Gazzetta Forense n. 2 del 2012

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Gazzetta
F O R E N S E
Bimestrale
Anno 5 – Marzo‑Aprile 2012
direttore responsabile
Roberto Dante Cogliandro
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capo redattore
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redazione gazzetta forense
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n. registraz. tribunale
N. 21 del 13/03/2007
finito di stampare da
360o ‑ Roma – nel maggio del 2012
SOMMARIO
Editoriale
[ A cura di Roberto Dante Cogliandro ]
Diritto e procedura civile
Violazione dell’obbligo di acquisire il c.d. consenso informato. Sull’onere del paziente di provare il nesso di causalità tra il pregiudizio subito
e la condotta omissiva del medico
9
Elisa Asprone
L’errore sul motivo nel testamento e la presupposizione
16
Andrea Merlo
Rassegna di legittimità [
Rassegna di merito [
A cura di Corrado d'Ambrosio ]
A cura di Mario de Bellis e Daniela Iossa ]
22
25
In evidenza
Tribunale di Napoli, sezione civile VII, sentenza 5 gennaio 2012
[ Nota redazionale a cura di Pietro d'Alessandro]
28
Tribunale di Napoli, sez. Lavoro, sentenza 27 ottobre 2011, n. 24101
[ Nota redazionale a cura di Carmen Scuotto ]
44
Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Sezione distaccata di Aversa, sentenza 22.02.2011, n. 19
[ Nota redazionale a cura di Raffaele Micillo ]
46
Diritto e procedura penale
Sequestro preventivo e confisca per equivalente nei reati tributari
69
Luca Semeraro
L’infiltrato: non impedire un evento equivale a cagionarlo?
74
Felice Carbone
Osservazioni in tema di iudex suspectus
79
Carmela Esposito
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
87
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di legittimità [
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
91
93
Diritto amministrativo
Accordi procedimentali e strumenti di programmazione negoziata
105
Pier Giorgio de Geronimo
I servizi pubblici locali dopo il d.l. n. 1/2012
109
Pierangelo Bonanno
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture 113
(d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.)
A cura di Almerina Bove
Diritto tributario
La Circolare n. 9/E del 19 marzo 2012: l’Agenzia delle Entrate detta
le istruzioni operative per la mediazione tributaria
117
Clelia Buccico
Diritto internazionale
Rassegna di diritto comunitario 127
A cura di Francesco Romanelli
Questioni
[ A cura di Mariano Valente ]
Costituisce ipotesi di “abuso del diritto” il ricorso a più precetti in caso di titolo esecutivo
rappresentato da un’unica sentenza di condanna a favore di più creditori rappresentati dal133
lo stesso difensore? / Anna Laura Magliulo e Mary Musto Può il pagamento con assegno postdatato rilevatosi sprovvisto di copertura finanziaria confi135
gurare il delitto di truffa? / Alfredo Capuano Quali poteri spettano al giudice nella valutazione dei fatti determinanti l’apertura del procedimento ex art 143, co.11, d. lgs. 267/2000? È procedibile l’azione di incandidabilità cui all’art 143,
comma 11, d. lgs. 267/2000, nell’ipotesi in cui, nelle more del procedimento, si siano già svolti
137
due turni elettorali? / Ida Sorrentino e Giuseppina Speranzini Il ruolo dell’avvocato nel procedimento di mediazione / M. Michela Fusco 139
Recensioni
Verso un sistema generale di indennizzi per danni non illeciti.
Responsabilità da atto lecito dannoso, Carlo Buonauro,
Il diritto privato oggi (serie a cura di Paolo Cendon), Giuffrè editore, 2012 A cura di Angela Libardi
143
Gazzetta
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●
La mediazione ormai
sistema del (pre)
contenzioso nostrano
● Roberto Dante Cogliandro
Notaio
m a r z o • a p r i l e
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5
Sono ormai quasi due anni che la mediazione-conciliazio‑
ne ha fatto ingresso, come obbligatoria, nel sistema giuridico
italiano, assurgendo a variabile su cui il nostro Paese ha pun‑
tato per deflazionare l’enorme carico pendente e che in futuro
penderà sui tribunali e sugli organi di giudizio di primo grado.
Allo stesso tempo si è avviata una ormai inevitabile attività di
accorpamento degli uffici giudiziari nelle diverse regioni del
Paese, con inevitabili rimostranze da parte delle organizzazio‑
ni di categoria degli avvocati e non solo. Tutto ciò al cospetto
di simili e ininterrotte lotte contro il sistema mediazione.
