Per una introduzione alla "Fenomenologia dello spirito° PROF

Per una introduzione alla "Fenomenologia dello spirito°
PROF. PIERGIORGIO SCILIRONI
Introduzione alla "Fenomenologia dello Spirito"
Indubbiamente Hegel è un interlocutore essenziale del pensiero contemporaneo; direi che assieme a
Kant è oggi uno dei due interlocutori essenziali, come in altri tempi lo erano Aristotele e Platone.
Qualcuno ha addirittura detto che tra Hegel e Kant bisogna scegliere; non so se la cosa sia del tutto
accettabile. In ogni modo chi si rivolge a Hegel pone l'accento su una attitudine che potrebbe dirsi e il termine è hegeliano -, di conciliazione con il mondo E' l'attitudine di chi in certo senso può dire
che si trova bene nel mondo, e ritiene che appunto il mondo, la storia sia l'unico orizzonte del suo
pensare e del suo fare. Chi si rivolge di più a Kant pone invece l'accento sulla problematicità,
sull'incompiutezza, direi persino sul mistero - se la parola non fosse troppo forte.
Proprio per questo la maggior parte del pensiero contemporaneo, che è problematica e relativistica,
considera Hegel certamente un interlocutore importante, ma piuttosto un idolo polemico. Gli si
rimprovera di avere teorizzato questa attitudine tranquilla, ma anche, addirittura, di avere teorizzato
un sapere compiuto, senza ulteriorità, un sapere che Hegel stesso ha definito assoluto. Di fronte a
questo sapere assoluto il filosofo dell'ermeneutica per esempio, e penso in particolare a Gadamer,
obbietta che si tratta di una illusione perché qualsiasi sapere ha sullo sfondo un orizzonte di non
detto e di non saputo. Ma anche un filosofo che probabilmente tra i contemporanei è quello più
direttamente influenzato da Hegel, Erich Weil, diceva, specialmente nell'ultima fase del suo
pensiero in cui si faceva sentire l'influenza di Kant, a cui ha dedicato alcuni saggi importanti, che il
sapere assoluto è in sostanza un'illusione.
Hegel afferma che "l'assoluto è presso di noi". Potremmo esemplificare, in termini semplici, che
significa questa espressione di Hegel?
Hegel afferma proprio: "l'assoluto è presso di noi", come correlativamente parla di "sapere
assoluto". I suoi obiettori invece ritengono che questa presenza totale dell'assoluto sia un'illusione.
Io direi che questo è un caso dei più interessanti nella storia della critica filosofica, e aggiungerei,
con tutta modestia, che si tratta di un interessantissimo fraintendimento. Si è ritenuto cioè che
l'assoluto hegeliano, o il sapere assoluto hegeliano, che appunto è fra noi, sia qualcosa di definitivo
e attesti la possibilità per l'uomo di conoscere in maniera inerrante, di escludere quello che
comunemente si chiama il fallibilismo. In realtà si tratta di tutt'altra cosa. Se noi pensiamo ai testi
più tipici di Hegel in questo senso, per esempio alle pagine finali della Fenomenologia dello spirito,
noi ci accorgiamo che questo sapere assoluto è quanto di più storico si possa immaginare. In
sostanza che cosa è il sapere assoluto, e che vuol dire che l'assoluto è fra noi? Il sapere assoluto è
un'attitudine che segue a determinati fatti storici, e cioè alla Rivoluzione francese e alla situazione
post-rivoluzionaria, in particolare napoleonica.
Secondo Hegel dopo questi avvenimenti l'uomo si è emancipato dalla paura di un oggetto che lo
trascende e ha preso coscienza del fatto che le operazioni della sua ragione sono delle operazioni
legittime, cioè che la ragione ha in sé la sua misura. Questo non significa - ed è ovvio - che la
ragione non possa sbagliare, ma significa soltanto che non ha altra misura fuori di sé per valutare
l'eventuale errore.
