1 DAL MITO AL LOGOS

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DAL MITO AL LOGOS
La nascita della filosofia in Grecia nel VI sec. a.C.
1 - Lo stupore tra mito e filosofia
Secondo Aristotele:
<<…gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare, poiché
dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto, e in
un secondo momento, a poco a poco, procedendo in questo stesso modo, si trovarono di fronte a maggiori difficoltà,
quali le affezioni [ossia le eclissi, il sorgere e il tramonto] della luna e del sole e delle stelle e l’origine dell’universo.
Chi è nell’incertezza e nella meraviglia crede di essere nell’ignoranza (perciò anche chi ha propensione per le leggende
è, in un certo qual modo filosofo, giacché il mito è un insieme di cose meravigliose); e quindi, se è vero che gli uomini
si diedero a filosofare con lo scopo di sfuggire all’ignoranza, è evidente che essi perseguivano la scienza col puro scopo
di sapere e non per qualche bisogno pratico. E ne è testimonianza anche il corso degli eventi, giacché solo quando
furono a loro disposizione tutti i mezzi indispensabili alla vita e quelli che procurano benessere e agiatezza, gli uomini
incominciarono a darsi ad una tale sorta di indagine scientifica. È chiaro, allora, che noi ci dedichiamo a tale indagine
senza mirare ad alcun bisogno che ad essa sia estraneo, ma, come noi chiamiamo libero un uomo che vive per sé e non
per un altro, così anche consideriamo tale scienza come la sola che sia libera, giacché essa soltanto esiste di per sé>> 1.
Il testo aristotelico ci illumina su due aspetti fondamentali dell’indagine filosofica: 1) il rapporto con lo
stupore; 2) il disinteresse della ricerca.
Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto ci viene in aiuto il filosofo Pitagora che, secondo una tradizione
consolidata, avrebbe usato per primo il termine filosofia (dal greco philèin, amare, e sophìa, sapienza) con
un significato specifico, dicendo di se stesso di non essere un “sapiente”, ma solo un “amante della
sapienza”. Egli paragonava la vita alle grandi feste di Olimpia, dove alcuni convenivano per affari, altri per
partecipare alle gare, altri per divertirsi e, infine, alcuni soltanto per “vedere” ciò che avveniva: questi ultimi
erano i filosofi. In questo modo Pitagora intendeva sottolineare il distacco tra la contemplazione
disinteressata propria dei filosofi e l’affaccendamento utilitaristico degli altri uomini. 2
Il rapporto della filosofia con lo stupore ci costringe invece ad interrogarci anche sui rapporti tra filosofia e
mito poiché, come leggiamo nel testo aristotelico, <<…anche chi ha propensione per le leggende è, in certo
qual modo filosofo, giacché il mito è un insieme di cose meravigliose>>.
Tra mito e filosofia, da questo primo punto di vista, non c’è, dunque, opposizione, ma un comune sentimento
di stupore e la comune volontà di dare un senso alle cose e alle vicende umane, in modo disinteressato.
Prima che la filosofia prendesse esplicitamente avvio, l’arte e la religione greca avevano già abbozzato
alcune riflessioni generali sull’uomo e sul mondo. Ciò avviene soprattutto nelle cosmologie mitiche, che
cercano di narrare l’origine del mondo a partire dal caos primitivo.
Questi racconti sono definiti “mitici”, in quanto ricorrono a spiegazioni fantastiche. Anche se il mito, termine
derivato dal greco mythéo (io racconto o narro), è la narrazione fantastica di avvenimenti umani e divini,
costituisce già un’interpretazione della realtà.
Abbiamo due tipologie di miti: i miti naturalistici e i miti storici.
I miti naturalistici si propongono di dare un senso ai fenomeni della natura: dai corpi celesti ai fenomeni
atmosferici, dall’alternarsi delle stagioni all’origine stessa degli uomini.
I miti storici intendono spiegare la vita sociale e le istituzioni fondamentali dello stato.
Il mito, dunque, da questo punto di vista, non si contrappone alla filosofia, in quanto entrambi sono attività
del pensiero umano tendenti a rispondere al “perché” del mondo. 3
1.1 - Il senso del “meraviglioso”
Tutti i popoli e le civiltà hanno formulato dei miti cosmogonici. Una cosmogonia ( da kòsmos = universo e
ghìghnomai = io genero) è una spiegazione mitica dell’origine e della formazione del mondo.
1
Aristotele, Metafisica, I, 982b, 10-25, trad. it. Di G. Giannantoni, Laterza, Bari, 1971, pp. 8-9
Abbagnano-Fornero, La filosofia (1A). Dalle origini ad Aristotele, Paravia, 2009, pag. 19
3
Cfr. Massaro-Fornero, “Tra mito e logos: la nascita della filosofia”, in: Fare filosofia, Vol. 1°, Paravia, 1998, pag. 6
2
Il più antico documento della cosmogonia presso i Greci è la Teogonia di Esiodo (VIII sec. a.C.), dove il
multiforme divenire della realtà astrofisica viene “antropomorfizzato” attraverso la narrazione delle
generazioni degli dèi.
Basti pensare che, dovendo rappresentare l’ordine del mondo attraverso le gerarchie divine, Esiodo pone
all’origine di tutte le generazioni una coppia che è la personificazione stessa dell’universo fisico: Gaia (la
Terra) e Urano ( il Cielo).
CAOS
GAIA
Erebo
TARTARO
EROS
Notte
URANO
MONTI
PONTO
Étere
Giorno
Oceano
Tètide
Giapeto
Fiumi
Oceanine
fra le quali
Climene
Iperione
Teia
Sole
Selene
Aurora
Coio
Foibe
Leto
Asteria
Crio
Temide
Perse
Ore
Eunomia
Dike
Pace
Atropo
Cloto
Lachesi
Istia
Ciclopi
Centimani
Demetra
Era
Ade
Enosigeo
Erinni
Giove
Giganti
Ninfe Melie
Astreo
Afrodite
Prometeo
Zefiro
Borea
Eosfòro
Erigena
Astri
Stige
Rea
Crono
Ecate
Atlante
Menezio
Epimeteo
Mnemosine
Pallante
Zelo
Nike
Crato
Bia
[ Schema dell’universo fisico-teologico della Teogonia di Esiodo ]
Leggendo la Teogonia sembrano trovare conferma le parole di Aristotele sul ruolo della “meraviglia” nella
genesi del pensiero filosofico e, prima ancora, di quello mitico. In particolare devono aver avuto una certa
importanza i fenomeni astronomici, geologici e meteorologici.
Se guardiamo infatti la discendenza di Gaia e Urano troviamo dodici figli (i Titani), non tutti ben identificabili,
che rappresentano altrettante antropomorfizzazioni di fenomeni naturali (da cui l’espressione: “forze titaniche
della natura”…).