Lotte fatte con ogni mezzo e che inevitabilmente portano
nell’opinione pubblica una certa sfiducia rispetto a ciò che è la
conciliazione. Ed è proprio questa combinata attività di nasci‑
ta della mediazione obbligatoria e di accorpamento dei tribu‑
nali che ha caratterizzato la politica giudiziaria dei governi
succedutisi negli ultimi anni. è ormai impensabile fare a meno
dell’obbligatorietà della mediazione e di tutti gli organismi,
regolarmente accreditati presso il Ministero della Giustizia,
che sono nati nell’ultimo anno. A prescindere dal giudicato
pendente dinanzi alla Corte Costituzionale che a breve dovrà
pronunciarsi sulla legittimità del sistema mediazione obbliga‑
toria, non può non constatarsi che in un paese dove i costi
della giustizia sono altissimi ed i tempi per arrivare ad una
sentenza quasi elefantiaci, e dove lo Stato stenta ad avere ri‑
sorse economiche finanche per assumere nuovi magistrati da
poco vincitori di concorso, certamente la conciliazione rap‑
presenta un primo inevitabile passo verso la razionalizzazione
del variegato mondo della giustizia. Dovrà seguire certamente
l’accorpamento di molte sedi giudiziarie che nate negli anni
passati per mero spirito di campanilismo oggi non hanno più
senso e soprattutto sono in antitesi con le esigenze di raziona‑
lizzazione della spesa pubblica del governo Monti. Tagliare
tribunali piccoli,accorpandoli ad altri o tra loro rappresenta
sicuramente l’obbiettivo che il ministro della Giustizia si è
posto. Obiettivo che occorre assolutamente centrare e far si
che nuove risorse per la giustizia siano utilizzate per ammo‑
dernare la macchina organizzativa e assumere nuovo persona‑
le amministrativo e di cancelleria che spesso è e rappresenta il
motore pulsante di ogni tribunale che funziona bene. Ed allo‑
ra si proceda in questa direzione senza però dimenticare che
tutte le risorse recuperate vengano utilizzate per l’ordinaria
logistica e per la formazione del personale, anch’essa determi‑
nante in un sistema di giustizia europeo, dove la celerità del
giudicato rappresenta la sfida italiana all’impulso dell’impresa
e del mondo produttivo, e dove il sistema giustizia non deve
favorire per le sue lungaggini chi ha torto, bensì agevolare chi
si presume abbia ragione.
Diritto e procedura civile
Violazione dell’obbligo di acquisire il c.d. consenso informato. Sull’onere del paziente di provare il nesso di causalità tra il pregiudizio subito
e la condotta omissiva del medico
9
Elisa Asprone
L’errore sul motivo nel testamento e la presupposizione
16
Andrea Merlo
Rassegna di legittimità [
Rassegna di merito [
A cura di Corrado d'Ambrosio ]
A cura di Mario de Bellis e Daniela Iossa ]
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In evidenza
Tribunale di Napoli, sezione civile VII, sentenza 5 gennaio 2012
[ Nota redazionale a cura di Pietro d'Alessandro]
28
Tribunale di Napoli, sez. Lavoro, sentenza 27 ottobre 2011, n. 24101
[ Nota redazionale a cura di Carmen Scuotto ]
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Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Sezione distaccata di Aversa, sentenza 22.02.2011, n. 19
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civile
[ Nota redazionale a cura di Raffaele Micillo ]
Gazzetta
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MARZO • APRILE
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Violazione dell’obbligo
di acquisire il c.d.
consenso informato.
Sull’onere del paziente
di provare il nesso
di causalità tra
il pregiudizio subito
e la condotta omissiva
del medico
● Elisa Asprone
Dottore in Giurisprudenza
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9
Sommario: Introduzione – 1. La responsabilità professionale
del medico – 2. Una palestra in tema di causalità: la respon‑
sabilità del medico tra causalità civile e penale – 3. Consenso
informato. Natura giuridica e danno risarcibile – 3.1. Distri‑
buzione dell’onere probatorio
Introduzione
La questione prende spunto dalla recentissima sentenza,
n. 2701/2012*, emessa dal Tribunale di Napoli, sez. civ. X, in
persona del Giudice Onorario Tribunale, Dott.ssa Livia Tra‑
pani e offre l’opportunità di analizzare la problematica del
consenso informato al trattamento medico‑chirurgico e della
sua mancata acquisizione ad opera del medico, vista dall’an‑
golo prospettico della distribuzione dell’onere della prova.
Detta pronuncia pone a carico del paziente‑creditore l’one‑
re di provare il nesso di causa tra la mancata acquisizione del
consenso al trattamento terapeutico e il danno subito dallo
stesso, dichiarando, in tal modo, per il mancato assolvimento
di detto onere probatorio, la soccombenza in giudizio del
paziente danneggiato.
Ciò offre l’opportunità di effettuare una disamina del
quadro dottrinale e giurisprudenziale di riferimento, onde
verificare l’incidenza della predetta sentenza nel panorama
interpretativo del nostro sistema positivo.
La questione, di frequente ricorrenza nella prassi, si pone
allorquando venga in considerazione la violazione dell’adem‑
pimento dell’obbligo, gravante sul medico, di acquisire dal
paziente il consenso informato in relazione al trattamento
medico‑terapeutico che andrà a svolgere.
Ciò involge l’analisi della sussistenza di tutti i fattori strut‑
turali propri della responsabilità medica.
*La massima della richiamata sentenza è pubblicata nella Rassegna di merito della
sezione Diritto e Procedura Civile del presente numero.
1 Di Pentima, L’onere della prova nella responsabilità medica, Milano 2007,
Peccenini, Dalla responsabilità del medico alla responsabilità sanitaria, in
A.A.V.V., La responsabilità sanitaria, Bologna, 2007. Si veda anche Cass. Sez
III, 27 maggio 1993, n. 5939, Rv. 482534, