Bioetica e il riconoscimento di "nuovi diritti"

Dott. Alessandro Pizzo
BIOETICA NELLA PROSPETTIVA DEI DIRITTI
Di Alessandro Pizzo∗
Si fa un gran parlare oggi di bioetica, non appare possibile entrare in contatto col mondo
senza che qualsiasi aspetto del nostro vivere non cada sotto la lente d’ingrandimento dei
bioeticisti, non si può vivere senza discutere (o impegnarsi in) di temi bioetici, quasi che
ciascuno fosse improvvisamente esperto della materia. È quasi una moda (trendy). È quasi la
koinè della cultura occidentale: parlare di bioetica (come se ne fossimo esperti). In questo
senso, appare chiaro il tono polemico assunto da uno dei maggiori esponenti italiani del
settore, Eugenio Lecaldano, secondo il quale oggi troppo e in troppi si parla di bioetica, si ha
la pretesa di (saper) fare “bioetica”1. Certo si potrebbe pertanto rivolgere la stessa accusa nei
confronti di chi scrive; tuttavia, la nostra pretesa non è prescrittiva, dire come dovrebbe essere
la bioetica, come dovrebbero pensare gli uomini, ma descrittiva, ricostruire il significato della
materia e dire anche quali, a nostro sommesso parere, appaiono essere le due argomentazioni
principali nel dibattito bioetico. Infine, dulcis in fundo, dire anche come la bioetica si collochi
rispetto all’ambito normativo, se la nuove pretese individuali debbano/possano entrare a far
parte del corpus normativo della (una ipotetica) società, alla stregua di “nuovi diritti”
(soggettivi). Come si vede, dunque, la nostra è una prospettiva di filosofia del diritto: parlare
di bioetica per valutare la dinamica in forza della quale si annoverano precise ricadute
normative a seguito delle richieste bioetiche2.
Cos’è la bioetica? Godiamo (o, soffriamo) di tante definizioni le quali, lungi dall’avere il
pregio che la pluralità sovente possiede, contribuiscono a confondere ulteriormente. Ragion
per cui, forse, è bene fornire una definizione che possa essere comprensiva delle varie
proposte forniteci negli anni, ma che consenta di comunicare una nozione la più chiara
possibile. Pertanto, noi abbiamo una definizione originale (o, storica) di chi per primo ha
coniato il neologismo ‘bioetica’ e la definizione attuale di ‘bioetica. La prima possiede un
significato storicamente determinato, la seconda il significato che, sia pure confusamente, le
attribuiamo. Così,
[DSTORICA] la bioetica è la “scienza della sopravvivenza” dei malati oncologici;
[DATTUALE] la bioetica è l’«etica della vita».
La prima definizione è stata data dal medico statunitense Van Rensselaer Potter nel 1970 e
indicava l’insieme degli elementi che concorrono al benessere (ben – essere, la «qualità della
vita») dei malati di cancro3. Successivamente, il neologismo ha allargato il proprio orizzonte
semantico abbracciando la tutela del futuro per le generazioni a venire (una sorta di tutela
delle possibilità di sopravvivenza per le future generazioni).
La seconda definizione, che assomma in sé i significati possibili attribuiti oggi al lemma,
affonda le proprie radici nell’etimologia del termine. Infatti, dal greco bios ed ethos, vita e
etica, otteniamo il sema «etica della vita»4.
Mettendo tra parentesi il primo significato, oggi non più attuale, perlomeno a livello di
evidenza sulla scena, nelle discussioni pubbliche, concentriamoci sul secondo.
Perché (un’) etica della vita? La vita necessita di un’etica? Cosa può l’etica nei confronti
della vita? La domanda non è oziosa. Infatti, il collegare due termini, etica e vita, implica che
l’orizzonte di senso sia preciso e nasca dalla loro reciproca congiunzione: etica per la vita. Ma
∗
Alessandro Pizzo è Dottorando di Ricerca in Filosofia (XIX Ciclo) c/o Università degli Studi di Palermo
(www.fieri.unipa.it/lablogica).
1
E. Lecaldano, La bioetica. Scelte morali, Laterza, Roma – Bari, 1999.
2
Un esempio di influenza da parte della tecnologia sulla percezione di “nuovi diritti” può aversi in filosofia del
diritto. V. C. Faralli, Parte seconda. Dagli anni settanta all’inizio del XXI secolo, aggiunta a: G. Fassò, Storia
della filosofia del diritto III. Ottocento e Novecento, Laterza, Roma – Bari, 2006
3
G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Bruno Mondatori, Milano, 2005, p. 1 e sgg.
