto, le categorie vengono ad essere indicate mediante il riferimento
alle montagne. Così esisterà una “montagna” ideale corrispondente ad ogni
categoria ed il conflitto concorrenziale deriva appunto dalla contesa di
quella montagna, postazione ottimale per attuare la difesa da parte di chi la
occupa e, di riflesso, arduo obiettivo da raggiungere per lo sfidante1. In
sostanza ogni persona si costruisce, per ogni categoria riconosciuta, una
scala valoriale i cui gradini possono essere occupati e scalati dalle marche,
ma solo a condizione di scalzare chi già li occupa. Di qui l’importanza di
essere i primi a scalare la categoria: riuscire in quest’impresa, o addirittura
individuare la presenza di una scala fino ad allora trascurata e farla propria,
diviene una premessa indispensabile per conquistare la leadership di un
nuovo settore che verrà, a quel punto, identificato con noi.
2.2 – Il consumatore e la marca
Dopo avere analizzato i principali meccanismi che presiedono al
funzionamento della mente ed il processo per mezzo del quale, partendo da
input quali sono le percezioni, l’individuo perviene alla determinazione di
un corso per l’azione – nel caso che più ci interessa, il comportamento
d’acquisto – si rende opportuno, a questo punto, approfondire il fenomeno
del consumo nelle sue linee essenziali.
L’approccio seguito esula da una trattazione sistematica delle
numerose varianti alla base del comportamento del consumatore, per
incentrarsi su alcuni punti che contribuiscono, a monte del processo
Ad esempio, la montagna “sistema operativo” è occupata dalla Microsoft che
può, in base alla forza che la posizione le conferisce, mettere in atto strategie difensive
1
che le conferiscono una probabilità di successo certamente superiore rispetto ai suoi
diretti concorrenti.
Nel momento in cui il cliente utilizza il nome dell’occupante per indicare l’intera
categoria, come può essere, ad esempio, per la Scottex con riferimento ai grossi rotoli di
carta assorbente, significa che la montagna è, nella sua mente, saldamente occupata.
Bisogna tuttavia riuscire ad evitare l’insidia della banalizzazione: il consumatore, nel
derivare il nome della categoria dalla marca, deve aver bene presente che dietro quel
nome c’è qualcosa di concreto e non si tratta, invece, di una mera espressione generica.
- 97 -
percettivo e interpretativo, alla determinazione della condotta delle persone
nel momento in cui si trovano a dover compiere una scelta riguardo alle
marche. In particolare, ci interesseremo di quali siano i probabili processi
decisionali d’acquisto seguiti dagli individui e del momento in cui,
entrando in contatto con il contesto sociale, la personalità del soggetto va a
derivarne, per inferenza, delle conclusioni che ne influenzano il giudizio.
Non bisogna comunque mai scordarsi che è l’acquirente ad avere la
“giusta” visione mentale della marca. Bisogna, dunque, cercare di pensare
con la sua testa, fondersi idealmente con lui in modo da comprenderne e
condividerne appieno le aspettative.
2.2.1 – Le diverse tipologie di processi decisionali del
consumatore.
La scelta che la persona compie con l’acquisto è il risultato della
ricerca e dell’analisi di un numero limitato di pezzi di informazione e non
di tutti quelli potenzialmente disponibili. In effetti, gli acquirenti si devono
confrontare con la limitatezza delle risorse economiche a loro disposizione
e delle propria capacità di ricerca, di memorizzazione e di processo dei dati
concernenti le marche presenti sul mercato. Di fronte agli ostacoli che si
frappongono alla completezza e alla consapevolezza delle basi utilizzate
per la scelta della marca, il consumatore si appella a quelle poche
selezionate informazioni per le quali nutre fiducia e affidamento.
Un’ulteriore spinta in tal senso è data dal naturale disinteresse alla ricerca
insito in quegli acquisti che sono avvertiti come meno importanti e meno
coinvolgenti dal punto di vista emotivo.
Le determinanti del processo mentale che conduce le persone
all’acquisto sono assai numerose e variegate, spaziando lungo tutto l’arco
delle manifestazioni comportamentali. Due, tuttavia, sembrano essere i
motivi conduttori comuni a tutte questi fattori, uno costituito dal livello di
coinvolgimento espresso da parte del consumatore nell’acquisto della
marca, l’altro dalla percezione che egli ha delle differenze tra le marche in
competizione.
Ponendo questi aspetti di fondo sulle due dimensioni di una matrice,
- 98 -
come in figura 2.3, è possibile addivenire ad una categorizzazione dei
differenti processi di decisione che si possono effettivamente verificare.
Coinvolgimento del consumatore
Elevato
Elevata
Basso
Problem solving
esteso
Tendenza a problem
solving limitato
Riduzione della
dissonanza
Problem solving
limitato
Differenza di marca
percepita
Bassa
Figura 2.3 – I processi decisori del consumatore
Problem solving esteso – Questo processo viene seguito quando i
consumatori presentano un elevato coinvolgimento nell’acquisto e nel
contempo percepiscono sostanziali e significative differenze tra le marche
che competono nella categoria cui appartiene il prodotto sotto
osservazione. Appartengono a questo quadrante i prodotti e le marche ad
elevato prezzo e quelli che sono percepiti ad alto rischio effettivo (a causa
della loro complessità), o psicologico (poiché, ad esempio, mettono in
discussione l’immagine che l’acquirente ha di sé o quella che comunque
intende comunicare).
Il processo si caratterizza per la ricerca attiva, da parte del
consumatore, di informazioni che consentano un confronto tra le marche.
Una volta avvertita ed affermatasi un’esigenza, la persona avvia una ricerca
di informazioni delle quali sente di avere bisogno per procedere alla scelta,
portando avanti, più o meno consciamente, uno screening a livello della
propria memoria. In seguito a questo primo vaglio, se riterrà di avere a
- 99 -
propria disposizione un livello sufficiente di informazione, procederà alla
valutazione delle opzioni disponibili, altrimenti, molto più di frequente,
inizierà uno scanning dell’ambiente esterno (porrà una maggiore attenzione
a certe comunicazioni pubblicitarie, visiterà negozi, parlerà con i suoi
amici…). In seguito all’accumulazione di nuove informazioni, il
consumatore inizierà anche un processo di apprendimento circa la loro
interpretazione, dando maggior rilievo ad alcune e non ad altre, in modo da
rendere più focalizzata e meno dispersiva l’ulteriore ricerca.
Tuttavia, sarebbe troppo ottimistico aspettarsi che un simile processo
avvenga così linearmente. In realtà, anche operando una scrematura delle
informazioni che più sembrano interessarlo, l’acquirente che segue la linea
del problem solving esteso, resta ugualmente esposto a un notevole fuoco
di fila comunicativo, probabilmente finendo col perdere la cognizione del
preciso punto dal quale è partito. Così, capita che le informazioni che
riescono a coglierne l’attenzione e ad essere elaborate, non siano tutte
conformi alle sue precedenti aspettative, mentre vengono invece filtrate
grazie a meccanismi inferenziali e magari, ironia della sorte, all’erezione di
barriere nei confronti del rumore ambientale.
Qui, in particolare, emerge la necessità di una visione aderente al
sentire del proprio target, evitando i vari effetti di disorientamento. Sapere
cosa il potenziale cliente veramente cerca aiuta l’impresa a superare la
rumorosità ambientale per arrivare, rapidamente e per primi, ad occuparne
gli spazi mentali. Occorre identificare quali siano gli attributi veramente
importanti per il consumatore e focalizzarsi sulla loro comunicazione nella
maniera più potente possibile attraverso un approccio multimediale
estensivo (dal momento che varie e diverse saranno, per esso, le fonti dalle
quali attingere informazioni). Il messaggio trasmesso deve avere talmente
forza e deve essere così ben mirato da fungere da attrattore della persona
verso la marca. Per quanto possibile, non deve essere palesato lo sforzo –
peraltro notevole – che l’impresa compie nel conquistarsi la giusta finestra
nella mente della persona, in modo da non rischiare di perdere la sua
potenzialità fascinatrice. La persuasione, anche nel messaggio più
aggressivo, deve cioè essere il più possibile celata.
Naturalmente, non è sufficiente riuscire a persuadere le persone ad
- 100 -
acquistare il nostro prodotto. Soprattutto per i processi ricollegabili al
problem solving esteso vale il concetto che vede il momento del postacquisto come decisivo nella formazione e nel rafforzamento
dell’immagine di marca. Se l’acquirente constaterà che i caratteri presenti
nel prodotto o servizio rispondono alle aspettative che lo hanno condotto ad
operare quella scelta, allora si potenzieranno le credenze e le aspettative
collegate alla marca, cosa auspicabile sia riguardo ai futuri acquisti dello
stesso consumatore, sia alla rete di relazioni attivata, intorno a lui,
attraverso la soddisfazione. Nel caso in cui l’acquirente sia soddisfatto e
deva procedere nuovamente al medesimo tipo di scelta, è assai probabile
che il processo di ricerca si faccia molto più breve, ritrovando già nella
memoria gli elementi che lo indirizzano verso una scelta dimostratasi
adeguata e appagante già in precedenza1. Il processo di problem solving
assumerà, in altre parole, una connotazione più di routine perdendo parte
della sua iniziale rilevanza.
Jones e Earl Sasser Jr.2 riconoscono una sostanziale differenza tra i
clienti soddisfatti e quelli completamente soddisfatti attribuendo solamente
a questa seconda condizione la possibilità di assicurare una fedeltà duratura
e, assieme ad essa, elevate performance di lungo periodo. Esisterebbe, cioè,
una relazione diretta tra livello di soddisfazione del cliente e grado di
fedeltà che questi manifesta, determinandosi, tuttavia, un notevole gap per
livelli di soddisfazione che si discostino in alto da quelli ritenuti accettabili.
Tale rapporto, inoltre, si acuisce con il livello di competizione
caratterizzante il particolare mercato di riferimento, cosicché, in presenza
di un’elevata concorrenza tra le offerte, diviene prioritario spingere il
livello di soddisfazione del consumatore il più in alto possibile al fine di
ridurre le potenziali defezioni ad un livello accettabile.
Gli autori individuano due generi di fedeltà – la fedeltà vera, di
lungo termine e quella che possiamo chiamare una fedeltà falsa –
l’orientamento verso l’uno o l’altro dei quali viene a dipendere
1
Abbiamo già rilevato (paragrafo 2.1.1) quanto sia importante il reiterarsi dei
successi, anche piccoli, nella generazione della soddisfazione.
2
T. O. JONES, W. EARL SASSER JR., Why satisfied customers defect, Haevard
Business Review, novembre-dicembre 1995, pp. 88-99.
- 101 -
essenzialmente dal fatto che si pervenga ad un livello di completa o ad uno
di mera soddisfazione (evidentemente, i consumatori manifesteranno una
solida e duratura fedeltà solamente se saranno completamente soddisfatti).
Tra i fattori generanti falsa fedeltà, i principali sarebbero: limiti normativi
posti alla competizione, alti costi di cambiamento da un’offerta all’altra,
differenziale riguardo alle tecnologie proprietarie che limita le alternative,
forti e persistenti programmi promozionali. Altre volte, inoltre, la fedeltà
non può essere raggiunta a causa, oltre che della povertà del prodotto o
servizio offerto, del fatto che l’impresa ha attratto i consumatori “sbagliati”
o non ha saputo gestire il rapporto con quei clienti che sono andati incontro
ad un’esperienza negativa.
Differenti livelli di soddisfazione riflettono differenti problemi e,
perciò, richiedono differenti azioni da parte dell’impresa. Il livello di
soddisfazione tra i clienti che costituiscono il target dell’impresa
costituisce, in questo modo, un buon indicatore del livello di qualità
percepita (effettiva) dell’offerta. Quattro sono i fattori che vanno ad
influenzare la soddisfazione del cliente: gli elementi di base del prodotto o
servizio (quelli che i consumatori ritengono debbano essere presenti
nell’offerta di ogni competitore), i servizi elementari di supporto (in grado
di conferire al prodotto o servizio principale una maggiore efficienza e
facilità d’uso), un processo di recupero per fronteggiare il verificarsi di
cattive esperienze, servizi e attributi straordinari al fine di meglio aderire
alle particolari preferenze del cliente. Il livello di soddisfazione o
insoddisfazione riscontrato nella maggioranza dei clienti dell’impresa è di
aiuto nel determinare su quali di questi elementi andrebbe focalizzata
l’attenzione1.
Tuttavia, tali elementi non costituiscono l’unica base di diagnosi dello stato di
salute del business e far poggiare le decisioni strategiche solamente su essi può risultare
fatale. Nonostante le indagini sul livello di soddisfazione dei clienti siano buoni
indicatori di cambiamenti avvenuti nel mercato e possano offrire un chiaro senso degli
attributi del prodotto o servizio preferiti dai consumatori, non rendono adeguatamente
l’ampiezza e profondità dei loro bisogni consegnando validi significati direzionali per le
strategie competitive d’impresa. È, alla fine, il realizzarsi dinamico e in divenire della
fusione tra impresa e mercato che permette di avere un quadro d’insieme allo stesso
1
- 102 -
Venendo a mancare il positivo supporto dell’appagamento delle
aspettative riposte nell’acquisto iniziano i problemi per l’immagine di
marca. Tale mancato appagamento può essere così frustrante da attivare
sensazioni assimilabili addirittura al tradimento: vedere un grande sforzo –
come quello prodotto dal consumatore nella ricerca di informazioni – non
ricompensato, può originare, per reazione, una spinta in senso contrario di
portata uguale o anche superiore.
Riduzione della dissonanza – Questo tipo di comportamento di
acquisto della marca è caratterizzato da un elevato coinvolgimento e da una
minore capacità di distinzione delle diversità esistenti tra i competitori. I
consumatori paiono disorientati di fronte alla mancanza di evidenti
differenze di marca e, conseguentemente, la scelta ricadrà su altri fattori
come, per esempio, il consiglio del venditore o l’informazione passata da
un amico.
Nel caso in cui la persona che segue questo processo riceva
informazioni contrastanti con le proprie ragioni d’acquisto, soprattutto in
un momento successivo, essa viene a trovarsi in una situazione di conflitto
e sconforto: la dissonanza. La propensione, allora, sarà quella di ridurre
questo stato di incertezza mentale ignorando l’informazione dissonante.
Quest’obiettivo recondito può essere raggiunto evitando il confronto con
persone o fonti di informazione portatrici di una diversa veduta, oppure
cercando in maniera selettiva messaggi in grado di dare una conferma alle
primitive credenze.
In questo tipo di processo di acquisto, il consumatore opera delle
scelte senza avere salde convinzioni sulla marca, per poi mutare
atteggiamento in seguito all’esperienza che trae dall’interazione con il bene
o servizio. Successivamente, l’apprendimento si svolge, nella persona,
ponendosi a supporto dell’originale scelta di marca, stando attenta a
recepire l’informazione positiva ed ignorando quella negativa.
Una particolare attenzione deve essere riposta nell’elaborazione della
comunicazione, la quale, quando il consumatore non riesce a percepire
significative differenze tra le marche sul mercato od è carente per quanto
tempo descrittivo e indicativo nel cui ambito possono poi essere ricondotte fonti di
conoscenza e apprendimento circa il comportamento del consumatore.
- 103 -
riguarda la capacità di giudizio, deve ridurre la dissonanza rassicurando
l’acquirente circa il momento del dopo acquisto che vedrà confermata la
bontà della scelta effettuata.
Problem solving limitato – Questo particolare processo decisorio è
caratterizzato dal fatto che ad una scarsa capacità di cogliere le differenze
tra le marche, si aggiunge un basso livello di coinvolgimento nell’acquisto,
cui viene data limitata rilevanza. Le persone, specialmente per quanto
concerne acquisti che non comportano grosse ripercussioni su di esse e sui
loro stati psicologici, avvertono lo sforzo derivante dalla ricerca di
informazioni come eccedente rispetto ai vantaggi che il ricevere quelle
informazioni fornisce. Il bilancio psicologico è, in altre parole, a netto
sfavore dello sforzo cognitivo, e quanto arriva ad essere percepito ed
elaborato dalla mente si presenta semmai, come il frutto di
un’assimilazione passiva da parte del soggetto.
Gli atteggiamenti e le valutazioni, in questo caso, avvengono dopo e
non prima l’acquisto, essendone l’effetto e non la causa. Poiché il
consumatore recepisce e processa i messaggi in maniera eminentemente
passiva, questi non vanno ad incidere in maniera rilevante sulla sua
struttura valoriale e comportamentale. È solamente dopo che l’acquisto che
può darsi luogo ad una valutazione sulla marca e sulla soddisfazione
derivante dalla scelta, potendo anche formarsi delle credenze, quantunque
in una forma debole, che potrebbero condurre alla ripetizione dell’acquisto,
soprattutto in quanto portatrici, se accettate, di una riduzione dello sforzo
decisionale. La debolezza si esprime nella maggiore possibilità che, indotto
ad esempio da azioni promozionali, il consumatore si allontani da una
marca la quale non riesca ad avere una posizione centrale nella sua mente
per provarne un’altra, rompendo così il tenue legame instauratosi.
Per le marche la cui scelta è caratterizzata da un basso livello di
coinvolgimento, inoltre, il rischio percepito connesso al cambiamento è
avvertito in misura molto minore. Come conseguenza, in seguito alla noia e
all’apatia che inevitabilmente si ingenerano con il reiterarsi della solita
scelta, l’acquirente non trova sostenibili barriere al suo bisogno di varietà.
Il messaggio, per le marche che si trovino in questa posizione, deve
mantenersi semplice in modo da non aumentare la refrattarietà
- 104 -
all’assimilazione di informazioni che presentano i potenziali acquirenti.
Devono invece essere privilegiate la frequente ripetizione del messaggio e
la creatività (incentrata su uno o più – in ogni caso pochi – punti focali,
legati comunque alla particolare funzione per cui è nato il prodotto), in
quanto, per questo tipo di processo decisionale, viene ricercata
l’accettabilità della marca piuttosto che l’ottimalità della scelta. Importanti
sono anche le prove del prodotto che il consumatore fa, da cui l’esigenza di
una marcata attività promozionale.
La distribuzione deve essere attentamente curata garantendo
un’ampia disponibilità del prodotto, dal momento che, a causa del basso
coinvolgimento, il consumatore difficilmente si porrà alla ricerca di ciò che
non ha trovato sul punto di vendita, rivolgendosi invece ad un’altra marca.
All’interno del punto di vendita, poi, assume una notevole importanza la
“presenza” del prodotto, che deve essere ideata in modo da incontrare nel
modo più semplice e naturale i sensi del potenziale acquirente,
sollecitandone l’attenzione.
Tendenza al problem solving limitato – Questa diversa situazione
decisionale si viene a manifestare quando la persona, pur presentando la
capacità di distinguere le differenze esistenti tra le marche, esprime un
basso livello di coinvolgimento nel processo di scelta. Anche qui,
evidentemente, la scarsa motivazione ben difficilmente consentirà
l’intrapresa di un’estesa ricerca di informazioni a supporto della decisione.
In conseguenza di ciò appare evidente come le pur sostanziali differenze tra
le marche debbano essere valutate con estrema cautela nell’allestimento
dell’attività comunicativa.
La selezione della marca avviene in modo analogo a quanto
osservato per il problem solving limitato e le indicazioni per l’azione di
marketing allora espresse possono essere estese al caso corrente.
2.2.2 – Il ruolo socio-psicologico della marca.
Abbiamo già rilevato1 come la costruzione di una personalità attorno
al prodotto estensivamente inteso contribuisca ad ingenerare nelle persone
1
V. Capitolo 1.4.1.
- 105 -
una maggiore confidenza nei confronti della marca via, via che essa
incrementa la propria notorietà. Nostro compito è ora quello di
comprenderne a fondo i motivi, in modo da operare strategie di
posizionamento il più possibile coerenti con l’identità di marca.
L’immagine che circonda la marca consente al consumatore di
formare una visione mentale di ciò che il suo acquisto significa e comporta
in termini di bisogni soddisfatti, valori apportati, stili di vita di riferimento
reali ed ideali. Del resto, dall’osservazione della marche sulle quali ricade
la scelta di una persona si possono desumere molte cose sul suo essere,
sulle ragioni del suo comportamento, e sulla sua particolare gerarchia
valoriale1.
L’immagine di marca, per sua natura, risulta essere più
efficacemente sviluppabile in riferimento a quei settori e a quegli acquirenti
per i quali è predominante l’aspetto emozionale rispetto a quello
funzionale, essendo allora che il valore di marca risulta, proprio in forza di
tale ragione, maggiormente sostenibile, godendo di un più ampio spazio di
manovra consentito dal fatto che, in quel caso, le differenze si fanno più
sentite ed evidenti agli occhi delle persone.
Le marche cospicuamente consumate si prestano particolarmente ad
un posizionamento basato sui bisogni emozionali delle persone. Il
procedimento associativo che prende origine a partire dall’immagine di
marca, così come recepita dall’individuo, viene a basarsi
sull’appropriatezza dell’immagine stessa rispetto alla situazione di
consumo nella quale va ad innestarsi. I consumatori valutano i significati
delle diverse marche e prendono una decisione di acquisto in funzione di
quale tra esse risulta maggiormente coerente con l’identità loro e del
proprio gruppo di riferimento.
Viene così, ancora una volta, a delinearsi la validità dell’ipotesi della
primarietà dell’importanza della conferma del sistema valoriale della
persona e degli abiti comportamentali di cui essa si riveste. Una marca che
risulti essere non in linea con quanto fino ad ora sostenuto, rischia, per ciò
stesso, di essere respinta, se non altro a causa di un innato meccanismo di
1
Potremmo riferirci a questo potere chiarificatore e rivelatore della marca
affermando: «Dimmi che marca usi e ti dirò chi sei».
- 106 -
difesa che l’individuo pone in essere nel contrastare l’incongruenza,
avvertita come un potenziale pericolo per la propria stabilità valoriale ed
emotiva. Muovendosi all’interno di circoli sociali, gli individui recepiscono
con favore quelle marche che meglio rappresentano e interpretano,
attraverso i simboli di cui si fanno portatrici, la personalità e lo stile di vita
propri del contesto socioculturale di riferimento. La situazione ideale è
quella in cui la marca riesce, per mezzo della fusione, ad esprimere i
movimenti in corso di determinazione prima ancora che il target ne acquisti
consapevolezza, in modo da porsi come punto di riferimento e di attrazione
(senza che questa funzione di traino possa essere messa in discussione).
Come evidenziato da De Chernatony e McDonald1, le marche sono
parte della cultura di una società, e dal momento che la cultura cambia
evolvendosi continuamente anche esse devono essere oggetto di un attento
e pronto aggiornamento (è questo il motivo conduttore dal quale prende
origine il concetto di fusione). Il ruolo ricoperto da una marca in un certo
momento non deve pertanto essere considerato un punto di arrivo, ma
soltanto un punto di transito tanto instabile quanto affidabile se ben
interpretato.
2.2.3 – L’interazione sociale come vettore comunicativo
dell’immagine di marca.
La percezione che i consumatori hanno dei prodotti e delle marche
che tali prodotti sintetizzano ed esprimono ha una valenza che trascende
l’approccio di marketing nella sua accezione più ristretta, per andare a
coinvolgere, in senso più ampio, gli aspetti più tipicamente sociologici e
psicologici.
La tendenza che va sempre più diffondendosi negli individui posti di
fronte al problema della scelta della marca è quella secondo cui i prodotti o
servizi non sono visti solamente nell’ottica di cosa possono fare, ma in
quella più intensa e pervasiva di cosa essi significhino. La scintilla che dà
inizio a questo più astruso meccanismo interpretativo e di attribuzione di
significati è costituita dall’interazione portata avanti da processi
1
L. DE CHERNATONY, M. MCDONALD, 1998, op. cit., p. 115.
- 107 -
comunicativi che, sempre più veloci e consistenti, permettono a chi si trova
alle estremità della fitta rete attraverso cui circola il messaggio di
apprendere quali siano i significati che gli altri terminali della rete
attribuiscono ai prodotti ed alle marche stesse. L’acquisto ed il consumo di
una determinata marca e non di un’altra, se portato a conoscenza degli altri
individui con i quali ci relazionamo, assume pertanto un ruolo rivelatore
che nello stesso tempo ricerca l’accondiscendenza dell’interlocutore,
diventando per ciò stesso comunicazione nel senso più puro del termine. La
pubblicità insieme agli altri tipi di comunicazione di marketing sostiene,
facendo da volano, la creazione ed il rafforzamento dei significati simbolici
di cui si ricoprono le marche.
Il senso simbolico delle marche è fortemente influenzato dalle
persone con le quali il consumatore interagisce. Attraverso le reciproche
relazioni che si instaurano tra le persone, infatti, vengono a crearsi dei
contenitori comuni di valori, concetti e significati i quali vengono condivisi
e restano a disposizione di tutti coloro che operano all’interno della rete
interpersonale così venuta a determinarsi. Seguendo questa logica, chi si
trovi ad entrare in un gruppo sociale va a confrontare le proprie idee circa il
senso da attribuire ai simboli di cui sono portatrici le marche con quelle che
sono già presenti all’interno del gruppo. Nel caso vi siano delle
discrepanze, fino a riscontrare delle contraddizioni nei confronti delle
credenze personali di cui è portatore, il soggetto tenderà a riformulare
queste ultime in modo da renderle conformi alle attese del gruppo. Per
sentirsi parte di un gruppo, la persona non soltanto deve aderire alle
credenze ed agli atteggiamenti di tale gruppo, ma anche rispecchiare questi
atteggiamenti e credenze attraverso il dispiegamento dei giusti tipi di
marche prescelte.
Pertanto, la profonda conoscenza del funzionamento dei gruppi è,
oggi più che mai, basilare per la comprensione dei modelli di
comportamento dei consumatori, necessità tanto maggiore se consideriamo
la crescente tendenza delle persone a muoversi nell’ambito di una pluralità
di individui che siano accomunati da medesime derivazioni, interessi,
- 108 -
contatti, modi di approcciare la realtà, ma soprattutto dalla pressante
esigenza di autodifesa da un ambiente esterno ritenuto sempre più ostile1.
La tendenza all’acquisto originata da una influenza normativa di
ordine sociale è sempre più diffusa. Le persone cercano con insistenza
sempre maggiore di ottenere l’approvazione sociale o quanto meno di
evitare la disapprovazione, soprattutto a livello del particolare e
relativamente ristretto gruppo “socio-tribale” nel quale i trovano a vivere
ed interagire2. La crescente tendenza all’instabilità e precarietà del vivere,
in un’epoca che pratica e sostiene la frammentazione della temporalità
affermando l’elevazione sull’altro come principale pietra di paragone del
valore della persona, è la causa che sta a monte di questo processo. Gli
individui si affidano a simboli e meccanismi in grado di produrre
Quest’ultimo, in effetti, pare essere da sempre il primo e più potente principio
di aggregazione degli individui.
2
Le aggregazioni sociali che si stanno affermando sono, nella nostra epoca,
guidate da due principi opposti quanto a manifestazioni della propria presenza, ma,
espressione, in ultima analisi, di un comune malessere.
Da una parte, per affrontare le crescenti condizioni di incertezza e precarietà
1
della condizione esistenziale, gli individui tendono a convergere in gruppo attorno a
pochi chiari e semplici criteri di concentrazione. Tali gruppi paiono mostrare moderne
connotazioni tribali, quasi di trattasse, seguendo nuove logiche di sopravvivenza, di
nuovi “branchi sociali”. I fattori di aggregazione possono essere dati dalla vicinanza di
condizione sociale, da interessi comuni attorno ai quali si tende a fare quadrato, o anche,
più semplicemente da legami familiari o comuni luoghi di aggregazione. La
caratteristica che comunque accomuna questi gruppi è costituita dalla chiusura
aggressiva nei confronti dell’esterno cui si accompagna una spiccata solidarietà interna
(anche se poi, saltuariamente, esistono avvicinamenti tra più gruppi favoriti,
generalmente, dall’interscambio di alcuni elementi e dalla constatazione di avere delle
comunanze). Le persone tendono, pertanto, ad avere contatti con chi sentono
appartenere allo stesso orientamento del proprio clan e a frequentare determinati
ambienti in virtù di quanto richiesto implicitamente da quella particolare appartenenza
rinsaldando, in questo modo, i principi che ne stanno alla base.
Dall’altra parte, apparentemente antitetica, troviamo la tendenza ad
un’omogeneizzazione di pensieri e di valori che permeando le difese del gruppo, fa sì
che gruppi pur distinti, ma aventi un’analoga origine e ragione d’essere, seguano
comunque comportamenti simili.
- 109 -
approvazione sociale al fine intrinseco di acquisire sicurezza, quella stessa
sicurezza che è minata dai meccanismi relazionali che ci si propone di
mascherare.
La paura dell’esclusione e del rimanere soli di fronti a se stessi, come
riemergesse l’atavica paura del buio e dell’ignoto, è il sentimento che fa da
potentissimo propellente a tali meccanismi.
Tutti quanti dipendiamo da qualcosa e cerchiamo l’approvazione
sociale. Quello che cambia è l’intensità con cui la ricerchiamo e la
direzione verso la quale volgiamo il nostro interesse e i nostri sforzi; ci
differenziamo, poi, nel fatto di essere consapevoli o meno di questi
elementi che sono alla base del nostro agire e del nostro comportamento.
Dobbiamo distinguere, inoltre, la rappresentazione visuale della
marca dall’espressione verbale con cui essa viene proiettata, soprattutto ad
opera della pubblicità. Infatti, mentre la prima appare diretta e scevra da
complicazioni lessicali, per la seconda vale il discorso contrario:
l’espressione verbale, che comunque prevale e fa da sfondo anche alla
comunicazione visiva1, è più scomoda per le credenze sedimentate e
soggetta ad un più attento esame della logica tendendo, perciò, ad essere
meno accettata.
Il simbolismo è utilizzato da tutte le persone come un valido
strumento per la comprensione della complessità ambientale e, costituendo
il vero linguaggio comune al gruppo sociale di riferimento, viene
conseguentemente usato come strumento comunicativo di sé verso gli altri,
nonché verso se stressi. Le marche, intese come simboli, possono cioè
convogliare i messaggi degli individui circa se stessi e facilitarne
l’espressività. Un ruolo fondamentale nel consentire l’emissione e la
ricezione di un messaggio basato su un simbolo è svolto dagli immaginari
collettivi e dai luoghi comuni, veri codici comunicativi universalmente
riconosciuti ed accettati per validi. A volte, poi, la connotazione simbolica
assunta da certe marche viene utilizzata come elemento rituale dedicato ad
uno specifico momento della vita sociale (la ritualità costituisce uno
schema comune alle società di tutte le epoche e di tutte le latitudini).
1
Cfr. par. 4.2.1.
- 110 -
L’elemento comune a tutte le funzioni che vengono attribuite ai
significati simbolici delle marche pare essere dato dalla sicurezza di
conformità rispetto al gruppo sociale di riferimento1 che essi conferiscono.
L’esprimersi attraverso un codice comunicativo generalmente accettato, per
di più, non solo si pone a conferma di un’approvazione conseguita per il
solo fatto di non essere deviante rispetto al modello di riferimento, ma
conferisce anche a chi mette tale meccanismo un incremento di quella che
potremmo chiamare auto-confidenza, ponendolo in una situazione di
benessere psicologico sia di origine interiore, sia relativizzato alla propria
posizione nel gruppo.
Così, in molti mercati, i consumatori guardano alle marche come a
strumenti per comunicare qualcosa riguardo a se stessi o per meglio
comprendere i propri gruppi di riferimento e decodificare i messaggi
simbolici dell’ambiente nel quale si muovono. Dal momento che i simboli
acquistano un significato secondo il diverso contesto sociale e culturale dal
quale si alimentano e nel quale si sviluppano, occorre comprendere a fondo
questi ultimi per addivenire alla loro corretta codifica e decodifica. Di più:
bisogna riuscire, attraverso la fusione con esso, ad essere parte integrante
del contesto di riferimento, in modo da essere adeguati, in ogni momento,
alle diverse circostanze che si presentano con l’evolversi degli eventi e dei
concetti che li determinano. Il contatto con l’ambiente nel quale l’impresa è
inserita viene a costituire, in quest’ottica, un’esigenza ineludibile.
Perché una marca venga utilizzata come strumento comunicativo,
essa deve soddisfare certe esigenze di visibilità collegate al fatto di essere
frequente oggetto di scelta o di uso. È l’osservazione della reiterazione di
una decisione a generare la convinzione che essa poggi sulla realtà di
vantaggi e caratteristiche inconfutabilmente presenti nella marca. Il
successo reitera il successo rafforzando i simboli che emergono dal
prodotto e dei quali esso si può nel tempo arricchire. Se poi la ripetizione
dell’acquisto o dell’uso è fatta ad opera di un gruppo dai tratti chiaramente
distinti, i significati della marca verranno assimilati ed accordati a quelli
del gruppo attraverso il meccanismo dell’associazione simbolica, fino a
1
Qualunque esso sia, sia la ristretta schiera di amici e conoscenze, sia la società
nel suo complesso.
- 111 -
condurre alla nascita dello stereotipo. Questo processo di
omogeneizzazione dei significati dei simboli raggiunge il suo apice
allorquando si perviene alla determinazione del luogo comune, potendosi,
allora, dare seguito con maggiori possibilità di successo ad una
segmentazione per immaginari collettivi1.
2.2.4 – L’auto-concetto.
Nell’affrontare la trattazione del rapporto tra consumatore e marca,
occorre rilevare come ed in quali termini egli abbia coscienza di sé e della
posizione che ricopre all’interno del suo mondo di riferimento. Il momento
del confronto è fondamentale nella formazione e nell’arricchimento della
struttura comportamentale della persona. La relatività dei concetti di spazio
e di tempo si conferma anche all’interno della mente creando tuttavia un
effetto di disorientamento. L’individuo necessita di pervenire alla
consapevolezza della posizione e del ruolo che ricopre, qualunque sia la
loro natura, all’interno della trama sociale2.
Naturalmente il prendere l’immaginario collettivo come base per
l’individuazione di segmenti ha anche i suoi aspetti negativi, riconducibili
all’accettazione dello status quo della mente dei potenziali clienti.
Tuttavia, occorre considerare che questa è una strategia molto meno rischiosa
del tentare di cambiare la mentalità delle persone, il quale spesso si risolve in disastrose
ritirate da parte di chi lo pone in essere. Molto meglio, allora, adeguare le proprie
strategie di posizionamento a quello che è già presente nella mente del potenziale
acquirente.
2
Lo stesso processo di socializzazione non è altro che un processo di
1
apprendimento dei ruoli e di interiorizzazione dei valori propri di ogni ruolo. La
definizione dei ruoli implica che alcuni comportamenti siano pretesi, altri vietati e altri
ancora permessi. Ad ognuno di questi comportamenti corrispondono delle aspettative
(«risposte anticipate»). Un individuo, cioè, impara ad attendersi certe azioni da parte
degli altri, che a loro volta si attendono dei comportamenti dalla persona in questione.
Le aspettative, quindi, presuppongono un processo di apprendimento attraverso il quale
si acquisisce il proprio ruolo adottando dei modelli di comportamento, grazie alla
capacità di «copiare» il comportamento degli altri.
- 112 -
In questo contesto, le marche svolgono un importante compito
relativizzatore fungendo da pietra di paragone che, attraverso la
sintetizzazione di concetti, valori e distanze in simboli di chiara ed
immediata lettura, consenta al consumatore di determinare la propria
posizione relativa. È nelle marche, più che in tanti altri fenomeni
socioeconomici, che possiamo rintracciare i segni dell’evoluzione della
società, e il saper riconoscere ed interpretare tali segni permette a chi si
occupa di posizionamento di conoscere quale sia la direzione e la portata
dei movimenti di mercato.
I consumatori preferiscono le marche che avvertono essere più
strettamente vicine alla loro immagine così come percepita o desiderata. In
effetti, ognuno è portatore di una concezione di sé ed acquista o usa una
particolare marca solo se l’immagine di cui essa è depositaria risulta
coerente e in armonia con la propria auto-immagine. Viene considerata,
cioè, la questione se la marca comunichi il tipo di immagine giusto per
incrementare il proprio auto-concetto o se, comunque, essa si mostri
coerente rispetto ad esso, appartenendo allo stesso mondo di contenuti.
L’auto-concetto, che è il modo con cui il soggetto percepisce il
proprio carattere e la propria identità, si forma a partire dall’osservazione e
dall’analisi (spontanea ed automatica) delle reazioni prodotte dalle
interrelazioni sociali. È attraverso l’esperienza e la coscienza delle relazioni
intrattenute con il mondo esterno che le persone prendono coscienza del
proprio auto-concetto attuale. Frutto dei processi di valutazione della
posizione ricoperta e di quella ambita è il desiderio di muoversi dall’autoconcetto attuale ad un auto-concetto “ideale”1. Il mantenimento ed il
rafforzamento della propria identità e immagine rappresentano importanti
propositi nella scelta di una determinata marca. Se in seguito all’acquisto o
all’uso di una marca il soggetto avverte una reazione positiva da parte del
gruppo di riferimento, diventa assai probabile una sua reiterazione della
scelta, un modo da dare conferma al riconoscimento del successo del
proprio operato.
1
Auto-concetto attuale e ideale sono entrambi validi indicatori riguardo alla
selezione di una marca.
- 113 -
Il comportamento degli individui varia, inoltre, in considerazione
della particolare situazione di cui essi sono parte e nella quale deve essere
contestualizzato il processo di scelta. In particolare, la scelta sarà
suscettibile di seguire diversi orientamenti secondo quali sono gli occhi ad
osservarci. Le persone vogliono offrire una immagine differente di sé al
variare della situazione attraverso l’utilizzo di diverse maschere, ognuna
costituita dalla marca appropriata per le aspettative presunte attribuite al
particolare gruppo che in quella situazione funge da interlocutore.
Esiste, evidentemente, una stretta relazione tra il simbolismo della
marca usata e l’auto-concetto dell’individuo, nel senso che il primo
influenza il secondo creando le premesse per una scelta finalizzata
all’elevazione di quest’ultimo.
2.3 – Le associazioni cognitive come basi per il
posizionamento
2.3.1 – Le associazioni.
L’associazione cognitiva è definibile come il processo analogico di
concatenazione delle idee attraverso cui è possibile, da un significato
originario, derivare una serie di significati che presentano con esso una
qualche attinenza più o meno esplicita. Sulla base dell’associazione
cognitiva la mente sviluppa incessantemente pensieri che, a causa della
complessità della sua architettura e della velocità con cui gli impulsi si
trasmettono tra i neuroni, vanno a organizzarsi secondo strutture
concettuali sempre nuove e diverse.
Il posizionamento di una marca nella mente delle persone deve così
necessariamente essere anch’esso impostato ed imperniato sul meccanismo
dell’associazione, per il quale è associato alla marca tutto ciò che nella
mente della persona vi è collegato1. Il posizionamento concerne il modo
1
Il posizionamento è tuttavia concetto che deve essere relativizzato mediante la
considerazione, nell’ambito della trama di associazioni, delle posizioni occupate dalla
concorrenza. In quest’ottica l’esigenza principale, oltre ad essere al centro di una fitta e
forte rete di relazioni, diventa il rendersi distinti dai diretti concorrenti.
- 114 -
con cui la marca viene percepita dal cliente, anche se spesso l’ottica viene
rovesciata andando ad indicare il modo in cui l’impresa intende farsi
percepire: è quanto avviene nella mente del consumatore ad essere
importante e non tanto quelle che possono rimanere solamente delle mere
intenzioni da parte dei competitori. L’immagine di marca viene ad essere il
risultato dell’organizzazione in sistema delle associazioni e costituisce
l’estrema sintesi delle informazioni, più o meno elaborate, di cui il
potenziale acquirente si avvale nell’operare le proprie scelte. A parere di
Keller, l’immagine di marca può essere considerata «un insieme di
percezioni relative alla marca così come riflesse dalle associazioni
connesse alla marca stessa detenute nella memoria del consumatore»1.
Secondo l’autore, pertanto, le associazioni non sono altro che il contenuto
di quella rete di nodi cognitivi la quale rappresenta tutto ciò che è
conosciuto a proposito di un determinato oggetto. Il legame tra
consumatore e marca diviene tanto più forte quanto più numerose e robuste
sono le associazioni2. Di qui la necessità, per chi gestisce l’immagine di
marca, di arricchire e rinsaldare continuamente la trama dei collegamenti
tra i significati ed i valori di cui essa è portatrice e quelli riconosciutile dal
mercato.
Il valore aggiunto della marca è, in ultima analisi, determinato dalle
associazioni che essa è in grado di generare e gestire, le quali esprimono
ciò che rappresenta per i potenziali clienti. Nel produrre valore, le
associazioni intervengono sotto molteplici aspetti svolgendo diverse
funzioni.
Innanzitutto, le associazioni costituiscono il meccanismo con il quale
vengono riassemblati i pezzi di informazione sedimentati nella memoria. Il
modificarsi delle associazioni e della struttura concettuale in cui vengono
poste può portare a interpretazioni e ricordi parzialmente o del tutto diversi
da quelli originari.
1
K. L. KELLER, Comceptualizing, measuring, and managing customer-based
brand equity, Journal of marketing, gennaio 1993, p.3.
2
Un concetto di marca sorretto da un solo legame associativo è di per sé
sintomatico di una situazione critica per il posizionamento: il venire meno di
quell’unico legame avrebbe, di fatto, un effetto dirompente determinando la deriva
strategica della marca stessa.
- 115 -
Le associazioni possono, poi, essere prese come base per un
posizionamento che, attraverso la differenziazione, può alfine offrire un
vantaggio competitivo decisivo. È, anzi, il ricorso allo studio dei
collegamenti tra i valori di cui è portatrice la marca e quelli percepiti dal
consumatore ad offrire i più preziosi spunti per conseguire un
posizionamento efficace. Il raggiungimento di una posizione privilegiata
sulla particolare "collina” categoriale percepita dal consumatore
rappresenta un passaggio decisivo nella conquista di una leadership
potenzialmente duratura. Infatti, chi detiene una posizione di vantaggio può
adottare strategie di copertura che, se attuate intelligentemente, rendono
arduo il compito degli sfidanti per il conseguimento del predominio del
mercato solo per il fatto che prima devono riuscire a scalzare l’impresa
leader dalla prima posizione.
Non tutte le relazioni rintracciabili hanno in realtà la medesima
importanza. Le associazioni riconducibili all’immagine di una marca sono
spesso relative a caratteristiche del prodotto che costituiscono un
particolare motivo per l’acquisto della marca da parte del consumatore,
diventando talmente importanti da lasciare quasi senza rilevanza le altre
che finiscono per confondersi e perdersi nello sfondo rimanendo in secondo
piano. Mandato1, sottolinea come, al fine di meglio comprendere la natura
dell’immagine di marca, sia opportuno approfondire le forme che essa può
assumere, soprattutto con riferimento al loro grado di astrazione In
particolare, l’autore, seguendo la dottrina economica, riconosce per le
associazioni di marca tre macro-livelli. Il primo livello, quello che presenta
il livello di astrazione più basso, è quello definito dagli attributi, ossia le
caratteristiche tecniche dell’offerta. Il secondo livello è dato dai benefici,
ossia l’insieme delle utilità connesse alla marca – di qualunque natura esse
siano2 – e riconosciute dal mercato. Il livello nel quale il grado di
G. MANDATO, La comunicazione integrata nell’”impresa-rete”, Sinergie,
maggio-giugno 1996, p. 107.
2
Tali utilità possono essere anche molto generiche (“ti fa risparmiare”, “ti rende
più attraente”…). L’importante è che siano supportate da un adeguato sistema di attività
che ne giustifichi la percezione come tali da parte del consumatore. Infatti, in questa
fase, il giudizio dell’interlocutore dell’impresa perde di oggettività, venendo filtrato
attraverso le esperienze e i parametri di valutazione individuali.
1
- 116 -
astrazione è maggiore è quello degli atteggiamenti verso la marca, i quali
costituiscono la base dell’immagine di marca1.
Le associazioni, infine, possono essere utilizzate come basi di
appoggio per una estensione di gamma. In questo caso, si approfitta di una
relazione nota ed affermata tra un valore della marca ed il cliente, per
riproporre quel valore sull’estensione, godendo dei benefici di
un’associazione già affermata e collaudata (anche se occorre guardarsi
bene, come vedremo2, dalle trappole insite nelle estensioni di gamma).
2.3.2 – Tipi di associazioni.
I tratti comuni delle relazioni importanti per la marca sono
rintracciabili nella forza del legame e nel fatto di essere condivise da molti,
risultando altrimenti non praticabile l’analisi degli immaginari collettivi per
l’individuazione dei punti focali della posizione-obiettivo. Esistono
innumerevoli possibili associazioni3, ma l’impresa deve interessarsi a
quelle che assumono il rilievo maggiore per i potenziali clienti, nonché a
quelle che potenzialmente sono sviluppabili in seguito al mutare delle
credenze e degli atteggiamenti che li caratterizzano. Appare comunque
utile una disamina delle principali tipologie di associazioni che è possibile
incontrare nella realtà4.
1
Gli atteggiamenti possono essere definiti come valutazioni di sintesi in cui i
molteplici attributi e benefici connessi all’offerta dell’impresa vengono combinati con i
valori individuali fino a formare un giudizio complessivo riguardante la marca stessa e
il suo produttore.
2
Cfr. par. 3.4.
3
Tante quante sono le caratteristiche ed i simboli collegati ad oggetti, persone,
luoghi, … presenti nell’immaginario delle persone.
4
Per i tipi di associazioni v. D. A. AAKER, Brand equity. La gestione del valore
della marca, Franco Angeli, 1997, pp. 153-173.
- 117 -
ASSOCIAZIONI RELATIVE ALLE CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO.
Basare la strategia di posizionamento sulle caratteristiche del
prodotto costituisce la più naturale opzione per i decisori d’impresa. Non
tutte le caratteristiche individuabili sono però sullo stesso piano quanto a
importanza ed efficacia. Determinante è, in sostanza, il fatto che si tratti di
un elemento significativo e non banale, in modo tale da riuscire ad
accrescere, mediante il suo rafforzamento, il valore di marca.
La caratteristica di prodotto intorno alla quale costruire la propria
posizione non deve essere necessariamente la stessa per le diverse marche
presenti nella stessa categoria di prodotti. Spesso, anzi, è vero il contrario:
risultando difficile, quasi improponibile, cercare di spodestare l’impresa
leader usando il suo medesimo concetto critico, per trovare uno varco e un
proprio spazio nella mente del cliente, occorre allora ricercare un approccio
che segua una diversa prospettiva trascurata dai concorrenti, ma che sia in
grado di offrire delle potenzialità di sviluppo. A causa dell’approccio
generalista che spesso contraddistingue la strategia dell’impresa capofila,
capita di frequente che le imprese cerchino spazio nell’estremità superiore
o in quella inferiore del mercato di riferimento e, se tale spazio non risulta
già occupato da qualcun altro, il progetto ha buone possibilità di andare in
porto. Le più importanti opportunità si presentano qualora sia verificata
l’esistenza di una consistente porzione di pubblico non adeguatamente
soddisfatta dai concorrenti riguardo a un particolare attributo dell’offerta.
Onde evitare il frequente errore di impostare la propria strategia di
posizionamento su un numero troppo elevato di caratteristiche del prodotto
(scelta che, a causa delle limitate possibilità dell’individuo di processare le
informazioni, conduce invariabilmente ad un’immagine sfocata e
attaccabile dai concorrenti anche in presenza di buoni concetti di fondo),
occorre, invece, concentrarsi su un nucleo ristretto di associazioni che
inoltre non trascurino alcun aspetto o segmento potenzialmente
sviluppabile. Una pluralità di caratteristiche, entro certi limiti, può essere
assunta come sostegno per l’immagine d’impresa solamente se ciascuna
risulta legata alle altre e si sostengono vicendevolmente.
- 118 -
ASSOCIAZIONI RELATIVE A COMPONENTI ASTRATTE.
Un posizionamento basato su caratteristiche tangibili appare più
vulnerabile di uno che si fonda su concetti astratti. Questo è tanto più vero
quanto minore è il numero di associazioni tangibili basate sulle
caratteristiche del prodotto, e in particolar modo quando tale numero si
riduce ad uno. In quest’ultimo caso, il rischio derivante dall’effetto di
spiazzamento generato da un’innovazione nei confronti della
specializzazione dell’impresa è assai elevato. Si può inoltre incorrere nel
rischio che i consumatori, non riuscendo a percepire il valore e la diversità
di quell’unica caratteristica, non trovino motivo per preferirci ad altri
offerenti.
Le componenti intangibili e astratte offrono maggiori possibilità di
costruire associazioni forti ed arrivare ad occupare uno spazio nella mente
del potenziale cliente. La caratteristica degli attributi intangibili è la
generalità, che però non deve essere eccessiva per non cadere nel rischio
opposto della banalità. Questo in quanto un vantaggio costruito sulla
percezione e sul ruolo emozionale della marca è più difficile da contrastare.
Una volta che la marca si è impossessata di un valore nella mente delle
persone, quella specifica posizione non può essere conquistata da qualcun
altro se prima non viene da lì scalzato il leader, il quale ha saputo
evidentemente approfittare di un maggiore tempismo per imporre per primo
la giusta associazione.
ASSOCIAZIONI RELATIVE A VANTAGGI PER IL CONSUMATORE.
Solitamente le associazioni che si incentrano sui vantaggi arrecati al
consumatore corrispondono a quelle relative a caratteristiche del prodotto
in quanto le seconde vengono studiate in modo che implichino le prime (e
non potrebbe, del resto, essere diversamente). Nondimeno, può risultare
rilevante la constatazione che a prevalere sia l’uno o l’altro tipo di
associazione. Infatti, mentre le associazioni legate alle caratteristiche di
prodotto si riferiscono all’aspetto razionale della decisione d’acquisto,
quelle incentrate sui vantaggi per il consumatore fanno invece leva sulla
- 119 -
parte psicologica ed emotiva dell’acquisto andando ad incidere su credenze
ed atteggiamenti ed ottenendo, per questo, una risposta superiore.
Il vantaggio psicologico si presta, possiamo infine notare, non
soltanto per i prodotti che soddisfano bisogni simbolici ed esperenziali, ma
anche per quelli tipicamente funzionali.
ASSOCIAZIONI RELATIVE AL RAPPORTO QUALITÀ/PREZZO.
Sono approssimativamente individuabili cinque categorie di prezzo
nelle quali per la marca è possibile posizionarsi sui vari mercati: la
categoria premium price, la categoria superiore, la categoria media, la
categoria economica, la categoria minima.
Secondo la regola generale, una marca dovrebbe essere posizionata
rispetto ad una sola categoria di prezzo per non rendere sfocata la propria
immagine peculiare. Una volta stabilita la categoria di prezzo di
riferimento, il problema sarà quello di riuscire a differenziarsi dalle altre
marche presenti in quella fascia trovando un’associazione di interesse per il
potenziale acquirente in una posizione difendibile.
Le possibilità di posizionamento rispetto al rapporto qualità/prezzo
che più frequentemente si presentano sono quelle legate alle categorie
estreme, perché generalmente il leader di mercato non trova conveniente
scendere in forze su un segmento ristretto rischiando di disperdere le
energie nel terreno dove invece è più forte e dove ritiene si giochi il suo
futuro. L’importante è riuscire ad arrivare per primi su quelle estremità in
modo da occupare la relativa posizione ed essere riconosciuti come il
riferimento della categoria. Se poi chi detiene la maggiore quota di mercato
commette l’errore di spostarsi dalla sua posizione per guerreggiare un
conflitto in un territorio che non è il suo disperdendo, in questo modo, le
proprie energie su un fronte troppo ampio, allora si presenta l’occasione per
coglierlo di sorpresa sul suo stesso campo.
Preferibile è l’attacco sul segmento alto, in modo da poter disporre
dei vantaggi concessi dai margini superiori e dal forte sviluppo che spesso
lo caratterizza, ottima risorsa di riserva per rispondere alla successiva
- 120 -
reazione della concorrenza. Per posizionare una marca nella categoria
premium price occorre valorizzare associazioni che elevino l’immagine di
marca sulle concorrenti conferendole una connotazione superiore
soprattutto riguardo agli attributi intangibili.
Come vedremo in seguito1, la stessa scelta del nome può essere, di
per sé, indicativa di una particolare categoria di prezzo nella quale la marca
si troverà ad essere collocata più per effetto dell’aspetto evocativo del
nome stesso, che delle azioni a quello scopo appositamente mirate. Spesso,
un nome adeguato riesce a conferire alla posizione una sostenibilità ben
maggiore di quanto riesca a fare una qualsivoglia qualità del prodotto.
ASSOCIAZIONI RELATIVE ALLE MODALITÀ D’USO.
L’associazione della marca a una particolare modalità d’uso
costituisce un’ulteriore opzione per il posizionamento. Questa particolare
possibilità che si apre all’impresa, solitamente viene seguita in sede di
riposizionamento per bloccare od imitare le mosse di un avversario e non
come iniziale scelta di fondo, a causa della convinzione che spesso si ha
circa la superiorità complessiva del proprio prodotto (il che porta a voler
sfidare il campione sul campo aperto o, nel caso opposto, ad aspettare con
eccessiva fiducia il primo colpo dello sfidante), o per il timore di una prima
scelta all’apparenza azzardata e rischiosa. In realtà non si tratta di una
scelta marginale o di ripiego: se esiste una possibilità inesplorata legata ad
un diverso utilizzo del prodotto o allo stesso utilizzo rivisitato in una chiave
originale, allora potrebbe valere la pena di entrare per primi in quel varco
occupando la relativa posizione.
Occorre, infine, rilevare come, spesso, l’associazione rispetto alla
modalità d’uso rappresenti un ulteriore e secondario livello della strategia
di posizionamento adottata dall’impresa, venendo in subordine rispetto ad
altri criteri ritenuti più incisivi. Lo scopo specifico di questa ulteriore
articolazione della strategia primaria è l’espansione incrementale del
mercato della marca. A volte si trascurano, però, i pericoli che derivano
1
V. par. 4.2.2.
- 121 -
dall’adozione di una molteplicità di basi per il posizionamento. Potrebbe
divenire difficilmente gestibile la coesistenza di criteri diversi per natura e
implicazioni. Si rischia, in primis, di creare solamente confusione nella
mente del consumatore, il quale, non riuscendo a collocarci in una
categoria mentale ben definita, ci porrebbe in una sorta di limbo dal quale
sarebbe poi veramente difficile riemergere anche con una riconquistata ben
definita identità. Inoltre, aumentando il numero di criteri di posizionamento
potremmo ritrovarci a competere in mercati diversi da quelli inizialmente
preventivati, con avversari più forti e che godono del vantaggio della nostra
sorpresa nel ritrovarceli di fronte. Non occorre infatti dimenticare come,
attraverso il posizionamento, sia l’impresa stessa a scegliersi i concorrenti.
ASSOCIAZIONI RELATIVE ALL’UTENTE/CONSUMATORE.
Un’altra classica possibile base adottabile per la definizione di un
posizionamento si incentra sull’associazione con un determinato tipo di
utente o di consumatore. Se sussistono i requisiti per una sua valida
applicazione, la scelta di questo criterio comporta il vantaggio di
permettere una combinazione tra il posizionamento e la segmentazione.
Come evidenzia Aaker1, “Identificare una marca con un segmento del
target è spesso un modo efficace per rivolgersi a questo segmento”.
L’inconveniente connesso all’adozione di una strategia del genere è
collegato strettamente ai vantaggi da essa offerti. Infatti, ciò che questo tipo
di posizionamento da una parte concede, se lo riprende dall’altra sotto
diversa forma. Occorre mettere molta attenzione nel seguire l’associazione
nei confronti dell’utente/consumatore evitando di incorrere in eccessivi
vincoli oltre a quelli insiti in una scelta del genere: creando una forte
associazione, la marca pone essa stessa dei limiti alla propria espansione.
Così, può succedere che da quella che sembra essere la forza di una marca,
ovvero il suo legame con un particolare segmento, nasca una debolezza
costituita dallo steccato che viene di fatto eretto dall’impresa stesa nel
momento in cui decide di dedicare la propria attenzione a certi soggetti
1
D. A. Aaker, 1997, op. cit., p. 166.
- 122 -
escludendone altri. Un successivo tentativo di allargamento della propria
base o di spostamento completo della marca dovrà pertanto fare i conti con
i limiti dettati dall’originaria scelta.
ASSOCIAZIONI RELATIVE A PERSONAGGI, CELEBRITÀ, EVENTI.
Convinzioni e credenze si sviluppano intorno a persone od eventi
oltre che attorno a marche ed imprese. Può capitare che ci si accorga che
quei caratteri dei quali la nostra immagine è deficitaria siano in realtà
presenti in una persona posta sotto i riflettori del pubblico, o siano
ricavabili da un particolare evento. In tutti questi casi le imprese cercano,
attraverso la realizzazione di un’associazione con essi, di appropriarsi del
potere e dei valori insiti in questi individui o avvenimenti trasferendoli alla
marca, per accedere, attraverso una corsia preferenziale, alla mente delle
persone.
Parliamo di personaggi in genere, oltre che di celebrità, in quanto
non è sempre necessario ricorrere a questi ultimi per ottenere l’attenzione
del pubblico orientandone a proprio favore la risposta. Tutto quello che, per
un motivo o per l’altro, costituisce un simbolo di qualcosa ed occupa un
posto nella mente delle persone – potendosi anche trattare di un
personaggio di pura fantasia – può costituire un valido appiglio e punto di
riferimento per accedere ad essa con buone possibilità di rimanervi. Si
tratta, in estrema sintesi, di sfruttare in proprio favore quanto da altri già
realizzato.
ASSOCIAZIONI RELATIVE ALLA PERSONALITÀ E ALLO STILE DI VITA.
Per il consumatore valutare l’aderenza di ognuna delle marche
concorrenti ai propri valori individuali può diventare un compito molto
lungo e impegnativo. Per questo motivo un più facile approccio è
rappresentato dalla personificazione della marca, dal momento che molti
caratteri presenti negli individui sono riscontrabili anche in essa. Una
marca, come una persona, può essere associata ad una determinata
- 123 -
personalità e ad un proprio stile di vita. Gli sforzi di chi si occupa della
gestione della marca devono essere allora concentrati nell’integrare tutti i
punti di interazione tra il consumatore e la marca, in modo da conferire a
quest’ultima una personalità di tipo olistico.
Quando una marca presenta una personalità ben definita, i
consumatori iniziano ad interagire con essa e sviluppano una relazione,
proprio come avviene fra le persone. La marca che presenta una più
spiccata personalità è, allora, quella che presenta le maggiori probabilità di
attirare l’interesse dei propri interlocutori, rivestendo, quando essa è
particolarmente forte, il ruolo di centro catalizzatore e di riferimento per
quanto attiene ai valori che le vengono attribuiti e riconosciuti.
ASSOCIAZIONI RELATIVE ALLA CLASSE DI PRODOTTO.
Alcune offerte, per loro natura caratterizzate da connotazioni sfumate
che potrebbero farle ricadere in più categorie di prodotto, necessitano di un
punto fermo in una di queste categorie cui fare riferimento e al quale
collegare i propri attributi. La scelta migliore circa la posizione da
perseguire per le marche che si trovino a cavallo di due o più categorie, in
altre parole, consiste nel riferirsi soltanto a quella che consente alla propria
immagine di assumere caratteri il più possibile riconoscibili, semplificando,
in questa maniera, il processo di categorizzazione che avviene nella mente
del potenziale acquirente.
Occorre, tuttavia, porre estrema cautela nello scegliere lo spazio nel
quale intendiamo collocarci perché, coma abbiamo visto, nel fare questo
andiamo a determinare i concorrenti con i quali ci confronteremo e che
godono già di una loro posizione, probabilmente maggiormente definita
rispetto alla nostra.
Una particolare strada che può essere seguita è quella della
negazione. Contrapponendoci al concetto di una marca affermata che
presenta un qualche attributo diverso dal nostro, possiamo posizionarci
come la marca da scegliere per andare realmente controtendenza in quanto
portatrice di un concetto di fondo totalmente diverso, potendo ottenere
- 124 -
maggiori risultati rispetto ad una più tradizionale strategia incentrata sul
confronto con le marche simili alla nostra.
ASSOCIAZIONI RELATIVE AI CONCORRENTI.
Per le marche che non occupano la posizione di leader di una
categoria di prodotto può risultare utile, oltreché comodo, basare il proprio
posizionamento sul riferimento ad uno o più concorrenti più affermati.
L’obiettivo è sfruttare un’immagine già presente e sedimentata nella mente
del consumatore per costruire alla sua ombra una propria posizione ad essa
collegata, presentandosi inoltre l’opportunità di sfruttarla come ponte per il
raggiungimento di una nuova e in parte diversa posizione. L’associazione
logica e la chiusura sono i meccanismi che vengono utilizzati nel fare
questo. Un’altra ragione per utilizzare associazioni con la concorrenza sta
nella maggiore semplicità e linearità del riferirsi a quanto il consumatore
già conosce rispetto al proporgli una serie di caratteristiche da valutare ex
novo, superando in un colpo numerosi passaggi che, a causa della loro
molteplicità, comporterebbero un allungamento del processo ed il rischio di
distorsione del messaggio iniziale.
Il posizionamento basato sul riferimento alla concorrenza può
risultare particolarmente vantaggioso se l’associazione concerne una
caratteristica del prodotto, in special modo il rapporto qualità/prezzo. Data
la difficoltà che le persone incontrano a valutare e categorizzare un
prodotto quando siamo nella sua fase di lancio, usando il legame con una
marca affermata, è possibile facilitare questo compito.
Una modalità di realizzazione di un posizionamento che sfrutti
l’associazione con la concorrenza è data dalla pubblicità comparativa,
laddove esiste questa possibilità1.
1
La pubblicità comparativa, come vedremo in seguito (par. 4.2.4 e 4.3.2), è
inoltre uno dei più potenti strumenti a disposizione dell’impresa per procedere al
riposizionamento dei propri concorrenti.
- 125 -
ASSOCIAZIONI RELATIVE A UN PAESE O A UN’AREA GEOGRAFICA.
All’interno dell’immaginario degli individui, anche un paese o, più
in generale, un qualsiasi luogo geografico, può essere depositario di un
insieme di contenuti e simboli che gli vengono attribuiti e che, per
analogia, ritroviamo proiettati e presenti in tutti gli elementi che evocano
quel particolare luogo. Ancora una volta è il meccanismo del luogo comune
e della conformizzazione verso esso a guidare le percezioni delle persone
su strade preordinate: si vede ciò che si vuole vedere.
Da queste considerazione segue l’opportunità per la marca di
sfruttare, facendoli propri, tutti quegli elementi che sono in grado di
evocare simboli già affermati ed abbastanza generali e lontani da garantire
una certa stabilità nel tempo e nei contenuti1.
1
Naturalmente, sviluppandosi e moltiplicandosi i rapporti diretti delle persone
con paesi diversi, certe mitizzazioni di concetti in precedenza lontani vengono ad
attenuarsi per lasciare il posto ad un’interpretazione più oggettiva e distaccata.
- 126 -
Capitolo 3
IL POSIZIONAMENTO E LE STRATEGIE
COMPETITIVE
3.1 – Il sistema di attività dell’impresa
3.1.1 – Strategia ed efficacia operazionale.
Una critica posta al posizionamento sostiene che esso sia troppo
statico per i moderni mercati e per i cambiamenti tecnologici che si
susseguono nel mondo odierno, poiché le imprese rivali sono in grado di
emulare rapidamente qualsiasi posizione e vantaggio competitivo, con la
conseguenza che le strategie incentrate su di esso sarebbero svuotate di
ogni significato.
Quest’approccio alle problematiche della competizione è, in verità,
troppo semplicistico e fuorviante. Esso non tiene conto, infatti, delle
ragioni profonde che stanno dietro al concetto di posizionamento e che ne
costituiscono la ragion d’essere. In primo luogo, la critica riferita alla sua
presunta staticità viene a cadere non appena prendiamo in considerazione il
ruolo svolto dalla fusione, la quale, per propria natura, conferisce al
rapporto tra impresa e cliente quella caratteristica di aderenza e simbiosi tra
l’essenza della domanda e quella dell’offerta che rappresenta la sintesi
ultima di ogni congetturabile dinamismo. È in virtù della fusione,
conquistata quotidianamente sul terreno della mente, che viene garantito il
mantenimento partecipato di una posizione esclusiva nel mondo
concettuale di riferimento della persona. Si tratterà, semmai, di giungere in
una posizione prima di chiunque altro, o, nel caso la categoria mentale sia
già appannaggio di un concorrente, di raggiungere un grado di fusione più
spinto, in modo da riuscire a prenderne il posto.
Secondariamente, ma non meno importante, si confonde nel
- 127 -
posizionamento la strategia intesa nel senso più puro con quella che Porter
chiama efficacia operazionale1. In virtù della ricerca di un continuo
miglioramento della performance competitiva, si è assistito ad un notevole
proliferare di strumenti manageriali a livello operativo che, nonostante
abbiano comportato perfezionamenti riguardo le diverse operazioni
investite, si sono spesso rivelati deludenti per chi confidava di avere trovato
in essi l’arma finalmente risolutiva nella conquista di un vantaggio
sostenibile nei confronti della concorrenza. Il problema risiede
evidentemente da altra parte: perdendo di vista l’acquirente potenziale
come punto di riferimento invece effettivo, passo dopo passo gli strumenti
manageriali hanno preso il posto della strategia creando confusione circa
l’orientamento seguito e conducendo le imprese su posizioni sfocate e non
in linea con le reali attese del mercato. Nel tentativo di conseguire
avanzamenti in tutte le direzioni si è avuto, in altre parole, uno sviamento
dalle posizioni vitali per l’impresa e per la marca.
I vantaggi o gli svantaggi competitivi che presenta una marca sono il
risultato dell’insieme delle sue attività e non di una parte solamente di esse.
Mentre le diversità tra i costi derivano dallo svolgere attività più
efficientemente rispetto ai competitori, la differenziazione è generata dalla
scelta delle attività e dal modo in cui queste sono realizzate.
Al fine del perseguimento della competitività, l’efficacia
operazionale e la strategia sono entrambe elementi imprescindibili, pure se,
a causa della loro differente natura, presentano comportamenti diversi. Per
efficacia operazionale intendiamo lo svolgimento di attività simili, ma in
modo migliore, rispetto ai concorrenti. In questo processo tutto ruota
intorno al perseguimento dell’efficienza, che tuttavia non assume carattere
totalizzante: ad essa si affiancano tutti quanti quegli strumenti che
mostrano di essere in grado di migliorare l’utilizzo delle risorse a
disposizione. All’opposto, il posizionamento strategico comporta il porre
in essere attività differenti rispetto ai nostri competitori, oppure attività
simili realizzate però in maniera differente.
Il concetto di “operational effectiveness”, inserito nella più ampia trattazione
del rapporto tra attività e strategia dell’impresa, è affrontato in M. E. PORTER, What’s
strategy, in “Harvard Business Review”, novembre-dicembre 1996, pp. 61- 88.
1
- 128 -
Se il conseguimento di un continuo miglioramento dell’efficacia
operazionale costituisce un’esigenza ineludibile sulla strada della
competitività, esso, tuttavia, non dimostra di essere sufficiente. Una prima
ragione risiede nella rapida diffusione e imitazione delle migliori pratiche e
tecniche manageriali/gestionali, in forza delle quali i differenziali
competitivi conquistati vengono inesorabilmente erosi dai concorrenti che
si accorgono, presto o tardi, della loro validità. In effetti, l’aspetto più
permeante della competizione è costituito dalla relatività delle posizioni: un
incremento assoluto in termini di efficacia operazionale può risultare vano
in termini relativi comportando benefici inconsistenti per ognuno.
In sostanza, muovendosi i competitori presenti in un mercato nella
stessa direzione e secondo le medesime modalità, le distanze relative
restano le stesse. Va da sé che l’efficacia operazionale vada comunque
perseguita per non lasciare vantaggiosi margini in mano ai rivali, ma, se
essa rimane fine a se stessa, gli sforzi compiuti non conducono ad altro se
non ad una guerra di posizione dove nessuna delle parti le quali seguono
identiche traiettorie, ha possibilità di vincere.
Di qui, la propensione sempre più diffusa, da parte di imprese che
non trovano una strategia migliore, a rompere il gioco competitivo
attraverso il ricorso a fusioni ed acquisizioni, cercando di ottenere dalle
alchimie finanziarie quello che non sono state capaci di trovare nella
strategia. Quest’opzione, accanto agli indiscutibili vantaggi conseguibili in
termini di posizionamento, presenta, nondimeno, rilevanti problematiche
inerenti soprattutto il processo di integrazione tra le entità aziendali
coinvolte arrischiando di generare, per il tramite di attività e culture diverse
e incoerenti, strategie casuali e frammentate (in queste situazioni, al fine di
favorire la trasformazione della complessità e delle difficoltà incontrate in
un’opportunità di sviluppo unitario e coeso dell’impresa, diventa
fondamentale un’opportuna gestione della comunicazione sia a livello
interno che esterno1).
1
Per un approfondimento dei vantaggi derivanti da una gestione integrata e
pervasiva dei flussi comunicazionali esterni ed interni in caso di fusioni, acquisizioni,
alleanze strategiche e, in generale di situazioni di crisi, potenziale o in atto, si veda: M.
- 129 -
Al centro del sistema competitivo stanno invece le strategie di
posizionamento, le quali concernono l’essere differenti e si concretizzano
nella scelta, deliberatamente operata, di un set di attività diverso dagli altri,
in modo da offrire un valore integrato unico. Le problematiche principali
che occorre risolvere per addivenire ad un posizionamento di successo sono
sintetizzabili nei seguenti punti:
1. Individuazione nella mente dei potenziali acquirenti dello spazio
mentale da occupare. Esso può consistere in un nuovo spazio da noi
identificato ancora vergine e non occupato da altri, oppure in una
categoria già presente e dalle connotazioni sufficientemente definite che
vede, però, proprio per questo, le posizioni della scala valoriale
occupate da altre imprese.
2. Specificazione delle caratteristiche della categoria di riferimento e delle
posizioni che in essa sono riscontrabili. Dopo avere identificato il luogo
mentale sul quale andremo ad operare occorre ora comprenderne a
fondo la natura e le fattezze, in maniera tale da poterci muovere
agevolmente al suo interno. In questa fase si procede alla selezioni delle
particolari associazioni cui farà riferimento la marca.
3. Traduzione delle risultanze relative ai punti precedenti – e concepite in
termini del target di riferimento – in un sistema integrato e coerente di
attività. Il collegamento tra il momento investigativo degli spazi mentali
e quello ideativo della rete di attività è costituito dall’individuazione e
dallo sviluppo delle associazioni più idonee a comunicare l’identità di
marca.
Le circostanze che originano la categorizzazione mentale e la loro
natura sono state trattate nel secondo capitolo. Nostro compito è, adesso,
quello di procedere alla determinazione dell’insieme di attività che
definiscono una posizione strategica e all’utilizzo delle associazioni nel
conferire un valore a tale posizione.
BROGI, R. FIOCCA, Dalla crisi alla svolta: il ruolo della comunicazione. Il caso New
Holland, in “Economia & Management”, marzo 1986, pp. 31-43.
- 130 -
L’essenza della strategia risiede nelle attività: occorre scegliere e
realizzare attività che siano differenti da quelle dei rivali o che, pur essendo
ad esse riconducibili, siano portate avanti in modo differente.
Porter enuclea tre possibili origini per una posizione strategica.
Secondo l’autore1, possiamo, in altre parole, avere tre diversi tipi di
posizionamento: il posizionamento basato sulla varietà, quello basato sui
bisogni, quello basato sull’accesso.
Il primo si ha quando l’impresa si orienta verso la produzione di un
sottoinsieme di prodotti o servizi di un’industria. La scelta si basa su
varietà del prodotto o servizio, piuttosto che su segmenti riferiti ai clienti.
Questo tipo di posizionamento comporta effetti positivi ricollegabili
all’utilizzo di set di attività distintivi. Un’impresa che segua questa linea
strategica potrà coprire un ampio schieramento di potenziali acquirenti, ma,
per lo più, incontrerà soltanto un sottoinsieme dei loro bisogni.
Il posizionamento basato sui bisogni si avvicina al tradizionale modo
di approcciare e indirizzarsi a un determinato segmento di consumatori.
Questa diversa impostazione può essere seguita con successo quando
esistono gruppi di persone con bisogni differenti 2 e quando questi bisogni
sono raggiungibili attraverso il ricorso a un adeguato sistema di attività.
Una variante del posizionamento basato sui bisogni si può avere allorché lo
stesso cliente presenta diversi bisogni in differenti occasioni o per differenti
tipi di transazioni. Requisito essenziale di questo tipo di posizionamento è
l’elaborazione del set di attività più adeguato per soddisfare i diversi
bisogni delle persone, il quale, per poter tradurre le differenze nei bisogni
in posizioni significative, deve esso stesso differire in modo evidente e
sostanziale da quelli dei concorrenti.
Il posizionamento basato sull’accesso si incentra sulla segmentazione
di consumatori che sono accessibili in modi differenti. Sebbene i loro
bisogni siano similari a quelli di altri consumatori, è differente la migliore
configurazione delle attività per raggiungerli; se i bisogni sono simili,
esistono, cioè, dei gruppi distinti sulle cui differenze occorre concentrarsi.