Iperione, per esempio, è il sole considerato nel suo movimento ascensionale.
Teia è la madre della luce, è la Luce.
I figli di Iperone e Teia sono: Sole, Selene, Aurora. Nella loro discendenza troviamo inoltre Eosfòro (la
stella del mattino) e gli Astri.
Per la coppia Coio-Foibe, <<non sappiamo determinare con sicurezza né l’etimo né il significato di Coio; ma
assai trasparente è il nome di Foibe, la scintillante, e più anche significativa la loro discendenza: Asteria,
che, anche una volta, non può essere se non una rappresentante degli astri, una specie di Ninfa celeste>> 4.
Con queste due coppie (Iperione-Teia, Coio-Foibe) siamo, dunque, in piena mitologia celeste.
Altrettanto chiara è la coppia Oceano-Tètide, dalla quale derivano i fiumi, le Oceanine: sono divinità delle
acque dolci. In particolare merita attenzione il fiume Stige che così ci viene presentato da Esiodo nella
Teogonia:
<< Sorgono qui del Dio sotterraneo le case echeggianti,
d’Ade gagliardo, e della tremenda Persèfone. E il cane
terribilmente sta dinanzi alla porta: ché ignaro
è di pietà, maestro di tristi laccioli: a chi entra
agita lusinghiero la coda ed entrambe le orecchie;
ma non consente poi che esca di nuovo: lo spia,
e quando alcuno coglie che varchi la soglia, lo sbrana.
Abita qui la Dea che aborriscono i Numi immortali;
Stige tremenda, la figlia maggiore d’Ocèano, che in giro
volge i suoi flutti, lungi dai Numi, in un’inclita casa,
tutta da grandi pietre nascosta; e colonne d’argento
alte, che toccano il cielo, la reggono tutta d’attorno.
…..ché qual dei Numi che vivono sopra la cima
del nevicato Olimpo, bevuta quell’acqua, spergiura,
resta senza respiro, sicché tutto un anno trascorra,
né può gustare cibo di nettare più, né d’ambrosia:
rimane senza trarre respiro né dire parola,
sopra un giaciglio; e dall’alto gli grava un sopore maligno >> 5.
I versi del poeta sembrano proprio la trasfigurazione mitica di un fenomeno di natura geologica così descritto
da Pausania: <<In Arcadia, non lungi dalle rovine di Nonacri, si spalanca un dirupo, il più profondo di quanti
ne abbia mai veduti. E dalle sue rocce stilla un’acqua dai Greci chiamata Stige. Quest’acqua, che dal dirupo
giunge sino a Nonacri, cade prima su una rupe altissima, e di lì, permeando la pietra, si getta nel fiume Crati.
Il suo corso è letale all’uomo e a qualsiasi altro animale: infrange il vetro, il cristallo, la porcellana, e ogni
oggetto di pietra, ogni stoviglia, e il corno, l’osso, il ferro, il bronzo, il piombo, lo stagno, l’argento e l’ambra,
tutto stempera quest’acqua, e così tutti gli altri metalli, e perfino l’oro>> [VIII, 17-18].
Tèmide e Mnemosine sono invece personificazioni di astrazioni. La tradizione, volendo affermare il
concetto che Giove era pervenuto al potere e lo manteneva grazie al senno e alla giustizia, gli aveva
assegnate come spose Mnemosine, la saggezza madre delle Muse (le facoltà più sublimi dello spirito
umano), e Tèmide, madre a sua volta del buon Governo, della Giustizia e della Pace. Così Esiodo le ha
elevate al primo gruppo, dei Titanidi.
Più chiara d’ogni altra è forse l’origine dei Ciclopi, il cui nome si identifica addirittura con il corrispondente
fenomeno naturale: Bronte (il tuono), Stèrope (il fulmine), Arge (il baleno).
Per quanto riguarda i Centìmani (Cotto, Gìa, Briarèo), essi hanno cinquanta teste e cento braccia, e
lanciano pietre immani, con le quali, nella titanomachia (la guerra fra i Cronidi e i Titani), ombreggiano il
campo di battaglia. Sembra piuttosto evidente come questi particolari rispecchiano i vulcani che, intorno al
cratere centrale ne aprono, come nell’Etna, molti altri, fumosi e fiammeggianti, spandendo giù per l’enorme
dorso centinaia di braccia di fuoco e lanciando grandi pezzi di roccia a immensa distanza.
Crono è universalmente noto come il dio del tempo o la stessa personificazione del Tempo (da cui i termini
cronologia, cronometro…). Ma come diventa tale nella Teogonia?
4
In: Esiodo, I poemi. Le opere e i giorni. La Teogonia. Lo scudo di Ercole. Frammenti, trad. di Ettore Romagnoli,
Zanichelli , BO, 1929, Prefazione, pagg. XLI-XLII
5
Esiodo, La Teogonia, op. cit., pagg. 76-77
Egli è l’ultimogenito di un padre, Urano (il Cielo) che, costantemente disteso su Gaia (la Terra), non
permette ai figli concepiti dalla Terra di venire alla luce. Così, con la complicità della madre, Crono castra il
padre, gettando alle sue spalle il membro virile di Urano.
In questo modo << Crono segna una tappa fondamentale nella nascita del cosmo. Separa il cielo e la terra.
Crea fra terra e cielo uno spazio libero: da allora in poi tutto ciò che la terra produrrà, tutto ciò che verrà
generato dagli esseri viventi, avrà un luogo per respirare e per vivere. Da un lato, lo spazio si è aperto, ma
anche il tempo si è trasformato… nel momento in cui Urano si ritrae, i Titani possono…uscire fuori dal
grembo materno e procreare a propria volta. Generazioni si susseguiranno a generazioni. Lo spazio è infine
libero e il “cielo stellato” rappresenta ora un soffitto, una sorta di grande volta buia, che si eleva al di sopra
della terra >>.6
Giorgio Vasari, La mutilazione di
Urano da parte di Crono, XVI
secolo, Palazzo Vecchio, Firenze
Nel frattempo, dallo sperma e dal sangue del membro mutilato di Urano nascono straordinarie e terribili
creature. Dalla schiuma formatasi attorno al sesso di Urano, gettato nel mare, nasce Afrodite,
accompagnata da Eros e Himeros, Amore e Desiderio. Invece, dalle gocce di sangue che hanno
impregnato la terra si sono generati, in un solo istante, i Giganti, le Erinni e le Meliadi (o Ninfe Melie).