4
M. Aramini, Introduzione alla bioetica, Giuffré, Milano, 20032.
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perché la vita (oggi) dovrebbe aver bisogno di un’etica? Perché è avvertita la forte necessità,
quasi l’impellenza, di una (nuova) etica rivolta agli aspetti, certo non tutti, della vita umana?
Ovviamente, la bioetica non si orienta verso qualsiasi vita presente sul nostro surriscaldato
pianeta (pur annoverandosi tra i bioeticisti anche i sostenitori della cd. “liberazione animale”;
oppure, i vegetariani vegan; anche, i sostenitori dei “diritti” della biosfera), ma ci si concentra
sulla vita umana, al vita degli esseri umani. Forse, essa oggi necessita, maggiormente che nel
passato, della guida da parte dell’etica? Stando alla riflessione di Jonas probabilmente sì5.
L’essenza della tecnica è nichilista, direbbe Heidegger, la conseguenza della tecnologia oggi è
una modifica sostanziale, non formale, dell’immagine antropologica di uomo (e, quindi,
anche di vita umana). La tecnica, cioè, ha condotto a una ri-negoziazione dei caratteri
fondanti, e cruciali, delle nostre esistenze: (il) nascere; (il) curarsi; (il) morire. Stravolgere la
normale concezione antropologica vuol dire aver bisogno di un’etica differente da quella
passata, una nuova etica, adatta ai mutati tempi, alle mutate concezioni, adatta per l’uomo
tecnologico, la cui vita, sempre più spesso, appare (quasi) dominata dall’opzione tecnica,
anche quotidianamente6. In effetti, la prospettiva antropologica al riguardo suggerisce sia che
la cultura non sia qualcosa di statico, ma di dinamico7; sia che l’insieme culturale è rilevabile
a partire dalle pratiche messe in campo dagli uomini8. La novità oggi è costruita, forse,
dall’accelerazione che al divenire antropologico viene impressa dalle (quotidiane)
provocazioni della biomedicina. Così che il corpus antropologico può essere modificato e le
sue modifiche possono essere colte nel cambiamento dei comportamenti singoli (così come
dalla valutazione dei medesimi).
Etica della vita umana di oggi, ecco cosa sembra la bioetica nel senso usuale. Un discorso
(morale) intorno ai criteri (validi per tutti) intorno agli aspetti del nascere, del curarsi, e del
morire. Alcuni esempi, che possono comunque essere da subito sulla bocca di tutti:
manipolazioni genetiche; aborto; fecondazioni medicalmente assistite; accanimento
terapeutico; eutanasia; etc. Basta scorrere internet per avere una miriade di esempi, così come
di definizioni circa la disciplina in oggetto9.
Un’etica per la vita umana attuale è una disciplina di per sé sussistente? Bastante a sé
stessa rispetto all’improbo compito? Ovviamente, no. La bioetica mostra da subito la sua
natura mutidisciplinare, interessa il lavoro di molte discipline, differenti le une dalle altre; le
quali tutte concorrono per parte loro al dibattito comune (secondo regole etiche di discorso,
per Habermas e Apel)10, orientando dunque l’individuazione di regole, criteri, canoni,
significati dei termini, così come dei temi, affrontati in bioetica.
Ecco, allora, che subito si configura il problema: quante bioetiche sono di conseguenza
possibili? Molte? Poche? Alcune? Una sola? Un problema non da poco. In genere, si tende a
distinguere tra due soli tipi di bioetiche, l’una e l’altra però considerate di differente pregio: la
bioetica laica11 e la bioetica religiosa. Su tale distinzione, la quale però non riflette
specularmene la seguente, si parla anche di bioetica laica e bioetica cattolica12. Che la
religione in generale possa ispirare un dato tipo di bioetica è cosa scontata data la curvatura
interdisciplinare che la bioetica, per suo statuto, presuppone. Ma questa considerazione
assume ben altra importanza se si pensa alle società contemporanee caratterizzate dal
multiculturalismo, dal politeismo dei valori (Weber), e, conseguentemente, dalla necessità di
considerare non tanto i contenuti del dibattito pubblico quanto le condizioni (formali) affinché
5
H. Jonas, Il principio di responsabilità. L’etica per l’uomo tecnologico. Anche: H. Jonas, Dalla fede antica
all’uomo tecnologico. Saggi filosofici, Il Mulino, Bologna, 1991.