Per quanto concerne l'espressione, che potrebbe suonare metafisicizzante, secondo la quale
"l'assoluto è fra noi", quest'espressione significa che le concezioni che fino a Hegel si sono avute
dell'assoluto come di un qualcosa di non interamente dominabile dall'uomo, ormai sono comprese e,
essendo comprese, liberano l'uomo dal timore che ci possa essere un qualcosa, un assoluto che lo
trascenda o addirittura in qualche modo lo minacci. L'assoluto è fra noi, ma non per questo
l'assoluto è compiuto; è cioè compiuta una concezione errata dell'assoluto, ma il sapere è un sapere
sempre totalmente aperto.
Ma questo risultato è il frutto di un processo storico, di una cultura, che poi è quella nel cui
contesto vive Hegel?
Questo risultato è il frutto della cultura post-illuministica. Hegel è critico dell'Illuminismo, ma in
quanto vede in esso un'emancipazione parziale dell'uomo; è critico dell'Illuminismo perché egli
vuole un sapere che sia più certo e più consapevolmente certo del sapere illuministico; è polemico,
in questo senso, nei confronti di ogni forma di agnosticismo. Ma se noi pensiamo proprio alla sua
stessa sistematica, vale a dire a quella che descrive alla fine della Fenomenologia, ci accorgiamo in
che cosa consiste questo valore liberatorio del sapere assoluto.
In sostanza Hegel afferma che a un certo punto, e precisamente dopo la Rivoluzione francese, con
l'assetto napoleonico, l'uomo è libero. L'uomo, cioè, non pensa che l'oggetto sia problematico, e che
quindi possa essere in qualche modo, in linea di principio, ingannato, per esempio dai sensi che
possono errare; l'uomo ha in sé il suo criterio di verità. Per Hegel l'uomo si è allora liberato
dall'oggetto, cioè dalla trascendenza dell'oggetto, e potrebbe, nel linguaggio di Hegel, "far scienza".
Quando si dice "far scienza" nel linguaggio di Hegel, significa non pensare più secondo lo schema
di un soggetto e di un oggetto, ma ripensare le proprie esperienze a un livello più alto di astrazione,
cioè pensare per categorie astratte, per categorie logiche; pensare per esempio in termini di "essere
determinato", di "essere quantitativo", di "fondamento", di "giudizio", che sono categorie astratte,
categorie logiche. Categorie logiche che definisco "astratte", ma non nel senso limitativo di questo
termine; si potrebbero anche definire "superconcrete", nel senso che queste categorie racchiudono
un'esperienza.
Giunto però a questo punto, anziché scrivere questa scienza e questa logica, secondo Hegel è il caso
di ripensare il cammino percorso; e allora scrive la Fenomenologia dello spirito, nella quale si
descrivono le esperienze più importanti che hanno portato a questa emancipazione dell'uomo.
Giunto alla fine del cammino fenomenologico c'è la possibilità di scrivere la Logica, a cui poi
seguono le scienze reali, la filosofia della natura e la filosofia dello spirito, e cioè delle filosofie in
cui le categorie logiche si cimentano con le scienze naturali e con le scienze storiche. Alla fine di
questo percorso l'uomo raggiunge di nuovo la purezza del sapere filosofico, cioè di nuovo la logica.
Quindi il cerchio può ricominciare ad esser percorso.
Questo cerchio però non è immobile. Giunto a questo punto io potrei riscrivere la Fenomenologia,
ma potrei anche scrivere una diversa fenomenologia: in altri termini l'oggetto come tale certamente
è da me conosciuto, ma è inesauribile, non è mai definitivamente conosciuto. Quindi il cammino
potrebbe ricominciare anche eventualmente con un'interpretazione diversa da quella che ha dato
Hegel. Se questo è vero, e direi che i testi sono inequivocabili, allora nulla è più ermeneutico del
sapere assoluto hegeliano, e le preoccupazioni di Gadamer mi sembrano infondate.
Hegel diceva di appartenere a un'epoca di passaggio, un'epoca cioè che preannunciava una nuova
era. Qual è il contesto storico in cui si inserisce la riflessione di Hegel? E in cosa consiste quella che
Hegel stesso chiama "la nuova figura dello spirito"?