Le Erinni sono <<forze primordiali il cui compito essenziale è quello di custodire il ricordo del crimine
compiuto contro la famiglia, e di farlo poi scontare al colpevole, qualunque sia il tempo necessario. Sono
divinità della vendetta che puniscono in particolare i reati commessi contro consanguinei… I Giganti sono
essenzialmente dei guerrieri, personificano la violenza bellica…sono consacrati all’attività militare e animati
dal piacere della battaglia e della strage. Anche le Meliadi, le Ninfe dei frassini, sono divinità guerriere,
mosse da una stessa vocazione al massacro, e infatti le lance omicide usate dai guerrieri nei loro
combattimenti sono proprio costruite con il legno del frassino, l’albero che esse abitano.
Accade dunque che dalle gocce del sangue sparso
da Urano nascano tre tipi diversi di personaggi che
incarnano la violenza, la punizione, il combattimento,
la guerra, il massacro. Eris è il nome che agli occhi
dei Greci riassume in sé tale violenza >>. 7
Verrà quindi il giorno in cui Crono dovrà
pagare il proprio debito alle Erinni, le dee
(nate non a caso dalla mutilazione) che
vendicheranno il padre Urano.
Crono, infatti, unendosi a Rea, genera figli
che rappresentano la seconda generazione
di dèi, ma, sospettoso, geloso e sempre
preoccupato di perdere il potere, divora tutti i
figli nati da Rea, ricacciandoli nel proprio
ventre. Rea, per salvare l’ultimogenito, Zeus,
medita un inganno. Partorisce Zeus in
segreto, porgendo poi a Crono una pietra
avvolta in fasce che egli ingoia in un sol
boccone. Quando Zeus raggiunge l’età
adulta, sempre con la complicità della madre,
fa bere al padre una medicina (pharmakon)
che gli fa vomitare, prima di tutto, la pietra,
poi, tutti i figli (fratelli di Zeus) che aveva
precedentemente ingoiato.
6
7
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, Einaudi, TO, 2001, pagg. 14-15
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, op. cit., pagg. 16-17
Goya
Saturno
[Crono]
18201823,
Madrid,
Prado
Per quanto riguarda questo mito della pietra ingoiata da Crono al posto di Zeus bambino, è interessante
notare che potrebbe essere la rielaborazione fantastica di una caduta di meteoriti, di cui gli uomini
serbavano memoria. Infatti Pausania racconta di un aeròlito caduto presso Pito che veniva adorato, unto
d’olio e, nei giorni festivi, ricoperto di lana [X, 24]. In questo meteorite i contemporanei di Pausania
probabilmente vedevano ancora una creatura vomitata dal cielo, sede degli dèi, sulla terra; un fenomeno
astro-fisico che fornisce una soddisfacente spiegazione alla favola di Crono “divoratore e poi rivomitatore
dei figli”.8
A questo punto, nel teatro cosmico troviamo due schiere di dèi pronti alla guerra per il potere:
da un lato, Crono con i suoi fratelli Titani , dall’altro, Zeus con i suoi fratelli Cronidi (figli di Crono).
Le sorti della guerra, che si protrae per dieci “grandi anni”, rimangono a lungo incerte. C’è addirittura un
momento culmine di questa battaglia in cui il mondo sta per regredire nello stato caotico originario:
<<… Echeggiò terribile il pelago immenso,
die’ gran rimbombo la terra, squassato gemé l’ampio
cielo, dalle radici fu scrollato l’Olimpo infinito,
sotto la furia dei Numi, del Tartaro ai baratri oscuri
giunse l’orribile crollo, dei piedi l’acuto frastuono
e del tumulto, che mai non cessava, dei colpi gagliardi.
… Arsa rombava intorno la Terra datrice di vita,
alto strideva, cinta del fuoco, la selva infinita;
la terra tutta quanta, d’Oceano il gorgo estuava,
l’inseminato Ponto: cingeva i terrestri Titani
caligine rovente, per l’ètra divino una fiamma
si diffondeva: per quanto gagliardi, le loro pupille
l’abbarbagliante guizzo dei lampi e dei folgori ardeva.
Avviluppava il Caos un incendio infinito: sembrava,
se le pupille a vedere, le orecchie ad udire porgevi,
come se, giù la Terra, su l’illimite Cielo
si mescolassero: tanto suonava tremendo il frastuono:
ché giù franava quella, ché il Cielo dall’alto crollava>> 9.
La caduta dei Titani, Von Peter Paul Rubens,
1637-1638, Musée Royaux des Beaux Arts, Brüssel
Questo è un momento fondamentale nella mitica storia dell’universo, poiché la vittoria di Zeus “appare non
soltanto come un modo per sconfiggere il proprio avversario, nonché padre, Crono, ma anche come un
espediente per creare di nuovo il mondo, per dargli daccapo un ordine a partire dal Caos e Voragine in cui
niente è visibile, dove tutto è disordine”. 10 Non dobbiamo infatti dimenticare che kòsmos (universo) significa
anche ordine, quasi a voler sottintendere che l’universo non è un’accozzaglia informe e incomprensibile di
eventi, ma una totalità regolata e strutturata di cui è possibile intendere il senso.
1.2 - Meraviglia, ordine e significato
Il rapporto tra ordine e significato è stato magistralmente analizzato da Claude Lévi-Strauss in una serie di
conferenze radiofoniche della CBC (1977), raccolte poi nel libro Mito e significato, del 1978.
Qui Lévi-Strauss ci racconta di essere sempre stato ossessionato, fin da quand’era bambino, dall’irrazionale,
e di aver sempre cercato di trovare un ordine dietro a quello che ci appare come disordine:
<<E quando, dopo aver lavorato sui sistemi di parentela e le regole matrimoniali, rivolsi la mia
attenzione…alla mitologia, mi ritrovai di fronte al medesimo problema… Credo sia assolutamente
impossibile concepire il significato senza l’ordine…Che cosa significa “significare”? Mi sembra che
l’unica risposta possibile sia questa: la parola “significare” sta a indicare la possibilità che dei dati di qualsiasi
genere hanno di venir tradotti in un’altra lingua. Per “altra lingua” non intendo il francese o il tedesco, bensì
parole diverse ad un diverso livello. In fondo, è il tipo di traduzione che dovrebbe darci un dizionario: il
significato di una parola in parole differenti le quali, su un piano leggermente diverso, sono isomorfe alla
parola o all’espressione che vogliamo capire. Ora, che cosa sarebbe una traduzione senza regole? La
comprensione sarebbe assolutamente impossibile: non si può sostituire una parola con un’altra parola
qualsiasi, una frase con una frase qualsiasi: la traduzione deve seguire delle regole. Parlare di regole e
parlare di significato è la stessa cosa, e se guardiamo le imprese intellettuali dell’uomo, quali sono state
raccolte e tramandate in tutto il mondo, il comune denominatore è sempre il tentativo di introdurre una
qualche specie di ordine.
8
Esiodo, La Teogonia, op. cit., Prefazione, pagg. XVII-XVIII
Esiodo, La Teogonia, op. cit., pag. 73
10
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, op. cit., pag. 28
9
Se ciò indica che la mente umana ha un fondamentale bisogno di ordine, e poiché dopotutto la mente
umana non è che una parte dell’universo, probabilmente questo bisogno esiste perché nell’universo vi è un
certo ordine, perché l’universo non è un caos >>.11
Nella Teogonia l’ordine (kòsmos)viene così ristabilito:
La caduta dei Titani, von Cornelis van Haarlem, 1588,
Statens Museum for Kunst, Kopenhagen
“..Titani sono precipitati a terra. Zeus li fa cadere
sotto i colpi di frusta del suo fulmine e sotto la
stretta degli Ecatonchiri ….. i Centobraccia
rovesciano loro addosso un cumulo massiccio
di pietre sotto il cui peso non possono più
muoversi …In quanto immortali Titani non
possono essere uccisi, ma vengono ricondotti
nel Caos sotterraneo, ricacciati nel Tartaro
tenebroso…E affinché i Titani non possano mai
più risalire in superficie, Poseidone viene
incaricato di costruire un baluardo intorno a
quella sorta di strozzatura che, nelle profondità
della terra, costituisce lo stretto passaggio
diretto al mondo sotterraneo e ricco d’ombre del
Tartaro. Attraverso questa strozzatura, così
come per la bocca di una giara, affondano tutte
le radici che la terra insinua nelle tenebre per
ancorarsi e assicurarsi stabilità. E’ là che
Poseidone eleva una triplice cinta muraria in
bronzo e, ai piedi delle mura, elegge e investe
i Centobraccia a guardiani fedeli di Zeus”.12
Immaginiamo quindi, con Esiodo, “un’immensa giara terminata da un collo stretto, da dove spuntano le radici
del mondo. Nella giara, turbini di vento soffiano in tutti i sensi: è il mondo del disordine, d’uno spazio non
ancora orientato. Le cosmogonie raccontano appunto come Zeus, divenuto re dell’universo, abbia tappato
per sempre il collo della giara: ha sigillato per sempre questa apertura, perché il mondo sotterraneo del
disordine …non possa più emergere alla luce”. 13
Come si può notare l’equilibrio così faticosamente
raggiunto è contemporaneamente “fisico” e “politico”,
dimensioni tenute insieme dalla spiegazione
antropomorfica. Infatti il trionfo di Zeus rappresenta,
al tempo stesso, la stabilità della terra che si ancora
con le sue radici nelle profondità del Tartaro e
l’ordine politico di un re che sa gestire
diplomaticamente il potere. Mentre Urano (che
relegava i figli nel buio del ventre materno) e Crono
(che li divorava) rappresentano i tipi dei tiranni
assoluti che, pur di conservare il potere, non esitano
a sopprimere i parenti e magari i figli, con Zeus
siamo in presenza di una monarchia temperata: il Re
comanda, ma con l’assistenza di un gran consiglio.
Immagine perfetta della monarchia che vediamo
riflessa nei poemi d’Omero. Il potere di Zeus, che
tiene in ordine il mondo, è basato sul consenso. Sono
gli dèi Olimpici, suoi fratelli e sorelle (Poseidone,
Ade, Era, Demetra…) che, una volta constatata la
situazione creatasi con i Titani, decidono che la
sovranità spetta a Zeus. Questi, da parte sua,
spartisce, con grande giustizia, gli onori fra le divinità,
“istituendo un universo gerarchizzato, ordinato,
organizzato e che, di conseguenza, avrà anche
solidità e stabilità.
11
Luigi Sabatelli, L’Olimpo (Convito degli dèi),
1850 – Sala dell’Iliade – Palazzo Pitti, Firenze
Claude Lévi-Strauss, Mito e significato, Il Saggiatore, MI, 1980, pagg. 25-26
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, op. cit., pagg. 28-29
13
Vernant, Mito e pensiero preso i greci, Einaudi, TO, 2000, pag. 130
12
Il teatro del mondo è preparato, la scena è allestita. In alto, sulla sommità dell’universo regna Zeus, colui che
ha dato ordine a un mondo originariamente nato dal Caos”.14
Se ora paragoniamo questa immagine mitica con la spiegazione che uno dei primi filosofi, Anassimandro,
ci fornisce della stabilità della terra, ci rendiamo subito conto della differenza fondamentale tra mito e
filosofia.
2 - Dal mito alla filosofia (logos)
Per Anassimandro la terra è una sorta di cilindro che sta sospeso in mezzo al
cosmo, cioè rimane stabile e immobile senza essere sostenuto da alcunché,
perché, trovandosi a eguale distanza da tutti i punti della circonferenza celeste,
non ha nessuna ragione per muoversi verso destra piuttosto che a sinistra,
verso l’alto invece che verso il basso.
Schema dell’universo secondo Anassimandro
Ricostruzione della
carta universale della
Terra di
Anassimandro,
secondo
A. Herrmann
Con Anassimandro assistiamo quindi alla nascita di una nuova concezione dello spazio cosmico e di un
nuovo tipo di spiegazione dei fenomeni. Non si tratta più dello spazio mitico, con le sue radici e la sua
giara, né della spiegazione antropomorfica che fa dipendere l’equilibrio astrofisico dall’equilibrio politico
instaurato dal regno di Zeus, ma di uno spazio geometrico e di una spiegazione logica (basata sul logos).
Mentre nello spazio mitico l’alto e il basso hanno un significato politico (alto = spazio di Zeus e degli dèi
immortali), la destra (propizia) e la sinistra (funesta) un significato religioso, nello spazio geometrico di
Anassimandro le direzioni non hanno più un valore assoluto, ma relativo, essendo lo spazio omogeneo e
costituito da rapporti simmetrici e reversibili: quello che a noi appare come l’alto costituisce, per gli abitanti
degli antipodi, il basso e quello che forma la nostra destra per loro trova a sinistra.
2.1 - Polis democratica e logos
Come si può spiegare un mutamento così radicale nel modo di interpretare i fenomeni avvenuto tra l’età di
Esiodo quella di Anassimandro?
Forse la risposta alla domanda va cercata nelle profonde trasformazioni sociali ed economiche verificatesi in
Grecia, tra il VII e il VI secolo a. C., riassumibili in quel fondamentale fenomeno politico che è l’avvento della
polis democratica.