1
M. E. PORTER, 1996, op. cit., pp.65-68.
2
Indipendentemente dalla natura (sensibilità al prezzo o ad altre caratteristiche
dell’offerta) dei bisogni espressi.
- 131 -
Il particolare tipo di accesso può essere funzione di qualunque variabile
(come, ad esempio, la collocazione geografica, l’addensamento, una
minore scala dimensionale, ecc.) che renda possibile l’esistenza di un
approccio al cliente, tramite un sistema di attività ad hoc, migliore degli
altri. Questo tipo di posizionamento appare meno frequente degli altri, non
tanto per le minori potenzialità, quanto perché forse meno compreso.
Occorre rimarcare come il posizionamento non sia affatto sinonimo
di ricerca di una nicchia, pur essendo, essa, una delle possibili soluzioni cui
si possa addivenire. In effetti, qualunque ne sia l’origine, possono emergere
sia posizioni ampie ed estese che posizioni ristrette sulle quali disegnare le
proprie attività. Riemerge il concetto di focalizzazione1 così come espresso
dall’approccio di Porter alle strategie di base. Le imprese che si focalizzano
sono orientate a sottoinsiemi di consumatori che presentano bisogni
particolari e che risultano essere sovraserviti da altre imprese che operano
con strategie più ampie (quindi sopportando un aggravio di prezzo) o
sottoserviti (lasciando non adeguatamente sfruttato un margine di prezzo
che essi sarebbero disposti a sostenere). Un competitore operante su una
più ampia base orienta, invece, le proprie attività verso i bisogni più
comuni del target, ignorando quelli di cui sono portatori particolari gruppi
di potenziali clienti. Le strategie di base – differenziazione, leadership di
costo, focalizzazione – restano comunque utili per caratterizzare le
posizioni strategiche al livello più semplice ed ampio. Sono poi le basi per
il posizionamento – varietà, bisogni, accesso – a conferire un maggiore
livello di specificità a queste generiche strategie.
Seguendo questo ragionamento, la strategia si pone come “la
creazione di un’unica e rilevante posizione che richiede un differente set di
attività2”. L’essenza del posizionamento è data dal fatto che esiste una
pluralità di posizioni più o meno visibili e praticabili, le quali si
caratterizzano, poi, per la dinamicità con cui mutano e si evolvono, in
seguito ai cambiamenti che intervengono nell’ambiente esterno e, in
particolar modo, nella mente dei potenziali acquirenti. Ognuna di queste
posizioni si differenzia dalle altre per i diversi disegni di attività che
1
2
V. cap. 1.3.1.
M. E. PORTER, 1996, op. cit., p. 68.
- 132 -
vengono impiegati. Anzi, affinché si pervenga ad una differenziazione
effettiva, occorre scegliere attività che siano realmente diverse da quelle dei
rivali. Se esistesse un set di attività che consentisse di soddisfare tutti i
bisogni e di accedere a tutti i consumatori, allora sarebbe l’efficacia
operazionale a costituire il principale motore della competitività.
3.1.2 – La sostenibilità delle posizioni strategiche: i trade-off.
La scelta di una posizione unica che costituisca un valore per il
cliente non è di per sé sufficiente a garantire la sostenibilità del vantaggio
conseguito: gli imitatori, infatti, si muoveranno rapidamente nel mercato
nel tentativo di approfittare, penetrandovi, del varco da altri aperto. Nel
fare questo, l’imitatore segue tipicamente due strade tra loro distinte,
tuttavia accomunate da quella che Ries e Trout chiamano, nel loro
caratteristico linguaggio figurativo, la logica della risposta “anch’io,
anch’io1”. Un competitore può riposizionarsi completamente creando un
sistema di attività ad hoc in modo da andare ad incontrare la collocazione
del concorrente di riferimento, oppure, molto più frequentemente,
estendersi (in modo spesso caotico, disorganico e scomposto) dalla
posizione correntemente ricoperta, pur mantenendola, nel tentativo di
appropriarsi dei benefici connessi alla posizione di un rivale di successo (ed
è quanto tipicamente avviene, attraverso l’innesto di nuovi contenuti,
servizi e tecnologie nelle attività già in essere) 2.
Chi sia riuscito ad occupare una posizione strategica di superiorità si
trova, allora, nella necessità di rinsaldare tale condizione attraverso
l’erezione di adeguate barriere e l’attuazione di una difesa che avrà tanto
maggiori possibilità di successo, quanto più elevato è il margine sulla
concorrenza, in questo trovando conforto nel fatto che i concorrenti non
sono in grado di copiare tutte le posizioni assumibili nel mercato senza
esporsi al rischio, tutt’altro che irrilevante, di una perdita di focalizzazione
circa le attività che attualmente svolgono, con una conseguente distorsione
e indebolimento della propria identità ed immagine. Questo accade a causa
1
2
A. RIES, J. TROUT, Positioning, McGraw-Hill, 1986, pp. 79-80.
Al problema dell’estensione di linea è dedicato il paragrafo 3.4.
- 133 -
della presenza di trade-off che legano indissolubilmente ogni particolare
posizione a tutte le altre, in moda tale da rappresentare un peso da
sopportare qualora si decida di procedere ad un riposizionamento. I tradeoff prendono origine dal fatto che spesso le attività sono tra di loro
incompatibili e l’orientarsi verso l’una piuttosto che verso l’altra apre delle
porte chiudendone altre.
I trade-off sono presenti nella competizione in maniera pervasiva e
risultano essenziali qualsiasi strategia venga adottata. Il loro ruolo si esplica
nel fungere da deterrente per avventate estensioni di linea e
riposizionamenti, dal momento che, qualora non fossero attentamente
valutati, potrebbero minare le strategie seguite e degradare il valore delle
attività esistenti. L’insufficienza dell’efficacia operazionale a costruire
vantaggi competitivi durevoli e sostenibili si accompagna all’impossibilità
di trarne che deriva dall’assenza di trade-off. In mancanza di questi ultimi
tutti gli sforzi compiuti nella direzione di una maggiore efficacia
operazionale sfociano solamente in una continua corsa che nella migliore
delle ipotesi, ha come unico traguardo raggiungibile non il prevalere sulla
concorrenza, ma lo stare al passo con essa. La strategia avveduta deve
tenere i trade-off1 e la loro incidenza sulla competizione nella massima
considerazione, ritrovandosi la sua essenza nello scegliere cosa l’attore
non deve fare.
Più precisamente, esistono valide ragioni per l’esistenza dei tradeoff. La più ovvia discende dal fatto che l’immagine e la reputazione non si
possono costruire da un giorno all’altro e tanto meno le si può modificare
agevolmente una volta che i consumatori hanno posizionato la marca nelle
scale categoriali all’interno della propria mente. Una marca cui è attribuito,
a torto o a ragione, un particolare valore con il quale viene ad essere
identificata rischia, modificando la propria collocazione strategica, di
perdere credibilità e indebolire anche i suoi profili di forza, riuscendo
solamente a creare confusione nel potenziale acquirente.
I trade-off non sono entità astratte, in quanto derivano dalle attività
stesse dell’impresa. Se il perseguimento delle posizioni strategiche è
1
Se non esistessero trade-off, non ci sarebbe la necessità di una scelta e quindi
di seguire una strategia: tutto verrebbe a dipendere dal grado di efficacia operazionale.
- 134 -
strettamente correlato alle diverse attività che possono essere create e
messe in sistema, queste ultime sono poi, a loro volta, foriere di possibilità
e di limiti secondo il particolare assetto venutosi ad instaurare. Questo
accade in virtù del mantenimento di un elevato grado di coerenza tra
l’identità comunicata e l’immagine percepita da una parte, e quanto il
consumatore si troverà poi a constatare una volta entrato in contatto con
l’offerta, dall’altra. Ogni particolare posizione richiede differenti
configurazioni di prodotto, nonché comportamenti e capacità da parte del
management e degli altri assetti d’impresa che siano in sintonia con essa.
Esiste, comunque, una relazione inversa tra la flessibilità che le diverse
organizzazioni dimostrano di possedere e la consistenza dei trade-off,
anche se molti di essi possono essere piuttosto elementari. Le difficoltà per
l’impresa non sorgono, tuttavia, in seguito al superamento dei singoli tradeoff, ma nel momento in cui essi costituiscono una rete di interdipendenze
reciproche che risulta assai più difficile da districare.
Un’ulteriore origine per i trade-off scaturisce dall’interno
dell’impresa e, in particolare dai sistemi di coordinazione, gestione e
controllo. Nel definire con chiarezza il modo con cui si intende affrontare
la competizione, chi idea la strategia sceglie di intraprendere una strada
invece di altre, creando ad un tempo, nel far questo, le possibilità che si
profileranno per l’impresa, così come i vincoli ed i rischi cui andrà
incontro. Appare in tutta la sua evidenza il limite generale che affligge
qualsiasi impresa e, più in generale, qualsiasi entità che abbisogni di una
propria definita identità: non è possibile – e non paga se si incentrano i
propri sforzi in questo – essere tutto per tutti, ovvero risulta vano tentare di
proiettare un’immagine di sé buona per tutti gli interlocutori e per tutte le
occasioni1. Il rischio è quello di non rappresentare, alla fine, niente di
1
Questo, di per sé, non inficia la considerazione che vede nella capacità di
essere generaliste una dote che accomuna gran parte delle imprese leader di mercato.
Non è possibile acquisire una certa rilevanza ed occupare spazi importanti nella mente
dei potenziali acquirenti senza esprimere concetti in grado di corrispondere alle
esigenze della maggior parte dei potenziali acquirenti. Il difficile, semmai, è riuscire s
conciliare questa necessità con le specificità che pure emergono nell’ambito della
categoria di riferimento: se un certo grado di genericità è implicito nella posizione di
- 135 -
importante per nessuno, a causa della confusione che viene in essi generata.
Sempre esisterà, per ognuno dei concetti di cui vogliamo farci portatori,
qualcuno in esso focalizzato a cui verrà riconosciuta dal mercato, proprio
per questo, una maggiore credibilità. Si tratta, in ultima analisi, di un
problema di concentrazione di forze: disperdere le proprie energie su un
fronte mentale troppo ampio rischia di renderne troppo deboli e permeabili
i confini. Una migliore strategia è, allora, quella che coniuga le forze e le
capacità a propria disposizione con punti strategici da presidiare che siano
circoscritti e ben determinati. La chiarezza della propria identità e delle
essenziali linee direttrici, assieme alle potenzialità evocative della missione
aziendale, costituisce un necessario quanto importante riferimento per chi,
poi, è tenuto a mettere in pratica a livello operativo la strategia di
posizionamento.
3.1.3 – Identificazione e sviluppo delle associazioni e delle reti di
attività.
Se la strategia si incentra su un sistema di attività, questo non può
essere ideato e strutturato sulla base di orientamenti generici o
semplicistiche imitazioni di posizioni di successo, ma deve poggiare su più
solidi argomenti, quelli costituiti dalle associazioni. Che senso avrebbe,
infatti, impegnare i propri sforzi in direzione di attività che, frutto di una
miope visione del mercato dall’interno verso l’esterno, risultino superflue
quand’anche non deleterie e fuorvianti rispetto alla generazione delle
associazioni realmente importanti per il potenziale acquirente? Nella ideale
piramide strategica, quindi, le associazioni si trovano al di sopra delle
attività d’impresa, in posizione immediatamente sottostante al concetto di
marca, che ne costituisce la sommità e dal quale esse traggono origine.
leadership, esso deve essere gestito in modo tale che non produca una diluizione dei
valori su cui si fonda l’immagine di marca.
- 136 -
CONCETTO
ASSOCIAZIONI
ATTIVITA’
Figura 3.1 – La piramide strategica
Evidenziando i collegamenti esistenti tra associazioni ed attività
notiamo come le attività che l’impresa pone in essere siano, cioè,
espressione, attraverso le associazioni che vengono evocate, del particolare
concetto di riferimento attivato. Una volta che quest’ultimo viene
individuato, quindi, occorrerà tracciare la particolare rete di associazioni
che ad esso viene riferita dal consumatore, per poi tradurre il significato di
tali associazioni in un’adeguata struttura di attività, la quale consenta di
catturarne le potenzialità, sia in senso positivo, creando un valore aggiunto
per il potenziale acquirente, sia in senso negativo, costruendo un sistema
difensivo, imperniato su di essa, nei confronti dei possibili tentativi di
imitazione da parte dei concorrenti. Appare in tutta la sua evidenza il ruolo
di guida che le associazioni rivestono nei confronti delle attività. In altre
- 137 -
parole, è sulle prime che devono fare perno le seconde, dandone
un’interpretazione tale da consentire una reale differenziazione della marca,
o quanto meno una sua maggiore aderenza alle aspettative ed agli
atteggiamenti del target.
Ciò non appare comunque sufficiente, dal momento che, nonostante
le attività siano il frutto dell’analisi delle associazioni da sviluppare,
occorre poi verificare quali siano quelle effettivamente generate dalle
attività medesime. Questo momento del processo di posizionamento va
oltre quella che può essere la consueta analisi dei risultati di una strategia,
imponendo un confronto serrato con quanto precedentemente ipotizzato
circa il rapporto marca/acquirenti potenziali. Nel tenere conto degli esiti
riscontrati, non necessariamente si prospetta la necessità di una
risistemazione della rete di attività tale da consentire l’aderenza ottimale
delle associazioni effettive con quelle teorizzate, potendosi, invece, ritenere
più opportuno incentrare i successivi sviluppi sulle risultanze
dell’interazione concretamente realizzata con il mercato.
Le scelte di posizionamento, viste dal punto di vista delle attività
poste in essere, concernono l’individuazione di quelle tra esse che verranno
chiamate in causa, la configurazione delle singole attività e del modo in cui
esse entrano in relazione l’una con l’altra. Rintracciamo, qui, una
differenza sostanziale tra l’efficacia operazionale e la strategia: mentre la
prima concerne il perseguimento dell’eccellenza nelle attività
individualmente considerate, la seconda investe il modo in cui le attività
vengono combinate.
La rete di attività che si viene a determinare costituisce una barriera
all’imitazione tanto più forte, quanto più forti sono i legami tra le attività
medesime portando l’impresa verso una posizione caratterizzata
dall’unicità e dall’amplificazione dei trade-off.. La complementarietà delle
attività integrate a sistema diviene poi fonte di accrescimento del valore di
marca.
Possiamo riconoscere tre tipi di legame che, nonostante la loro
diversità, non si escludono vicendevolmente in maniera automatica. Una
prima classe di relazioni è costituita dalla semplice coerenza tra ciascuna
delle diverse attività e la strategia. La coerenza fa sì che il vantaggio
- 138 -
competitivo si accumuli e non venga eroso, permettendo una facilità di
comunicazione della strategia sia verso il mercato – attraverso l’immagine
proiettata – sia all’interno dell’impresa ai fini della sua implementazione.
Un altro tipo di relazioni si ha quando le attività si rinforzano,
attraverso le associazioni, l’una con l’altra. Così, gli aspetti positivi
presenti nella performance di una di esse si trasmette, per induzione, alle
altre cui essa è collegata. Vale, tuttavia, anche il ragionamento inverso: i
segnali negativi possono anch’essi riversarsi sui nodi alle altre estremità
delle linee che li connettono. Bisogna quindi studiare con molta attenzione
la struttura delle attività e le relazioni che intercorrono tra esse, in modo da
conferirle un’adeguata adattabilità alle diverse circostanze che può venire a
dover affrontare, minimizzando la possibilità di attivazione di associazioni
negative e massimizzando la sensibilità a quelle positive.
Un terzo ordine di legami, l’ottimizzazione dello sforzo, va oltre il
rafforzamento delle attività. Essa si esprime, innanzitutto, attraverso la
coordinazione e lo scambio di informazioni tra attività, in modo da ridurre
la ridondanza e minimizzare lo sforzo. Risultati analoghi possono essere
conseguiti mediante la coordinazione con i fornitori ed i canali distributivi.
Il carattere che accomuna tutti i tipi di relazione che possono essere
perseguiti in una struttura di attività, dalla quale, nella sua interezza,
scaturisce il vantaggio competitivo, è dato dalla preminenza dell’insieme
sulle singole parti. I legami tra le attività concorrono alla determinazione
della superiorità competitiva attraverso la riduzione dei costi o il contributo
alla differenziazione.
La rilevanza strategica della struttura di attività non è limitata
solamente alla creazione del vantaggio competitivo, ma si estende anche
alla sua sostenibilità. Le posizioni costruite su un sistema di attività sono
molto più solide e sostenibili di quelle basate su attività prese
singolarmente, a causa della stessa complessità che è insita nella sua
articolazione. Ala minore imitabilità di un intero insieme di relazioni, fa
cioè riscontro una più agevole difendibilità della posizione sia nei confronti
dei concorrenti attuali che degli entranti potenziali. Il fulcro del valore
difensivo di una qualsiasi struttura risiede, ancora una volta, negli
inevitabili trade-off che i competitori si trovano a dover affrontare e gestire.
- 139 -
Più specificamente, il vantaggio connesso al posizionamento sarà
tanto più consistente quanto maggiore sarà il ricorso al secondo ed al terzo
ordine di relazioni instaurabili tra le attività. Anche se gli avversari sono in
grado di identificare le interconnessioni rilevanti, troveranno grandi
difficoltà nel replicarle ed integrarle con le proprie attività esistenti. Oltre a
ciò, non giova agli imitatori il prendere in considerazione la realizzazione
di una replica solo parziale del sistema di attività (specialmente quando
queste si caratterizzano per una spiccata complementarietà reciproca),
poiché si perverrebbe a qualcosa di diverso che, oltre a non migliorare la
performance, potrebbe anzi contribuire in maniera determinante al suo
decadimento.
Un ulteriore fattore posto a freno delle possibilità di imitazione di
posizioni che poggino su un ben strutturato insieme di attività sta nella
considerazione che le relazioni tra esse creano incentivi e pressioni a che si
migliori l’efficacia operazionale, dal momento che, se ciò non accadesse, la
povera performance di un’attività contribuirebbe a degradare quella di altre
ad essa collegate indebolendo, in questo modo, l’intera struttura1. È, quindi,
la superiorità riguardo alla strategia ed all’efficacia operazionale a
comporre i singoli giovamenti ad esse ricollegati in un vantaggio
competitivo di difficile imitazione.
In virtù delle considerazioni appena esposte, appare evidente come le
posizioni strategiche maggiormente appetibili siano quelle i cui sistemi di
attività siano difficilmente imitabili a causa della presenza dei trade-off.
Attività e ruoli dei trade-off devono, allora, essere adeguatamente
interpretati e strutturati, al fine di conferire, a loro ed alla posizione che da
essi risulta, una profonda connotazione strategica.
Nel caso in cui il problema da affrontare sia quello della necessità di
pervenire ad un riposizionamento, la scelta della posizione migliore
incontra delle ulteriori complicazioni derivanti dalla gestione delle
associazioni già esistenti e consolidate riferite ad un prodotto con una storia
di relazioni alle spalle. Alcune di esse possono rivelarsi ormai obsolete ed
anacronistiche o non più in linea con l’immagine ideale e quella percepita
Analogamente il miglioramento della performance di un’attività pagherà anche
in termine delle altre cui essa si relaziona.
1
- 140 -
di cui il mercato è interprete. Altre, al contrario, possono presentarsi
creando la necessità di una loro pronta assimilazione da parte dell’impresa.
Inoltre, può verificarsi l’opportunità di procedere ad una ridefinizione e
risistemazione dei collegamenti tra le associazioni stesse (e, di
conseguenza, tra le attività). Occorre valutare, perciò, quali associazioni
indebolire od eliminare e quali creare e rafforzare, riponendo particolare
attenzione e cura a quelle caratterizzate da una reciprocità di rapporti, sia in
termini di complementarietà, che di sostituibilità.
Di ogni attività in cui si estrinseca la posizione dell’impresa e della
marca dobbiamo identificare e conoscere a fondo le possibili associazioni
positive e negative da essa generate. Vale la regola generale per cui, con
riferimento alle associazioni positive, debbano essere rafforzate le attività
esistenti assieme ai legami intercorrenti tra di esse in modo da erigere
difese più solide a sostegno del vantaggio competitivo, procedendo nel
contempo ad uno sforzo creativo di nuove attività per meglio sfruttare il
potenziale delle associazioni attuali e per portarne avanti di nuove. Valgono
considerazioni opposte nel caso di associazioni negative, con l’esigenza di
isolare ed abbandonare attività e legami esistenti qualora risultino costituire
solamente dei pesi per le associazioni generatrici di valore1.
La posizione determinata dalla combinazione delle associazioni
evocate dovrebbe essere tale da consentire, una volta espressa da un idoneo
sistema di attività, il conseguimento di adeguati profitti e la possibilità di
1
È, questa, una scelta molto difficile da prendere e alla quale dare in seguito. Se
da una parte non manca la consapevolezza che le attività portatrici di influenze negative
per le associazioni siano da tagliare onde evitare che minino, contagiandolo attraverso
quegli stessi legami che le riuniscono a sistema, il potenziale delle associazioni più
costruttive e proficue per la marca, dall’altra prevale la fiducia un po’ fatalistica in
un’inversione di tendenza che spesso poi non si verifica, aggravando in questo modo la
situazione complessiva e rendendo, con il passare del tempo, sempre più problematica e
spinosa l’intrapresa di un corretto riposizionamento. Viene a mancare, in queste
situazioni, la necessaria risolutezza e determinazione a porre termine a una condizione
di precarietà non accorgendosi che, per evitare il sostenimento di costi certi, ma
minimizzabili entro limiti ancora accettabili, stiamo andando incontro al rischio di
scivolare lungo discese ben più pericolose che potrebbero condurci fuori dal mercato.
- 141 -
mutare prontamente posizione nel caso in cui ciò dovesse rendersi
necessario o comunque opportuno e vantaggioso.
Aaker indica tre criteri interpretativi delle associazioni attraverso i
quali può essere configurata una scelta di posizionamento1. Con la
premessa che la selezione delle associazioni attiva tutte le leve del
marketing, tali criteri sono ravvisabili, come rappresentato in figura 3.22,
nell’autoanalisi, nello studio delle associazioni dei concorrenti, e in quello
del mercato-obiettivo.
Lo scopo di un’autoanalisi indirizzata alla comprensione di ciò che
rappresenta per il cliente l’offerta dell’impresa è quello di perseguire quella
coerenza che abbiamo riconosciuto essere un requisito primario di ogni
posizionamento3. Creare un’immagine non in linea con la posizione assunta
nella mente dei potenziali acquirenti, venendo a mancare codesto
fondamentale sostegno, può risultare strategicamente disastroso, oltreché
dispendioso. In seguito al mancato riscontro dell’effettività dell’immagine
proposta, risulta, cioè, minato il valore e la credibilità della marca,
rendendo ancora più ardua la successiva opera di riposizionamento. Inoltre,
proprio a causa delle associazioni, le quali, se da una parte sono foriere di
potenziali vantaggi transitanti attraverso le relazioni, dall’altra possono
trasmettere anche sentimenti ed atteggiamenti negativi, il deterioramento
della posizione potrebbe propagarsi con un effetto domino ai prodotti o
servizi collegati alla marca che di tale deterioramento è prima vittima.
1
D. A. Aaker, 1997, op. cit., pp. 204-214.
2
Fonte D, A, Aaker, 1997, op. cit., p.206.
3
V. cap. 1.2.3.
- 142 -
AUTOANALISI
ASSOCIAZIONI DEI
CONCORRENTI
Coerenza con:
- Caratteristiche del
prodotto
- Percezioni del prodotto
-
Differenze
ASSOCIAZIONI
MERCATO - OBIETTIVO
-
Fornire ragioni di acquisto
Aggiungere valore
Figura 3.2 – Le scelte di posizionamento
L’analisi delle associazioni dei concorrenti è finalizzata
all’individuazione ed allo sviluppo di evidenti punti di differenziazione,
necessaria premessa del divenire oggetto prima di attenzione e poi di scelta
da parte dei potenziali acquirenti. L’assenza di elementi distintivi, di
qualunque natura essi siano, pare già indicare e prefigurare le difficoltà in
cui incorrerà il prodotto o servizio appena lanciato. La mera imitazione di
un prodotto affermato ha in sé i connotati del fallimento.
Vero è che a volte può risultare utile avvalersi di una molteplicità di
associazioni comuni, con un unico elemento di differenziazione, il quale
rivesta un ruolo significativo per il consumatore. In questi casi la
cooptazione delle associazioni dei concorrenti si rende necessaria perché
esse appaiono fondamentali agli occhi degli acquirenti e devono pertanto
- 143 -
essere presenti. In più, l’appoggiarsi e il riferirsi all’immagine di un
qualcosa già presente nella loro mente rende il confronto con la nostra
offerta più semplice e diretto, senza che la persona sia costretta a
processare ed elaborare ex novo tutte le informazioni ad essa relative. Ad
ogni modo, un’associazione può risultare talmente importante per il
consumatore che si renda comunque necessaria una sua marcata
evidenziazione.
Se la marca è in una posizione di leadership del settore – sia che essa
sia conquistata sul campo, sia, a maggior ragione, che sia stata quella che
per prima ha scorto il créneau nel quale andare ad inserirsi e abbia creato
(occupandola) la relativa categoria mentale – la differenziazione ha, dal
punto di vista della “paternità” della categoria concettuale di riferimento,
un’importanza relativa: i concorrenti diventano, in quanto tali, degli
imitatori della marca “originale”, ritrovandosi su un piano sottoelevato
rispetto ad essa a cagione della loro stessa immagine e di altri fattori
contingenti1.
L’analisi del ruolo delle associazioni per il mercato principale ha
per obiettivo la costruzione di elementi di differenziazione in grado di
accrescere la forza della marca e di valorizzarne le caratteristiche e gli
attributi in modo da dare consistenza e spessore alla posizione ricoperta nel
mercato stesso. Se la differenziazione crea visibilità, una posizione forte
deriva dalla proposizione di valide ragioni di acquisto e dal conferimento di
ulteriore valore al prodotto o servizio.
Le ragioni di acquisto possono essere esplicitate mediante il
collegamento dell’associazione a caratteristiche specifiche, ma questa
condizione pur necessaria, non dimostra essere sufficiente. Infatti, la
ragione di acquisto deve risultare abbastanza forte e delineata da risultare
davvero attraente per i potenziali acquirenti. La concretezza fine a se stessa,
non accompagnata dalla rilevanza, non basta per innescare il meccanismo
di valorizzazione della marca.
Sulle ragioni di acquisto si basa il concetto di unique selling
proposition per il quale nel prodotto dovrebbe essere presente un vantaggio
specifico ed unico abbastanza importante da incidere nella scelta di
1
Come, per esempio, una loro eventuale minore copertura distributiva.
- 144 -
acquisto del consumatore, la quale, una volta creata, dovrebbe essere
mantenuta nel tempo.
L’altro elemento originante una posizione solida è costituito da
associazioni che agiscono in modo indiretto, aggiungendo valore alla marca
senza addivenire necessariamente ad una esplicitazione delle ragioni di
acquisto razionali e facilmente interpretabili. Tali associazioni fanno leva
essenzialmente sulle sensazioni collegate al prodotto ed al suo utilizzo, e
sono portate avanti in particolare dalla pubblicità1, la quale incrementa il
valore aggiunto fornendo un’esperienza indiretta dell’utilizzo del prodotto
e delle sensazioni ad esso collegate. Seguendo questa linea, associazioni
“di prestigio” e “di qualità” vanno a modificare effettivamente l’esperienza
d’uso, aggiungendo valore alla marca.
La costruzione di una posizione basata sulla comprensione delle
associazioni già esistenti e percepite dai consumatori e sulla creazione di
nuove a partire di esse presenta maggiori possibilità di successo rispetto a
quella fondata sui tentativi di modificarle.
3.2 – L’approccio strategico alla competizione per le
posizioni
La prima questione da affrontare in una competizione per le
posizioni riguarda la scelta del particolare atteggiamento al quale dovrà
improntarsi la strategia seguita, ovvero il modo in cui ci si porrà
nell’affrontare il mercato. La ragione di ciò risiede nel fatto che esistono
diverse linee primarie che possono essere seguite dal soggetto al centro
dell’azione, anche se solo una di esse risulta, in definitiva, appropriata.
La scelta dell’approccio strategico alla competizione dipende
fondamentalmente dalla posizione – sia con riferimento agli spazi mentali
del consumatore, sia in termini dei rapporti di forza con i concorrenti –
occupata in partenza dalla marca. L’essenza della competizione sta nel
Quando la pubblicità va a modificare l’esperienza d’uso del prodotto, allora
viene definita “trasformativa”. Per essere efficace, la pubblicità trasformativa deve
riuscire a costruire e mantenere delle associazioni tra sensazioni, prodotto ed esperienza
d’uso.
1
- 145 -
tentativo di prendere possesso del gradino più in alto possibile sulle scale
valoriali che gli individui usano per esprimere in maniera sintetica, ma
significativa, le posizioni relative nelle diverse categorie mentali
concernenti i prodotti ed i servizi. Se questa considerazione appare
piuttosto logica, spesso i decisori d’impresa commettono il grave errore di
non tenerne adeguatamente conto, banalizzandone il significato tacciato di
scontatezza e privilegiando quegli scenari che meglio loro suonano alle
orecchie, salvo poi puntualmente pagare le conseguenze della propria
miopia strategica.
Ries e Trout riconoscono l’esistenza di quattro principali modi di
affrontare il mercato e la competizione, ciascuno dei quali si presta ad
essere seguito in una specifica situazione concorrenziale nella quale si è
inseriti: la strategia difensiva, quella offensiva, l’attacco laterale, la
“guerriglia”1.
Non esiste una strategia di marketing più valida delle altre in termini
assoluti. Il seguire l’una piuttosto che l’altra dipende dalle specifiche
circostanze e dalle caratteristiche del mercato di riferimento, ma soprattutto
dalla posizione qui ricoperta dall’impresa la quale dovrebbe essere oggetto
di un attento e scrupoloso studio prima di prendere qualsiasi decisione di
ordine strategico2. La strategia valida per una impresa leader, non lo è
altrettanto, ad esempio, per una piccola impresa, e viceversa. Non sono,
poi, tanto le dimensioni dell’impresa ad essere importanti, quanto,
piuttosto, quelle dei propri rivali: occorre scegliere la strategia giusta su
misura della concorrenza, non sulla nostra.
L’elemento comune che attraversa, permeandole, le quattro strategie
di base è costituito dal principio della forza. Esso, derivato direttamente
dalla teoria bellica, afferma che bisogna avere sempre forze maggiori del
nemico nel punto – decisivo – che deve essere attaccato o difeso. Seguendo
1
Tali approcci costituiscono il tema centrale del già menzionato J. TROUT, A.
RIES, Il marketing è guerra!, McGraw-Hill, 1986.
2
In realtà, è possibile prevedere, che, in ogni mercato caratterizzato da una certa
numerosità di competitori, per la stragrande maggioranza delle imprese sia più indicata
una strategia di guerriglia, con una solamente – la leader – a giocare in difesa, mentre
due siano le imprese impegnate in una strategia offensiva, e tre o quattro portino
attacchi ai fianchi.
- 146 -
le indicazioni che esso ci offre, constatiamo come non sia sufficiente
disporre di una quantunque valida idea imprenditoriale per ottenere un
successo e, a maggior ragione, per renderlo sostenibile. Il punto
determinante sta nella concentrazione di forze laddove viene sferrato
l’attacco. Nel caso, per esempio, che una piccola impresa cerchi di aprirsi
un varco del mercato poco coperto dall’impresa leader, se essa non
dispiega risorse ed energie su quello specifico punto, gioco forza
quest’ultima, nel momento che si muoverà alla risposta, sovrasterà la
sfidante che non ha saputo sferrare il colpo con la dovuta decisione e
razionale coerenza e costanza.
L’importanza del principio della forza discende dall’analisi della
“matematica degli scontri a fuoco”, per la quale, in uno scontro a viso
aperto, è inevitabile che prevalga la parte in causa che dispone di una
preponderanza di forze: essa subisce, in seguito allo scontro, minori danni
in termini relativi, venendosi prima ad esaurire, con la sua prosecuzione, le
forze residue ancora a disposizione dell’altra parte, la quale potrà opporre
una resistenza sempre più bassa1.
La questione che più rileva nel principio della forza sta comunque
nella sua focalizzazione su un punto specifico dello spazio mentale che è
teatro della competizione. La detenzione di abbondanti forze ammassate in
punti (segmenti…) non cruciali, magari non prontamente dispiegabili
all’occorrenza, costituisce un punto debole per l’impresa, lasciando
scoperto settori nevralgici che potenzialmente potrebbero servire da
corridoi per chi volesse attaccare la sua posizione. Se così non fosse,
assisteremmo al mantenersi di un perpetuo status quo nel momento in cui
una categoria mentale è stata scoperta ed occupata da qualcuno, ed i
follower sarebbero irrimediabilmente costretti nelle zone marginali del
mercato.
In proposito, risulta determinante l’avere a disposizione precise e corrette
cognizioni circa le forza schierate in campo e quelle che i competitori tengono come
riserva e schierano all’occorrenza. Anzi, spesso è proprio la disponibilità di nuove e
fresche forze da schierare a fare la differenza, soprattutto con il protrarsi delle ostilità
concorrenziali.
1
- 147 -
Il prodotto, per quanto valido sia, non consente, da solo, di sovvertire
gli esiti del pronostico della competizione. Sbaglia, quindi, chi si affida alla
bontà della propria offerta nella speranza, da questi trasformata in
convinzione, che prima o poi il mercato si accorgerà, premiandola, della
sua superiorità. Nella migliore delle ipotesi, se una superiorità veramente
sussiste, ma ad essa non si accompagna una adeguata strategia di
posizionamento, l’unica speranza è che il competitor non se ne accorga,
altrimenti non avrebbe troppi problemi a farla propria, agli occhi del
mercato, grazie alla reputazione ed allo spessore che la sua stessa posizione
di preminenza gli conferisce. Chi detiene la leadership della categoria
mentale di riferimento ha (gli viene attribuita), per definizione, l’offerta
migliore. Siamo di fronte, ancora una volta, ad un tipico problema di
immagine e di identità non adeguatamente proiettata e trasferita nei suoi
tratti e valori essenziali ai potenziali acquirenti. Deficita, al solito, una
appropriata visione strategica dall’alto, con il conseguente effetto distorsivo
nel momento in cui l’impresa entra in contatto con l’arena competitiva.
L’orientamento dall’interno verso l’esterno, anziché dall’esterno verso
l’interno, trascura gli atteggiamenti e le prese di posizione sedimentate, a
torto o a ragione, nell’immaginario delle persone, non rendendo possibile,
per la strategia, il poggiarsi su quanto esiste già nella loro mente, unico
vero riferimento affidabile.
3.2.1 – Strategia difensiva.
L’impresa può venire a trovarsi nella necessità/opportunità di attuare
una strategia difensiva in seguito al verificarsi di due ben distinte
situazioni. Nel caso in cui abbia per prima identificato un varco
potenzialmente accessibile e vi si sia insediata occupando la categoria
mentale (ancora in formazione o già costituita) ad esso relativa, essa
beneficerà del vantaggio conquistato sui follower derivante dalla propria
sagacia e tempestività d’intervento, potendo attuare con successo strategie
di natura eminentemente difensiva.
La difesa deve, inoltre, essere la linea guida di quelle imprese che, in
forza di una quota di mercato nettamente superiore ai concorrenti, si
- 148 -
trovino in una posizione di leadership, nella posizione di sommità della
categoria mentale di riferimento espressa dai consumatori1. Risulta
problematico, infatti, per gli sfidanti scalzare il leader dal gradino più
elevato della scala mentale, a causa della resistenza opposta dai soggetti in
seguito al processo di sedimentazione che lo ha ivi rinsaldato.
In forza dell’adozione di una strategia difensiva da parte di chi venga
a trovarsi in una delle suddette situazioni, si determina una modificazione
della probabilità che chi la pone in essere prevalga nel gioco competitivo.
La difesa da una posizione consolidata richiede, infatti, un minore impiego
di risorse ed energie rispetto a chi tale posizione intende attaccare, il quale
dovrà impegnarsi molto per sottrarre terreno2 al concorrente già affermato,
dispiegando le proprie forze in modo tale da trovarsi in una situazione di
preponderanza nello specifico punto dove si giocano gli esiti del confronto.
In altre parole, è molto più semplice riuscire a catturare l’attenzione e a
vendere ad un acquirente “libero”, cioè non ancora contattato da altri, che
sottrarre clienti a chi detiene il possesso dei loro spazi mentali.
Un ulteriore importante argomento che gioca in favore delle strategie
di difesa è dato dalla difficoltà dei challenger di attuare una politica di
marketing aggressiva incentrata su un’azione allo stesso tempo massiccia e
di sorpresa. I due termini sono in realtà antitetici: se sorpresa deve essere,
assai improbabilmente potrà trattarsi di un’operazione in grande stile. La
ragione è rintracciabile nell’attrito generato dalla macchina organizzativa,
una volta che viene attivata: l’attrito sarà tanto maggiore quanto maggiori
V. VISHWANATH e J. MARK (in Your brand’s best strategy, Harvard Business
Review, maggio-giugno 1997, pp. 123-129) rilevano come la profittabilità di una marca
dipenda, oltre che dalla quota di mercato detenuta, anche dalla natura della categoria in
cui essa si trova a competere. In particolare, è importante verificare se all’interno di tale
1
categoria il ruolo principale è svolto da premium brands o, viceversa, sono presenti
principalmente marche di basso profilo che competono soprattutto sulla leva prezzo.
Dalla loro indagine, infatti, risulta un notevole sbilanciamento in favore del primo caso
per ciò che riguarda la profittabilità delle marche impegnate sui vari mercati.
2
Abbiamo visto (cap. 2.1.2) come gli spazi mentali e la memoria, soprattutto a
breve, si caratterizzino per la loro limitatezza e per le difficoltà che i messaggi inviati
incontrano nell’insediarvisi superando i diversi ostacoli che si frappongono tra il
momento dell’emissione e quello in cui essi vengono interpretati e trattenuti.
- 149 -
sono le dimensioni di quest’ultima. Così, se una piccola impresa (in termini
relativi, naturalmente) può cogliere di sorpresa, soprattutto nel breve
termine, il leader, difficilmente questo accadrà per uno dei principali
competitori, a meno che esso prenda in scarsa considerazione tutti quei
segnali di avvertimento che dovrebbero altrimenti metterlo in stato di
allerta. Chi si trova in cima alla scala categoriale opererà, solitamente, un
attento monitoraggio dei principali concorrenti e non potrà non avvertire i
movimenti e l’attrito prodotto dalle loro azioni aggressive.
Inoltre, non solo l’effetto sorpresa è mitigato dal rumore
dell’organizzazione che lo mette in atto, ma il fattore tempo gioca
anch’esso a favore di chi si trova nella condizione di poter attuare una
strategia difensiva. Per organizzare i propri movimenti sul mercato il
competitore dovrà prima dispiegare le proprie risorse affinché tutti le
funzioni e i ruoli nel piano siano coperti. Anche solo considerando le
problematiche connesse alla logistica, il defender può venire a disporre di
tutto il tempo necessario per poter allestire una adeguata risposta,
riuscendo, oltre a ciò, ad attutire e contrastare i messaggi del concorrente
prima che il messaggio sia recepito dal pubblico cui è destinato.
Non saper valutare ed apprezzare i vantaggi di una valida posizione
di difesa costituisce, poi, un altro grave errore strategico. Bisogna evitare,
trovandoci in una delle situazioni ad essa propizie, di cedere al richiamo di
avventate azioni di attacco nei confronti dei rivali che avrebbero solamente
il risultato di portarci con le nostre stesse mani fuori da una posizione di
favore, facendo noi quello che avrebbero dovuto fare i nostri concorrenti.
Questa osservazione vale anche a rovescio: le imprese che non
detengono la maggiore quota di mercato ed una posizione di privilegio
nella mente dei potenziali acquirenti dovrebbero guardarsi bene dal seguire
una strategia difensiva nel senso più stretto del termine. La leadership non
fa riferimento a quanto noi presumiamo di essere e rappresentare, ma va
conquista sul campo rispecchiando i reali rapporti di forza. Non è possibile,
al di là del consueto ricorso ad iperboli comunicative, indicare falsamente
la propria marca come la capofila del mercato senza andare incontro al
giudizio rivelatore dei consumatori. Esistono delle posizioni che per
l’impresa risultano insostenibili e di ciò occorre prendere atto, incentrando i
- 150 -
propri sforzi su quanto è effettivamente nelle sue possibilità, soprattutto a
livello evocativo.
La difesa, comunque, non può e non deve implicare una staticità
strategica nell’attesa di un attacco cui rispondere. La migliore strategia
difensiva consiste, all'opposto, non nell’aggredire la concorrenza, ma nel
trovare il coraggio di attaccare se stessi. Il leader della categoria
concettuale di prodotto dovrebbe, cioè, impegnarsi nell’attaccare
continuamente la propria posizione in modo tale da rafforzarla. Ricorrendo,
sempre comunque in maniera accorta, a questo tipo particolare di
riposizionamento, poniamo di fronte ai competitori un bersaglio in
movimento, riducendo la possibilità che essi trovino in noi un riferimento
costante e costringendoli, ogni volta, a ridefinire la propria offerta in
funzione della nostra nuova proposta. Si tratta, all’atto pratico, di introdurre
senza soluzione di continuità, nuovi prodotti e servizi che, cannibalizzando
e sostituendo quelli precedenti, riducano lo spazio di manovra dei
concorrenti, anticipandone in funzione preventiva le eventuali mosse e
provocandone, per quanto è possibile, lo spiazzamento.
La possibilità di bloccare le mosse strategiche degli avversari
attraverso una loro emulazione repentina e mirata rappresenta l’ulteriore
strada percorribile dall’impresa leader, a condizione di non lasciare che il
competitore consolidi la propria immagine e posizione. Dovrebbe, a
riguardo, preoccupare maggiormente la possibilità che vengano lasciati a
disposizione dei concorrenti degli spazi non immediatamente coperti dalla
marca e che potrebbero essere potenzialmente forieri di futuri sviluppi,
(anche se tutti ancora da verificare), rispetto all’impegnare risorse
finanziarie nella loro pronta chiusura, con la consapevolezza che non tutte
daranno i loro frutti. Dal momento che la posta in palio è troppo elevata, si
tratta, in sostanza, di considerare il denaro speso nel tentativo di bloccare le
iniziative dei competitori alla stregua di un premio assicurativo sul futuro
del proprio posizionamento.
Frequentemente, gli attacchi della concorrenza sono portati sul
versante del prezzo. Se l’impresa leader non si dimostra sprovveduta, tali
tentativi troveranno forti ostacoli nella loro riuscita. Infatti, solitamente, chi
detiene la maggiore fetta del mercato dispone di risorse – anche finanziarie
- 151 -
– superiori a quelle degli altri ed in grado di consentirgli di intraprendere
una valida opposizione in caso di una guerra di prezzi. Un punto importante
da tenere in considerazione è rappresentato dal mantenere un adeguato
livello di riserve di risorse di cui poter celermente disporre all’evenienza1.
Questo può fare la differenza, dal momento che l’attaccante di solito
immette una quota proporzionalmente maggiore di risorse nello scontro.
La ragione che sta alla base dell’opportunità per l’impresa leader di
attaccare se stessa e di bloccare le iniziative dei concorrenti risiede nelle
particolari connotazioni del terreno su cui si gioca la competizione. Come
abbiamo visto, imprimere qualcosa di nuovo nella mente delle persone è,
per gli sfidanti, ancora più complicato che per il leader, dal momento che
devono prima riuscire a scalzare chi occupa la posizione target nella
categoria di riferimento per poi poterne prendere il posto. Dovendo, inoltre,
impegnarsi a lungo in questo proposito e lasciando necessariamente
trascorrere del tempo prima che i nuovi concetti vengano metabolizzati,
può accadere che la marca attaccata trovi la risposta più opportuna per
rispondere entro ragionevoli termini.
A favore del leader di mercato gioca, poi, la natura stessa del
concetto di leadership. Essere l’oggetto delle preferenze della maggioranza
delle persone costituenti il mercato, suggerisce agli altri, più o meno
implicitamente, la sensazione della correttezza delle preferenze stesse.
L’immagine trasmessa, quando non è affetta da immobilismo, non fa altro
che rafforzare se stessa per il solo fatto di appartenere alla marca cui viene
associata la categoria, le caratteristiche della quale finiscono, in questo
modo, per muoversi con essa.
Molte volte, tuttavia, succede che, a causa di una sorta di complesso
di superiorità, l’impresa leader non appresti simili azioni di bloccaggio
delle opzioni strategiche altrui, salvo poi, invariabilmente e ormai troppo
tardi, correre ai ripari ponendo rimedio ad una situazione competitiva che
risulta compromessa. Anche quando si percepisca la necessità di attaccare
le proprie posizioni, possono venire a mancare il coraggio e la forza
Non trascurabile è poi la considerazione che una strategia di gestione “ad
impulso” delle risorse consente di risparmiare del denaro, impiegandolo in una pluralità
di momenti successivi.
1
- 152 -
necessari per abbandonare strategie e prodotti che, nel breve termine, non
sembrano richiedere particolari correzioni di rotta, mentre sembrano d’altro
canto offrire conforto quanto ai risultati ottenuti. Se nel breve periodo
attuando questo genere di scelta vengono sacrificati i profitti, l’interesse a
farlo è di ordine superiore e consta nella protezione offerta alla quota di
mercato della marca.
3.2.2 – Strategia offensiva.
Come abbiamo visto, l’adozione di una strategia competitiva di tipo
offensivo non si addice all’impresa leader del mercato. Essa può essere,
invece, seguita con successo dai suoi più immediati concorrenti. Ma fino a
che punto si possa scendere nella scala categoriale di riferimento e fra i
detentori di quote di mercato significative, non è dato stabilire in maniera
puntuale e completamente affidabile. Non esistono, cioè, metri sicuri di
giudizio, restando l’analisi più delicata affidata alle capacità interpretative
di chi è a ciò preposto. Indicativamente, potremmo riconoscere quelli che
più verosimilmente hanno la possibilità di attuare questo genere di scelta
nei più diretti competitori dell’impresa leader, ovvero la seconda e,
eventualmente, terza impresa del mercato.
Molto dipende dalla peculiare struttura del settore sotto osservazione:
in alcuni settori potremmo riconoscere, causa la frammentarietà delle quote
di mercato, una pluralità di imprese capaci di lanciare offensive con buone
probabilità di successo, mentre in altri potremmo non trovarne nemmeno
una. Altro fattore molto importante da tenere in considerazione è dato dalla
forza e dalle risorse di cui l’impresa dispone. Le guerre di marketing
offensive assorbono molte energie umane e materiali, dal momento che
andiamo ad affrontare un nemico che parte da una posizione vantaggiosa e
che, con tutta probabilità, ha dalla sua ingenti mezzi a disposizione
comprensivi di riserve da schierare in caso di necessità. Lo scopo di una
strategia offensiva deve essere in primo luogo quello di scalzare chi
“detiene” la categoria concettuale per poi andare ad occupare il primo
- 153 -
gradino nella scala delle preferenze dei potenziali acquirenti 1 prendendone
il posto. Questo obiettivo prevale su quello, in un certo fittizio,
dell’incremento della quota di mercato. La principale preoccupazione di chi
adotta una strategia offensiva non deve riguardare quest’ultimo aspetto, ma,
piuttosto, la riduzione della quota di mercato dell’impresa leader, senza la
quale non si potrà avere un ribaltamento delle rispettive posizioni. Il
bersaglio da colpire si trova nella mente delle persone, mentre le armi più
efficaci sono quelle legate alla percezione dell’identità di marca ed al suo
divenire immagine (quindi, in primo luogo, la comunicazione in tutte le sue
espressioni e manifestazioni).
In effetti, la prima e più importante valutazione da fare è quella
riguardante le forza di cui dispone l’impresa leader, la quale discende dalla
particolare posizione occupata. Questo, prima ancora dell’analisi della
propria posizione strategica: non serve a niente sapere che siamo
particolarmente competitivi riguardo un certo aspetto dell’offerta, se il
leader ha proprio in esso uno dei suoi punti di forza. Se la strategia
offensiva è di per sé molto rischiosa e difficile da mettere in pratica, le
probabilità di successo aumenteranno in seguito ad una scrupolosa analisi
dell’impresa leader. La ricerca di una differenziazione che consenta di
emergere deve portarci alla larga dai punti di forza del nostro concorrente
obiettivo per concentrarsi sui punti di debolezza.
Il nucleo delle strategie offensive è espresso dalla ricerca di una
differenziazione che consenta, non essendo possibile ottenere una
superiorità assoluta, di raggiungerne una relativa nel punto decisivo,
facendo un buon uso delle risorse a propria disposizione. A livello
operativo, affinché la superiorità relativa sia veramente tale, le forze
schierate in campo devono essere applicate su un fronte ristretto (il più
stretto possibile) dello spazio mentale di riferimento. Quest’indicazione
deriva direttamente dalla strategia militare. Attaccando lungo un fronte
limitato facciamo leva sul “principio della forza”: concentriamo le nostre
1
Abbiamo visto (cap. 2.1.2 e 2.1.3) come le perone siano in grado di riconoscere
per ogni categoria solo un numero limitato di componenti che pongono in una scala
graduata sulla cui sommità sta l’impresa leader, quella con la quale viene identificata
l’intera categoria e che detta pertanto i caratteri da detenere per poterne fare parte.
- 154 -
forze per ottenere una superiorità numerica localizzata in un punto
decisivo. Conseguentemente, è senz’altro preferibile ed ha superiori
possibilità di successo, una pressione esercitata attraverso una sola marca o
prodotto, piuttosto che mediante un’intera linea, perché in quel modo
avremmo una dispersione di risorse su uno spazio troppo ampio, lasciando
al principale concorrente la possibilità di rispondere nel modo a lui più
congeniale, con una controffensiva su tutta la linea e l’impiego più
consistente, razionale ed omogeneamente schierato delle proprie forze1.
Devono essere ricercati ed attaccati i punti deboli insiti nella
posizione del leader, ed in particolar modo quelli collegati alla sua forza, in
quanto più difficilmente difendibili senza intaccare gli elementi su cui
poggiano le relative associazioni di successo e lo stesso sistema di attività
dell’impresa. L’offensiva, in altre parole, ha possibilità di successo tanto
maggiori, quanto più vengono sfruttati i potenziali trade-off negativi che
sono collegati alla stessa posizione di leadership.
In ogni forza esiste una debolezza. Il problema è trovarla. Una marca
che faccia sua la quota di mercato oltre certi limiti fisiologici di gestibilità,
sarà più debole e vulnerabile che nel caso di una superiorità meno marcata
ed evidente. A volte, inoltre, i problemi per una marca possono essere
generati a partire da considerazioni spicciole apparentemente tanto ovvie da
risultare, agli occhi dei più, banali.
3.2.3 – L’attacco ai fianchi.
La strategia basata su un deciso quanto inatteso attacco laterale è,
forse, quella che, presentando in caso di successo i più vistosi risultati,
comporta per chi la adotta i rischi più elevati. La decisione di attuarla non
può essere presa molto alla leggera dal momento che la posta in palio è
altissima, e dovrebbe essere presa in considerazione solamente da chi abbia
L’azione incentrata su un solo prodotto e su un fronte minimo mira a
conquistare velocemente più attenzione possibile aumentando di spessore col suo stesso
incedere. Se il fronte attaccato simultaneamente è, però, costituito da un’intera linea di
prodotti, il rischio incombente è quello di perdere, con il tempo, tutto il terreno
guadagnato e anche molto di più.
1
- 155 -
la piena padronanza degli strumenti e dei principi strategici, ed una
adeguata visione – dal dentro e dall’alto – della competizione in atto1.
In particolare, occorre che l’offensiva sia concentrata su una linea o
un’area che l’avversario lascia sguarnita o, comunque, con un debole
presidio. Per quanto ovvia, questa osservazione deve sempre essere tenuta
presente, poiché sarebbe insensato ed autolesionistico lanciare un’offensiva
ai fianchi contro un prodotto affermato ed in punti in cui esso è
particolarmente forte.
L’attacco laterale, solitamente, consiste nel tentativo di creare e
proiettare nella mente dei potenziali acquirenti una nuova categoria
concettuale cui fare riferimento. L’elemento di rottura non necessariamente
è rappresentato da un nuovo prodotto, dovendo, tuttavia, essere presente
nell’offerta un qualche elemento di novità tale da richiedere il suo
inserimento in una nuova e diversa categoria.
Possiamo ravvisare nella strategia di attacco ai fianchi le
caratteristiche tipiche della segmentazione e della ricerca di una nicchia. Il
punto cruciale è, come detto, che il segmento del quale ci accingiamo a
prendere possesso non risulti già occupato da altri (altrimenti si tratterebbe
di una tradizionale e molto impegnativa strategia offensiva).
L’attacco laterale è, per sua natura, un attacco di sorpresa, a
differenza della strategia difensiva e di quella offensiva dove l’attrito
prodotto dalle organizzazioni nel mettere in pratica la condotta prefissata
conferisce all’azione in essere una certa prevedibilità e una possibilità di
risposta con un certo anticipo sugli eventi. L’elemento sorpresa permette,
superando le linee della concorrenza, di sfaldarne le posizioni, creando una
forza di slancio difficile da contrastare se si è stati veramente colti alla
1
L’attacco ai fianchi, non esistendo ancora un mercato ben definito per il nuovo
prodotto o concetto introdotti, richiede un elevato grado di intuito ed una capacità di
previsione molto sviluppata ed articolata, onde evitare di aprire ad altri la strada per lo
spazio mentale individuato.
Nel caso ciò non sia, come nel caso non si disponga delle risorse necessarie per
portare avanti la strategia fino in fondo con tutte le possibili situazioni che potremmo
essere costretti ad affrontare, è senz’altro preferibile non intraprendere alcuna iniziativa,
la quale finirebbe solamente per favorire la concorrenza aprendo degli spazi che
probabilmente non avrebbe altrimenti scorto.
- 156 -
sprovvista e comportando effetti negativi per il morale nell’attesa che ci si
riorganizzi.
Il momento più propizio per dare forza alla nuova posizione venuta a
determinarsi è quello iniziale, quando il nuovo prodotto o concetto gode
ancora del beneficio incontrastato della novità. Una volta che l’azione ai
fianchi della concorrenza è stata portata avanti con esito positivo, la
successiva condotta deve essere improntata al rafforzamento del successo
senza permettere che si distolga l’attenzione dalle determinanti strategiche
che lo hanno originato. Il tempismo è fondamentale: il successo deve essere
rafforzato da subito, senza aspettare che i competitori si riorganizzino e
preparino una controffensiva, in modo tale che le loro mosse giungano
sempre in ritardo sulle nostre e sulla costituzione di una solida posizione
nel varco venutosi ad aprire.
Perché assuma rilievo e spessore, una strategia offensiva di tipo
laterale deve influenzare in modo sostanziale le possibilità di scelta dei
potenziali acquirenti. L’effettuazione di troppi test di mercato risulta inoltre
deleteria, oltreché ridondante: da una parte, infatti, i concorrenti avrebbero
l’occasione di accorgersi, attraverso il rumore inevitabilmente generato dai
nostri movimenti, delle nostre intenzioni, potendo correre in tempo ai ripari
ed anticipare le nostre azioni; dall’altra, i potenziali clienti non possono
sapere, oggi, quello che decideranno di acquistare domani, se le loro scelte
stanno per subire un cambiamento radicale.
Esistono attributi che più di altri possono essere alla base di un
attacco ai lati alle posizioni dei competitori. Quello che per primo viene
solitamente preso in considerazione è il prezzo basso. Perché sia
un’opzione praticabile, occorre, ove possibile, ridurre i costi relativi al
prodotto preso in considerazione, ed un’attenzione particolare va riposta
nel farlo in quei punti dell’offerta nei quali il consumatore non ha grandi
capacità di discernimento. In effetti, il rischio è quello di evidenziare,
attraverso la riduzione di prezzo, una diminuzione della performance,
potendo arrecare, in questo modo, un danno effettivo all’immagine di
marca. Tale pericolo, naturalmente, è tanto maggiore, quanto più il valore
di marca poggia su attributi intangibili e connessi al processo mentale di
fascinazione a livello di macrosistema interpretativo. La leva del prezzo
- 157 -
opera anche quando esso viene elevato, aggiungendo, il prezzo alto,
credibilità al prodotto attraverso la scrematura e la naturale tendenza delle
perone ad associare prezzo e qualità. A corollario di una strategia di prezzi
alti sta l’ulteriore vantaggio di conseguire margini superiori che possono
contribuire, reimpiegati, ad alimentare il circolo virtuoso di rafforzamento
della posizione di marca. Anche la distribuzione e l’aspetto differenziato
del prodotto1, essendo notevoli vettori comunicativi, sono in grado di
offrire un rilevante contributo a possibili attacchi ai fianchi dei concorrenti
cogliendoli di sorpresa.
3.2.4 – La competizione basata sulla “guerriglia”.
Le imprese che si possono permettere di seguire strategie difensive,
offensive o di attacco ai fianchi della concorrenza sono un’esigua
minoranza di tutte quelle presenti sull’arena competitiva. Questo a
prescindere dalle dimensioni assolute che le caratterizza, contando, invece,
quelle relative2 ed i reciproci rapporti instauratisi. Per tutte le altre la
migliore strada da intraprendere pare essere quella di un’attività “di
guerriglia”, caratterizzata dal mimetismo e dal continuo rovesciarsi dei
ruoli nelle azioni tattiche in cui questa strategia va a comporsi3.
Una prima fondamentale regola per chi si trovi nella situazione di
dover seguire una strategia di guerriglia consiste nel trovare un segmento di
mercato sufficientemente piccolo da poter essere difeso con successo. Non
importa la natura e l’origine delle piccole dimensioni del segmento,
potendo risultare da una segmentazione geografica, in base al prezzo…
come da un qualunque altro aspetto che una grande impresa troverebbe
1
Ma, in genere, qualsiasi associazione in grado di differenziare la marca e di
contribuire alla costruzione o ridefinizione di una categoria concettuale.
2
Imprese che sembrano avere dimensioni minime, quasi irrisorie, per un
determinato settore potrebbero essere dei giganti per risorse umane ed economiche a
disposizione in un altro: ancora una volta regna sul mercato il principio della relatività.
3
Mao-Tze-Tung sintetizzò perfettamente l’azione di guerriglia ed il logoramento
che ne costituisce il cardine in questo modo: «Il nemico avanza, noi ci ritiriamo. Il
nemico si accampa, noi lo molestiamo. Il nemico so stanca, noi lo attacchiamo. L
nemico si ritira, noi lo attacchiamo.».
- 158 -
difficile o inopportuno attaccare in forze. Il principio che sta alla base della
forza delle azioni di guerriglia consiste, invece, nel ridurre le dimensioni
dello spazio mentale entro il quale avviene il confronto concorrenziale in
modo da ottenere un vantaggio relativo di forze nel punto critico per il
nostro fare competizione. La differenza tra un attacco ai fianchi della
concorrenza ed un’azione di guerriglia sta nell’obiettivo perseguito: il
primo ha come presupposto il diretto e deliberato attacco alla posizione del
leader nel tentativo di sorprenderlo e ridurne a proprio vantaggio la quota
di mercato e con essa la sua posizione di dominio; la seconda, invece, non
mira a disturbare la posizione di un concorrente, ma al mantenimento del
proprio spazio vitale.
Questa porzione di mercato andrebbe difesa a qualunque costo,
essendo le credenziali derivanti dalla leadership di un segmento, per quanto
piccolo esso sia, la migliore garanzia per la sopravvivenza e per il futuro
dell’impresa. Una volta che perde il primato dello spazio mentale in
precedenza occupato, infatti, la marca inizia una rapida discesa lungo il
declivio dell’anonimato ritrovandosi ben presto ai margini della
competizione.
Né andrebbe commesso l’errore, opposto, di cercare di trasformare,
quantomeno per eccesso di confidenza se non per un vero e proprio peccato
di presunzione, una strategia di guerriglia in un attacco ai fianchi con un
inevitabile conseguente sacrificio della flessibilità.. Cercare di aumentare la
sua quota di mercato avvicinandosi ed andando a recare dei disturbi alla
posizione del leader, significa, per l’impresa guerrigliera, dare inizio ad un
confronto che, a causa della notevole sproporzione tra le risorse
(finanziarie, umane, organizzative) di cui dispongono le due contendenti,
appare il più delle volte già segnato. Per attaccare i concorrenti, le imprese
devono uscire da quello spazio concettuale che costituisce il loro peculiare
territorio, andando, così, allo scoperto ed esponendosi ai rischi che questa
scelta comporta. Le forze di cui dispone un’impresa guerrigliera,
soprattutto all’inizio, sono generalmente alquanto limitate rispetto ai
maggiori concorrenti presenti sul mercato, presentandosi la necessità di
tenerle concentrate nel segmento di cui può disporre. Solitamente, quando
quest’ultimo viene abbandonato siamo di fronte ad una scelta di
- 159 -
ampliamento di linea, che, come meglio vedremo nel paragrafo 3.4, se in
generale costituisce una scelta rischiosa (in quanto un solo nome non può
sostenere una pluralità di concetti), diventa quasi certamente una manovra
autolesionista nel caso in questione: allargare le sue forze significherebbe,
per l’impresa guerrigliera, andare incontro ad un sicuro disastro.
La fisionomia di un’impresa guerrigliera non deve cambiare in
seguito agli eventuali successi ottenuti: nel preciso momento in cui pone in
essere comportamenti simili a quelli del leader, perde in focalizzazione
abbandonando quei principi e quegli orientamenti che hanno consentito la
differenziazione e la connotazione originaria di punto di riferimento per un
determinato segmento portandola al successo. La forza di un’impresa che
segua questo genere di strategia di posizionamento dovrebbe, invece,
risiedere nella sua flessibilità e capacità di un pronto adeguamento ed
interpretazione della realtà in movimento, e nelle possibilità offerte dalla
mimesi.
La strategia di guerriglia impone alle imprese che la seguono di
tenersi preparate ad una pronta quanto inattesa ritirata dalla posizione
attualmente coperta per andare ad occuparne un’altra nel caso ciò si
rendesse necessario od opportuno. Nel momento in cui la competizione sta
volgendo a nostro sfavore, non occorre esitare ad abbandonare la nostra
posizione, evitando di subire danni maggiori e tenendo in serbo le risorse
rimaste per occuparne di nuove. L’agilità dell’organizzazione risulta essere,
in questi casi, un fattore decisivo per la riuscita della ritirata strategica.
Viceversa, l’impresa deve tenersi pronta, grazie alla propria flessibilità, ad
entrare in quei mercati di cui possa intravedere potenziali valide possibilità
di sviluppo (magari ricoprendo spazi che le marche superiori hanno
abbandonato lasciandoli sguarniti perché, per esse, non più appetibili).
Una strategia di guerriglia può concretizzarsi nell’adozione di
diverse tipologie di tattiche. Una tipica tattica soventemente seguita
consiste nell’attaccare a livello locale un prodotto o sevizio diffuso ad un
livello geografico superiore grazie al più stretto legame con il territorio. La
focalizzazione deve però essere completa, oltreché consapevolmente
portata avanti. Tutti gli elementi dell’azione di marketing devono essere
convergenti e protesi a valorizzare il peculiare posizionamento prescelto. Il
- 160 -
sistema di attività e le associazioni ad esso correlate abbisognano ancora
più, rispetto alle altre strategie competitive, del mantenimento di una
coerenza con il concetto espresso dalla posizione occupata. A riguardo,
molta attenzione va riposta nell’evitare la tentazione di fare della marca
locale, per quanto affermata sia, un competitor nazionale o sovranazionale
se il radicamento all’area coperta costituisce il suo principale asset
strategico. Il rischio, in caso contrario è doppio: la perdita di tale asset, il
cui valore andrebbe a diluirsi non rappresentando più un motivo di scelta
riconosciuto neppure dal target precedentemente raggiunto, ed il rischio
competitivo legato all’affrontare avversari con posizioni consolidate sul
loro terreno disponendo, nel contempo, di risorse inferiori ed in ulteriore
probabile decadimento.
Altri esempi di strategie di guerriglia consistono nel rivolgersi a uno
specifico segmento della popolazione riconosciuto isolando quella
particolare categoria attraverso una appropriata segmentazione
demografica, oppure nel concentrarsi su piccoli mercati caratterizzati dalla
presenza di prodotti del tutto particolari che posizionano gli eventuali
concorrenti come evidenti imitazioni ed i cui volumi di vendita non sono
mai tanto grandi da stimolare gli appetiti dei grandi marchi generalisti (può
essere, questo, il caso della Land Rover per quanto riguarda la categoria dei
fuoristrada), o, ancora, nel concentrarsi in uno specifico settore aprendosi
un varco stretto e profondo piuttosto che largo e poco profondo1.
Un caso particolare, e assai ricorrente nelle economie caratterizzate
da un elevato tenore di vita, è poi quello in cui le azioni di guerriglia
vengono portate all’estremità alta del mercato potendo contare sulla ricerca
di prodotti superiori da parte di una porzione considerevole (quanto a peso
specifico) di potenziali acquirenti. Spesso potenziali imprese guerrigliere
sul terreno della parte alta sono renitenti a mettere entrambi i piedi oltre la
soglia che delimita il segmento medio da quello superiore perché ritengono
di non avere il prodotto adatto per sostenere un elevato rapporto
qualità/prezzo. Altre volte, e questo è ancora peggio, vengono adottate
soluzioni intermedie che, in assenza di un pubblico pronto ad accettarle,
In questo caso, l’estensione da evitare è quella verso altri settori, dal momento
che potrebbe accompagnarsi ad una perdita di focalizzazione.
1
- 161 -
finiscono nel sommare i lati negativi – e non quelli positivi – delle
posizioni più forti. Entrambe le opzioni sembrano trascurare il nesso di
causalità che lega l’elevata qualità e l’elevato prezzo all’immagine e questa
alla domanda: i primi elementi generano il secondo che, a sua volta crea il
terzo. Sono i prezzi alti, inscindibilmente correlati ad una pari qualità, a
conferire alla marca la visibilità perché possa iniziare a raccontare al
potenziale acquirente, seducendolo, il particolare mondo di riferimento di
cui essa costituisce, ponendosi come tale, l’accesso. Poi, una volta entrato
in codesta nuova prospettiva, viene il momento in cui il consumatore
riconosce al prodotto o servizio una qualità degli attributi costitutivi tale da
giustificare il prezzo superiore, ed anzi finisce egli stesso per ritenere tutto
questo necessario e desiderabile. Il fattore tempestività è, ancora una volta,
determinante: occorre essere i primi a creare questo tipo di associazioni
occupando lo spazio mentale relativo all’estremità alta della categoria
concettuale di riferimento. Certamente, questo tipo di strategia è piuttosto
rischioso, ma, proprio per questo, perché non vada sprecato il coraggio
necessario ad intraprenderla, una volta che il dado sia tratto, occorre dare
un seguito deciso e perseverante alla strada imboccata.
Una scelta intelligente per ovviare ad una carenza riguardo alle
risorse ed alle possibilità e limiti connessi al principio della forza, è
costituita dal ricorso ad alleanze strategiche1, mediante le quali le imprese
operanti in un settore cercano nell’aggregazione quello che altrimenti da
sole non potrebbero mai conseguire. Basilare è, per potere dar vita ad
un’alleanza che non sia un’accozzaglia immotivata di entità economiche,
l’individuazione di chi sia la concorrenza, ossia il comune avversario che si
intende contrastare.
1
Un caso tipico è quello relativo ad imprese che praticano una strategia di
guerriglia di tipo geografico, con la coalizione di numerosi operatori a livello locale, per
opporre una più forte resistenza ai competitori più potenti.
- 162 -
3.3 – La marca e le diverse fasi della competizione
3.3.1 – La gestione del ciclo di vita della marca.
Le strategie di posizionamento devono tenere conto non solo degli
spazi mentali occupati dall’impresa e dai suoi concorrenti, ma anche del
momento evolutivo-temporale nel quale è inserita la marca. Differenti
attività di marketing vanno poste in essere secondo la particolare fase del
ciclo di vita attraversata dalla marca.
1) Sviluppo e lancio di nuove marche. La questione più importante
che attiene al lancio di una nuova marca è rappresentata dall’edificazione di
un’immagine coerente con il tipo di posizionamento cui essa viene
destinata. Generalmente, infatti, la marca giunge sul mercato ancora
spoglia di una propria personalità definita e distinta sulla cui base
incentrare la differenziazione. Anche nel caso si tratti di un’estensione di
linea e si possa riparare sotto l’ombrello percettivo della marca di origine,
la nuova marca deve lottare per affermare l’unicità della propria
personalità, pena la dissoluzione del valore di cui si fa portatrice. Poter
contare su vantaggi relativi alla funzionalità, piuttosto che su elementi di
differenziazione meno apprezzabili direttamente, consente di avere una più
solida base di partenza sulla quale poi edificare, attraverso un’idonea rete
di attività, il sistema di associazioni ideale per la particolare posizione
occupata. Ciò non toglie che le particolari connotazioni dell’immagine di
marca, così come viene percepita dal target di riferimento, costituiscano,
poggiando su affidabili e riconosciuti attributi funzionali, il punto che più
rileva ai fini del conseguimento di una posizione stabile e focalizzata da
parte della marca.
Gli attributi che maggiormente contribuiscono al conferimento di una
sostenibilità nel tempo della posizione strategica ricoperta dalla marca
sono, quindi, quelli che ineriscono l’immagine percepita dai potenziali
acquirenti, potendo essa costituire la caratterizzazione ed il vantaggio meno
erodibile dall’imitazione. Una posizione che si basi essenzialmente su
elementi funzionali presenta delle evidenti debolezze che ne lasciano
intuire il prossimo decadimento. Analogamente, il concentrarsi sul prezzo
espone l’impresa ad attacchi che, se portati da concorrenti che dispongono
- 163 -
di ingenti e superiori risorse, possono impegnarla in una guerra al ribasso in
grado di condurla fuori dal mercato.
Se il lancio di nuove marche, come abbiamo visto per il caso di una
strategia di attacco laterale, comporta rischi molto elevati, spingendo le
imprese ad intraprendere lunghe ricerche volte a diminuire la probabilità di
incorrere in un costoso insuccesso, occorre constatare come spesso si perda
del tempo prezioso in questo genere di attività, rischiando di lasciarci
sfuggire importanti occasioni di sviluppo per carenza di tempestività, o,
ancora peggio, fornendo ai rivali preziosi segnali circa nuove possibili
strade percorribili.
La possibilità di incorrere in un fallimento lanciando sul mercato una
nuova marca deve essere temuta ed attentamente valutata, ma non può
costituire un capro espiatorio per giustificare la mancata adozione di una
strategia potenzialmente valida, occorrendo cercare, semmai, di apprendere
dagli errori di valutazione commessi1.
2) La fase di crescita. Una volta lanciata sul mercato, l’immagine
della marca deve essere sviluppata tenendo conto della particolare
personalità di cui essa è espressione. La personalità di marca può essere
meglio intesa identificando il particolare processo di personificazione
attraverso cui si giunge alla determinazione del suo carattere e del
significato che essa assume per i potenziali interlocutori. Già al momento
del lancio, tuttavia, deve esserci la piena consapevolezza della peculiare
configurazione con cui la marca soddisferà le dimensioni funzionale,
simbolica ed esperenziale dei bisogni dei potenziali acquirenti.
Una volta che il cammino della marca ha preso slancio e le vendite
aumentano, bisogna porre come priorità la difesa della marca dai
competitori posti in posizioni di taglio inferiore. La dimensione funzionale
deve essere rafforzata assieme al carattere che, caso per caso, più incide
nella qualifica di problem solving, ma sono soprattutto le altre dimensioni,
adesso, ad offrire il maggior potenziale di sviluppo e rafforzamento della
I vantaggi dell’uscire con successo dal lancio di una nuova marca, e, in
particolare, quelli correlati al rappresentare il pioneer di una categoria di prodotto (il più
considerevole dei quali è quello per cui il nome della marca diviene talmente generico
da essere utilizzato per indicare l’intera categoria), verrà analizzato nel paragrafo 3.3.2..
1
- 164 -
marca. Occorre porre una particolare attenzione a mantenere la coerenza tra
l’immagine percepita ed il nucleo originale di significati dell’identità di
marca, intervenendo soprattutto per fortificare il sistema di associazioni
generato. Un particolare accorgimento consiste nel comunicare il
posizionamento della marca al segmento target ed al non-target, lavorando
nel contempo selettivamente con la distribuzione in maniera tale da
renderne difficoltoso l’accesso per quest’ultimo, sostenendo, in tal modo,
l’immagine percepita.
3) La fase di maturità. Quando il ciclo di vita della marca raggiunge
la sua fase di maturità, la pressione esercitata su di essa dalla concorrenza
si fa particolarmente forte. Numerosi competitori saranno presenti sul
mercato e ciascuno di essi cercherà di guadagnare quote di mercato ai
danni dei propri rivali, avversando con i mezzi a loro disposizione la
fedeltà alla marca leader.
Un’opzione assai frequentemente seguita è quella dell’ampliamento
di marca che, però, come vedremo nel paragrafo 3.4, sfruttando un’unica
immagine per esprimere diversi significati, deve essere intrapresa seguendo
un’estrema cautela in ordine di evitare una perdita di focus nella posizione
della marca di partenza in quanto ciò potrebbe avere conseguenze
disastrose per la capacità competitiva dell’impresa.