Hegel dice effettivamente che noi ci troviamo in un'epoca di passaggio, di transizione, nel senso di
un'epoca che ormai ha fatto i conti con l'autorità della tradizione; quindi anche in un'epoca della
ragione. Da questo punto di vista Hegel è in piena sintonia con l'Illuminismo; basti pensare al
giudizio entusiastico che lui dà di Federico II, considerato come il re filosofo, il re riformatore, della
razionalizzazione delle istituzioni. In questo senso dunque è eminentemente un'epoca di progresso,
cioè un'epoca in cui la ragione, che già ha preteso di legiferare con la Rivoluzione francese, è ormai
dominante.
Ma altrove, in un'altra occasione, Hegel parla anche di un periodo nuovo, nel senso di un periodo in
cui lo spirito, cioè l'uomo, ormai può pensare a sé, cioè può raccogliersi nella sua interiorità, dopo
un periodo in cui è stato occupato al di fuori. Qui Hegel chiaramente allude - poiché il testo a cui
penso è del 1818 - al periodo delle guerre napoleoniche. Dopo questo periodo di guerre, in cui si è
volto fuori di sé, lo spirito si può raccogliere in sé, può cioè operare nel senso più razionale
possibile. Operare nel senso più razionale possibile significa fare le riforme di Federico II, ma
significa anche, come Hegel dice alla fine delle sue Lezioni sulla storia della filosofia, intervenire
sulla realtà secondo i bisogni del tempo.
Da questo punto di vista Hegel indica perciò un'azione che egli vuole il più possibile razionale. Ma
non bisogna dimenticare che questa è un'istanza di razionalità presentata da un filosofo che però ha
sempre messo in evidenza il rischio connesso con l'azione. Abbiamo perciò per un verso una azione
che si vuole, che deve essere il più razionale possibile, e per un altro verso però anche la
consapevolezza del rischio che qualsiasi azione porta con sé.
L'affermazione che il vero è l'intero, e quindi che la verità è il suo sistema scientifico, in sostanza
significa qualcosa che oggi viene indicato di solito in senso peggiorativo, e cioè che pensare è
totalizzare. Se io penso un qualcosa, per pensarlo correttamente devo pensarlo in un contesto, cioè
devo pensarlo in un quadro d'insieme da cui questo qualcosa riceva significato. C'è sempre un
quadro di riferimento ineliminabile quale che sia la mia asserzione; qualsiasi mio pensiero ha questa
struttura, per la quale è ricompreso in una totalità significativa.
In questa prospettiva tutto trova una giustificazione, ma giustificazione naturalmente non significa
accettazione di qualsiasi contenuto. E' inutile ricordare che lo storicismo hegeliano è il risultato di
una lettura della storia estremamente selettiva: Hegel sceglie gli avvenimenti che secondo lui sono
più significativi. Gli avvenimenti più significativi sono poi quelli che hanno contribuito alla presa di
coscienza della vera essenza dell'uomo: quella di un essere capace di libertà.
Nell'Introduzione alla Fenomenologia Hegel, in polemica soprattutto con Kant, afferma che la
filosofia non ha bisogno di preamboli o di introduzioni metodologiche. Come si concilia questa
posizione con l'idea della fenomenologia come propedeutica alla scienza?
Io direi che a stretto rigore la Fenomenologia non dovrebbe essere considerata propedeutica alla
scienza, perché, come del resto si legge nel titolo originale e originario dell'opera, è piuttosto la
prima parte del sistema. Non c'è perciò una propedeutica a cui segue la scienza, e la Fenomenologia
è già scienza.
Se consideriamo la Fenomenologia, noi vediamo che è la descrizione di una serie di esperienze che
hanno carattere liberatorio. Hegel dice anche che la Fenomenologia è "la scienza dell'esperienza
della coscienza", e quando si dice "coscienza" si vuol dire che c'è un atteggiamento che presuppone
la coscienza da una parte e l'oggetto dall'altra. La "scienza dell'esperienza della coscienza" descrive
una lunga esperienza attraverso la quale questo "due" viene superato. Però la descrizione di questa
esperienza - non questa esperienza stessa, ma la sua descrizione - per Hegel è già scienza. Alla fine
della Fenomenologia c'è la possibilità di fare la scienza pura, cioè di scrivere la logica; ma da
questo punto di vista la Fenomenologia non è considerata come una introduzione, ma, caso mai,
come la descrizione di alcune esperienze dal cui superamento nasce la possibilità di far scienza.