14
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, op. cit., pag. 30
Questo tipo di organizzazione socio-economica e
politica, affermatasi inizialmente nelle città costiere
della Ionia (Mileto, Efeso, Colofone, Clazomene,
Samo) trasforma e plasma, al tempo stesso, un
nuovo modo di pensare e di affrontare i problemi,
non solo quelli pratici, ma anche quelli di natura
teoretica. Come osserva acutamente Vernant:
<< Le istituzioni della città non implicano solo
l’esistenza d’un “campo politico”, ma anche d’un
“pensiero politico”. L’espressione che designa il
campo politico: ta koina, significa: “ciò che è
comune a tutti”, “gli “affari pubblici”.
Infatti vi sono, per i Greci, nella vita umana, due
piani ben separati: un dominio privato, familiare,
domestico (quel che i Greci chiamano “economia”:
oikonomia) e un dominio pubblico, che comprende
tutte le decisioni d’interesse comune, tutto ciò che
fa della comunità un gruppo unito e solidale, una
polis nel senso proprio.
Nell’ambito delle istituzioni della città (questa città che sorge precisamente fra l’età d’Esiodo e quella
d’Anassimandro), niente di quel che appartiene al dominio pubblico può più esser regolato da un individuo
unico, fosse questi anche il re. Tutte le cose “comuni” devono essere oggetto d’un libero dibattito, d’una
discussione pubblica nella piena luce dell’agorà, sotto forma di discorsi argomentati, fra coloro che
compongono la collettività politica. La polis presuppone dunque un processo di desacralizzazione e di
razionalizzazione della vita sociale.
Antica agorà di Atene
Non c’è più un re sacerdote
che, mediante l’osservanza
d’un calendario religioso,
faccia, in nome del, e per il
gruppo umano, tutto ciò che
è da farsi; sono gli uomini a
prendere loro stessi in mano
il loro destino “comune”, a
decidere di esso dopo
discussione (quando dico gli
uomini, parlo, beninteso,
unicamente dei cittadini, ché,
come si sa, questo sistema
politico presuppone che altri
uomini
siano
votati
all’essenziale del lavoro
produttivo)…..
Il logos, strumento di questi pubblici dibattiti, prende perciò un duplice senso: da una parte, è la parola, il
discorso che pronunciano gli oratori all’assemblea; ma è anche la ragione, questa facoltà d’argomentare
che definisce l’uomo in quanto non è semplicemente un animale ma, come “animale politico”, un essere
ragionevole. A quest’importanza che prende allora la parola, diventata ormai lo strumento per eccellenza
della vita politica, corrisponde anche un cambiamento nel significato sociale della scrittura.
Nei regni del Medio Oriente, la scrittura era specialità e privilegio degli scribi; permetteva all’amministrazione
reale di controllare, tenendone la contabilità, la vita economica e sociale dello stato… questa forma di
scrittura è esistita nel mondo miceneo fra il 1450 e il 1200 a.C., ma scompare nella rovina della civiltà
micenea e, al momento in cui ci poniamo, cioè al momento della nascita della città, sostituita da una scrittura
che ha una funzione esattamente inversa. Invece d’esser privilegio d’una casta, segreto d’una classe di
scribi che lavora per il palazzo del re, la scrittura diviene “cosa comune” a tutti i cittadini, uno strumento di
pubblicità; permette di immettere nel dominio pubblico tutto quello che, superando la sfera privata, interessa
la comunità.
Le leggi debbono essere scritte; in tal modo diventano veramente cosa di tutti. Le conseguenze di questa
trasformazione dello statuto sociale della scrittura saranno fondamentali per la storia intellettuale: se la
scrittura permette di rendere pubblico, di porre sotto gli occhi di tutti, quello che nelle civiltà orientali restava
sempre più o meno segreto, ne risulta che le regole del gioco politico, cioè il libero dibattito, la discussione
pubblica, l’argomentazione contraddittoria diverranno anche le regole del gioco intellettuale. Come gli affari
politici, anche le conoscenze, le scoperte, le teorie di ogni filosofo sulla natura saranno messe in comune,
diverranno “cose comuni”: Koina >>.15
2.2 - Logos e scrittura
Quando un filosofo scrive un libro << Trasforma un sapere privato in oggetto di un dibattito analogo a quello
che ha luogo nelle questioni politiche. Effettivamente, Anassimandro discuterà le idee di Talete, Anassimene
quelle di Anassimandro, ed è attraverso questi dibattiti e queste polemiche che si costituirà il campo proprio
della filosofia. A me sembra che, se la cosmologia greca ha potuto liberarsi dalla religione, se il sapere
concernente la natura s’è desacralizzato, è perché nello stesso tempo, la vita sociale s’era essa stessa
razionalizzata, perché l’amministrazione della città era divenuta un’attività in gran parte profana >>. 16

Il nesso tra scrittura e logos (quindi tra scrittura e filosofia) viene messo in luce anche da uno studio, ormai
classico, di Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone 17, in cui si sostiene che
l'introduzione di questa tecnica di comunicazione avrebbe liberato le energie fino ad allora impegnate nella
memorizzazione del sapere orale e permesso il passaggio dal linguaggio concreto al linguaggio astratto.
Lo scrittore che usa la scrittura alfabetico–lineare entra in una epoca nuova nella quale la trasmissione dei
suoi contenuti si libera del rapporto immediato e diretto con un pubblico fisicamente presente.
La cultura orale (quella dell’Iliade e dell’Odissea) si trasmette con la memoria e deve essere organizzata per
la memoria; la sua sintassi e il suo lessico dipendono dalle esigenze della memoria. Per Havelock essa ha
perciò bisogno di basarsi su immagini concrete e sulla legge dell’analogia con cui tali immagini si connettono
e richiamano. La scrittura invece non ha bisogno delle immagini concrete e dei loro nessi analogici e lascia
libere tutte le energie per la costruzione di un logos astratto, astratto come il suo pubblico:
generico, invisibile, assente, distante nel tempo e nello spazio, quindi a-storico e universale.
Mentre la comunicazione orale segue le regole della rappresentazione teatrale, in cui trionfa la mimesi, la
scrittura raffredda e razionalizza inesorabilmente. Nel caso specifico, dato che la scrittura greca fu introdotta
a partire dal V secolo a. C. e raggiunse la sua massima diffusione tre secoli dopo, Platone viene ripensato
come il filosofo tipico della svolta; non a caso egli entra in contrasto con l’etica e il sapere connesso con la
poesia epica, in quanto basati sulla mimesi e non sulla verità dei concetti ideali astratti.
2.3 - Mito, logos e universalità

Nella filosofia antica il termine logos, derivato etimologicamente da légo = raccogliere, implicava quasi
sempre un duplice significato. Da un lato significava mettere insieme (raccogliere) le parole in modo da
costruire un discorso dotato di senso, quindi razionale, coerente, non contraddittorio. Dall’altro lato logos è
anche la legge universale che lega insieme tutto ciò che accade, legge razionale che governa l’universo, al
di là dell’apparente disordine e accidentalità dei fenomeni che ci circondano.