6
E. Sgreccia, Bioetica del quotidiano, Vita e Pensiero, Milano, 2005.
7
Fabietti - Malighetti . Matera, Dal tribale al globale. Introduzione all’antropologia culturale, Mondatori,
Milano, 2002.
8
C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1994.
9
www.wikipedia.org.
10
G. Fornero, op. cit., p. 7 e sgg.
11
U. Scarpelli, Bioetica laica, Baldini e Castoldi, Milano, 1998.
12
G. Fornero, op. cit.
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questo stesso possa avere luogo (in breve, non dire cosa sia “buono” o “giusto”, ma quali
possano essere le regole di correttezza da rispettare in un dialogo interculturale). Non è un
caso, infatti, che la tendenza universalista della ragione umane (e, illuminista) sia stata
recuperata, nella sua formulazione kantiana, nei termini di un canone per la discussione
pubblica, consacrando al successo teoretico di proposte metaetiche quali l’agire comunicativo
e l’etica del discorso di Habermas e Apel. Un orizzonte metaetico che ha trovato traduzione
anche nel settore della filosofia del diritto13, ove la riflessione si è incentrata sul rapporto tra
la forma del dibattito pubblico e il metodo della conoscenza normativa (specialmente, in
riferimento, in ambito analitico, alla famosa distinzione/separazione tra fatti e valori14)15.
Tante religione tante bioetiche, dunque? In qualche modo, ciò sembra scontato. Ma, allora,
può la bioetica caratterizzarsi in termini validi erga omnes? È valida la sua istanza
universalista? L’ottica comune sembra quella di attribuire ad essa un carattere (meramente)
procedurale, non privilegiando alcun aspetto contenutistico, ma solo l’individuazione della
«giusta procedura per prendere decisioni»16, lasciando ai soggetti singoli la totale libertà di
riempire di contenuto il proprio personale contributo alla discussione della questione
pubblica.
Eppure, lo statuto epistemico stesso della bioetica dovrebbe incoraggiare nella direzione
contenutistica, e non in quella formale, del rispetto della metodologia ritenuta più idonea a
favorire il prendere decisioni limitando nel contempo le possibilità di conflitto. Anche perché
la bioetica sollecita l’etica a trovare risposte alle nuove (spesso, anche: inquietanti) questioni
che la tecnologia biologica ci pone; ed è l’etica, a ben guardare, la disciplina filosofica più
direttamente chiamata in causa nell’elaborare, e proporre, contenuti. Al fine di rispondere alla
domanda cruciale quale etica per la bioetica?17
Tuttavia, proprio la sollecitazione etica fa problema. Infatti, se Heidegger
lungimirantemente vedeva nella tecnica l’essenza del nichilismo, la tecnica oggi ha messo
definitivamente in crisi l’identità umana, ha modificato, e molto in profondità, l’immagine
antropologica dell’uomo in quanto tale. Cos’è l’uomo?, potremmo chiederci oggi che la
scienza biologica ci consente, e propone, continue modifiche, anche geniche, (dell’integrità)
della nozione di uomo. È, cogliendo questa prospettiva, che Jonas, altro filosofo che, sia pure
da un orizzonte “particolare”, ha riflettuto sulla bioetica, ha proposto il concetto di principio
di responsabilità, di etica per l’uomo tecnologico. Oggi la filosofia fa fatica a rinegoziare un
senso dell’etica che sia al passo, o che magari riesca a minimizzare il distacco dal, con
l’avanzare senza posa della scienza, del progresso verso il meglio (le magnifiche sorti e
progressive) per una importante corrente di pensiero che ha attraverso tutto il XIX e buona
parte del XX sec. Andiamo verso il meglio? Esistono limiti alla ricerca? Se sì, quali? E come
si conciliano tali limiti con l’orizzonte valoriale umano già modificato dalle prospettive
inedite, ed importanti, aperte dalla scienza? Certo molte sono le questioni, tuttora aperte, della
bioetica18, ma quale può essere l’ottica più corretta alla luce della quale osservarle? Il fronte,
spesso polemico, tra i due tipi di bioetica formulano in genere due argomentazioni
contrapposte, che non possiamo esaminare in questa sede, esemplificativamente definite come
Etica della Qualità della Vita [EQV], in bioetica laica, e Teoria della Sacralità della Vita
[TSV], in bioetica religiosa (o, cattolica). Molto brevemente, la prima pone al centro della
discussione i seguenti temi19:
13
P. Comanducci, Assaggi di metaetica, Giappichelli, Torino, 1992 e P. Comanducci, Assaggi di metaetica due,
Giappichelli, Torino, 1998.