Professor Valentini può sintetizzarci, per quanto è possibile brevemente, l'itinerario
fenomenologico descritto da Hegel?
Certo non è facile, ma comunque, possiamo schematizzare. In sostanza di che si parla nella
Fenomenologia?
In una prima parte, nei primi tre capitoli, si parla di esperienze di tipo conoscitivo; sono le
esperienza della certezza sensibile, della percezione e dell'intelletto. Hegel descrive le varie maniere
in cui queste esperienze sono state fatte, e anche come sono state interpretate dai vai filosofi: si
trattano quindi problemi inerenti alla dottrina della conoscenza.
Dopo questa parte Hegel si occupa invece di esperienze di tipo pratico: descrive l'uomo nella sua
situazione primitiva, l'uomo che a stretto rigore non è ancora uomo, che si trova nel mondo, si trova
con gli oggetti che gli stanno intorno e si nutre di questi oggetti. A questo livello l'uomo soddisfa il
suo appetito, ma ad un certo punto ha l'esigenza di andare oltre questa sua coscienza dell'oggetto, ha
l'esigenza che la sua certezza diventi verità; questo significa bisogno di riconoscimento. L'uomo
scopre che non è solo nel mondo, che ci sono anche altri uomini, e allora vorrebbe che questi altri
riconoscessero la sua verità, che facessero cioè della sua verità anche la loro. Nasce da ciò la
cosiddetta "lotta a morte", che è molto celebre nella descrizione hegeliana: io cerco di sottomettere
l'altro, perché l'altro mi riconosca. Questa lotta a morte ha come risultato una situazione di signoriaservitù: il vincitore della lotta è il signore, e il soccombente è il servo. E' questa una situazione
dialettica, nel senso che il servo ha dei vantaggi grazie alle esperienze che è venuto facendo - la
paura della morte e il lavoro -, e che il signore non fa. Dopo queste esperienze, Hegel descrive la
presa di coscienza di questa situazione attraverso l'esame di alcune filosofie: lo stoicismo, lo
scetticismo e la religiosità cristiana, che egli chiama "coscienza infelice". Queste filosofie
rispecchiano la situazione imperfetta del servo: il servo è appunto servo, cioè non è autonomo, ma
riconosce se stesso nel signore. Questo lo porta a ideologie nelle quali o la verità è puramente
astratta, come nello stoicismo, o è lontana, come nello scetticismo, o è trascendente, come nel
cristianesimo o coscienza infelice. Il risultato di questo cammino è però un risultato ancora una
volta positivo: nell'esperienza ultima della coscienza infelice, nell'appartenenza del credente ad una
Chiesa, si ha un atteggiamento di pura sottomissione. Il credente, infatti, è completamente
sottomesso alla Chiesa, è addirittura nella condizione di chi è non intende quello che dice il
sacerdote. Però questa esperienza, apparentemente così umile, è per Hegel emancipatrice, perché è
una sorta di propedeutica alla ragione; attraverso questa esperienza, infatti, ci si accorge che la
propria persona in certo senso conta poco, che deve essere intesa all'interno della ragione. Segue
allora l'altra parte della Fenomenologia che appunto è dedicata alla ragione.
Hegel esamina la ragione scientifica - la "ragione osservante", come egli dice -, vale a dire la
ragione che fa scienza e, per un altro verso, la ragione che opera, la ragione attiva. Qui prende in
esame alcune forme individualistiche, di un individualismo di tipo romantico, per esempio
l'atteggiamento del brigante buono di Schiller, per poi concludere che questi atteggiamenti sono
degli atteggiamenti superati da un'attitudine che possiamo ben chiamare storicistica: questi
atteggiamenti, o queste pretese, dell'individuo vengono poi ricomprese nell'ambito di un corso del
mondo, in una "cosa stessa", come anche Hegel dice, vale a dire nella storia. Allora l'individuo si
scopre come interno alla storia, cioè come ente eminentemente storico, e, attraverso questo, scopre
che l'uomo è quel che fa, che è la serie delle sue azioni: sono le azioni a spiegare il singolo, non il
singolo a spiegare le azioni.
Finito l'itinerario della ragione, segue una parte della Fenomenologia in cui ci si occupa dello
spirito. Hegel descrive esperienze non più del singolo, ma esperienze storiche, descrivendo così
quello che lui chiama lo spirito. Hegel si riferisce a momenti della storia come il mondo greco o il
mondo romano; accenna al Rinascimento, al Medioevo; produce analisi del Razionalismo,
dell'Illuminismo, della Rivoluzione francese, della filosofia classica tedesca, che secondo lui
interpreta in modo retto le conquiste della Rivoluzione francese. In questa parte della
Fenomenologia Hegel esamina dunque quei momenti essenziali che hanno contribuito a
determinare ciò che l'uomo è; esamina una cultura, quella cultura che secondo lui ha dato come
risultato l'avvento pieno della ragione. Dopo di che Hegel ritorna in certo senso un po' indietro e fa
vedere le esperienze culturali che si sono venute facendo in concomitanza con la storia
propriamente detta.
Apriamo così il capitolo sulla religione. Hegel esamina varie forme di religione: la religione
prevalentemente orientale, la religione greca e la religione cristiana che è la più importante e la più
vicina alla ragione e alla filosofia. La religione è interpretata qui non tanto come esperienza
religiosa, quanto come teologia, vale a dire come tentativo, ancora su un piano rappresentativo, non
puramente razionale, di spiegare la realtà. Alla fine di questo percorso, con il cristianesimo, noi
raggiungiamo il sapere assoluto.
L'ultimo capitolo della Fenomenologia presenta un'attitudine in cui la religione stessa viene
compresa si tratta del sapere assoluto, che è il risultato di una piena comprensione della religione e
quindi della teologia, ed è conquista della ragione.
Come è noto la scrittura filosofica di Hegel è particolarmente oscura ed ardua, anche perché il suo
è un pensiero che intende superare la fissità dei termini per risolverla in un movimento dialettico:
pensare per verbi, potremmo dire, e non per nomi. Professor Valentini, per misurarci con il modo di
argomentare di Hegel, possiamo prendere in esame un paio di figure fenomenologiche?
Possiamo prendere in esame un paio di figure tra le più note. Penserei alla famosa lotta signoreservo e eventualmente, anche perché mi pare molto significativo per il nostro discorso, a quello che
Hegel pensa della Rivoluzione francese.
Ricordiamo allora la genesi della lotta tra il signore e il servo. Qualcuno ha detto che questa lotta a
morte è una lotta di puro prestigio. Veramente direi che il vero movente della lotta, hegelianamente,
è più razionale: è cioè l'esigenza di una certezza che diventi verità. L'uomo si trova di fronte alle
cose, ma si trova di fronte anche all'altro uomo. I due uomini lottano perché ciascuno di essi
desidera che l'altro lo riconosca, gli sia sottoposto. Questa lotta è una lotta a morte, e a un certo
punto uno dei due combattenti ha paura della morte e si sottomette e quindi riconosce il vincitore,
riconosce l'altro. Abbiamo perciò da una parte il signore che si è emancipato dalle cose, si è
emancipato dalla natura perché non ha avuto paura di morire, e dall'altra il servo, che invece è
rimasto legato alla natura proprio perché ha temuto di morire. Abbiamo quindi una situazione
ineguale: da una parte il signore, dall'altra parte il servo. A questo punto però Hegel sottolinea che il
servo fa due esperienze essenziali che il signore non fa. La prima è l'esperienza della paura della
morte: il servo trema - dice Hegel - "in tutte le sue fibre", cioè non ha una paura particolare, ma ha
paura di morire, di non essere. Questa paura è liberatrice, nel senso che il servo sperimenta il suo
poter non essere, e quindi sperimenta quella che per Hegel è una caratteristica dell'uomo, cioè la
cosiddetta negatività: la possibilità di dire la propria negatività, e anche di imprimere la propria
negatività e il proprio fare alle cose. L'altra esperienza che il servo fa e il signore no è quella del
lavoro: il servo lavora per il signore e porta al signore i frutti del suo lavoro. Questa esperienza è
anch'essa essenziale, perché il servo lavorando imprime se stesso all'oggetto: il suo lavoro traspone
nell'oggetto la sua personalità. Così il lavoro - anche se servile, anzi, proprio perché servile -, ha una
funzione liberatrice: l'uomo diventa uomo lavorando, formando l'oggetto e formando attraverso ciò
se stesso.
Leggo due righe di un testo hegeliano che mostra in che senso queste due esperienze sono
inscindibili e sono egualmente importanti: "Per tale riflessione" - sto leggendo un passo della
Fenomenologia - "son necessari entrambi questi momenti: sia la paura e il servizio in generale, sia il
formare;"- il formare sarebbe il lavorare) - "e necessari tutti e due in guisa universale. Senza la
disciplina del servizio e dell'obbedienza la paura resta al lato formale e non si riversa sulla
consaputa effettualità dell'esistenza. Senza il formare la paura resta interiore e muta, e la coscienza
non diviene coscienza per lei stessa" (p.163 I vol.). Il testo è molto importante perché fa vedere la
stretta connessione che c'è tra le due esperienze: senza la disciplina del servizio, la paura della
morte diventerebbe qualcosa di astratto. Se il servo sperimenta la possibilità di poter morire,
sperimenta anche la propria possibilità di esser libero, e allora nel lavoro traspone nell'oggetto non
una sua tecnica, cioè una sua capacità di lavorare l'oggetto, ma se stesso; egli oggettiva, cioè, quello
che nella paura della morte era semplicemente soggettivo. Se il servo lavorasse senza la paura della
morte, avrebbe l'esperienza della sua abilità, della sua capacità di trasformare l'oggetto, ma non
oggettiverebbe la propria libertà. Quindi entrambe queste esperienze sono essenziali come fattori di
emancipazione del servo, dell'uomo.
Tuttavia questa emancipazione non è completa, perché il servo rimane servo. Egli infatti, pur
facendo queste esperienze importanti ed essendo in questo senso "più vincitore" del signore perché
più veramente uomo, non è tuttavia ancora libero; le filosofie dello stoicismo, dello scetticismo e
del cristianesimo esprimono questa imperfetta coscienza. Ora però Hegel ritiene - e lo dice anche
esplicitamente nell'Enciclopedia - che con lo Stato moderno, almeno in linea di principio, si superi
la situazione di signoria-servitù, si raggiunga, cioè, una situazione di reciproco riconoscimento:
ciascuno è nello stesso tempo signore e servo dell'altro.
L'altra figura fenomenologica a cui possiamo pensare è quella della Rivoluzione francese. Può
descrivercela?
Hegel ne parla abbastanza a lungo nella Fenomenologia. La Rivoluzione francese per Hegel è la
manifestazione di quella che egli stesso chiama la libertà assoluta, con una serie di eminenti
riferimenti a Rousseau teorico della volontà generale, cioè di una volontà cosciente della sua
sovranità. Con la Rivoluzione francese assistiamo al tentativo che l'uomo fa di imporre la sua libertà
assoluta alle cose, di salire al trono, per così dire, della storia. Però questa rivoluzione per Hegel
non riesce. E non riesce per una ragione strettamente culturale: l'uomo della rivoluzione, e in
particolare Robespierre, era ancora legato a una cultura, di cui partecipava lo stesso Rousseau, che
teneva separate la volontà universale e la volontà singola. Se tengo separate la volontà universale e
la volontà singola, naturalmente io penso di essere volontà universale e qualsiasi atto che altri
compiano non può non essere un atto particolare e quindi, visto con i miei occhi di detentore della
volontà universale, una sorta di tradimento della stessa. Hegel riconduce a questo atteggiamento
culturale anche gli aspetti più tragici della rivoluzione, cioè il Terrore, la legge dei sospetti...
insomma, la fase culminante, robespierrista della Rivoluzione. Di questa fase egli parla con termini
sprezzanti, proprio perché secondo lui questi politici si fondavano su una cultura insufficiente.
Sembrerebbe perciò che la Rivoluzione francese si concluda con uno scacco.
Però, subito dopo, Hegel continua nell'esame dei risultati della Rivoluzione francese in due sensi..