4) La fase di declino. Una volta iniziata la fase di declino, bisogna
valutare molto attentamente quale sia la strategia più opportuna tra le due
che, tipicamente, si presentano come quelle più proficuamente praticabili.
È possibile “riciclare” la marca trovando nuovi usi per essa, sia
attraverso la dimensione funzionale, sia sviluppando quella simbolica od
esperenziale. Il riposizionamento, che peraltro può essere intrapreso a
qualunque stadio del ciclo di vita, assume qui una rilevanza ancora
superiore essendo i suoi esiti determinanti per le sorti della marca.
Nel caso si convenga che non ci sia ulteriore spazio di utilizzo delle
suddette dimensioni occorrerà impegnarsi nel governare la marca nella fase
di declino eventualmente procedendo alla sua soppressione, nel qual caso,
specialmente se essa è collegata ad altre marche ancora sviluppabili,
bisogna cercare di minimizzare l’effetto scomparsa rendendola più morbida
possibile.
- 165 -
Secondo il particolare stadio del ciclo di vita in cui si trova la marca,
esistono diverse implicazioni finanziarie, come appare nella matrice 3.3,
che finiscono per coinvolgere la profittabilità di medio-lungo termine e
delle quali, perciò, l’impresa deve tenere conto. Se nei primi stadi la marca
necessita di un ingente supporto, nella fase di maturità dovrebbe generare
denaro.
Alta
Quota di mercato
Bassa
C
Flusso di cassa netto
positivo nel lungo
termine
B
Zero net cash flow
D
Flusso di cassa netto
molto positivo nel
breve termine
A
Flusso di cassa netto
negativo
Basso
Alto
Investimento sulla
marca
Figura 3.3 – Management finanziario della marca
Nella prima fase (quadrante A), l’attività promozionale a sostegno
del lancio della marca necessiterà dell’apporto di notevoli risorse
finanziarie, cui non si accompagnano considerevoli guadagni in termini di
quota di mercato, al fine di superare gli ostacoli frapposti dagli anelli di
difesa percettivi dei potenziali acquirenti, dalla concorrenza e degli
operatori a valle con i quali l’impresa dovrà costruire o rinsaldare i rapporti
veicolandoli nella direzione desiderata. L’impresa deve resistere alla
tentazione di recuperare parte degli ingenti investimenti in R&S attraverso
risparmi nell’attività promozionale, essendo quello il punto nel quale si
- 166 -
gioca il futuro della marca.
Al crescere dell’accettazione del mercato e dell’efficienza della
distribuzione, aumenterà anche la quota di mercato: l’impresa verrà a
trovarsi nella posizione delineata dal quadrante B, nel quale gli
investimenti iniziali cominciano ad essere recuperati. Questa situazione di
transito (verso il quadrante C od il quadrante D) segna il passaggio dalla
fase di sviluppo iniziale della marca a quella del suo successivo
mantenimento.
In D succede che i decisori, ossessionati dal profitto di breve
termine, taglino drasticamente gli investimenti in sviluppo e promozione,
ottenendo elevati flussi di cassa nell’immediato, ma compromettendo la
posizione della marca che, esaurita la spinta precedentemente acquisita,
intraprenderà ben presto con elevate probabilità una rapida discesa.
Benefici di lungo termine possono essere conseguiti mantenendo un
adeguato supporto di marketing di modo che la marca – affrontando un
mercato la cui crescita rallenta e nel quale la concorrenza, dato il livello di
saturazione, si fa sempre più agguerrita – resti in ogni caso collocata nel
quadrante C. Attraverso lo sfruttamento delle economie di scala e gli effetti
della curva di esperienza, la marca dovrebbe comunque rimanere in buona
salute. Nonostante il sostegno, può accadere che l’impresa, sentendo
affievolito il supporto del mercato diventato meno attrattivo mentre la
concorrenza si fa pressante ed i consumatori perdono interesse, diminuisca
il livello di risorse dedicate al perseguimento della posizione strategica con
il conseguente decremento della quota di mercato e, almeno per un breve
periodo di tempo, lo scivolamento nel quadrante D. Spesso, è quindi
l’insufficiente alimentazione della marca a determinare la perdita della
posizione ricoperta in favore della concorrenza.
3.3.2 – L’entrata nel mercato.
Il momento in cui la marca fa il suo ingresso nell’arena competitiva è
quello che forse maggiormente contribuirà a determinarne le sorti. Nessuno
costringe un’impresa ad entrare in un mercato, ma, nel momento in cui essa
intraprende questa scelta, deve essere forte di una strategia di
- 167 -
posizionamento adeguata al confronto con le caratteristiche e le esigenze
dei potenziali acquirenti e con ciò che richiede la lotta con la concorrenza
per la conquista degli spazi mentali.
Le configurazioni che la posizione può assumere in seguito
all’ingresso nel mercato, a parità di circostanze, sono generalmente diverse
secondo che l’impresa si presenti come pioneer o come follower.
Ordine di ingresso in un mercato e quota di mercato vengono spesso
messi in una relazione di ordine causale: il first-mover avrebbe quote di
mercato più elevate rispetto ai suoi più vicini follower, i quali, a loro volta,
goderebbero di un vantaggio verso gli ulteriori successivi entranti. Tuttavia,
se essere il first-mover offre un’opportunità indiscutibile di sfruttamento
dei vantaggi relativi all’ordine d’entrata, qualora si mantenga, attraverso la
fusione, un’adeguata visione degli eventi in atto, i fattori coinvolti nel
conseguimento di tali vantaggi sono considerevolmente più complessi del
semplice ordine di entrata. Allo steso modo, una partenza da capofila del
mercato di riferimento non è di per sé sufficiente per produrre sostenibili
vantaggi di differenziazione e di costo sui rivali in grado di generare una
dominante e duratura quota di mercato.
L’impresa può raggiungere lo status di first-mover in differenti modi.
Ad esempio, può essere la prima ad offrire un nuovo prodotto, usare un
nuovo processo od entrare in un nuovo mercato. In ognuna di queste
situazioni, che paiono intersecarsi vicendevolmente, l’iniziativa viene presa
in seguito all’individuazione di un créneau ritenuto praticabile, sulla cui
base viene poi sviluppata una coerente strategia di approccio.
Nel delineare caratteristiche e natura dei vantaggi che spettano al
first-mover è possibile, ed anzi conveniente, fare riferimento a due ordini di
prospettive: quella economica-analitica e quella comportamentale.
La teoria economica e le analisi ad essa associate usano un approccio
basato sui concetti di barriere all’entrata per spiegare questo genere di
vantaggio. La barriera all’entrata, consistente in costi che il potenziale
entrante, a differenza del competitore già insediato sul mercato, deve
sopportare, implica l’impiego di risorse addizionali per competere
efficacemente nel mercato. Tra le possibili barriere all’entrata riconosciamo
quelle originate da economie di scala, effetti di esperienza, asimmetria
- 168 -
informativa, differenze tra il primo e l’ultimo entrante negli effetti
marginali della pubblicità. Inoltre, l’imitabilità può risentire di una relativa
incertezza riguardo alla comprensione ambigua o addirittura errata delle
ragioni specifiche del successo della marca pioneer.
Come evidenzia Von Hippel, i vantaggi conferiti grazie alla
precedenza temporale acquisita favoriscono l’impresa leader in due modi,
sostanzialmente1. Durante il periodo in cui non c’è competizione, il firstmover è, per definizione, un monopolista, e può utilizzare questa posizione
per guadagnare profitti più alti di quanto sarebbe possibile in un mercato
competitivo e/o incrementare la dimensione complessiva del mercato
stesso. In seguito all’entrata dei competitori, il first-mover, avendo stabilito
una posizione di mercato ed economie da apprendimento, ha la possibilità
di mantenere una quota di mercato dominante e margini superiori rispetto
agli imitatori.
La prospettiva economica, che pure offre tanti spunti per cogliere
l’essenza del vantaggio che la marca pioneer consegue, deve comunque
essere contestualizzata: le diverse contingenze di mercato hanno, cioè,
un’influenza in senso moderatore delle varie forme con cui si esprime tale
vantaggio.
Altri sono gli aspetti posti in rilievo dalla prospettiva
comportamentale. La visibilità e la reputazione garantite da un’immagine
consolidata fanno sì che il first-mover trovi una minore resistenza da parte
dei potenziali acquirenti, il rischio percepito dai quali tende ad essere
minore nei riguardi della marca conosciuta. Inoltre, qualora gli entranti
introducano nel mercato nuovi concetti attraverso la marca, il leader ha la
possibilità, riproponendo quegli stessi concetti sotto le proprie insegne, di
intraprendere una tipica azione di copertura che, se ben portata, gli
consente di appropriarsene ai danni dell’innovatore. Questa “ingenerosità”
del mercato discende direttamente dal processo di sedimentazione delle
1
E. VON HIPPEL, Appropriability of innovation benefit as a predictor of the
functional locus of innovation, Working Paper # 1084-79, Massachusetts Institute of
Technology, 1984 (citato in: R. A. KERIN, P. RAJAN VARADARAJAN, R. A. PETERSON,
First mover advantage: a synthesis, conceptual framework, and research propositions,
Jorunal of Marketing, ottobre 1992, p. 34).
- 169 -
percezioni e dalla familiarità che il reiterarsi del contatto appagante e
stimolante con la marca induce.
Un importante ruolo nello sviluppare un vantaggio di origine
comportamentale è svolto dall’apprendimento nella formazione delle
conoscenze e delle preferenze di marca da parte del consumatore 1. Quando
il potenziale acquirente conosce poco circa l’importanza degli attributi del
prodotto e la loro combinazione ideale, il first-mover può riuscire ad
influenzare con successo il modo in cui gli attributi sono valutati,
definendo esso stesso la loro combinazione ideale. La naturale posizione di
leadership che viene solitamente attribuita all’impresa pioneer, le offre
l’opportunità di costruire a suo vantaggio la struttura delle percezioni del
mercato. La marca viene così ad assumere un nome generico che
conferisce, grazie al seguito originato, all’intera categoria di riferimento.
Quando la marca è in grado di divenire talmente generica da improntare di
sé l’intera categoria di prodotto, essa assurge alla dimensione di prototipo
sulla cui base avviene la valutazione di tutti i soggetti partecipanti alla
competizione, ben poco potendo fare i nuovi entranti per rimuovere questa
percezione se non rapportarsi ad essa in maniera congrua con la struttura
percettiva venutasi a determinare o tentare un riposizionamento
dell’avversario2.
Naturalmente, questa concezione del vantaggio che spetta al firstmover deve fare i conti con quanto avviene nella realtà. Non sempre tale
vantaggio viene adeguatamente sfruttato e sviluppato, restando gli attributi
ideali della marca dei valori vacanti il cui appannaggio conferirà il
conseguente giovamento a chi saprà individuare il giusto créneau meglio e
1
2
Il consumo, infatti, è, primariamente, un’esperienza di apprendimento.
Attraverso il riposizionamento dell’avversario l’impresa persegue un vantaggio
competitivo non rispondendo alle esigenze dei potenziali acquirenti, ma cercando di
influenzarne le preferenze in proprio favore. Solitamente si mira a demolire i punti sui
quali poggia l’immagine del concorrente diretto (spesso, dove la legislazione lo
consente, si ricorre ad aggressive campagne di pubblicità comparativa ai limiti, a volte,
della denigrazione).
Il riposizionamento si propone di diminuire l’impatto della distintività della
marca leader, sviluppando e stabilendo per essa una posizione più desiderabile dal punto
di vista del concorrente che lo attua.
- 170 -
prima degli altri. Né bisogna credere che i rapporti di forza instauratisi con
il conseguimento di una posizione di scopritore (potremmo dire, anzi – a
seguito ed in considerazione delle associazioni tra categoria e marca sopra
discusse – di creatore) della categoria stabiliscano delle atteggiamenti e dei
rapporti di forza inalterabili, ben potendo accadere che, per un proprio
errore strategico o per l’opera di riposizionamento o di spiazzamento posta
in essere da un concorrente, l’impresa leader presti il fianco ad un attacco
mirante ad occuparne la posizione. Nel momento in cui l’impresa firstmover non sceglie od esce dalla “corretta” posizione, si porrà in una
condizione di svantaggio relativamente agli entranti successivi, i quali,
grazie a quanto appreso dallo scorretto posizionamento del pioneer circa le
preferenze dei consumatori, potranno meglio posizionare le proprie
marche.
Perciò, sebbene il first-mover possa avvantaggiarsi della relazione di
causalità diretta che intercorre tra ordine di entrata e quota di mercato, per i
follower esistono le possibilità offerte dal posizionamento e da una forte
comunicazione dei concetti che esprime la propria marca1, anch’essi fattori
che si correlano positivamente all’acquisizione della quota di mercato.
Le possibilità di inserimento in un mercato come pioneer, si possono
presentare per un’impresa in seguito a mutamenti ambientali (ad esempio
relativamente alla tecnologia o alle esigenze dei consumatori). Tuttavia,
sebbene i cambiamenti ambientali costituiscano un’opportunità per
svilupparsi in una posizione di first-mover, la fruibilità dei vantaggi ad essa
connessi dipende dal grado di concordanza tra quanto è necessario in
termini di competenze e di risorse per capitalizzare le opportunità
ambientali e per sfruttare, traendone il massimo profitto, il meccanismo di
incremento del vantaggio del first-mover e quanto è effettivamente a
disposizione dell’impresa. In definitiva, l’impatto ultimo dell’essere
l’impresa pioneer dipende dall’abilità dell’impresa, dalle posizioni, dai
competitori e dai mutamenti ambientali.
1
Cui si affianca, solitamente, la scelta di un prezzo elevato, segnale di un attacco
dal segmento alto.
- 171 -
Andando oltre fuorvianti asserzioni circa un’improbabile relazione di
natura deterministica tra l’ordine di entrata nel mercato ed il vantaggio che
spetta al first-mover, occorre analizzare, facendo riferimento alla figura
3.41, quali siano, invece, i fattori che più contribuiscono a crearlo.
La sostenibilità del vantaggio posizionale relativo alla condizione di
marca pioneer dipende da tre requisiti:
1. Anche in seguito all’ingresso nel mercato di nuovi concorrenti, i
consumatori devono continuare a percepire la presenza di consistenti
differenze relativamente ad attributi importanti del prodotto o servizio
offerti dal first-mover rispetto a quelli presentati dai successivi entranti.
La marca pioneer deve, quindi, concentrare su di sé l’attenzione dei
potenziali acquirenti, consolidando la propria base di fedeltà. La
dimensione complessiva del first-mover advantage discende dall’effetto
netto prodotto dai rispettivi aspetti positivi e negativi della
differenziazione in termini dei criteri chiave di acquisto.
2. La positiva differenziazione della marca pioneer in termini dei criteri
chiave di acquisto deve porsi come l’immediata conseguenza delle
barriere all’entrata poste nei confronti dei potenziali concorrenti2. La
sostenibilità del vantaggio competitivo dipende in larga misura dalla
creazione delle condizioni per l’inimitabilità della posizione strategica e
degli attributi da essa espressi e che il potenziale cliente ritiene
importanti e riscontra nella marca.
1
Fonte: R. A. KERIN, P. RAJAN VARADARAJAN, R. A. PETERSON, op. cit., 1992,
p. 39.
Torna ad essere al centro dell’attenzione il concetto di trade-off così come
rimarcato nel capitolo 3.1.2.
2
- 172 -
Attrattività opportunità ambientali
First-mover
Strategia
competitiva - Competenze distintive
First-mover
Vantaggio
competitivo
- Competenze distintive
- Risorse
- Risorse
First-Mover Positional Advantage
DifferenCosto
ziazione
Fattori
Fattori di
Fattori
Fattori
economici prevenzione tecnologici comportamentali
Last Entrant
Advantage
-
Moderatori
Moderatori
Moderatori
Moderatori
Incertezz
a della
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Scala di
entrata
Investime
n-to
preventiv
o
Natura
del
prodotto
Tipo di
mercato
Efficient
scale-tomarket
size
Intensità
pubblicità
Evoluzio
ne del
mercato
Caratter
i-stiche
dell’inn
ovazione
tecnolog
i-ca
Mutamen
to
tecnologico e
discontinuità
Tempo di
risposta
-
Costi di
imitazione
Effetti del
free-rider
Economie di
scopo
Apprendiment
o dagli errori
del pioneer
Evoluzio
ne del
mercato
Asset
correlati
Economie
di scopo
Dimensione complessiva del First-Mover Advantage
Performance della
quota di mercato
-
-
Performan
ce
della
- Return on assets
profittabilità
- Return on sales
Assoluta
Relativa
Figura 3.4 – First-Mover Advantage: una struttura concettuale
- 173 -
3. La posizione strategica in termini di differenziazione derivante
dall’essere i primi ad entrare in una categoria viene minata alla base nel
preciso momento in cui gli importanti attributi su cui essa poggia non
vengono più visti come criteri di acquisto e di scelta significativi da
parte dei consumatori perdendo, gradualmente o repentinamente,
importanza. Il conseguimento di una consona e profonda fusione pare
essere, una volta di più, il principale obiettivo da perseguire con
pazienza, sensibilità e perseveranza, poiché si conferma come l’unico a
consentire un elevato livello di aderenza tra impresa e mercato.
I fattori sottostanti ai vantaggi di costo o di differenziazione possono
essere raggruppati in quattro categorie: a) fattori economici, b) fattori
preventivi, c) fattori tecnologici e d) fattori comportamentali. Il grado in
cui l’impresa first-mover riesce a sfruttare le potenzialità competitive
offerte da questi fattori risente, tuttavia, del verificarsi o meno di talune
circostanze che producono effetti moderatori del vantaggio competitivo.
A) FATTORI ECONOMICI
I fattori economici, relativi in gran parte ai vantaggi di costo, si
esprimono, essenzialmente, sotto forma di economie di scala e di
esperienza. Attraverso investimenti preventivi in capacità l’impresa firstmover può conseguire vantaggi di lungo termine sui successivi entranti, da
sfruttare nel momento in cui essi si espongono ad onerosi investimenti per
raggiungere costi comparabili. Se lo sfidante avverte la sconvenienza della
grande scala, cercherà allora di penetrare, con una piccola scala, in una
nicchia del mercato inadeguatamente coperta dall’impresa pioneer.
Esistono, comunque, molti elementi moderatori dei vantaggi
conseguibili attraverso i fattori di natura economica. Gli investimenti in
capacità possono essere difficilmente calibrati in presenza di incertezza
riguardo alla domanda futura ed alla scala ideale: a parità di altre
condizioni, esiste una relazione inversa tra l’incertezza della domanda ed i
vantaggi di costo relativi alle economie di scala conseguibili.
- 174 -
La “minima scala efficiente”, il più piccolo volume per cui i costi
unitari sono ad un minimo, se piccola rispetto alle dimensioni del mercato,
non costituisce una significativa barriera all’entrata. Perciò, più è piccolo il
rapporto tra minima scala efficiente e grandezza del mercato, minore sarà il
vantaggio di costo per l’impresa pioneer.
È da rilevare, inoltre, come esista un’asimmetria nei costi connessi
alla comunicazione. In seguito ai successivi ingressi nella categoria
concettuale, i nuovi competitori devono impegnare ingenti risorse creative
e finanziarie nella generazione e reiterazione dei messaggi pubblicitari.
Infatti, con il moltiplicarsi dei messaggi, aumenta il livello di rumorosità
con cui ha a che fare il potenziale acquirente, diminuendo, di conseguenza,
il valore e la portata di ciascun messaggio. Mentre il first-mover avrà,
generalmente, già tracciata l’opzione – di consolidamento della propria
posizione e della base di consumatori che la costituisce – da seguire, i
follower dovranno sovrastare la rumorosità catturando l’attenzione dei
consumatori attraverso messaggi creativi e altamente ripetuti, in modo da
sottrarli al leader. A seguito di queste considerazioni abbiamo che la
possibilità per il first-mover di conseguire un vantaggio di costo dovuto ad
asimmetrie nei costi di marketing è minore in mercati a bassa intensità di
pubblicità che in mercati dove tale intensità è più elevata.
Una notevole importanza è ricoperta, poi, dal tempo di risposta:
maggiore è il tempo che trascorre dall’entrata del first mover prima che un
follower si ponga in competizione con esso, maggiori sono le probabilità
per il primo di raggiungere elevati vantaggi di costo e differenziazione. Un
più lungo tempo di risposta permette all’impresa pioneer di consolidare la
propria posizione nella mente del target di riferimento attraverso la
prolungata esposizione che conduce ad una maggiore possibilità di
ritenzione nella memoria delle persone. Nondimeno l’allungarsi dei tempi
di risposta incrementa il gap di esperienza cumulata e l’investimento di
marketing che lo sfidante deve intraprendere per poter sottrarre clienti
all’impresa first-mover, andando ulteriormente in suo favore. Naturalmente
queste considerazioni producono effetti moderatori del vantaggio
posizionale nel caso in cui i tempi di risposta sono brevi.
L’ultimo elemento moderatore considerato, quello costituito dalle
- 175 -
economie di scopo, assume rilevanza soprattutto nel caso di imprese
multibusiness: i vantaggi conseguibili in forza delle economie di scopo
dipendono dalla presenza, nell’impresa first-mover e nelle successive
entranti, di una struttura multibusiness, e saranno positivamente correlati al
grado di interrelazione tra i diversi business gestiti.
B) FATTORI PREVENTIVI
Diversamente dai fattori economici, quelli preventivi forniscono una
base per il conseguimento sia di vantaggi di costo rispetto ai successivi
entranti (ad esempio stipulando contratti che assicurano la fornitura di
materie prime a costi inferiori), sia di vantaggi di differenziazione (per
esempio, preventiva occupazione di spazi percettivi, geografici o canali di
marketing).
L’asimmetria di costo relativa agli input può essere imputata ad una
superiore informazione del first-mover, il quale può acquisirli o può
concludere contratti, in modo da garantirsi vantaggi di costo sui futuri
entranti.
Attraverso la selezione delle nicchie più promettenti in termini di
segmenti di mercato o, comunque, di spazio percettivo o geografico,
l’impresa pioneer può, inoltre, conquistare un significativo vantaggio di
differenziazione. La prevenzione spaziale riduce i margini di manovra dei
nuovi entranti, i quali, collocati su posizioni poco attrattive e apportatrici di
minori quote di mercato, si trovano a dover operare su spazi ristretti ed in
condizione di inferiorità di forze, subendo, così, l’efficacia delle manovre
difensive attuate dal leader.
Anche i fattori preventivi incontrano degli elementi che ne vanno ad
attenuare l’impatto sul mercato. All’aumentare dell’incertezza circa la
domanda futura, diminuiscono i vantaggi conseguibili mediante
investimenti preventivi. La rilevanza del vantaggio di differenziazione è,
inoltre, direttamente correlata alla complessità tecnica e concettuale dei
- 176 -
prodotti1 e all’esistenza ed alla novità della categoria creata con l’entrata
del prodotto nel mercato.
C) FATTORI TECNOLOGICI
I fattori tecnologici di cui può beneficiare il first-mover sono
riconducibili alle innovazioni di prodotto e di processo ed alle innovazioni
organizzative. Le prime contribuiscono al miglioramento della performance
applicativa o concettuale del prodotto generando vantaggi di
differenziazione cui si può accompagnare, eventualmente, la
determinazione di un potenziale gap di costo nei confronti degli entranti
successivi. Questo meccanismo può essere alla base della sostenibilità del
vantaggio competitivo attraverso il rafforzamento della dipendenza
intertemporale della domanda (che tende a percepire la nostra identità come
quella della marca di riferimento) e della dipendenza intertemporale dei
costi (risultante dagli effetti della curva di esperienza che rimane di
spettanza dell’impresa pioneer). La continuità del mutamento tecnologico
va a rafforzare, inoltre, il vantaggio di cui gode a riguardo il first-mover.
L’innovazione organizzativa, assieme alla gestione delle risorse
umane, può determinare un vantaggio competitivo di imperfetta imitabilità
attraverso una maggiore produttività ed un approccio creativo alla strategia
di marketing.
Gli elementi moderatori dei fattori tecnologici sono riconducibili alle
diverse caratteristiche che può assumere il cambiamento. La natura della
tecnologia sottostante il cambiamento risulta essere, in proposito,
determinante: le innovazioni di processo conferiscono vantaggi, sia di costo
che di differenziazione, generalmente più duraturi rispetto a quelle di
prodotto, così come la fonte di conoscenza sottostante tacita è meno
imitabile di quella codificata. I sistemi di protezione legale
Anche l’ingombro costituito dagli stock accumulati dai membri del canale
distributivo e la profondità ed ampiezza della linea di prodotto possono,
determinandone la riluttanza a modificare le proprie attività, rappresentare, almeno in
prima battuta, un ostacolo per l’affermazione dei successivi entranti.
1
- 177 -
dell’innovazione sono meno efficaci all’aumentare del tasso di
cambiamento con cui essa si manifesta.
L’elevato tasso di mutamento tecnologico ed il livello di
discontinuità che possono venirsi a determinare mediante l’azione dei
nuovi entranti contribuiscono a sovvertire i rapporti di forza in campo
neutralizzando i vantaggi del first-mover relativi all’esperienza, il quale
rischia di vedere d’un tratto dissiparsi il valore dell’apprendimento
cumulato. Ne risulta una relazione inversa tra il tasso di cambiamento
tecnologico ed il vantaggio di costo dell’impresa pioneer basato
sull’esperienza. Per ragioni analoghe, la sostenibilità dei vantaggi di costo e
di differenziazione è maggiore in presenza di una continuità tecnologica
piuttosto che al verificarsi di discontinuità, per loro natura meno prevedibili
e gestibili.
D) FATTORI COMPORTAMENTALI
Questa classe di elementi determina la possibilità di conseguire
vantaggi di differenziazione. I costi di cambiamento, occorrenti nel
momento in cui, nell’ambito di una relazione, si passa dalla scelta di una
marca first-mover a quella di un nuovo offerente, siano essi sia di natura
contrattuale che extracontrattuale, comportano l’impegno di maggiori
risorse da parte dell’entrante nel tentativo di sottrarre, attirandola a sé, parte
della quota di mercato di cui dispone il leader. Lo scoglio più difficile da
superare da parte dell’entrante e, viceversa, la maggiore garanzia circa la
sostenibilità del vantaggio competitivo per la marca pioneer, è
rappresentato dalla “prototipicità” e dal vantaggio reputazionale ad essa
inerenti. La marca first-mover ha la possibilità di incrementare la
percezione di importanza e desiderabilità degli attributi che la
caratterizzano, generando una struttura di associazioni in grado di
rappresentare un prototipo ideale che fungerà da riferimento nelle
valutazioni che il consumatore sarà chiamato a considerare
successivamente all’ingresso nel mercato di nuove e diverse offerte.
Attraverso i suoi sforzi, soprattutto comunicativi, il first-mover ha
- 178 -
l’opportunità di influenzare con successo la percezione dei potenziali
acquirenti stabilendo a suo vantaggio la struttura concettuale di riferimento
per il mercato e diventando lo standard comparativo (marca prototipo) con
il quale si dovranno misurare i nuovi competitori. Come abbiamo notato in
precedenza, la possibilità di costruire, attraverso le esperienze e le
credenze, una reputazione che sia alla base di un vantaggio duraturo di
differenziazione in termini di immagine percepita, è tanto più rilevante,
quanto maggiore è il periodo di tempo nel quale non esistono valide
alternative di scelta.
Il gap temporale con cui le diverse marche entrano nell’arena
competitiva è la causa dell’asimmetria informativa e circa l’esperienza di
consumo intercorrenti tra il first-mover e gli altri competitori. Da un lato,
infatti, essendo rimasti esposti per un tempo maggiore ai messaggi del
leader di categoria ed avendo acquisito una più elevata quantità di
informazioni relative al momento dell’utilizzo, i consumatori hanno una
superiore familiarità con esso piuttosto che con i successivi entranti.
Quando i potenziali acquirenti non ricevono un adeguato livello di
informazione riguardo ai nuovi concorrenti, o quando esse non sono in
linea con le attese in parte derivanti dal modello di riferimento, allora
propenderanno per il mantenimento di una certa fedeltà nei confronti della
marca first-mover.
I numerosi e rilevanti vantaggi di differenziazione offerti dai fattori
comportamentali possono essere parzialmente mitigati da alcuni elementi
moderatori. Dal momento che il rischio percepito dal consumatore, e,
quindi, l’importanza attribuita alla ricerca di informazioni, varia a seconda
che riguardi prodotti la cui valutazione preceda o necessariamente segua il
momento dell’acquisto, quanto più essa è rilevante, tanto meno
l’asimmetria informativa costituirà una stabile base per il vantaggio
competitivo. Considerazioni analoghe valgono nel caso in cui i potenziali
acquirenti non sostengano elevati costi di ricerca e valutazione delle
diverse marche ed il rischio percepito in relazione ad un acquisto errato sia
poco rilevante1.
Ciò, ad esempio, può avvenire in seguito ad un’elevata frequenza di acquisto, a
causa della banalizzazione del consumo che ne consegue, per cui è possibile assumere
1
- 179 -
Il vantaggio di differenziazione derivante dai costi di cambiamento
di natura non contrattuale, è superiore nel mercato dei beni industriali
rispetto a quello dei beni di consumo, a causa dell’esperienza riguardo ai
diversi prodotti e processi che, nel primo caso, gli operatori sono capaci di
accumulare e sviluppare nel tempo. Inoltre, i costi di cambiamento, e
quindi i vantaggi per l’impresa pioneer, sono maggiori in quei mercati nei
quali gli acquirenti investono in asset cospecializzati, caratterizzati da una
dipendenza bilaterale che eleva le barriere costituite dai trade-off.
Infine, a causa della difficoltà di organizzare in struttura le attività
per renderle adeguate ai mutamenti che si producono nelle associazioni in
seguito alla rapida e caotica dinamica evolutiva del mercato, quanto
maggiore è il passo di tale evoluzione del mercato, tanto meno sostenibili e
duraturi saranno i vantaggi di costo e differenziazione attribuibili al first
mover.
I risultati ultimi in cui può essere espressa la performance del firstmover advantage, possono essere analizzati in termini di quota di mercato e
di profittabilità. La dimensione complessiva del first-mover advantage
risente, come appare in figura 3.4, degli effetti prodotti da una molteplicità
di fattori.
La strategia competitiva rileva sia riguardo alla specifica posizione
raggiunta in seguito alla costruzione del sistema di attività creato per
rispondere al meglio alle associazioni ritenute rilevanti, sia in rapporto ai
tempi di entrata nel mercato, i quali, in particolare, conferiscono
all’impresa il diritto di priorità rispetto a quella particolare posizione
divenendo causa prima della differenza di performance con i successivi
entranti.
Il competitore che entra nel mercato influenza i vantaggi conseguibili
dal first mover, potendo raggiungere buoni risultati in termini di costi e
differenziazione in diversi modi. In primo luogo può godere del cosiddetto
“vantaggio dell’ultimo arrivato” in base al quale va incontro a costi molto
che il vantaggio di differenziazione ottenibile a causa dell’avversione al rischio dei
potenziali acquirenti sia, a parità di condizioni, maggiore per prodotti caratterizzati da
una moderata frequenza di acquisto.
- 180 -
inferiori a quelli sopportati dal pioneer per creare la categoria e
successivamente svilupparla “educando” il mercato. L’imitazione costa
meno della creazione: l’entrante si va ad inserirsi in un qualcosa di già
esistente, beneficiando di conoscenze e processi da altri testati potendo,
quindi, concentrarsi sull’individuazione della posizione più idonea per
attaccare la quota di mercato del leader. Sebbene il first mover possa
mantenere un vantaggio riguardo ai costi, i successivi entranti, soprattutto i
primi, possono tuttavia riuscire a compensare almeno in parte tale
vantaggio attraverso una strategia di differenziazione atta a mettere in luce
l’unicità dell’identità di marca di cui sono portatori incontrando le
aspettative del mercato o creandone di nuove e più favorevoli, oppure
attuando un’opera di riposizionamento dell’avversario in modo da togliere
valore alla posizione da esso occupata.
3.3.3 – Il riposizionamento.
Riferendoci costantemente al concetto di posizionamento dobbiamo,
tuttavia, rimanere consapevoli che tale attività, intesa in senso stretto, sta ad
indicare, tipicamente, le situazioni in cui dobbiamo stabilire la posizione
iniziale di un nuovo prodotto o di una nuova marca. In realtà, i casi nei
quali le idee legate a questo concetto vengono più frequentemente utilizzate
sono quelli nei quali si tratta di correggere, apportandole le modifiche
necessarie, la posizione di una marca già presente sul mercato. In genere,
cioè, il problema è quello di ideare ed applicare una strategia di
riposizionamento.
La velocità con cui si presentano i mutamenti tecnologici, il rapido e
sempre più imprevedibile spostamento degli atteggiamenti dei consumatori,
l’aumento della competizione originato dalla globalizzazione non fanno
che rendere ancora più ricorrenti ed impellenti le situazioni nelle quali
necessita ricorrere ad un’azione di riposizionamento. Le imprese che,
mancando di un’adeguata visione e presenza, perdono di vista il mercato di
riferimento si lasciano rapidamente sfuggire le posizioni occupate, sia che
ciò avvenga ad opera della percezione dei potenziale acquirenti, sia che tale
posizione venga loro “soffiata” da concorrenti più attenti e reattivi.
- 181 -
La frammentarietà dei mercati e i sempre più intrecciati rapporti
concorrenziali che troviamo tra gli attori sull’arena competitiva rendono
frequente il presentarsi di opportunità od esigenze di mutamento della
posizione occupata, dando vita ad un nuovo, diverso, sistema di relazioni e
di potere. In genere, tuttavia, si tratterà di semplici aggiustamenti che non
necessitano di una profonda riformulazione strategica. In tal senso spinge la
consapevolezza che, soprattutto quando la marca fruisce di un elevato
grado di rilevanza e presenza nella mente dei potenziai acquirenti,
riposizionamenti troppo frequenti finiscono per generare principalmente
disorientamento nel pubblico aziendale, ponendola in una situazione spesso
peggiore rispetto a quella di partenza. Inoltre, il riposizionamento è attività
molto onerosa e impegnativa, trattandosi di far mutare percezioni ed
atteggiamenti che possono essere anche molto radicati: quanto più
profondo è il radicamento e quanto maggiore è la distanza mentale che la
marca deve percorrere per collocarsi sulla nuova posizione, tanto maggiori
dovranno essere le risorse finanziarie, umane ed organizzative messe in
campo affinché il riposizionamento abbia successo.
Esistono, fra le innumerevoli circostanze dalle quali può divenire
un’esigenza, delle situazioni paradigmatiche che esprimono il bisogno di
attuare un riposizionamento. Le principali cause originanti il passaggio del
riposizionamento da semplice opportunità a necessità sono date da:
- Cambiamenti negli atteggiamenti del consumatore;
- Cambiamenti della tecnologia la quale va a superare i prodotti;
- Deviazioni dei prodotti o delle marche dalla percezione consolidata
nella mente del consumatore.
La prima situazione si verifica allorché si verificano degli
spostamenti all’interno delle scale valoriali delle persone in generale e dei
consumatori in particolare, oppure quando si modifica la stessa struttura o
la natura di tali scale, le quali vanno ad assumere significati in parte o del
tutto differenti da quelli precedentemente loro associati. I sommovimenti
prendono corpo procedendo a partire dai mutamenti sociali di fondo,
- 182 -
articolandosi e caratterizzandosi man mano che le nuove concezioni delle
cose e dei rapporti tra esse vengono sovrapposte sostituendole a quelle
precedenti ed a loro corrispondenti. Vengono, in altre parole, create delle
associazioni non necessariamente nuove in senso assoluto, potendo
risultare in particolari rielaborazioni di concetti già espressi, che si
correlano in modo da dare forma a diverse strutture capaci, a loro volta, di
generare ulteriori associazioni.
Di fronte ad un cambiamento in moto perpetuo, l’impresa che abbia
dalla sua un’adeguata visione dall’interno e dall’alto del proprio ambiente
di riferimento conseguendo un elevato grado di fusione con il mercato non
abbisogna di un particolare momento in cui procedere al riposizionamento.
La ridefinizione della propria posizione si presenta, per essa, come
un’attività spontanea ed avviene quasi in tempo reale seguendo, in
sostanza, i principi dell’omeostasi. L’adeguamento dell’impresa e della
posizione da essa ricoperta avvengono, perciò, quasi impercettibilmente.
Pochi competitori sono, però, in grado di presentare una
partecipazione così sensibile con il mercato e di darne un’interpretazione a
tal punto pregnante, ed anche in presenza di una elevata sensibilità non è
detto, poi, che dispongano delle risorse necessarie per dare ad essa un
seguito. Generalmente, pertanto, i cambiamenti negli atteggiamenti dei
consumatori vengono interpretati non correttamente o, comunque, con un
certo ritardo. La rilevanza del fattore tempo deriva dalle possibilità che
offre o che toglie, secondo i casi, di operare un efficace riposizionamento.
Non è sufficiente, per il successo del riposizionamento, avere individuato
un nuovo créneau nel quale andare ad inserirsi, se esso risulta già occupato
da qualcuno, avendogli, l’esser giunto primo in quella posizione, molto
probabilmente consegnato l’opportunità di essere identificato
genericamente con la categoria e di appropriarsi delle principali
associazioni ad essa collegate.
La seconda determinante del riposizionamento, costituita dalla
presenza di cambiamenti tecnologici che vanno a superare i prodotti,
diviene ogni giorno più importante rendendo prioritario assumere un
atteggiamento aggressivo verso la propria posizione ed i propri prodotti,
mediante una cannibalizzazione autoindotta che, sola, pare offrire
- 183 -
ragionevoli speranze di sopravvivenza. Chi non è in grado di competere per
le prime posizioni del mercato deve perciò cercare delle nicchie nelle quali
concentrare le poche forze a sua disposizione1, per non limitarsi ad
aggrapparsi alla mera imitazione che strategicamente ha ben di per sé in
genere poco da offrire se non il mantenersi, precariamente, in vita.
Quando il mercato è maturo e la tecnologia cambia, quindi, per molte
imprese può divenire necessario puntare su un focus più adeguato alle
nuove esigenze ed alle risorse aziendali, anche se il cambiamento del focus
è una delle attività di marketing strategico più rischiose. La gestione delle
risorse è, in proposito, determinante, dovendo procedere al loro
adeguamento in maniera tale che, mentre viene rallentato il supporto al
prodotto originale, si utilizzino le risorse a disposizione per ridare al
prodotto o alla marca una posizione confacente alle nuove istanze di
sviluppo.
Il terzo ordine di problemi che può fare emergere la necessità di
concepire ed operare un riposizionamento ha un’origine interna ed è
costituito dalla deviazione dei prodotti o, peggio, del concetto di marca,
dalla posizione consolidata nella mente del consumatore. Capita, cioè, che
vengano attuate delle modifiche al sistema di attività e/o al sistema di
associazioni su cui si basa la posizione strategica senza che ve ne sia una
reale esigenza. È, in questo caso, l’impresa stessa che crea le premesse per i
propri problemi di immagine. La causa ultima è riconducibile, di solito,
all’errore di seguire una visione dall’interno verso l’esterno, piuttosto che il
contrario, seguendo una strategia magari ideale dal punto di vista
dell’organizzazione produttiva e dell’economicità di gestione (almeno fino
al momento in cui i prodotti sono collocati laddove dovrebbero venire
acquistati) che, però, risulta essere disastrosa dal punto di vista
dell’aderenza alle vere esigenze dei potenziali acquirenti e dalla
concordanza con l’immagine consolidata e ormai acquisita che essi hanno
della marca. Altre volte, invece, non è la visione dall’esterno verso
l’interno a venire meno, ma c’è un vero e proprio errore di valutazione
circa cosa il consumatore realmente desideri.
1
Cfr. par. 3.2.4.
- 184 -
In ogni caso, il risultato ultimo è quello di operare uno spostamento
non dovuto dalla posizione d’origine generando uno spiazzamento negli
acquirenti abituali1 che non viene assolutamente compensato dal
coinvolgimento di nuovi compratori i quali non trovano motivo, non
avendolo, per concedere alla marca le loro preferenze. Auspicabile pare,
perciò, un ritorno quanto più rapido possibile alle precedenti basi
competitive, nella speranza che nessuno tra i nostri concorrenti abbia nel
frattempo occupato la posizione che abbiamo lasciato scoperta.
Il paradosso di ogni riposizionamento è che si tratta di una questione
niente affatto semplice, essendo numerosissimi e interrelati gli elementi da
prendere in considerazione, mentre, nello stesso tempo, la soluzione deriva
da un ragionamento in cui la semplicità, portata all’estremo, si rivela spesso
come la giusta chiave di lettura. Infatti, dovendo attraversare tutti i corsi
che le percezioni fanno nella mente delle persone per giungere a
comprenderne le ragioni ed il punto di approdo, notiamo come, di fronte
alla complessità sempre più imperante in ogni momento della vita, sono
proprio le soluzioni più semplici e lineari ad essere preferite. La mente non
ama la confusione (questa è la ragione per l’esistenza delle scale valoriali
sulle quali vengono ordinate perone, cose, idee e percezioni) e tenerlo
sempre presente è il primo passo per fondersi idealmente con essa.
Alla base del posizionamento sta il concentrarsi su un’idea (anche
solo una singola parola) che definisca l’impresa nella mente dei potenziali
acquirenti. Un’impresa che abbia una marca ed una posizione ben
identificate gode di un valido punto sul quale incentrare la propria struttura
di attività per sfruttare le associazioni che il concetto evocato è in grado di
generare. La strategia deve essere focalizzata e non disperdersi in direzioni
Nel paragrafo 3.4 vedremo come i consumatori si aspettino un’impresa
altamente specializzata ed un orientamento molto ristretto e dedicato alle particolari
esigenze della categoria servita, soprattutto se essa ha conquistato una nicchia ed il suo
nome è largamente conosciuto. Perciò il consumatore diventa sospettoso s si verifica un
allargamento, ai suoi occhi ingiustificato, si questo orientamento.
Come conseguenza si ha, spesso, l’insuccesso delle estensioni (perlomeno in
relazione alle performance attese) e, quello che è peggio, una riduzione della quota di
mercato delle marche originali
1
- 185 -
che divergano da tale concetto. Capita, in effetti, che ci sia, da parte delle
imprese, un’ansia di movimento la quale viene concretizzata attraverso
azioni intraprese seguendo solamente il fascino di un’idea, senza che questa
si riveli in sintonia con quelle dei consumatori e con la posizione ricoperta
dalla marca. Altre volte, il timore dell’allontanamento da una posizione
dietro la quale ci si trincera, costituisce un ostacolo per procedere ad un
riposizionamento che, non solo può costituire una rilevante opportunità per
l’impresa, ma può essere necessario per togliersi da una situazione che
diverrà, col tempo, sempre più critica. A questo riguardo, il grosso sforzo e
l’impegno perseverante che l’azione di riposizionamento richiede,
costituisce indubbiamente anch’esso un rilevante freno alla sua intrapresa.
Attraverso il riposizionamento viene spostata la prospettiva con la
quale il mercato si pone rispetto al concetto di marca, portando il campo di
battaglia in un’area ad essa più favorevole, laddove risiede la forza di cui
dispone od è collocato il valore che i potenziali acquirenti ricercano. Dalla
nuova posizione identificata possono, inoltre, emergere nuove opportunità
in riferimento ad attività che le si concordano incrementandone il valore e
la rilevanza e che, altrimenti, non avrebbero potuto essere scorte. Di più:
sebbene il ruolo della comunicazione sia determinante, comunicare la
nuova posizione non è sufficiente, occorrendo anche divulgarla attraverso
nuove coerenti attività in grado di attivare le associazioni connesse al
concetto che identifica la posizione medesima.
Le basi nelle quali ricercare gli elementi del riposizionamento sono
le stesse viste per la determinazione della posizione iniziale. In primo
luogo, occorre posare la propria attenzione su quanto i potenziali acquirenti
percepiscono. Il lato della percezione che ci deve interessare è quello che
investe sia la generica categoria di riferimento, sia la nostra impresa, in
particolare. Sapere quali associazioni evoca nella mente dei consumatori la
marca1 ci permette di dare loro uno sviluppo, affiancandogliene
eventualmente di ulteriori e cercando di indebolire ed eliminare quelle
negative o fuorvianti. L’analisi della strutturazione della categoria e del
comportamento della concorrenza, identificandone la strategia di
1
Il problema è sempre quello di trovare dei collegamenti con quanto già esiste
nella mente degli individui.
- 186 -
posizionamento seguita ed il grado di aderenza alle aspettative del mercato,
costituisce un momento di primaria importanza nella determinazione della
nuova posizione, dal momento che ad ogni posizionamento strategico
corrisponde implicitamente un diverso insieme di concorrenti con cui
confrontarsi. Ulteriori elementi di supporto alla decisione di
riposizionamento possono essere forniti dalla stessa storia delle strategie
competitive seguite nel tempo dalla marca e, per quanto possibile, dai suoi
avversari: analizzandone le ragioni di successi e sconfitte, potrebbero alfine
emergere degli elementi significativi e ricorrenti da tenere in seria
considerazione.
3.4 – L’estensione di marca
L’estensione di marca costituisce uno degli argomenti su cui più si
dibatte, sia a livello accademico, sia a livello operativo, tra quanti si
cimentano con le problematiche della gestione delle strategie di
posizionamento e dell’immagine di marca.
In effetti, le ragioni che stanno all’origine del confronto delle diverse
opinioni e dei riscontri che vengono osservati nella realtà dei mercati sono
di primaria importanza per le imprese. Forte è la tentazione per chi si
occupa dello sviluppo di una marca, di un facile abbandono all’estensione.
Altrettanto forti, tuttavia, sono le argomentazioni di chi si oppone ad un
ricorso indiscriminato all’estensione di linea, risultando, anzi, generalmente
più rilevanti queste ultime.
Pertanto, ai fini della comprensione di questo cruciale momento della
competizione, si rende necessaria un’analisi che, partendo dalla
considerazioni delle ragioni che possono stare dietro ad una siffatta scelta,
coinvolga tutti gli aspetti da tenere in conto per giungere alla soluzione
migliore secondo le singole e diverse circostanze concorrenziali nelle quali
la marca è inserita. Approfondendo lo studio dell’estensione di linea ci
troveremo ad affrontare un argomento, il nome della marca, che
esamineremo più da vicino nel prossimo capitolo dedicato alla relazione tra
strategie di posizionamento e comunicazione, ma che inevitabilmente fa
avvertire la sua notevole influenza nel momento in cui i valori espressi
- 187 -
dall’identità di una marca vengono trasferiti ad un’altra.
3.4.1 – Le ragioni dell’estensione di marca.
Attraverso l’estensione di marca le imprese cercano di utilizzare il
valore di cui essa è portatrice per trasmetterne e diffonderne gli elementi
caratterizzanti a nuove marche e prodotti operanti in aree di business o
mercati diversi da quelli di origine. Si tratta di una scelta che ritroviamo
nella stragrande maggioranza dei lanci di nuovi prodotti, risultando assai
preferita rispetto all’ideazione e immissione di una nuova marca nell’arena
competitiva.
L’attrattiva che l’estensione presenta rispetto alle alternative
disponibili è difficilmente eludibile da parte delle imprese. Alla base di
questa opzione strategica stanno, soprattutto, ragioni di convenienza
economica: l’introduzione di una nuova marca su un determinato mercato
comporta investimenti notevolmente superiori rispetto all’estensione del
significato originario della marca ad altri prodotti ad essa collegati, e, del
resto, non esiste investimento che, per elevato che sia, garantisca
l’ottenimento di una posizione dominante o, comunque di un successo,
nella particolare categoria concettuale di riferimento. Anzi, ad una prima
generica considerazione, l’estensione di marca parrebbe affiancare
all’indubbia relativa economicità, una maggiore probabilità percepita di
conseguire gli obiettivi di mercato prefissati, in virtù degli effetti benefici
indotti dalla marca madre.
Attraverso questa strategia, l’impresa cerca di sviluppare appieno il
potenziale racchiuso nella propria immagine di marca, l’asset (intangibile)
che più di ogni altro contribuisce a realizzare una performance superiore. È,
in particolare, l’utilizzo del nome e dei simboli che ad esso sono collegati a
costituire la risorsa strategica che consente di penetrare nuove categorie.
Tuttavia, come vedremo nei prossimi paragrafi, quello che ad un primo
sguardo può sembrare un promettente sbocco per l’impresa, si rivela spesso
un segnale fallace e ingannevole per essa, tanto più pericoloso per il suo
futuro, quanto più l’illusione non si accompagna ad un’attenta e profonda
sensibilità di analisi. Ancora una volta, la mancanza di un’adeguata visione
- 188 -
strategica può indurre la marca, e l’impresa che essa rappresenta, a seguire
direzioni errate arrecando inevitabilmente, per giunta, un serio danno alla
posizione di partenza, con l’ulteriore rischio di non lasciarle la possibilità
di tornare sui propri passi senza pagarne le conseguenze. In altre parole, se
un nome di marca può non recare alcun vantaggio per l’estensione, nelle
ipotesi peggiori si possono creare delle associazioni negative coinvolgenti
il valore originale della marca.
Determinante, nella spinta all’estensione di linea, è il ruolo ricoperto
dalle associazioni nel contesto competitivo e nel favorire il posizionamento
e la sua comunicazione. Molto frequentemente, infatti, le decisioni di
acquisto sono prese tenendo in considerazione un numero limitato di
attributi del prodotto, rendendo ardua l’identificazione di un punto su cui
basare una differenziazione che sia allo stesso tempo credibile e
difendibile, soprattutto se abbiamo di fronte concorrenti di un certo livello.
Attraverso l’estensione l’impresa intende, quindi, trasferire
l’associazione a nuove classi di prodotto. I punti sui quali viene riposta la
maggiore attenzione sono riconosciuti da Tauber in alcune tipologie
principali1:
1. Proposizione dello stesso prodotto, ma in forma diversa. La natura
dell’offerta resta ancorata al concetto originale, variando la particolare
connotazione con cui verrà raggiunto il consumatore. Viene fatto questo
nel tentativo di presentare nuove e diverse occasioni d’uso per il core
value del prodotto.
2. Introduzione di un sapore, ingrediente o comunque un componente
diverso, alterando parzialmente l’attesa così come sedimentata
dall’esperienza passata del consumatore.
3. Prodotti che vanno insieme. Il perno dell’estensione è, in questo caso,
rappresentato dalla complementarietà che, attraverso un’offerta parallela
e congiunta, vorrebbe, almeno nelle intenzioni di chi la pone in essere,
1
E. M. TAUBER, Brand leverage: strategy for growth in a cost-controlled world,
Journal of advertising research, agosto-settembre 1988, pp. 26-30; citato in D. A.
AAKER, op. cit., 1997, p. 272 ed in L. DE CHERNATONY, M. MCDONALD, op. cit., 1998,
p. 315.
- 189 -
4.
5.
6.
7.
conferire un valore più elevato agli elementi coinvolti, la posizione dei
quali andrebbe a rinforzarsi vicendevolmente.
Servizi per il cliente. Vengono messi sul mercato dei servizi che,
sfruttando il collegamento con le associazioni dell’offerta primaria, si
pongono nel suo stesso mondo concettuale di riferimento. Fondamentale
è, in questo caso, rimanere coerenti con le associazioni generate dalla
marca di provenienza.
Expertise. L’estensione di marca può derivare dallo sfruttamento
dell’esperienza accumulata in una categoria di prodotto per il suo
utilizzo in un’altra categoria richiedente conoscenze in linea con essa.
Occorre, tuttavia, mantenere un certo controllo nel non cedere alla
tentazione di provare a penetrare in certi mercati nei quali la presenza di
expertise è condizione necessaria, ma non sufficiente per il
conseguimento della competitività. Se l’esperienza appare, infatti, come
un potente fattore attrattivo, occorre primariamente considerare la rete
di associazioni cui essa deve dare espressione evitando di commettere
l’errore di ragionare dall’interno verso l’esterno e non viceversa,
analizzando il problema dell’estensione di linea dal punto di vista del
potenziale acquirente e, risalendo all’origine, determinare la fattibilità di
un’estensione1.
Vantaggio/attributo/caratteristica unici. Simile all’estensione del
secondo tipo – che pare, anzi, generare –, deve tenere conto delle
associazioni connesse all’attributo dal quale trae origine e della loro
compatibilità con lo spazio che l’impresa si accinge ad approcciare.
Immagine associata2. La forte caratterizzazione conferita da
un’immagine associata alla marca dalla quale parte l’ampliamento
1
Se, in particolare, la marca occupa una posizione forte nella mente del
consumatore ed il nome che la esprime diventa talmente noto e generico da
rappresentare in sostanza un sinonimo della categoria di appartenenza affiancandosi
indissolubilmente al prodotto che personifica, allora l’estensione va contro la percezione
di tali importanza e generalità indebolendo la posizione originaria in quanto rende
sfocata l’immagine della marca nella mente stessa. L’errore è, in altre parole, quello di
banalizzare il mondo concettuale costruito intorno alla marca e all’immaginario
collettivo che il consumatore scopre e riconosce ora essere illusorio.
2
“Designer image or status”, nelle parole di Tauber.
- 190 -
concettuale può costituire un’importante opportunità di sviluppo, a
condizione di non tentare di ricollegarla ad elementi con i quali non
mostra di avere alcuna attinenza.
Accade in molte circostanze di riscontrare la debolezza di un
posizionamento basato sulle caratteristiche specifiche di un prodotto. Da
una parte, infatti, i concorrenti possono convergere sulla posizione
attraverso l’offerta di attributi analoghi (quand’anche non identici).
Dall’altra, l’immagine peculiare della marca è sempre più rilevante per la
sostenibilità della posizione e del vantaggio competitivo, rendendo evidente
la necessità di impostare la strategia competitiva sulla base di un’elevata
qualità percepita, la cui costruzione comporta spesso difficoltà maggiori
rispetto all’incremento della qualità effettiva1.
La consapevolezza dell’importanza dell’immagine della marca che i
potenziali acquirenti hanno è alla base del ricorso al collegamento con
marche prestigiose e consolidate. La reputazione di cui esse dispongono
fornisce un’indicazione di qualità inequivocabile e ben più rilevante della
maggior parte degli specifici attributi del prodotto o servizio. Perché il
nesso possa funzionare, occorre, però, che gli elementi alle sue estremità e
le rispettive categorie di appartenenza risultino compatibili e coerenti. In
caso contrario, infatti, si potrebbe addivenire ad un indebolimento della
marca principale, oltre che all’evidenziazione dell’inconsistenza delle basi
competitive di quella che va a ripararsi sotto l’ombrello della sua
immagine. Quando poi una marca viene sfruttata per permeare di sé un
grande numero di prodotti, si produce l’effetto di diluirne il valore in
maniera eccessiva, riducendo la sua qualità percepita e arrecando loro un
contributo ormai sbiadito e svuotato del significato originario.
Una volta che il pubblico si è fatto un’idea sull’immagine di una marca, come
abbiamo visto nel secondo capitolo, risulta assai problematico il tentativo di far mutare,
attraverso una riqualificazione dell’immagine percepita, l’atteggiamento acquisito e
ormai sedimentato.
1
- 191 -
3.4.2 – Aspetti problematici delle estensioni di marca.
L’esito ideale di un’estensione di marca dovrebbe essere il
rafforzamento dell’immagine dei prodotti o servizi coinvolti, andando tale
estensione ad assumere una connotazione positiva e costruttiva. Il
realizzarsi di questa situazione ottimale è tuttavia lontano dal presentarsi
così frequentemente da costituire una regola. In alcuni casi, troviamo come
la marca d’origine sia da impedimento all’estensione, in altri, peggiori, è
quest’ultima ad arrecare conseguenze negative alla marca principale,
compromettendone valori e posizione competitiva.
A volte, l’estensione di marca poggia sul mero conferimento ad un
prodotto di un nome con un’immagine affermata e che gode di una sua
rilevanza, allo scopo di trasmettergli visibilità e credibilità. Quella che ne
risulta è, in definitiva, una manovra opportunistica dalla quale con tutta
probabilità non sortiranno effetti positivi di lunga durata.
Nonostante il presumibile successo iniziale, la posizione conseguita
seguendo questa strada presenta un’elevata vulnerabilità, rivelandosi, con il
dispiegarsi nel tempo delle forze concorrenziali e con la constatazione
dell’assenza di reali valori che diano spessore alla marca, assai poco
sostenibile. Se nell’immediato, infatti, il collegamento al nome originale
che gode di una propria notorietà facilita la comprensione del concetto
proposto1, con il passare del tempo l’effetto novità svanisce e subentra la
confusione: dopo un po’ il consumatore disperde il messaggio
dell’estensione nel rumore ambientale e non è nemmeno più sicuro che il
prodotto ad essa relativo esista effettivamente, essendo la visibilità del
prodotto confusa a quella degli altri prodotti dei quali la marca primaria
consta; anzi, buona parte dei problemi di messa a fuoco che i consumatori
Non è solo il consumatore a presentare, nell’immediato, un elevato grado di
ricezione del messaggio portato dall’estensione, venendo anche incoraggiato ad un
acquisto di prova. Anche i distributori, possono, inizialmente, accettarla di buon grado
confidando sulla reputazione della marca ombrello, salvo poi ritirare il sostegno non
appena si accorgono che il mercato, dopo l’attenzione del primo momento, perde il suo
interesse per la marca estesa. È questo il momento in cui iniziano i guai seri per
l’impresa.
1
- 192 -
hanno paiono essere direttamente imputabili alla pratica dell’ampliamento
di linea.
Proprio perché i nomi da estensioni di linea non occupano una
posizione indipendente nella mente del consumatore, essi non richiedono
pressoché nessun sforzo ritentivo da parte del consumatore e tendono ad
essere dimenticati con estrema facilità. Un fattore decisivo nel
conferimento di valore dal nome della marca di origine al nuovo prodotto è
poi dato dal fatto che la categoria concettuale di riferimento sia o no
consolidata.
Il punto cruciale da considerare per valutare se un nome sia
effettivamente in grado di creare valore è costituito dalle associazioni che
esso genera: mentre alcune possono apportare benefici significati alla
marca quale essa risulta dall’estensione1, altre possono lasciarla del tutto
indifferente, quando poi non producono risultati che ne deteriorano il
valore.
Ogni volta che una strategia di estensione di marca viene posta in
essere l’impresa deve perciò tenere conto di tutti i più sottili vincoli che
l’ampliamento di significati comporta e prendere le dovute misure
cautelative e/o correttive. Una tecnica che in talune circostanze permette di
ridurre o eliminare le associazioni negative consiste nell’aggiungere alla
marca un ulteriore nome che possiede le connotazioni giuste per
riequilibrarne i significati. Lo stesso effetto può derivare dall’elaborazione
del concetto originario del prodotto. Bisogna comunque porre attenzione a
che non aumenti invece il livello di confusione ed al fatto che un
particolare nome preso come base per l’estensione possa far pensare ad un
prodotto anche molto differente e distante da quello nelle nostre intenzioni
offerto.
La coerenza diviene attributo fondamentale quando si attua un
ampliamento di linea. In assenza di un adeguato grado di coerenza, infatti,
le associazioni desiderate non verranno trasferite da un prodotto all’altro,
1
Ad esempio, un nome che richiama una caratteristica del prodotto la quale non
rientri tra quelle prese in considerazione ai fini della scelta, attraverso il processo
associativo, dal potenziale acquirente, contribuisce solo apparentemente ad accrescerne
il valore per il mercato.
- 193 -
ma saranno in grado di produrre effetti fuorvianti che potrebbero investire
anche la marca di riferimento: è l’estensione, in altre parole, che deve
adattarsi al prodotto, e non il contrario. Il potenziale acquirente deve
trovarsi a suo agio con il concetto della marca in estensione, affinché si
realizzino gli effetti desiderati.
Diverse possono essere le basi sulle quali impostare la coerenza, tutte
ricavabili dalle particolari associazioni comuni che vengono attivate.
Una base di coerenza può essere rintracciata nei collegamenti tra le
due categorie relate. Tra tali categorie possono sussistere diverse relazioni
in funzione dell’accettazione dei concetti sottostanti:
- Trasferibilità delle capacità e delle risorse, in base alla quale si ha la
percezione che la marca possieda le risorse e le capacità necessarie per
sviluppare l’estensione;
- Complementarietà, secondo cui l’estensione viene associata con la
categoria associata alla marca.
La coerenza può basarsi anche su attributi funzionali relativi alle
prestazioni del prodotto, o su caratteristiche intangibili come lo status o il
prestigio. Le possibilità che il prestigio offre per l’estensione di marca si
presentano, poi, notevolmente più ampie rispetto a quelle che derivano
dagli attributi funzionali in virtù del maggior potere evocativo e della
inferiore imitabilità. Esistono, oltre a ciò, altre numerose potenziali basi di
coerenza (ad esempio la tipologia di utenti, il luogo di provenienza, i
simboli…), la scelta delle quali non può prescindere dalle peculiari
circostanze competitive nelle quali la marca si trova ad operare.
I deterioramenti più grandi che l’immagine di marca possa subire,
oltre a quelli che traggono origine dalle azioni di riposizionamento della
concorrenza poste in essere dai nostri competitori, sono quelli provocati
dalle nostre stesse azioni. Una strategia di estensione della marca può
arrecare seri danni all’integrità della marca originale: attraverso la
creazione di associazioni indesiderabili vengono modificate quelle in essere
ed intaccata la qualità percepita.
- 194 -
L’estensione, per sua natura, crea generalmente nuove associazioni le
quali devono accordarsi con quelle già presenti ed attive. Può essere,
quindi, che alcune tra le nuove associazioni risultino potenzialmente
dannose per la marca originale, anche in relazione alla categoria nella quale
essa è contestualizzata. Il trasferimento delle associazioni negative non
sembra, tuttavia, avvenire in maniera sistematica. Piuttosto, ricorrono
alcuni fattori nel determinarlo o nel contrastarlo. Ostacolano tale
trasmissione una particolare forza che caratterizza le associazioni
originarie, così come l’esistenza di una netta differenza tra la marca
originaria e l’estensione ed il caso, in parte opposto, nel quale tale
differenza non è così estrema da fare apparire incongrua l’operazione.
Le associazioni di marca create da un’estensione possono rendere
sfocata un’immagine che faceva della nitidezza e della caratterizzazione i
propri punti di forza assurgendo a risorsa strategica dell’impresa. Questo,
in particolare, accade nel caso in cui la marca fosse riuscita ad
“impossessarsi” della categoria mentale di riferimento, venendo
quest’ultima ad essere identificata, per il tramite delle associazioni
instauratesi, con la prima1. Altre volte, si può invece determinare un’utile
associazione tra la categoria ed un particolare tipo di prodotto 2. Occorre,
pertanto, sviluppare una spiccata capacità di giudizio in merito alla
coerenza complessiva del sistema di associazioni così come risulta dal
processo di estensione.
Un secondo modo, tipico, attraverso cui l’estensione può sottrarre
valore alla marca si ha quando ne viene intaccata la qualità percepita. Il
problema sorge in quanto l’eccellenza della qualità percepita costituisce per
la marca un asset fondamentale e la base di un duraturo vantaggio
competitivo.
Emblematico di questa situazione critica è il caso nel quale la marca
viene associata ad un bene con un prezzo marcatamente inferiore,
1
Possiamo individuare il momento nel quale questo avviene quando il nome
della marca assume una connotazione generica volta ad esprimere l’intera categoria.
2
Pare esserci, comunque, un maggiore spazio di manovra nel caso in cui
l’associazione di marca non è collegata al prodotto, in modo da non incidere sulle
associazioni esistenti.
- 195 -
venendosi seriamente ad amplificare il rischio di sminuire l’immagine e la
qualità percepita della marca di origine. I consumatori, infatti, risultano
disorientati dallo svincolamento della marca dalla posizione occupata nel
proprio mondo concettuale perdendo fiducia sulla sua capacità di
mantenere in essere le associazioni promesse attraverso l’immagine
proiettata. Molto dipende anche dalla forza relativa della marca originaria e
dell’associazione generata: una marca molto forte cui viene dato seguito
attraverso un’estensione debole avrà maggiori probabilità di superare il
rischio senza incorrere in danni troppo elevati.
3.4.3 – L’approccio multimarche.
È possibile porre un argine alla diffusività connessa alle associazioni
negative cui si può dar vita nell’ambito dell’estensione di linea attraverso
un approccio multimarche alla competizione. In base a tale strategia
l’impresa viene ad essere un contenitore che racchiude in sé una
molteplicità e varietà di significati. L’impresa, in altre parole, si affaccia
sul mercato non attraverso una unica marca dal cui valore attingere nel
momento in cui viene attuata un’estensione, ma proponendosi come un
gestore di marche virtualmente indipendenti e sovraordinato ad esse1.
La scelta se adottare una strategia di estensione della marca o
competere attraverso una molteplicità di marche ben distinte l’una dall’altra
(quanto, soprattutto, all’immagine percepita dai potenziali acquirenti) è,
sostanzialmente e con le dovute cautele, una questione di prospettiva2. Le
imprese, attraverso ragionamenti condotti troppo spesso dall’interno verso
È, questo, ad esempio, l’approccio seguito dalla Procter & Gamble. La P&G
posiziona attentamente ogni prodotto in modo che vada semrpe ad occupare uno spazio
1
specifico nella mente del potenziale acquirente.
2
Non bisogna dimenticare che la scelta di operare un’estensione di linea non è,
in sé, l’unico fattore determinante il risultato ultimo della competizione. Non è, infatti,
sufficiente tracciare una linea lungo la quale procedere, occorrendo poi anche
perseguirla con perseveranza e convinzione. Per dare una valutazione equa della
strategia adottata è opportuno tenere in considerazione, ad esempio, il budget
pubblicitario messo a sua disposizione, il basso livello del quale potrebbe essere di per
sé una forte concausa della mediocre performance conseguita.
- 196 -
l’esterno, considerano di frequente le marche solo dal punto di vista
economico. Così, sono disposte e pronte, in nome di un risparmio in
termini di costi e di accettazione commerciale, a trasformare una marca
fortemente focalizzata – in grado, cioè, di identificare, da sola, un certo tipo
di prodotto o un0idea – in una che rappresenti allo stesso tempo una
pluralità di prodotti o di idee, incuranti del fatto che un nome non può, in
generale, sostenere con successo più di un concetto. Questo sta a significare
che due prodotti sono tanto meno rappresentabili da una stessa marca,
quanto maggiore è la differenza che corre tra loro e la distanza che li
separa.
Anche se lavorare solo su un’unica marca, eventualmente estesa, può
comportare dei risparmi in termini di costi di marketing1, l’esperienza ha
dimostrato che le marche multiple possono tradursi in maggiori quote
complessive di mercato. Un punto importante, nello sviluppare una
struttura a marche multiple, consiste nell’intraprendere un approccio di tipo
complementare: bisogna, cioè, sistemare le marche in modo che siano
complementari l’una con l’altra, piuttosto che reciprocamente competitive.
Il fatto che ogni marca vada ad occupare una determinata e diversa
posizione permette di coprire un più ampio fronte attraverso i principali
segmenti del mercato di riferimento, bloccando in partenza i possibili spazi
di manovra di cui dispongono i concorrenti: il riposizionamento viene in
questo caso attuato oggi anche in funzione di prevenire le possibili
offensive di domani facendoci trovare già posizionati e pronti ad
affrontarle.
Perché un approccio al posizionamento basato su marche multiple
complementari tra di loro possa funzionare, occorre la simultanea presenza
di tre elementi:
- Nomi diversi;
- Posizioni diverse;
1
La gestione delle singole marche facenti parte della stessa architettura multipla
deve essere affidata a strutture separate, nell’ambita di un disegno e di una
coordinazione unitaria che deve mantenere il controllo su tale architettura e sulla
differenziazione conseguita.
- 197 -
- Target diversi.
Nel caso in cui uno o più di essi non sia posseduto dall’impresa,
occorrerà svilupparli in maniera opportuna e coerente con le associazioni
indotte dagli elementi invece presenti.
Più la marca viene variata rispetto al suo significato originale, più la
mente avrà problemi di messa a fuoco, aumentando la vulnerabilità ad
eventuali attacchi da parte della concorrenza. L’errore strategico è ancor
maggiore se a compierlo è chi dovrebbe condurre una guerra difensiva.
Quando l’impresa leader perde il proprio focus per spostarsi su una
posizione troppo generalista ed a bassa definizione, allora il gioco
competitivo volge in favore del concorrente specialista che meglio esprime
i concetti associati alla categoria che rappresenta. Il competitore specialista
ha dalla sua le possibilità offerte dal focalizzare l’attenzione su un unico
prodotto, un vantaggio, un messaggio. Inoltre può, meglio di qualunque
generalista, riuscire a farsi percepire come l’operatore più qualificato ed
esperto per la categoria, rinsaldando in questo modo la propria posizione.
Se poi il leader generalista lascia disponibile la posizione occupata, si
presenta, per lo specialista, l’opportunità di divenire, in virtù della
superiore credibilità riconosciutagli, il “generico” della categoria, che
verrebbe, così, ad essere identificata con il suo nome.
I vantaggi offerti dal seguire l’opzione multimarche derivano dalla
creazione di compartimenti stagni sviluppabili separatamente seguendo
strategie ad hoc in modo da non coinvolgere le marche sorelle e limitando
al massimo il ricorso alle estensioni. Ci si accorge dell’efficacia e
dell’avvedutezza dell’approccio multimarche soprattutto quando si verifica
un qualche evento di notevole impatto negativo che, in presenza di forti
associazioni tra le marche, provoca danni tanto più estesi e difficilmente
riparabili quanto più numerosi sono i prodotti ed i significati coperti dalla
marca.
Ancora più frequenti sono i problemi relativi al processo di
cannibalizzazione cui un’estensione di marca può dare avvio. È importante,
in proposito, distinguere tra quanto è frutto di una strategia deliberata e
quanto, invece, una conseguenza imprevista. Una strategia idonea, in certe
- 198 -
circostanze, ad affrontare la concorrenza – ed una specificazione di quanto
abbiamo in precedenza discusso1 circa l’opportunità di attaccare se stessi –
consiste, appunto, nel creare un processo di cannibalizzazione in maniera
da anticipare le mosse della concorrenza ed occupare posizioni strategiche
che, senza l’apparizione dei nuovi prodotti, sarebbero risultate
pericolosamente scoperte. Altra situazione è, invece, quella nella quale ci
ritroviamo in seguito ad eventi da noi provocati attraverso l’estensione, ma
non desiderati né auspicati in partenza: in questo caso, se un’estensione di
marca guadagna spazio e vendite a scapito della marca originaria diventa
piuttosto improbabile che le nuove vendite addizionali compensino il danno
inferto al valore di quest’ultima. È interessante notare come i problemi di
cannibalizzazione siano direttamente proporzionali al grado di
sovrapposizione dei segmenti coinvolti nell’estensione di linea
coinvolgendo implicitamente il livello di coerenza nei termini in cui lo
abbiamo in precedenza delineato2.
Nondimeno la separazione tra marche portatrici di identità, concetti
ed immagini diverse ha un forte impatto propositivo: ognuna di esse non
risente dei vincoli posti dalle associazioni che fanno riferimento alle altre,
potendo sviluppare le strategie che più sembrano adatte alla competizione
nella particolare categoria di riferimento.
L’approccio multimarche alla strategia competitiva consente di avere
una maggiore predisposizione alla creazione di nuovi nomi per sfruttare
valori potenziali legati a posizioni ancora non occupate o non sfruttate
adeguatamente. Mediante un nome nuovo per la marca è possibile disporre
di un veicolo attraverso il quale generare nuove e distinte associazioni
senza trascinarsi dietro quelle vecchie. Inoltre, se si opera con tempestività,
si può godere del vantaggio del “first mover”, ovvero compiere la prima
mossa penetrando una categoria con un prodotto il cui nome spiega la sua
funzione e, con l’accrescersi della notorietà, diviene abbastanza generico da
stare ad indicare la stessa categoria di appartenenza.
1
2
V. cap. 3.2.1.
V. cap. 3.4.2.
- 199 -
Anticipando quanto verrà espresso nel prossimo capitolo a proposito
della scelta di un nome, possiamo indicare i fattori dei quali si impone
un’attenta valutazione nella creazione di un nome nuovo ed unico:
- Forza delle associazioni legate al nome e loro utilità descrittiva
dell’identità di marca comunicata;
- Forza ed utilità del nome in funzione della formazione di una fedeltà di
marca e di un vantaggio competitivo sostenibile nel tempo;
- Costi che il nuovo nome comporta riguardo alla sua creazione e
consolidamento, alla sua visibilità ed alle associazioni che esprime
3.4.4 – Le estensioni di marca verticali.
L’estensione di marca può seguire il solco tracciato da esigenze e
condizioni di mercato tra loro anche molto diverse. A riguardo, è possibile
individuare nelle estensioni orizzontali e in quelle verticali le forme “pure”
entro le quali rientrano le variegate situazioni che si vengono a verificare
nella realtà. Le prime corrispondono alla volontà dell’impresa di sfruttare
spazi e possibilità che si vengono a creare a lato dell’offerta esistente e che
si ritiene possano proficuamente essere occupati attribuendo nuovi e diversi
contenuti alla marca. In realtà, non si tratta, a rigore, di vere e proprie
estensioni, ma di operazioni di arricchimento dell’offerta attraverso un
assortimento diversificato, salvo che la marca non debba percorrere
distanze molto lunghe dalla posizione originaria.