Proprio la convinzione che l’universo sia dotato di senso perché intriso di razionalità (= ordine = kòsmos =
intelligibilità, e non caos…) porta i primi filosofi alla ricerca di un principio (archè) costitutivo di tutte le cose
che contenga in sé anche una forza che, agendo secondo una legge necessaria, presieda a tutte le
trasformazioni nell’incessante divenire delle cose.
Ma prima di addentrarci nelle speculazioni fisico-cosmologiche dei primi filosofi ionici, consideriamo un
ultimo importante aspetto che accomuna il mito e la filosofia, ovvero la ricerca dell’universalità.
Come scrive Aristotele nella Poetica:
<< […] ufficio del poeta non è descrivere cose realmente accadute, bensì quali possono [in date condizioni] accadere:
cioè cose le quali siano possibili secondo le leggi della verosimiglianza o della necessità. Infatti lo storico e il poeta non
differiscono perché l’uno scriva in versi e l’altro in prosa […]: la vera differenza è questa, che lo storico descrive fatti
realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere. Perciò la poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato
della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare >> 18.
Ora, considerando che la poesia di cui parla Aristotele consiste sostanzialmente nei poemi di Omero ed
Esiodo, in che senso i racconti mitici in essi contenuti, pur non essendo realisticamente mai accaduti,
possono esprimere l’universale, mentre la storia, realmente accaduta, descrive il particolare?
15
Vernant, Mito e pensiero preso i greci, op. cit., pagg. 132-133
Vernant, Mito e pensiero preso i greci, op. cit., pag. 134
17
Eric A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone, Roma, Bari, 1973 (tr. Da: Preface to
Plato, Cambridge, Mass. - USA, 1963)
18
Aristotele, Poetica, in Opere, a cura di Giannantoni, Laterza, Roma-Bari, 1973, p. 9
16
Si può tentare di rispondere a questa domanda attraverso una domanda ulteriore: cosa succede agli
individui quando ascoltano fin da bambini, ripetutamente e con enfasi lirica, le gesta degli Déi e degli eroi?
La risposta che il buon senso e la ricerca psicologica ci danno è che negli individui si forma l’immagine
dell’uomo che essi sono tenuti idealmente ad imitare; ovvero i miti, in particolare quelli a sfondo storicosociale come l’Iliade e l’Odissea, forniscono alla coscienza collettiva della loro epoca i modelli umani da
seguire, ovvero l’areté (virtù), termine che i greci usavano per esprimere “il modo migliore di essere di
qualcosa”, in questo caso dell’uomo. In questo senso i miti svolgono una funzione eminentemente educativa,
nel senso più ampio del termine, cioè di formazione dell’uomo. Inoltre, come tutti i modelli, nel momento in
cui si formano, hanno la pretesa di essere eterni e universali, cioè di valere per tutte le epoche della storia
e per tutti gli uomini.
È così che, ascoltando i versi di quel grande poema che è l’Iliade, un giovane membro della civiltà micenea
interiorizzava il modello di un eroe che rappresenterà per gli uomini la somma delle virtù guerriere: il
migliore, l’ineguagliabile Achille, figlio di Peleo (un re umano) e Teti (ninfa del mare, figlia di Nereo e Doride,
la più bella delle Nereidi che alla nascita immerse il figlio nello Stige per renderlo invulnerabile, eccetto che
per il tallone).
Ma il mito non si limita a fornire un modello
universale di comportamento (nel caso specifico:
la forza, il coraggio, la velocità… virtù tipiche di
una civiltà guerriera), bensì affronta anche,
sempre sotto forma di exempla, le più
drammatiche tematiche esistenziali, come la
morte e l’eternità.
Se proviamo a prescindere da qualsiasi
presupposto religioso, una volta superata la metà
del “cammin di nostra vita”, come non porci la
domanda sul significato della nostra esistenza
all’approssimarsi della morte? Come evitare di
interrogarci sul nostro destino, sul destino del
nostro nome, nella memoria dei posteri? Come
lasciare traccia della nostra vicenda umana tra gli
uomini, in modo tale che il travaglio della nostra
personalissima vita abbia un minimo di senso? In
breve, come possiamo renderci immortali?
Ora, se proviamo a proiettarci nella dimensione
antropologica dell’Iliade, troviamo Achille di fronte
a un “bivio” che rappresenta il dramma dell’uomo
di fronte a una scelta fondamentale:
Teti immerge Achille nello Stige, Rubens,
Museum di Rotterdam
<< Alle soglie della propria vita, fin dai primi
passi, la strada sulla quale deve avanzare si
biforca. Qualunque sia la direzione che sceglierà
di prendere, sarà necessario, per seguirla,
rinunciare a una parte essenziale di se stesso.
Non è possibile nello steso tempo gioire di ciò che l’esistenza condotta alla luce del sole offre di più dolce
agli umani, e insieme assicurarsi il privilegio di non esserne mai privato, di non morire. Gioire della vita, il
bene più prezioso per le creature effimere, … è rinunciare ad ogni speranza di immortalità. Volersi immortali
significa, in parte, accettare di perdere la vita prima ancora di averla pienamente vissuta. Se Achille
scegliesse, come gli consiglia il vecchio padre, di vivere a casa, a Ftia, in famiglia e in sicurezza, avrebbe
una vita lunga, piacevole e felice, completando l’intero ciclo dell’esistenza concessa a un mortale … Ma, per
quanto brillante possa essere, sebbene allietata da tute le felicità che il passaggio su questa terra può
portare agli uomini, la sua esistenza non lascerà dopo di sé traccia alcuna del proprio splendore; dall’istante
in cui volge al termine, questa vita sprofonda nella notte, nel nulla…. Orbene, Achille sceglie l’opzione
contraria: la vita breve e la gloria per sempre. Sceglie di andare lontano, di lasciare tutto, di rischiare tutto, di
consacrarsi in anticipo alla morte. Vuol far parte di quell’esigua schiera di eletti che non si curano né degli
agi, né delle ricchezze, né degli onori ordinari, ma che vogliono piuttosto trionfare nei combattimenti in cui la
posta in gioco, ogni volta, è la loro propria vita. Affrontare in battaglia gli avversari più forti e agguerriti,
significa mettersi costantemente alla prova in una gara di valore in cui ciascuno deve mostrare chi è, rivelare
agli occhi di tutti la propria eccellenza, un’eccellenza che ha il proprio culmine nelle gesta guerriere, e che
trova il proprio compimento nella “bella morte”. Nel pieno del combattimento, nel pieno della giovinezza, le
forze virili, il coraggio, l’energia, la grazia intatte non conosceranno così mai la decrepitezza della vecchiaia.