In primo luogo fa un accenno all'assetto post-rivoluzionario, quale fu quello del Direttorio e di
Napoleone, in cui si è ricostituita, secondo Hegel, una situazione di tipo organico, cioè con i vari
istituti e non con il "due" dell'individuo e dello Stato. Ma soprattutto Hegel esamina le conseguenze
del Terrore, e dice che questa fase tragica della Rivoluzione, questa volontà generale che ha dato
luogo a morte, è nello stesso tempo qualcosa che dà luogo alla emancipazione dell'uomo. Vale la
pena di leggere un brano della Fenomenologia che mi pare degno di molta attenzione: "Per la
coscienza" - dice Hegel - "l'immediata unità di sé con la volontà universale, la sua esigenza di saper
sé come questo determinato punto nella volontà universale, si trasforma nell'esperienza nettamente
opposta. Ciò che quivi alla coscienza dilegua è l'astratto essere o l'immediatezza del punto privo di
sostanza; e questa immediatezza dileguata è la stessa volontà universale, e come tale essa coscienza
ora sa sé, in quanto è immediatezza tolta, in quanto è puro sapere o puro volere" (p.134, II vol.). In
questo testo Hegel dice che il singolo che si aliena nella volontà universale e dalla volontà
universale riceve morte, attraverso questa esperienza tragica prende coscienza del fatto che egli
stesso in quanto uomo è capace di universalità. Allora la Rivoluzione francese, di cui Hegel poco
prima, riferendosi particolarmente al Terrore, aveva parlato in termini sprezzanti, ha questa funzione
emancipatrice insostituibile. L'uomo si accorge cioè, attraverso l'esperienza della morte, che la
volontà generale o volontà universale gli appartiene, che è capace di universalità. L'interprete di
questa emancipazione, secondo Hegel, sarà essenzialmente Kant, saranno i filosofi del periodo
classico della filosofia tedesca.
Da questo punto di vista, dunque, la Rivoluzione francese, di cui anche lo Hegel degli ultimi anni,
lo Hegel berlinese, parlerà pur sempre in termini entusiastici, ha questa straordinaria funzione
emancipatrice: fa sì che l'uomo prenda coscienza della sua capacità di universalità e, così, prepara
quello che poi Hegel chiamerà il sapere assoluto.
Hegel continua a essere un interlocutore essenziale del pensiero contemporaneo: Francesco
Valentini spiega perché[1] e chiarisce il significato dell' espressione "sapere assoluto", oggetto di
numerose critiche e fraintendimenti. Il sapere assoluto non è qualcosa di compiuto, ma quanto di
più storico si possa immaginare: quando Hegel afferma che l'«assoluto è presso di noi», vuol dire
che l'uomo si è emancipato dal timore di un assoluto che lo trascende e ha scoperto che la ragione
ha in sé la sua misura[2]. Ciò è avvenuto nella cultura post-illuministica: l'uomo, liberato dalla
trascendenza, avendo ormai in sé il suo criterio di verità può finalmente "far scienza", vale a dire
superare lo schema soggetto-oggetto e pensare le proprie esperienze a un livello superiore di
astrazione, pensare per categorie logiche astratte. Giunto a questo livello sarà il caso, secondo
Hegel, di ripensare il cammino percorso dall'uomo per giugere a questo livello di emancipazione:
nasce così la Fenomenologia dello spirito [3]. Francesco Valentini spiega in cosa consiste quella che
Hegel chiama "la nuova figura dello spirito" e in che senso per Hegel pensare vuol dire totalizzare:
precisa, inoltre, che nella prospettiva hegeliana giustificare non significa accettare qualsiasi
contenuto[ 4].
A questo punto, riassume il contenuto della Fenomenologia dello spirito [5], che non va intesa come
propedeutica alla scienza, ma è già essa stessa scienza[6], soffermandosi in particolare sulla figura
signore-servo e sulla Rivoluzione francese. Il servo rimane tale perché non si è emancipato dalla
paura della morte: tuttavia, proprio l'esperienza della paura di non essere e quella del lavoro, che il
signore non ha la possibilità di fare, hanno per il servo una funzione liberatrice e di
emancipazione(7). La Rivoluzione francese è per Hegel la manifestazione della libertà assoluta:
l'uomo scopre che è capace di universalità[8].