Le estensioni verticali di linea, spostamenti della marca verso
mercati apparentemente attraenti sopra o sotto la sua posizione corrente,
rispondono ad esigenze diverse1. Anche se spesso la tentazione offerta da
segmenti emergenti di tipo premium o “value” diviene irresistibile, in
realtà, numerosi sono i pericoli connessi ad una siffatta strategia e di essi
occorre tenere accuratamente conto nel valutarne la fattibilità. In
Per una approfondita trattazione dell’argomento si veda D. A. AAKER, Should
you take your brand to where the action is?, Harvard Business Review, settembreottobre 1997, pp. 135-143.
1
- 200 -
particolare è l’immagine di marca a rischiare di essere distorta,
determinando un impatto negativo su quella di origine.
Il movimento verticale rivolto verso il basso, verso il territorio dei
segmenti “value”, solitamente si riconduce ad opportunità relative al basso
costo che emergono entro l’attuale canale distributivo della marca. Questo
tipo di estensione verticale promette incrementi di volumi di vendita ed
economie di scala, assieme ad una maggiore protezione contro private
labels e competitori dal lato del prezzo in genere. Il rischio per la marca è
quello di perdere la statura cumulata grazie alla posizione di prezzo
relativamente superiore cui si connette la percezione di una qualità
superiore. Per ovviare a tale pericolo, una strada percorribile è, al solito,
quella che vede l’introduzione di una marca del tutto nuova, la quale,
tuttavia, incontra degli impedimenti di rilevante portata nell’onerosità
dell’operazione che ne deve affermare l’identità e nel fatto che andrà
presumibilmente a scontrarsi contro forti barriere distributive1.
Un’opzione alternativa al lancio di una nuova marca è data dal
riposizionamento dell’intera marca su un nuovo mercato ed il modo più
semplice per farlo in un movimento verso il basso è attraverso un taglio del
livello del prezzo. Anche questo genere di strategia presenta i suoi rischi: se
da una parte comporta immediate e pesanti ripercussioni finanziarie
potendo dare il via a dure guerre di prezzo, dall’altra può arrecare seri
danni all’immagine di marca rinforzando eventuali convinzioni da parte dei
potenziali acquirenti circa una sua carenza di differenziazione e di qualità
in genere. Pertanto, l’impresa, nel ridurre il prezzo, dovrebbe cercare di
alimentare nel consumatore circuiti mentali tali da razionalizzare da parte
sua l’utilità del taglio dei prezzi, in modo da ricondurlo nell’ambito di una
serie di attività incentrate su una logica giustificativa ed anzi auspicabile
anche da parte sua, riconoscendo implicitamente che gli aspetti qualitativi
1
I distributori dovranno essere convinti che la marca ancora non insediata in
alcuna posizione del mercato ha buone possibilità di sopravvivenza e di sviluppo e
aggiunge valore alla loro linea per accettarla e, inoltre, per assumere un atteggiamento
collaborativo nei suoi confronti. In questo contesto, la nuova marca sarà probabilmente
meglio accettata se avrà dietro un’impresa di riconosciuta forza e capacità di
affermazione nel mercato.
- 201 -
dell’offerta non sono stati toccati1. Inoltre, la valutazione sull’opportunità
di una simile manovra deve tenere conto dello stato della forza di cui
dispone la marca: un’immagine debole non può sostenere tale operazione
rendendo la rivitalizzazione irrealizzabile. Un ulteriore modo per spostare
verso il basso il posizionamento di una marca consiste nel creare del valore
e della differenziazione di modo che la marca non sembri più overpriced.
Se il corpo dei clienti di riferimento della marca è disponibile a
pagare un premium price, appare inappropriato e senza possibilità di ritorno
di adeguati benefici lo spostamento dell’intera marca su una posizione di
mercato più bassa al fine di attirare nuovi acquirenti (si tratterebbe, nella
migliore delle ipotesi di cambiare un gruppo di consumatori con un altro,
con l’aggravante di una probabile riduzione dei margini che dovrebbe
essere coperta con un ampliamento dei volumi di vendita il cui grado di
plausibilità è tutto da dimostrare). In queste condizioni, la scelta da vagliare
dovrebbe essere quella di una sottomarca: una marca con il suo proprio
nome che usa quello della marca madre per sostenerne il valore.
Il vantaggio principale offerto da una sottomarca è quello di
coadiuvare la differenziazione della nuova offerta da quella della marca
madre mentre si utilizza la forza di quest’ultima per influenzare la
percezione da parte dei consumatori. d’altra parte, la credibilità ed il
prestigio della marca di origine vengono salvaguardati evitando, a
corollario, i rischi di cannibalizzazione.
Diversi tipi di relazioni vengono a stabilirsi tra sottomarca e marca
madre secondo che prevalga la prima nel guidare i consumatori
1
Il rischio di un danneggiamento dell’immagine di marca può essere mitigato
fornendole un supporto promozionale nel momento stesso in cui avviene la riduzione di
prezzo in modo da far avvertire che, nonostante esso, la marca resta in pieno sviluppo e
riceve le tutte le attenzioni del caso senza che vi sia un disimpegno da parte
dell’impresa madre. Quest’attività di sostegno, tuttavia, si scontra con la tendenza
diffusa di chi si occupa di gestire la transizione a cercare di mantenere fermi i margini
nonostante l’abbassamento del prezzo. In assenza di tali investimenti sulla sua
immagine, in effetti, la marca rischia di rimanere percepita solamente in funzione del
prezzo.
- 202 -
all’acquisto1, che abbiano pressoché la stessa influenza, o che sia la marca
madre ad avere la maggiore influenza, con la sottomarca che svolge
essenzialmente il ruolo di descrittore che avverte i potenziali acquirenti che
si tratta di una leggera variante sullo stesso prodotto o servizio che essi ben
conoscono2. Comunque, non si tratta di una ripartizione rigida e, per
ognuno di questi tipi di relazione, è possibile riscontrare l’esistenza di
diverse gradazioni di intensità della caratterizzazione loro propria.
L’obiettivo che sta dietro la scelta strategica di spostare una marca
dalla parte principale del mercato verso l’alto è costituito dall’ottenimento
di margini superiori, ma, spesso, risulta essere ancora più importante il
contributo che il segmento superiore offre alla rivitalizzazione di interi
gruppi di prodotti altrimenti “stanchi”. Affinché una marca posizionata
nella parte media del mercato possa essere in grado di alterare la propria
immagine in misura sufficiente per poter competere nei segmenti alti, essa
deve disporre di un elevato grado di credibilità presso i consumatori,
poiché, inevitabilmente, essi si porranno la questione se una marca con
determinate caratteristiche contenutistiche ed espressive dispone della
capacità e della conoscenza necessarie per competere ad un livello
superiore ed offrire i benefici funzionali ed emozionali promessi 3. Come
Se è la sottomarca a prevalere sulla marca originale l’impresa ha la possibilità
di ridurre il rischio di cannibalizzazione e di minimizzarne i danni attraverso una loro
gestione attiva e coerente.
2
Questa è l’opzione più rischiosa, rimanendo la marca madre vulnerabile alla
cannibalizzazione a causa delle minime distinzioni avvertite tra l’una e l’altra marca
collegate. Tale rischio è massimo quando la sottomarca è una mera riproduzione della
originale con una qualità inferiore e senza ulteriori elementi distintivi. Viceversa, tale
rischio viene minimizzato quando la sottomarca segnala ed esprime una differente
1
applicazione o si rivolge ad un target leggermente diverso, tuttavia mancando di una
propria spiccata identità.
3
Una volta che una determinata percezione della marca si è sedimentata nella
mente del consumatore risulta compito arduo il modificarla, soprattutto verso l’alto.
Paradossalmente, una marca nota poi caduta nel dimenticatoio e che ha per questo
indebolito le associazioni con il mercato di riferimento avrà maggiori possibilità di
successo nel riposizionamento verso l’alto di una che appare più viva e radicata nel
sistema percettivo e valoriale dei consumatori, la quale dovrà per questo affrontare
- 203 -
per i movimenti verso il basso, una strada per accedere agli high-end
market è costituita dal lancio o dall’acquisizione di una nuova marca, in
modo da evitare il confronto con le associazioni generate attorno alla marca
principale. Anche qui, tuttavia, rimarchevoli sono gli aspetti negativi della
questione, con elevati costi di insediamento gli esiti dei quali sembrano, in
questo caso, essere addirittura maggiori, vista la difficoltà di scalzare gli
eventuali concorrenti già presenti e radicati nei segmenti alti.
Il riposizionamento di un’intera marca da un mainstream o da un
value market verso un mercato superiore è, in effetti, impresa molto ardua,
se non impossibile. Tali marche, infatti, difettano per quanto riguarda
quelle associazioni elevate – immagine, personalità, qualità percepita – che
costituiscono la base di quel genere di competizione e servono per
convincere il consumatore che il prodotto o servizio valga il premium
price. Altrettanto rilevante è la considerazione circa i possibili rischi che
corre, nonostante l’eventuale apparente successo conseguito, l’ampiezza
della base di clienti propria della marca nella sua posizione di origine – il
suo maggiore asset – la quale potrebbe risultare sacrificata dalla nuova
strategia seguita determinando ripercussioni negative in termini di loyalty.
Gli attuali acquirenti di riferimento, in altre parole, potrebbero perdere il
feeling con la marca e allontanarsene nel momento in cui essa si trasforma
in qualcosa di diverso al fine di attrarre un nuovo mercato.
Per l’utilizzo di sottomarche (così come per le relazioni intercorrenti
tra la marca madre e la sottomarca1) valgono le considerazioni fatte nel
caso di estensione verticale verso il basso: il ruolo che esse svolgono è
maggiori resistenze da parte loro per quanto riguarda l’attribuzione ed il riconoscimento
di significati.
1
Vale la specificazione di Aaker (D. A. AAKER, 1997, op. cit., p.143) secondo
cui la situazione più sicura e favorevole per la sottomarca si ha quando essa svolge
essenzialmente il ruolo di descrittore continuando la marca madre ad avere la maggiore
influenza sui comportamenti d’acquisto. In questo modo, infatti, la sottomarca
risulterebbe posizionata contro la marca madre piuttosto che contro i competitori già
presenti su quel mercato. Edizioni speciali, versioni “professionali” o “gold”,
accompagnate da un premium price, segnalano che la nuova arrivata presenta le stesse
caratteristiche in grado di orientare la scelta verso la marca madre con in più degli
attributi rafforzativi tangibili.
- 204 -
quello di ausilio nella differenziazione della nuova offerta premium rispetto
alla marca originale, il valore della quale viene nel contempo sfruttato per
influenzare le decisioni d’acquisto. Va in particolare posta attenzione al
potenziale acquirente che lo spostamento della marca vuole andare ad
attirare con la nuova offerta. A volte, può risultare opportuna una strategia
che collochi la marca sul versante “basso” del mercato di livello superiore:
una simile proposta, pur rimanendo premium, non le fa a percorrere troppo
spazio nella mente dei consumatori, potendo richiamare l’attenzione di
quelli tra essi che vogliono considerarsi “indipendenti” rispetto alle marche
dominanti il segmento alto ed a coloro che, comunque attratti da
quest’ultimo, altrimenti, con la propria domanda, non ne incontrerebbero
l’offerta sul versante alto1.
1
Non bisogna poi trascurare il fatto che più grande è il salto effettuato, più esso
si dimostrerà arduo. Devono, cioè, essere mantenute distanze plausibili tra la sottomarca
e la marca di origine, al fine di garantire un adeguato livello di coerenza e continuità tra
esse. La distanza percorribile da una marca dipende, infatti, strettamente dal suo grado
di presenza nella mente dei consumatori (v. nota 1 a p. 192).
- 205 -
Capitolo 4
LA COMUNICAZIONE DEL
POSIZIONAMENTO
4.1 – Il ruolo della comunicazione nel governo del
posizionamento
Nel paragrafo 1.2.2 abbiamo definito il posizionamento come
l’occupazione (realizzata o perseguita) di uno spazio mentale da parte di
una qualsivoglia entità, caratterizzata da un proprio sistema percettivo
interpretativo e volitivo, nei confronti di un’altra entità ad essa omologa
allo scopo di determinarne il pensiero ed il corso d’azione. Appare evidente
come, affinché un posizionamento possa prodursi, tra le due parti debba
occorrere un’interazione di una qualche natura, la quale si risolve,
evidentemente, in una forma di comunicazione – in senso ampio – in grado
di determinare tra loro uno scambio condiviso di percezioni e di significati.
È il processo comunicativo, quindi, a promuovere lo sviluppo del
contesto relazionale in cui sono inseriti gli individui. Per suo tramite i
segnali in uscita e quelli in risposta vengono recepiti ed interpretati secondo
i codici riconosciuti maggiormente confacenti alla situazione in atto e
conformi ai valori che con il tempo si sono affermati. Attraverso la
comunicazione – in tutte le sue forme –, il posizionamento prende corpo
assumendo le connotazioni che, di volta in volta, essa suggerisce. Di
conseguenza, è inevitabile, nell’ambito di un’analisi delle strategie di
posizionamento, approfondire gli schemi di funzionamento della
comunicazione e le ragioni che ne stanno alla base.
- 206 -
4.1.1 – La funzione comunicativa degli elementi del marketing
mix.
La promozione è, fra le attività del marketing mix, quella che per
propria natura offre il maggior contributo a che il messaggio indicato
dall’identità di marca, così come definita dai decisori d’impresa, venga
trasposto nella mente dei potenziali acquirenti condizionandone il
comportamento in senso ad essa favorevole1. Appare, in altre parole,
naturale che l’attività proiettiva dei significati della marca sul consumatore
sia, in primis, di carattere prettamente comunicativo.
Ciononostante, non bisogna cadere nell’errore di ridurre a questo il
significato del processo comunicativo, il quale, lungi dal risolversi
nell’elaborazione del messaggio pubblicitario, assume invece rilievo in
riferimento a tutti quegli aspetti dell’offerta che la persona percepisce e
perciò stesso processa ed interpreta. Così, è possibile riscontrare un
carattere comunicativo in molti degli elementi costituenti l’offerta dal
punto di vista del prodotto, della distribuzione e del prezzo.
ASPETTI EVOCATIVI DEGLI ATTRIBUTI DI PRODOTTO
Numerose sono le dimensioni percettive con le quali ogni prodotto
viene valutato dal potenziale acquirente. Tali dimensioni, rintracciabili a
livello di core product, di lateral product o, in modo ancor più marcato, di
image2, si riferiscono agli attributi con cui viene determinato, nella mente
del consumatore, il concetto espresso dalla marca. Il tramite con il quale la
percezione degli attributi del prodotto, passando attraverso il momento
elaborativo, diviene significato è costituito dalle ormai note associazioni
generate dalla marca. Esse danno origine, attraverso il recepimento di un
segnale ed il suo accostamento analogico ad un oggetto di un diverso
contesto, all’immagine del prodotto che si forma nell’interlocutore
dell’impresa.
1
A riguardo, Gerken (G. GERKEN, 1994, op cit., p. 302) nota che «In fondo la
marca è nata praticamente con la pubblicità di marca».
2
V. par. 1.4.1.
- 207 -
Ogni aspetto legato alla funzionalità del prodotto o alla sua forma e
connotazione estetica deve essere attentamente analizzato in quanto
rappresenta un elemento in grado di evocare – attraverso l’esposizione
all’attenzione dei sistemi sensoriali della persona1 – immagini, espressioni,
concetti che, se da una parte possono dimostrarsi fondamentali
nell’incontrare i punti della personalità del potenziale acquirente più
propizi per la marca, dall’altra si dimostrano assai pericolosi qualora non
risultino in armonia con il sentire del soggetto. Il design ed il packaging del
prodotto sono, a riguardo, determinanti nel trasmettergli l’identità
desiderata. Il conferimento di una certa caratteristica contenutistica o
espressiva al prodotto e alla confezione deve, perciò, essere valutato, oltre
che secondo i dettami delle peculiari caratteristiche del bisogno da
soddisfare, in relazione al grado di concordanza e coerenza con il concetto
di cui vuole essere rappresentazione in modo tale da rientrare nel mondo
concettuale di riferimento del target, in quanto è da quest’ultimo che
prendono forma le attese che esso esprime.
Anche i servizi che affiancano il nucleo primario dell’offerta, ma, più
in generale, qualsiasi elemento della rete di attività posta in essere per dare
estrinsecazione alle associazioni evocate dal concetto di marca,
costituiscono dei vettori comunicativi da tenere nella dovuta
considerazione nell’edificazione della struttura concettuale della marca.
Trascurare aspetti dell’offerta ritenuti di scarsa rilevanza può influenzare,
attraverso i legami con cui sono ad essi interrelati, altre più importanti
componenti determinando pericolose deviazioni dalla posizione strategica
ideale.
In questo contesto, la ricerca della qualità va perseguita in termini
relativi. Il riferimento costante deve essere quello alle attese del
consumatore – manifeste e latenti – piuttosto che al livello qualitativo
assoluto, il quale può non essere effettivamente desiderabile e preferito. La
conoscenza delle profonde motivazioni al consumo e l’orientamento al
In proposito, è importante valutare l’impatto che i diversi aspetti del prodotto
hanno sui sensi della persona. Utilizzare colori, forme, materiali ecc. … non conformi
al messaggio trasmesso ed alle associazioni da esso indotte conferisce sfocatura o, ancor
peggio, contraddittorietà all’immagine di marca.
1
- 208 -
mercato, spinte al massimo dalla ricerca di una fusione con esso,
assurgono, allora, al ruolo di guida primaria del comportamento strategico
d’impresa. Questo non significa, tuttavia, che deve esserci una mera
aderenza a tali attese, dovendo svolgere, la marca, anche una funzione che
le elevi ed orienti sotto il profilo ideale rendendosi ambita. È importante
che la marca non esprima tutto: deve fare immaginare ed agognare
l’appartenenza ad un nuovo, desiderato, mondo di significati che funge da
esemplare e immaginario riferimento per le attese e le aspirazioni della
persona.
La distanza mentale tra il potenziale acquirente e i concetti espressi
dalla marca non deve essere, però, eccessiva, lasciando prefigurare la reale
possibilità di essere colmata. La situazione ad elastico che si viene a creare
tra distanza e raggiungibilità, se ben gestita, giustifica, infatti, l’esistenza di
un premium price fruibile dall’impresa e accettato dal mercato.
IL CONTRIBUTO DELLA DISTRIBUZIONE ALL’IMMAGINE DI MARCA
Criteri analoghi a quelli indicati per il prodotto valgono per la
distribuzione, il cui ruolo comunicativo (il quale le consente di colmare la
distanza psicologica oltre che quella fisica tra i diversi terminali della
catena distributiva) non deve assolutamente essere sottovalutato.
Particolare è, semmai, la maggiore rilevanza espressiva che essa assume
riguardo ai segmenti alti del mercato, dove costituisce l’anticamera che
introduce il potenziale acquirente alla qualità percepita. Ogni possibile
riferimento ed associazione evocabile assume in quel caso un valore
rilevante la cui considerazione diviene elemento ineludibile per una
comunicazione integrata efficace. L’ambiente di vendita (che assume le
forme di una vera e propria scenografia nella quale il cliente si trova a
muovere1), la particolare ubicazione dei punti di vendita1, gli eventuali altri
Forme, colori e luci che caratterizzano l’arredo interno ed esterno, criteri
espositivi, abbigliamento (persino le acconciature) del personale, presenza di eventuali
servizi collaterali offerti, e tutto quanto altro possa, toccando i punti fermi presenti e
consolidati nell’immaginario del particolare profilo del cliente cui ci rivolgiamo
(ricorrendo a piene mani all’armamentario di luoghi comuni che lo contraddistingue),
1
- 209 -
prodotti cui l’offerta dell’impresa viene ad essere affiancata e tutto ciò che
sia in grado di essere associato al concetto espresso dalla marca costituisce
un aspetto da curare attentamente perché si producano le associazioni
mentali desiderate e non altre, in modo da aumentare il valore della marca
stessa e la sua desiderabilità e spessore.
Nella scelta del particolare assetto da dare al canale distributivo,
perciò, rilevano non solo le caratteristiche estrinseche (di natura
essenzialmente quantitativa) della domanda – caratteristiche e dimensioni
del mercato e comportamento d’acquisto, caratteristiche fisiche e tecniche
dei prodotti, ampiezza di gamma, dimensioni dell’impresa e risorse
finanziarie a sua disposizione, ecc. –, ma anche quelle intrinseche
determinate dalle associazioni relative al peculiare mondo concettuale di
riferimento vissuto dal consumatore con il quale l’immagine di marca si
deve confrontare. È la reputazione detenuta o perseguita a spingere, tuttavia
e in generale, alla ricerca di un maggiore controllo del canale distributivo.
Ponendo nelle due dimensioni di una matrice, come in figura 4.1, il
livello dell’immagine di marca percepita e il grado di coinvolgimento di cui
il consumatore è portatore, è possibile ottenere un’indicazione circa le
strategie distributive di fondo seguite dall’impresa.
La combinazione di un’elevata immagine di marca percepita con un
forte coinvolgimento dei potenziali clienti nel processo di acquisto
consente e suggerisce l’impostazione di una strategia distributiva
altamente selettiva che, calibrata opportunamente, può spingersi fino ad
arrivare alla definizione di rapporti di esclusività. Appartengono a questa
categoria le marche di prestigio (ad esempio gioielli, auto ed orologi di
lusso, alta moda…), le quali, mentre da una parte sono orientate alla
soddisfazione di bisogni simbolici puri, dall’altra consentono all’impresa il
conseguimento di elevati margini di profitto. Gli attributi di notorietà e di
deve essere studiato in modo da provocare le reazioni desiderate in termini di
acquisizione di diversità, rilevanza, stima e familiarità da parte della marca.
1
Per esempio, un punto di vendita situato in una zona centrale e nell’ambito di
un insieme di attività commerciali di alto profilo goderà, a tutta evidenza, di un benefico
vantaggio e ritorno in termini di immagine percepita, sfruttando il contributo
catalizzatore di quelle relative a soggetti già appartenenti al mondo concettuale di
riferimento ed in esso consolidate.
- 210 -
stima sono in esse considerevolmente sviluppati sia grazie ad una qualità
effettivamente superiore e mantenuta tale nel tempo attraverso uno
sviluppo continuo, sia in virtù del crearsi attorno alla marca di un guscio
protettivo dovuto ad un processo di elevazione e mitizzazione che,
alimentata dal luogo comune e da referenze ritenute tout court significative
ed affidabili, a ben guardare pare, a volte, trascendere i reali meriti effettivi.
La diversità è poi il frutto naturale della posizione, sopraelevata rispetto al
mero bisogno da soddisfare, acquisita nella mente del pubblico. La
familiarità, infine, è insita nella stessa essenza di luogo comune di
riferimento per l’apice della categoria concettuale di appartenenza.
Coinvolgimento del consumatore
Elevato
Elevata
Immagine di marca
percepita
Bassa
Basso
DISTRIBUZIONE
SELETTIVA –
ESCLUSIVA
DISTRIBUZIONE
SELETTIVA
DIMINUITA
(RIDOTTA)
DISTRIBUZIONE
INTENSIVA
INNALZATA E
SCREMATA
DISTRIBUZIONE
INTENSIVA
Figura 4.1 - Strategie distributive di fondo
La distribuzione esclusiva, di cui il franchising è un caso particolare,
rappresenta l’ipotesi estrema della distribuzione selettiva e costituisce una
base indispensabile per il sostenimento e lo sviluppo della marca-mito. Se
essa deve essere ben presente all’interno dell’immaginario percettivo del
mercato, è altrettanto vero che la facile accessibilità (in senso ampio) della
marca si oppone alla sua valorizzazione. Il bisogno e la soddisfazione non
dovrebbero mai essere completamente appagati, lasciando spazio perché il
- 211 -
desiderio accresca in spessore.
Oltre a vantaggi in termini di immagini, la distribuzione selettiva
spinta, permette una riduzione dei costi relativi a quest’attività e una
migliore collaborazione da parte dei distributori in termini di maggiore
accettazione e promozione dei prodotti e di gestione delle informazioni di
ritorno. Il rischio che fa da contraltare a questa strategia è costituito da una
minore copertura del mercato che potrebbe risultare insufficiente, la quale,
trattandosi fondamentalmente di una questione di presenza e visibilità, deve
essere perseguita assicurandosi che il consumatore sia in grado di
identificare con facilità e immediatezza il distributore.
La situazione opposta al caso della distribuzione esclusiva si ha
quando ad una bassa immagine di marca percepita si combina un ridotto
coinvolgimento del consumatore ed inerisce tipicamente le marche operanti
nei commodity market, dove cioè troviamo prodotti di natura
essenzialmente funzionale associati a margini ridotti. In questi casi la
strategia distributiva diventa intensiva nel tentativo di assicurare la
massima copertura dell’area di vendita rendendo facilmente disponibile il
prodotto nel momento in cui si avverta il bisogno ad esso correlato.
Vantaggi e svantaggi legati a questa opzione sono speculari a quelli visti
per la distribuzione esclusiva: da una parte si ha una banalizzazione e
un’omologazione dei contenuti dell’immagine di marca, dall’altra, ad
elevati costi di distribuzione si aggiungono problemi di controllo della fase
di commercializzazione, in ogni caso venendosi a determinare una gestione
più difficoltosa del posizionamento perseguito. In effetti, questa particolare
strutturazione dell’assetto distributivo ben poco ha da offrire ala marca in
termini di immagine proiettata e percepita, dovendosi procedere in
prospettiva ad un rafforzamento dell’immagine stessa, il quale
evidentemente passa anche attraverso una maggiore selettività della
distribuzione.
Tra queste situazioni distributive estreme passano innumerevoli
varianti intermedie tra cui possiamo identificare due idealtipi di transito che
è possibile riscontrare nella realtà.
L’esigenza di accrescere i volumi di vendita associati ad
un’immagine forte, ma ad un basso coinvolgimento del potenziale
- 212 -
acquirente, talvolta spinge l’impresa a diminuire il livello di selettività
allontanandosi progressivamente dal limite dell’esclusività. È questo il caso
dei prodotti di marca venduti a basso prezzo, per i quali la natura
prevalente del principale vantaggio richiesto è ancora quella simbolica, ma
l’entità del margine di profitto offerto dal prodotto viene a ridursi. Una
scelta in questo senso, specialmente se rilevanza, stima e diversità
poggiano in maniera accentuata su fattori legati all’immagine, può essere
molto pericolosa per l’impresa togliendo valore e focus al suo
posizionamento ed erodendone il valore aggiunto. In realtà, spostando
verso il basso l’immagine percepita della marca, si finisce per porla su uno
spazio mentale, quello dei prodotti che soddisfano il bisogno sottostante
sulla base di un buon rapporto qualità/prezzo, che non le è proprio,
costringendola a competere su un terreno in cui sono già insediati e radicati
concorrenti in grado di praticare con successo strategie difensive.
Altre volte il punto di partenza dell’evoluzione di questo genere di
strategia è quello della distribuzione intensiva con un progressivo
innalzamento a livello di immagine. Il riferimento è tipicamente ai prodotti
funzionali specializzati (per esempio impianti hi-fi, personal computer,
utensileria…), per la maggior parte dei quali prevale un elevato
coinvolgimento del consumatore cui si accompagna un’immagine percepita
di marca di basso profilo. Fanno eccezione i leader di categoria che si
muovono nella prospettiva di testare l’ingresso nel quadrante superiore
sinistro (senza tuttavia andare a collocarvisi perché, paradossalmente,
andrebbe perso, agli occhi dei potenziali acquirenti, il momento del
confronto diretto con i concorrenti di più basso livello il quale, per questo
genere di prodotti, risulta un fattore determinante nella conquista di una
preferenza concessa dal mercato). In questo contesto, notorietà, familiarità
e stima sembrano essere elementi preponderanti rispetto alla diversità.
- 213 -
IL PREZZO E LA PERCEZIONE DEL VALORE DI MARCA
Le decisioni di prezzo devono anch’esse essere coerenti con la
strategia di posizionamento1 (e non potrebbe essere diversamente)
seguendo quella che Lambin definisce una “coerenza esterna” la quale,
tenendo nella dovuta considerazione le implicazioni imposte da domanda e
concorrenti, si aggiunge ad una coerenza di più stretta natura interna
concernente i vincoli di costo e di redditività2.
Il prezzo, in effetti, influenza pesantemente la percezione globale del
prodotto e della marca costituendo, perciò, un elemento strategico
imprescindibile dell’immagine di marca e del posizionamento adottato
dall’impresa. Inoltre, in un’ottica competitiva pura, il prezzo obbliga al
confronto tra i competitori sul mercato essendo punto di inevitabile
contatto tra le rispettive offerte. Di più: la sensibilità del posizionamento di
fronte a variazioni di prezzo pare essere, causa la sua grande visibilità,
superiore a qualsiasi altra sua determinante, generando repentini quanto
forieri di conseguenze mutamenti nelle percezioni valoriali dei potenziali
acquirenti.
I fattori che concorrono a determinare la sensibilità al prezzo
presentata dai potenziali acquirenti considerando l’impatto che esso ha
sulla domanda, sono così identificati da Nagle3:
 Esistenza di qualità distintive importanti per l’acquirente. Gli acquirenti
sono meno sensibili al prezzo quando il prodotto presenta attributi unici.
Viene, cioè, sacrificato qualcosa dal punto di vista economico per
ottenere un plus distintivo il cui valore è evidentemente superiore per il
consumatore.
1
Così, per esempio, ad un posizionamento di qualità deve corrispondere un
prezzo elevato, oltre che un packaging adeguato ed una distribuzione maggiormente
orientata alla selettività (la strategia di prezzo deve inoltre dare spazio ai margini di
distribuzione necessari a realizzare gli obiettivi di copertura del mercato prefissati), in
modo, tra l’altro, da permettere di finanziarie la strategia promozionale e pubblicitaria.
2
J. J. LAMBIN, 1996, op. cit., p. 409.
3
T. T. NAGLE, The strategy and tactics of pricing, Englewood Cliffs, Prentice
Hall, Inc, 1987 (citato in J. J. LAMBIN, 1996, op. cit., p. 419).
- 214 -
 Conoscenza dell’esistenza di sostituti. Gli acquirenti sono meno
sensibili al prezzo quando non sono al corrente dell’esistenza di
sostituti. La deficitarietà di informazione può derivare dall’effettiva sua
assenza, da una conoscenza insufficiente da parte del consumatorevalutatore, od anche dalla confusione generata dalla rumorosità
ambientale (eccesso di informazione).
 Difficoltà di confronto di prezzo. Gli acquirenti sono meno sensibili al
prezzo quando le prestazioni dei prodotti sono difficilmente
comparabili. Questo genere di carenza informativa va solitamente a
vantaggio della marca che ha l’immagine più nitida nella mente di chi
sceglie.
 Valore della spesa. Gli acquirenti sono meno sensibili al prezzo quando
essa rappresenta una porzione minima del loro reddito complessivo. La
considerazione di questo aspetto della sensibilità dimostrata dalla
domanda permette di intraprendere strategie di premium price con una
competizione sui segmenti alti anche per categorie di prodotto altrimenti
considerate povere rispetto ai cosiddetti beni di lusso.
 Valore del prodotto finito. Gli acquirenti sono tanto meno sensibili al
prezzo quanto più piccolo è il vantaggio finale offerto dal prodotto.
Questa determinante offre la possibilità di analizzare la sensibilità al
prezzo rispetto all’insieme di utilità percepite collegate all’acquisto del
prodotto ed al livello di soddisfazione da esse generate.
 Effetto del costo condiviso. Gli acquirenti sono meno sensibili al prezzo
quando il costo del prodotto è condiviso con altri,
 Effetto dell’investimento. Gli acquirenti sono meno sensibili al prezzo
quando il prodotto è utilizzato come complemento di un altro prodotto
principale, acquistato in precedenza, il quale costituisce un investimento
già effettuato. L’idea di un completamento dell’investimento pare
essere, in questo caso, una scelta dovuta per incrementarne – o
quantomeno per difenderne – il senso ed il valore.
 Effetto del rapporto qualità/prezzo. Gli acquirenti sono meno sensibili
al prezzo quando il prodotto è associato ad un’immagine di qualità,
prestigio, esclusività. Il beneficio avvertito e ricollegato all’acquisizione
di una migliore immagine oscura, per i consumatori che avvertono come
- 215 -
primari i bisogni simbolici, il maggiore onere da sostenere.
 Effetto-scorta. Gli acquirenti sono meno sensibili al prezzo quando non
hanno la possibilità di immagazzinare il prodotto.
Nel procedere a riduzioni o ad aumenti di prezzo occorre tenere in
grande considerazione la particolare situazione nella quale la modificazione
del prezzo va a inserirsi e le probabili conseguenze che essa determinerà.
In primo luogo il prezzo è, spesso, la variabile ultima e definitiva
presa in considerazione dagli acquirenti, quella, in altre parole, in grado di
determinare in un senso o nell’altro il risultato dell’attività di
interpretazione dei segnali in entrata e della loro integrazione con le
esigenze percepite, di qualunque natura, consapevole o meno, esse siano.
L’incidenza del prezzo quale indicatore di valore e volano attrattivo per il
consumatore fa comunque i conti con le peculiarità che il mercato di
riferimento presenta. Quello che per certi prodotti vale con riferimento ad
un determinato contesto temporale, spaziale, simbolico, può non valere in
altre situazioni divenendo, anzi, un ostacolo in più per la proiezione
dell’immagine di marca desiderata1. Ancora una volta lo studio delle
associazioni evocate costituisce l’elemento discriminante al quale fare
riferimento nell’individuare il prezzo che maggiormente può concorrere,
attraverso la coerenza e l’evocatività, ad aumentare il valore percepito della
marca.
Secondariamente, ma non meno importante, occorre considerare il
contesto concorrenziale in cui opera l’impresa. In senso generale, la
struttura del mercato influenza pesantemente la struttura dei prezzi
praticabili dall’impresa, secondo che essa si trovi di fronte a competitori
numerosi ed agguerriti o ad una schiera meno fitta, anche se magari più
influente in termini relativi, di concorrenti. Del resto, pensare una strategia
di prezzo solamente con riferimento alle condizioni interne di produzione o
Il fatto che non esistano prove definitive circa l’assoluta correlazione
intercorrente tra prezzo e qualità è affrontato, assieme all’analisi dei contributi offerti in
proposito da altri studiosi, in V. A. ZEITHAML, Consumer perceptions of price, quality,
and value: a means-end model and synthesis of evidence, Journal of marketing, luglio
1988, pp. 2-20.
1
- 216 -
alla comunicazione di un determinato posizionamento che essa andrebbe a
promuovere, trascura l’importante considerazione delle reazioni da parte
della concorrenza che ogni mossa va a determinare. Operare in un mercato
tendente ad essere perfettamente concorrenziale presenta diverse
implicazioni e differenze rispetto, per esempio, all’essere inseriti in una
situazione oligopolistica, sia nei ristretti termini del prezzo di fatto
praticabile per poter essere competitivi, sia riguardo ai condizionamenti che
la definizione di un prezzo piuttosto che un altro produce in merito ai
possibili scenari che si aprono per l’impresa1.
Il ruolo delle strategie di prezzo nel conseguimento del
posizionamento, inoltre, è accresciuto a causa dell’accorciamento del ciclo
di vita della marca (dovuto in gran parte all’accelerazione del progresso
tecnologico) che impone di conseguire una redditività soddisfacente molto
in anticipo rispetto a quanto accadeva in passato2 e della sempre maggiore
frammentazione e rumorosità del mercato, tra la proliferazione di nuove
marche e prodotti sempre meno – in senso relativo – differenziate tra di
loro, il continuo e crescente ricorso ad estensioni di linea.
4.1.2 – Posizionamento e modelli comunicativi.
Per comunicazione d’impresa intendiamo, come abbiamo accennato
nel par.1.4.3, quanto collega l’identità di marca trasmessa (più o meno
intenzionalmente) con l’immagine che ne risulta proiettata nella mente del
target prescelto, risultando determinante quanto viene recepito al termine
del processo di interazione. Possono, infatti, verificarsi disastrose quanto
inattese discrepanze tra quello che l’emittente aveva inteso comunicare e
1
Una non attenta o presuntuosa considerazione delle forze in campo che
costituisca la base di una scelta di prezzo particolarmente aggressiva potrebbe dare il
via, ad esempio, ad una guerra di prezzo che, nel caso i concorrenti disponessero di
elevate risorse e riserve da dispiegare al bisogno, avrebbe esiti controproducenti,
quand’anche non disastrosi, per l’impresa.
2
Aumentano notevolmente anche i rischi, data la delicatezza della definizione
del prezzo di introduzione, visti i problemi in cui l’impresa successivamente incorre nel
correggerlo.
- 217 -
quello che è stato effettivamente percepito dal ricevente. Il focus deve
allora essere posto non tanto sul momento dell’emissione del messaggio,
quanto sul messaggio ricevuto in modo da assicurare l’aderenza degli
effetti alle intenzioni.
Il percorso che ha portato all’identificazione di modelli comunicativi
anche molto semplici non ha subito un accelerazione rimarchevole fino
all’ultimo secolo. Solamente nel 1949 Shannon e Weaver offrirono un
primo, all’apparenza banale secondo il nostro odierno punto di vista,
modello di comunicazione, definendo quest’ultima come «il trasferimento
di informazioni da un emittente ad un ricevente a mezzo di messaggi»1.
Il noto modello di Shannon e Weaver è illustrato in figura 4.2. Il
percorso comunicativo che porta i segnali trasmessi ad essere percepiti e
poi interpretati, inizia con l’emissione di un messaggio da parte di un
soggetto che si avvale, a tal fine, di un codice semiotico attraverso il quale
rappresentare simbolicamente (le parole sono i simboli per eccellenza) i
significati che intende esprimere. Per la riuscita del processo comunicativo
è essenziale che l’emittente e il ricevente facciano riferimento ad un
comune codice interpretativo, in modo da risultarne favorita la generazione
di associazioni evocate e condivise e, quindi, il posizionamento stesso.
Infatti, una volta che il messaggio, attraverso il particolare canale adottato,
perviene alla soglia dell’attenzione del ricevente, questi sarà chiamato alla
sua decodifica, la cui facilitazione deve essere perseguita con ogni mezzo.
La maggiore garanzia di riuscita si ha, allora, nel momento in cui la marca
raggiunge un livello spinto di sintonia (fusione) con il mercato, ideale
presupposto per la creazione ed il consolidamento di un rapporto
effettivamente dialettico e reciprocamente vantaggioso in termini
rispettivamente di aspettative percepite e di attese soddisfatte.
1
C. E. SHANNON, W. WEAVER, La teoria matematica delle comunicazioni, Etas
Kompass, 1971 (citato in N. DAMASCELLI, Comunicazione e management, Franco
Angeli, 1993, p. 11).
- 218 -
EMITTENTE
Codifica
MESSAGGIO
Codice
CANALE
Rumori
(disturbi)
MESSAGGIO
Decodifica
RICEVENTE
Figura 4.2: Il processo di comunicazione secondo il modello di
Shannon e Weaver
Questa fondamentale razionalizzazione del processo comunicativo
trascura, tuttavia, numerosi importanti aspetti che invece occorre
considerare al fine di una sua più definita e puntuale contestualizzazione. In
particolare, vanno indagate le ragioni che stanno dietro la comunicazione
posta in essere: carattere, motivazioni, attese, atteggiamenti, cultura degli
attori, natura e comportamento dell’ambiente nel quale la comunicazione di
svolge (partecipe o neutrale, favorevole o avverso) e dei soggetti in esso
presenti sono tutti elementi in grado di conferire significati differenti al
messaggio.
Un particolare impegno occorre nell’identificare il tipo di codice
utilizzato nello scambio di segnali: se il porre attenzione alla concordanza
degli specifici codici linguistici di cui sono portatori l’emittente ed il
ricevente può sembrare sufficientemente ovvio da non necessitare di
un’ulteriore approfondimento, la concordanza dei codici culturali pare
- 219 -
esserlo molto meno. Per guadagnare l’accesso alla mente degli interlocutori
privilegiati occorre, ai sensi di quanto suggerito dalla ricerca di una
“fusione spinta” con essi, parlare attraverso i loro stessi simboli e portati
culturali, in modo da immettere nel macrosistema interpretativo dei
concetti che, basati su assunti ormai affermati e sedimentati, presentano un
rischio di rigetto assai inferiore rispetto all’immissione e sostegno di altri
significati spesso distanti da quelli che invece paiono essere i fondamentali
sostegni alla base del sistema valoriale dell’individuo, quand’anche non
apertamente contrastanti con esso. La perdita di tali sostegni, infatti,
porrebbe il soggetto in una posizione di precarietà ed insicurezza che egli
ha tutto l’interesse di evitare.
Pertanto, la comunicazione deve preferibilmente basarsi su ciò che è
già presente nella mente dei potenziali acquirenti in maniera tale da
sviluppare, in senso favorevole per la marca, concetti che, accordando
valori e bisogni riconosciuti dal consumatore, ma ancora inespressi ed a
livello meta-cosciente, ne aumentino le probabilità di successo. In
proposito, Trout e Rivkin sostengono l’inutilità degli sforzi di cambiare la
mente in termini di ciò che più aggrada l’impresa, dal momento che la
mentalità del mercato è – e deve sempre essere considerata – un qualcosa di
dato, indirizzabile solo fino a un certo punto1. Voler essere qualcosa che
non le viene riconosciuto, a causa della presenza di associazioni evocatrici
di concetti inconciliabili con l’immagine proposta, porta l’impresa ad una
perdita di focalizzazione generando seri problemi di posizionamento (in
particolare, è questo tipicamente il caso delle estensioni di linea2). Fare
mutare l’atteggiamento verso la marca risulta essere, così, una mera perdita
di tempo e di risorse preziose: quando il mercato decide cosa pensare di un
prodotto, niente può cambiare questa convinzione.
La difficoltà incontrata nel fare accettare nuovi significati che non si
pongono in derivazione diretta ed in sintonia con i concetti di fondo che
caratterizzano il sistema di convinzioni dei potenziali acquirenti, trae
origine dall’atavica resistenza degli individui al cambiamento. Dal
momento che le convinzioni delle persone forniscono il fondamento
1
2
J. TROUT, S. RIVKIN, 1997, op. cit., pp.45-50.
Cfr. cap. 3.4
- 220 -
cognitivo di ogni atteggiamento, per riuscire a modificare quest’ultimo
occorrerebbe intervenire all’origine attraverso l’eliminazione delle
convinzioni precedenti per poi introdurne di nuove. Si tratta, a tutta
evidenza, di un impegno che richiederebbe sforzi titanici e sarebbe
difficilmente produttivo di risultati apprezzabili, poco importando che le
considerazioni volte a far mutare l’atteggiamento siano plausibili e
veritiere, se esse vanno a scontrarsi contro argomenti e concetti già
sedimentati: le persone sembrano dare ascolto solo a ciò per cui hanno
orecchie, misurando e valutando tutte le informazioni in entrata con il
metro della conformità a quanto risulta già presente nel proprio bagaglio
conoscitivo ed interpretativo1.
Di qui l’importanza dell’usare come base di lavoro per il
posizionamento quanto è attualmente riscontrabile nel mondo concettuale
di riferimento del target cui ci rivolgiamo e risiede nella cosiddetta
“memoria semantica”, la zona del cervello nella quale, secondo gli
psicologi, è collocata la forma di memoria più durevole, quella che
consente di discernere tra i diversi elementi presenti nel mondo esterno. È
spesso sulla base di queste considerazioni che si procede al recupero di
vecchie idee ed associazioni in grado di attivare circuiti di significati
coerenti con quanto è presente nella mente dei consumatori da una parte, e
con la particolare strategia competitiva seguita dall’impresa dall’altra.
Nel 1967 ritroviamo, ad opera di Watzlavick, un momento di rottura
nell’approccio agli studi sulla comunicazione2. L’autore pone in evidenza
una proprietà del comportamento fino ad allora non sufficientemente
considerata: il fatto che il comportamento non ha il suo opposto. Non esiste
un non comportamento, o, in altre parole, non si può non tenere un
comportamento qualunque sia la sua natura e la sua origine. Fare o dire una
cosa hanno un significato il cui valore informativo non eccede quello
relativo al non fare o non dire quella cosa. Sotto questa prospettiva di
L’individuazione delle associazioni in grado di legare vecchi e nuovi concetti
all’interno degli spazi mentali rappresenta il momento principale nell’elaborazione della
strategia comunicativa.
2
P. WATZLAVICK, J. H. BRAVIN, D. D. JACKSON, Pragmatica della
comunicazione umana, Astrolabio, 1971 (citato in N. DAMASCELLI, 1993, op. cit.).
1
- 221 -
analisi, risulta perciò evidente come in ogni azione sia riscontrabile un
messaggio – quindi un’informazione vera e propria – in grado di farci
comprendere le ragioni ultime che l’hanno determinata. Non esistono, in
conseguenza di ciò, comportamenti giusti o sbagliati in partenza. Starà
semmai all’abilità ed alla sensibilità dell’osservatore comprendere la reale
natura e portata di una condotta derivandone, attraverso il messaggio
sottostante, le caratteristiche essenziali1.
Se ogni comportamento esprime un suo significato, ne consegue, per
sillogismo, che tutto è comunicazione. Conferendo all’intero concetto di
comportamento, inserito in una situazione di interazione sociale, il valore
di messaggio si ha per contrasto che, per quanto ci si sforzi, non è possibile
non comunicare. Attività ed inattività, parole e silenzio hanno, in senso
oggettivo, il medesimo valore comunicativo: non esiste una manifestazione
del proprio pensiero che sia “più vera” di un’altra. Varierà, più o meno
consciamente, questo sì, l’intensità con cui il messaggio viene immesso nel
circuito comunicativo stando a sottolineare la rilevanza assunta per
l’individuo, ma questo non inficia la considerazione iniziale aumentandone,
anzi, la portata. Ogni comportamento, poi, avendo la valenza di messaggio,
non esaurisce i propri effetti induttivi sull’interlocutore più immediato, ma
influenza gli altri terminali delle interrelazioni, i quali non possono non
assumere a loro volta un atteggiamento in risposta allo stimolo ricevuto,
finendo, attraverso la comunicazione, per influenzarsi vicendevolmente.
In seguito al fondamentale contributo di Watzlavick è possibile
riformulare il concetto di comunicazione intendendo per essa qualsiasi
evento, oggetto, condotta che modifica il valore di probabilità del
comportamento futuro di un organismo. Le implicazioni a livello di
impresa, divenute impellenti a seguito di questa nuova definizione di
comportamento, sono notevoli e offrono importanti indicazioni prescrittive,
rendendo necessaria un’attenta e consapevole determinazione e
1
Afferma Oscar Wilde che «Solo le persone superficiali non giudicano dalle
apparenze». Quanto sia vera e profonda questa constatazione, la quale dovrebbe
rimanere ben presente nella mente di chi si occupa di comunicazione e, più in generale,
di marketing, è stato riconosciuto dagli studi di psicologia solo molto tempo più tardi e
non cessa tuttora di mostrare le infinite sfaccettature che assume e le implicazioni che
comporta.
- 222 -
formulazione delle strategie comunicative più opportune ed una chiara
definizione degli obiettivi per la comunicazione.
Un aspetto fondamentale della comunicazione è costituito dal fatto
che essa è sempre a due vie. Infatti, se da una parte l’emittente trasmette un
messaggio al ricevente, quest’ultimo è sempre in grado1 di rispondere
emettendone a sua volta uno verso il primo emittente in modo da renderlo
consapevole dell’effetto su di lui indotto dal messaggio originario, ed
influenzandone in questo modo il comportamento negli stessi termini nei
quali lo era stato il suo. Parole e comportamenti vengono così a costituire il
motore del processo comunicativo.
L’impresa deve tenere nella dovuta considerazione questa
rappresentazione dello schema comunicativo: solo attraverso lo sviluppo di
una spiccata capacità di “ascoltare” e di “leggere” i messaggi ricevuti
interpretandoli e rispondendo nella maniera più consona, infatti, è
paventabile il raggiungimento di un adeguato livello di fusione con il
mercato, strada obbligata da percorrere per conferire spessore e
sostenibilità al vantaggio competitivo. È il momento dell’interlocuzione
con i potenziali acquirenti a fornire all’impresa i più rilevanti elementi di
apprendimento circa le loro esigenze ed aspettative, consentendo,
indispensabile premessa, di ottenere una comunicazione in uscita più
mirata ed efficace.
Non sempre la comunicazione procede linearmente e senza
alterazioni dall’emittente al ricevente evitando l’intralcio posto dalla
rumorosità contestuale, la quale viene amplificata dalle carenze
riscontrabili nell’orientamento al mercato proprio dell’impresa. Molti
fattori, in effetti, sono potenzialmente in grado di influenzare la
trasmissione dei messaggi. Alcune alterazioni sono connesse a problemi di
linguaggio: esse occorrono quando le parole usate per esprimere un
concetto non riescono ad estrinsecarlo al meglio, oppure quando
l’interlocutore volontariamente sottace parti importanti del ragionamento,
L’interazione tra le parti del processo comunicativo si attua sempre, anche
quando, all’apparenza, una risposta non pare concessa al ricevente, come nel caso della
comunicazione radio televisiva.
1
- 223 -
oppure, ancora, allorché si ricorre ad una interlocuzione di scarsa
comprensibilità e fruizione per chi riceve il messaggio.
In altri casi, la comunicazione subisce delle distorsioni perché alcune
parole risultano incomprensibili alle orecchie del potenziale acquirente,
vuoi per scarsa conoscenza dei vocaboli, vuoi per l’inadeguatezza della sua
cultura. Si determina, allora, una situazione ampiamente richiamata in
precedenza: la mancata fusione con il mercato determina la disomogeneità
del codice culturale che interviene nel raccordare i significati espressi dalle
parti coinvolte nel processo comunicativo.
Altri fattori intervengono nell’influenzare quantità e qualità delle
informazioni effettivamente scambiate: la capacità di ragionamento
astratto, la potenzialità di ideazione, l’organizzazione del ragionamento, la
presenza di elementi inconsci evocati in chi ascolta, tramite le associazioni,
dalle parole utilizzate nel messaggio. Caratteristica comune di tutte queste
alterazioni è, comunque, il loro legame con la personalità ed il vissuto
dell’interlocutore nelle loro diverse e multiformi sfaccettature. Se a tutto
questo aggiungiamo il contributo, pur rilevante, alla confusione cagionato
dagli elementi situazionali di contorno e dalla molteplicità dei messaggi
inviati in una stessa direzione, abbiamo come risultato un quadro altamente
frammentato e caotico per muoversi nel quale chi si occupa di
posizionamento e di comunicazione in generale, deve possedere notevoli
doti di sensibilità e perspicacia orientando la marca verso quell’ideale
sintonia con il mercato che, sola, può determinarne un vantaggio
competitivo differenziale sostenibile.
4.1.3 – Lo stimolo delle percezioni.
Stante la stretta relazione tra posizionamento, immagine di marca e
associazioni generate ed il rilievo da queste ultime assunto nei tre livelli
identificabili con riferimento al particolare grado di astrazione di cui sono
portatrici (attributi, benefici, atteggiamenti)1, occorre sottolineare come, per
tali livelli – i quali ruotano attorno alle percezioni dei consumatori – si
renda necessario un approccio comunicativo integrato. Come fa notare
1
V. par. 2.3.1.
- 224 -
Mandato, i messaggi che l’impresa invia ai potenziali acquirenti devono
basarsi in maniera integrata sugli attributi fisici dell’offerta, sui benefici
che essa apporta (fondamentale è, a riguardo, la capacità di dare una
risposta alle attese dei consumatori) e su uno sforzo in grado di far
convergere, attraverso la fusione, i valori condivisi dal cliente con la marca
verso atteggiamenti ad essa favorevoli1. Diverse strategie di promozione e
sviluppo del posizionamento assunto, cui corrispondono diversi schemi
associativi chiamati in causa, possono essere adottate con riferimento alla
situazione competitiva in cui l’impresa è inserita ed ai particolari obiettivi
affidati alla comunicazione2.
Gerken rileva come, in una società contraddittoria e in via di
frammentazione come la nostra, le determinanti dell’efficacia comunicativa
siano rintracciabili nella prossimità e nella simpatia, nella credibilità
(senza l’intervento mediatore della quale «le promesse di soluzione dei
problemi e del posizionamento non possono venire trasportate
efficacemente»), nell’attualità dei concetti espressi (capace di divenire
«interpretazione sociale dello spirito del momento») e nella rilevanza della
vita reale nella comunicazione (sostenendo giustamente, in proposito, che
«le promesse relative al prodotto portano a una risonanza positiva fintanto
che seguono un bisogno di informazioni autentico e situativo, e non bisogni
di consumo generali e categoriali»)3.
Gli obiettivi della comunicazione pubblicitaria possono essere riferiti
ai tre fondamentali livelli di risposta del mercato: cognitiva, affettiva e
comportamentale. La prima inerisce l’insieme delle conoscenze e delle
opinioni trattenute nella memoria4, le quali vanno ad influenzare
1
2
G. Mandato, 1996, op. cit., pp. 107-108.
Tuttavia, nell’ambito di tale integrazione, le diverse componenti che la
determinano non hanno tutte la stesso rilievo e, conseguentemente, non presentano il
medesimo peso, potendosi ritenere per certa l’esistenza di una certa preminenza degli
ultimi due livelli rispetto agli attributi fisici del prodotto. Saranno quindi benefici
apportati e atteggiamenti di riferimento ad avere la maggiore influenza nella
generazione delle associazioni dalle quali prendono corpo l’immagine di marca ed il
particolare posizionamento assunto.
3
G. GERKEN, 1994, op. cit., p. 303.
4
Cfr. cap. 2.1.2.
- 225 -
l’interpretazione degli stimoli ed il comportamento. Quantità, disposizione
e capacità evocativa delle informazioni disponibili dipendono dalla
particolare capacità percettiva e dallo stile cognitivo dell’individuo preso in
considerazione. Obiettivi di informazione, familiarizzazione, richiamo
vengono posti per innalzare i livelli di notorietà e conoscenza connessi a
questo tipo di risposta.
La risposta affettiva rimanda ad uno spazio mentale non più
solamente dominato dalla conoscenza, ma dove troviamo una pregnante
presenza di elementi di natura eminentemente estimativa quali sentimenti,
preferenze, intenzioni, considerazioni e giudizi positivi o negativi sulla
marca. Con riferimento al sistema di valori, atteggiamenti, preferenze gli
obiettivi comunicativi ruotano tutti attorno alla valorizzazione
dell’immagine di marca ed alla persuasione.
La risposta comportamentale concerne il comportamento di risposta
degli acquirenti in termini di acquisti effettuati e di informazioni di ritorno.
L’individuazione e la descrizione dei comportamenti d’acquisto è utile per
disegnare il profilo del consumatore evidenziando punti di aderenza e
carenze della posizione attualmente ricoperta dalla marca rispetto alle
attese esplicitate attraverso tale risposta.
I tre livelli di risposta gerarchicamente intesi costituiscono altrettanti
fasi attraversate in successione all’interno del più generale modello di
apprendimento, il quale, come riconosce Lambin, consente di definire una
scala di obiettivi cui corrispondono particolari effetti1:
- Promuovere la domanda globale per la categoria di prodotti. Questo
obiettivo è quello tipico che si pone il leader di mercato, il quale, forte
della maggior quota di mercato, ha tutto l’interesse a fare espandere la
domanda globale. Affinché venga attuata una strategia comunicativa
idonea al perseguimento del fine prefissato e concorde con il
posizionamento della marca occorre risalire a monte della ragion
d’essere di quest’ultima rivedendo la sintonia tra bisogno avvertito e
risposta offerta. Il messaggio si incentrerà sul vantaggio di base offerto
dal prodotto ed il livello di genericità sarà tanto più spinto quanto più il
1
J. J. Lambin, 1996, op. cit., pp. 467-469.
- 226 -
bisogno sottostante ha una propensione ad essere dimenticato e
trascurato.
- Creare e mantenere la notorietà della marca. Le strategie incentrate
sulla notorietà si collocano tipicamente nell’ambito della risposta
cognitiva ed hanno come denominatore comune l’ispessimento del
valore di marca. La notorietà, in altre parole la fama acquisita dalla
marca presso i potenziali acquirenti in un dato ambiente e in un dato
momento per meriti reali o presunti, costituisce, consentendo una
maggiore visibilità e favore da parte del mercato, un importante
elemento nella costruzione della familiarità (qualcosa di più radicato e
profondo della semplice conoscenza che spinge il consumatore, in forza
della fusione creata, a comprendere pienamente quello che la marca
rappresenta, fino a considerarla parte integrante ed attiva del proprio
mondo concettuale di riferimento) e della stima (la considerazione in cui
è tenuta la marca da parte dei consumatori) nei confronti della marca
stessa1. Lo sviluppo di questo attributo della marca può riferirsi alla
notorietà-riconoscimento, alla notorietà-ricordo o ad entrambe: mentre
in base alla prima viene agevolato il riconoscimento al momento
dell’acquisto o addirittura viene indotto quello del bisogno sottostante,
attraverso la seconda si cerca di creare l’associazione tra lo stato di
bisogno e la marca prima ancora della fase dell’acquisto..
- Creazione e mantenimento di un atteggiamento favorevole nei
confronti della marca. Quest’obiettivo si pone nell’ambito della
risposta affettiva e si estrinseca in attività che consentano di evidenziare
agli occhi del target la presenza e l’importanza dei punti di
differenziazione al centro della strategia di marca, rafforzare le
associazioni tra il posizionamento e l’immagine di marca da una parte e
la percezione dei bisogni soddisfatti dall’altra, eliminare gli eventuali
atteggiamenti negativi che possono prodursi in seguito ad errori di
avvicinamento al potenziale acquirente o ad eventi improvvisi e
potenzialmente deleteri che possono verificarsi. Il punto cruciale nel
dare uno sviluppo agli atteggiamenti dei pubblici cui ci si rivolge è
1
Ai fini del posizionamento il punto cruciale è, infatti, la determinazione di una
diversità “rilevante”.
- 227 -
rappresentato dal lavorare attorno ai concetti già presenti nelle loro
menti, poiché sono essi a possedere maggiori livelli di accettazione e
fungono da riferimento per qualunque nuovo messaggio in entrata.
Inoltre, non bisogna cercare di modificare la percezione della marca in
direzioni non plausibili e non sostenibili da essa, ma mantenere una
adeguata coerenza tra ciò che è e ciò che può essere.
- Stimolo della decisione di acquisto. L’interazione d’acquisto si pone a
metà strada tra la risposta affettiva e quella comportamentale, dovendosi
tuttavia distinguere il caso in cui il consumatore manifesti un interesse e
un coinvolgimento nell’acquisto, da quello in cui questo non avviene,
venendosi a creare, nella prima situazione, valide premesse per un
proficuo utilizzo delle strategie comunicative. Affinché l’interazione di
acquisto si manifesti, occorre, poi, che uno stato di mancanza, palese o
latente, sia avvertito dai potenziali acquirenti, in modo che si
coniughino bisogno ed intenzione, altrimenti inattivi1.
- Facilitazione dell’acquisto della marca. Per il conseguimento di
quest’obiettivo è necessaria un’armonizzazione del marketing mix
attorno al concetto espresso ed alla posizione occupata nei termini
analizzati nel cap. 4.1.1. All’occorrenza la comunicazione può
contribuire a eliminare o quantomeno a ridurre i problemi in essere
attraverso, per esempio, la difesa del prezzo praticato o quanto altro sia
in grado di creare associazioni meno dissonanti con l’immagine di
marca proiettata.
4.2 – Il messaggio: nome, simbolo, slogan
Il cuore del processo comunicativo è costituito dal messaggio, il
quale va a raccordare i significati quali sono emessi dal soggetto che lo
avvia con quelli recepiti dall’interlocutore. Dall’intersezione dei segni e dei
richiami proiettati con quelli percepiti scaturisce il senso ultimo attribuito
Quindi, può succedere che, mancando un’esigenza da seguire, i messaggi non
producano alcuno degli effetti auspicati, almeno nell’immediato e comunque fintanto
ciò non accade.
1
- 228 -
al messaggio, ben potendo accadere che esso contenga molto poco di
quanto era nelle intenzioni originarie dell’emittente.
Tuttavia, le informazioni in transito tra i soggetti al centro di tale
processo non paiono avere, per essi, tutte la stessa importanza e non si
rivestono di contenuti semantici oggettivi. Più generalmente, anzi, i
significati vengono a dipendere strettamente dalle etichette contenutistiche
preattribuite a seguito dell’identificazione della controparte e del contesto
comunicativo nel quale l’azione si svolge. In altre parole, emerge, ancora
una volta, il rilievo della categorizzazione dei significati attorno a luoghi
mentali comuni che hanno nella memoria e nel radicamento ai concetti,
esperienze e ricordi sedimentati punti di riferimento attorno ai quali fare
ruotare i nuovi significati in modo che tendano a convergere verso di essi.
È con questo mutevole ordine di rapporti che il posizionamento
strategico si deve confrontare, solo potendo contare sulla comunione con il
sentire dei potenziali acquirenti eventualmente conseguita attraverso la
ricerca della fusione con il mercato ed il mantenimento del contatto con
esso. Posizionamento, alla resa dei conti, significa semplicemente, nelle
parole di Trout e Rivkin, «concentrarsi su un’idea, o anche una singola
parola, che definisca l’azienda nella mente dei consumatori» 1. In questo
contesto, gli strumenti fruibili da parte della marca per relazionarsi ai
mondi concettuali di riferimento dei consumatori sono riconducibili ai tre
fondamentali elementi riscontrabili nella definizione di un messaggio ad
essi diretto: il nome, il simbolo, lo slogan2. Tali elementi della
comunicazione impresa-mercato necessitano di una strutturazione che, non
solo sia in grado di attivare le associazioni desiderate (quelle che
determinano una reazione positiva nei confronti della marca), ma mantenga
tra loro uno stretto legame ed una coerenza in grado di conferire un elevato
valore alla loro interazione, di modo che il valore dell’insieme semiotico
1
J. TROUT, S. RIVKIN, 1997, op. cit., p. 62.
Si tratta, è sempre il caso di precisare, di elementi di natura eminentemente
comunicativa, dovendo comunque tenere presente che la comunicazione si esprime
attraverso tutti i canali con i quali impresa e mercato si incontrano e che in essi, del
resto, non si esaurisce lo sforzo dialettico della marca (anche se rappresentano l’estrema
sintesi dei concetti che essa esprimerà nelle più diverse forme).
2
- 229 -
considerato risulti superiore a quello della somma delle sue parti
rendendolo fortemente rappresentativo del senso dell’offerta dell’impresa.
Pertanto, di seguito approfondiremo i singoli succitati elementi del
messaggio di posizionamento, accomunati dalla ricerca dell’attivazione
delle associazioni opportune per giungere alla desiderata collocazione nel
mercato principalmente attraverso i concetti espressi ed esprimibili dalla
parola.
4.2.1 – Il primato della parola.
Chi si accinga ad affrontare il tema dell’immagine, da qualsiasi
prospettiva lo faccia, non può esimersi dal confrontarsi con la massima
attribuita a Confucio secondo la quale «un’immagine vale mille parole»1.
Sono usualmente i pubblicitari a farla propria in un senso interessato che
risulta spesso fuorviante. In effetti, è la parola e non l’immagine – intesa in
senso proprio2 – a guidare la mente ed a trasmettere un significato. Il
posizionamento ha una natura prettamente verbale mai basandosi
esclusivamente sulle immagini. Come riconoscono Trout e Rivkin, “la
mente lavora con l’orecchio”3.
Di più: le stesse espressioni che estendono il significato del presente
al passato ed al futuro dipendono strettamente dalla possibilità di utilizzare
un relativizzatore costituito dal linguaggio. La parola e la sua elaborazione
(il processo attraverso il quale essa si riveste di un significato)
rappresentano rispettivamente, cioè, la pietra di paragone ed il momento di
confronto tra due o più entità allorquando esse, da concetti evanescenti,
assumono la forma e prendono il corpo e la natura di un significato
1
In realtà, è stato dimostrato come essa sia stata originata da un errore di
traduzione. L’espressione verace affermerebbe, infatti, che «un’immagine vale mille
pezzi d’oro».
2
È semmai l’immagine prodotta dall’elaborazione di tutti gli stimoli in entrata e
dall’interazione che essi hanno con quanto risulta sedimentato nella memoria e nel
sentire degli individui a governare i circuiti mentali attraverso cui prendono corpo gli
atteggiamenti e i comportamenti.
3
J. TROUT, S. RIVKIN, 1997, op. cit., p. 107.
- 230 -
compiuto. Proprio attraverso il processo elaborativo/di emissione e
ricettivo/elaborativo la parola si stacca dalla semplice natura di segnale per
consegnare all’intelletto del ricevente un significato proprio che, secondo la
contestualizzazione da egli fatta, va ad esprimere un intero e compiuto
sistema di significati.
SEGNALI
EMITTENTE
RICEVENTE
SEGNALI IN RISPOSTA
Mondo concettuale di
riferimento EMITTENTE
Mondo concettuale di
riferimento RICEVENTE
Figura 4.3 – Processo comunicativo.
La riuscita o meno del processo comunicativo, così come illustrato in
figura 4.3, dipende dal fatto che le parti facciano riferimento allo stesso
sistema concettuale di riferimento, di modo che da una parte il segnale sia
emesso in un codice facilmente (e naturalmente) interpretabile dal ricevente
e dall’altra questi sia nelle condizioni di emettere una risposta congruente
con il messaggio originale.
Entrambi i mondi concettuali di riferimento costituiscono allo stesso
tempo un filtro per le informazioni che vengono riconosciute come estranee
e non attinenti al particolare contesto, e un volano che dà un senso ed
- 231 -
un’interpretazione alla informazioni che riescono a filtrare.
Le parole, unità elementari del linguaggio, esprimono concetti che,
andando oltre la mera letteralità, diventano realtà attraverso l’elaborazione.
Una parola può riuscire ad esprimere, attraverso le invisibili associazioni
che per suo tramite avvengono nella mente, un intero mondo di significati
altrimenti non raggiungibile nelle medesime particolari fattezze.
La capacità di esprimersi attraverso le parole richiede la padronanza
del tempo umano. Esse, infatti, rappresentano oggetti, immagini, sentimenti
della memoria che rimangono immutati, operando una distinzione tra
quello che è permanente e quello che varia nell’esperienza del tempo. Le
parole descrivono caratteristiche del mondo che vengono giudicate stabili,
anche se poi, secondo le contestualizzazioni in cui si muovono e la
prospettiva in cui le pone l’esperienza, può cambiare il senso
soggettivamente attribuito a tali caratteristiche.
Le parole che rappresentano una nozione astratta sono quelle in cui è
più forte il livello di “permanenza” (si pensi in proposito al concetto di Dio,
di natura…). Ciò che è meno astratto è destinato a rimanere permanente
solo per un certo periodo1. Ma anche le parole più astratte – e quindi “più
permanenti” – cambiano in qualche modo nel tempo: nessuna parola o frase
può essere detta due volte e conservare identico significato in ogni sua
parte, perché sarà cambiato il contesto originale in cui era stata
pronunciata, anche ad opera delle espressioni rese manifeste2.
Il valore di un’immagine risulta essere relativamente basso quando
ad essa non si accompagna il suono. Viceversa, una volta che esso le si
accompagna, l’immagine assume tutta un’altra connotazione ed il
messaggio, fruendo di una maggiore comprensibilità descrittiva, aumenta
in consistenza ed impatto (non a caso il linguaggio è la base della
1
Questa concatenazione di permanenza e temporaneità, solo in apparenza
incongruente, non deve spaventare, poiché la ritroviamo alla base di ogni fatto umano e
non, tanto importante risulta essere la relatività delle cose.
2
Lo stesso non parlare produce delle conseguenze prima all’interno della
persona la quale elabora anche il senso dell’assenza di comunicazione ad esempio
accrescendo l’indolenza verso l’impossibilità verificatasi di esprimersi, poi, per suo
tramite, nell’ambiente in cui essa si trova ad interagire
- 232 -
dialettica). L’immagine, di per sé, non sembra trasmettere alcun significato
particolare: anche quando ciò possa apparire, si tratta, in realtà,
dell’attivazione di un collegamento di natura associativo tra l’immagine cui
l’individuo è esposto ed un significato pregresso presente nella sua
memoria e adesso evocato per conferire un valore all’immagine stessa. In
altre parole, come sopra asserito, chi si occupa di comunicazione fa ricorso
a quanto già si trova nella mente del target di riferimento in modo da
cercare di attivare i significati e le interpretazioni attribuite ai ricordi e alle
sensazioni sedimentatevisi, essendo questa la strada più veloce e sicura per
ottenerne l’accesso e raggiungere la posizione-obiettivo. Naturalmente, un
messaggio che sia ad un tempo visivo ed uditivo risulta in genere più
efficace di quanto non faccia invece uno incentrato solamente sull’uno o
sull’altro elemento sensoriale1.
Il potere evocativo delle parole va oltre il particolare riferimento
all’esperienza che le persone hanno della marca, potendo benissimo essere
proposta un’associazione che questa presenta con un qualsiasi elemento di
cui l’interlocutore ha conoscenza (diretta o derivata) ed è in grado di
valutare, più o meno consciamente, il senso. Non è quindi necessario che il
consumatore abbia un’esperienza diretta con la marca, salvo, naturalmente
il mantenimento di una certa plausibilità delle diverse associazioni
proposte. A volte, poi, il riferimento è a significati che, assenti nel singolo
soggetto o comunque da questi ritenuti inattendibili, sono invece
rintracciabili nella più vasta memoria collettiva o nel comune sentire di un
gruppo sociale cui viene fatto riferimento ed affidamento quale valido
interprete di segnali.
Le ragioni della particolare rilevanza che le parole hanno sono
rintracciabili nella diverse connotazioni che può assumere la memoria.
Esistono, a riguardo, due tipi di memoria: la memoria iconica, la quale
immagazzina immagini visive, e la memoria ecoica, che immagazzina
immagini uditive. La prima autoregistra automaticamente informazioni
visive quasi complete che però svaniscono assai rapidamente se il senso
1
Non pare comunque ancora chiaro quale dei due elementi sia più incisivo
quando utilizzato da solo. Tuttavia, è stato dimostrato come si ricordino meglio le
parole percepite in forma uditiva rispetto a quelle percepite in forma visiva.
- 233 -
espresso da esse non viene archiviato nella memoria a lungo termine (si
parla di una permanenza nell’ordine di un secondo). L’immagine uditiva
(anch’essa quasi completa), registrata allorquando l’orecchio percepisce
informazioni di tale natura, permane invece assai più a lungo – quattro o
cinque secondi – nella memoria ecoica. Ne segue che, a parità di tutte le
altre determinanti del tempo di ritenzione nella memoria e dell’importanza
delle informazioni ivi immagazzinate, la memoria ecoica ha una durata
superiore rispetto alla memoria iconica.
Ad ulteriore supporto del “primato” dell’orecchio rispetto all’occhio,
stanno ulteriori considerazioni. Esistono due generi di parole, quelle parlate
e quelle scritte, ed è stata misurata una velocità di comprensione superiore
nelle prime rispetto alle seconde (140 millisecondi per comprendere una
parola parlata contro 180 millisecondi nel caso di una parola scritta)1. Il gap
viene attribuito all’opera di traduzione che il cervello deve compiere per
riportare le informazioni visive a suoni comprensibili dalla mente. La
lingua scritta viene registrata nella mente in una forma interna di lingua
orale: conseguentemente, le parole scritte necessitano di essere riportate al
loro equivalente parlato per essere comprese2. Linguaggio e scrittura sono
due sistemi di segni ben distinti: il secondo è un mezzo secondario ed esiste
unicamente come rappresentazione del primo.
Oltre al fatto che la mente trattiene più a lungo le parole parlate
consentendo di mantenere più facilmente il filo del pensiero, l’ascolto di un
messaggio risulta più efficace rispetto alla sua lettura anche per l’impatto
emotivo che può fornire il particolare tono assunto della voce, risultando
quest’ultimo in grado di elevare la rilevanza della comunicazione grazie
alla maggiore attivazione recettiva che comporta. Tono e ritmo dell’eloquio
possono, in effetti, favorire notevolmente l’assimilazione dei concetti
espressi e l’apprendimento.
Quanto detto a proposito dei processi osservati per le parole scritte
vale anche in caso di stimoli puramente visivi, sviluppandosi il pensiero ad
un livello molto profondo del cervello nel quale tutto viene ricondotto a
1
Cfr. J. TROUT, S. RIVKIN, 1997, op. cit., p.110.
2
Una semplice evidenza empirica è riscontrabile nei lettori alle prime armi, i
quali muovono le labbra mentre seguono la lettura con il pensiero.
- 234 -
suono ed esperienza emergente. In sostanza, è l’orecchio a guidare l’occhio
e non il contrario, risultando il pensiero un processo di manipolazione dei
suoni e di attribuzione di significati basato sulla loro interpretazione. Si
vede ciò che si sente, ossia ciò che ci si aspetta di vedere in base al
messaggio sonoro. Viene, così, ribaltata l’asserzione “confuciana” dalla
quale siamo partiti: “una parola vale mille immagini”.