Così, per brillare nella purezza del suo
splendore, la fiamma della vita doveva
essere portata a un punto tale di
incandescenza da consumarsi
nell’istante stesso in cui si era accesa.
Achille sceglie la morte in gloria, nella
bellezza garantita di una vita per sempre
giovane. Vita accorciata, amputata,
riassunta, e gloria immortale.
Il nome di Achille, le sue avventure,
la sua storia, la sua persona restano
per sempre vive nella memoria degli
uomini, le cui generazioni si succedono,
secolo dopo secolo, per poi scomparire
tutte, le une dopo le altre, nell’oscurità
e nel silenzio della morte >>19.
Giulio Romano, Teti e Achille
Parte di un complesso
programma decorativo
eseguito nelle sale di
Palazzo Ducale a Mantova.
Se Achille è un “superuomo” che rappresenta il modello di una civiltà guerriera, Ulisse è << l’eroe della
metis, dell’astuzia, della capacità di trovare soluzioni all’inestricabile, di mentire, di raggirare le persone, di
raccontare loro sciocchezze e di sapersela cavare sempre al meglio >> 20.
Tiepolo, Trasporto in
città del cavallo di Troia,
1760, Londra, National
Gallery.
Dopo dieci anni di vani e
sanguinosi tentativi di
abbattere le mura di Troia
da parte dei Greci, è
Ulisse che, ideando il
gigantesco cavallo di
legno, riesce, con l’astuzia
e l’inganno, laddove non
bastarono la forza e il
coraggio.
L’areté di Ulisse è mirabilmente espressa e immortalata per sempre nel XXVI canto dell’Inferno, quando
l’eroe greco così risponde a Dante:
<< …né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo quale dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
19
20
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, op. cit., pagg. 90-91
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, op. cit., pag. 99
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
…”O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
de’ nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”. >>21
E’ un’areté che si addice ad un nuovo tipo di civiltà, più progredita rispetto a quella dell’Iliade. Quest’ultima,
probabilmente scritta attorno all’VIII sec. a.C., si riferisce alla civiltà “micenea” degli Achei (1400-1200 a.C.) e
all’età del bronzo. Ora, anche se l’Odissea è il racconto del ritorno da Troia nei dieci anni successivi alla sua
caduta, molto probabilmente il suo sfondo storico corrisponde all’inizio dell’età del ferro (VII sec. a.C.) e alla
civiltà ionica, con lo sviluppo dell’artigianato, del commercio e, quindi, della navigazione nel Mediterraneo,
dell’esplorazione, della scoperta, dell’incontro e dello scontro con l’altro e il diverso.
La figura di Ulisse-Odisseo si erge a modello eterno e universale di questo tipo d’uomo che parte, che vive
nella nostalgia del ritorno, ma che, al tempo stesso, è curioso delle novità, ama conversare e conoscere
l’ignoto, indugiare nel suo viaggio, per tornare più “ricco”, più saggio di quando era partito, in sintesi: per
realizzare la propria umanità.
Gli esempi più emblematici di queste virtù sono certamente (oltre all’ideazione del cavallo di Troia) l’incontro
con il ciclope Polifemo e quello con le Sirene.
Mentre i suoi compagni, sbarcati sull’isola dei Ciclopi (giganti mostruosi, con solo occhio in mezzo alla fronte,
mangiatori di uomini) per fare provviste, di fronte all’inquietante caverna del mostro tornerebbero volentieri
alla nave per salpare, Ulisse si rifiuta. << Ulisse vuole restare perché vuole vedere. Vuole conoscere
l’abitante di quello strano luogo. Ulisse non è soltanto l’uomo che deve ricordarsi, ma colui che vuole vedere,
conoscere, sperimentare tutto ciò che può offrigli il mondo, anche questo mondo subumano in cui si trova
gettato >>22.
Vestibolo di Polifemo.
Pavimento a mosaico, Piazza Armerina, Villa romana del Casale (III-IV sec. d.C.).
21
22
Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, XXVI Canto, vv. 94-120
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, op. cit., pag. 97
È’ opinione diffusa
che siano stati i
ritrovamenti di resti
fossili di elefanti nani
della Sicilia a
originare il mito dei
Ciclopi. Infatti, i
teschi degli elefantini
sono di dimensioni
poco più che umani
ed evidenziano un
incavo centrale,
prodotto
dall’attaccamento
della proboscide,
che nelle
rappresentazioni
fantastiche dei
navigatori e dei primi
coloni, potrebbe
essere divenuto il
bulbo oculare dei
giganti con un
occhio circolare al
centro della fronte.
Quando sopraggiungerà il ciclope Polifemo, figlio del dio Poseidone, Ulisse, prevedendo gli sviluppi futuri
dell’azione, gli offrirà un vino soporifero e si presenterà con il nome di “Nessuno” così che, quando Polifemo,
dopo essere stato accecato nel sonno, chiamerà i suoi fratelli in aiuto e questi gli chiederanno chi lo
minaccia, egli risponderà: “nessuno!”, restando senza soccorso di fronte all’astuzia dell’eroe.
La stessa brama di conoscenza,
mista alla massima scaltrezza, si
ritrova nel celebre incontro con le
seducenti, ma mortifere Sirene.
Ulisse non vuole passare vicino alle
Sirene senza aver udito il loro canto
ammaliatore e senza sapere cosa
cantano. Allora si fa legare all’albero
della nave costringendo i suoi
compagni a remare imperterriti con
le orecchie tappate di cera,
diventando l’unico uomo ad aver
ascoltato il richiamo erotico-mortale
delle Sirene, senza essere morto!
Draper, Ulisse e le Sirene,
Hull, Ferens Art Gallery
Possiamo concludere questa breve rassegna sull’universalità (“filosoficità”) del mito, ricordandoci del valore
universale del mito di Edipo, sia dal punto di vista psicologico che antropologico.
Come quasi tutti sanno Edipo è un eroe tebano che, a sua insaputa, uccide il padre Laio, re di Tebe, sposa
la madre Giocasta (dopo aver sconfitto la Sfinge che perseguitava Tebe, risolvendo l’enigma sulle tre età
dell’uomo), ha dei figli dalla madre che sono anche suoi fratelli e sorelle; scopre tutto questo, dopo una
drammatica indagine sull’uccisione di Laio, e si acceca con i fermagli della veste della madre/moglie
Giocasta che, nel frattempo, si è impiccata.
Edipo e la Sfinge, Coppa
(480 a.C.), Musei Vaticani
Dal punto di vista psicologico, o meglio psicoanalitico, il mito è
stato assunto da Freud a paradigma del conflitto di amore/odio
tra bambino, madre e padre che struttura la famiglia
mononucleare occidentale, il cosiddetto “complesso di Edipo”,
che si verifica fra i tre e i sei anni, all’interno della cosiddetta
“situazione edipica”.