14
V. Villa, Conoscenza giuridica e concetto di diritto positivo, Giappichelli, Torino, 1993. Anche: B. Celano,
Dialettica della giustificazione pratica. Saggio sulla Legge di Hume, Giappichelli, Torino, 1994.
15
U. Scarpelli, Cos’è il positivismo giuridico, Comunità, Milano, 1965 e ID., L’etica senza verità, Il Mulino,
Bologna, 1982.
16
M. Aramini, Bioetica e religioni, Paoline, Milano, 2007, p. 30.
17
E. Agazzi (ed.), Quale etica per la bioetica?, Angeli, Milano, 1990.
18
M. Mori (ed.), Questioni di bioetica, Riuniti, Roma, 1988.
19
Indicazioni tratte da: G. Fornero, op. cit, p. 80 e sgg.
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a) origine totalmente umana della morale (l’uomo è il legislatore delle norme di
condotta);
b) rifiuto del concetto di “natura” (non esiste alcuna natura dalla quale derivare
indicazioni sui personali progetti esistenziali dei singoli e dei gruppi);
c) enfasi posta sul principio di “autonomia” (essendo l’uomo legislatore di sé stesso,egli è
autonomo e può agire anche etsi Deus non daretur);
d) il principio di disponibilità della vita (il singolo ha il totale controllo e il possesso del
proprio corpo, dei propri status personali, della propria vita);
e) l’idea della conoscenza quale mezzo di progresso (ogni riflessione sulle condotte
umane possibili deve comunque tenere fermo il punto cruciale che il fine delle nostre
cognizioni è il progresso; dunque, non è accettabile una bioetica che prescindesse dalle
conoscenze scientifiche20);
f) la non accettazione della sofferenza (la sofferenza non è auspicabile né può in qualche
modo essere ritenuta utile nel complesso di vita dei singoli; anzi, va rimossa);
g) il concetto di persona diveniente (il singolo non è persona in quanto tale, perché esiste,
ma lo diventa progressivamente; esiste, dunque, una sostanziale gerarchia tra viventi:
alcuni sono più persone di altre);
h) la definitiva accettazione del pluralismo (le opinioni delle chiese, ancorché importanti
nell’ambito della discussione pubblica, non pareri di minoranza e devono, dunque,
cedere il passo al pluralismo multiculturale delle società occidentali, abbandonando
qualsiasi pretesa di verità).
La seconda, invece, i seguenti temi:
1) origine “divina” dell’etica (l’uomo trae le massime per la propria condotta dall’origine
divina del proprio essere);
2) il collegamento (necessario) con la “natura” (la natura esiste ed è il metro di
valutazione dei comportamenti umani);
3) non autonomia dell’individuo (l’uomo dipende e fortemente dal volere della divinità);
4) l’indisponibilità della vita (l’uomo usufruisce della propria vita ma non può disporne in
contrasto con l’ordine secundum naturam);
5) l’accettazione della sofferenza (la sofferenza per quanto indesiderabile rientra
nell’ordine delle cose e va, dunque, accettata quando occorre);
6) il concetto di persona già esistente (ciascuno di noi è in partenza una persona, per il
semplice fatto che siamo).
Come si vede, dunque, le due proposte affondano le proprie radici in terreni teorici
differenti, benché si sia sostenuto come ciò non sia21.
È, tuttavia, possibile ricondurre i termini di questa dicotomia ad un’altra più comprensiva.
Allora, senza intento di specularità, diciamo che l’opposizione tra la TSV e l’EQV può essere
sostituita con la dicotomia:
(a) Teoria dell’indisponibilità della vita [TIV];
(b) Etica della disponibilità della vita [EDV].
Ovviamente, ci addentriamo in argomenti troppo complessi e distanti dai nostri intenti;
ragion per cui, mettiamo tra parentesi la dicotomia (a) – (b).
Veniamo adesso alle conseguenze legislative, che più ci interessano in questa sede.