A livello di messaggio, perciò, sebbene il fattore visivo svolga un
ruolo di primo piano e le immagini diano maggiore spessore ed incisività
alle parole, l’elemento trainante è costituito dal fattore verbale e di questo
bisogna costantemente tenere conto nella definizione della strategia
comunicativa e nella sua estrinsecazione a livello operativo. Più in
dettaglio, alle parole scritte è attribuito il compito di sintetizzare e
convogliare in sé il significato del messaggio di vendita contrapponendo la
focalizzazione all’eccesso e ad una ridondanza in grado solamente di
accrescere il livello di confusione cui è esposto il potenziale acquirente1. I
titoli utilizzati in pubblicità, poi, oltre ad avere una forma piacevole,
devono avere anche un suono facile e gradevole, in modo da facilitare la
memorizzazione. Inoltre, le immagini necessitano di qualcosa che dia una
breve, ma efficace descrizione riuscendo a fermare l’attenzione del
pubblico su di esse ed evitando che quanto percepito passi nella mente
attraverso i sensi senza che di ciò rimanga in essa traccia tangibile2. La
distrazione da parte del target di riferimento nel momento in cui viene
esposto all’immagine determina, infatti, ingenti perdite di risorse per la
marca, oltre che deleteri problemi di comunicazione che conducono a
posizionamenti indesiderati poi difficili da correggere.
A riguardo, la chiarezza di contenuti e l’assenza di contraddizioni e riferimenti
evanescenti appaiono essenziali per conferire agli argomenti portati avanti un senso
maggiormente comprensibile ed assimilabile da parte del mercato.
2
Scrisse Oscar Wilde: «Non c’è che una cosa peggiore dell’essere portato per
bocca; ed è passare sotto silenzio».
1
- 235 -
4.2.2 – La scelta del nome.
Al di là delle apparenze estetiche e delle funzionalità riconosciute al
prodotto, l’identità di marca può assumere connotazioni assai differenti
secondo il nome con cui essa si presenta al mercato. Esso, tra gli elementi
che sono coinvolti nella costruzione dell’immagine di marca e ineriscono le
strategie di posizionamento, è di gran lunga quello più durevole 1. Il nome,
nelle parole di Trout e Ries, è «il gancio che tiene ancorata la marca sulla
scala dei prodotti nella mente del consumatore»2. Il nome, essenza del
concetto di prodotto, gli conferisce un’identità attraverso la creazione di
una singolarità ed è il primo punto di contatto tra il messaggio e la mente
del consumatore. L’efficacia del messaggio non dipende tanto dal fatto che
esso si dimostri bello o brutto dal punto di vista estetico, quanto piuttosto
dal fatto che sia appropriato o meno.
Nel constatare come «Si compra il nome assieme all’oggetto»,
Botton, Cegarra e Ferrari ne evidenziano la valenza espressiva ed
evocatrice: «Su un piano generale, i nomi incitano, permangono,
memorizzano. Valgono sia per le virtù loro proprie, sia per quelle acquisite
attraverso prolungate associazioni della memoria. Custode del ricordo, il
nome suscita l’attesa, crea un attaccamento, un desiderio di ritrovare.»3
La capacità associativa ed evocativa delle quali un nome è portatore
e che ne determinano la valenza devono essere attentamente studiate e
registrate durante la fase di lancio di un nuovo prodotto, in modo tale da
facilitarne la comprensione e la penetrazione dei contenuti evitando le
possibili distorsioni del messaggio originale4. Successivamente, con
1
Confezione, prezzo, pubblicità, ecc., si possono, solitamente, cambiare molto
più facilmente del nome, a causa del suo portato di associazioni sedimentate nella mente
del consumatore.
2
J. TROUT, A. RIES, 1986, op. cit., p. 103.
3
M BOTTON, J. J. CEGARRA, B. FERRARI, Il nome della marca. Creazione e
strategia, Guerini e Associati, 1992, p. 42.
A quest’opera si rimanda per un’analisi approfondita delle tematiche relative alla
creazione ed allo sviluppo del nome della marca.
4
Stante la dimensione globale che i mercati vanno sempre più assumendo, ad
esempio, è accresciuta l’importanza di pensare al nome in termini multilinguistici, in
- 236 -
l’acquisizione da parte della marca di un certo livello di notorietà e
familiarità, il nome costituisce un elemento rafforzativo dell’immagine che
essa ha presso il mercato e della posizione strategica occupata. Il nome,
anzi, finisce spesso per divenire l’asset più importante di un’impresa ed il
suo valore trascende il mero ed eventuale significato linguistico (concreto o
astratto che sia) risultando, invece, dal rilievo assunto dalle associazioni
che è in grado di generare. Una volta consolidato, il nome può costituire
una formidabile barriera all’entrata in grado di opporre alla concorrenza
una difesa più efficace e meno dispendiosa rispetto, per esempio, ad un
brevetto1. Nel caso, poi, in cui emergano problemi di posizionamento, la
modificazione del nome può rappresentare, per quanto ciò possa sembrare
forse troppo semplicistico, la soluzione più idonea per ridare vigore alla
marca incrementando gli atteggiamenti favorevoli verso di essa2.
Il principale problema che si deve affrontare nella scelta di un nome
è dato dalla gran quantità di nomi (parole) già presenti sul mercato e perciò
non disponibili. Con l’eccesso di informazione che caratterizza il presente e
pare in continuo aumento, diventa sempre più difficile trovare un créneau
valido non occupato già da qualcuno attraverso il quale accedere alla mente
dei potenziali clienti. Se in passato era possibile presentarsi ai consumatori
anche con un nome di impatto modesto, oggi ciò non è più possibile e le
imprese trovano quindi notevoli difficoltà ad aprirsi un varco nella loro
mente. In ogni situazione la marca venga a trovarsi, la questione
fondamentale è proprio questa: occorre trovare un nome che dia il via al
modo da estendere al massimo la comprensibilità dell’identità di marca ed evitare di
cadere in errori comunicativi che possono risultare molto costosi.
Conseguentemente, occorre valutare alcuni aspetti che coinvolgono la
nominazione, assicurandosi la presenza, nel nome, di adeguati livelli di accettabilità,
significato realmente esistente, pronunciabilità e, nel contempo, che non sussistano
eventuali connotazioni negative legate ad esso secondo la cultura ed il sentire del posto.
1
Quando, poi, l’innovazione risulta strettamente legata al nome, proteggere il
nome può bastare per proteggere anche l’innovazione.
2
Non bisogna mai sottovalutare l’importanza di un nome, dal momento che esso
può incidere pesantemente, in senso negativo o in senso positivo, sulla realizzazione del
proprio obiettivo.
- 237 -
processo di posizionamento o sia in grado di portare ad un appropriato
riposizionamento, secondo i casi.
In generale, i nomi direttamente connessi al vantaggio correlato al
prodotto, mostrando con immediatezza al potenziale cliente quale sia il suo
beneficio maggiore, sono quelli che si dimostrano più efficaci. Unendo la
marca al termine usato per definire la necessità, infatti, viene ad instaurarsi
un rapporto di reciproca influenza che produce le relative associazioni
ogniqualvolta uno dei termini coinvolti è chiamato in causa. Il processo di
posizionamento ha, in sostanza, termine lì: richiamando la necessità, il
nome e la posizione diventano quasi sinonimi fissando una categoria
concettuale nella mente.
L’assunzione da parte di un nome di connotazioni generiche è
fenomeno di per sé desiderabile, purché la genericità non sia portata agli
eccessi potendo determinare problemi di difesa della posizione1. Difatti,
una volta che la marca esce allo scoperto con un nome efficace, ma
talmente generico da non poter costituire una barriera all’imitazione, in
seguito alla sua diffusione presso i concorrenti il valore di origine e la
differenziazione basata sulle associazioni evocate vengono erosi fino a
divenire pressoché irrilevanti. Esiste, inoltre, genericità e genericità
riguardo a un nome, secondo il grado di concordanza e aderenza tra quanto
si vuole trasmettere e quanto risulta sedimentato nella memoria e negli
atteggiamenti delle persone. Un nome generico non mantiene
perennemente lo stesso significato: quello che poteva andare bene in
passato, non necessariamente incontrerà i favori del mercato oggi e ancor
meno è ipotizzabile per il futuro. I concetti e le parole che li esprimono
variano, cioè, nel tempo seguendo i movimenti che avvengono nei livelli
più profondi della mente e della società in generale2. L’obsolescenza è un
pericolo che incombe su qualsiasi marca e rischia, col passare del tempo, di
Ciò può succedere quando il nome si “avvicina” così tanto al prodotto da
diventare il nome generico dell’intera categoria, invece di rimanere il nome di una
marca specifica il nocciolo della questione è proprio questo: trovare dei nomi che sono
quasi, ma non del tutto, generici.
2
Il grado di “permanenza” delle parole e delle caratteristiche della realtà che
esse si propongono di descrivere è stato affrontato nel paragrafo 4.2.1.
1
- 238 -
divenire realtà salvo che non si provveda ad aggiornarne appropriatamente
l’immagine, anche attraverso modificazioni concernenti il nome.
Un utile punto di partenza per la ricerca che porterà
all’individuazione di un nome generico, è dato dalla semplice analisi del
funzionamento del nuovo prodotto, in modo da darne una descrizione
semantica alternativa più aderente con i concetti interpretativi di cui è
portatore il target di riferimento. Molta cura deve essere posta in questa
fase, onde evitare di cadere in nomi generici che, lontani dai luoghi mentali
comuni espressi dai consumatori, produrrebbero con tutta probabilità, per il
tramite di deleterie associazioni negative, deviazioni dall’immagine di sé
che la marca vuole trasmettere. È, ancora, una volta, il caso di affidarsi a
quanto risulta già presente nella mente dei potenziali acquirenti nella
ricerca di quell’orientamento spinto al mercato che prelude alla fusione
della marca con esso.
Vista l’influenza che l’impatto sonoro delle parole ha sui processi di
interpretazione e memorizzazione dei segnali, il nome deve essere scelto
tenendo conto di alcune generali, ma fondamentali caratteristiche che deve
presentare. Primariamente, oltre che pertinente al prodotto che rappresenta,
il suono prodotto dal nome deve essere gradevole all’udito, poiché ne
risulterà favorita la ripetizione verbale e mentale da parte del consumatore.
Un suono brutto potrebbe essere rifiutato in partenza generando,
anche a torto, associazioni negative difficili da ribattere proprio perché le
persone evitano l’esposizione. Si badi bene: non si intenda per bellezza
l’accezione estetica del termine. Si tratta, piuttosto, di una questione di
appropriatezza o meno di un nome rispetto al messaggio che si vuole
trasmettere, appropriatezza che va a dipendere strettamente dal sistema di
significati radicato nella mente dei potenziali clienti. Un nome brutto e non
appropriato provoca, per il tramite delle associazioni pregresse sedimentate
nella memoria e basate sui canoni interpretativi comuni del mondo di
riferimento dell’individuo, una serie di reazioni a catena che servono
solamente a confermare la sua prima impressione orientata al prototipo
mentale che più gli si avvicina, quella negativa.
- 239 -
Come sappiamo1, ogni persona ha, schematizzati all’interno della
propria mente, dei modelli interpretativi cui fa costante riferimento nel
valutare quanto si trova ad affrontare nel suo percorso esperenziale.
Basandosi sul raffronto dell’elemento sotto osservazione con gli attributi
dei prototipi di significato sulle basi dei quali procede alla categorizzazione
delle percezioni, l’individuo stabilisce un ordine tra esse, e poco importa
che compia un errore di valutazione, dal momento che, una volta stabilito il
valore attribuibile ad un oggetto mentale, tale valore diviene per ciò stesso
valido e reale fino a quando non sia riconosciuta l’evidenza contraria (cosa
che suole avvenire, peraltro, solo in seguito ad un processo lento,
travagliato e niente affatto scontato).
Un nome talmente generico da non poter rientrare nella categoria
mentale di appartenenza del prodotto corre seriamente il pericolo di rendere
la marca anonima, facendo perdere traccia di ogni possibile focalizzazione.
Il consumatore si trova di fronte, in quel caso, un soggetto la cui identità
appare molto sfumata e si rivolgerà con tutta probabilità a un competitore
che ne ha una più distinta.
Spesso, per sopperire al problema della disponibilità dei nomi le
imprese fanno ricorso all’utilizzo di acronimi o parole che non sono
depositarie di alcun significato. Questa pratica generalizzata non è, nella
maggior parte dei casi, condivisibile, divenendo opportuna e plausibile
principalmente quando viene posta in essere dall’impresa leader, l’unica a
poterselo permettere dato l’elevato grado di notorietà conseguito e
accumulato (anche se può benissimo valere anche per esse l’inopportunità a
procedere in questo senso).
Oltre che costituire una soluzione al problema della carenza di nomi
disponibili e per superare l’obsolescenza nella quale la marca può cadere,
utilizzare una sigla come sintesi di un nome può anche rappresentare un
modo per semplificarne l’accesso2. La ragione sta nel vantaggio fonetico
1
V. par. 2.1.3.
2
Può accadere, infatti, che il significato originario del nome non sia più coerente
con il business in cui l’impresa opera, a causa di diversificazioni effettuate, fusioni…e
quanto altro sia potenzialmente in grado di rendere meno focalizzata la posizione della
marca. In tutti questi casi il nome non rispecchia più l’identità di marca e il management
- 240 -
offerto dall’acronimo (o, comunque, da un’abbreviazione) rispetto ad un
nome la cui pronuncia può risentire pesantemente del numero e
dell’accostamento delle sillabe (è noto come i nomi brevi siano quelli più
immediatamente evocabili, constatazione suffragata dalla pratica di usare
dei diminutivi per i nomi lunghi o complessi). Tuttavia, in assenza di
vantaggi fonetici apprezzabili la maggior parte delle persone non userà le
iniziali: se c’è la possibilità di scelta tra una parola ed un gruppo di iniziali
che presentano la medesima lunghezza fonetica, viene preferito l’uso della
prima rispetto al secondo proprio perché dotata di un suo significato.
La notorietà pregressa, quale può essere quella di cui dispone un
leader, contribuisce notevolmente alle probabilità di successo di un nome
costituito da una sigla o da una sua abbreviazione. Il riferimento alla marca
e le associazioni sono, in quel caso, già costituiti e consolidati rendendo
immediato il riconoscimento da parte dei consumatori. In ogni caso, può
essere utile mantenere un rimando al nome originale di modo che
quest’ultimo risulti riconoscibile nel tempo, anche da coloro che lo
avrebbero altrimenti conosciuto.
In generale, i nomi espressi da parole prive di un proprio significato
hanno un impatto minore rispetto al caso opposto, a causa della minore
portata e del minor numero di associazioni evocate. La loro adozione fa
riferimento alle stesse situazioni nelle quali viene scelto l’acronimo o
l’abbreviazione, così come l’appropriatezza del loro uso risente degli stessi
loro condizionamenti. L’assenza di significato di un nome è, nel caso in cui
esso non si ponga come l’iniziatore di un’intera categoria, un difficile
ostacolo da superare perché un nuovo prodotto abbia successo. In effetti,
essendo presenti sul mercato competitori già affermati che hanno instaurato
solide relazioni con il relativo pubblico, un nome privo di significato non
cerca nell’acronimo di rompere i legami fuorvianti con il passato conferendole un ruolo
ed una posizione nuova.
Il problema è che da una parte chi aveva già familiarità con la marca d’origine
mantiene ancora a lungo le associazioni con essa, mentre dall’altra chi la conosce per la
prima volta, se essa non detiene la leadership della categoria di riferimento, non la
riconosce e ne determina la caduta nell’anonimato. È successo che i decisori d’impresa
hanno scambiato la causa – il successo e la leadership conseguita – con l’effetto – la
notorietà e la rilevanza conseguenti alla leadership –.
- 241 -
conferisce in genere alcuna distintività allo sfidante, relegandolo nella zona
grigia dell’anonimato. Viceversa, le migliori possibilità di sviluppo si
hanno quando l’impresa riesce ad essere la prima ad avere l’accesso alla
mente del consumatore ponendosi come l’inventrice di una categoria di
prodotto completamente nuova: quando il mercato muove i primi passi,
infatti, il fatto che il nome abbia un senso proprio o meno riveste
un’importanza secondaria.
Nel caso in cui si vengano a determinare delle associazioni negative
generate da un nome inadeguato o in cui emerga la necessità di ricorrere a
nuove associazioni incompatibili con il vecchio nome, può rendersi
opportuno, per la marca, porre in essere un processo di riposizionamento di
se stessa o della concorrenza. In questo caso, può rivelarsi utile polarizzare
la situazione in senso favorevole all’impresa, in un’ottica di medio-lungo
termine, rigirando i nessi a prima vista sminuenti ed evidenziandone,
invece, il potenziale valore per il consumatore. Alternativamente, si può
cercare di girare attorno al nome riposizionando il concetto usando le stesse
parole per ottenere il significato opposto. Una tattica più aggressiva può
prevedere il “riposizionamento dell’avversario” attraverso l’utilizzo di
argomenti, concetti, valori difficilmente controvertibili e abbastanza
plausibili da poter essere accettati dal potenziale acquirente, sui quali,
arrivando noi per primi, la parte riposizionata non ha potere di azione1.
Sostituire il nome con il quale un prodotto si è presentato al mercato
anche per molto tempo non è una decisione semplice da prendere. In
genere, anche senza considerare l’attaccamento che i decisori d’impresa
tendono ad avere verso una marca al cui sviluppo hanno a lungo prestato le
loro attenzioni, si manifesta la propensione a ricercare le cause
dell’insuccesso in elementi più tangibili o ad attribuirlo a incontrollabili
disturbi esterni, trascurando, in questo modo, il vero problema: l’erosione
del valore di marca. Una massiccia dose di obiettività è la principale
attitudine richiesta al management soprattutto nei momenti in cui emergono
In proposito, è fondamentale il tempismo: l’efficacia dell’azione dipende
strettamente dal fatto che siamo noi, e non i nostri concorrenti, a fare la prima mossa
occupando una posizione elevata dalla quale poi sarà difficile scalzarci.
1
- 242 -
problemi che investono la comunicazione e la proiezione dell’immagine di
marca.
Recuperare un nome vecchio e non usato da tempo, ma che mantiene
un’elevata notorietà ed una larga diffusione ed è appropriato alla posizione
desiderata, può costituire una valida opzione da tenere in considerazione.
Alternativamente, il nome inidoneo ad esprimere l’identità di marca è
sostituibile attraverso il ricorso ad una sottomarca in modo da deviare
l’attenzione del potenziale acquirente dagli attributi che maggiormente
contribuiscono a creare le associazioni negative, rendendo il percorso
cognitivo da questi seguito più libero ed evitando la confusione che nasce
dall’unire un nome dotato già di un proprio significato ad un nuovo
prodotto o servizio esprimente un concetto molto diverso.
Certe volte, allacciandoci a quanto argomentato nel paragrafo 3.4, è
la stessa impresa già detentrice di una marca ad essere, nel momento in cui
si appresta a lanciare un prodotto completamente nuovo, la principale
cagione dei propri problemi. Ciò avviene perché, volendo approfittare di
economie legate all’affermazione consolidata di un prodotto già presente
sul mercato (all’apparenza facili da conseguire utilizzando un collegamento
diretto che riporti ad esso), l’impresa usa il medesimo nome o una sua
minima variazione per lanciare il nuovo prodotto.
Il fatto è che, in realtà, ogni prodotto deve essere ideato e gestito in
modo che il mercato gli riconosca ed attribuisca una propria distinta
identità, diversa dalle altre offerte con le quali esso si trova a competere.
Solitamente, una marca che si distacchi del tutto da quelle dei concorrenti e
dagli altri prodotti offerti dall’impresa necessita, invece, di un proprio
spazio di movimento e di crescita, non intralciata dalle associazioni
derivanti da questi. Il motivo ultimo sta nel fatto che un nome il quale sia
già conosciuto, lo è diventato perché rappresentava qualcosa, aveva, cioè,
una sua collocazione nella scala valoriale che il consumatore stabilisce
nella propria mente riguardo alla categoria di riferimento. Affinché non
sorgano conflitti con esso, è generalmente opportuno che il nuovo prodotto
sia posto su una nuova, differente, scala. L’estensione del valore della
marca conosciuta alla nuova che ne andrebbe a sfruttare la forza, se pure
sembrerebbe essere sostenuta da una sua logica, si scontra, perciò, con i
- 243 -
processi mentali di percezione, interpretazione, valutazione. Uno stesso
nome non può rappresentare due prodotti diversi: almeno uno di essi, se
non entrambi, ne uscirebbe indebolito perdendo in favore dei competitori le
relative posizioni conquistate precedentemente.
Volendo razionalizzare il percorso che porta alla selezione del nome
con il quale l’impresa presenterà la propria offerta al mercato, possiamo
rintracciare dei punti focali che costituiscono altrettanti momenti critici cui
prestare la massima attenzione.
Il processo di generazione e selezione delle alternative deve essere
sistematico e, per quanto possibile, obiettivo. Esso deve essere preceduto
da un’analisi mirante a comprendere quali siano le parole e le frasi che
meglio esprimono e descrivono le associazioni giudicate utili per la marca
(questo elenco può, in seguito, essere ampliato attraverso una ricerca
dell’associazione tra parole). Alternative possono emergere, seguendo
Aaker, utilizzando le associazioni determinate in modo da combinarle in
frasi, creando parole che sono il frutto della combinazione di altre parole,
immaginando simboli da attaccare ad ognuna di tali parole, usando rime e
consonanze o ricorrendo ad effetti umoristici, aggiungendo prefissi o
suffissi, ricorrendo all’accostamento con parole di diversa natura, ma in
grado di funzionare come fonte di alternative descrivendo il carattere della
marca (animali, fiori e piante, personaggi, aggettivi, professioni, …),
ricorrendo a metafore1.
In particolare, alcuni criteri possono essere utilizzati per valutare
l’adeguatezza di un nome ad esprimere l’identità di marca:
- Facilità di interpretazione, memorizzazione e ricordo. Il fatto che
l’interpretazione risulti più o meno agevolata dipende essenzialmente
dal grado di fusione con il mercato che l’impresa è riuscita a conseguire,
attraverso il ricorso ad elementi espressivi coerenti con quanto risulta
già presente nella mente dei potenziali acquirenti ed è potenzialmente
sviluppabile, per il tramite delle associazioni, seguendo la traccia
visibile del loro particolare mondo concettuale di riferimento.
1
D. A. AAKER, 1997, op. cit., p. 243.
- 244 -
Altro aspetto importante del nome è dato dalla sua memorabilità. In
genere, come abbiamo visto nel par. 2.1.2, il ricordo risulta favorito da
un nome abbastanza insolito e diverso da attivare l’attenzione, ma non
troppo eccentrico1, in modo da non oltrepassare la soglia
dell’accettazione semantica comunemente riconosciuta e non fare
scattare una opposta reazione repulsiva. Qualcosa nel nome – come, per
esempio, una rima, un’allitterazione, un gioco di parole, una trovata
scherzosa – potrebbe, poi, renderlo interessante favorendone
l’accettazione. La sollecitazione di un’opportuna immagine mentale
(preferibilmente concreta e facilmente rintracciabile nella memoria
esperenziale delle persone, piuttosto che astratta), la presenza di un
significato intenso e non evanescente e la semplicità di un nome
permettono di permeare più agevolmente gli anelli di difesa che si
frappongono al raggiungimento di una particolare posizione nella mente
dei consumatori. Inoltre, non bisogna dimenticare la forza e la portata
che ha l’impatto emotivo delle parole: i nomi che inducono emozioni
positivamente accolte dai potenziali acquirenti comportano,
generalmente, un atteggiamento più favorevole nei riguardi della
marca2.
- Capacità di richiamare alla mente la categoria di appartenenza del
prodotto. Il consumatore deve essere posto in condizioni di riconoscere
immediatamente e con semplicità la categoria concettuale di riferimento
cui appartiene la marca. Se da una parte egli è in grado di memorizzare
solamente pochi pezzi di informazione per ogni scala di significati, ciò
implicando la necessità per l’impresa di riuscire a collocarsi tra essi,
dall’altra, una volta presente in codesta scala, ogni riferimento alla
generica categoria o ad una delle marche che occupano le sue prime
posizioni comporta il richiamo automatico all’altra metà di questo
A meno che l’eccentricità rappresenti una caratteristica imprescindibile del
target cui l’impresa si rivolge.
2
Come abbiamo visto, infatti, l’emotività incide sulla memoria. Le percezioni
avvertite, interpretate e memorizzate in un particolare contesto emotivo tendono, infatti,
a fare riemergere i sentimenti positivi o negativi (secondo il caso) legati a tale contesto
nel momento preciso in cui stimoli analoghi a quelli che le originarono si ripresentano
nel tempo.
1
- 245 -
schema rappresentativo, costituendo il fondamentale vantaggio offerto
dalla notorietà conseguita. Spesso, quindi, il nome riesce ad essere
determinante nel creare un’associazione con la categoria di cui fa parte
il prodotto o servizio.
Il risultato più favorevole alla marca si ha, come detto, quando il nome
diviene talmente generico da costituire il riferimento comunemente
accettato per l’intera categoria, senza però essere troppo generico
rischiando di disperdere il proprio valore e le proprie potenzialità. In
quest’ultimo caso, infatti, si viene a creare una situazione per la quale
diviene molto difficile e comunque sconsigliabile estenderlo ad altri
prodotti appartenenti a categorie differenti.
- Capacità di sostenere un simbolo o uno slogan. Come vedremo1,
simbolo e slogan rivestono, assieme al nome, con il quale devono essere
saldamente legati sfruttando le reciproche sinergie, un ruolo
fondamentale nella comunicazione dell’immagine di marca e nel
perseguimento di una strategia di posizionamento. Un nome che non si
accordi, quanto a significati ed associazioni evocate, con il simbolo e
con lo slogan costituisce un elemento di debolezza nella creazione del
valore di marca. Di conseguenza, occorre pensare l’uno e gli altri in
modo organico e coerente, cosicché riescano a rafforzarsi
vicendevolmente.
- Capacità di evocare le associazioni desiderate evitando quelle
indesiderabili. Il nome ha senso solo in quanto consente alla marca di
esprimere l’identità di cui è portatrice attraverso l’attivazione delle
associazioni idonee all’incontro delle aspettative del mercato con le
caratteristiche dell’offerta dell’impresa. Occorre, pertanto, analizzare
con estrema attenzione tutte le particolari associazioni, positive e
negative, che la marca è in grado di generare attraverso il nome. Le
prime andranno sviluppate mai perdendo di vista quale è il nucleo di
esigenze da soddisfare2; le seconde andranno corrette cercando di
1
Cfr. par. 4.2.3 e 4.2.4.
Molte volte, al contrario, le imprese tendono a dare una eccessiva enfasi ai
punti di aggancio con il consumatore che la marca ha posto in essere e, allontanandosi
dal cuore del proprio posizionamento, forzano tali associazioni ottenendo per tutta
2
- 246 -
eliminarle o, perlomeno, di ricondurle ad incongruenze meno gravi.
Essendo frequentissima la situazione che vede le associazioni positive
interrelate a quelle negative e viceversa, gli sforzi andranno nella
direzione di una linea di posizione tale da minimizzare queste ultime,
pur rimanendo consapevoli che non si potrà il più delle volte eliminarle
del tutto senza snaturare la posizione raggiungibile più idonea per
l’impresa per affrontare la competizione.
È da rilevare come non sia la forza assoluta dell’associazione a rilevare,
quanto piuttosto la sua coerenza al contesto in cui si sviluppa.
Un’associazione troppo forte del nome con una caratteristica del
prodotto può essere anche molto limitante in chiave futura: mercato,
tecnologia, aspettative ed esigenze dei consumatori possono evolversi
così velocemente ed in modo tale da rendere obsoleta e non più
desiderabile la caratteristica intorno alla quale ruotava l’intero sistema
di associazioni della marca. In assenza di un basso livello realizzato di
fusione e di orientamento al mercato può allora capitare che la distanza
tra la posizione occupata e quella ideale si faccia talmente grande da
poter essere difficilmente colmata senza il ricorso ad un cambiamento di
nome ed una strategia di posizionamento completamente nuova.
- Distintività. Il nome con il quale il prodotto o servizio entra in contatto
con il mercato non deve, in generale, confondersi col nome dei prodotti
concorrenti1. È importante, quindi, cercare di capire in anticipo se si
verificheranno associazioni con un prodotto concorrente e, nel caso in
cui ciò possa accadere, quali siano questi prodotti, di che tipo siano e
che portata abbiano tali associazioni e se non sia il caso di procedere ad
un riposizionamento basato su basi alternative in modo da fare propri
eventuali spazi non sfruttati dalla concorrenza.
risposta una progressiva disaffezione da parte del target che non si riconosce più
nell’offerta di cui la marca è sintesi. In questa maniera, si compie un errore attribuibile
all’emergere di una miopia strategica che espone la vecchia posizione detenuta
all’occupazione da parte dei concorrenti più avveduti.
1
Può capitare che sia vantaggioso per un prodotto confondersi con gli altri.
Questo è tipicamente il caso di marche di rango inferiore che mirano a mescolarsi con le
marche di prestigio, come avviene per le private labels, la cui confezione (quand’anche
non il nome) richiama quella dei concorrenti più noti ed affermati.
- 247 -
- Difendibilità legale. Questo punto può costituire l’ultimo baluardo posto
a difesa della posizione occupata, soprattutto per quelle imprese che,
prima delle altre, hanno saputo individuare un créneau nella mente dei
potenziali acquirenti utilizzandolo per ottenere l’accesso ad una
posizione privilegiata all’interno di essa, spesso dando vita ad una
nuova categoria concettuale i cui contorni erano fino a quel momento
tenui e sfumati e alla quale esse hanno avuto il merito di dare una forma
ben distinta ed individuabile. La bassa difendibilità legale rappresenta
l’altra faccia della medaglia che mostra da una parte i vantaggi di un
nome generico e descrittivo. Dopo la considerazione dei nomi inadatti,
l’indagine dei nomi inutilizzabili perché legalmente protetti è quella che
maggiormente contribuisce alla riduzione del numero di nomi tra i quali
operare la scelta finale. Ad essa segue l’analisi degli specifici punti di
forza e di debolezza delle varie, rimanenti, alternative di scelta.
4.2.3 – I simboli.
Nonostante tutti gli sforzi effettuati può accadere che non venga
conseguito, da parte dell’impresa, un adeguato livello di differenziazione.
Spesse volte, infatti, per ogni categoria di prodotto presente sul mercato le
alternative disponibili coprono già quasi tutti gli spazi praticabili per
affermare una propria, distinta, identità. Le differenze diventano allora
difficili da comunicare in modo efficace e credibile. Il ricorso ad un
simbolo in grado di dare rappresentazione all’identità trasmessa ed
incrementare il valore di marca può, in questi casi, costituire la vera
caratteristica differenziale sulla cui base sviluppare il posizionamento
strategico e la visibilità della marca stessa1.
1
In alcuni mercati, a dire la verità, i competitori sembrano non avvertire ancora
tutta l’importanza dell’avere un simbolo distintivo confidando, invece, nelle qualità
intrinseche della propria offerta e nel fatto che il potenziale cliente saprà riconoscerle e
premiarle. Il numero di tali situazioni sembra, comunque, destinato progressivamente a
ridursi, mano a mano che le imprese diventeranno coscienti dell’importante ruolo
comunicativo svolto da nome, simbolo, slogan.
- 248 -
Attraverso la notorietà conseguita e le associazioni evocate, il
simbolo va ad incidere sulla qualità percepita e sulla fedeltà del
consumatore. Questo elemento comunicativo di cui dispone l’impresa si
interrela al nome, del quale può essere, direttamente o indirettamente, un
supporto o la naturale continuazione ed estensione. Di qui la necessità di un
loro sviluppo armonico e coerente che impedisca il formarsi di percezioni
contraddittorie o addirittura contrastanti riguardo al prodotto o servizio
preso in considerazione.
I simboli possono essere di qualsiasi tipo, purché si rivelino adatti a
favorire il particolare posizionamento perseguito dall’impresa. Tra quelli
più ricorrenti troviamo forme geometriche, cose, forme particolari, logo,
personaggi, scenari, personaggi dei fumetti, … La scelta dipenderà, oltre
che dalla considerazione delle associazioni evocabili, dalla familiarità che i
potenziali acquirenti hanno con i diversi simboli tra i quali essa deve essere
operata. Al limite, simbolo e marca possono essere una solo cosa, ma
questo, similmente a quanto avviene riguardo ai nomi, solamente quando la
marca stessa sia già affermata e detenga la leadership del mercato contando
sul favore riconosciutole e consolidato nel tempo.
Il valore del simbolo dipende strettamente dalle associazioni che esso
è in grado di generare. Attraverso di esso, infatti, è possibile esprimere
significati anche molto complessi che altrimenti ben difficilmente l’impresa
sarebbe in grado di comunicare in forma sintetica ed incisiva al tempo
stesso. Il soggetto esposto al messaggio contenuto in un simbolo pare
recepirne più agevolmente i contenuti rispetto ad un lungo messaggio
linguistico. Non bisogna, tuttavia, cadere nell’errore di ritenere che risulti
assente il contributo delle parole, dal momento che ogni associazione
generata fa comunque riferimento a concetti difficilmente esprimibili senza
di esse. È, semmai, l’esatto contrario: il valore della parola della quale il
simbolo produce il riferimento risulta da esso maggiormente sottolineato,
dovendo, il soggetto cui la comunicazione è destinata, mettere in moto un
processo di interpretazione che nei significati e nelle risultanze prodotte
dalle parole stesse ha il proprio fulcro. Dietro un simbolo si cela ed opera
un intero mondo di parole e di associazioni generabili: si tratta di
individuare quello più confacente alle peculiari esigenze di posizionamento
- 249 -
dell’impresa.
Nel costruire un sistema di associazioni – quello più idoneo ad
evidenziare il posizionamento scelto – attorno ad un simbolo occorre tenere
conto di quelle, tra esse, che attualmente caratterizzano l’immagine di cui
la marca dispone. In effetti, poiché le associazioni dalle quali partiamo
possono essere anche molto radicate, cambiare radicalmente il tipo di
percezione che il target di riferimento ha dell’impresa è attività niente
affatto semplice e che richiede lo sviluppo di un programma a medio-lungo
termine. Inoltre, non va compiuto l’errore di seguire pedissequamente
l’esempio portato dall’impresa leader: cambiare i propri obiettivi strategici
in tema di associazioni, mentre da una parte è rischioso perché ci pone di
per sé in un taglio inferiore di imitatore, dall’altra potrebbe compromettere
irrimediabilmente quelle, tra le attuali, che risultano più coerenti con la
percezione che il mercato ha di noi e che costituiscono, invece, la
necessaria base di partenza per ogni programma di posizionamento.
Le associazioni evocate attraverso i simboli trovano la loro ragione
nel transfer di percezione che le persone attraversano. Soprattutto quando
viene usato il riferimento ad un personaggio esse tendono a trasferire la
sensazione provata nei confronti del personaggio stesso sugli oggetti che si
collegano significativamente ad esso. Provando disagio di fronte
all’incoerenza, l’individuo tende a rafforzare le associazioni più deboli (nel
nostro caso quelle relative al prodotto o servizio) modificandole ed
elevandole al rango di quelle inerenti al simbolo. Naturalmente, grande
attenzione andrà posta al mantenimento di quanto implicitamente promesso
attraverso il riferimento utilizzato: un’esperienza insoddisfacente potrebbe
stimolare un atteggiamento negativo verso la marca, tale da contrastare, se
non modificare profondamente l’influenza positiva esercitata dal simbolo.
Il simbolo, la cui prima funzione è stata quella di indicatore della
marca, può anche migliorare l’associazione che essa ha con la categoria
concettuale di appartenenza attraverso la creazione di un legame visibile
con essa. Tuttavia, occorre operare in modo da renderlo unico, poiché vi è
il rischio concreto e sempre incombente che il valore di una marca possa
essere sfruttato, attraverso l’ideazione di un simbolo analogo, da qualche
imitatore (si pensi, a riguardo, al valore simbolico della confezione ed alla
- 250 -
sua imitabilità). Essendo la difendibilità legale tutt’altro che completamente
affidabile, la strada che più proficuamente può essere percorsa è, a tal
proposito, quella del potenziamento dell’unicità del simbolo e delle
associazioni da esso evocate. Esistono, però, dei seri fattori che
contribuiscono a limitare le possibilità offerte da quest’opzione. In primo
luogo, c’è il rischio, nello sviluppare associazioni originali ed uniche, di
crearne di incongruenti (e perciò indesiderate) con la radicata percezione
che il mercato ha della marca, con il risultato di perdere focus riguardo alla
posizione attualmente detenuta senza poi riuscire a godere dei vantaggi
promessi dalle nuove associazioni.
In secondo luogo, se l’unicità ed il risalto necessari a fornire un
rilevante supporto mnemonico risultano favoriti dall’adozione di immagini
particolari, inconsuete, in grado di creare delle interessanti e significative
incongruenze (un simbolo che rompa con la tradizione semiotica del
mercato ha maggiori probabilità di essere notato), d’altra parte ciò va a
scapito della semplicità e dell’immediatezza del messaggio: l’associazione
tra un simbolo e un prodotto, se il primo riflette o ricorda il secondo, viene
colta più facilmente correndo, tuttavia, il rischio di passare inosservata tra
la molteplicità di segnali analoghi che ne rendono più ardua la distinzione.
Inoltre, un simbolo che si discosti dagli elementi contenutistici tipici
del mercato di riferimento risente maggiormente del modificarsi del
contesto in cui viene applicato, denotando una inferiore capacità di
trasposizione dei propri significati nel caso in cui si voglia procedere, per
esempio, all’introduzione di nuove versioni del prodotto che ne vadano ad
ampliare la gamma. Esiste un trade-off molto importante da tenere in
considerazione: se il simbolo (e la marca) possiede delle associazioni
estremamente forti, le sue capacità di adattamento, di riposizionamento e di
estensione possono ridursi notevolmente. Un simbolo che si caratterizzi per
un’associazione debole con la categoria d’appartenenza, ha, comunque, una
flessibilità strategica più elevata. L’upgrading del simbolo non è attività
così saltuaria come si potrebbe credere, e neppure senza rischi. I problemi
per la marca possono nascere perché, con questa decisione, si da l’inizio a
un processo d’identificazione ex novo, con le incognite ed i pericoli del
caso. D’altra parte, si tratta di una scelta che a volte diventa necessaria a
- 251 -
causa dell’obsolescenza che può investire il simbolo o, comunque, per
l’insorgere di associazioni indesiderate e negative per la soluzione delle
quali il suo cambiamento, decisione spesso molto sofferta, pare essere
l’unica soluzione.
Il simbolo e le associazioni che esso genera devono essere protetti e
salvaguardati nel tempo, evitando di inserirli in situazioni che potrebbero
minarne l’equilibrio e di porre in essere delle azioni che modifichino il
contesto in cui sono inseriti arrischiando di distorcerne il significato
originale. Se, ad esempio, la concessione del simbolo in licenza permette di
aumentarne l’esposizione e la notorietà, si corre, nondimeno, il pericolo di
allargare, con i contesti in cui esso viene attivato, anche la possibilità che si
determinino delle associazioni negative o comunque indesiderate che ne
vadano ad erodere il valore proprio a causa dell’inadeguatezza di tali
contesti ad esserne espressione (senza considerare il rischio di una
sovraesposizione causa di noia, quand’anche non di irritazione, da parte del
pubblico).
4.2.4 – Lo slogan.
Il terzo elemento espressivo che prendiamo in considerazione ai fini
della costruzione del messaggio comunicativo sulla cui base viene costruito
un posizionamento o un riposizionamento, lo slogan, è quello più versatile
e che maggiormente si presta, nel tempo, ai ripensamenti ed agli
aggiornamenti che possano rendersi necessari. Se la combinazione di nome
e simbolo è in grado di rafforzare, agendo sinergicamente, il valore di
marca, essa, tuttavia, trova delle limitazioni quanto all’incisività dei
concetti esprimibili. È allora lo slogan a coprire gli eventuali vuoti
comunicativi, divenendo il collante dei diversi processi psicologici attivati
dalla marca e consegnando al messaggio un rilievo e una valenza che
trascendono e contribuiscono a riunire al tempo stesso gli apporti degli altri
elementi che costituiscono la strategia di posizionamento. Simbolo e slogan
possono diventare asset importanti e devono essere saldamente legati al
nome. Quando un nome è in grado di sostenere simboli e slogan efficaci, il
collegamento di questi elementi evocativi con esso viene notevolmente
- 252 -
facilitato.
Uno dei vantaggi che presenta lo slogan rispetto al nome ed al
simbolo è costituito dalla rilevanza molto minore – e spesso dalla diversa
natura – dei vincoli, legali e non, in cui occorrono invece questi ultimi.
Particolare attenzione deve essere posta per quanto riguarda la pubblicità
comparativa, laddove tale strumento non risulta vietato. Essa rappresenta il
principale mezzo con il quale l’impresa può procedere al “riposizionamento
dell’avversario”, la modificazione diretta, attraverso un nostro messaggio,
delle associazioni che lo legano al mercato. Abbiamo già osservato come,
nel momento che una scala di valori è già stata creata nella mente e le
prime posizioni lungo essa siano già occupate, l’unico modo per avere
accesso alla preferenza dei consumatori è quello di spostare una marca dal
gradino occupato per poi cercare di prenderne il posto1. Una volta
constatata la difficoltà ad aprire un nuovo créneau, in altre parole si pone
per la marca la necessità di riposizionare la concorrenza nella mente del
potenziale acquirente. Per farvi entrare una nuova idea o prodotto è
necessario prima liberare il campo da quelli vecchi. Il riposizionamento
della concorrenza è incentrato sulla costruzione di un collegamento con i
concetti sedimentati nella mente dei potenziali clienti e da loro accettati.
Per ogni esistente categoria, il cliente conosce già i vantaggi derivanti
dall’uso di un determinato prodotto ad essa appartenente. Per far sì che il
nuovo prodotto posa salire in alto nella scala di riferimento nella mente dei
consumatori, è indispensabile collegarlo con quelli in essa presenti.
Secondo la particolare posizione di partenza dei contendenti, si
avranno differenti strade percorribili. Ad esempio, se l’attacco è portato
con un offensiva frontale diretta al leader di mercato, occorrerà trovare
preventivamente una “debolezza nella sua forza”. Questa apparente
contraddizione sta a significare un importante concetto: esiste sempre un
punto debole nella posizione della marca leader che discende direttamente
1
Ciò dipende dal fatto che le persone hanno memoria solo per le prime posizioni
della categoria concettuale in considerazione: la forza del posizionamento di un’impresa
dipende, allora, dal riuscire a mantenere o a conquistare uno spazio di rilievo nella loro
mente divenendo uno dei terminali di arrivo nell’associazione tra il bisogno e la
categoria da esso promossa da una parte, e le marche riconosciute come solutrici
dell’esigenza percepita.
- 253 -
dalla sua stessa leadership ed è per essa difficile da eliminare, nel caso in
cui riesca a riconoscerlo, proprio perché è insito nella sua forza. Una
posizione comporta praticamente sempre una edificazione di associazioni
attorno ad un focus, lasciando inevitabilmente scoperti spazi mentali
attaccabili e occupabili dai competitori più accorti e sagaci.
Riposizionare la concorrenza significa dire qualcosa sul suo prodotto
piuttosto che sul nostro, di modo che il potenziale cliente cambi la sua
percezione ad esso relativa, aprendosi, in tale maniera, nuove prospettive
per il posizionamento della marca che attua l’offensiva. Evocando le
marche presenti al suo interno ed illustrando, evidenziandone il reciproco
valore, le forze in campo e le associazioni indotte dai diversi competitori,
una simile azione presenta l’ulteriore vantaggio di stimolare l’attenzione e
l’interesse verso l’intera categoria concettuale di riferimento. Attraverso il
riposizionamento della concorrenza viene comunicata ed enfatizzata la
differenziazione tra i prodotti o servizi, ma ciò non significa che si tratti
semplicemente di prendere quello dell’avversario come riferimento e di
dire all’interlocutore che il nostro è migliore rispetto ad esso, perché un
approccio del genere risulta troppo banale per essere ritenuto valido ed
affidabile.
Lo slogan, attraverso l’induzione portata dalle parole che lo
compongono e dalle sensazioni evocate, fornisce alla marca delle
associazioni addizionali, andando ad arricchire rielaborandoli i concetti
espressi dal nome e dal simbolo. Ma il suo rilievo ed il contributo offerto al
posizionamento della marca sanno anche essere indipendenti rispetto agli
altri fondamentali elementi nei quali si estrinseca il messaggio
comunicativo, dimostrando la capacità di generare un suo proprio valore
concretamente sfruttabile.
L’efficacia di uno slogan è visceralmente legata alla sua pertinenza al
mondo concettuale di riferimento del consumatore ed alla particolare
percezione che egli ha della categoria di prodotto e della specifica marca in
considerazione. Il costante riferimento deve essere posto a quanto è già
presente nelle convinzioni dei potenziali clienti: esistono argomenti che ad
una marca non è concesso di supportare, nonostante siano idealmente
corretti ed opportuni da sviluppare. Ciò che non viene riconosciuto dal
- 254 -
mercato è, solo per questo, inesistente e inutilizzabile, salvo riuscire a
spostare la prospettiva su un diverso punto focale (ma siamo, qui, nel pieno
processo di riposizionamento). In termini di riposizionamento, è essenziale
riuscire a trovare un modo per collegarsi a quanto la mente ha già assorbito:
il messaggio di riposizionamento deve necessariamente prendere il via da
quel punto di partenza naturale che è la percezione sedimentata.
La ragione ultima dell’importanza dell’avere una posizione definita è
rintracciabile nella distanza percepita tra la marca ed i vari concetti che le
possono essere associati. A riguardo, se è vero che le distanze mentali
possono essere percorse, ciò non implica necessariamente la copertura di
qualsiasi possibile posizione, poiché, come sappiamo, il punto di approdo
non deve risultare già occupato da qualcun altro. Il semplice avvicinamento
può, anzi, essere deleterio per la marca, dal momento che, mentre da una
parte si lascia una posizione focalizzata e probabilmente percepita come
alternativa da una parte dei consumatori la quale offriva comunque una sua
certezza e definizione (anche se di taglio inferiore e meno profittevole della
posizione ideale), dall’altra si rischia seriamente di rimanere esclusi dalla
posizione obiettivo senza avere punti focalizzati su cui ripiegare, nella
pericolosa assenza di una identità di marca riconosciuta dal mercato.
Lo slogan, inoltre, deve essere specifico, non generico e valido per
tutte le occasioni. L’appropriazione che le persone tendono a portare avanti
nei confronti dei messaggi percepiti deve in ogni caso ricondurre al
prodotto o servizio, al sistema di attività che lo contraddistingue e alle
associazioni connesse a tali attività. Insistere su un messaggio pregnante,
ma non in grado di attivare le associazioni con il prodotto finisce col
produrre solamente un incremento delle spese pubblicitarie, senza che si
abbiano i risultati attesi in termini di posizionamento. Al contrario, un
adeguato livello di specificità rafforza il legame con la marca e
l’importanza percepita della comunicazione: il target viene posto di fronte
ad un messaggio che travalica le soglie dell’ovvietà attivandone
l’attenzione e la ricettività1.
A livello di interpretazione succede che “un” messaggio diventa “quel”
messaggio, aumentando così in rilevanza e valore.
1
- 255 -
Specificità e pertinenza sono, poi, alla base di quella forma di
ricordabilità che rende pienamente fruibili, da parte del consumatore, le
associazioni connesse alla particolare posizione ricoperta dalla marca. Il
ricordo, in altre parole, si fa nitido e vivo nella memoria della persona, di
modo che gli sforzi comunicativi (ed eventualmente creativi) non risultino
fini a se stessi, ma vengano incanalati in direzione della generazione di
valore per la marca.
4.3 – Posizionamento e persuasione
4.3.1 – Persuasione, potere e comunicazione.
Le persone intraprendono un processo di comunicazione con lo
scopo principale di ottenere che l’interlocutore modifichi il suo
comportamento adeguandolo alla volontà di chi a tale processo dà inizio.
Operando in questo senso la comunicazione pare orientarsi anche ad altri
scopi, tutti, però, di una qualche matrice manipolativa, sia che si tratti di
modificare atteggiamenti, che valori o credenze della controparte1. Del
Fiocca (R. FIOCCA, Relazioni, valore e comunicazione d’impresa. La
comunicazione integrata nell’economia delle imprese, EGEA, 1993, p. 45) definisce
comunicazione «tutto ciò che, esplicitamente o implicitamente, incide (modificandoli o
rinforzandoli) e sugli atteggiamenti delle persone», rendendone la vastità del campo di
applicazione. Non si tratta di una definizione eccessivamente generica, ipotizzando,
l’autore, che la comunicazione crei valore economico arrecando benefici diretti per
l’impresa, se gestita correttamente ed in maniera intelligente, sia in termini di capacità
competitiva, sia sul versante reddituale. Di più: per Fiocca «Il valore dell’impresa si
evince dalla capacità dell’impresa stessa di adattarsi, in modo continuo e articolato, ai
1
fabbisogni espressi dalle domande (di mercato, di lavoro, di capitali); fabbisogni che
hanno la peculiarità di essere individuali e mutevoli nel tempo (p. 10)». Ritroviamo, in
queste parole, concetti riconducibili a quell’ideale di fusione con il mercato che
abbiamo riconosciuto essere il punto di fuga verso cui far convergere le prospettive
strategiche aziendali, allo stesso modo in cui traspare il rilievo in cui l’autore pone i
fenomeni associativi e la loro funzione di connettori di significati tra le parti coinvolte
nel processo comunicativo: «Le capacità di adattamento dell’impresa si realizzano nelle
relazioni. E la comunicazione è l’elemento centrale (il vettore) di tali relazioni (p. 10)».
- 256 -
resto, alla fine, non si può fare a meno del constatare come atteggiamenti,
valori, credenze altro non costituiscono che la necessaria premessa
all’adozione di determinati comportamenti. Nel dare avvio al processo
comunicativo, la naturale convinzione di cui l’emittente è portatore è quella
di andare a mutare il corso degli eventi in senso a lui favorevole 1 attraverso
la modificazione del comportamento di chi riceve le informazioni
Se è vero che la comunicazione presenta sempre, tra i propri fini, la
modificazione del comportamento dell’interlocutore, allora risulta anche
evidente che la problematica della comunicazione coincide con la
problematica del potere. Quest’ultimo è inclusivo di due significati simili,
ma non identici. Da una parte, infatti, il potere implica mancanza di
ostacoli a fare, assumendo, quindi, una veste eminentemente negativa
riguardo alla possibile frapposizione di intralci. Dall’altra, esprime la
capacità di ottenere che il comportamento dei terzi si adegui alle intenzioni
dei detentori del potere; in questo caso presenta una connotazione positiva
che favorisce questi ultimi. Ciò che più conta, ed accomuna entrambe le
prefigurazioni date di potere, è che esso comporta l’adeguamento del
comportamento dell’interlocutore all’interesse del detentore del potere. È
In un’opera successiva (R. FIOCCA, E. CORVI, Comunicazione e valori nelle
comunicazioni d’impresa, EGEA, 1996, p. 19), la relazione riconosciuta tra
comunicazione e valore emerge ancora più chiaramente: «L’obiettivo ultimo della
comunicazione è la creazione e la diffusione del valore d’impresa». Allo stesso modo,
gli autori (p. 22) evidenziano il nucleo centrale del problema della simbiosi dell’impresa
con il mercato: «Allorché si afferma che l’obiettivo finale della comunicazione nei
confronti del sistema-ambiente e del sistema-impresa è rintracciabile nella modifica
degli atteggiamenti, che consentono lo sviluppo di comportamenti funzionali alle
finalità dell’impresa, si intende sostenere che la comunicazione consente all’impresa di
intrattenere migliori relazioni con l’ambiente. Migliori relazioni con l’esterno e al suo
interno significano maggiore sintonia, superiore capacità di rispondere ai bisogni e alle
esigenze dell’ambiente di riferimento e più elevate possibilità di assolvere al meglio il
ruolo dell’impresa come unità economica. La comunicazione è quindi un meccanismo
di avvicinamento dell’impresa ai mercati e, più in generale, ai sistemi ambientali; essa
rappresenta il vettore principale dei flussi di relazioni che inseriscono l’impresa
nell’ambiente in modo unitario e sistemico, e crea valore avvicinando reciprocamente
domanda e offerta».
1
Favorevole nel senso di andare nella direzione desiderata, qualunque essa sia.
- 257 -
nella capacità di persuasione (o di dissuasione, secondo l’angolo visuale da
cui si guarda la questione) che si esprimono le posizioni di forza relativa ed
il potere.
Coincidendo le problematiche della comunicazione con le
problematiche del potere, occorre analizzare preventivamente la
coniugazione della prima con il secondo, la quale può dare luogo a tre
situazioni che possiamo ritenere pure:
- al potere inteso come coercizione corrisponde un modello comunicativo
che si risolve in un ordine imperativo;
- il potere si esprime in una attività di convinzione attraverso la
formulazione di una spiegazione razionale (convinzione);
- il potere viene esercitato attraverso un’opera di persuasione.
Possiamo assumere, ai nostri fini, che il potere venga esercitato
mediante il ricorso alla convinzione ed alla persuasione, escludendo quindi
il caso della coercizione. “Convincere” una persona significa fare appello
alle sue capacità di razionalizzazione in modo da dimostrare la validità
della base delle asserzioni espresse, la quale verrà in seguito assunta per
data al reiterarsi delle medesime condizioni. “Persuadere” una persona,
invece, vuole dire modificarne gli atteggiamenti ed i comportamenti
abituali in questo caso attraverso una strategia comunicativa volta a
sfruttare gli elementi simbolici, più che quelli logici, facendo appello a
emozioni ed agli avariati aspetti – anche irrazionali – della psiche.
Oggi, tuttavia, la psicologia tende a superare questa distinzione
considerando che non esistono messaggi totalmente razionali o totalmente
emotivi. Un incremento delle caratteristiche logiche di un messaggio non
implica un decremento delle sue caratteristiche emotive, e viceversa. Anzi,
il messaggio più persuasivo è probabilmente quello in cui coesistono il
massimo di logicità e di emozionalità.
In seguito alle considerazioni testé espresse, potremmo dare una
possibile definizione del processo di persuasione intendendolo come l’atto
di manipolare simboli – verbali e non verbali – in modo da produrre
cambiamenti nel comportamento valutativo o negli atteggiamenti di coloro
- 258 -
che tali simboli sono chiamati a interpretare.
Nel più elementare modello di persuasione un individuo tenta di far
percepire ad un altro due diversi stimoli collegati da una relazione: il
primo, lo “stimolo-oggetto”, costituisce l’oggetto della persuasione, la tesi
controversa; il secondo, lo “stimolo motivazionale”, riguarda una tesi che
non incontra l’ostilità aperta dell’interlocutore e sulla quale, anzi, è
presumibile che ci sia, o possa essere trovato, accordo. In questo contesto,
al persuasore spetta il compito di costruire una specie di sillogismo, ovvero
trovare l’accordo sullo stimolo motivazionale e mostrare come da esso
discenda necessariamente lo stimolo-oggetto.
La realtà, tuttavia, si presenta assai più variegata e complessa di
quanto riesca ad esprimere questo paradigma di base, dal quale, peraltro,
conviene comunque prendere le mosse. Solitamente, infatti, esiste una
pluralità di stimoli motivazionali e dovranno, di conseguenza, essere
enunciate più tesi e affermazioni che, corroborate dalle rispettive prove e
testimonianze (dati, fatti storicamente provati, …), dovrebbero portare
l’interlocutore a riconoscere la necessità di aderire a quella che gli è stata
provata.
4.3.2 – Tecniche di persuasione.
Le più comuni tecniche di persuasione possono essere derivate (e
quindi sviluppate) direttamente a partire dalla considerazione della teoria
della gerarchia dei bisogni1 e di quella della dissonanza cognitiva.
1
Secondo Maslow (v. A. H. MASLOW, Motivation and personality, Harper &
Row, 1954, citato, tra gli altri, in N. DAMASCELLI, 1993, op. cit., p. 88) i bisogni umani
si dispongono secondo una precisa gerarchia (una scala gerarchica “di prepotenze”), in
base alla quale il passaggio al livello superiore nella ricerca della soddisfazione dei
bisogni, avverrebbe solo in seguito al soddisfacimento di quello attualmente percepito
come attuale ed incombente.
L’uomo, nella visione dell’autore, tende a soddisfare prioritariamente i bisogni
fisiologici, e quindi, rispettivamente, il bisogno di sicurezza e protezione, quello di
socialità e appartenenza al gruppo), quello di stima, quello di autorealizzazione. La
struttura dei bisogni presenterebbe, inoltre, un’evoluzione in funzione dell’evoluzione
dell’individuo.
- 259 -
Damascelli individua quattro tipiche tipologie di intervento comunicativo
orientato alla persuasione1:
A. Tecniche di persuasione basate sul fattore paura/bisogno di
sicurezza.
B. Tecniche di persuasione basate sul bisogno di appartenenza.
C. Tecniche di persuasione basate sul bisogno di stima e autostima.
D. Tecniche di persuasione basate sulla dissonanza cognitiva.
A – TECNICHE DI PERSUASIONE BASATE SUL FATTORE PAURA/ BISOGNO DI
SICUREZZA.
Accordandoci a quanto già illustrato in particolare nel secondo
capitolo2, non possiamo non riconoscere come, nell’epoca del provvisorio e
della precarietà, le situazioni sociali si fanno talmente instabili da generare
una generale apprensione e paura in chi si trova ad affrontarle. Il più
potente fattore scatenante, in proposito, è costituito dal cambiamento, il
quale sconvolge l’ordine degli schemi mentali pregressi attorno ai quali la
persona edifica i propri schermi difensivi: una volta aperto un varco nelle
sicurezze su cui confidava, si apre per essa uno scenario sconfortante ed
inizia la ricerca di una rapida ritirata entro un guscio protettivo alimentato
da nuovi, e in genere di taglio inferiore, convincimenti ed atteggiamenti
tendenti (e miranti) ad una rinnovata abitudinarietà in grado di ricreare un
In realtà, comunque, sussiste sempre una certa coesistenza tra le diverse
categorie di bisogni, l’importanza particolare delle quali può variare secondo le
caratteristiche dei singoli individui, delle loro esperienze cumulate nel tempo e delle
interpretazioni ad esse date, dei diversi aspetti circostanziali.
In una successiva rielaborazione, Maslow aggrega i bisogni fisiologici e di
sicurezza nella comune categoria dei bisogni da deficit (quelli che spingerebbero
l’individuo a colmare le carenze organiche e psicologiche) ed i bisogni di appartenenza,
di stima, di autorealizzazione in quella dei bisogni collegati con la crescita
dell’individuo (quelli che lo spingono a migliorare e realizzare se stesso).
1
N. DAMASCELLI, 1993, op. cit., pp.96-103.
2
Cfr. par. 2.3.
- 260 -
certo equilibrio, seppure ad un livello più basso. Si tratta, a ben vedere, di
ricorrere a concetti ben noti e presenti da molto tempo nell’armamentario
semantico di cui hanno fatto uso gli uomini nei secoli (spesso, ad esempio,
capita di imbattersi in messaggi incentrati su di un’allegoria la quale,
costituita da elementi tipici – la metafora, la personificazione, il conflitto
morale –, svolge oggi per la pubblicità una funzione analoga a quella che
ricopriva nella letteratura medievale1).
La percezione, più o meno conscia, della paura e l’importanza del
bisogno di sicurezza costituiscono l’elemento portante della persuasione
che si basa proprio su quest’ultimo elemento. D’altra parte, il bisogno di
sicurezza occupa il secondo gradino nella scala gerarchica dei bisogni di
Maslow, subito dopo i bisogni fisiologici. In virtù di queste considerazioni
è facile, allora, comprendere le ragioni del successo di quei messaggi che,
anziché contrastare le paure, si incentrano sulla loro esagerazione,
confermando il pubblico nelle sue insicurezze latenti ed enfatizzando gli
elementi rassicurativi che la marca è in grado di evocare. L’efficacia di
questo genere di argomenti comunicativi è dovuta essenzialmente al fatto
che essa fa appello a un fondamentale aspetto irrazionale della personalità
umana: è molto più facile rimanere persuasi degli aspetti negativi di una
vicenda e che tutto vada male, piuttosto del contrario.
Tipico esempio di una strategia comunicativa di matrice persuasiva
che fa leva sul bisogno di sicurezza è il ricorso a testimonial, i quali,
soprattutto con riferimento ai nuovi marchi o prodotti, incoraggiano il
potenziale acquirente alla prova sulla base dell’associazione con il successo
che la presenza del testimonial genera. In particolare, si riduce il rischio
percepito di un eventuale insuccesso, dal momento che il consumatore si
sentirà spalleggiato dalla stessa aura di approvazione generalizzata che
circonda il personaggio al centro del messaggio: la riprovazione connessa
ad un errore diverrà assai più improbabile in quanto numerose sono le
persone che percepiscono positivamente il portato valoriale e simbolico del
testimonial e che cercheranno, nel possibile, di imitarne il comportamento.
Per uno studio sulla relazione tra l’allegoria e la strategia pubblicitaria si veda:
B. B. STERN, Medieval allegory: roots of advertising strategy for the mass market,
Journal of marketing, luglio 1988, pp. 84-94.
1
- 261 -
Il fallimento della prova, così, passerà da una scelta personale scorretta
(origine di demerito) ad un errore condiviso, perciò plausibile e senza
dubbio più accettabile.
Significato analogo ed equivalente è quello derivante dall’adozione
di un tono comunicativo fortemente aggressivo (ad esempio portato avanti,
nel tentativo di riposizionare la concorrenza, dalla pubblicità comparativa)
che, al limite, manchi di rispetto per gli interlocutori1, le tesi dei quali
vengono svilite e ridicolizzate. In questo caso, il meccanismo attivato è
quello che spinge le persone più timide ed insicure a schierarsi dalla parte
di chi dileggia o comunque a rimanere neutrali nel timore di ritrovarsi dalla
parte di chi subisce un così cruento attacco psicologico e morale. E, d’altra
parte, per vincere paure e insicurezze, potrà emergere la tendenza a
schierarsi dalla parte di chi appare più forte e sicuro.
B – TECNICHE DI PERSUASIONE BASATE SUL BISOGNO DI APPARTENENZA.
A volte, la strategia persuasiva viene impostata facendo leva
soprattutto nella tendenza al conformismo di gruppo. In effetti, trovarsi
inseriti in un gruppo e trovarsi in posizione minoritaria significa per gli
individui essere sottoposti a forti pressioni intese a ripristinare la
conformità con le opinioni ed i comportamenti della maggioranza. Andare
contro corrente all’interno di una comunità, la quale richiede
comportamenti rientranti nei canoni di accettabilità affermati in relazione
alle specifiche circostanze e al tempo in cui si svolgono, non è affatto cosa
semplice, specialmente se si parte da una posizione di debolezza relativa e
se uno dei motivi di fondo che spingono alla partecipazione al gruppo
esercitante la pressione è dato dal bisogno di sicurezza. Infatti, il pericolo
1
Naturalmente, deve risultare che questo è quanto essi si aspettano necessitando
di un qualcosa che li istighi e li forzi ad un comportamento che, altrimenti, non
avrebbero il coraggio e la forza di seguire. Spesse volte, infatti, il bisogno di sicurezza
diviene bisogno di avere una sorta di padre-padrone cui affidare la propria sorte e che
sollevi dalle problematiche – stressanti e potenzialmente sconvenienti per gli equilibri,
di qualunque livello essi siano, così faticosamente conseguiti – del pensare.
- 262 -
percepito è proprio quello di mettere in crisi la stabilità del sottile equilibrio
raggiunto.
Tuttavia, considerazioni analoghe valgono e possono essere traslate
in presenza di un sottogruppo che abbia coscienza di sé e della posizione
ricoperta all’interno del gruppo di rango superiore manifestando un
autonomo pensiero ed un’autonoma volizione. Con riferimento
all’appartenenza siamo in presenza, cioè, di un concetto ed un sentimento
di natura ricorsiva, che si ripresenta a qualsiasi livello di aggregazione
sociale ogniqualvolta ne sussistano le condizioni.
Solo in quest’ottica, infatti, è possibile spiegare il fenomeno delle
“minoranze attive” descritto da Moscovici, in forza del quale piccoli gruppi
di persone riescono a modificare, attraverso i loro comportamenti, idee,
artefatti comunicativi (verbali e non verbali) le opinioni ed il modo di
pensare (in una parola, la cultura) della comunità di livello superiore della
quale sono parte integrante1.
Lo stile di comportamento tenuto dalla minoranza attiva risulta
essere determinante per il conseguimento e l’affermazione di quel
mutamento culturale da essa portato avanti e permette la trasmissione di
concetti ad un tempo efficaci ed originali2. Affinché la minoranza eserciti
1
S. MOSCOVICI, Psicologia delle minoranze attive, Boringhieri, 1981 (citato in:
A. S. DE ROSA, A. H. SMITH, strategie comunicative da «minoranza attiva» nello
scenario dei pubblicitari: il caso Benetton – Toscani, in “Micro & Macro Marketing”,
aprile 1997, pp. 104-107.
2
La risposta cognitiva delle persone esposte a comunicazioni originali e
minoritarie risulta, in effetti, particolarmente elevata: le posizioni espresse dalle
minoranze dissenzienti, in altre parole, sono in grado di ricevere una maggiore
attenzione e costituire oggetto di una più profonda riflessione critica, favorendo un
eventuale cambiamento di opinione (il quale si dimostra più stabile di quello prodotto
da una fonte maggioritaria). Tale cambiamento avviene in forma indiretta, a livello
latente, quindi, ritrovando una certa stabilità, anche ad un livello cosciente. Le
minoranze dissenzienti, infatti, producono e manifestano uno strano potere: persistendo
nella difesa allo stesso tempo oltranzista, ma ragionata, flessibile e attenta delle proprie
posizioni, determinano a livello profondo una modificazione degli atteggiamenti la
quale, tuttavia, corrisponde spesso – ad un livello manifesto – all’espressione di critiche
e valutazioni negative.
- 263 -
un’influenza che sfoci in un cambiamento significativo a livello di cultura e
di senso comune (cioè a livello di luogo comune e di rappresentazioni
ingenue della realtà), è necessaria la presenza di precisi elementi all’interno
della sua strategia comunicativa:
- deve porsi all’attenzione del pubblico facendosi notare e
calamitando l’interesse verso le proprie iniziative e le proprie
idee;
- deve minare le certezze, gli schemi mentali e le convinzioni
sedimentate nella memoria del gruppo di livello superiore,
insinuando l’ombra del dubbio e creando le premesse per lo
sviluppo di dibattiti e discussioni al suo interno1;
- deve dimostrarsi coerente nelle proprie convinzioni e nei propri
comportamenti;
- deve rimanere fedele alle proprie posizioni originarie;
- deve mostrare di credere fermamente in quello che propone
all’attenzione altrui;
Pare, inoltre, che le fonti minoritarie stimolino, nell’ambito di una situazione
problem-solving, la formazione di risposte cognitive più articolate, creative e ragionate,
ma anche più poliedriche, e conflittuali di quelle indotte da una fonte maggioritaria. Le
minoranze attive, in effetti, stimolerebbero un pensiero di tipo «divergente» che
porterebbe ad interpretazioni nuove, originali e relativamente diversificate dei problemi
oggetto di discussione.
Infine, si può ipotizzare che le fonti minoritarie facilitino il ricordo delle
informazioni presentate attraverso una comunicazione: le informazioni trasmesse da un
gruppo minoritario che si oppone ad alcune delle norme e delle idee della comunità
verrebbero ricordate più facilmente di quelle inviate da un gruppo maggioritario che
incarna i modelli culturali radicati nel senso comune.
1
Una particolare tattica utilizzabile dal gruppo minoritario attivo consiste,
appunto, nel creare un conflitto per poi gestirlo a proprio vantaggio attraverso
l’adozione coerente di stratagemmi retorici volti a spostare l’ago della bilancia verso
una maggiore accettazione delle proprie posizioni. Essenziale, a riguardo, è il passaggio
più diretto possibile tra la comunicazione e l’azione, tra il dire e il fare, di modo che
mentre da una parte vengono con risolutezza e prontamente confutate le critiche,
dall’altra si dimostra la fondamentale coerenza e limpidezza della propria condotta
strategica.
- 264 -
- deve manifestare sicurezza, competenza ed autonomia;
- deve mostrare una certa flessibilità, cioè deve presentarsi non
dogmatica, bensì disponibile all’ascolto e all’analisi delle
valutazioni critiche che vengono mosse dalla controparte.
Accanto allo stile comportamentale, un altro fattore determinante è
rappresentato dal grado di sintonia (o fusione) raggiunto con il mercato e
con lo “spirito del tempo”, il complesso degli assunti e dei valori che
orientano, in un dato momento, il modo di pensare ed i comportamenti di
una società, confermando l’importanza rivestita dalla relativizzazione dei
concetti di cui si alimenta il pensiero umano.
Rispettate queste condizioni, il gruppo minoritario si dimostra capace
di imporre, almeno parzialmente, le proprie idee e di generare e sviluppare
atteggiamenti favorevoli nei suoi confronti. Per la marca, tutto questo si
riversa nell’accrescimento del suo valore per il tramite della maggiore
visibilità a della comprensione più spinta dei suoi significati da parte dei
potenziali acquirenti cui il messaggio comunicativo si rivolge.
C – TECNICHE DI PERSUASIONE BASATE SUL BISOGNO DI STIMA E AUTOSTIMA.
L’uomo, animale sociale, non può non vivere al centro di una rete di
relazioni e quindi tende inevitabilmente e costantemente a misurare se
stesso con gli occhi e con il metro del gruppo si appartenenza. Ogni
persona, tuttavia, avverte come pressante il timore dei propri difetti (reali o
immaginari) e di non essere all’altezza di quanto viene richiesto dal
gruppo. Di qui il bisogno di essere continuamente rassicurati
sull’adeguatezza delle proprie qualità e dei comportamenti posti in essere.
Talvolta succede che nell’esaltare doti delle quali è cosciente di non
poter disporre nella misura desiderata, mentre il soggetto loda le virtù del
proprio pubblico di riferimento, contemporaneamente esso attacchi con
accanita violenza verbale e disprezzo gli “altri” facendoli divenire un utile
parafulmine su cui scaricare le proprie ansie irrisolte e la propria
aggressività da mancato raggiungimento di un obiettivo. Questa tecnica
- 265 -
basata sia sulla lode e la rassicurazione, che sull’odio ed il disprezzo per gli
“altri” consente di raggiungere un duplice obiettivo: quello di elevare la
coesione del gruppo indirizzando un odio che supera ogni razionalità verso
l’esterno del gruppo stesso, e quello di rassicurare e elevare il senso di
soddisfazione dei membri del gruppo legato direttamente alla sua
appartenenza.
D – TECNICHE DI PERSUASIONE BASATE SULLA DISSONANZA COGNITIVA.
Secondo la teoria della dissonanza cognitiva, due elementi cognitivi
(dove per “elemento cognitivo” si intende ogni cosa che possa essere
conosciuta, comprese le credenze e gli atteggiamenti) sono in relazione
dissonante se, considerati a sé stanti, il contrario di un elemento è
conseguenza dell’altro; sono invece in relazione consonante se un elemento
è la conseguenza dell’altro.
Esiste una serie di situazioni tipiche nelle quali si verifica dissonanza
e di cui occorre tenere la dovuta considerazione nel momento in cui si
delinea la strategia comunicativa che la marca userà per dare sviluppo al
proprio posizionamento:
- Una volta che la persona opera una scelta, da quel momento in poi
tutti gli elementi a favore delle alternative scartate e tutti gli elementi
a sfavore dell’alternativa seguita si pongono in posizione dissonante
rispetto alla scelta ormai fatta. Inoltre, maggiore è l’importanza
percepita della decisione in questione, più forte sarà la dissonanza.
L’individuo tende, allora, a ridurre la dissonanza minimizzando o
negando le informazioni dissonanti e ricercando e valorizzando
quelle che, invece, gli offrono delle conferme circa la validità della
scelta fatta.
Nello studiare la strategia comunicativa l’impresa deve perciò tenere
in piena considerazione la possibilità che i propri interlocutori siano
talmente coinvolti nelle scelte da loro compiute che coglieranno
qualsiasi occasione per ignorare, rifiutare o negare i messaggi che si
collocano in posizione dissonante con tali scelte.
- 266 -
- Se si ottiene, con le minacce o con le blandizie, che una persona di
comporti in modo difforme rispetto alle sue credenze, convinzioni,
valori, si crea in essa una situazione di dissonanza. Se, invece, egli
non accetta l’imposizione, l’attrattiva delle ricompense rifiutate o la
negatività delle punizioni che dovrà subire si pone come dissonante
rispetto alla situazione in cui tale persona si è messa, dal momento
che ora le ricompense sono irraggiungibili e le punizioni sono ormai
inevitabili. Anche in questo caso la dissonanza sarà tanto maggiore,
quanto più profonda ed importante è la credenza o il valore in gioco.