Il bambino maschio, in particolare, durante la cosiddetta fase
“falllica”, vivrebbe contemporaneamente una pulsione “erotica”
nei confronti della madre, alla quale è affettivamente attaccato fin
dalla nascita, e una pulsione aggressiva nei confronti di
quell’intruso che è il padre. Contemporaneamente, essendo la
sua libido concentrata sulla zona fallica, il conflitto con il padre è
vissuto dal bambino come “complesso di castrazione” da parte di
quest’ultimo.
Nello sviluppo “normale” del bambino, secondo la teoria
freudiana, questo complesso verrà superato tra i sei e i sette
anni, tramite il meccanismo di difesa dell’identificazione con
l’aggressore (padre) e conseguente formazione del Super-Io.
Dal punto di vista antropologico, invece, il mito, come osserva Vernant: << pone il problema della continuità
sociale, del mantenimento delle condizioni, delle funzioni, delle posizioni in seno alle culture, a dispetto del
flusso delle generazioni che nascono, regnano e poi spariscono, cedendo il posto alle successive. Il trono
deve restare lo stesso, mentre quelli che lo occupano sono sempre diversi. Come può il potere reale restare
uno e stabile, quando coloro che lo esercitano, i re, sono numerosi e diversi?
Il problema è sapere come il figlio del re possa diventare
re come suo padre, possa prendere il suo posto senza
scontrarsi con lui o eliminarlo. In quale modo il flusso delle
generazioni, la successione degli stadi che segnano
l’umanità e che sono legati alla temporalità,
all’imperfezione umana, possono procedere di pari passo
con un ordine sociale che deve restare stabile, coerente e
armonico?>>.23
Nello stesso enigma posto dalla Sfinge è contenuta tutta la
mostruosità del destino di Edipo:
“Qual è l’essere, il solo fra quelli che abitano la terra,
l’acqua e l’aria, che ha una sola voce, un solo modo
di parlare, una sola natura, ma che ha due piedi (dipous),
tre piedi (tripous) e quattro piedi (tetrapous)?”.
Il giovane Edipo risolve l’enigma indicando l’uomo che,
quando è bambino cammina a quattro zampe, quando
è adulto con due gambe e, quando è vecchio, si appoggia
ad un bastone per aiutare la sua incerta andatura.
Ma, in realtà, il “mostro” a cui allude l’enigma della Sfinge,
che è contemporaneamente a due, a tre e a quattro gambe,
è lo steso Edipo! Infatti: << l’eroe ha mescolato i tre
stadi dell’esistenza umana. Ha sconvolto il corso regolare
delle stagioni, confondendo la primavera della gioventù
con l’estate dell’età adulta e con l’inverno della vecchiaia.
Nell’istante in cui uccideva il proprio padre, si identificava
con lui prendendone il posto sul trono e nel letto di sua madre.
Generando figli dalla propria madre, inseminando il campo
che gli aveva dato la luce - come dicevano i Greci -, si
identificava non soltanto con suo padre, ma con i propri
figli, che sono insieme i suoi figli e i suoi fratelli, le sue figlie
e le sue sorelle >>.24
Gustave Moreau, Edipo e la Sfinge, 1864, Metropolitan Museum, New York
23
24
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, op. cit., pag. 173
Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, op. cit., pagg. 172-173
DAL MITO AL LOGOS:
La nascita della filosofia in Grecia nel VI sec. a. C.
PAROLE CHIAVE
Antropomorfismo: dal greco ànthropos (uomo) e morphé (forma). Concezione mitico-religiosa che
attribuisce agli déi, o alla natura divinizzata, sembianze, atteggiamenti e comportamenti umani.
Archè: “principio” costitutivo di tutte le cose che contiene in sé una “forza”, la quale, agendo secondo una
“legge” necessaria, presiede a tutte le trasformazioni nell’incessante divenire del mondo.
Areté: “virtù”; termine che i greci usavano per esprimere “il modo migliore di essere di qualcosa”, in
partivcolare, il modo migliore di essere uomini.
Cosmo: dal greco kòsmos (universo) che significa anche “ordine”, sottintendendo quindi l’idea dell’ordine
dell’universo, ovvero che l’universo non è qualcosa di caotico, ma una totalità di enti ordinati da leggi.
Cosmogonia: dal greco kòsmos, universo, e ghìghnomai, io genero, è una spiegazione mitica dell’origine
e della formazione del mondo. Nella Teogonia di Esiodo coincide con la generazione degli dèi.
Edipo (complesso di): conflitto psichico inconscio per cui, secondo la psicoanalisi freudiana, Il bambino
maschio durante la cosiddetta fase “falllica”, vivrebbe contemporaneamente una pulsione “erotica” nei
confronti della madre, alla quale è affettivamente attaccato fin dalla nascita, e una pulsione aggressiva nei
confronti del padre. Contemporaneamente, essendo la sua libido concentrata sulla zona fallica, il conflitto
con il padre è vissuto dal bambino come “complesso di castrazione” da parte di quest’ultimo.
Filosofia: dal greco philèin, amare, e sophìa, sapienza, da cui, letteralmente, “amore del sapere”. Si tratta
di un’indagine razionale e disinteressata della realtà naturale e umana, volta a metterne in luce i principi che
ne stanno alla base.
Logos: derivato etimologicamente da légo (raccogliere), implicava quasi sempre un duplice significato: da
un lato significava mettere insieme (raccogliere) le parole in modo da costruire un “discorso” dotato di senso,
quindi razionale, coerente, non contraddittorio; dall’altro lato logos significava anche la “legge” universale
che lega insieme tutto ciò che accade, legge razionale che governa l’universo, al di là dell’apparente
disordine e accidentalità dei fenomeni che ci circondano.
Metis: astuzia prudente, capacità di prevedere tutto ciò che accadrà, di trovare soluzioni all’inestricabile.
Nella mitologia greca è la prima moglie di Zeus, il quale, sfruttando il potere di metamorfosi della sua sposa,
le chiede di trasformarsi in una goccia d’acqua per ingoiarla subito dopo, diventando egli stesso metis.
Mito: dal greco mythéo (io racconto o narro). Si tratta di narrazioni verosimili e fantastiche riguardanti i
fenomeni naturali, le vicende degli dèi e degli uomini, nel tentativo di individuarne il senso.
DAL MITO AL LOGOS:
La nascita della filosofia in Grecia nel VI sec. a. C.
BIBLIOGRAFIA UTILIZZATA
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Romagnoli, Zanichelli , BO, 1929
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