20
21
D. Neri, Bioetica in laboratorio, Laterza, Roma – Bari, 2006.
M. Mori, Introduzione, a: M. Warnock, Fare bambini, Einaudi, Torino, 2004.
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Abbiamo parlato di modifica e forte della “cultura” umana (di base). Cosa comporta tutto
ciò? In primo luogo, che si chieda un adeguamento legislativo ai desiderata personali di
quanto è ora tecnicamente possibile. Un esempio, se la mia vita non è più desiderabile per
cause organiche non risolvibili (una grave malattia debilitante) e se la tecnica mi consente di
mettere fine, senza soffrire, a questa vita dolorosa, perché la legge dovrebbe impedirmelo?
Dietro l’eutanasia si verifica un processo psichico chiaro e documentabile: il desiderio che
una propria aspettativa divenga (riconosciuta quale) un diritto soggettivo. E così accade per le
tecniche di procreazione medicalmente assistita, per l’interruzione volontaria di gravidanza,
per le manipolazioni genetiche, per la selezione dei geni migliori nella riproduzione, per la
clonazione, etc. Generalizzando, si tende a considerare quel che è tecnicamente possibile
come un (mio!) diritto, che deve valere all’interno della comunità, deve, cioè, essere fonte di
diritto, nel senso che quel che è tecnicamente possibile è anche (forse, al tempo stesso) lecito
(da un punto di vista legale). In questo senso, infatti, la filosofia del diritto contemporanea è
profondamente scossa dalla rivoluzione bioetica22, specie se si parla anche di biogiuridica23.
Ora, siccome il ventaglio dei diritti è rimasto quello delle conquiste sociali di inizio secolo
scorso (secondo l’ordine consueto, progressivamente a partire dalla Rivoluzione Francese del
1789, abbiamo l’affermazione dei: (a) diritti civili; (b) diritti politici; (c) diritti sociali; e,
forse, anche (d) diritti umani), si invoca a gran voce un adeguamento, con la inclusione delle
tante fattispecie (in senso positivo: si può…è possibile….è fatta facoltà…etc) originate dalle
possibilità scientifiche. Si parla, infatti, di diritti della quarta (e della quinta!) generazione:
diritti ambientali; diritti biologici; etc24.
I più, allora, individuano un collegamento diretto tra le possibilità della tecnica e le
possibilità legali, optando sempre per una tranquilla trasferibilità del poter essere al poter
fare, soddisfacendo in tal modo anche tanti desideri soggettivi25. Il che appare subito, almeno
a prima impressione, infondato. Infatti, cosa garantisce che quanto sia possibile sia anche
possibile fare? Peraltro, si può pure ulteriormente complicare il quadro dicendo che
comunque assumendo per buona la dicotomia tra la disponibilità e l’indisponibilità della vita
ci scontriamo con un divieto espresso nel nostro ordinamento: gli status personali non sono
disponibili per i soggetti; del nostro corpo, ad esempio, abbiamo l’uso, ma non la proprietà26.
In più sorge una difficoltà etica: tante cose sono tecnicamente possibili (anche uno sterminio
generalizzato dei disabili, per esempio), sono esse stesse attese normative di per sé
auspicabili?
Non approfondiamo oltre la diatriba inerente al collegamento, che comunque appare prima
facie fortemente carente nei fondamenti, tra quanto è possibile e quanto è lecito (o, se si
preferisce, alla sostanziale uguaglianza possibile=lecito), e ci interessiamo al meccanismo
retorico riguardante la rivendicazione (o, la lotta per il riconoscimento) di una nuova serie di
diritti.
Chi è il cittadino? Cos’è la cittadinanza? Quali sono i diritti di cittadinanza? La moderna
teoria politica, congiuntamente alla sociologia, all’antropologia, e alle teorie della giustizia,
tende a considerare il cittadino colui il quale, essendo inserito all’interno di una comunità
umana (polis), è titolare di diritti e doveri, tanto rispetto a sé stesso quanto rispetto agli altri
consociati, ed egli partecipa, a partire dal proprio ruolo, dalla propria collocazione sociale,
22
V. la seconda parte (a cura di C. Faralli) di G. Fassò, Storia della filosofia del diritto. Ottocento e Novecento,
Laterza, Roma – Bari, 2005. Pure: S. Castignone, Introduzione alla filosofia del diritto, Laterza, Roma – Bari,
1998.