La persona sarà tentata di ridurre la dissonanza – e quindi cercherà di
giustificare il suo comportamento – minimizzando l’importanza della
credenza violata o addirittura modificando la credenza stessa, oppure
rendendo massima la percezione della punizione evitata violando la
credenza, oppure, ancora, rendendo massimo il valore della
ricompensa ottenuta col comportamento scelto. Le implicazioni di
questo aspetto della dissonanza cognitiva in termini di strategie
persuasive consistono, in primo luogo, nella possibilità di ottenere un
mutamento duraturo negli atteggiamenti offrendo una giustificazione
sufficiente, anche solo temporaneamente, a far mutare gli
atteggiamenti stessi, in modo che chi abbia tenuto un comportamento
in contrasto con la propria precedente opinione sia portato
successivamente a ridurre la situazione di dissonanza. In secondo
luogo, se si riesce nell’intento di ottenere che l’individuo sostenga
una volta in pubblico una tesi che intimamente non condivide, egli,
per ridurre la dissonanza, sarà poi portato a mutare durevolmente le
proprie convinzioni.
- La situazione di dissonanza nella quale un individuo che abbia
occasione di ricevere informazioni che contraddicono le sue
credenze si viene a trovare, sarà tanto maggiore, quanto più
importanti e profonde sono le credenze in questione, quanto più
l’informazione ricevuta si pone direttamente in contrasto con esse, e
quanto più questa informazione appare incontrovertibile.
L’individuo sarà allora portato a ridurre la dissonanza giungendo alla
conclusione che le sue attuali credenze sono di scarsa importanza,
- 267 -
oppure cercando il modo di fare coesistere sia le sue credenze che le
informazioni ricevute, ovvero contestando (se possibile) la veridicità
delle informazioni stesse, e, infine, cambiando le sue opinioni (ma
solo come ultima ratio).
- Nel momento in cui l’individuo si trova faccia a faccia con qualcuno
che ha opinioni contrastanti con le sue, la dissonanza aumenterà con
il livello di autorevolezza e di stima di cui l’interlocutore è portatore,
nonché con l’importanza e la profondità degli argomenti sui quali
verte il dissenso. Anche da questa considerazione viene fuori il
surplus di valore per la marca che potenzialmente può portare
l’associazione ad un testimonial.
In questa situazione, la persona cercherà di ridurre la dissonanza
cercando di far cambiare opinione all’interlocutore portandolo sulle
proprie posizioni, minimizzando l’importanza dell’interlocutore
stesso (operazione tanto più difficile quanto più questi goda di una
reale autorevolezza), minimizzando l’importanza o la dimensione del
disaccordo, cercando di raccogliere informazioni e testimonianze
favorevoli alla propria tesi (ovvero, cercare di reperire altre persone
che possano aggiungersi nel sostenerla), o, infine, cambiando
opinione.
Una particolare tecnica che è possibile utilizzare, sempre con
riferimento al concetto di dissonanza cognitiva, è quella per la quale si
cerca di avere un accesso alla mente del potenziale cliente all’apparenza il
più possibile innocente e disinteressato, senza comportare altri impegni, per
poi arrivare via, via a cose più impegnative1. Il meccanismo persuasivo si
basa sul fatto che ad un certo punto viene a crearsi ad arte una situazione di
dissonanza tra le risposte date e la primitiva disposizione d’animo (o il
primo proposito) di non consentire l’accesso alla propria attenzione e
disponibilità. In sostanza, avviene che, avendo violato le proprie precedenti
opinioni e credenze, la persona ristabilisce l’equilibrio spostandosi sul
1
Tale comportamento è riconducibile a quello tipico del venditore che mette il
piede nella porta, forzando la volontà e la ricettività del padrone di casa attraverso
l’offerta di campioni gratuiti o con la scusa di una semplice indagine informativa.
- 268 -
versante opposto e accettando come cosa positiva la tesi ad esso
corrispondente.
Anche il ricorso alla distribuzione di campioni-omaggio tenta di
indurre una situazione di dissonanza nel potenziale cliente, per risolvere la
quale egli sia indotto a modificare le proprie abitudini: attraverso la prova
ripetuta del campione, la persona, dovendo giustificare a se stessa il
“tradimento” della precedente opinione, sarà indotta a riconoscere nella
nuova marca delle qualità insospettate in grado di sostituire, come se si
trattasse di una conquista autonomamente raggiunta, quella che in
precedenza occupava il relativo spazio mentale.
4.3.3 – Dinamicità delle posizioni strategiche: la marca tra
cambiamento di prospettiva e adattamento.
Abbiamo osservato come la comunicazione persuasiva costituisca un
elemento fondamentale del posizionamento strategico e come i concetti da
essa espressi debbano essere pervasivi rispetto a tutti quegli elementi di
contatto tra l’offerta dell’impresa ed il target di riferimento che sono in
grado di dare origine alle particolari associazioni che vanno a definire la
posizione competitiva della marca.
A riguardo, il principale problema che gli strateghi d’impresa si
trovano ad affrontare è, quindi, l’individuazione della direzione verso cui
orientare l’immagine di marca, in modo da raggiungere lo spazio mentale
del consumatore che maggiormente la valorizza e che meglio esprime i
tratti dell’esigenza da soddisfare così come quest’ultima scaturisce dalla
fusione raggiunta con il potenziale acquirente.
Non si tratta, tuttavia, di una questione così generica come la si
potrebbe intendere ad un primo approccio. In realtà, esistono implicazioni,
talvolta anche molto sottili e difficili da individuare correttamente, che
spingono verso una piuttosto che verso l’altra attività da inserire nella più
ampia trama strategica d’impresa in modo da ottenere il risultato atteso in
termini di associazioni evocate e, per loro tramite, di posizione raggiunta.
Oltre a ciò, la definizione di una strategia di posizionamento deve fare i
conti da una parte con tutto quanto si trova già nella mente del potenziale
- 269 -
cliente, e dall’altra con il fatto che, verosimilmente, esisteranno dei
competitori insediati in posizioni altrimenti appetibili per la marca o che
influenzano, comunque, le possibilità a disposizione della concorrenza.
In questo modo, l’impresa al centro del processo di posizionamento
viene a trovassi nella condizione di muoversi tra aperture mentali e spazi
competitivi che possono rivelarsi ampi o stretti, lineari o frammentati, con
possibilità di ripiego su posizioni coperte e maggiormente difendibili o con
il rischio di ritrovarsi completamente allo scoperto in balia di eventuali
attacchi da parte della concorrenza. Inoltre, occorrerà considerare quali
potranno essere i possibili scenari competitivi che si vengono a determinare
in seguito all’intrapresa di questa o quella particolare azione di marketing.
L’importanza del conoscere il funzionamento del momento
interpretativo posto in essere da parte dei consumatori e dei processi
mentali attraverso i quali gli stimoli si rivestono di significati, diviene
determinante nel momento in cui si manifesti la necessità di un
riposizionamento. In questa situazione, l’adozione di linee di azione in
grado di attivare meccanismi persuasivi ricopre un ruolo prioritario. Allora,
infatti, il problema centrale da affrontare diviene quello di riuscire a far
mutare l’immagine della marca così come essa viene percepita dalla mente.
Si tratta, in sostanza, di essere in grado di far mutare la prospettiva secondo
cui i concetti di cui la marca è espressione vengono guardati dal target di
riferimento, ponendosi in sintonia (fusione) con quanto esso vive in termini
sia di esigenze avvertite, che di aspettative latenti. Quello che da un punto
di vista può non apparire idoneo a risolvere un problema percepito (di
qualunque natura – funzionale, simbolica… – esso sia), magari può
diventarlo da un’altra angolazione. La relatività dei punti di osservazione e
valutazione dei protagonisti al centro dell’arena competitiva è il punto
centrale che ad un tempo sintetizza e promuove la dinamicità delle
posizioni occupate in un particolare mercato.
Se il livello di orientamento al mercato e di fusione con esso è ad uno
stato avanzato, l’impresa si dimostrerà probabilmente in grado di superare,
tramite una manovra di aggiramento semantico, l’ostacolo comunicativo
che si oppone ad una piena assimilazione, da parte dei consumatori, degli
elementi che caratterizzano l’identità di marca. Altrimenti, occorre avere,
- 270 -
comunque, la consapevolezza dei propri limiti di iniziativa e di visione
strategica e l’umiltà di seguire una posizione che magari presenta un taglio
inferiore, ma che, nella realtà, maggiormente aderisce alle effettive
possibilità posizionali della marca.
Nonostante un avanzato stato conseguito nel processo di fusione con
il mercato, tuttavia, può accadere che ciò non risulti sufficiente per
conferire visibilità e spessore alla posizione verso la quale l’impresa va a
muoversi. In effetti, l’immagine, nella totalità o solamente in poche (ma
determinanti) delle associazioni da essa richiamate, può risultare così
fortemente radicata da non lasciare altro spazio che quello per un
intelligente adattamento a quanto risulta già presente nella mente dei
potenziali compratori e disposto attorno ad un modello di significati ormai
consolidato. L’adattamento può rappresentare, in altre parole, la risposta
più confacente ad una situazione in cui sia ben chiaro ai consumatori chi
detenga la leadership della categoria di riferimento e su quali basi ciò sia
possibile. Nono solo: come abbiamo visto nel secondo capitolo1, le
rispettive posizioni occupate dai concorrenti presenti nella scala valutativa
inerente una determinata categoria di prodotto sono note alle persone una
volta che tale categoria sia stata creata ed entri a far parte del loro mondo
concettuale di riferimento.
Starà alle specifiche caratteristiche circostanziali indicare se sia più
conveniente per la marca un approccio adattivo, piuttosto che uno volto ad
aggirare gli ostacoli concettuali che si frappongono al raggiungimento di
una determinata posizione o, ancora, uno che consenta un’azione così
pertinente, repentina e ficcante da rendere possibile l’appropriazione di uno
spazio rimasto vuoto e disponibile per la miopia strategica degli avversari o
perché qualcuno di essi ha lasciato libero in seguito ad un’opzione di
riposizionamento o ad un errore strategico (un riposizionamento attuato
senza che ne sussistesse la volizione).
1
Cfr. par. 2.1.3.
- 271 -
Capitolo 5
IL POSIZIONAMENTO DEI PRODOTTI
ALIMENTARI DI LARGO CONSUMO:
ALCUNE EVIDENZE EMPIRICHE
5.1 – Presentazione
Se il mondo dei beni di largo consumo è stato a suo tempo l’humus
culturale e sperimentale su cui il marketing management, nel corso degli
anni Cinquanta e Sessanta, ha attecchito e si è sviluppato per merito,
soprattutto, dei contributi teorici della scuola nordamericana, oggi si
presenta come terreno fertile per riconcettualizzazioni e nuovi avanzamenti.
È principalmente nei settori maturi, infatti, che si avverte maggiormente e
più frequentemente la necessità di procedere ad azioni di riposizionamento
in grado di proporre per la marca una nuova identità competitiva,
inserendola nella giusta direzione e visione prospettica tra i flussi
concorrenziali che attraversano il mercato di riferimento.
I beni di largo consumo rientrano infatti, generalmente, in una
situazione di maturità e saturazione del mercato, scontrandosi, in primo
luogo, con il rischio di perdita d’interesse da parte del consumatore che,
assieme all’affollamento concorrenziale, rende ancor più necessaria
l’adozione di una opportuna strategia di posizionamento1. Tra i fattori che
spingono in tal senso, sembra avere il rilievo maggiore quello costituito
dall’eccesso di familiarità con il prodotto e, più in particolare, con la marca
Uno studio interessante sulla relazione intercorrente tra l’interesse che i
consumatori hanno verso una marca matura e l’impatto che in essi produce la pubblicità
è dato da: K. A. MACHLEIT, C. T. ALLEN, T. J. MADDEN, The mature brand and brand
interest: an alternative consequence of ad-evoked affect, Journal of marketing, ottobre
1999, pp. 72-82.
1
- 272 -
che ne è espressione. La ricerca in psicologia ha dimostrato come
l’aumento della familiarità con un oggetto possa alfine condurre alla noia,
cosa che si verifica puntualmente anche nel rapporto che la persona
intrattiene con la marca: mantenere l’interesse dei consumatori diviene
allora la maggiore sfida per chi si occupa della gestione di una marca
matura. Possiamo definire brand interest il livello di accessibilità, curiosità,
apertura che un individua presenta nei confronti di una marca (accanto ai
condizionamenti legati al brand interest troviamo quelli legati al
coinvolgimento con la classe di prodotto i quali pongono ulteriori
limitazioni agli spazi di manovra dell’impresa). L’interesse per una marca
presenta una duplice connotazione: da una parte, per le marche per le quali
l’acquisto è ritenuto a basso rischio1 dal consumatore (solitamente per
prodotti acquistati frequentemente), si rende necessario fornire al
consumatore stimoli sempre diversi e rinnovati continuamente, al fine di
soddisfare l’emergente bisogno di varietà che scaturisce dalla natura stessa
della categoria di prodotti cui si fa riferimento, agendo preventivamente
rispetto alla noia; dall’altra, anche i prodotti che presentano un acquisto ad
elevato rischio percepito necessitano di un adeguata azione stimolante
dell’interesse, divenendo quest’ultimo determinante nello stabilire, da parte
del potenziale acquirente, con quali marche entrare in contatto per poi
procedere alla scelta.
L’atteggiamento, la valutazione relativamente perdurante di un
oggetto (nel nostro caso verso una marca matura), presenta una certa
stabilità, a differenza dell’interesse, il quale risulterà perciò maggiormente
influenzabile dalla strategia comunicativa seguita dall’impresa. Perciò,
l’intervento a livello di posizionamento, ed in particolare per quanto
riguarda la comunicazione pubblicitaria, avrà di per sé una portata limitata
rispetto agli atteggiamenti degli individui dal maggiore bagaglio
esperenziale dal momento che tali atteggiamenti sembrano meglio resistere
alla persuasione, a meno che vengano portati nuovi importanti argomenti a
sostegno del messaggio trasmesso.
La relazione tra rischio percepito e grado di coinvolgimento nell’acquisto è
stata analizzata nel par. 2.2.1.
1
- 273 -
Per le marche che giungono in una fase di avanzata maturità, spesso
diventa prioritario cercare di incrementare la frequenza d’uso mutando
parzialmente la prospettiva del proprio orientamento al mercato dal “come i
consumatori scelgono tra le marche” al “come essi le usano”. Si tratta, in
genere, dell’ultima possibilità che le imprese danno alla marca per
svilupparsi prima di procedere ad una sua profonda ridefinizione assieme a
quella del particolare posizionamento seguito, o, più frequentemente, ad un
ampliamento di linea. In sostanza, per incrementare l’uso di marche con
elevata notorietà e penetrazione. si rende necessario operare sugli attuali
loro consumatori e lo strumento operativo maggiormente utilizzato è quello
pubblicitario1. Tra le forme di pubblicità adottate per espandere l’uso
troviamo quelle nelle quali la marca-obiettivo viene indicata come una
ragionevole scelta con riferimento alla situazione-obiettivo, altre invece in
cui l’associazione tra la marca-obiettivo e la situazione-obiettivo avviene
attraverso il confronto della prima con un altro prodotto già favorevolmente
associato con quella situazione, altre ancora che associano l’uso della
marca target nella situazione target con una diversa situazione nella quale
la marca risulta già favorevolmente posizionata.
Il settore alimentare, in particolare, è oggi sottoposto a forti tensioni
innovative sul fronte del prodotto, della tecnologia di processo e del
mercato. Nei primi anni Novanta pareva essersi esaurita la forte e
continuativa spinta alla crescita dei consumi che aveva caratterizzato buona
parte dei decenni precedenti, a causa della generale situazione recessiva e
dei nuovi elementi valoriali che andavano affermandosi tra i consumatori,
più riflessivi e ponderati negli acquisti, esprimendo una rinnovata capacità
selettiva delle offerte di prodotto e di prezzo. In Italia, inoltre, lo scenario
competitivo si è mosso seguendo le principali indicazioni di un sistema
distributivo in forte evoluzione, con la forte espansione degli hard discount,
delle private labels e dei prodotti generici, accrescendo ulteriormente la
pressione sui prodotti di marca, per i quali, ad una nuova esigenza di
vitalità nella difesa dei capisaldi su cui si basa il loro vantaggio competitivo
– differenziazione, posizionamento, immagine di marca, brand loyalty – si
Per uno studio sull’argomento si veda: B WANSINK, M. L. RAY, Advertising
strategies to increase usage frequency, Journal of marketing, gennaio 1996, pp. 31-46.
1
- 274 -
aggiunge l’impellente necessità di mettere in pratica un rinnovato e
continuativo sforzo di riadattamento strategico che ci apprestiamo ad
esaminare con riferimento ad alcuni specifici mercati e ad alcune tra le
marche che maggiormente li animano1. L’intento è quello di offrire un
quadro utile alla comprensione della situazione in divenire e, allo stesso,
tempo, uno schema interpretativo adeguato alla complessità ed alla
variabilità dell’ambiente-mercato odierno.
Nel fare questo, pare utile riferirsi ad una generale distinzione per
quanto riguarda i profili dei consumatori e lo stile di cui essi sono portatori
relativamente ai prodotti alimentari. Tale suddivisione è realizzata
attraverso una segmentazione di tipo psicografico2, in base alle cui
risultanze possiamo distinguere i seguenti gruppi:
- Tradizionalisti. Rappresentano circa un quarto della popolazione e si
caratterizzano per uno spiccato rispetto delle tradizioni alimentari
nazionali. Per questo gruppo di individui, l’organizzazione, la
composizione e la cadenza dei pasti è rimasta pressoché quella di una
volta. La gratificazione nel cibo viene, inoltre, spesso ricercata più nella
quantità che nella qualità, anche perché la cultura alimentare appare
piuttosto bassa. Sul medio-lungo periodo, tuttavia, l’importanza di
questo gruppo verrà con tutta probabilità a ridursi.
- Gastronomi. Questo segmento, comprendente circa il 20% della
popolazione, appare in leggera crescita. Per gli individui i cui
atteggiamenti alimentari possono ad esso essere ricondotti,
l’alimentazione è molto importante e ad essa dedicano volentieri tempo
e denaro (anche se il piacere dello stare a tavola non è condizionato
dalla regolarità che contraddistingue i tradizionalisti). Per i gastronomi
il piacere palatiale si coniuga facilmente con la ricerca della novità, dei
1
I casi analizzati si riconducono ad alcune marche facenti parti del business
alimentare italiano ed europeo della multiforme galassia Philip Morris cui appartengono
aziende di fama e rilevanza assolute come Kraft, Jacobs Suchard, Tobler, Miller.
2
In seguito, troveremo altre classificazioni in parte diverse e particolari,
comunque riconducibili a questa generale impostazione concettuale.
- 275 -
-
-
-
-
cibi sconosciuti e/o stranieri, raffinati, che esprimono, a volte, una moda
o uno status symbol. Per le caratteristiche che lo contraddistinguono, è
molto bassa, in questo stile, l’accettazione dei prodotti dietetici,
considerati alimenti molto poveri e punitivi.
Salutisti. Oltre il 15% della popolazione è riconducibile a questo
profilo, ed è in crescita. I consumatori salutisti pongono un’attenzione
prioritaria al rapporto cibo-salute nelle proprie scelte di consumo. Ai
cibi si richiede, principalmente, leggerezza, digeribilità, assenza di
grassi e di qualunque ingrediente che possa nuocere alla salute, anche a
costo di dover rinunciare al sapore.
Funzionali. Questo gruppo di consumatori (cui appartiene il 10% della
popolazione) è costituito da quanti, per esigenze di tempo, o anche solo
per predisposizione, valutano prioritariamente la funzionalità del
prodotto, misurata in termini di praticità d’uso, facilità/versatilità di
preparazione, conservabilità e stockabilità, minima richiesta di impegno.
I funzionali, quindi, cercano di ridurre al minimo il tempo e l’impegno
dedicato alla cucina e per loro l’attrazione per un prodotto deriva
essenzialmente dalla praticità e dalla comodità dei prodotti, più che
dalla rassicurazione e dalla garanzia che questi comunicano ad altri
segmenti di consumatori.
Sregolati. Questo segmento rappresenta circa il 10% della popolazione
ed è in forte crescita. I consumatori sregolati sono quelli per i quali è più
evidente la tendenza verso la destrutturazione e la “snackizzazione” del
pasto, l’incremento dei consumi extra domestici e delle occasioni
secondarie di consumo durante la giornata, il consumo di prodotti
estremamente flessibili e pratici nell’uso, quasi senza alcun criterio
guida sul rapporto cibo/salute o piacere del mangiare. Il mangiare viene
considerato una necessità, quasi una scocciatura da parte degli sregolati,
per i quali è altissima l’accettazione dei prodotti industriali (in
particolare surgelati e merendine).
Poveri. Rappresentano il 15-20% circa della popolazione e sono
particolarmente presenti nelle regioni meridionali. Si tratta, tipicamente,
di persone di età avanzata, con basso livello di istruzione e basso
reddito. Nell'acquisto di prodotti industriali, i consumatori poveri
- 276 -
privilegiano quelli maggiormente tradizionali (per esempio, la pasta) e
quelli garantiti da una grande marca. Sono, inoltre, particolarmente
attenti e rigorosi nella comparazione dei prezzi e non seguono alcuna
tendenza moderna nell’alimentazione.
I mercati sui quali riporremo la nostra attenzione si riferiscono ad
importanti realtà del panorama del grande consumo italiano nelle quali
sono inseriti alcuni prodotti appartenenti alla multinazionale Philip Morris
attraverso diversi marchi. Al fine di una migliore comprensione delle
specifiche evidenze empiriche riscontrate, pare conveniente esaminare
preventivamente natura e peculiarità del contesto competitivo in cui le
singole marche sono inserite e si trovano ad operare. Un primo criterio –
puramente descrittivo – di classificazione di tali realtà le riconduce
all’eterogeneo mercato dei pasti destrutturati (Jocca, Philadelphia,
Simmenthal), a quello dei prodotti a supporto del pasto e della sua
preparazione (Mayonnaise, Sottilette), a quello del cioccolato e, in
particolare, delle tavolette (Milka, Toblerone), a quello del caffè (Splendid,
Hag).
Una volta chiarito il quadro contestuale di riferimento, ci avvarremo,
nel paragrafo 5.2, di uno strumento concettuale in grado di esprimere
sinteticamente le posizioni occupate dalle marche in considerazione
insieme al contributo della loro capacità di market-creation nella
costruzione di un posizionamento efficace.
5.1.1 – Il mercato dei pasti destrutturati.
I moderni stili di vita frammentati e caotici influenzano decisamente
gli atteggiamenti alimentari dei consumatori, i quali vengono a disporre di
tempi e motivazioni minori per la preparazione dei pasti principali. Ad
essere condizionata maggiormente è la seconda portata, mentre alla prima,
dedicata in genere alla pasta, difficilmente si rinuncia in favore di
qualcos’altro. L’atteggiamento delle perone diventa perciò favorevole nei
confronti di tutti quei prodotti che, nell’ottica di un pasto ormai
desturtturato, offrono il maggior contributo in termini di versatilità e
- 277 -
facilità d’uso, garantendo, nel contempo, un buon livello qualitativo.
Viene così a delinearsi un macro-mercato costituito da una pluralità
di altri mercati accomunati tra loro da una medesima occasione d’uso.
Rientrano, tra gli altri, in questo contesto competitivo il mercato dei
formaggi freschi, quello del tonno in scatola, della carne in scatola e dei
salumi (soprattutto quelli in vaschetta o in busta, pronti all’uso).
All’interno del mercato dei formaggi freschi1, comprensivo di
prodotti tradizionali e di altri più innovativi, il segmento nettamente più
ampio è quello riconducibile ai primi, con la mozzarella, che da sola
rappresenta più della metà dei consumi. Altri formaggi freschi molto diffusi
sono la crescenza (stracchino), la ricotta (che non è un vero formaggio, ma
come tale viene percepito), il mascarpone ed i formaggi “artigianali”. Non
mancano in questo mercato interessanti spunti di crescita (come quello
della mozzarella) accompagnati da rilevanti investimenti in comunicazione
ed in innovazione, con la proliferazione delle versioni “light”, a conferma
della generale tendenza a porre una maggiore attenzione al contributo
dell’alimentazione nel mantenimento della forma fisica.
Il segmento dei formaggi freschi moderni comprende formaggi di
tipo cremoso, spalmabili (o “quarq”) ed altri in fiocchi (“cottage cheese”),
evidenziando una crescita importante in termini di vendite e di attenzione
da parte dei consumatori soprattutto riguardo ai primi. L’offerta, in questo
segmento, risulta notevolmente concentrata in mano a poche imprese (le
prime quattro detengono oltre il 90% del mercato) di dimensione
multinazionale e controllate da grandi gruppi alimentari (ad eccezione di
Belgioioso di Ditia Yomo).
I fattori rilevanti d’acquisto che maggiormente inducono i
consumatori a scegliere i formaggi freschi moderni sono costituiti,
essenzialmente, dal livello di servizio in termini di conservabilità e
comodità d’uso (con particolare riferimento al packaging), dalla novità
generata dall’innovazione del prodotto, dall’affidabilità che viene garantita
dall’immagine di marca. Data la recente introduzione nel mercato, manca,
per questa categoria, una tradizione alimentare e di consumo consolidata
1
I formaggi, classificati in base alle caratteristiche fisiche del prodotto, vengono
distinti in duri, semiduri, molli, fusi e freschi.
- 278 -
come può essere quella, per esempio, del grana o della mozzarella. Di
conseguenza, le modalità e le occasioni d’uso più frequenti sono quelle
suggerite dalla pubblicità (così, i prodotti spalmabili vengono usati sul pane
o sui crackers e quelli a fiocchi fungono, senza la benché minima
elaborazione, da contorno o alternativa ai secondi piatti1).
I formaggi moderni freschi risultano maggiormente consumati nei
centri abitati più grandi, soprattutto tra i giovani e le donne (le più attente al
basso contenuto di grassi ed alla praticità e funzionalità del packaging). La
domanda di questo genere di prodotti non si differenzia sostanzialmente a
livello geografico riscontrando essi, comunque, un maggiore gradimento al
Sud.
Gli stili alimentari più interessati a questi formaggi sono definibili
come “accurati” e “conflittuali”2. Il primo, al quale appartiene il 14% della
1
In altri paesi, dove questi prodotti sono presenti da più tempo, i consumatori
hanno adottato modalità di consumo maggiormente autonome e variegate. Negli Stati
Uniti, per esempio, vengono utilizzati come parte integrante di moltissime ricette
(come, ad esempio, la “cheese cake”).
2
Gli altri stili alimentari, nella classificazione data da un’indagine Eurisko, sono
quelli:
- Funzionale. È lo stile dei giovami maschi adulti dei grandi centri, di status elevato,
con interessi culturali e professionali molto vivi ai quali fa riscontro, invece, una
sostanziale indifferenza verso l’alimentazione – che è discontinua ora ricca, ora
essenziale – ed il rifiuto della preparazione dei cibi. Vi appartiene il 19% della
popolazione ed è in crescita.
- Robusto. È lo stile di chi svolge una vita molto attiva, anche fisicamente e chiede a
un’alimentazione ricca, abbondante e senza remore dietetiche la reintegrazione delle
energie e della carica aggressiva. Rappresenta il 6% della popolazione ed è in
marcata flessione.
-
Giovanile (19%) in buona crescita. È lo stile dei giovani e giovanissimi, per i quali
l’alimentazione è un ambito largamente dominato dalla pulsionalità e in cui si
generano comportamenti disordinati, occasionali, esplorativi sulla base della
suggestione pubblicitaria del momento e del gruppo dei coetanei. Questo gruppo
assume una rilevanza del tutto particolare, dal momento che pare operare “per
contagio” anche sugli altri e che, con il procedere del tempo, resterà come un
portato delle generazioni che lo hanno sviluppato in grado di persistere a livello
comportamentale.
- 279 -
popolazione, è diffuso prevalentemente tra le donne di status elevato ed è
tipico di chi sceglie e prepara il cibo attribuendo particolare attenzione agli
aspetti qualitativi. L’alimentazione degli “accurati” è tradizionale, ma
corretta da principi dietetico/salutistici e dalla curiosità per nuovi prodotti e
cucine diverse. Il gruppo dei “conflittuali” (12% della popolazione) è
costituito da persone (al 70% donne) che, attratte dalla cucina e dalla
tavola, alternano periodi nei quali si concedono ai cibi più saporiti, a
periodi in cui osservano rigidamente un’alimentazione caratterizzata
dall’impiego di molti prodotti leggeri o dietetici.
Tra gli altri mercati riconducibili all’arena competitiva incentrata sui
pasti destrutturati, quello della carne in scatola risente fortemente della
concorrenza da parte del suo omologo relativo al tonno che, a parità di
praticità, presenta un gusto diverso e preferito dai consumatori (anche se
inferiore a quello di un altro importante concorrente indiretto quale è quello
costituito dai salumi) godendo, a corollario, di una relativa migliore
percezione riguardo alla genuinità.
5.1.2 – Il mercato dei prodotti a supporto del pasto.
Nella preparazione del cibo, spesso intervengono elementi che
costituiscono un supporto ed un completamento dell’ingredientistica,
conferendo un surplus percettivo che va ad arricchire il contenuto del
risultato finale di tale preparazione. Non è possibile, tuttavia, addivenire al
riconoscimento di una categoria di prodotti dai contorni definibili con
esattezza, trattandosi, perlopiù, di frammentati raggruppamenti di ordine
-
-
Trascurato (6%, in diminuzione). È uno stile alimentare non povero, ma irregolare e
discontinuo, praticato principalmente da donne che non investono la cucina e la
tavola di significati culturali, né hanno un ruolo domestico consistente.
Povero (24% della popolazione, in diminuzione). È lo stile alimentare che più si
approssima alla tradizione contadina, fatta di semplicità e di molti limiti, e che oggi
sopravvive anche per obiettiva ristrettezza economica in alcune fasce anziane e
periferiche della popolazione.
- 280 -
merceologico. I principali tra essi sono riconducibili a salse1 e prodotti di
origine casearia.
Le prime sono guidate dalla maionese, l’ornamento per piatti freddi
preferito dai consumatori italiani e utilizzabile come farcitura di panini,
direttamente spalmabile su pane o crackers o usata per arricchire altri piatti
quali, ad esempio, le insalate di riso. Questo prodotto presenta un notevole
vantaggio sugli altri tipi di salse (ad esempio ketchup e senape) in quanto
offre senza dubbio una maggiore elasticità e versatilità di utilizzo, con un
gusto che si coniuga più facilmente agli altri alimenti senza peraltro
coprirli.
Tra i formaggi che possiamo ricondurre a questa categoria, sia per
quanto riguarda i cibi freddi che per quelli che richiedono una preparazione
“a caldo”, troviamo la mozzarella industriale, la fontina, l’Emmental, le
paste filate e il formaggio a fette. Proprio quest’ultimo tipo di prodotto
riveste, per il consumatore, il ruolo più importante, in forza della sua
grande versatilità e della facilità ed immediatezza d’uso. Il successo
costruito negli anni da parte di un brand come Sottilette Kraft, resosi
protagonista della crescita dell’intera categoria da esso stesso creata, ed il
vantaggio conseguito nei confronti degli altri possibili elementi caseari
utilizzabili in queste situazioni d’uso sono esplicabili proprio in termini del
contributo del prodotto alla semplificazione della preparazione dei cibi, alla
flessibilità da esso offerta e, ovviamente, alle sue qualità attinenti al gusto.
Il formaggio a fette si pone, così, in evidente sintonia con i moderni stili di
vita – particolarmente, con quelli alimentari sempre più tendenti alla
destrutturazione dei pasti – offrendo implicitamente alla mente del
consumatore una immediata conferma dei propri comportamenti e un
supporto del trend in corso.
5.1.3 – Il mercato del cioccolato.
Il mercato italiano del cioccolato presenta delle caratteristiche che lo
pongono su una prospettiva diversa dagli altri mercati europei
1
Omettiamo, in questo ambito, la considerazione delle spezie, in quanto non
costituiscono un vero alimento che goda di una propria autonomia.
- 281 -
(specialmente di quelli non mediterranei). In particolare, il consumo medio
pro capite risulta piuttosto limitato tendendo ad essere stagionale e,
soprattutto, risentendo dell’assenza di un vera e radicata “cultura del
cioccolato”. Spesso, anzi, esistono dei veri e propri pregiudizi nei confronti
degli alimenti a base di cacao. Inoltre, è riscontrabile una nutrita presenza
di marchi locali molto forti.
Le ragioni che sono portate a sostegno del cioccolato dai suoi
estimatori e che lo fanno apprezzare dai consumatori sono di natura sia
razionale che emozionale: dal primo punto di vista, si tratta di un prodotto
nutriente ed altamente energetico, mentre dal secondo costituisce una
forma di autogratificazione ed è un prodotto adatto al “consumo sociale”,
nonché costituisce da sempre un “premio” per i bambini.
Pur presentando al suo interno andamenti molto differenti, il
comparto del cioccolato, quindi, si è dimostrato negli anni particolarmente
dinamico, con alcuni prodotti che risultano entrati in una fase di maturità
avanzata (tavolette, scatole di cioccolatini classiche) ed altri che, invece,
sono riusciti a riposizionarsi con successo nel mondo dei “fuori pasto”
(snack e merendine) puntando su formato, packaging, distribuzione e,
soprattutto, comunicazione. Il mercato italiano sembra quindi premiare
quelle imprese che, sforzandosi sul piano dell’innovazione di prodotto e
della comunicazione puntano a soddisfare le nuove esigenze di una
domanda sempre più mutevole, caratterizzata da una maggiore propensione
al consumo di beni voluttuari, nonché influenzata da tipologie di
comunicazione in continua evoluzione.
Il settore dei prodotti alimentari a base di cacao può essere suddiviso
in segmenti ben definiti: tavolette e barrette, cioccolatini, merendine e
snack, creme spalmabili, cacao solubile, uova e ovetti. Qui prendiamo in
diretta considerazione il segmento delle tavolette, forse quello che vive con
maggiore problematicità la fase di maturità in cui si trova inserito.
Viceversa, gli snack al cioccolato presentano un tasso di sviluppo molto
interessante e sembrano sottrarre parte del mercato agli altri segmenti.
Mentre le tavolette di cioccolato si pongono come una scelta maggiormente
ponderata e destinata al contesto familiare, gli snack vengono consumati
più di impulso e costituiscono una manifestazione di quella diffusa
- 282 -
tendenza al consumo edonistico che si sta facendo nello stile di consumo
largo a partire dalle nuove generazioni fino a coinvolgere quelle ad esse
contigue1.
Pur rappresentando il 40% delle vendite del comparto cioccolato, le
tavolette risentono più degli altri prodotti della modesta penetrazione di
questo alimento nelle abitudini di consumo degli italiani. Le tavolette al
latte sono quelle che rappresentano la quota più rilevante con il 43% delle
vendite, contro il 28% del fondente ed il 24% di quelle ripiene. Per
contrastare l’espansione degli snack, e stimolare il consumo d’impulso,
sono state introdotte, col tempo, grammature più piccole. I fattori critici di
successo per questa categoria di prodotto, sono la qualità e l’immagine di
prodotto “sano” dal punto di vista nutrizionale. Gli investimenti in
comunicazione, pressoché irrilevanti fino a pochi anni fa, hanno subito un
incremento a partire da quando Milka si è proposta con una importante
strategia in tal senso.
I cioccolatini sfusi e le miniconfezioni, distribuiti principalmente
attraverso i bar, hanno denotato, seguendo la tendenza generale che vede
crescere il consumo d’impulso ed i nuovi atteggiamenti alimentari degli
italiani, un ottimo sviluppo, con una domanda che è stata notevolmente
stimolata da un’offerta in continua evoluzione che fa sempre più perno
sulla leva comunicativa (si pensi, per esempio, al fenomeno Rocher di
Ferrero, o a Baci di Perugina, o a Pocket Coffee). Tra le confezioni in
scatola (più del 30% del comparto), vengono preferite quelle “monotipo”
rispetto alle confezioni assortite, con packaging particolari e a tema in
occasione delle più importanti ricorrenze. Le marche minori di rinomata
tradizione (tra cui Lindt, Caffarel…) puntano più su confezioni “d’élite”
commercializzate attraverso i canali tradizionali (bar, pasticcerie, coloniali)
puntando sulla fedeltà al prodotto, mentre le marche più giovani e di minori
dimensioni (per esempio Aura, Zaini…) si avvalgono prevalentemente
della grande distribuzione.
1
Rilevante è la considerazione che il modello di consumo di cioccolato si forma
nelle persone a partire dalla prima infanzia per poi persistere, più o meno invariato, nel
corso degli anni (di qui, la necessità per le imprese di conquistare, in primo luogo,
l’interesse delle generazioni più giovani).
- 283 -
Gli snack si sono imposti negli ultimi anni come prodotti sostituivi
della classica merenda e stanno vivendo una crescita intensa, sostenuti da
sforzi comunicativi di natura pervasiva e considerevoli quanto a dimensioni
di investimento. Tipico del fenomeno snack è il consumo giovane, slegato
dalle tradizioni ed orientato all’impulso ed alla voluttà, per il quale è
fondamentale il riferimento pubblicitario. Peculiare di questi prodotti è
l’approccio multimarca alla strategia competitiva, adottato nelle sue forme
più spinte, con il nome del produttore che resta sempre in secondo piano,
nell’intento di evitare confusione rispetto ai concetti che le singole marche
esprimono. Si tratta, pertanto, di determinare un posizionamento ad hoc,
chiaro e differenziato per ogni singola marca immessa sul mercato.
Dal lato dell’offerta, una caratteristica tipica del mercato italiano dei
prodotti alimentari a base di cacao è la frammentazione e la presenza di un
notevole numero di aziende artigianali. La tendenza delle marche principali
(Nestlè-Perugina, Ferrero, Jacobs Suchard), è quella di ricercare un
posizionamento chiaro e differenziato per i propri prodotti puntando su
alcuni specifici brand ombrello (come Kinder, Baci e Milka) poi sviluppati
come brand per la commercializzazione di ulteriori prodotti. I maggiori
produttori, infatti, pur presentando gamme molto ampie e diversificate
(nella grammatura, nel packaging, nel canali di distribuzione…), tendono a
presidiare alcune specifiche nicchie nell’ambito delle quali detengono la
leadership.
Le medie aziende dolciarie (come, ad esempio, Pernigotti, Sperlari,
Sapori…) offrono anch’esse un’ampia gamma di prodotti che cercano di
posizionare puntando prevalentemente sul rinomato marchio di cui
dispongono e sull’associazione con la tradizione. Mantengono
generalmente una buona penetrazione a livello locale, ma trovano i propri
punti di debolezza nello scarso peso degli investimenti in comunicazione e
nella scarsa innovatività dei prodotti.
Le medio-piccole aziende dolciarie-cioccolatiere (come Caffarel e
Bulgheroni, produttore, su licenza, del marchio Lindt) sono accomunate da
una filosofia product-oriented che le tiene abbastanza legate ai segmenti
più tradizionali del settore.
- 284 -
5.1.4 – Il mercato del caffè.
Il mercato italiano del caffè è uno dei più importanti e particolari a
livello mondiale (l’Italia è al quarto posto tra i paesi importatori). Quello
che in particolare lo differenzia, è il gusto forte del prodotto rispetto a
quanto troviamo in altri paesi dove prevalgono miscele molto più “lunghe”
dall’aroma non troppo evidenziato e vicino ad altre bevande quale, ad
esempio, il caffè d’orzo. La qualità della miscela utilizzata dipende, in
prevalenza, dalla famiglia di appartenenza della materia prima. La qualità
più pregiata (e più costosa), quella arabica, si caratterizza per un chicco
dalla forma allungata e piatta e per un gusto particolarmente aromatico. La
qualità robusta, invece, è di livello inferiore (ha un minor costo) e presenta
un chicco più piccolo e conferisce al caffè un sapore molto forte e amaro.
La distinzione tra le diverse qualità di caffè rileva sia in quanto determina
l’aroma finale della miscela1, sia perché il costo della materia prima incide
fino all’85-90% del costo di produzione (riversandosi sul prezzo al
consumo dopo circa sei mesi), divenendo una variabile fondamentale da
tenere sotto osservazione. I mercati più importanti per il caffè sono la borsa
di New York e quella di Londra, dove vengono trattate rispettivamente le
qualità Arabica e quella Robusta. Il prezzo del caffè varia in funzione della
domanda e dell'offerta ed e influenzato, oltre che dalle qualità e dalle
quantità prodotte, anche dall'andamento dei clima e dai cambiamenti di
ordine politico.
Praticamente la totalità della popolazione adulta italiana (95%)
consuma regolarmente caffè. Il prodotto è prevalentemente venduto nei
negozi per essere consumato in casa dal 67% delle persone preparato nel
90% dei casi con la macchinetta tipo moka. Il 23% dei consumatori lo
beve, invece al bar ed il rimanente 10% in ristoranti o in hotel. Nonostante
costituisca un vero e proprio simbolo nazionale, il consumo medio pro
capite è inferiore alla media dei paesi europei. La ragione risiede, come
1
Singolare è il fatto che, mentre gli italiani si ritengono esperti conoscitori del
caffè, solo il 20% delle persone conosce le diverse qualità che se ne trovano in natura ed
in realtà solo pochissime tra esse ne sanno dare una valutazione oggettiva in termini di
sapore (combinazione di gusto – la sensazione palatiale – e aroma – la sensazione
olfattiva –), tostatura e miscela.
- 285 -
accennato, nella diversa concezione che si ha del caffè alle diverse
latitudini. In Italia, se i momenti di consumo sono numerosissimi nell’arco
della giornata, i volumi, tuttavia, sono particolarmente bassi, dato che lo si
beve sempre in piccolissime dosi. Il caffè si allontana dal concetto di
bevanda per divenire una sorta di nettare concentrato assumendo quasi la
valenza di un rito simbolico che accompagna momenti conviviali e pause di
lavoro. Viceversa, all’estero viene assimilato alle altre bevande ed assunto
in dosi molto più grandi rendendo per questo necessaria una bassa
concentrazione della miscela.
Tra i consumatori prevale una valutazione soggettiva e l’acquisto è
fortemente influenzato dall’immagine e dalla familiarità della marca
nell’ambito della specifica sottocategoria di appartenenza. A riguardo è
possibile distinguere nell’ambito dei caffè “normali”, i più diffusi, quello
“tradizionale” (la versione base), e quello “oro” o “premium” (di qualità e
prezzo più elevati). Altra caratterizzazione assunta dall’offerta è quella
riferita al caffè “espresso”, destinato ad essere preparato con l’apposito
elettrodomestico e con un prezzo superiore alle versioni tradizionali. Infine
c’è il caffè “decaffeinato” che, allontanandosi dal concetto di nettare
attribuito universalmente al prodotto, rappresenta solamente il 3% delle
vendite complessive. Per quanto riguarda le preferenze dei consumatori,
mentre al Nord si predilige un caffè dal gusto più delicato, nelle regioni
meridionali prevalgono prodotti dal gusto forte e ben tostati.
5.2 – Il posizionamento e la capacità della marca di
generare nuove categorie
5.2.1 – Ambiente concorrenziale e generazione di significati come
determinanti della posizione competitiva.
Il fenomeno della frammentarietà dei mercati e delle esigenze
avvertite dai consumatori accresce la necessità da parte dell’impresa di dare
spessore ed effettività alle proprie capacità di market creation, le quali si
pongono come fondamentali leve strategiche nel governo dei rapporti
impresa-mercato. La sfida per l’impresa sta nel perseguimento permanente
- 286 -
di un elevato grado di aderenza con il mercato (la fusione) in modo da
essere pronta, come sottolinea Mattiacci, «a ridefinire continuamente la
propria business idea, accogliendo in sé gli stimoli che le provengono
dall’esterno e valorizzando le risorse interne di creatività e flessibilità
strategica, ponendo il tutto in una relazione di fertilizzazione incrociata»1.
La possibilità che dalla creazione di una nuova categoria concettuale
possa emergere la salda leadership di un mercato che presenti una crescita
durevole e profittevole per l’impresa dipende da alcuni fattori tra di loro
interrelati:
- Esistenza di uno spazio (“créneau” nelle parole di Trout e Ries) non
ancora occupato da qualcuno ed appetibile per l’impresa. Il
riconoscimento e l’attribuzione di un’associazione identificativa tra una
data marca e la categoria cui essa appartiene dipende strettamente dal
fatto che altri non si sia già insediato nella corrispondente posizione o,
comunque, non lo abbia fatto saldamente. Ogni posizione è unica e non
può sostenere due marche contemporaneamente: affinché se ne possa
sfruttare il potenziale strategico occorre, pertanto, che essa risulti non
occupata da altri, sia perché non è ancora stata individuata (costituendo,
così, il relativo prerequisito per una market creation), sia perché chi
deteneva tale posizione se ne è allontanato lasciandola scoperta quel
tanto sufficiente perché altri potesse appropriarsene. Il valore della
posizione che dà origine alla categoria sta proprio nel fatto che il
riferimento ad essa diviene talmente generico da favorire
l’identificazione tra i due concetti consentendo ai consumatori di
richiamare l’uno o l’altro alla mente ogni volta che emerge il suo
omologo. Come abbiamo visto, questa non è caratteristica comune a
tutte le marche presenti nella categoria e che occupano posti anche
rilevanti all’interno della relativa scala valoriale. Potendo la mente
ricomporre, attraverso il processo di categorizzazione delle percezioni, i
significati relativi solamente a pochi elementi dell’insieme
potenzialmente osservabile, occorre necessariamente rientrare tra le
1
A. MATIACCI, Il marketing strategico dei business di nicchia, CEDAM, 2000,
p. 332.
- 287 -
posizioni più in rilievo al fine di non cadere nell’anonimato
pregiudicando le proprie possibilità di sviluppo.
- Esistenza e vicinanza di analoghi prodotti o servizi che possono
risultare preferiti dal consumatore. Non è sufficiente riuscire a creare
una nuova categoria per la marca, dovendosi prima verificare il grado di
presenza e rilevanza degli attributi che la caratterizzano nelle categorie
ad essa vicine. In effetti, quelli che possono ad una prima osservazione
sembrare elementi distintivi della nuova categoria spesso non sono altro
che riedizioni rivedute e corrette di attributi e concetti già presenti e
radicati nella memoria del mercato il cui valore risulta, perciò stesso,
inferiore a quello dell’offerta originale (anche se, a volte, soprattutto
quando la categoria viene a trovarsi in una situazione di disaffezione e
calo di interesse da parte del mercato, la nuova marca può contribuire
alla sua rivitalizzazione sotto mutate forme ed assumerne la guida).
La specialità della posizione occupata dovrebbe essere tale da non
prevedere la possibilità dell’esistenza di sostituti perfetti. L’offerta
costruita intorno ad un’esigenza specifica del consumatore dovrà essere
diversa da qualsiasi altra, a meno che non si tratti di una palese
imitazione.
Sono, pertanto, le associazioni a concetti sedimentati e persistenti nella
mente dei consumatori ed adiacenti a quelle espressi dalla posizione
creata dalla marca pioneer a comprimere gli spazi di crescita di
quest’ultima (determinandone anche la particolare direzione seguita).
Esistenza di prodotti potenzialmente sostitutivi esprimenti concetti non
dissimili e vicinanza di mercati ampi e riconosciuti per tali prodotti sono
elementi che vanno a restringere i margini e gli spazi per possibili
sviluppi della nuova categoria aperta paventandone il riassorbimento nel
loro ambito. Di qui, l’importanza del costruirsi una mappa dei concetti
espressi dalla nuova posizione assunta in relazione a quelle che
maggiormente sembrano avvicinarsi ad essa, occorrendo anche
comprendere la portata e profondità del trend nel quale l’intera categoria
è inserita.
- Capacità di reazione del leader della categoria di prodotto più
vicina a quella creata. In relazione a quanto affermato nel descrivere la
- 288 -
strategia difensiva, occorre rilevare, adesso, come si profili, per la marca
che detiene la leadership di un mercato adiacente per natura e fattezze a
quello di cui si intende essere l’iniziatore, la possibilità di appropriarsi
del valore creato dalla marca pioneer attraverso una repentina azione di
imitazione che, se il nuovo fronte aperto non raggiunge ancora certe
dimensioni ed un rilevante spessore, consistenza e rilevanza per i
consumatori, può affermare e sostenere la convinzione che la paternità
della categoria appartenga in realtà alla marca leader.
La conseguibilità di questo risultato, tuttavia, oltre a dipendere dalla
capacità di reazione espressa dall’impresa concorrente, varia anche in
funzione del grado di vicinanza percepita tra la categoria di cui essa
detiene la leadership ed i caratteri espressi nella nuova concezione
portata avanti dall’impresa innovatrice. Difficilmente, infatti,
un’impresa operante in un mercato con caratteristiche molto diverse da
quelle proprie della nuova categoria e a tale mercato ormai associata e
ricondotta mentalmente dai consumatori potrà riuscire a convincere
questi ultimi della propria capacità di esprimere i nuovi concetti ed a
sostituire la propria immagine a quella della marca pioneer sfruttando il
varco da essa aperto.
I fattori generali appena introdotti necessitano di una sistemazione
concettuale che li ponga in relazione con il particolare contesto
concorrenziale nel quale la marca va ad inserirsi. A tal fine, proponiamo
una ridefinizione delle variabili in gioco in modo da riuscire, ponendole in
maniera tale da offrirne una adeguata articolazione, ad integrarle in una
matrice multidimensionale a ciò predisposta. Risultato della matrice di cui
in figura 5.1 sarà il riconoscimento della particolare situazione competitiva
nella quale la marca viene a trovarsi, assieme all’evidenziazione del ruolo
svolto nel determinarla dalla capacità di market creation da essa
manifestata, con indicazioni per la condotta strategica di fondo da tenere.
- 289 -
Grado di concentrazione del mercato
Elevato
Vicinanza dei concorrenti
Bassa
Alta
Forza e reattività Forza e reattività
dei concorrenti
dei concorrenti
Bassa
Alta
Bassa
Alta
Follower
Splendid
Mayonnaise
Milka
Sottilette
Philadelphia
Hag
Jocca
Simmen
-thal
Toblerone
Follower
Follower
First
Basso
Order of entry
Last
First
Elevato
Order of entry
Last
First
Follower
Last
First
Elevato
Order of entry
Basso
Order of entry
Elevato
Grado di definizione del prodotto
Basso
Grado di definizione del prodotto
Grado di distinzione e definizione della categoria
Last
Basso
Vicinanza dei concorrenti
Bassa
Alta
Forza e reattività Forza e reattività
dei concorrenti
dei concorrenti
Bassa
Alta
Bassa
Alta
Figura 5.1 – Brand’s market creation capability and competitive power
- 290 -
Nella matrice sono presenti sei dimensioni di cui tre poste sull’asse
verticale (attinenti all’ambiente competitivo nel quale sono inserite le
imprese) e tre su quello orizzontale (relative ad elementi più direttamente
dipendenti dalle capacità di analisi e dalle strategie d’impresa). Dalla loro
intersezione possiamo individuare dei quadranti che, in virtù
dell’omogeneità loro conferita dalle dimensioni di livello superiore, sono
raggruppabili in macroquadranti ciascuno con le proprie peculiarità,
Tra le dimensioni verticali, le quali si riconducono ad elementi
caratterizzanti l’ambiente competitivo, poniamo il grado di concentrazione
del mercato, la vicinanza dei concorrenti e la loro forza e capacità di
reazione.
Il primo criterio distintivo riassume in sé il rilievo che ha assunto nel
tempo il mercato di riferimento sintetizzando il tipo di addensamento
competitivo che in esso si è venuto a determinare. In particolare, un elevato
grado di concentrazione, se originato dalla presenza di una pluralità di
soggetti sul mercato i quali detengono una rilevante sua quota1, sta ad
indicare una fase necessariamente successiva a quella in cui la
corrispondente categoria di prodotto è stata creata. In questa situazione,
perciò, la marca che abbia assunto una posizione su codesto mercato non
potrà beneficiare di un vantaggio da first-mover, trovandosi, invece, a
dover affrontare una concorrenza che in qualche modo ha già avuto il
tempo di raggrupparsi attorno agli elementi critici identificati per la
categoria e di consolidare le proprie posizioni convergendo verso quelle
che meglio ad essi rispondono. Viceversa, una marca che si trovi a doversi
confrontare con un basso grado di concentrazione del mercato ha,
generalmente, maggiori spazi di movimento non incontrando l’opposizione
di rivali già posizionati e potendo sviluppare i concetti che più ritenga
opportuni. La concentrazione, infatti crea pressione riguardo alla posizione
occupata ed a quelle potenzialmente sostenibili.
1
Va rilevato, infatti, come, nei primissimi momenti che seguono la creazione di
una nuova categoria (o anche per un periodo di tempo più prolungato, fino a quando
non vi confluiranno altri competitori), il mercato risulti perfettamente concentrato nelle
mani della marca da cui esso trae origine.
- 291 -
Connessa al problema della concentrazione è la questione della
distanza che separa i competitori dalla marca in considerazione, intendendo
per distanza l’accezione che più inerisce gli aspetti percettivi della
complessiva valutazione che il consumatore fa dei diversi soggetti presenti
nella categoria. A riguardo, un’importanza primaria è ricoperta da
un’attenta analisi condotta attraverso la costruzione di una mappa
percettiva: comprendere l’ampiezza e la natura delle distanze percepite
relativamente agli attributi salienti dell’offerta costituisce un fondamentale
presupposto per la definizione di un quadro completo delle associazioni
instaurate nella categoria concettuale di riferimento fornendo, inoltre, utili
indicazioni circa gli spazi coperti o rimasti ancora scoperti al suo interno.
Elevate distanze intercorrenti tra la propria posizione e quella dei rivali
comportano un relativamente maggior isolamento concorrenziale in termini
dei significati e dei concetti espressi, determinando una differenza
percettiva che, per poter essere colmata, richiederà tempi e/o costi superiori
in grado di rappresentare forti deterrenti per eventuali riposizionamenti
aggressivi. In particolare, è da rilevare come, nel condurre la marca lontano
dalla posizione originaria facendole percorrere una lunga distanza nella
mente del consumatore per andare a contrastare il concorrente che vi
occupa una posizione strategica, si perdano per strada i punti di rilievo
delle proprie identità ed immagine potendole rendere talmente sfocate da
far perdere loro tutto il valore precedentemente costruito. Se a ciò
aggiungiamo le difficoltà insite nello scalzare il concorrente dalla
posizione-obiettivo che esso può mantenere tenendosi sulla difensiva
(difficoltà dovute, essenzialmente, al fatto di doversi scontrare su un
terreno non proprio) possiamo, allora, comprendere come la distanza
percepita tra le marche in competizione costituisca un fondamentale
elemento di cui tenere conto nel delineare le proprie strategie.
Naturalmente, il livello di concentrazione del mercato e la distanza
percepita dai concorrenti non sono le uniche variabili a determinare le
dinamiche presenti nell’ambiente competitivo di riferimento. Un terzo
ordine di fattori è, infatti, quello legato alla forza ed alla capacità di
reazione che i diversi player possiedono e manifestano: uno scenario in cui
tali elementi difettino ai detentori di singole posizioni per noi interessanti
- 292 -
diminuisce la rilevanza della concentrazione e della distanza favorendo le
nostre offensive per le posizioni, allo stesso modo in cui assetti competitivi
potenzialmente pericolosi all’interno della categoria risultano esserlo molto
meno in funzione della considerazione delle capacità reattive che i
concorrenti in realtà hanno. È solamente quando i competitori dimostrano
di possedere adeguate capacità umane, tecnologiche e finanziarie ed una
buona reattività, che l’eventuale elevata concentrazione del mercato e la
prossimità delle posizioni da essi occupate si fanno pressanti e
costituiscono una reale minaccia per il futuro della marca.
Tra le dimensioni orizzontali della matrice, troviamo, invece, quelle
maggiormente dipendenti dalle capacità e dalla volontà del soggetto al
centro della valutazione: il grado di distinzione e definizione della
categoria, il grado di definizione della posizione ricoperta, l’ordine di
entrata nella categoria.
La valutazione del grado di distinzione e definizione della categoria
concettuale di riferimento non è determinabile in maniera del tutto
inconfutabile, risentendo di numerosi elementi di soggettività legati alla
particolare prospettiva sulla quale ci poniamo. Solitamente, anzi, accade
che i contorni della categoria siano molto vaghi e sfumati al momento della
sua nascita, per il semplice motivo che si tratta di un qualcosa ancora
inesplorato e su cui è possibile fare solamente delle congetture. Con il
passare del tempo e l’accumularsi, tanto da parte delle imprese quanto dei
consumatori, di un maggiore bagaglio esperenziale/conoscitivo le
connotazioni della categoria si fanno più nitide e costituiscono un più
affidabile riferimento per la comprensione dell’ambito nel quale andranno a
collocarsi le strategie. I problemi di messa a fuoco deriveranno, a quel
punto, dal sovrapporsi della categoria in considerazione con altre adiacenti,
il prevalere dell’una o delle altre delle quali dipenderà dalle dimensioni
relative e dalla capacità attrattiva che esse saranno in grado di far prevalere.
Le intersezioni tra categorie rivestono un ruolo assai importante e devono
essere ben presidiate, monitorate costantemente e trattate con accortezza. È
da esse, infatti, che marche appartenenti a categorie adiacenti possono
sferrare offensive che, passando attraverso gli spazi di connessione, sono in
- 293 -
grado di conquistare il centro della categoria-obietivo.
Ad un secondo livello di specificazione troviamo il grado di
definizione della posizione occupata, la cui importanza ed il cui peso
aumentano al crescere della definizione della categoria di appartenenza. Ad
una posizione facilmente identificabile e riconoscibile da parte dei
potenziali acquirenti e ad un suo elevato grado di definizione
corrispondono superiori livelli di competitività i quali costituiscono, ad un
tempo, un argine alle iniziative imitative da parte dei rivali ed
un’opportunità di sviluppo dei concetti di cui l’identità di marca è
portatrice. La distinzione, in altre parole, crea valore. Importante è,
comunque, il mantenimento della definizione e della riconoscibilità della
posizione in un contesto di attivazione dell’attenzione e dell’interesse,
senza mai permettere che detta posizione diventi scontata e banale agli
occhi dei consumatori, senza ormai più argomenti con cui lasciare il segno
della propria significativa presenza. La caratteristica di specialità è quella
che difende la marca dall’essere assorbita all’interno della più ampia
categoria di appartenenza evitandone il conseguente appiattimento dei
concetti espressi1.
La terza dimensione considerata, l’ordine di entrata, è quella più
direttamente attinente con la capacità di market creation espressa dalla
marca. Per l’esattezza, la creazione della categoria di riferimento è
attribuibile, naturalmente, alla sola impresa pioneer, la quale, per prima, ha
individuato un varco accessibile tra i diversi significati presenti nella mente
del consumatore guadagnandone l’accesso attraverso concetti che hanno
poi preso corpo dando vita ad una nuova, distinta, categoria. Come
abbiamo visto2, l’impresa pioneer può beneficiare del cosiddetto
“vantaggio del first-mover” alla cui fruizione effettiva pare legata, almeno
in una prima battuta, la quota di mercato da essa detenuta, pur rimanendo
necessaria una continua azione di manutenzione dei caratteri essenziali
1
Come fa notare Mattiacci (A. MATTIACCI, 2000, op. cit., p.335), «La specialità
è un fattore di offerta che agisce sul consumatore e sulle sue variabili cognitive
attraverso la comunicazione (creazione della percezione di specialità) e la prestazione
funzionale (mantenimento della promise)».
2
Cfr. par. 3.3.2.
- 294 -
della categoria e di consolidamento della posizione conseguita. I vantaggi
riconducibili all’ordine d’entrata, tuttavia, non si esauriscono nella
posizione di first-mover, ma vanno anche a beneficio dei successivi
entranti, seppure in misura decrescente con l’avanzare dei competitori che
entrano nella categoria. Di qui il diverso rilievo attribuito all’ingresso come
follower o a quello, ancora successivo, identificato nella condizione di lastentrant, per i quali si prospettano maggiori difficoltà di conseguimento di
una posizione distinta e minori possibilità di vittoria nel gioco
concorrenziale del quale sono entrati a far parte, schiacciati,
presumibilmente, dalla maggiore concentrazione concorrenziale incontrata
(a meno che essa sia, invece, sintomo di un addensamento ingiustificato e
si accompagni ad una scarsa forza e decisione degli altri attori).
La struttura della matrice che ricaviamo ha natura ricorsiva
presentando analoghe fattezze all’interno di ogni singolo macroquadrante
identificato. In effetti, possiamo, in una prima istanza, suddividere la
matrice in quattro parti corrispondenti alle intersezioni delle dimensioni
orizzontale e verticale di livello superiore ottenendo una prima indicazione
circa il grado di sviluppo della categoria in esame. Successivamente,
introducendo le altre dimensioni, arriviamo alla determinazione di otto
macroquadranti che specificano i significati di quelli ad essi superiori, in
modo da meglio evidenziare il rapporto tra le caratteristiche del
posizionamento ed il contributo ad esso apportato dall’ordine d’entrata, da
una parte, e le caratteristiche del mercato del mercato, dall’altra, portando
alla luce il ruolo e l’importanza che riveste per la marca lo sviluppo della
capacità di market-creation.
Ogni macroquadrante sta ad indicare una posizione competitiva che
si fa più debole (forte) procedendo nella matrice dall’alto verso il basso
(dal basso verso l’alto) e da destra verso sinistra (da sinistra verso destra.
Analogamente (ma in senso opposto), procedendo all’interno di ogni
macroquadrante, la posizione competitiva è più debole (forte) andando da
sinistra verso destra (destra verso sinistra) e dal basso verso l’alto (dall’alto
verso il basso). Così, in ognuno di essi, la migliore posizione ricopribile è
quella posta al vertice basso di sinistra, mentre quella peggiore si trova in
- 295 -
alto a destra. Tra esse troviamo posizioni intermedie che, tuttavia,
esprimono ciascuna una propria peculiarità.
Naturalmente può capitare che le posizioni occupate cambino nel
tempo in funzione delle dinamiche concorrenziali. In questo senso, compito
di chi gestisce la marca è quello si portarla nei quadranti a più alto valore,
in modo da migliorarne la definizione e la capacità competitiva.
5.2.2 – Market-creators.
Tra i casi presi in esame, alcuni mostrano come la capacità di dare
origine ad una nuova categoria concettuale da parte della marca sia stata
determinante nel costruire le basi per una leadership duratura relativamente
al nuovo mercato cui si è dato forma. L’elemento decisivo in tal senso pare
essere l’individuazione da parte degli strateghi d’impresa di un
significativo interstizio di mercato esistente e ancora inesplorato (e perciò
non conteso e disponibile) tra i modi in cui i consumatori percepiscono un
bisogno e le risposte che essi ottengono dalle singole offerte.
Soprattutto per marchi come Sottilette e Philadelphia si può parlare
di una vera e propria capacità di creare una nuova categoria di prodotti. Il
carattere che maggiormente accomuna le due esperienze consiste nella
determinazione di una frattura nella continuità del mercato da parte delle
nuove marche: i concetti da esse espressi non risultano essere nuovi in
senso assoluto, ma costituiscono un importante salto qualitativo
nell’interpretazione di esigenze dei consumatori che ancora non erano
emerse né state validamente intese. Rilevante è la considerazione che le
rispettive basi d’appoggio per il posizionamento erano costituite da
categorie ben conosciute ed apprezzate dai potenziali acquirenti, in ciò
risiedendo il contributo alla continuità che ha agevolato la generazione e
l’integrazione delle nuove associazioni con quelle già presenti nella loro
mente.
Anche l’introduzione di prodotti come Jocca e Hag è coincisa con
importanti momenti di rottura nell’ambito dei più ampi mercati cui essi si
riferiscono consentendo, però, la nascita di categorie solo in parte distinte
da quelle in cui tale rottura viene originata. Le peculiarità che
- 296 -
caratterizzano le due marche sono tali da rendere difficile l’instaurazione di
associazioni positive con i significati sedimentati ad esse ricondotti. Come
vedremo, infatti, tanto Jocca che Hag si pongono come versioni
depotenziate di prodotti noti e affermati (i formaggi freschi nel primo caso,
il caffè nel secondo) e sono percepite come punitive. Proprio alla carenza di
personalità e ai limiti di definizione della rispettiva identità è attribuibile, in
prima istanza, la inevitabile subordinazione a categorie di livello superiore.
Sebbene Jocca e Hag costituiscano il punto di riferimento rispettivamente
per i cottage cheese e per il caffè decaffeinato, mercati dei quali detengono
la leadership, il mancato innalzamento a categorie autonoma costituisce,
per esse, un grave impedimento allo sviluppo della marca.
Analogo discorso vale per Simmenthal, marchio storico che ha dato
origine al mercato della carne in scatola del quale è leader indiscusso. In
questo caso, la categoria venutasi a creare deve confrontarsi da una parte
con la maggiore preferenza incontrata dal corrispondente fresco e dall’altra
con sostituti in grado di meglio rispondere alla medesima occasione d’uso e
genere di consumo.
Dunque, la capacità di creare una nuova categoria concettuale, pur
svolgendo un ruolo di primissimo piano nel promuovere lo sviluppo del
posizionamento di una marca, di per sé non conduce necessariamente al
conseguimento della leadership del relativo mercato, occorrendo la
presenza di ulteriori condizioni contestuali in grado di meglio definire i
contorni della categoria stessa e della posizione assunta accrescendone il
valore.
SOTTILETTE.
Sottilette Kraft, brand storico legato alla cultura alimentare italiana a
partire dagli anni del boom economico, fu introdotto nel nostro paese nel
1961 creando letteralmente una nuova categoria di prodotto1 fino a quel
1
Il marchio Sottilette risponde appieno ai requisiti posizionali ideali di un
prodotto: è diventato col tempo notevolmente generico stando ad indicare l’intera
categoria concettuale di riferimento che è andato a creare, senza però diventare talmente
generico da poter essere sfruttabile da parte della concorrenza, perdendo così nella
- 297 -
momento del tutto assente sul mercato ed ottenendo un incredibile successo
in termini di vendite, notorietà e familiarità. La funzione inizialmente
assegnata al prodotto era quella di farcire i panini, ed in tal senso erano
veicolati i messaggi del tempo1, sfruttando, in quest’ottica, le sue notevoli
doti di praticità. Il 1974 è l’anno in cui il significato di funzionalità e
praticità di Sottilette fa un sostanziale passo in avanti, grazie ad
un’innovazione nel packaging con le fette confezionate singolarmente
(tuttavia non accompagnato da un significativo iniziale aumento delle
vendite). Data la novità del prodotto e il limitato numero di concorrenti, il
prezzo si era mantenuto piuttosto alto.
Dopo una sostanziale fase di stallo nell’incremento delle vendite fra
il 1969 e il 1977, dal 1978 al 1993, viceversa, si è assistito ad un
eccezionale sviluppo del mercato di cui Sottilette ha mantenuto saldamente
la leadership. La crescita pare essere stata agevolata dall’estensione della
gamma – che consentiva un uso più esteso del prodotto – e, soprattutto, dal
riposizionamento della versione base da semplice companatico a vero e
proprio ingrediente in cucina utilizzabile nelle più diverse ricette. La
pubblicità della versione classica (Emmental) faceva emergere, come
principali benefit per il consumatore, la versatilità (grazie alle buone
performance del prodotto, sia cotto che crudo), il gusto e la garanzia
offerta dal marchio Kraft.
Nel 1979 fu lanciata sul mercato “Fila e fondi”, versione
particolarmente adatta per tutte le preparazioni a forno e a caldo in genere.
Nel 1982 fu la volta di “Piccadolce” a base di provolone piccante che,
tuttavia, non riscosse, in seguito, molto successo. Nel 1989, sulla scia della
moda “paninara”, venne introdotto “Happy Snack”, che si caratterizzava
per il maggiore spessore delle fette, adatte per preparare hamburger e
panini. Nel 1992 venne lanciata la versione “Light” intesa a cavalcare la
crescente attenzione dei consumatori per bassi contenuti di grassi ed in
genericità l’intero suo valore (importante è il fatto che il marchio, registrato dalla Kraft
Jacobs Suchard, a livello percettivo e di sedimentazione dei significati appare
inscindibilmente legato a Kraft).
1
Il primo spot, presentato da Gino Bramieri, risale al 1964. Successivamente,
nel 1970, il primo vero e proprio posizionamento collegava Sottilette al concetto di
“panino robusto”.
- 298 -
grado di meglio adattarsi alle esigenze del perseguimento di una buona
forma fisica. L’ultima recentissima versione immessa nel mercato,
“Cubetti”, sviluppa una rivisitazione del concetto di fetta, il quale viene
accantonato in favore di una nuova forma che consente nuovi abbinamenti
del prodotto – come condimento per primi piatti soprattutto estivi, per
insalate… – allargandone quindi le possibilità di utilizzo.
A partire dal 1993, per capitalizzare gli sforzi pubblicitari effettuati
sulle singole varietà di Sottilette, fu avviata una campagna di
comunicazione “a ombrello” incentrata sul personaggio di un bambino
nella quale, di volta in volta, veniva abbinato il messaggio base che
sottolineava la qualità del prodotto (garantita dall’esperienza Kraft) ai
messaggi di Emmental (“Il sapore superiore”), Fila e fondi (“Specialista per
i piatti al forno”) e Light (“Solo il 16% di grassi”). Alla pubblicità si
affiancavano iniziative promozionali attraverso raccolte a punti miranti a
fidelizzare la clientela e a gratificare i forti utilizzatori. Il prezzo, in questo
periodo, continuava a mantenersi superiore del 30-35% rispetto alla media
del mercato.
Nel 1994 la marca ha conosciuto un serio momento di crisi, in
coincidenza con l’acuirsi di un periodo di recessione economica, cui si
aggiungeva la consistente svalutazione della lira, che aveva generato nei
consumatori la tendenza a tenere in maggior considerazione il rapporto
qualità/prezzo ed a limitare l’acquisto di prodotti non indispensabili per
l’alimentazione. A ciò si aggiungeva la crescente pressione concorrenziale
esercitata dallo sviluppo del fenomeno degli hard discount, reso più
vigoroso in funzione, questa volta al contrario, di quegli stessi fattori che
indebolivano Sottilette. Il mercato disponibile si era ridotto, così come al
quota di mercato detenuta al suo interno da Kraft e, conseguentemente, i
suoi profitti.
La risposta di Kraft non si fece tuttavia attendere: già a partire dalla
seconda metà del 1994 si diede inizio ad una strategia incentrata su un
marketing mix particolarmente aggressivo nei confronti di hard discount e
primi prezzi. In particolare, mentre da una parte i prezzi, in precedenza
circa doppi rispetto ai primi prezzi, furono tagliati del 20%, dall’altra fu
lanciata una massiccia campagna pubblicitaria mirante a spiegare in modo
- 299 -
più razionale (la razionalità era tornata, in seguito al tentativo di ridurre gli
effetti della recessione, a guidare le scelte di consumo) la qualità superiore
di Sottilette Emmental. L’obiettivo di una fidelizzazione e dell’arresto
dell’esodo di acquirenti verso marche più a buon mercato veniva, cioè,
perseguito offrendo una giustificazione razionale al sovrapprezzo di
Sottilette (la forbice con le altre marche si era peraltro ridotta) illustrando la
superiorità del suo gusto e la migliore performance in cucina. La ragione
giustificativa sottostante faceva perno sulla qualità degli ingredienti (100%
Emmental Baviera). I risultati di quest’opera di riposizionamento furono
estremamente positivi, sebbene la focalizzazione sulla versione base avesse
penalizzato particolarmente Fila e Fondi (quella che più se ne distaccava),
ma anche Light, non adeguatamente supportate dalla comunicazione.
Per quanto riguarda la particolare posizione competitiva, i principali
concorrenti diretti di Sottilette – indiscusso leader di mercato con oltre il
50% di quota – sono Tostine di Invernizzi (anch’essa facente parte del
gruppo Kraft Jacobs Suchard), Belpaese di Galbani, Miette di locatelli e
Tigre. Ad essi si aggiungono, in ascesa, le private labels (che praticano
prezzi mediamente inferiori del 20-30% rispetto ai prodotti di marca), i
primi prezzi, ormai stabilizzati o in diminuzione, e i prodotti hard discount,
anch’essi pressoché stabili. Il mercato del formaggio fuso a fette, tuttavia,
incontra anche la concorrenza indiretta di altri prodotti – mozzarella
industriale, fontina, emmental, paste filate fra tutti – adatti alle medesime
occasioni d’uso, sebbene almeno in parte da essi diversi.
PHILADELPHIA.
Nell’ambito del più vasto mercato dei formaggi, Philadelphia rientra
nel segmento dei formaggi freschi moderni ed in particolare di quelli
cremosi o “quark” (spalmabili), del quale detiene la leadership con una
quota di circa il 60% (quattro volte quella dei più diretti inseguitori).
Philadelphia Kraft è un prodotto internazionale presente nella
maggior parte dei paesi europei. In Italia è stato introdotto nel 1971 e da
allora le vendite sono cresciute incessantemente. La linea di prodotto è
- 300 -
stata ampliata notevolmente nel tempo, nel tentativo di coprire tutti i
possibili spazi che si potessero creare in seguito all’evolversi delle
tendenze in corso ed alle possibili combinazioni in termini di occasioni
d’uso e ragioni d’acquisto (viene cioè attuata una strategia di marketing
differenziato nel tentativo di andare a soddisfare, con offerte diverse, i
diversi segmenti di mercato). Così, alla versione classica, un formaggio
spalmabile destinato a tutta la famiglia per un consumo inizialmente
previsto nei pasti principali e che detiene, nei vari formati con cui è portata
sul mercato (panetti da 62,5, 125 e 200 grammi), la quota di mercato di
gran lunga più sostanziosa all’interno della gamma, se ne sono aggiunte
molte altre che vanno a completare l’offerta di Kraft per questo segmento.
Nel 1989 sono state introdotte le “Fantasie di Philadelphia”, varianti
aromatizzate ai gusti di salmone, olive, erbe1, in grado di ampliare la
gamma di sapori del prodotto suggerendo, nel contempo, nuovi
abbinamenti e conferendogli un alone di novità in grado di creare stimoli
rinnovati per il consumatore soddisfacendo il suo bisogno di varietà.
Mantenendo lo stesso livello di consistenza – requisito importante per non
creare associazioni negative nei confronti del prodotto originale nel caso di
una mancata accettazione da parte del mercato e, allo stesso tempo, per
dare una certa credibilità alla nuova versione legandola a qualcosa di noto
ed apprezzato – si sono offerti, perciò, sapori diversi adatti a varie
occasioni di consumo. Fantasie di Philadelphia sono vendute in confezioni
da sei panetti monodose da 25 grammi ciascuno orientando, perciò, il
consumatore verso un consumo disimpegnato, magari per uno spuntino
fuori pasto.
Nel 1990 fu la volta di “Mousse di Philadelphia”, una mousse di
formaggio adatta ad essere abbinata alla frutta o ad altri ingredienti dolci
che, quantomeno in Italia, non ha trovato un grosso seguito a causa delle
associazioni contrastanti con la tradizione culinaria consolidata, ed è ormai
fuori linea da molto tempo.
Più importante appare, senza dubbio, il lancio, nel 1991, di
Philadelphia Light, il quale, pur mantenendo lo stesso gusto e la stessa
1
Le versioni al pepe e al roquefort, inizialmente offerte, sono poi state
abbandonate non incontrando i favori del mercato.
- 301 -
consistenza della versione classica, offriva un contenuto di grassi inferiore
del 40% rispetto ad essa. Il posizionamento di questa versione non la fa
rientrare fra i prodotti dietetici, bensì tra quelli leggeri senza rinunciare al
gusto, andando a presidiare l’area salutistica. Viene venduta in vaschette da
150 grammi ad un prezzo comparabile con quello della versione classica.
Tra le diverse versioni nate negli anni, Philadelphia Light è senza dubbio
quella che ha riscosso maggiormente il favore del pubblico, sempre più
attento all’esigenza di mantenere una linea al passo con i modelli mediatici
di riferimento, ma che non per questo rinuncia facilmente al sapore: la
presenza di un trade-off tra leggerezza e gusto percepibile dal consumatore,
in questo caso, andrebbe a totale svantaggio del produttore.
Recentemente, infine, è stata introdotta nel mercato una versione che
punta ai consumatori fedeli ed instancabili del prodotto: Philadelphia
Snack. La confezione, da 50 grammi, offre anche, in un comparto separato,
dei grissini con i quali si cerca di indurre il consumatore all’utilizzo per uno
spuntino. Il rischio, in questo caso, è quello di scontrarsi con concorrenti
della più diversa origine e derivazione accomunati dalla competizione per
conquistare la preferenza dei potenziali acquirenti con riferimento alla
medesima occasione d’uso, ricavando dei benefici marginali cui si
contrappongono, invece, effetti negativi certi in termini di perdita di
focalizzazione della propria immagine. Sono prefigurabili, quindi,
difficoltà non indifferenti nella penetrazione di questa variante.
Sebbene ne vengano suggerite continuamente diverse ed alternative
occasioni d’uso, quella che nella realtà si riscontra più facilmente è il
consumo come secondo piatto informale. Per quanto riguarda la modalità
d’uso, Philadelphia viene tipicamente spalmata sul pane o sui crackers. La
domanda del prodotto risulta essere fortemente concentrata, con la presenza
di very heavy users i quali, pur costituendo solamente il 10% dei
consumatori di Philadelphia, contribuiscono al suo consumo per una quota
superiore al 40%. La posizione di leadership effettiva e quella riguardo ai
valori, unanimemente riconosciute, consentono alla marca di essere
premium price verso i concorrenti.
Un elemento fondamentale su cui è costruito il successo di
Philadelphia è rappresentato dalla distribuzione e dalla notevole diffusione,
- 302 -
presenza e visibilità nei punti vendita della distribuzione alimentare. Per
quanto concerne quest’ultimo aspetto è facile constatare come la presenza
di Philadelphia abbia decisamente schiacciato la visibilità della
concorrenza, comprese le private labels.
Tuttavia, l’elemento che più ha contribuito al successo del prodotto è
dato dalla comunicazione. In questo senso, è in particolare la presenza nei
mass media ad essere stata costante e pressante, non trascurando la
rilevante e indicativa considerazione che Philadelphia è stato il primo
prodotto a stimolare la domanda di formaggi freschi moderni e di formaggi
light. È anche in questa capacità propositiva che si esprime la leadership
della marca, interamente conquistata sul campo dando spessore e credibilità
ad un’intera nuova categoria.
Nei primi 15 anni che seguirono il lancio del prodotto il messaggio
“Freschezza in carta d’argento” perseguiva l’obiettivo di stimolare la prova
cercando di far percepire Philadelphia come fresco e naturale (fine
comprensibile ed anzi auspicabile, considerando che si trattava di
presentare un concetto del tutto nuovo, per di più in una realtà che faceva
della cultura gastronomica uno dei propri punti di forza e collanti
universalmente riconosciuti. La “carta d’argento” serviva, poi, ad elevare,
per associazione, la percezione del prodotto conferendogli una certa aura di
prestigio e rispettabilità che giocavano sicuramente a favore della sua
accettazione.
Verso la metà degli anni Ottanta, con la comparsa del primo
concorrente diretto, Bucaneve di Galbani, fu deciso di focalizzare il
messaggio sui benefici offerti dal gusto e dalla versatilità d’uso del
prodotto, il quale diveniva in forza di ciò “Buono in tanti modi diversi”,
recando giovamento all’intera categoria di appartenenza (come è nel
compito di ogni leader di mercato).
Nel 1987 il benefit della comunicazione venne riposizionato dalla
Kraft nell’area della leggerezza e della modernità attraverso un diverso
messaggio il quale affermava che “Philadelphia è il formaggio fresco, con
un perfetto equilibrio tra sapore e leggerezza, ideale per gli stili alimentari
di oggi”. Ancora una volta, la marca era andata più avanti degli altri
nell’interpretare ed entrare in simbiosi con lo spirito del tempo ed il trend
- 303 -
di fondo in essere a livello socioculturale, in particolar modo per quanto
riguarda lo stile di comportamento alimentare. I risultati del
riposizionamento furono veramente notevoli (le vendite aumentarono del
17,8% tra il 1988 ed il 1989), nonostante l’ingresso sul mercato di un
nuovo contendente (Belgioioso).
Il lancio di Philadelphia Light fu accompagnato da una campagna
pubblicitario di elevato impatto il cui obiettivo non era tanto quello di
spingere il consumatore alla prova della novità offerta, quanto quello di
spiegare il significato di “prodotto light”, termine non ancora in uso in
Italia. Il messaggio, sorprendentemente semplice, ma efficace e dal chiaro
intento educativo, era: “Philadelphia Light è un prodotto fresco e leggero
che aiuta a mantenere in forma senza rinunciare al gusto”.
Fu però nel 1992, in un momento in cui continuavano ad apparire
sulla scena nuovi concorrenti (Vitasnella e Vitalgourmet per tutti), che si
procedette a quello che è stato, finora, il maggior contributo allo sviluppo
di Philadelphia in termini di notorietà ed accettazione partecipe da parte del
consumatore: il primo episodio dell’ormai arcinota sequela di pubblicità,
tuttora in atto e divenuta un vero e proprio fenomeno di costume
comunicativo, incentrate sul personaggio di Kaori, studentessa giapponese
in Italia alle prese con problemi di lingua, ma sicura in quanto alle proprie
scelte in termini di sapore e di linea. La nuova comunicazione, che doveva
coprire l’intera linea ed aveva l’obiettivo di consolidare l’immagine di
marca, prendeva spunto dalla scarsa padronanza della lingua della
protagonista per presentare alcune gag che richiamavano i prodotti della
linea, riferimento fisso al centro delle diverse situazioni narrate ed in cui si
riconoscevano i vari personaggi. In seguito, al fine di evitare che il
personaggio, divenuto nel frattempo molto popolare, non oscurasse il
prodotto ed il messaggio, la protagonista è stata progressivamente posta in
secondo piano e ricondotta ad un più omogeneo contesto familiare.
All’interno della propria categoria concettuale di riferimento, il
competitore che, con una quota di mercato di circa il 15% ed una
distribuzione capillare sul territorio, risulta essere maggiormente insidioso,
è rappresentato da Belgioioso (Sitia Yomo), introdotto nel 1988 nella sua
versione normale e nel 1991 in quella aromatizzata. Il benefit principale
- 304 -
della sua pubblicità, sintetizzata dallo slogan “Mangiatevelo vivo!”, è
legato alla presenza di fermenti lattici vivi, caratteristica distintiva del
prodotto. Dopo un risultato estremamente positivo che fece seguito al
lancio (nel 1990 arrivò a conquistare una quota di mercato di oltre il 20%),
in seguito la crescita è stata affidata prevalentemente alle estensioni di linea
con un’inevitabile e progressiva dispersione di energie e diminuzione della
quota della versione classica.
Altri concorrenti cercano di crearsi un proprio spazio tra i formaggi
freschi moderni. Fior di Certosa (Galbani) fu lanciata sul mercato nel 1991.
L’imponente campagna pubblicitaria di lancio si incentrava su un
messaggio che si legava al concetto di “Freschezza gioiosa”. Altre presenze
sul mercato, seppure in tono minore, sono quelle, entrambe riconducibili
alla stessa Kraft General Foods, di Jocca e Maman Louise.
Tuttavia, il posizionamento di Philadelphia deve tenere conto, oltre
che della categoria dei formaggi freschi moderni, cui essa appartiene,
anche, e soprattutto, delle concrete minacce ed attacchi che le vengono
portati da prodotti appartenenti ad altre categorie, ma che, in termini
competitivi, possono rivelarsi ben più pericolosi dei concorrenti diretti. È
questo il terreno sul quale la marca si gioca il proprio futuro. La
prevaricazione nell’ambito dell’intersezione tra medesima occasione d’uso
e concetti espressi dal prodotto e dalla marca deve, perciò, porsi come
obiettivo strategico auspicabile e concretamente perseguito da una parte
mantenendo vivo l’interesse per l’intera categoria d’appartenenza, dall’altra
promuovendo le associazioni con i propri specifici punti di forza.
JOCCA.
Lanciato nel 1977 sul mercato italiano, Jocca ha introdotto una
nuova categoria di prodotti, quella dei “cottage cheese”, fino a quel
momento completamente estranea alla tradizione alimentare italiana. La
connotazione che in principio caratterizzava maggiormente il prodotto era
quella dietetica: iniziavano in quegli anni a farsi sentire le tendenze
salutiste ed al conseguimento della linea e, da parte dei consumatori più
- 305 -
evoluti, venivano particolarmente richiesti agli alimenti attributi di
leggerezza, naturalità, genuinità. Il prodotto, per la verità debole quanto a
gusto, aveva il suo punto di forza nel basso contenuto di grassi enfatizzato
sia nel packaging – dove risaltava un bollino rosso che richiamava
l’attenzione sulla loro esiguità (solo il 6%) – sia nel messaggio
pubblicitario1. Jocca si inserì molto bene nella tendenza del momento 2 e
riscosse un buon successo fino al 1983, nonostante l’ingresso sul mercato
di nuovi concorrenti apertamente definiti “dietetici” nelle forme di prodotti
completamente sostitutivi dei normali pasti e di alimenti alleggeriti e
deprivati rispetto ai cibi tradizionali.
Nel 1983 iniziò per la marca un periodo di crisi dovuto
sostanzialmente al mutare degli atteggiamenti dei consumatori nei
confronti della dieta, la quale veniva ora vissuta come una moda e un fatto
piacevole, ma come una privazione del piacere del cibo ed un obbligo
antipatico e pesante da perseguire ed al quale sottoporsi. Il posizionamento
che Jocca aveva scelto al momento del suo ingresso sul mercato, in altre
parole, era divenuto inadeguato perché non più in linea (anzi, in aperto
disaccordo) con il mondo concettuale di riferimento dei potenziali
acquirenti: il trend era improvvisamente venuto a mancare nel sostenere lo
crescita della marca.
Il nuovo trend, operando come un riflusso nei confronti di quello
precedente, era informato su un nuovo ritrovato edonismo alimentare che
1
Il claim scelto per lo spot televisivo era «Carlo, ho deciso: da oggi pensiamo un
po’ anche alla linea»., evidentemente rivolto ad un pubblico femminile desideroso di
prestare maggiori attenzioni alla cura delle proprie abitudini alimentari, anche se ciò
sembrava, implicitamente, più il frutto di un impulso improvvisato e incontrollato che di
una precisa volontà (il trend su cui la marca faceva affidamento pareva già, negli stessi
atteggiamenti da essa tenuti, manifestare la propria natura transitoria).
Sulla stampa, soprattutto sulle riviste femminili, la campagna pubblicitaria
recitava «Mangi fresco, ti nutri magro», dove il termine magro certamente non
contribuiva ad arricchire il valore del prodotto e si prestava ad essere interpretato in
termini punitivi. Il messaggio continuava, poi, con «il desiderio di essere snella»,
accentuando il posizionamento nell’area dietetica
2
Che, tuttavia, come vedremo meglio nel paragrafo 5.3, non è riconducibile ad
un trend primario, bensì, quantomeno ad uno secondario di minore spessore e durata.
- 306 -
mal sopportava le logiche restrittive del piacere imposte da Jocca,
evidenziando le sue carenze rispetto al carattere gusto ed interpretando la
marca in senso punitivo. La cura del corpo si esprimeva, adesso, in una
nuova forma non più poggiando semplicemente su attenzioni dietetiche, ma
assumendo una diversa connotazione attraverso l’esercizio fisico ed una
alimentazione equilibrata, variata e articolata.
Se in precedenza il punto principale preso in considerazione dai
consumatori era il contributo al mantenimento di una buona linea, con il
consolidarsi della nuova tendenza ciò non era più possibile. Lo stesso
aspetto esteriore del prodotto creava seri problemi quanto all’associazione
con la naturalità, presentando, i fiocchi di cui esso si compone, le
sembianze addirittura di elementi di polistirolo, quanto di più distante
dall’idea di vitalità naturale possa ritrovarsi in un alimento. La pubblicità
che promuoveva Jocca in quel periodo non contribuiva certamente a
superare i problemi insorti connessi ad un posizionamento troppo
sbilanciato verso l’area dietetica, essendo incentrata sulla figura di una
casalinga insicura di sé e problematizzata a tal livello da rasentare ed essere
rappresentazione di una vera e propria frustrazione.
Si poneva, in definitiva, una impellente necessità di rilancio
dell’immagine di marca attraverso un’azione di riposizionamento in grado
di restituire vitalità al prodotto. Le associazioni da sviluppare, in quel
contesto, erano date dai concetti di leggerezza, freschezza e versatilità,
rompendo in maniera decisa l’originario collegamento con quello di dieta.
Il nuovo posizionamento avrebbe indirizzato il prodotto verso un target
ampliato, certamente uscendo allo scoperto e andando incontro a nuovi
scenari competitivi, ma venendo fuori dal vicolo cieco di un trend ormai
esaurito.
Il nuovo concetto che la marca avrebbe dovuto esprimere non poteva
prescindere, inoltre, da una ridefinizione degli attributi di prodotto.
Nessuna associazione diversa da quella di povertà e riferimento ad una
dieta, infatti, avrebbe potuto essere evocata senza aver conferito una
maggiore consistenza ed un ritrovato gusto a questo cottage cheese. In
particolare, vennero eliminati o mutati i possibili riferimenti a concetti
punitivi o comunque in grado di indebolire o disarticolare il ritrovato
- 307 -
edonismo alimentare da parte del consumatore, come il bollino sulla
confezione ad indicare lo scarso contenuto in grassi e la sostituzione delle
parole “magro” e “fresco” con “leggero” e “soffice” dal valore
indubbiamente più positivo e confacente ad una valorizzazione
dell’immagine di marca. Onde favorire un acquisto di prova, fu poi
introdotta una confezione da 125 grammi in aggiunta a quella tradizionale
da 200 grammi. Dal punto di vista prettamente comunicativo, il nuovo
posizionamento fu espresso definendo Jocca come “La freschezza in
fiocchi” rilanciando l’associazione con il latte ed il suo alto e nobile valore
nutritivo. Il target di riferimento, inoltre, si riconduceva ad una donna dai
tratti più moderni e dagli atteggiamenti alimentari al passo con i tempi.
L’obiettivo era quello di far comprendere al consumatore che Jocca non era
solamente un prodotto dietetico, ma un formaggio fresco, flessibile e
versatile adatto ad un consumo variegato e sociale distribuito nei più
diversi momenti della giornata.
Tuttavia, l’opera di riposizionamento non era ancora compiuta1 e la
marca rimaneva pericolosamente a metà del guado, esprimendo un prodotto
senza una propria decisa identità e personalità che non sapeva essere né un
alimento marcatamente dietetico, né tantomeno nutriente e gustoso.
Sebbene Jocca fosse una marca molto conosciuta dal mercato, non riusciva
ancora ad incontrarne i favori e ad essere bene accettata, lasciando
interdetti e disorientati i potenziali acquirenti. Se gli obiettivi in termini di
posizionamento potevano essere validi, la realtà mostrava ancora un
prodotto che mal si accordava con la sua nuova immagine proposta.
Fu solamente con il riferimento ad un target ancor più orientato ad
atteggiamenti moderni verso il cibo e con la modificazione degli attributi
fisici del prodotto (attraverso l’aggiunta di una maggiore quantità di grassi,
in modo da conferirgli una consistenza più cremosa e soffice) che i risultati
in termini di vendite e di accettazione da parte del pubblico iniziarono a
tornare positivi per la marca, anche se persisteva una notevole stagionalità
ed incostanza per quanto riguarda il consumo. La nuova campagna
pubblicitaria, dal clima giovane e divertente, faceva perno sulla versatilità
del prodotto, in grado dar vita ai più diversi abbinamenti che consentivano
1
Non a caso, le vendite del 1986 erano ulteriormente diminuite.
- 308 -
di arricchirne i significati1. Il claim recitava «Jocca, tutto di…» nella più
classica delle tecniche che utilizzano il principio di chiusura nella
generazione delle associazioni desiderate2.
Al 1990 Jocca deteneva una quota di mercato vicina all’80% per
quanto riguarda i cottage cheese e del 15% sul mercato totale dei formaggi
freschi. Se da una parte, quindi, poteva apparire il leader rispetto ai primi,
in una più ampia visione prospettica la competizione si faceva – e si fa –
serrata, specialmente qualora se ne allarghi l’orizzonte oltre la mera natura
merceologica del prodotto. In effetti, considerando l’occasione d’uso del
prodotto, esso si ritrova a competere con concorrenti della più diversa
natura: mozzarella di produzione industriale ed altri formaggi freschi (ad
esempio Philadelphia), tonno e carne in scatola e, probabilmente, anche
salumi confezionati pronti all’uso3. La natura che probabilmente emerge
essere come la più vicina al prodotto è, quindi, quella di un piatto
destrutturato in grado di aderire ai moderni ristretti tempi di preparazione e
di consumo degli alimenti, caratterizzato da leggerezza, freschezza e
versatilità di impiego.
A partire dalla fine del 1991, con lo sviluppo e la rimarchevole
proliferazione di versioni “light” per i più disparati prodotti, tra i quali i
formaggi, il posizionamento di Jocca fu riorientato verso l’originario
concetto di “linea snella” realizzato attraverso una nuova campagna
pubblicitaria proposta su media meno costosi rispetto alla televisione – per
lo più stampa – nella quale il prodotto era accostato ad una modella in
bikini adagiata su uno scoglio in riva al mare e che con il claim che
1
A supporto del fondamentale concetto di versatilità, che andava ad aggiungersi
a leggerezza e freschezza, furono offerti diffusamente campioni del prodotto assieme ad
un ricettario (con la funzione di valorizzarne gli abbinamenti con altri cibi) che ne
avvalorava il senso e le ragioni. Per allontanare il richiamo all’uso del prodotto
direttamente nella coppetta, il ricettario aveva la forma di un piatto.
2
V. par. 2.1.3.
3
Comunque, il rischio generato per la marca dalla contesa del medesimo target
da parte di concorrenti provenienti dalle più diverse aree merceologiche è in parte
mitigato dalla tenace esigenza di varietà che caratterizza il consumo delle moderne
società di matrice occidentale.
- 309 -
affermava «La leggerezza in fiocchi di Jocca…e si vede!»1. Nel 1994 il
posizionamento fu nuovamente modificato allo scopo di rafforzare
l’associazione con il concetto di versatilità del prodotto, promuovendo gli
abbinamenti con altri cibi per realizzare piatti unici freddi2.
Tra i gruppi di consumatori3 interessati – anche solo a livello
potenziale – a Jocca, sono senz’altro da escludere i tradizionalisti, in quanto
il prodotto non presenta alcun legame con la cucina italiana, così come i
poveri per le relative incompatibilità economiche e culturali. Tantomeno è
possibile rivolgersi ai gastronomi, stante la mediocre prestazione di Jocca
riguardo al gusto ed alle proprietà edonistiche in generale. Altro discorso
vale invece per i salutisti (che comprendono, evidentemente, anche i clienti
storici) e per i funzionali, ai quali il prodotto offre un indubbio servizio. La
valenza per gli sregolati è piuttosto marginale, tuttavia potendo
rappresentare l’occasione per uno spuntino fuori pasto.
Se è vero che l’avere introdotto in Italia la categoria concettuale
relativa ai cottage cheese ha permesso a Jocca di acquisirne la leadership
potendo adottare strategie di natura difensiva verso i concorrenti diretti,
d’altra parte occorre considerare che tale categoria rientra in una più grande
ed eterogenea, i protagonisti della quale rappresentano tutti potenziali
pericoli per il futuro della marca. Il posizionamento, pertanto, deve essere
studiato con riferimento alla multiforme arena competitiva nella quale
Jocca si trova ad operare essendo, le decisioni strategiche adottate, foriere
di conseguenze tanto più articolate quanto più variegata è il terreno di
origine dei contendenti e quanto più complesse si fanno le esigenze da
soddisfare.
Grazie ai sostanziosi investimenti in comunicazione, Jocca è
certamente un brand conosciuto, almeno come nome, dal grande pubblico,
A ciò si accompagnava una iniziativa promozionale – che riscosse un notevole
successo – incentrata su una raccolta a punti che offriva come premio una raffinata
insalatiera in vetro e silverplate.
2
Il concetto di versatilità venne anche formalizzato dalla nuova raccolta a punti
che proponeva un vassoio multiportata ideato per suggerire il consumo di Jocca assieme
ad altre pietanza. Si tornò anche all’utilizzo del mezzo televisivo attraverso minispot da
cinque secondi nei quali compariva la medesima modella della campagna stampa.
3
Cfr. par. 5.1.
1
- 310 -
ma probabilmente non è né compreso né accettato completamente. Del
resto, dopo l’entrata nel mercato di nuovi concorrenti diretti ed indiretti e le
modificazioni subite nel tempo dal posizionamento adottato, Jocca pare
avere un’identità che si è discostata da quella iniziale, ma ancora non bene
delineata.
HAG.
Il marchio Hag nacque in Germania nel 1906 ed è presente in Italia
dalla fine degli anni Venti. La particolare rilevanza della posizione di
leadership detenuta dalla marca deriva, oltre che dalla invidiabile quota di
mercato, soprattutto dal fatto che Hag si è posto come l’inventore della
stessa categoria in cui opera conferendogli notorietà oltre che
autorevolezza: il nome Hag è diventato, infatti, talmente generico da stare
ad indicare la categoria intera (per la verità creando, qualche volta, alcuni
problemi di banalizzazione e confusione). Il prodotto è costituito da un
caffè “decaffeinato”, ossia privato della caffeina1. Questo genere di
prodotto ha da sempre suscitato perplessità e pregiudizi da parte dei
potenziali utilizzatori, in quanto si ritiene, spesse volte anche oggi, che, per
essere ottenuto, debba subire trattamenti chimici complessi e pericolosi per
la salute2. Inoltre, anche qualora il caffè decaffeinato superi questo primo
1
La caffeina è un alcaloide che in tazzina è presente in quantità da 50 a 150
milligrammi, con una media di 80, a seconda del tipo di caffè e delle modalità di
preparazione. È noto che molti effetti indotti dal caffè su alcune funzioni del nostro
organismo sono legati alla caffeina.
2
Già in passato, quando si imputavano esclusivamente alla caffeina certi effetti
negativi, si pensò di ottenere una bevanda che fosse priva di questo alcaloide. Si
comincio' quindi a ricercare un metodo che consentisse di eliminarlo dai chicchi.
Ludwing Raselium ebbe l'idea di rendere poroso il chicco di caffè utilizzando del
vapore. In tal modo veniva facilitata l'estrazione successiva della caffeina grazie
all'ausilio di solventi organici.
I metodi per la decaffeinizzazione dl caffè, abitualmente utilizzati dall'industria,
sono tre. Essi vengono convenzionalmente definiti dal mezzo impiegato nel processo:
1. DECAFFEINIZZAZIONE AD ACQUA. È basato sulla naturale capacita' dell'acqua
di solubilzzare la caffeina. L'acqua però agisce in modo non selettivo sul caffè
- 311 -
critico vaglio interpretativo, emergono subito nuovi luoghi comuni e
preconcetti connessi al suo gusto a ostacolarne la diffusione.
Il mercato del caffè in Italia è particolarmente grande. La quasi
totalità degli italiani (il 95% della popolazione) consuma regolarmente
caffè, ma solo una minima parte di essi (il 14% dei consumatori) fa uso di
decaffeinato e, in proporzione ai consumatori di caffè normale, tale uso
risulta vistosamente inferiore dal momento che solo il 3% del caffè
consumato è decaffeinato.
La differente natura del prodotto è alla base di tali divergenze. Da
una parte è naturale che il caffè “normale” costituisca la parte
preponderante del consumo totale essendo, esso, il prodotto originale,
quello «vero», al cui confronto parlare di “caffè decaffeinato” appare
un’antitesi in partenza (“che rilevanza può mai avere un caffè che non è
caffè?” potremmo chiederci).
Ciononostante, il mercato del caffè decaffeinato è cresciuto
significativamente fino al 1989, quando, a causa di una campagna
crudo, estraendone anche agli altri componenti solubili, come ad esempio gli aromi
(senza comunque alterarne le caratteristiche). Un sofisticato processo tecnologico
consente in una fase successiva, una volta allontanata la caffeina, di restituire il
caffè gli aromi estratti, ricomponendone il profilo organolettico originario. I
vantaggi di questo metodo fortemente innovativo sono i seguenti:
- il caffè entra in contatto solamente con un'unica sostanza, l'acqua;
- la ricchezza di aroma e di gusto della miscela non subisce alterazioni sostanziali.
2. DECAFFEINIZZAZIONE CON ANIDRIDE CARBONICA SOTTO PRESSIONE.
Nel processo di decaffeinizzazione con anidride carbonica, i chicchi vengono
inumiditi con vapore e acqua ed immessi in un cilindro di estrazione a contatto con
il gas in condizione "supercritica" (ovvero, quando la temperatura e la pressione
raggiunte sono tali da attribuirgli sia le caratteristiche del gas che quelle del liquido).
L'anidride carbonica in condizione "supercritica" agisce da solvente per la caffeina
permettendone l'estrazione.
3. DECAFFEINIZZAZIONE CON SOLVENTI ORGANICI.. Si tratta di un metodo
ormai non più comune. Vengono utilizzati alcuni solventi organici particolarmente
selettivi nei confronti della caffeina Il caffè crudo viene prima inumidito con del
vapore, cosi da rendere più permeabile da superficie dei singoli chicchi. In questo
modo si facilita l'estrazione della caffeina nel momento in cui il solvente entra in
contatto con il caffè.
- 312 -
denigratoria – poi smentita – che lo indicava come contenente solventi
chimici nocivi alla salute, il consumo ha subito un crollo improvviso e
deciso, tanto da dimezzarsi nel giro di tre anni continuando a scendere fino
al 1996. È solamente a partire da questo anno che il prodotto ha cominciato
la sua risalita (crescita media del 6% annuo), in contro tendenza con quanto
faceva il caffè tradizionale (diminuzione media dell’1%), anche se è palese
che, essendo stata, la crisi, dettata essenzialmente da un fattore improvviso
e contingente, per quanto infausto, il consumo non avrebbe potuto rimanere
per troppo tempo lontano dalle proprie potenzialità medie dimostrate fino a
quel momento. Solamente fra qualche anno, cioè, quando la tendenza di
fondo avrà ripreso il suo corso, potremo guardare a dati comparativi con il
caffè “normale” con la consapevolezza di una maggiore attendibilità.
Il profilo dell’utilizzatore tipo di Hag è rintracciabile in quello di una
donna di età superiore ai 45 anni, abitante al Nord e al centro (mentre al
Sud, patria per eccellenza del caffè classico, questo genere di prodotto
trova serie difficoltà ad affermarsi), di condizione socioeconomica medioalta, e, soprattutto, che consuma anche caffè tradizionale (caratteristica che
accomuna ben il 93% dei consumatori della marca). Quest’ultimo aspetto
sembra essere un rivelatore piuttosto importante di come la scelta del
decaffeinato non si ponga come una valida alternativa praticabile al caffè
“normale”, avvalorando, al contrario, l’ipotesi che esso sia visto soprattutto
come un ripiego quando, per una qualche ragione, non è possibile
consumare il caffè tradizionale.
Due sono i principali atteggiamenti mentali che possono essere
indotti dal caffè decaffeinato. Il primo, preponderante, è quello per cui
questo prodotto è visto come punitivo, un compromesso obbligato in certe
situazioni tra il bere o il non bere caffè. È evidente che, secondo il
particolare atteggiamento che la persona dimostra di fronte a una
costrizione e ad una scelta fra due alternative la quale vada a forzarne la
volontà, potremo riscontrare posizioni di accettazione rassegnata o di
contrapposizione “orgogliosa” nei confronti dell’opzione più sgradita. Il
secondo possibile atteggiamento, certamente meno diffuso, è positivo in
quanto induce il consumatore a considerare il caffè senza caffeina come un
prodotto scelto (senza che la scelta sia il frutto di una costrizione) in quanto
- 313 -
adatto a nuovi e più moderni stili alimentari.
Il caffè decaffeinato viene percepito come un caffè “depotenziato” da
quelli che risultano essere utilizzatori saltuari (coloro che non reggono il
compromesso e tendono, alla fine, ad abbandonare del tutto il caffè o a
tornare verso quello tradizionale) e dagli utilizzatori per necessità (coloro
che accettano il compromesso perché non possono fare altrimenti a causa,
per esempio, di motivi di salute o tendenze ipocondriache).
Il decaffeinato viene invece visto come un caffè “purificato”
assumendo, perciò, connotazioni positive, da coloro che possiamo definire
“utilizzatori instabili” (ossia coloro che acquistano anche altre bevande
sostitutive quali, per esempio, orzo e tè) e dagli utilizzatori convinti.
In genere, è assai improbabile che un consumatore di caffè
tradizionale si orienti di sua volontà verso il decaffeinato se non ne ha
valide ragioni (come potrebbe essere, ad esempio, un serio motivo di
salute). Troppe appaiono le ragioni che ostacolano il passaggio da un
prodotto percepito positivamente ad uno “punitivo”. Il caffè privato di
caffeina, in particolare, risulta poco convincente per quel che riguarda il
gusto1. I consumatori di caffè non risultano particolarmente attratti dalla
possibilità di poter consumare una maggior quantità di un prodotto che
percepiscono di bassa qualità, preferendo bere “poche, ma buone” tazzine
di caffè classico.
Non bisogna, comunque, cadere nell’errore di considerare i
pregiudizi relativi al particolare processo di produzione la causa principale
della scarsa affezione del pubblico per il caffè decaffeinato. Il nocciolo del
problema sta nell’immagine del prodotto che permea di sé quella della
marca. Un punto importante da tenere in considerazione è che non
necessariamente la caffeina è vista come un elemento indesiderabile; anzi,
spesso la sua presenza è proprio l’attributo che maggiormente induce al
consumo di caffè. In seguito ad una contestualizzazione sociale del
consumo di caffè non si può fare a meno di notare come esso assuma
rilevanti analogie con quello di sigarette. È proprio quando le persone si
trovano sottoposte ad una situazione stressante che più si fa impellente il
1
Sebbene i risultati di un blind test rivelino che il sapore di Hag è paragonato a
quello dei principali brand di caffè tradizionale.
- 314 -
bisogno di appellarsi ad un momento di confortante abitualità in modo tale
da ridurre la pressione percepita degli agenti snervanti ed al tempo stesso
attivare i meccanismi di reazione dell’organismo attraverso il ricorso a
prodotti che, per propria natura, contengono elementi stimolanti (nicotina
per l’uno, caffeina per l’altro). Sigarette e caffè sono, cioè, prodotti il cui
consumo si fa abitudinario nella ricerca di un comportamento costante in
mezzo ad un ambiente caratterizzato dalla mutevolezza e che prefigurano
una temporanea oasi di tranquillità.
Per i giovani, poi, amanti dei gusti forti, occorre un discorso a parte.
Hag pare togliere al caffè proprio quella parte che essi, in particolare, vi
ricercano maggiormente: la caffeina ed il relativo effetto stimolante del
sistema nervoso. Il meccanismo con il quale molti ricorrono al consumo di
caffè pare essere del tutto automatico, nel preciso momento in cui si
avverte uno stato di deficitarietà di energia e necessitano di una “scossa”.
Hag viene percepito, in conseguenza di ciò, come avere un gusto scialbo e,
perciò stesso privo di una forte personalità, cosicché l’apparenza di scelta
di ripiego si fa ancora più sentire1. Occorre, comunque, analizzare anche
l’altra faccia della medaglia: in una società caratterizzata dalla caoticità e
dallo stress potremmo riscontrare una nutrita schiera di persone che, in
nome di una riduzione degli effetti caotizzanti presenti negli elementi con
cui sono costantemente in contatto, sarebbero contenti nel non trovare la
caffeina tra loro ed un vivere più quieto.
Osservando l’evoluzione della strategia comunicativa della marca,
osserviamo come la campagna incentrata sul messaggio “La parte buona
del caffè”, lanciata tra il 1986 e il 1987, sia riuscita – almeno in parte –
nell’intento di creare delle associazioni positive sulla base di un
riposizionamento del prodotto originario. In effetti, attraverso
l’interpretazione e la comprensione del messaggio, veniva a determinarsi
un trasferimento di valore dal caffè tradizionale a quello decaffeinato, il
quale contiene solo le elementi migliori del prodotto.
“Perché mai dovrei bere un insipido surrogato per persone malaticce quando
non ce n’è una ragione evidente e immediata e soprattutto quando posso avere il vero
prodotto originale che mi garantisce il giusto livello di stimolazione?” potrebbe
obiettare un giovane consumatore di caffè.
1
- 315 -
La successiva campagna (1988-1989) completava la costruzione di
un pieno contesto valoriale e di significati attorno alla marca, arricchendola
di quelle connotazioni emotive che fino ad allora le era mancate. Il
messaggio era “Aggiungi Hag alla tua vita”. Il prodotto veniva idealmente
associato ad un mondo tutto da vivere, senza compromessi, neppure nel
consumo di caffè. Anzi, era proprio l’aggiunta di Hag a conferire nuovo
valore al mondo concettuale di riferimento del consumatore, conferendogli
una maggiore stabilità di contenuti e costituendo il punto di arrivo di un
ideale percorso evolutivo nell’ambito dello stile alimentare.
Nel 1992, Hag muta in misura rilevante il proprio posizionamento, in
risposta al momento di difficoltà attraversato in quegli anni. Nella
pubblicità viene inserito un testimonial – Paul Cayard, timoniere del Moro
di Venezia nella sfida italiana per l’America’s Cup, nel tentativo di
sfruttare l’attenzione generale di cui godeva in quel periodo – con
l’obiettivo evidente di associare Hag al concetto di salute e vigoria fisica.
Tuttavia, non furono conseguiti i risultati sperati, dal momento che il
decaffeinato, ancora percepito come una rinuncia e un prodotto punitivo,
quando viene abbinato al salutismo sposta il suo posizionamento verso
l’area dei prodotti per malati perdendo gran parte della sua capacità
attrattiva.
Nel 1996 inizia una nuova campagna pubblicitaria che costituisce per
certi versi un ritorno al passato, focalizzandosi sugli attributi ed i contenuti
del prodotto attraverso il confronto con il caffè “normale” (il messaggio è:
“Hag è buono come un caffè normale”) e l’evidenziazione dei benefici
apportati da Hag, con riferimento alla lunga esperienza accumulata nella
produzione di decaffeinato che le permette di offrire un caffè ricco e
generoso.
Il più recente spot, molto centrato ed impostato sull’ironia e sul
doppio senso, fa leva sulla scoperta di Hag, della sua bontà e, in particolare,
sulla possibilità che il prodotto offre di berne a piacimento. L’occasione di
consumo suggerita è, soprattutto, quella al bar e di tipo conviviale (sulla
quale la marca conta molto per il suo sviluppo futuro) tale essendo
l’ambientazione utilizzata. Il target di riferimento si abbassa per quanto
riguarda l’età, indicativamente verso i giovani dai venti ai trent’anni che
- 316 -
sentono vicina l’esigenza del vivere bene, con facilità ed in modo diretto,
dando valore e godendo piccoli piaceri quotidiani senza per questo subire
costrizioni si alcun genere. Il prodotto rimane ancora piuttosto distante dal
modo di essere del consumatore di oggi. È proprio per questa ragione che
l’ultima campagna cerca di spostare l’attenzione sul contenuto emozionale
del prodotto basandosi sul concetto che “Hag è buono tutte le colte che
vuoi”.
Per quanto concerne il mercato del decaffeinato, Hag detiene
saldamente la leadership con una quota di mercato di circa il 49% nel
canale retail e del 38% nel canale bar. La presenza della marca è
particolarmente elevata per quanto concerne la grande distribuzione.
L’assortimento offerto è l’unico nel suo genere a comprendere due
differenti formule di decaffeinato. Infatti, nel 1996 è stata introdotta la
versione “Espresso” che ha raggiunto una quota del 15% sul totale delle
vendite. Le versioni sono costituite da Hag Famiglia “Classico”, Hag
Famiglia “Espresso” e Hag “solubile” che, tuttavia, contribuisce in minima
parte (1%) ai volumi di vendita. I principali concorrenti nel canale retail
sono Lavazza Dek (22% del mercato), Illy (5,6%), Splendid N&D (3,7%);
le private labels, in crescita, detengono una quota di mercato complessiva
del 5%.
Il canale bar, sebbene ancora meno rilevante rispetto al retail, ha
conosciuto negli ultimi tempi un ottimo tasso di crescita (+7% tra il 1997 e
il 1998). La quasi totalità dei bar (90%) offre una versione di caffè senza
caffeina, principalmente in bustine. Hag è presente, in questo canale, nel
38% dei punti vendita e, anche se il contributo totale alle vendite non è
eccezionale (11% del fatturato), la profittabilità è nettamente superiore a
tutti gli altri prodotti in assortimento. La competizione è marcatamente
differente rispetto al canale famiglia, in quanto i maggiori concorrenti sono
costituiti dai torrefattori locali, grazie al forte legame che hanno con il
barista spesso anche contribuendo a finanziare le sue strutture di vendita.
Inoltre, dato che molto di frequente la versione decaffeinata non
rappresenta tanto per essi un vero business, quanto un completamento
dell’assortimento, i prezzi che i torrefattori locali applicano sono molto
bassi (impraticabili per Hag).
- 317 -
SIMMENTHAL.
Nel mercato delle carni in scatola, Simmenthal è una vera e propria
istituzione, prima ancora che il leader di mercato con una quota vicina ai
due terzi. A questa marca storica, la cui nascita viene fatta risalire
addirittura al 1881, si deve, infatti, la creazione dell’intera categoria alla
quale è, tutt’oggi, inscindibilmente legata.
Il prodotto è costituito da un piatto pronto di carni bovine, dal
bassissimo contenuto in grassi (solo il 2%) in scatole preparate in gelatina.
Le carni provengono dal Sud America e, in particolare, dal Brasile e
dall’Argentina, paese, quest’ultimo, che ne vanta di qualità molto elevata. I
tagli sono magri perché provengono da bestiame allevato all’aperto e
vengono selezionati e controllati con cura. La gelatina nasce da un brodo
vegetale che viene preparato con ingredienti naturali – spezie e verdure –
senza impiego di grassi.
La domanda di carne in scatola si caratterizza per essere fortemente
correlata alla stagione, raggiungendo elevati picchi nei mesi caldi. La
percezione riguardo questa categoria di prodotto vive di molti contrasti,
frutto di un retaggio socioculturale e di un vissuto radicato a tal punto nella
mente delle persone da essere difficilmente superabile completamente.
Storicamente il prodotto viene percepito come un alimento da consumare in
situazioni di emergenza, allorché non sono disponibili migliori alternative
(come ad esempio quando il frigorifero di casa rimane vuoto oppure non
sono facilmente o prontamente reperibili cibi freschi1.
Sebbene negli ultimi anni, in seguito ai consistenti sforzi in
comunicazione di Simmenthal, si sia sempre più diffuso il concetto di un
consumo “normale” del prodotto, come piatto freddo abbinato a verdure e
insalate, per pasti informali tra amici, continuano a persistere rilevanti
resistenze nei suoi confronti attribuibili a veri e propri pregiudizi e luoghi
comuni. Rimane, in altre parole, una certa diffidenza verso la carne in
Non a caso, si ebbe un picco dei consumi in corrispondenza dell’incidente
nucleare di Chernobyl nel 1986.
1
- 318 -
scatola, nonostante che ormai sia cosa abituale consumare ogni sorta di
alimento commercializzato in quel tipo di packaging.
La distribuzione di Simmenthal risulta capillarmente distribuita sul
territorio, con una copertura che sfiora il 100%. Per quanto riguarda il
prezzo, la posizione di leadership comporta per Simmenthal la possibilità di
praticare un premium price con un livello superiore di circa il 25% rispetto
al più diretto concorrente (Manzotin). Il premium price è giustificato, agli
occhi dei potenziali acquirenti, dal gusto particolare del prodotto e dalla
forte e rassicurante immagine di marca (relativamente al panorama delle
carni in scatola).
La comunicazione rappresenta uno dei più importanti fattori critici di
successo per questo mercato. la pubblicità di Simmenthal ha saputo
costruire nel tempo un legame con il consumatore, anche grazie alla scelta
di toni pacati e ambientazioni familiari, nella più classica strategia
difensiva da impresa leader. Le prime campagne televisive risalgono agli
albori di questo mezzo di comunicazione in Italia: la metà degli anni
Cinquanta, momento in cui maggiore era la necessità per la marca di
conferire al prodotto quella “dignità di carne” che il mercato riluttava a
concederle1.
Solo a partire dal 1977 la strategia di comunicazione si era
concentrata sul rafforzamento dell’immagine di Simmenthal come vero e
proprio secondo piatto. Nello spot televisivo di quegli anni, il messaggio
era recato da una nuora intenta a dimostrare alla suocera (timorosa, nel
pieno stile da mamma nutrice, che il figlio non venisse nutrito dalla moglie
con sufficiente cura), la bontà della sua decisine di portare in tavola carne
in scatola. Il target dell’epoca era evidentemente rappresentato da madri di
famiglia trai 25 ed i 55 anni, appartenenti al ceto medio, abbastanza
emancipate da poter preparare pasti veloci e informali, ma ancora
In quel particolare periodo storico, nel quale andava completandosi l’opera di
ricostruzione e di rilancio dell’economia del paese, probabilmente era ancora troppo
vivo e nitido il ricordo della scarsa qualità dei prodotti alimentari confezionati che
circolavano durante la guerra., al quale potrebbe essere attribuita, pertanto, buona parte
della diffidenza verso questo genere di prodotto.
1
- 319 -
bisognose di essere gratificate dal riconoscimento del loro ruolo si nutrici
della famiglia.
Con il passare degli anni ed il mutare della società, si rendeva però
necessario procedere ad una ridefinizione della strategia comunicativa nel
tentativo di rivitalizzare l’attenzione del consumatore stimolando la
fantasia e l’inventiva nel creare nuove ricette appetitose e nuovi
abbinamenti tra i più vari alimenti e la carne in scatola. Così, nel 1988,
partì una serie di spot – che generarono un altissimo grado di ricordo e
gradimento da parte del pubblico diventando quasi un fenomeno di
costume – con protagonista un bambino, Niccolò, alle prese con la carne in
scatole. Al primo episodio, che giocava sul gioco di parole e sulla tenerezza
e sulla simpatica spontaneità del bimbo nell’insistere a chiamare
“Tinsemmhal” la carne Simmenthal, ne seguirono altri correlati a diverse
situazioni nelle quali si suggerivano nuovi modi di preparare e consumare il
prodotto.
Dal 1989 la mira fu un po’ aggiustata nel tentativo di adeguare la
comunicazione ai trend alimentari più moderni. Era quello, infatti, un
momento in cui la particolare attenzione per i prodotti freschi e naturali
stava creando le condizioni per uno sviluppo dei concorrenti indiretti di
Simmenthal, ed in particolare dei formaggi freschi. Per orientare la
comunicazione verso i segmenti giovanili della popolazione fu ideato lo
spot dallo slogan “Il gusto ti fa festa” posizionando il prodotto come un
secondo piatto che piace a tutta la famiglia e in grado di esaltare il piacere
palatiale. Nel 1992, nel tentativo di consolidare la quota di mercato, il
posizionamento di Simmenthal fu spostato verso l’area light (il messaggio
era: “mi nutro leggero con il gusto unico di carne Simmenthal”). A partire
dal 1994 la comunicazione insiste sulla natura di ideale piatto destrutturato
del prodotto grazie al suo elevato livello di servizio e per la sua unica
combinazione di gusto, versatilità e leggerezza.
- 320 -
Secondo una ricerca condotta da Eurisko1, il consumo di carne in
scatola si concentra al Nord-Ovest e al Sud ed è riconducibile a quattro
possibili stili alimentari:
- emulativo (9,4% della popolazione): l’atteggiamento emulativo è tipico
dei segmenti medio bassi che aspirano a modelli di vita superiori. In
ambito alimentare, lo ritroviamo specialmente in individui di sesso
femminile, residenti al Sud, di status medio-basso, per i quali il
controllo alimentare rappresenta un modello di riferimento ideale, una
“possibilità” di emancipazione culturale, un simbolo di status e di
modernità;
- sostanzioso (15%): è uno stile molto tradizionalista che intende
l’alimentazione come nutrimento, reintegrazione di energie, mezzo per
il sostentamento del fisico. È un modello tipicamente maschile, privo di
mire dietetiche e legato a un’idea di “abbondanza”: la quantità è meglio
della qualità;
- conservatore (14%): è uno stile femminile molto tradizionale.
L’approccio all’alimentazione è semplice e diretto, privo di
preoccupazioni salutistiche o di particolari curiosità. Il cibo è visto
essenzialmente come nutrimento, la preparazione dei pasti fa parte dei
propri doveri e si percorrono le strade della tradizione senza cercare
deviazioni da essa (che risulterebbero sgradite ai familiari);
- giovanile (15,1%): per i giovanissimi lo stile alimentare è largamente
dominato dalla pulsionalità andandosi a generare comportamenti
disordinati, occasionali ed esplorativi sulla base delle suggestioni
pubblicitarie e dei gruppi dei coetanei.2
1
I dati sono riportati nella brochure distribuita da Philip Morris che doveva
servire da base per l’analisi del caso associato al relativo Premio per l’anno 1997.
2
Per completezza di trattazione, riportiamo gli altri stili alimentari individuati
dalla ricerca Eurisko:
-
equilibrato (9,2% della popolazione): in questo stile alimentare attenzione alla
salute, affidamento a prodotti di qualità e piacere per il cibo rappresentano le linee
guida per le scelte di consumo. È uno stile prevalentemente femminile, tenuto da
signore benestanti che investono molto nel loro ruolo di padrone di casa e amano
- 321 -
Il più diretto concorrente di riferimento è, per Simmenthal, Manzotin
(con una quota di mercato attorno al 18%) che si posiziona come un
prodotto di ottima qualità proveniente dall’Argentina e che può vantare un
vasto assortimento soprattutto quanto a pezzature. Segue, distanziata (4%
circa di quota), Montana, il cui posizionamento fa leva sulla tradizione (in
particolare è stato recentemente riproposto in una nuova chiave un vecchio
spot della televisione in bianco e nero ambientato nel far west, il quale
riscosse, allora, un discreto successo). Le private labels non sono molto
sviluppate per quanto riguardo questa categoria di prodotto. In effetti,
trovando, anche i leader, seri problemi a farsi accettare ed a comunicare
valide associazioni con la qualità del prodotto, apparirebbe quantomeno
singolare che vi riuscissero le marche dei distributori.
Se Simmenthal può vantare una solida leadership del mercato per
quanto riguarda le carni in scatola, ciò non deve tuttavia trarre in inganno,
dal momento che la vera battaglia non è all’interno di quel comparto, ma si
sviluppa nel ben più affollato e competitivo mercato degli alimenti destinati
ad essere consumati in pasti destrutturati1. In altre parole, la concorrenza
nasce tra alimenti che, seppure siano merceologicamente diversi, tendono
ad essere utilizzati in occasioni analoghe. Tra essi ricordiamo l’ampio
spettro dei formaggi freschi, i salumi (specialmente quelli in vaschetta o in
-
esprimere la loro creatività in cucina, reinterpretando in chiave più “moderna” le
ricette tradizionali;
attento (10,4%): è uno stile femminile colto e attivo che esprime un approccio
attento e controllato all’alimentazione, basato su un “progetto” complessivo di
benessere e forma fisica. Costituisce una scelta difficile da perseguire nel tempo,
stante la difficoltà di coniugare razionalità (controllo, prevenzione, “sacrificio”) ed
emozioni (curiosità, impulso, piacere), nella più tipica delle contrapposizioni tra
principio del dovere e principio del piacere;
- funzionale (16,6%): è uno stile tipico dei giovani adulti maschi di status elevato, con
interessi culturali e professionali molto vivi ai quali fa riscontro, invece, una
sostanziale indifferenza per l’alimentazione che è discontinua (ora ricca e curiosa,
ora essenziale) e il rifiuto della preparazione dei cibi.
1
Non a caso, le caratteristiche maggiormente apprezzate dai consumatori in
Simmenthal sono poi anche quelle rappresentative per i suoi concorrenti indiretti.
- 322 -
busta) e, soprattutto, per quanto riguarda Simmenthal, il tonno in scatola1.
Da tutto ciò deriva l’opportunità (la necessità, diremmo), per i produttori di
carne in scatola, di combattere anche con le armi tipiche degli altri
protagonisti di questa eterogenea arena competitiva2.
5.2.3 – Category-innovators.
Per definizione, solamente ad un prodotto o servizio è concesso di
creare una nuova categoria concettuale. Una volta che la marca ha
individuato il giusto créneau, si profila per essa l’opportunità di divenire il
leader di mercato. Per i successivi entranti esistono via, via sempre minori
opportunità e spazi di movimento, con maggiori difficoltà nel trovare una
posizione competitiva confacente alle proprie strategie e non occupata da
altri. Ciononostante, è possibile che una marca riesca a cogliere, pur
rimanendo nell’ambito della categoria di riferimento, importanti spazi su
cui insediarsi e crescere in corrispondenza di punti non presidiati dagli altri
competitori. In questo senso, le opportunità che si aprono per il
posizionamento strategico della marca sono tanto maggiori, quanto più
elevata è la sua capacità di differenziazione e di mutamento di prospettiva.
Così, nel mercato della maionese industriale, per contrastare il tipico
approccio da leader generalista di Calvé, la quale incentra il proprio
posizionamento attorno al concetto di gusto e corposità del prodotto,
Mayonnaise Kraft, prima fra tutte, ha sviluppato il tema della leggerezza
spostandosi sensibilmente dalla tradizionale immagine di ispirazione
casalinga.
1
Per quanto riguarda, in particolare, il tonno in scatole, il consumo alternativo di
tonno fresco non pare né facilmente praticabile (la preparazione del pesce è piuttosto
laboriosa), né altrettanto direttamente fruibile, a differenza di quanto avviene,
parallelamente, riguardo al rapporto tra carne in scatola e carne fresca. Nel secondo
caso, in altre parole, i vantaggi derivanti dal consumare la prima piuttosto che la
seconda paiono poco evidenti, quand’anche ce ne siano, soprattutto in relazione al gusto
e d alla qualità percepita del prodotto. Nel primo caso, viceversa i termini di confronto
sono talmente distanti da non essere neppure presi in considerazione.
2
Ad esempio, la confezione dovrebbe essere più vicina a quella utilizzata per il
tonno, prodotto che pare riscuotere un successo maggiore.
- 323 -
Nel mercato delle tavolette di cioccolato, Milka ha saputo
differenziarsi in maniera rilevante rispetto agli altri competitori secondo
linee originali ed innovative per la categoria soprattutto attraverso
l’immagine e la comunicazione. Il fatto poi che trovi notevoli difficoltà ad
acquisire una quota di mercato ancor più rilevante è dovuto alla forza del
leader (Kinder Ferrero) per molti versi incentrata sugli stessi suoi punti
focali ed alla particolare frammentazione della struttura dell’ambiente
competitivo.
Toblerone, brand storico nel panorama del cioccolato contribuisce
certamente all’arricchimento del settore cui appartiene, ma non è riuscito a
costruire sulle proprie peculiarità una categoria a sé stante. Se il livello di
notorietà conseguita è sempre stato elevato, in questo caso, a conferma del
fatto che non è sufficiente la semplice individuazione di una nuova
categoria concettuale per garantire un vantaggio strategico sostenibile nel
tempo, sembra mancare un adeguato supporto del sistema di attività
dell’impresa in grado di rendere effettive le potenzialità espressive della
marca.
Splendid, altro esempio di marca posizionata alle spalle di un leader
molto forte (Lavazza), costituisce un caso a parte, sia in quanto solo di
recente (1992) è entrato a far parte del gruppo Philip Morris attraverso
Kraft Jacobs Suchard, sia perché non ha connotazioni in grado di
determinarne una rilevante differenziazione rispetto alla più diretta
concorrenza.
In generale, perciò, se l’attitudine di category-creation che certe
marche presentano può essere determinante nell’attribuire loro la
leadership del mercato, ciò non implica che non esistano spazi di manovra
per gli altri competitor. Il punto decisivo è dato dalla capacità di contribuire
in maniera evidente all’arricchimento della categoria di riferimento
attraverso la differenziazione o comunque con un offerta in grado di
cogliere eventuali esigenze (di qualunque origine e natura esse siano)
avvertite dai possibili acquirenti, ma non coperte dagli altri concorrenti. In
questo senso, possiamo definire come category-innovator un brand che
dispone di potenzialità distintive in grado di porlo al centro dell’attenzione
del mercato se orientate ad arricchirne i contenuti.
- 324 -
MAYONNAISE.
Il consumo di maionese, saporita salsa da contorno, è stato a lungo
legato a quella di tipo casalingo, oggi prodotta a mano o con il frullatore.
Essa si richiama ad un contesto alimentare di tipo tradizionale legato ai
pasti principali (l’uso prevalente è per condire o guarnire piatti elaborati).
La maionese casalinga genera associazioni positive con i concetti di
genuinità, naturalità, freschezza, gusto, mentre i punti critici percepiti sono
riscontrabili nella scarsa digeribilità e nell’eccessivo apporto calorico. Il
suo consumo appare, oggi, in evidente diminuzione e non più adeguato ai
moderni stili di vita, in sintonia con la generale tendenza a consumare cibi
mediamente più leggeri rispetto al passato, soprattutto nei pasti principali.
Lo spazio una volta ricoperto dalla maionese casalinga è stato oggi
quasi completamente occupato, ed anzi esteso, da quella di origine
industriale a base di olio di semi di girasole. Nonostante si tratti di un
prodotto che deve necessariamente essere composto da ingredienti freschi e
delicati, l’origine industriale non sembra recare effetti negativi per quanto
attiene la percezione delle sue intrinseche qualità organolettiche. Al
contrario, prevale un atteggiamento orientato alla fiducia soprattutto nei
confronti della marca, cui viene affidato il ruolo di garante della genuinità
del prodotto, il rapporto con il quale viene vissuto in modo particolarmente
rassicurante. Il classico utilizzo come complemento alimentare presenta
alcuni vantaggi rispetto al caso della maionese casalinga: con un gusto non
dissimile per piacevolezza e appetibilità, infatti, essa risulta maggiormente
pratica e comoda. La versatilità del prodotto ne consente e favorisce,
inoltre, un utilizzo alternativo come spuntino sul pane o sui crackers o per
farcire panini.
I requisiti che il mercato italiano richiede alla maionese industriale
sono strettamente connessi al gusto: deve essere saporita e “sfiziosa”1, e,
allo stesso tempo, non deve coprire il sapore dei piatti ai quali è abbinata. Il
consumo è distribuito in modo non uniforme nel corso dell’anno, con
picchi in corrispondenza dei mesi estivi e delle festività natalizie. Sebbene
1
Non a caso, la maionese è stata definita “la Nutella salata”.
- 325 -
il ciclo di vita del prodotto sembri entrare nella sua fase di maturità, la
domanda di maionese industriale mostra ancora segni di una certa vitalità.
Negli ultimi anni, dal lato dell’offerta, le marche hanno
costantemente accelerato nel tentativo di differenziarsi andando a
stimolare, in tal modo, la domanda di maionese. L’offerta, ampliata, ha
determinato la nascita di nuove sottocategorie di prodotto. Riguardo al
packaging, accanto al tradizionale vasetto, troviamo l’ormai consolidata
confezione in tubetto, con un prezzo maggiorato mediamente del 35% e
particolarmente diffuso nell’Italia settentrionale (scarso successo ha invece
ottenuto la confezione “squeeze”).
Una certa articolazione ha coinvolto, negli ultimi anni, anche le
tipologie di ricetta utilizzate dalle diverse marche. Come accade un po’ per
tutti i prodotti alimentari, anche per la maionese – e non poteva essere
altrimenti, dato il notevole apporto calorico – sono state introdotte delle
versioni “light”, in linea con la tendenza generalizzata a seguire stili
alimentari più coerenti con il mantenimento della piena forma fisica e della
linea. Così, la maionese light, con circa il 30-35% di grassi in meno, è
destinata a coloro che cercano di conciliare il piacere con la salute, il gusto
con la forma fisica. I toni della comunicazione, perciò, sono tenuti sempre
ben distanti dal concetto di dieta e dai suoi toni intrinsecamente esasperanti
(difatti, la pubblicità fa perno intorno a quello dello “stare leggeri”). La
maionese dietetica (ad esempio Weight Watchers), d’altro canto, essendo
notevolmente impoverita nell’ingredientistica di base, è chiaramente
indirizzata ad una limitata nicchia di mercato che comprende coloro che
sono più propensi ad accettare un prodotto “punitivo” sul piano del gusto
pur di salvaguardare la linea. Le maionesi dietetiche si caratterizzano,
inoltre, per un modesto supporto sia in termini di comunicazione che
distributivi.
Una possibile segmentazione dei consumatori basata sulle loro
tendenze attitudinali e comportamentali1 porta a individuarne cinque
tipologie, di cui le prime due sono riconducibili al gruppo dei forti
consumatori (“heavy users”):
1
L’analisi è stata realizzata dalla Kraft attraverso una cluster analysis.
- 326 -
- voraci in colpa: sono quei consumatori fortemente indirizzati al
consumo di maionese che si orientano verso i prodotti leggeri e/o
dietetici. Tendono ad attribuire un’elevata credibilità al prodotto
industriali in termini di equilibrio e qualità. Questo gruppo rappresenta
circa il 25% dei consumatori ed è per lo più formato da casalinghe
residenti al Sud;
- edonisti: orientati ad uno stile alimentare appagante all’insegna del
piacere – palatale e visivo – curano, comunque, la propria forma fisica e
seguono di conseguenza una alimentazione equilibrata. Ritengono il
prodotto industriale come il più idoneo a conciliare piacere e salute.
Costituiscono circa il 16% del totale e sono concentrati prevalentemente
attorno ai centri urbani più grandi del meridione;
- salutisti equilibrati: consumano maionese solo in modo sporadico, sono
preoccupati della propria salute, senza però rendersi disponibili a
rinunce eccessive in termini di gusto. Orientato al consumo di maionese
industriale, il segmento comprende il 20% dei consumatori;
- madri nutrici: sono le donne che curano personalmente e direttamente
l’alimentazione della famiglia, esprimendo in questo modo il proprio
affetto. La valorizzazione del loro ruolo avviene attraverso la
preparazione di un cibo ricco e gustoso dove poco spazio è lasciato ai
prodotti di origine industriale. Appartiene a questo gruppo circa il 17%
dei consumatori concentrato principalmente nei centri medio-piccoli del
Nord-Ovest e che appartengono ad un ceto sociale medio-alto;
- salutisti maniacali:
ossessionati
dalla
propria
salute
e
complessivamente poco inclini a dare soddisfazione alle istanze del
piacere qualora si pongano in contrasto con la loro percezione della
prima, queste persone tendono ad essere psicologicamente lontane dal
prodotto industriale poiché sospetto di manipolazione. Questo segmento
raccoglie circa il 22% dei consumatori, in prevalenza giovani,
scolarizzati, di buon livello socioeconomico e che svolgono un’attività
che li porta spesso a rimanere fuori casa.
Per ciò che concerne l’arena competitiva, non esistono, sul piano
- 327 -
tecnologico, barriere all’entrata. Così si è potuto assistere, negli ultimi anni,
al proliferare di nuovo concorrenti (come le private labels) agguerriti sul
fronte del prezzo. La posizione sul mercato di Mayonnaise Kraft non è
distribuita in maniera perfettamente omogenea sul territorio:
principalmente forte al Sud, si trova in una situazione di relativa debolezza
al settentrione. Particolarmente competitiva è la versione leggera,
opportunamente denominata “Legeresse”, la quale detiene largamente la
leadership per quanto riguarda le maionesi light, nonostante il prezzo
superiore alla media del mercato e avvalorandosi, tra l’altro, dell’intrinseca
maggiore digeribilità e minor contenuto in grassi della versione classica di
Kraft rispetto ai più diretti concorrenti. Dal punto di vista più marcatamente
comunicativo, tutta la gamma è proposta puntando sull’enfatizzazione degli
aspetti legati alla leggerezza ed alla delicatezza del gusto. Molto utilizzato
è il contributo delle promozioni soprattutto attraverso raccolte a punti. A
proposito, interessante è l’abbinamento recentemente realizzato con un
altro prodotto della galassia Kraft: l’offerta consiste nell’inserimento, a
scopo promozionale, di una tubetto di maionese Kraft in una confezione di
carne in scatola Simmenthal (anche se, per la verità, il consumo da
stimolare attraverso l’associazione a un prodotto affermato e dal gusto
complementare è proprio quello riferito a quest’ultima).
Calvé (Van den Bergh, gruppo Unilever), è il leader del mercato
italiano della maionese ed è particolarmente forte al Nord nella confezione
in tubetto. La gamma offerta è senz’alcun dubbio la più estesa del mercato,
nel tentativo di coprire tutte le possibili esigenze legate al prodotto1. La
versione light, tuttavia, non pare aver riscosso un notevole successo,
probabilmente contrastante con le peculiari associazioni di gusto e
corposità che Calvè evoca. Il prezzo, data evidentemente anche la
situazione di leadership, viene mantenuto al di sopra della media del
mercato, anche se recentemente si è iniziato a praticare forti sconti sul
Calvè è l’unica marca ad essere presente nel formato “squeeze” con il brand
giovanilistico Top Down che, tuttavia, dopo il successo iniziale ha iniziato la sua
discesa. Importante è, comunque, il rilevo strategico della mossa, dal momento che per
un leader è importante coprire i punti sui quali possono potenzialmente essere sferrate
offensive da parte della concorrenza.
1
- 328 -
prezzo di vendita ed attività promozionali rivolte agli intermediari nel
tentativo di ampliare la propria quota di mercato soprattutto al Sud e
contrastare l’ascesa di private labels e primi prezzi. Il messaggio
pubblicitario che ha fatto da traino per la marca durante tutti gli anni ottanta
era quello di “Gusto a volontà”, a sottolineare l’attenzione per il sapore
deciso del prodotto. Nei primi anni novanta, essendo stata modificata la
ricetta, fu introdotto anche il concetto di “leggerezza” più vicino al
posizionamento di Mayonnaise Kraft, il maggiore concorrente. I risultati
non furono molto positivi: la marca, infatti, veniva spostata in un territorio
non suo, essendo profondamente radicate le associazioni che Kraft aveva
costruito attorno a tale concetto; inoltre, Calvè si era nel contempo
allontanata da uno dei suoi punti di forza e che era stato alla base del
successo riscontrato presso i consumatori ed ormai sedimentato nella loro
mente. Successivamente fu renitrodotta la più congrua associazione con
l’ambiente familiare1, lasciando alle versioni più innovative il compito di
allacciarsi agli stili alimentari e comportamentali maggiormente distanti
dalla tradizionale percezione della marca (i consumatori che manifestano il
maggiore apprezzamento per Calvé sono quelli riconducibili ai segmenti
salutisti equilibrati, madri nutrici e salutisti maniacali).
Hellmann’s (gruppo CPC-Knorr) è la terza forza sul mercato e fu
rilanciata verso la fine della seconda metà degli anni Ottanta sulla scia del
successo incontrato dal prodotto in Spagna, mercato abbastanza simile al
nostro per il tipo di consumo. Le associazioni sviluppate ruotavano attorno
al concetto di “gusto equilibrato che non copre i sapori”.
Le private labels sembrano, tuttavia, costituire il maggior pericolo
per le prime due marche: a fronte di una qualità medio-alta, godono, in
virtù dell’atteggiamento positivo che i consumatori hanno verso le grandi
catene di distribuzione, di un’immagine percepita elevata, nonché di prezzi
molto aggressivi e di evidenti vantaggi in termini distributivi e di visibilità
nei punti vendita. Inoltre, l’assortimento offerto dai vari marchi è in
continuo aumento e tendente a sovrapporsi pericolosamente a quello delle
marche maggiori. Concludono il quadro concorrenziale primi prezzi e hard
L’atmosfera familiare era accentuata dal motivo musicale in sottofondo, la
canzone “Viva la mamma” di Edoardo Bennato.
1
- 329 -
discount, i quali hanno anch’essi contribuito, negli ultimi anni, ad erodere
la quota di mercato di quei produttori che non hanno saputo sviluppare,
attorno ai concetti ed alle associazioni che ne costituiscono la forza,
opportune strategie di contenimento a livello di distribuzione e di prezzo.
MILKA.
Nel panorama delle tavolette di cioccolato, Milka ha saputo
conquistare una posizione di primo piano ed al centro dell’attenzione dei
potenziali consumatori, grazie soprattutto alla grande visibilità frutto della
propria differenziazione. Il prodotto si evidenzia a prima vista sugli scaffali
e sugli espositori – in cui, solitamente i suoi concorrenti si presentano in
tinte scure e tendenti al marrone, ad evocare il cioccolato – in virtù
dell’inconsueto e simpatico colore lilla che caratterizza e rende tipici
confezione e logo. Tale scelta fa parte di una strategia integrata mirante ad
accrescerne il valore delle relazioni con il tema pubblicitario ispirato ad una
mucca parlante dalle pezzature dello stesso, insolito, colore lilla.
Il prodotto consiste in un tavoletta di cioccolato al latte di qualità
medio-alta la cui consistenza particolarmente tenera, tanto da farlo
sciogliere in bocca, lo rende molto adatto al consumo da parte dei bambini.
L’assortimento è assai variegato e comprende formati da 50,100,200 e 500
grammi. Accanto al tradizionale gusto al cioccolato al latte, se ne
aggiungono altri nelle differenti versioni (nocciole, cioccolato bianco, riso
soffiato, panna, noisette, caffè e yogurt) tutte offerte al medesimo prezzo,
di poco superiore alla media del mercato. Nel settembre 1997 è stato
introdotto un nuovo prodotto denominato “Cioccobiscotto”, una tavoletta
costituita da un biscotto avvolto da una farcitura alla crema e ricoperto da
uno strato di cioccolato che pare avere subito incontrato i favori del
pubblico.
Milka, però, non è solamente tavolette al cioccolato, seppur
variegate. Per affrontare i concorrenti con i quali la semplice tavoletta si
trova a competere, il portafoglio della marca si è arricchito di versioni
snack e merendina, nonché di uno specifico uovo di Pasqua attraverso il
- 330 -
quale si è cercato di trarre profitto da un’ulteriore occasione di consumo di
cioccolata. In particolare, la categoria degli snack, in rapida crescita dai
primi anni Novanta, potrebbe rappresentare per la marca un’importante
opportunità di sviluppo, sennonché, posizionandosi su di essa, Milka viene
a trovarsi in una categoria che. nonostante sia certamente correlata alla
propria, tuttavia non le appartiene, andando a confrontarsi con brand
“specialisti” che tendono ad essere preponderanti rispetto al nome del
produttore. La migliore strategia per Milka potrebbe essere, in analoga ad
esse, quella di mantenere un riferimento alla marca principale solo di
natura generica e con funzione di tutela e garanzia, sviluppando, nel
contempo, un concetto ed un marchio nuovo in grado di sostenersi con le
proprie forze.
Il posizionamento di Milka nella mente dei potenziali consumatori è
in linea con i principali dettami inerenti al mercato in questione, i quali
indicano nelle generazioni più giovani il target cui riferire le associazioni di
marca in modo da garantirsi valide possibilità di profitto anche in futuro.
Le persone, in effetti, tendono a ricordare positivamente il cioccolato
mangiato da bambine (assieme all’appagamento ad esso connesso) ed a
portarselo dietro anche da adulte. Il fatto, poi, che si tratti di un prodotto
particolarmente ricco, tenero e cremoso consente di valersi delle
associazioni relative al un “effetto nostalgia” per la propria infanzia e per le
attenzioni ricevute proiettando tali caratteristiche sulle nuove generazioni
che dal soggetto in considerazione ora dipendono e con cui vengono
condivise con l’intrinseco intento di trasmettere loro parte di sé. Ciò in
perfetto accordo con il tipico consumo di tavolette di cioccolato che
avviene di solito in famiglia, per la quale il prodotto, delizioso e dalle forti
connotazioni affettive, costituisce una “tentazione quotidiana”.
I punti focali attorno ai quali ruota l’intera immagine di Milka sono
indubbiamente: il colore lilla, particolare, giovane e simpatico; il mondo
delle Alpi da cui il prodotto proviene e nel quale è ambientata la pubblicità
del prodotto, con l’insieme di valori veri, naturali, semplici e sinceri che gli
vengono attribuiti; la mucca lilla, ad un tempo originale, piacevole e senza
età, in grado di accattivarsi le simpatie di grandi e bambini, adatta, quindi
al consumo in famiglia. È in particolare il secondo genere di collegamento
- 331 -
che tende ad essere promosso, da parte di Milka, ad esempio per il tramite
della sponsorizzazione delle principali competizioni sciistiche a livello
internazionale.
Il mercato italiano della cioccolata presenta delle peculiarità,
perlopiù negative e inibitorie riguardo alle possibilità di sviluppo, che lo
contraddistinguono da quelli omologhi dei paesi dell’Europa centrosettentrionale. Il consumo medio pro capite di cioccolato è assai inferiore
rispetto ai principali paesi consumatori, mancando, in Italia, una radicata e
consapevole cultura del prodotto. In effetti, prevalgono atteggiamenti
negativi nei confronti del cioccolato, retaggio di tutta una serie di luoghi
comuni che lo vedono causa ultima di problemi di linea o di carie. Scarsa
appare la conoscenza delle importanti qualità che il prodotto presenta dal
punto di vista puramente alimentare e nutrizionale.
Il mercato italiano del cioccolato vede la presenza di marchi locali
molto forti e si caratterizza per un livello di concentrazione piuttosto basso
(le prime quattro marche non superano il 50% delle vendite). Sebbene
Ferrero detenga, con la linea Kinder, una quota rilevante del mercato (circa
il 19%), non sembra comunque esistere un leader assoluto. Le private
labels hanno il 7% di quota e sono in crescita.
Ferrero ha impostato l’intera campagna comunicativa sul concetto
“Più latte, meno cacao”, certamente adatto ad un mercato in cui il
cioccolato è visto essenzialmente in funzione del proprio valore in termini
di gusto, piuttosto che dal punto di vista nutrizionale, andando così incontro
alle esigenze che in particolare le madri nutrici avvertono nel procedere alla
scelta di una marca di tavolette di cioccolato. Al centro dell’assortimento
Ferrero sono le barrette Kinder, ma il trend è negativo e i suoi investimenti
di marketing nel mercato delle tavolette di cioccolato stanno calando,
spostando l’interesse verso altri segmenti correlati più redditizi quali snack
o momo-praline (Bueno, Duplo, Tronky, Rocher) e verso il mercato delle
merendine refrigerate come Pinguì e Fetta al latte (in quest’ultimo caso
anche per contrastare il naturale calo stagionale nelle vendite di cioccolato).