23
L. Palazzani, Biogiuridica, Milano, 2002.
24
N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1992.
25
M. Warnock, Fare bambini. Esiste un diritto ad avere figli?, Einaudi, Torino, 2004. per di più scrive a p. 101:
«dobbiamo preoccuparci del pericolo di confondere quel che è desiderato appassionatamente e profondamente
con ciò che è un diritto. Se una cosa è possibile, e se non ne deriva un danno ad altri, è bene cercare di dare alle
persone ciò che desiderano molto. Se non riescono ad avere quel che vogliono possono esserne delusi, ma non è
stato fatto loro, a quel punto, un torto».
26
Art. 5 c.c.
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alla costruzione del benessere collettivo. Nella misura in cui egli partecipa anche attivamente
alla gestione della società (della cosa pubblica, della res publica) è anche un cittadino, e gode
dell’onere (costi) e dell’onore (benefici) del godimento dei diritti di cittadinanza. Allora, si
può definire la cittadinanza come lo status di parità (almeno formale, burocratica, legale) di
un cittadino rispetto agli altri. Poi a seconda del suo grado di coinvolgimento nella vita della
comunità, egli eserciterà una cittadinanza attiva o meramente passiva. Si ha la prima
condizione se, e solo se, il cittadino fa valere tutti i suoi diritti (e, doveri) di cittadinanza,
altrimenti ogniqualvolta ne fa valere solo alcuni esercita una cittadinanza passiva.
Ecco, date le possibilità delle tecnologia, con tutte le fattispecie astratte che questa
comporta, quali dovrebbero essere i (nuovi) diritti di cittadinanza? Il problema non è da poco;
si tratta, infatti, di rinegoziare la tavola dei valori al fine di allargare l’elenco dei diritti
possibili, tenendo però contro del pluralismo culturale. Una società come la nostra,
attraversata da asimettrie antropologiche, anche profonde ed estese, può trovare un consensus
universorum intorno a quali diritti, frutto della discussione bioetica, riconoscere anche
giuridicamente?
Ecco il nodo: da un lato si tratta, e si tenta, di trovare un accordo comune (davvero
difficile) su alcune questioni bioetiche; dall’altro lato si cerca di trovare una traduzione
normativa di tutto ciò. Per alcuni a far problema è l’accordo bioetico; per altri la traduzione
giuridica (anche perché interesserebbe casi singoli: perché allora scomodare l’universale del
trattamento?)27.
Ne usciamo? Ne possiamo uscire tutti “felici e contenti”? Una risposta esula dai compiti
del presente scritto: chiarire la dinamica, di antropologia giuridica, che porta dalla bioetica
alla formulazione normativa di “nuovi diritti”.
27
Anche la strada italiana alla legislazione bioetica ha seguito la medesima strada degli altri paesi. Infatti, si è
organizzata una commissione consultiva per questioni bioetiche. In Italia si è così istituito il Comitato nazionale
per la bioetica (CNB), con sede presso la Presidenza del Consiglio, a seguito della risoluzione del 5 luglio 1988
della Camera dei Deputati, con la quale s’invitava il Governo a promuovere un confronto scientifico sullo stato
delle ricerche e sul loro impatto sulla dignità umana, e a seguito del Decreto del Presidente del Consiglio del 28
marzo 1990. I suoi compiti sono i seguenti: elaborare un quadro riassuntivo dei programmi, degli obiettivi e dei
risultati della ricerca e della sperimentazione nel campo delle scienze della vita; formulare pareri e indicare
soluzioni per affrontare problemi di natura etica e giuridica che possono emergere con il progredire delle
ricerche e con la comparsa di nuove possibili applicazioni di interesse clinico; prospettare soluzioni per le
funzioni di controllo rivolte sia alla tutela della sicurezza umana e ambientale sia alla protezione da eventuali
rischi dei pazienti trattati con prodotti dell’ingegneria genetica o sottoposti a terapia genica; promuovere la
redazione di codici deontologici per gli operatori dei vari settori interessati a favorire una corretta informazione
dell’opinione pubblica (www.palazzochigi.it/bioetica/compiti.html).
Inutile dire che il limite principale del Comitato è l’avere una natura esclusivamente consultiva, senza vincolare
in alcun modo l’attività legislativa del Parlamento, il quale è sì autonomo nelle sue decisioni ma non anche
estraneo alla società civile.
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