Novi ha raggiunto una posizione di primo piano nell’arena
competitiva (13% circa di quota) grazie al notevole investimento
pubblicitario – incentrato sull’elevazione del cioccolato italiano al livello
- 332 -
dei più rinomati prodotti svizzeri – ed alla forte pressione promozionale. Il
prezzo aggressivo per un prodotto di uguale qualità completa, infine, il
profilo del posizionamento di base di Novi. L’assortimento è stato quindi
ampliato sia in riferimento ai formati, sia per quanto concerne i gusti
disponibili, con la presenza di “specialità” offerte ad un premium price. Il
punto debole del prodotto è rintracciabile nella diffusione e distribuzione
concentrata soprattutto nell’Italia settentrionale, venendo inoltre a mancare
lo sbocco estero.
Nestlé, con una ampia gamma di prodotti, detiene una quota di
mercato di circa il 9%, tuttavia risentendo di un probabile spostamento
degli investimenti in favore della acquisita Perugina, altro storico marchio
del gruppo. La distribuzione capillare è uno dei punti di forza di Nestlé, che
risulta particolarmente forte nell’area centro-meridionale. La strategia di
prezzo praticata da Nestlé si pone al medesimo livello di quella di Milka.
Le linee di prodotto a più diretto contatto concorrenziale con Milka
per il posizionamento perseguito e per la comunanza del target di
riferimento sono Kinder Ferrero da una parte e la linea “Disney” di Nestlé.
Per quest’ultima, in particolare, è da notare come l’abbinamento con il
mondo Disney sia sfruttato a livello promozionale attraverso concorsi e
raccolte a punti focalizzate sui famosi personaggi dei fumetti.
TOBLERONE.
Nell’ambito del più vasto mercato del cioccolato, Toblerone ha
saputo crearsi un proprio spazio fin dal momento della sua introduzione,
avvenuta in Svizzera nel 1905 ad opera Johann Tobler e di suo figlio
Theodor. Il prodotto si distingueva di primo acchito dagli altri per la
caratteristica forma triangolare (il suo vero simbolo1), oltre che per
1
Toblerone deve la sua forma alla più famosa montagna svizzera, il Matterhorn
(Monte Cervino). Ispirato dal sontuoso panorama alpino, il prodotto risulta così legato
alle tradizioni montane svizzere.
L’effigie del Cervino è riprodotta anche in disegno accanto al nome e sui lati
corti della confezione. In un primo tempo al suo posto stava l’immagine di un’aquila,
sostituita temporaneamente (dal 1920 al 1930) dall’orso, simbolo araldico di Berna. È
- 333 -
l’originale formula che coniugava il miglior cioccolato svizzero con un
prodotto tipicamente italiano: il torrone1.
Packaging, nome e formula costituiscono, non a caso, il principale
asset per l’immagine della marca. Essi costituiscono un tutto unico e
inscindibile, tanto che, caso unico nel suo genere, si è proceduto a
brevettare sia il processo di produzione (1906) che il nome (1909) e la
confezione nella tipica forma triangolare. La confezione è rimasta
pressoché immutata nel tempo con riferimento alla versione classica del
prodotto e viene comunque richiamata nelle forme date alle sue più recenti
versioni. L’assortimento di Toblerone si è arricchito di pezzature che vanno
dai 12,5 grammi, introdotta nel 1995 e destinata al consumo d’impulso
connesso al soddisfacimento di improvvise pulsioni edonistiche, fino ad un
imponente prodotto di 4,5 kilogrammi denominato, per l’appunto, “Jumbo”
e commercializzato dal 1997 come idea regalo in corrispondenza delle
festività natalizie e che ha riscosso un notevole successo (soprattutto
all’estero, dove il prodotto risulta maggiormente apprezzato). Oltre al
tradizionale gusto al latte (cacao al 30%), esiste una versione al cioccolato
fondente (cacao al 50%) che risale al 1969 ed una al cioccolato bianco
(cacao al 24%) introdotta nel 1973. La produzione è concentrata nello
stabilimento di Berna per essere poi esportata in tutto il mondo 2 ed utilizza
come materie prime le qualità più pregiate di cacao, latte, miele, mandorle.
La strategia affermatasi nel tempo per Toblerone è quella di
incentrare gli sforzi nel tentativo di farne una marca globale,
universalmente conosciuta. In quest’ottica è da notare come il prodotto sia
presente in tutti i duty free. Ma questo non è sufficiente. In Italia, infatti,
nonostante Toblerone goda di un buon grado di notorietà (tuttavia in
diminuzione, non radicata sufficientemente nelle nuove generazioni e
notevolmente inferiore rispetto ai più forti competitori), i suoi volumi di
nel 1970 che l’aquila scompare ed il nome occupa l’intero spazio a disposizione, mentre
il Monte Cervino compare negli end panels. Nel 1987 la metamorfosi è completa con la
comparsa del logo Tobler (Monte Cervino stilizzato bianco e blu con la scritta “Tobler”
in corsivo) sia sugli end panels, che accanto al nome.
1
Il nome del prodotto deriva, infatti, dall’unione del nome della tipica specialità
lombarda con quello del produttore.
2
Anche se l’intero assortimento non è presente in ogni paese.
- 334 -
vendita sono nettamente inferiori rispetto ai più diretti concorrenti del
mercato delle tavolette di cioccolato così come la frequenza di consumo.
Paradossalmente potrebbe essere proprio tale notorietà ad essere il motivo
della bassa vitalità del prodotto, rendendolo quasi “banale” per un pubblico
abituato ad essere continuamente stimolato. In proposito, occorre rilevare
come manchi, in Italia, un forte sostegno pubblicitario e promozionale.
Il posizionamento internazionale di Toblerone, quale aspirante global
brand, ha per obiettivo – un po’ generico e banale, per la verità – quello di
far percepire il concetto principale come “il picco del piacere del cioccolato
che offre un gusto unico che nessun altro cioccolato può dare”. In
quest’ottica, sono enfatizzate le caratteristiche distintive succitate, in modo
da trasmettere, per associazione, i significati desiderati. Così, se la forma
triangolare propone una connessione tra la vetta della montagna e l’apice
del piacere, la particolare formula, unica nel suo genere ripropone il tema
dell’inimitabilità che conferisce un surplus valoriale all’origine svizzera (la
patria della cioccolata) del prodotto.
Per quanto riguarda l’Italia, Toblerone non sembra essere riuscito a
trovare un posizionamento sufficientemente competitivo, probabilmente
risentendo di una strategia globale standardizzata, ideale per i duty free, ma
che non è riuscita ad adattarsi per sfruttare le opportunità e superare i
vincoli del nostro mercato. L’unicità del prodotto e l’assenza di concorrenti
diretti che abbiano caratteristiche simili, non deve, tuttavia, indurre a
pensare che sia possibile non includerlo nella più ampia categoria delle
tavolette di cioccolato, dal momento che esse costituiscono una verosimile
e concreta alternativa al momento dell’acquisto. In questo contesto,
Toblerone detiene una quota di mercato che, dopo essere cresciuta
esponenzialmente, in termini relativi dal 1986 (0,1%) al 1988 (0,7%), ha
poi subito una frenata attestandosi, nel 1997, attorno allo 0,5%. Questo
trend si inserisce in un ambito nel quale il consumo di tavolette, dopo aver
raggiunto un massimo alla fine degli anni ottanta, ha poi subito una
flessione che è proseguita fino alla metà dei novanta per poi conoscere un
pur non notevole consolidamento. Certamente, la copertura distributiva del
prodotto raggiunta, che si concentra essenzialmente nella grande
distribuzione e nelle aree urbane del centro-nord, non offre un contributo
- 335 -
determinante alla performance, soprattutto in relazione ai principali
concorrenti,.
Particolarmente interessante risulta l’analisi comparata tra il livello
di notorietà di cui dispongono le diverse marche da una parte e la qualità
percepita dai consumatori insieme alla frequenza di acquisto dall’altra.
Risulta evidente come la notorietà sia funzione dell’esposizione
pubblicitaria, soprattutto nelle nuove generazioni1. Considerando in special
modo i principali competitors, potremmo avvalorare l’ipotesi che il
momento topico nella formazione della conoscenza di una marca e nella
creazione di una idea ben definita circa il suo valore ed i concetti di cui
essa è espressione, in questo mercato, sia dato dall’infanzia e
dall’adolescenza, allorquando si viene a formare un’immagine che resterà
incisa nella memoria perdurando nel tempo. Determinante per il
conseguimento di un vantaggio competitivo durevole in termini di
immagine (e di fiducia) diventa, quindi, riuscire a far parte del particolare
mondo ideale di riferimento di quello specifico target da cui verranno poi a
dipendere gli acquisti negli anni a venire.
A questo riguardo, Toblerone non sembra al momento godere di
specifici punti di forza. Il suo acquirente-tipo è costituito da una persona di
sesso femminile ed età compresa tra i 25 ed i 44 anni (il livello di notorietà,
così come la qualità percepita è particolarmente basso tra i bambini),
abitante in un centro medio-grande del nord-ovest e di classe socio
economica medio-elevata. Rispetto all’occasione d’uso, si può presumere
che Toblerone si offra frequentemente come regalo (infatti, lo si compra
spesso in viaggio) e per un uso familiare (questo giustificherebbe la
maggiore penetrazione della pezzatura da cento grammi). Di fronte a
quanto fanno i concorrenti occorre una più mirata e consistente attività
promozionale, al fine di comunicare la diversità del prodotto nonché dare
un maggiore sviluppo alla distribuzione. Inoltre, se probabilmente il nome
non può essere cambiato a causa dell’ottica globale in cui la marca intende
porsi, è altrettanto vero che chiamarsi Toblerone può dare luogo,
1
Constatazione che di per sé non meraviglia, ma che assume, qui, un rilievo
maggiore.
- 336 -
specialmente in Italia, ad associazioni di scherno di chiara matrice infantile
basate su un accrescitivo di derisione.
Se l’elemento portante della marca è la sua capacità di differenziarsi,
occorre allora sviluppare tale potenzialità e, tuttavia, non confidare sul fatto
che Toblerone appartenga ad una categoria a sé e da esso creata, la quale in
realtà è inesistente dovendo, il prodotto, confrontarsi nel ben più agguerrito
mercato delle tavolette di cioccolato e di quello ancora più eterogeneo dei
prodotti alimentari che rispondono ad esigenze edonistiche1.
SPLENDID.
Il marchio Splendid – in precedenza facente parte della galassia
Procter & Gamble, un altro dei maggiori produttori al mondo che allora,
però, si stava focalizzando su altri business – fu acquistato, assieme a
Caramba, da Kraft Jacobs Suchard nel 1992. La scelta ricadde su Splendid
per diverse ragioni. In primo luogo, era la seconda marca nel mercato
famiglia (dopo Lavazza) con una quota dell’11%, quindi in una posizione
di tutto rispetto e con la possibilità di essere sviluppata. Poi, questo
marchio storico godeva di una elevatissima notorietà conquistata negli anni
presso tutti i consumatori. Molto apprezzata è, in particolare, l’immagine
familiare rassicurante e genuina. Nonostante siano trascorsi ormai molti
anni, resta, tuttavia, ancora molto viva l’associazione con la qualità
percepita derivante dal celebre claim “Col caffè di montagna, il gusto ci
guadagna”, soprattutto nelle generazioni meno giovani. Per quanto riguarda
la diffusione a livello nazionale, Splendid è, inoltre, molto presente nella
distribuzione moderna, anche se trova non di rado difficoltà ad essere
presente negli scaffali dei supermercati, dove preponderano Lavazza da una
parte e le private labels ed i primi prezzi dall’altra, quasi sottolineando una
situazione in cui c’è una contrapposizione competitiva su due fronti con
minori spazi di movimento per una marca come Splendid la quale si trova
1
Tale è infatti la principale peculiarità che assume il mercato italiano del
cioccolato, assai restio ad intendere il prodotto soprattutto per il suo valore energetico e
nutrizionale come avviene negli principali paesi consumatori.
- 337 -
da una parte a dover competere duramente con un forte leader di mercato
(Lavazza), mentre dall’altra deve crearsi, nel contempo, degli spazi tra i
concorrenti più aggressivi in termini di prezzo.
La chiara impostazione familiare dei concetti evocati da Splendid è
facilmente rintracciabile attraverso l’osservazione dell’evoluzione dei
messaggi contenuti nella comunicazione della marca. Nel 1981, il punto
focale era costituito dalla trasmissione dei valori di Splendid nel momento
dell’incontro intergenerazionale tra una suocera e la nuora inesperta cui
viene raccomandato il suo utilizzo. Nel 1984, l’accento viene spostato sulla
qualità superiore e sull’elevazione dell’immagine del prodotto,
evidenziando come esso sia il caffè servito nei più importanti ristoranti
italiani. Nel 1989, l’esaltazione della qualità fa un piccolo passo indietro
spostandosi verso un concetto in parte diverso: l’affermazione, suffragata
dall’esperienza di un barman, che Splendid preparato con la moka dà lo
stesso piacere dell’espresso.
È nel 1990 che si assiste, in una qualche maniera, ad un ritorno a più
marcati valori tradizionali dai toni rassicurativi, in grado di rafforzare la
familiarità del prodotto: il messaggio insiste sul fatto che Splendid sia il
modo migliore per svegliarsi la mattina. Nel 1993, sotto la nuova direzione
strategica di Jacobs Suchard, troviamo un tentativo di riposizionamento
della marca incentrato sulla promessa di un aroma superiore del prodotto
(riprendendo, almeno in parte, i temi dei messaggi pubblicitari di metà anni
ottanta), in modo da differenziare maggiormente la marca rispetto ai
concorrenti. Il nuovo posizionamento fu confermato nel 1995 con uno spot
che utilizzava il concetto dell’aroma come elemento emotivo associato al
calore della famiglia (il claim era: “Splendid, non c’è aroma più grande”).
Ottimi risultati vengono, infine, dalle attività promozionali quali raccolte a
punti ed operazioni di direct marketing.
Jacobs Suchard aveva tentato, da subito, un rilancio del prodotto,
intervenendo su alcuni elemento del marketing mix. Oltre al nuovo
succitato messaggio dello spot pubblicitario, fu modificato il packaging per
renderlo più attraente mediante l’utilizzo di nuovi materiali per
l’imballaggio e l’introduzione di un nuovo tipo di apertura più pratico e
funzionale.
- 338 -
Splendid, a differenza di molti suoi concorrenti presente soltanto nel
mercato delle famiglie può, tuttavia, contare su un ampio assortimento.
Accanto ad Aroma Classico, il suo caffè più rappresentativo, dal gusto
pieno ed armonioso (37% qualità arabica, 63% qualità robusta), troviamo,
nel segmento tradizionale, Mokarama, dal gusto più forte ed intenso
(derivante da un contenuto relativamente maggiore di chicchi di qualità
robusta: 65%, contro un 35% di qualità arabica). Il prodotto Splendid per il
segmento oro/premium è Splendid Aroma Oro, ricco e pregiato (contiene,
come tutti i competitori del segmento, esclusivamente chicchi di qualità
arabica). Nel segmento espresso, invece troviamo AromaBar, la miscela
per un espresso cremoso come al bar (contiene il 50% di qualità arabica).
Splendid, offre, inoltre una versione decaffeinata: Aroma Decaffè.
Tra i concorrenti di Splendid, il più importante è sicuramente
Lavazza, indiscusso leader di mercato in grado di vantare anche una forte
presenza nel canale bar e all’estero e che pare racchiudere in sé tutte le
variabili relative alla qualità percepita: fiducia, tradizione, gusto.
L’atteggiamento positivo dei consumatori verso questa marca appare
talmente radicato e forte da renderla quasi inattaccabile dai concorrenti. Nel
corso degli anni, Lavazza, ha infatti costruito e imposto al mercato il suo
“vocabolario” per quanto riguarda nomi, colori, tipologie e formati del
caffè, in modo da costringere la maggior parte dei suoi concorrenti a
prendere delle decisioni di marketing adeguandosi alle sue scelte. Le
campagne di comunicazione di Lavazza hanno fatto la storia recente della
pubblicità in Italia, prima tra tutte quella, durata tantissimi anni nelle più
diverse varianti, con Nino Manfredi e la sua simpatica governante,
Natalina, che di volta in volta ponevano l’accento su questo o quell’aspetto
del prodotto o di una sua nuova versione. Il lancio, verso la metà degli anni
Novanta, della nuova fortunata pubblicità con Tullio Solenghi nelle vesti
del beato deciso a non rinunciare, neanche in Paradiso, al suo Lavazza, ha
reso il marketing della marca ancora più aggressivo ed efficace dando
spessore ad una nuova associazione, quella con l’irrinunciabilità, che ne ha
ulteriormente elevato il valore percepito. Il consumatore tipo di Lavazza è
distribuito uniformemente in tutte le classi d’età ed l’assortimento che la
marca può vantare è il più completo del mercato coprendo tutti i segmenti.
- 339 -
A competere, a distanza, con Lavazza troviamo, oltre a Splendid,
altre marche piuttosto caratterizzate rispetto ad un particolare aspetto. Cafè
Do Brasil (Kimbo) si caratterizza per un immagine molto folcloristica (noto
è lo spot con Pippo Baudo come testimonial). La sua offerta è imperniata
su un caffè di qualità piuttosto alta nel segmento tradizionale (Kimbo
Macinato Fresco contiene il 60% di miscela arabica e 40% robusta). La
marca vanta una forte presenza al Sud che le garantisce un grado di fedeltà
alquanto elevato (il consumatore tipo di Kmbo ha un’età compresa tra i 34
ed i 44 anni e vive in famiglie di reddito medio-basso localizzate
prevalentemente nelle regioni meridionali). Il suo caffè di primo prezzo,
Kosè, ha un buon tasso di sviluppo ed è il principale artefice della crescita
della sua quota di mercato.
Segafredo è ben posizionato soprattutto nel canale bar e adotta un
marketing molto aggressivo per quanto concerne i prezzi e le promozioni.
La sua più recente campagna pubblicitaria fa il verso a quella di Lavazza,
con Renzo Arbore che allestisce uno dei suoi particolari e coloriti spettacoli
questa volta all’inferno. Illy, nel panorama del mercato italiano del caffè
costituisce un caso particolare e, per molti versi, atipico: si è fortemente
radicato nella profittevole nicchia delle famiglie agiate, di cui è leader
indiscusso, e, a fronte di un prezzo particolarmente alto, offre una qualità
molto elevata (100% arabica). Ad un livello più basso troviamo São, Caffè
Mauro e altri marchi di origine regionale che sono i primi a risentire della
forte diffusione delle private labels e dei prodotti hard discount. Soprattutto
le prime si sono affacciate in maniera molto aggressiva sul mercato
sottraendo spazio dapprima alle marche minori, poi anche a quelle più
affermate (tra cui anche Splendid).
5.2.4 – Alcune evidenze empiriche per l’interpretazione della
relazione tra market creation capability e posizionamento
della marca.
In base a quanto osservato in precedenza circa la struttura ed il
significato dei singoli quadranti e tenendo conto delle considerazioni fatte
in relazione ai specifici casi empirici, possiamo, ora, esprimere alcune
- 340 -
considerazioni riguardo al posizionamento delle marche oggetto della
nostra analisi. Di esse, solamente Sottilette rientra, all’interno del
macroquadrante in alto a destra, nella posizione ideale. In effetti, il brand è
quello che ha dato il via ad una intera categoria di prodotto creandola dal
nulla ed è rapidamente diventato il nome “generico” del suo ambito,
potendo godere di una elevatissima riconoscibilità e notorietà. Sebbene
siano intervenuti presto dei concorrenti a contendere la leadership di
Sottilette ed il mercato sia andato sempre più concentrandosi, tali
concorrenti non sono riusciti ad approssimarsi molto alla sua posizione, la
quale risulta estremamente chiara e definita nella mente dei consumatori,
così come la categoria con cui tende ad identificarsi.
In una condizione non dissimile si trova anche Philadelphia, la cui
ben salda leadership è anch’essa riconducibile, in prima analisi, alla
capacità di market-creation che la marca è stata capace di utilizzare nel
dare forma ad una categoria fino al suo ingresso inespressa. La differenza,
rispetto al caso di Sottilette, è data da una maggiore prossimità della
concorrenza che, tuttavia, pare in diminuzione, tanto da profilare uno
spostamento del posizionamento verso il quadrante in basso a destra1.
Per Splendid e Mayonnaise la situazione è leggermente diversa.
Entrambe le marche fanno riferimento ad una categoria la cui creazione
non è riconducibile a nessun competitor in particolare, anche se, attraverso
il consolidamento negli anni della leadership, il livello di notorietà
raggiunto ed il grado di familiarità e fiducia dei consumatori verso la marca
fanno di Lavazza e di Calvè i punti di riferimento obbligati nelle rispettive
categorie. In questo senso possiamo spingerci ad attribuire a questi ultimi
brand il ruolo di ideali creatori del mercato ed a marche come Splendid e
Mayonnaise la posizione di follower. Categoria e posizioni ricoperte dalle
marche risultano altamente definite ed il mercato è concentrato con un alto
grado di vicinanza tra i diversi concorrenti. A fare la differenza è, pertanto,
1
Se il grado di definizione della categoria sembra essere, forse, inferiore a
quello di Sottilette, vista la maggiore sostituibilità con prodotti appartenenti al comune
mercato dei pasti destrutturati, tuttavia esso non pare essere talmente sbilanciato da
giustificare la riconduzione della marca ad altro macro-quadrante, ad esso sopperendo,
in tal senso, l’ottimo grado di definizione raggiunto dalla posizione del prodotto.
- 341 -
lo spessore acquisito nel tempo dal valore di marca e la capacità espressiva
proiettata dall’impresa attraverso i processi comunicativi e, più in generale,
con l’immagine di marca.
Per Milka valgono molte delle considerazioni fin qui espresse, con la
particolarità di una minore concentrazione del mercato. la marca gode,
nell’ambito di una categoria ben definita, di ben marcate connotazioni e
riferimenti a sistemi di associazioni e di simboli in grado di farne un caso a
parte nel variegato panorama delle tavolette di cioccolato. I problemi
arrivano, per la marca, dalla vicinanza di concorrenti da lungo tempo
affermati nel mercato italiano (come Kinder Ferrero) e che si pongono su
posizioni simili per quanto riguarda i mondi concettuali evocati ed il
particolare target di riferimento. Sembrano inoltre trasparire, nonostante la
collocazione nell’area dei follower, alcuni protocaratteri tipici della marca
che è capace di contribuire in modo determinante alla creazione del proprio
mercato (il riferimento è, tra gli altri, alla differenziazione perseguita
attraverso la particolare consistenza del prodotto ed la riconoscibilità del
packaging), evidenziando le notevoli potenzialità di sviluppo della marca.
Toblerone si pone in una posizione particolare. Logica vorrebbe che,
essendo prodotto riconducibile al mercato delle tavolette di cioccolato, si
trovasse più o meno in linea con quella di Milka. Tuttavia, emergono alcuni
tratti particolari che rendono la marca un mix di atipicità e concetti
tradizionali: la caratteristica forma e gli attributi di prodotto lo rendono un
caso unico nel suo genere. Toblerone, a ben guardare, si discosta infatti
dalle comuni tavolette di cioccolato non riuscendo, comunque, a
determinare la nascita di una nuova categoria e venendo, infine, ricondotto
verso il naturale alveo concettuale di partenza. Vista la particolare
posizione assunta sul mercato pare plausibile sostenere la non vicinanza di
competitori che presentano offerte analoghe, ma il valore della marca
risulta minato dalla sua incapacità ad esprimere una propria, distinta,
identità.
Hag e Jocca, appartenenti a categorie merceologiche differenti, sono
brand accomunati dal fatto che fanno corrispondere un elevato livello di
definizione della propria posizione ad una scarsa distinzione della categoria
d’appartenenza. Entrambe le marche hanno dato un contributo
- 342 -
determinante alla creazione di una nuova categoria (rispettivamente quella
del caffè decaffeinato e quella dei cottage cheese), che, ad ogni modo, non
sono state in grado di reggersi autonomamente, ma che restano
profondamente legate a più ampie categorie nel cui ambito devono essere
ricondotte. I contorni dei nuovi mercati che le marche hanno contribuito a
fare emergere, infatti, sono molto sfumati riconducendosi l’uno a quello del
caffè e l’altro a quello dei formaggi freschi. La posizione di forza o di
relativa debolezza che connota queste marche, pertanto, viene a dipendere
dalla particolare lente dalla quale guardiamo gli eventi dell’arena
competitiva.
Una valutazione solo in parte differente è quella che riguarda
Simmenthal, la quale, anch’essa first-mover, si trova leader di una
categoria – quella della carne in scatola – con concorrenti che sono, però, in
posizioni più ravvicinate (non tanto in termini di quota di mercato, quanto
di percezioni, positive e negative, riguardanti il prodotto) e che, ad ogni
modo, si trova a doversi confrontare con rivali provenienti dalle più diverse
categorie merceologiche nel più vasto ed eterogeneo mercato dei pasti
destrutturati.
5.3 – Analisi del trend e prospettive di sviluppo per il
posizionamento
5.3.1 – Il rapporto tra i trend e la strategia.
A ben vedere, le ragioni ultime che stanno alla base dei mutamenti
delle strategie adottate dalle imprese sono solitamente rintracciabili nei
cambiamenti avvertiti riguardo i trend sulla cui considerazione si basavano
quelle precedentemente seguite1. Certamente, una strategia viene formulata
L’importanza della comprensione dei trend è posta in evidenza, con riguardo
all’analisi esterna, da Aaker (D. A. AAKER, Strategic market mnagement, John Wiley &
Sons, 1992, p. 98): «Often one of the most useful elements of external analysis comes
from addressing the question, what are the market trends? The question has two
important attributes: it foscuses on change and trends to identify what is important. As a
result, strategically useful insights almost always result. A discussion of market trends
1
- 343 -
tenendo conto anche delle variabili competitive, ma dette variabili non
sono, comunque, indipendenti dalla contestualizzazione – anche in termini
di tendenze – che ne viene fatta, per cui, venendo a mutare uno dei
parametri definitori del contesto di riferimento, si determinano,
conseguentemente, degli effetti che, transitando attraverso le strategie dei
concorrenti, si riverberano poi anche sulle nostre.
Fondamentale è, inoltre, la considerazione che si tratta di
cambiamenti avvertiti e non necessariamente effettivi. Questo costituisce il
nocciolo della questione: se da una parte una percezione errata dei
mutamenti in atto a livello di ambiente può trarre in inganno l’impresa
inducendola a seguire delle strade che in seguito si rivelano fallaci,
dall’altra può anche accadere il contrario, e cioè che si abbandoni il
sentiero strategico incentrato su una verace direttrice di sviluppo del
mercato per correre dietro a falsi segnali che ci mettono in apprensione1,
oppure, ancora, che il trend sulla cui considerazione si basa l’impostazione
seguita sussista realmente, ma sia di una natura diversa rispetto a quanto
ritenuto dall’impresa.
È, generalmente, proprio quest’ultima causa di discrepanza tra
strategia e realtà a costituire il caso più ricorrente nella pratica. Succede,
così, che quella che l’impresa riteneva una tendenza di fondo si riveli
soltanto un semplice temporaneo allontanamento dal trend fondamentale,
verso il quale il mercato non tarda in seguito a tornare2. Attribuire alla
tendenza sottostante un impatto diverso da quello effettivamente detenuto,
sia sopravvalutandola che sottovalutandola, è un errore che causa
comunque seri problemi di posizionamento e rende necessaria un’adeguata
can serve as a useful summary of coustomer, competitor and market analysis. It is thus
helpful to identify trends near the end of market analysis.».
In questo caso, l’impresa dimostra una carenza di sicurezza nel disegnare le
proprie prospettive che rischia di vanificare ogni iniziativa la quali abbisogni di un pur
minimo margine di tolleranza quanto ai tempi di attesa perché le aspettative possano
manifestarsi ed alla aderenza di queste ultime alle ipotesi sulle quali la strategia era stata
impostata.
2
Stiamo naturalmente parlando in termini relativi: la durata di questa
“smagliatura” del trend principale può anche essere lunga anche alcuni anni,
richiedendo un certo lasso di tempo per poter essere riassorbita.
1
- 344 -
quanto rapida manovra correttiva, specialmente per quel che riguarda
l’immagine di marca.
Un esempio, a proposito, ci è offerto dal caso Jocca. Il carattere
inizialmente conferito al prodotto, nel momento del suo lancio sul mercato
italiano nel 1977, era decisamente improntato ad una connotazione
dietetica, sull’onda del corrispondente trend che andava sviluppandosi in
quegli anni riguardo alle abitudini alimentari. Dal 1983 le cose presero ad
andare in una direzione inattesa da parte di Kraft: il trend sulla cui base
quale si era sviluppato il brand pareva improvvisamente scomparso (o,
quantomeno, fortemente ridimensionato) lasciando Jocca su una posizione
che sostanzialmente non esisteva più. Il numero di individui disposto ad
impostare il proprio stile alimentare su prodotti di matrice dietetica si era
ridotto drasticamente e del resto erano entrati sul mercato marchi
“specialisti” per la soddisfazione di quei particolari prodotti. Il gusto
offerto da Jocca, piuttosto misero rispetto a un qualunque altro formaggio
fresco, non aiutava certamente il prodotto a mantenere un livello accettabile
di fidelizzazione.
Cosa era successo, allora? Semplicemente che era stato scambiato
quello che era soltanto un temporaneo allontanamento dal trend principale
– che vedeva una certa propensione e interesse verso prodotti leggeri e che
fossero in sintonia con il mantenimento di un buon livello di forma,
benessere e linea – per una più ampia ed importante tendenza di fondo. Un
errore di valutazione che aveva, tuttavia, portato la marca su una posizione
ormai svuotata di significato, quand’anche non negativa. Tale errata
valutazione delle tendenze in atto scambiate per un generale e duraturo
atteggiamento positivo dei confronti della dietetica è, comunque, in parte
giustificabile, dal momento che, fino ad allora, si trattava di un fenomeno
sconosciuto nel nostro paese e che solo ora, con l’evolversi del costume e
anche, probabilmente, con l’avanzare dello stato di emancipazione e presa
di coscienza femminile, pareva trovare la forza ed il coraggio di avanzare
nella mente del consumatore trovando vigore in divenire. A lungo andare,
tuttavia, considerando le basi dalle quali era partito e la crescita
sproporzionata forse dovuta ad una sorta di eccesso di entusiasmo da
“inesperienza al consumo”, era inevitabile che si manifestasse un riflusso
- 345 -
verso il trend principale.
Sembra che, quasi come accade in fisica, ad ogni spinta che provoca
un eccesso ingiustificato non possa che seguire, prima o poi, una spinta in
senso contrario tendente a calmierarne gli effetti. I movimenti importanti
negli atteggiamenti del mercato sono, perciò, quelli che si sviluppano nel
lungo periodo, e che permettono di vedere la tendenza generale, “depurata”
dalle increspature più temporanee le quali vengono riassorbite dal più
ampio orizzonte temporale, allorché si riduce il livello di rumorosità
ambientale.
In particolare, è ipotizzabile, per Jocca, un errore di valutazione
prospettica per quanto riguarda la visione strategica. In effetti, nonostante
la marca manifestasse un elevato grado di visione “dal dentro”, pareva,
invece, presentare importanti carenze a livello di “visione esterna”
ponendosi in una situazione di disorientamento miopico1. L’impresa, cioè,
si muoveva, certamente, assieme al mercato con il quale aveva raggiunto
un buon livello di sintonia, ma non riusciva a coglierne le oscillazioni di
fondo, esponendosi, in questo modo, al pericolo di perderne la scia senza
ricevere alcun significativo preavviso.
Altra situazione si ha, invece, nel caso in cui, detenendo una
posizione di leadership e dovendo valorizzarla attuando una strategia di
tipo difensivo, la marca pone in essere dei comportamenti di copertura che,
pur non mostrando alcun significato per l’analisi del trend di fondo al quale
il posizionamento deve improntarsi, hanno un senso in quanto permettono
di bloccare gli spazi per una possibile offensiva da parte della concorrenza
qualora il trend principale proceda effettivamente in quella direzione. In
certe situazioni, in altre parole, è bene che l’impresa si metta al riparo da
potenziali sviluppi della competizione che, se verificati, ne metterebbero a
repentaglio il posizionamento e l’immagine, anche se questo vuole dire
investire del denaro in iniziative dagli improbabili esiti positivi 2. Può
1
Cfr. fig. 1.1.
L’impresa deve guardare a questo genere di attività secondo un’ottica
strategica, assimilandolo ad una sorta di assicurazione sul proprio futuro che,
ovviamente, ha il suo premio da pagare in termini di investimenti.
Naturalmente, non bisogna dare seguito a tutti i possibili sviluppi del mercato,
stabilendo, invece, delle priorità, anche tenendo conto del potenziale strategico e delle
2
- 346 -
ritenersi, questo, il caso di “Happy Snack” per Sottilette, della versione
“squeeze” proposta da Calvé per la maionese, oppure, ancora, di
Philadelphia Snack1, il caso più recente2.
Da tutte queste considerazioni discende l’importanza del procedere
all’individuazione della profondità del trend in atto. In particolare, occorre
verificare se quanto appare come un’evidenza sia il riflesso di un trend
primario, secondario, o terziario. Un trend primario è quello che si
sviluppa nel lungo periodo sviluppandosi per un arco temporale che può
durare anche decine di anni andando a muovere concetti che risiedono ad
uno stato profondo della mente dell’insieme dei soggetti in considerazione.
Una volta stabilita la sussistenza di un determinato trend primario, qualora
si verifichi una deviazione non rientrata dalle associazioni ad esso
connesse, possiamo concludere che esso ha mutato direzione e si porrà, in
quel momento, la necessità di un adeguamento dei core concept della
marca per adeguarli alla nuova situazione. I movimenti che deviano i
significati sedimentati espressione dei trend primari non sono, solitamente,
molto repentini nel determinarsi, e, inoltre, quelli che li spostano
radicalmente non sono molto frequenti.
I trend secondari sono segmenti concettuali che rientrano
nell’ambito di una tendenza primaria loro superiore. Essi si sviluppano
risorse – umane, finanziarie, immateriali – a disposizione dei principali competitori.
Resta comunque salva, per le imprese leader, la possibilità di inserirsi in un momento
immediatamente successivo a quello del posizionamento innovativo adottato da un
concorrente offrendone una propria versione in modo da appropriarsi del valore
generato che ad esso verrebbe attribuito in virtù dell’identificazione con la più ampia
categoria di riferimento ormai sedimentata nei potenziali acquirenti (la maggiore o
minore probabilità che ciò avvenga è funzione diretta della tempestività di intervento,
del grado di consolidamento della leadership riconosciuta alla marca (a sua volta
dipendente dal livello di notorietà e familiarità ad essa attribuita) e della forza e capacità
di difendere la nuova posizione che la marca sfidante dimostra di possedere.
1
Per quest’ultimo caso, tuttavia, sembra piuttosto di assistere al tentativo di
sfruttare la spinta del prodotto base per lanciare un’offerta dai bassi costi incrementali e
dall’elevata profittabilità.
2
Si noti come siano, tutti, esempi riconducibili ad una marca leader nelle
condizioni di attuare una strategia difensiva in grado di anticipare possibili mosse della
concorrenza.
- 347 -
entro periodi di tempo solitamente riconducibili ad alcuni anni, dopodiché,
verosimilmente, tendono ad esaurirsi riavvicinandosi alla tendenza
primaria, oppure presentano comunque un mutamento di forma in senso
espansivo di tale portata da far ritenere che vi sia stato un errore di
valutazione nel determinare il trend principale, comportando la necessità
per l’impresa di prenderne atto e conformarsi alla nuova e diversa realtà
palesatasi. I trend terziari hanno un periodo di vita ancora più breve
(spesso anche inferiore all’anno) e consentono all’impresa di sfruttarne le
potenzialità solo nel brevissimo termine ed in presenza di un elevato grado
conseguito di flessibilità strategica1 e produttiva che renda conveniente e,
anzi, auspicabile un suo sfruttamento, purché si ponga in linea con i livelli
di tendenza superiori.
Funzione della tendenza è quella di limitare i contorni di movimento
degli atteggiamenti del mercato verso la categoria concettuale di
riferimento, costituendo, i suoi margini estremi, un supporto od
un’opposizione alla continuazione del trend (avvertendo, attraverso la loro
violazione, del suo possibile cambiamento di rotta) rispettivamente secondo
che il fenomeno sottostante sia in fase di espansione o di esaurimento.
Particolarmente importante diventa, allora, il monitoraggio dell’ambiente di
riferimento all’avvicinarsi di quelle zone critiche che possono costituire il
punto di passaggio del trend da uno stato all’altro, in modo da prepararsi ad
un repentino adeguamento da parte della marca ai concetti espressi dal
nuovo trend.
Scoprendo quale sia la reale profondità di un trend se ne riesce a
determinare la portata, e, una volta espresso in maniera congrua 2 in termini
1
Sebbene siamo, in questo caso, pienamente sul piano della tattica, è la strategia
che, con le sua potenzialità di flessibilità, determina la possibilità per la marca di fare
proprio il peculiare valore prodotto dal trend. Se, perciò, il perseguimento di tale valore
può mettere il concetto e le associazioni di marca in contraddizione, è preferibile
ignorarlo, onde evitare di arrecare danno al suo core value.
2
Un trend deve essere identificato nelle sue linee essenziali, senza avere la
presunzione di carpirne ogni dettaglio per non correre il rischio di perdere tempo in
un’attività sterile, quand’anche non fuorviante. I concetti che esprimono una tendenza
devono, pertanto, non essere troppo numerosi e confermarsi vicendevolmente, senza,
tuttavia, sovrapporsi (nel qual caso creerebbero soltanto confusione). La plausibilità di
- 348 -
concettuali, è possibile, in seguito, avere validi punti di riferimento per la
relativa attività di monitoraggio e di interpretazione dei segnali ambientali.
5.3.2 – Dinamica del posizionamento e trend di fondo.
Ben difficilmente il posizionamento ideato per una marca riesce a
rimanere immutato nel tempo passando indenne tra le modificazioni che si
vengono a produrre nella mente dei potenziali acquirenti e negli
atteggiamenti del mercato. Tali cambiamenti, come abbiamo visto,
rientrano nel più generale fenomeno dei trend che ne indirizzano gli
sviluppi. Di qui la necessità di prefigurare diversi livelli, concentrici, di
posizionamento, ciascuno congruente con quello immediatamente superiore
e sintetica espressione di una rete concettuale e ricorsiva dalla quale
discendono le conseguenti associazioni e attività seguendo la disposizione
della “piramide strategica” illustrato nel paragrafo 3.1.3.
Il conseguimento del vantaggio competitivo – soprattutto quello di
natura differenziale – viene quindi a dipendere dalla corretta
interpretazione dello spirito del momento e dei trend in formazione.
Tuttavia, il posizionamento è visceralmente connesso al vivendo del
consumatore e, del resto, un trend, per propria natura, non dura per sempre.
Ciò fa sorgere la necessità di un continuo ripensamento ed una incessante
riformulazione (la quale deve, comunque, mantenere una certa coerenza
con le risposte date in precedenza, per non mettere le persone nella
condizione di incorrere nella dissonanza cognitiva).
Nello sviluppare le associazioni per un qualsiasi posizionamento,
l’analisi dei trend (primari, secondari e terziari) costituisce un momento
molto importante e permette di radicare nella mente dei potenziali
acquirenti quelle associazioni (primarie, secondarie, terziarie1) che
costituiscono e sviluppano il nucleo concettuale ad essi relativo.
una tendenza è direttamente proporzionale al grado di coerenza tra gli elementi
concettuali che la compongono, determinano ed esprimono.
1
Come accade per le tendenze, le associazioni primarie, più generali e profonde,
saranno destinate a durare più a lungo e da esse si svilupperanno quelle di ordine
successivo, più particolari e mutabili.
- 349 -
Dal punto di vista “qualitativo” i trend si differenziano l’uno
dall’altro. Alcuni, basati su concetti troppo complessi da gestire e stressanti
da alimentare, appesantendo e ostacolando la naturale propensione degli
individui alla semplicità (e, nel particolare caso di Jocca, anche quella al
piacere), sono più deboli di altri e difficilmente perdurano immodificati
molto a lungo. Paiono esserci, in effetti, dei concetti che determinano
sostenendole associazioni oggettivamente1 più forti e importanti rispetto ad
altri. Tali concetti si legherebbero essenzialmente ai trend primari ed ai
valori da essi portati e propugnati.
Il fatto che la tendenza fondamentale rivesta una grande importanza
sviluppandosi per un ampio periodo di tempo e mutando solamente ad
opera di forze ad essa superiori, non implica una definitiva inibizione delle
possibilità per le imprese di influire sull’esito del suo incedere. Anzi, nel
caso delle imprese leader, che della fusione con il trend primario fanno la
propria forza, ciò diviene addirittura desiderabile. In particolare, chi ha
conquistato la leadership di mercato attraverso l’individuazione di un
créneau rimasto libero e la contestuale “invenzione” della categoria
concettuale ad esso corrispondente individuando per primo l’esistenza di un
trend dai contorni fino ad allora inesplorati, deve stare attento a che i
successivi entranti non danneggino tale categoria e la tendenza sottostante
attraverso concetti che siano fuorvianti e negativi rispetto alla sua natura
originaria. Senza la difesa dei concetti “primi” la base della leadership
potrebbe franare sotto l’opera di agenti patogeni che, non comprendendone
il vero valore, finiscono per impoverirne i significati (e, quindi, le
associazioni). Si tratta, in altre parole, di difendere, oltre al proprio
posizionamento anche i concetti di fondo su cui esso si basa (se crollasse la
rete concettuale su cui si è sviluppata e si appoggia, allora la marca
cadrebbe con essa).
D’altra parte, è anche vero che, qualora un determinato
posizionamento si allacciasse strettamente ed in maniera sbilanciata ad un
trend dalla caratterizzazione molto forte e decisa, la marca rischierebbe di
rimanere spiazzata nel momento in cui necessariamente avverrà una
Dove per oggettivamente si intenda “in maniera praticamente indipendente
dalle circostanze”.
1
- 350 -
moderazione dei toni del trend. Una strategia di posizionamento valida è
quella che comprende le ragioni profonde del trend (non guardandone solo
le manifestazioni esteriori) evitando di farsi travolgere da esso e dagli
eccessi che può presentare, non precludendosi, inoltre, le future strade che
dalle posizioni attuali possono partire.
Il momento più critico nel governo del posizionamento strategico è,
appunto, quello in cui avviene il passaggio del trend da uno stato ad un
altro. In questo contesto, il mercato premierà chi dimostrerà di saper
interpretare al meglio le nuove esigenze e saprà dare una conferma alle
tendenze in corso.
Un forte ruolo nel determinare le prospettive di sviluppo plausibili
per una certa marca è giocato dal grado con il quale essa è sedimentata
nelle menti dei potenziali acquirenti, con riferimento all’insieme di concetti
e associazioni di cui è portatrice. I nuovi spazi mentali determinati dal
mutamento del trend in corso, infatti, sembrano non essere accessibili per
quelle marche già presenti nell’adiacente contesto da cui il nuovo scenario
prende forma e idealizzate in un certo modo da parte del mercato. La
ragione sta nel fatto che esse esprimono concetti diversi e già radicati,
difficilmente alterabili nella nuova direzione. Paradossalmente, ciò
avviene, soprattutto, quando il livello di notorietà e conoscenza degli
attributi di marca da parte del consumatore è più elevato. Spesso, perciò,
può risultare preferibile approcciare le nuove esigenze espressione delle
mutazioni avvenute nel trend attraverso marche del tutto nuove, non
appesantite da vecchie associazioni e da connessioni a luoghi comuni che
ne possano influenzare negativamente la percezione1.
Per quanto riguarda gli agenti modificativi degli spazi e delle
dinamiche mentali, dall’analisi compiuta sui casi sopra esposti viene
sostanzialmente confermato quanto argomentato nel capitolo secondo. In
particolare, alcuni tratti sembrano accomunare i processi percettivi,
interpretativi e valutativi posti in essere dai consumatori. L’atteggiamento
1
La validità di questa opzione sembra essere tanto maggiore quanto più la
domanda è insensibile al prezzo (e invece sensibile agli altri elementi del marketing
mix).
- 351 -
nei confronti dei prodotti alimentari è incentrato su una generale preferenza
accordata a quelli che impostano il valore della propria offerta sulle
caratteristiche di leggerezza, versatilità e semplicità d’uso, non
rinunciando, tuttavia, pur nell’ambito di un certo trade-off, ad accettabili
livelli per ciò che riguarda il gusto. Una possibile interpretazione di matrice
sociologica di quanto avviene sottolinea come, strette da una parte da stili
di vita impegnativi e stressanti che le vedono fuori casa per buona parte
della giornata e dall’altra da temi comunicativi che esaltano ed inculcano
un determinato tipo di immagine da perseguire, le persone si orientino
verso uno stile alimentare più confacente con le esigenze avvertite in
termini di cura della forma fisica cui viene associato uno stato di benessere
sia fisico che mentale legato ad un “sentirsi a posto” di ordine sociale ed
omologato.
Tuttavia, non a tutte le marche è concesso di farsi interpreti dei
bisogni funzionali, ma soprattutto psicologici ed emozionali, dai
consumatori. In particolare, se si escludono quelle offerte che, in virtù della
propria elevata specificità differenziale, si orientano ad uno stretto
marketing di nicchia, le altre, le quali cercano di svilupparsi attorno ai
volumi di vendita derivanti da approcci generalisti e non focalizzati,
sembrano risentire pesantemente delle posizioni di forza relative. Solo alle
prime imprese della categoria di riferimento, in effetti, sono concessi i
favori e l’attenzione del pubblico, specialmente se tali categorie non sono
state ancora del tutto fatte proprie da un punto di vista
conoscitivo/esperenziale. Il consumatore per quanto riguarda, ad esempio,
l’esteso mercato dei pasti destrutturati, non si pone alla ricerca delle
migliori alternative possibili1, ma si affida ai leader di categoria sulla base
di quanto appreso – passivamente – dai punti di contatto avuti con la
comunicazione d’impresa.
Altro elemento che traspare è quello riconducibile alla forte impronta
edonistica che caratterizza sempre più i consumi in genere. L’individuo,
forse a causa di un elevato grado di benessere e appagamento che ne
1
Del resto, così facendo cadrebbe in contraddizione, trattandosi di un mercato
cresciuto proprio in forza dell’assenza di tempo (o di voglia) nel preparare i pasti e della
ricerca, d’impulso, del piacere alimentare.
- 352 -
innalza il livello al quale gli stimoli producono il loro effetto, avverte in
misura crescente un bisogno di varietà e di conseguimento del piacere da
derivarsi attraverso il consumo. Questa spinta edonistica può essere
superata dalla persona solo con l’intervento di altri potenti fattori
psicologici in grado di fungere da deterrenti del piacere, guidandola in un
ordine di idee atto a consentire il raggiungimento di obiettivi che presentino
per essa un valore ancora superiore. Anche in nell’eventualità che ciò
avvenga, comunque, sarà improbabile il raggiungimento di un elevato
livello di soddisfazione ed il superamento assoluto e definitivo dell’iniziale
bisogno rimasto inappagato, in quanto resterà, nel consumatore, la
sensazione negativa associata alla rinuncia fatta assieme al dubbio circa la
correttezza della scelta operata. Inoltre, nel momento in cui la persona,
inevitabilmente, tornerà, almeno in parte, a soddisfare un piacere a lungo
inespresso, tenderà, ancora una volta, a dare la precedenza a quelle marche
che meglio tale piacere interpretano, per dare una giustificazione alla
propria condotta.
Le conseguenze per le imprese che si contendono i favori del
mercato sono evidenti e riportano direttamente alle considerazioni
sviluppate nel terzo capitolo. In primo luogo, l’imperativo è quello di saper
individuare un varco accessibile e non già occupato nella mente dei
potenziali acquirenti (come hanno fatto nel tempo, ad esempio, sia
Sottilette e Philadelphia), tanto elevati sono i vantaggi in termini di
immagine e di sostenibilità del vantaggio competitivo da parte dei
“creatori” di una nuova categoria. La marca che detenga la leadership del
suo mercato ha un vantaggio immediato sui concorrenti in termini di
visibilità e fiducia da parte dei propri interlocutori. È, inoltre, interessante
notare come una caratteristica generalmente propria del leader di mercato
sta nella sua capacità di saper essere tutto per tutti, offrendo così una
risposta alle possibili interlocuzioni e costituendo per il consumatore il
punto di riferimento per la categoria in esame. Questa sua forza può
rappresentare, tuttavia, la sua principale debolezza, dal momento che,
coprendo un ampio spazio all’interno della mente, è più facile per gli
avversari focalizzarsi su un punto in cui i concetti espressi dalla marca
leader risultano più scoperti o addirittura non presidiati, oppure, ancora,
- 353 -
cadono in contraddizione.
La presenza contemporanea di una pluralità di tendenze – primaria,
secondaria, terziaria – comporta la necessità di un posizionamento su più
livelli. Se i concetti di fondo alla base del trend principale possono
rimanere a lungo validi consentendo la costruzione di un insieme stabile di
associazioni attorno alla posizione strategica definita sulla loro piattaforma,
le implicazioni generate dai trend di più ristretto sviluppo consentono di
pervenire a specificazioni nel posizionamento che permettono di meglio
aderire al sistema concettuale di cui il target di riferimento è portatore. Per
l’impresa, si tratta, in sostanza, di procedere per step successivi verso la
fusione con il mercato.
Al fine di disporre di un’offerta il più possibile aderente e focalizzata
ai trend che in un dato momento sottostanno alla posizione occupata ed agli
scenari strategici che si prospettano, occorre, quindi, determinare il
posizionamento della marca centrandolo su una pluralità di obiettivi
ordinati e coerenti fra loro, rendendoli confacenti ai rispettivi trend dei
quali intendono essere la risposta. L’ampiezza della portata dei gradi di
posizionamento individuati deve essere tale da consentire loro di rimanere,
per quel determinato livello, nel proprio alveo al modificarsi del trend di
livello più specifico. La necessità di un riposizionamento, in questo modo,
si presenterà solamente per il livello al quale avviene il mutamento di
tendenza consentendo un aggiustamento più graduale, meno percettibile e
non traumatico di quelli maggiori che costituiscono, invece, la base
dell’immagine di marca e che necessitano di una più grande stabilità.
Solamente al verificarsi di un’importante variazione nella tendenza
primaria, così, si renderà necessario un altrettanto importante adeguamento
del posizionamento strategico primario, anche se, dovendo nel frattempo
essere intervenute preventivamente modificazioni nei trend terziari e
secondari, l’impresa goderà, generalmente, di un certo preavviso che
segnalerà l’evoluzione in itinere ed avrà di conseguenza il tempo
necessario per prepararsi agli eventi in corso.
Come detto, adattandosi i diversi livelli di posizionamento al trend
corrispondente, per ognuno di essi deve essere impostato uno schema di
associazioni che, partendo dal concetto con cui si intende esprimere
- 354 -
l’identità di marca si sviluppi, poi, in una rete coerente ed armonica di
attività ad esse connesse, secondo il modello della “piramide strategica per
il posizionamento”. La correlazione e la coerenza dovranno, inoltre,
sussistere fra le omologhe componenti dei diversi anelli rappresentati in
figura 5.2. I concetti coinvolti nel posizionamento al terzo livello, in altre
parole, devono concordare con quelli del secondo e, successivamente, con
quelli del primo, e analogamente per le associazioni e per le reti di attività1.
1
A volte, i problemi di posizionamento nascono anche da qui: se, infatti, il
concetto primario è corretto e aderente al trend cui intende riferirsi, non è detto che
quelli espressi ai livelli superiori lo siano e concordino con esso, portando la marca
anche molto lontano dalla posizione strategica ideale. Più raramente accade il contrario,
e cioè che ad un errato posizionamento primario corrispondano uno secondario ed uno
terziario in linea con quanto richiesto dalle aspettative del consumatore, trattandosi, in
ogni caso di una situazione temporanea, destinata a venire meno con l’esaurirsi del
trend che la sostiene.
- 355 -
TREND
TERZIARIO
TREND
SECONDARIO
TREND
PRIMARIO
CONCETTO
ASSOCIAZIONI
ATTIVITA’
Figura 5.2 – Posizionamento e livelli di trend
Il risultato ultimo sarà dato da una rete di significati che prende
origine dai concetti che esprimono il trend di fondo e che sono posti al
centro del posizionamento, ed in cui i terminali sono costituiti dalle
percezioni a tali significati relative e, infine, dalle loro determinanti a
livello di fattori sociali, emozionali, simbolici e psicologici.
- 356 -
CONCLUSIONI
Le esigenze legate alla competizione, assieme ai condizionamenti
derivanti dall’operare con la multiforme natura della mente dei
consumatori, conducono le imprese ad approfondire le problematiche e la
conoscenza dei principi del posizionamento. Per quanto riguarda il primo
aspetto, il rilievo che la conocorrenzialità va sempre più assumendo è
legato a doppio filo alla progressiva apertura dei mercati1: se in passato
c’era una certa tolleranza sulla quale i decisori potevano confidare nello
stabilire le linee guida dello sviluppo aziendale, oggi i nodi da sciogliere
per definire una strategia si fanno sempre più complessi e intricati rendendo
necessaria una comprensione più approfondita dei meccanismi competitivi.
Tale rinnovata spinta alla comprensione, sia che costituisca il risultato di un
accurato studio analitico delle forze in campo e dei fattori che le muovono,
sia che discenda da valutazioni più di origine reattiva e adattiva, ha
comunque il merito di attivare il pensiero strategico d’impresa fornendo un
contributo determinante per dare un seguito alle possibilità di sviluppo
esistenti dell’impresa stessa le quali, altrimenti, resterebbero probabilmente
inespresse ed a livello potenziale.
L’evidenza delle interazioni tra le marche e del loro dispiegarsi
attorno ai concetti cui la mente del consumatore fa riferimento rende
manifesta tutta l’utilità di un approccio alla competizione che,
prescindendo da schemi rigidi, faccia dell’orientamento alla fusione con il
mercato il punto cruciale attorno al quale fare ruotare tutti i concetti
attinenti al posizionamento.
La generale tendenza alla multi-opzionalità cui devono rispondere le
marche nel soddisfare le nuove, al tempo stesso eterogenee e specifiche,
esigenze dei consumatori comporta, tuttavia, problemi a livello strategico
A tale rinnovata apertura dei mercati fa riscontro, dall’altra parte, la tendenza,
assecondabile attraverso il perseguimento di una leadership emozionale, a porre le
soglie d’entrata nei frammenti di mercato il più in alto possibile per la concorrenza.
1
- 357 -
oltre che operativo. La principale difficoltà sta nell’immaginare che, per
rispondere a tali necessità, la marca debba articolare dei posizionamenti e
promettere dei vantaggi tra loro molto differenti nei contenuti. Ne discende,
perciò, l’esigenza di uscire da posizioni di compromesso che, patteggiando
un insieme di significati contraddittorio e fuorviante nell’intento di coprire
più vasti spazi mentali, producono il solo risultato di creare nuova
confusione e frammentarietà, con inevitabili problemi di messa a fuoco e di
appesantimento del carico informativo che le persone si trovano a dover
gestire e assimilare (da cui, poi, partono nuove complicazioni che riavviano
un circuito negativo sempre più difficile da rompere).
È, allora, attraverso la ricerca della fusione con il mercato e della
semplicità di sviluppo delle associazioni che è possibile dare un contenuto
credibile e costruttivo al posizionamento. Ciò non significa che la trama
associativa debba necessariamente essere semplice, accrescendosi, invece,
il suo valore attraverso un’idonea articolazione in sistema. Quest’ultima,
tuttavia, va improntata alla massima coerenza attorno a concetti puri e
lineari, in grado di costituire per i potenziali acquirenti obiettivi ben
visibili, ragionevoli e raggiungibili, rappresentativi di esigenze avvertite ed
ora riconosciute (anche se non formalizzate). Quella che viene a delinearsi
in un sempre maggior numero di mercati è una tendenza all’unicum che,
tuttavia, si fa paradossalmente generico nell’ambito di insiemi di individui
accomunati da interpretazioni simili le quali tendono ad ispirarsi
vicendevolmente. Se da un lato cresce la differenziazione negli individui e
nei loro comportamenti, dall’altro aumenta, nel contempo, l’omologazione
concettuale attorno al luogo comune, il valore semplificatore del quale
viene riconosciuto e perseguito (in un ambiente nel quale l’eccesso
comunicativo crea rumore e difficoltà di comprensione della realtà)
nonostante vadano persi, con esso, molti significati spesso rilevanti.
Un’ulteriore sfida resa manifesta dalle strategie di posizionamento è
quella dell’acquisizione della coscienza del fluire dei trend. Se trend
secondari e terziari si sviluppano a partire dagli orientamenti di fondo
espressi dal sottostante trend primario, ciò non fa ricadere l’immagine che
il mercato ha della marca in un meccanismo di natura meccanicistica.
Viceversa, sembra che il movimento continuo, del quale i trend possono
- 358 -
indicare l’andamento, sia divenuto, esso sì, una costante (emerge, anzi,
come il mutamento sia diventato uno dei principali bisogni informando di
sé tutti gli altri, seppure in forme e gradi differenti). Diventa inevitabile che
la continua trasformazione – e, quindi, il mutamento permanente – sfoci in
ulteriori nuove dimensioni concorrenziali nelle quali solo l’aderenza ai
movimenti che avvengono nella mente dei consumatori può consentire lo
sviluppo di strategie di posizionamento centrate costituendo per l’impresa il
vero nucleo del vantaggio competitivo.
Quella stabilità che supponiamo di vedere, che molte imprese vivono
come reale stabilità dei mercati e della quale gli uomini di marketing
credono di poter disporre, è in realtà solo la stabilità dei nostri sistemi
percettivi e delle credenze sedimentate (per convinzione o convenienza,
indifferentemente). In effetti, spogliarsi degli abiti comportamentali di cui
anche gli strateghi s’impresa si rivestono nel dare seguito alle proprie
predefinite intenzioni non è impresa delle più semplici, andandosi a
scontrare con i criteri valutativi che esse assumono per validi rispetto alla
situazione in corso. Purtroppo, la realtà è molto più instabile, caotica e
turbolenta di quanto si supponga. In questo disordine diventa perciò
prioritario riuscire a fluire con gli avvenimenti in modo da poter cercare di
imprimere al corso degli eventi la direzione che desideriamo.
In questo panorama di accentuata frammentazione dei bisogni e dei
mercati dove tutto, riferimenti e certezze, diventa sempre più piccolo, la
risposta più congrua da parte delle imprese consiste, per paradosso, nella
riscoperta della grandezza delle prospettive che si celano dietro la
piccolezza del frammento semantico offerto dalla percezione del
consumatore: ciò significa avvicinarsi alle posizioni mentali dei frammenti
più grandi ed al fluire dei processi spirituali che in essi ha luogo. La
rilevanza dei significati cui fare riferimento si rivela negli scenari ai quali
appartengono i singoli frammenti di mercato (gli scenari sono proiezioni
collettive, quindi evoluzioni mentali aperte che esistono al di sopra dei
micro-mercati e dei frammenti).
Il ruolo della fusione dell’impresa con il mercato è, allora, quello di
collegarla con processi realmente esistenti in gruppi realmente esistenti e,
in ossequio alle esigenze della visione prospettica che essa deve favorire,
- 359 -
quanto maggiore è la prossimità che instauriamo con questa sociosfera,
tanto maggiore è il distacco che la marca deve mantenere. Le esigenze
derivanti dal perseguimento della fusione e della prossimità richiedono,
generalmente, che si addivenga ad un appropriato innalzamento della
marca fino a raggiungere l’apice della sua mitizzazione1.
Emerge in tutta la sua importanza, ancora una volta, il contributo che
l’immagine di marca può dare al raggiungimento della migliore posizione
possibile dalla quale affrontare la competizione. Essa, coniugando gli
attributi salienti dell’offerta dell’impresa con le attese, espresse e
inespresse, proprie del consumatore, compie una fondamentale opera di
raccordo tra ciò di cui la mente del potenziale acquirente è portatrice in
termini di contenuti e significati e quanto la marca è in grado di
rappresentare per essa.
La stessa immagine di marca svolge, inoltre, un fondamentale ruolo
propulsivo dell’attività d’impresa. Spesso accade, infatti, che sia grazie alla
sua azione ed alle derivazioni che inevitabilmente nascono dalla sua
applicazione alla particolare situazione competitiva affrontata che si
dischiudano agli occhi dei decisori d’impresa strade ed opzioni strategiche
le quali sarebbero altrimenti rimaste non visibili ad essi. Ciò, in particolare,
è dovuto alla sua particolare interazione con il sistema percettivo,
interpretativo, valutativo dei potenziali acquirenti, per il tramite della quale
l’immagine muta fisionomia rispetto a quella assegnatale dall’impresa. In
effetti, sono i consumatori con i quali viene in contatto a consegnare alla
marca l’immagine ed i significati che le sono propri, spesso prescindendo
dalle iniziali intenzioni di chi l’ha posta sul mercato.
*****
La marca rappresenta la più importante risorsa intangibile di cui
dispone l’impresa, costituendo, attraverso l’immagine che è capace di
1
I miti sono contenuti di fede ai quali si crede senza saperlo. La marca
sottoposta ad un processo di mitizzazione disporrà di un rilevante carico di notorietà,
familiarità, diversità e fiducia incrementando di conseguenza il suo valore e la sua
rilevanza nel particolare mondo concettuale di riferimento del consumatore.
- 360 -
proiettare e la particolare strategia di posizionamento con cui viene posta
sul mercato, la base principale – in grado di sintetizzare in sé tutte le altre –
del vantaggio competitivo e dei futuri profitti.
La gestione della marca, perciò, deve essere mirata al suo
mantenimento e rafforzamento nel tempo, attraverso uno sviluppo coerente
e coordinato con le strategie di fondo dell’impresa (in particolar modo con
quelle di posizionamento). La coerenza, costruita sul coordinamento dei
diversi livelli semantici della marca, rappresenta, in effetti, il collante in
grado di congiungere i significati proposti con quelli effettivi e con quelli
percepiti. I primi, in altre parole, non devono discostarsi dalle concrete
potenzialità prestazionali ed espressive del prodotto in questione, i cui
limiti, pertanto, devono essere ben chiari nella mente dei decisori d’impresa
e costantemente monitorati, pena l’interruzione del contatto dialettico con il
mercato a causa di una ridotta visione “dall’alto”. Comunicare i contenuti
“veri” dimostra essere, ad ogni modo, condizione necessaria, ma non
sufficiente per la generazione del valore di marca se i significati percepiti
ed i riferimenti sedimentati nelle menti dei potenziali acquirenti non si
accordano con essi, e l’eventuale successo conseguito in violazione di
questa condizione non può essere duraturo.
Alla base della creazione di valore da parte della marca vi è il modo
differenziato dai concorrenti con il quale essa soddisfa le esigenze di un
definito gruppo di consumatori e che poggia sui tratti distintivi che ne
individuano l’identità. Per ogni categoria di prodotto e per definiti segmenti
di mercato si riscontrano dei benefici chiave che devono essere soddisfatti
da una qualsiasi marca per poter essere presa in considerazione dai
potenziali acquirenti. L’aggiunta di alcuni benefici e l’intensità più elevata
con cui sono erogati costituiscono le basi della differenziazione. È, quindi,
il posizionamento passato e attuale della marca rispetto alle attese e alla
concorrenza che ne determina il valore. La marca, tuttavia, essendo un
concetto dinamico, mette in gioco anche altri aspetti legati al vissuto
(sedimentazione), alla coerenza con cui i valori vengono perseguiti nel
tempo e continuamente arricchiti attraverso il rinnovo e la ricostituzione
del differenziale rispetto alla concorrenza, tenuto conto dell’evoluzione
socioculturale dei consumatori e della tecnologia.
- 361 -
Il peculiare posizionamento di una marca è all’origine della sua
capacità competitiva e risulta in un valore superiore alla somma dei valori
apportati dai benefici che essa assicura. Attraverso l’opera portata avanti
dal posizionamento si crea nel consumatore l’identificazione con la marca,
aprendogli l’accesso al particolare mondo concettuale di riferimento che
essa esprime. A nulla valgono gli intendimenti dell’impresa che non
poggino sulla percezione e sull’interpretazione che il potenziale acquirente
ha della marca: la posizione che il mercato riconosce alla marca è quella
che essa occupa effettivamente, a prescindere da quella comunicata1 e
costituisce la base sulla quale è possibile articolare successivi significati
che conferiscano una maggiore articolazione e spessore al messaggio
originale.
Il valore di una marca sta nel fatto che essa conferisce una definita e
ben distinta identità al prodotto o servizio sottostante trasferendone gli
elementi caratterizzanti da un contesto di mera oggettività ad una nuova
realtà soggettiva nella quale essi prendono nuova forma e sostanza. In
effetti, un prodotto unbranded risulta, per definizione, “afono”, generico e
surrogabile. Nel momento, però, in cui gli viene associata una marca
acquista solo per questo una propria, pur minima, identità e, se supportato
adeguatamente da un capitale simbolico – in termini di diversità, notorietà,
reputazione e stima, familiarità – costruito nel tempo, allora il prodotto esce
1
Molti problemi di posizionamento partono proprio dal mancato riconoscimento
del ruolo interpretativo dei significati inviati dall’impresa svolto dal sistema percettivo
dei potenziali acquirenti. Tali significati, infatti, possono assumere ulteriori e,
eventualmente, diverse connotazioni nel momento in cui entrano in contatto con quelli
sedimentati nella mente del consumatore e con quelli che già si trovano nel mercato e,
più in generale, nell’ambiente d’appartenenza.
In altre parole, è spesso riscontrabile la tendenza da parte delle imprese a non
cogliere tutta la rilevanza ed il reale significato del concetto di fusione con il mercato la
quale, assieme alla particolare strategia di posizionamento seguita, va a determinare la
consistenza e la sostenibilità del vantaggio competitivo. Si ha, in questi casi, un’ottica
del rapporto impresa-mercato troppo parziale e sbilanciata verso se stessi ignorando o
non volendo vedere una realtà più grande di noi e che, seppure risulti meno controllabile
direttamente, offre delle importanti opportunità che bisogna essere capaci di riconoscere
e sfruttare a proprio vantaggio.
- 362 -
dall’anonimato dando rilievo e spessore a tale identità la quale assume,
infine, un preciso valore culturale attivando tutta una serie di associazioni
relative ai simboli di cui è portatrice. Nel momento in cui la marca riesce
ad esprimersi, essa da detentrice di valori diviene un’entità erogatrice di
senso rispetto alle scelte di consumo, provocando il passaggio dallo stretto
contenuto tangibile ad uno simbolico, dall’ambito della semplice
denotazione a quello più pregnante e consistente della connotazione,
dall’orizzonte fattuale a quello culturale1.
La missione di una marca è sintetizzabile nell’affermazione e nella
legittimazione della propria promessa, qualunque essa sia (solitamente, si
tratta di una promessa di qualità). La riconoscibilità e la facile verificabilità
della presenza dei contenuti promessi danno corpo a tale impegno e
corrispondono al ruolo storico primario della marca, una volta assolto il
quale, essa si potrà successivamente articolare in ulteriori arricchimenti
semantici e funzionali, in modo da meglio aderire alle diverse e particolari
specificazioni che vengono espresse e richieste dal mercato di riferimento.
La qualità percepita rispetto ad una marca investe due ambiti tra loro
complementari e interrelati: quello reale e quello simbolico. La qualità
reale è quella esperibile direttamente dal consumatore. Corrisponde
all’ambito sostanziale del rapporto impresa-mercato ed investe direttamente
il valore d’uso del prodotto o servizio. La marca, in questo contesto si pone
come un’entità preposta – per interposizione – alla produzione di beni, ed
intervenire sulla qualità, in ossequio alla propria missione, significa, qui,
intervenire sul prodotto modificandone gli attributi tangibili.
La qualità simbolica, invece, è quella indotta dal potenziale
comunicativo attivato dalla marca. Siamo nell’ambito dell’apparenza, la
quale investe non più il valore d’uso, ma il valore di scambio del prodotto
o servizio, vale a dire la sua capacità di essere espressione di una precisa
identità socio-cultural-emozionale in grado di essere simbolo riconosciuto
del proprio portato valoriale e strumento di una relazione dialettica con il
target di riferimento. In questo caso, l’intervento sulla qualità è affidato alla
1
Naturalmente, questo passaggio varia secondo il particolare contesto storico e
circostanziale ed al mutare della categoria concettuale di riferimento.
- 363 -
capacità comunicativa – in senso ampio – della marca, qui vissuta come
emittente di segni.
Se la qualità percepita può essere ricondotta ai due succitati ambiti,
tuttavia, aspetto reale ed aspetto simbolico si sostengono vicendevolmente
andando ad alimentare il valore di marca ciascuna componente per la parte
che maggiormente le compete: la qualità reale entra a fare parte delle
aspettative prestazionali, mentre la qualità simbolica si riversa e sedimenta
nell’immaginario collettivo. Intervenire sull’ambito simbolico significa
intervenire innovativamente sul posizionamento della marca e ciò
costituisce un’operazione che richiede tempi lunghi e rilevanti risorse
finanziarie. La “manutenzione” del posizionamento competitivo di una
marca è subordinata al miglioramento della promessa di qualità, sia reale
che simbolica1.
Il posizionamento attuale e la sua proiezione attraverso la qualità
percepita, alterando significativamente i significati espressi ed inviati al
mercato, costituiscono anche la base per una azione di riposizionamento la
quale necessita, comunque, di una accorta e intelligente preparazione, dal
momento che è ben possibile che un’immagine percepita troppo nitida nella
mente dei consumatori finisca per costituire un ancoraggio semantico dal
quale sia poi difficile sottrarsi nel procedere verso la nuova posizione. La
consistenza delle associazioni cumulate determina il loro grado di
persistenza e la possibilità di riposizionare la marca più o meno lontano
rispetto alla posizione attuale. In altre parole, spesso accade che sia più
facile riposizionare una marca caduta nel dimenticatoio perdendo valore ed
1
Nella prima metà degli Novanta, il fatto di aver trascurato il prodotto (cioè, la
qualità reale) nella manutenzione del posizionamento è stato una della ragioni ala base
della crisi che ha investito molte marche, screditate rispetto ai benefit tangibili. Il
crescente processo di banalizzazione dei prodotti ha progressivamente omologato
l’offerta, comportando l’appiattimento della competizione reale sul versante della
convenienza pura, dove il prodotto di marca esce inesorabilmente sconfitta, venendosi a
creare un notevole gap tra prodotto e immagine superabile solo attraverso l’intervento
sinergico e coordinato su entrambi gli ambiti di riferimento. La strada da battere quando
si assiste ad un sostanziale decremento del valore della marca è, pertanto, quella di un
recupero di un’identità che abbia un significato rilevante e che, scavando oltre
l’immagine, ne riscopra le radici culturali e la missione, sue fonti di legittimazione.
- 364 -
il legame delle cui associazioni si è fatto flebile rispetto ad una la cui
notorietà tali associazioni farà rimanere nitide anche nella nuova posizione
andando a contrastare con le nuove che su essa poggiano.
Se l’immagine di marca rappresenta il potenziale generativo di
valore che un determinato prodotto o servizio è capace di esprimere, la
strategia di posizionamento entro la quale essa viene ricondotta costituisce
l’humus che ne alimenta i concetti costituenti. È, infatti, la particolare
posizione occupata nella mente dei consumatori ad aprire o chiudere alla
marca opzioni strategiche le quali, attraverso le associazioni evocabili, sono
perseguibili costruendo una rete di attività in sintonia con tale posizione.
È su queste basi e sul concetto di mimesi e profonda fusione con il
mercato che poggia lo sviluppo delle strategie di posizionamento le quali si
pongono al centro del fenomeno competitivo fungendo da guida della più
generale strategia d’impresa, al contempo contribuendo alla sua
generazione e venendo da essa influenzata nella sua successiva evoluzione.
Non avere chiaro, anche approssimativamente, quale sia il proprio
posizionamento ed il ruolo ricoperto nella mente dei potenziali acquirenti e
come sia possibile migliorare l’uno e l’altro costituisce, soprattutto
nell’affrontare gli attuali contesti di frammentarietà dei mercati e dei
concetti semantici espressi dalle marche assieme a quelli richiesti dai
consumatori, un’inaccettabile mancanza di visione prospettica e di
obiettivo senso critico da parte delle imprese. È, prima di tutto, con un
cambiamento all’interno delle organizzazioni e del modo di pensare,
liberandosi dagli orpelli semantici della marca e da quelli attinenti alle
relazioni di potere nell’impresa, che si può pensare di compiere un primo,
fondamentale, passo nella direzione di quel cambiamento di filosofia, di
cultura e di approccio al mercato che sta alla base del posizionamento.
Dopodiché, l’esito ultimo della sfida per la conquista della migliore
posizione nella mente del target di riferimento dipenderà dal confronto del
nostro grado di sensibilità e di sagacia strategica con quello degli altri
competitori.
- 365 -
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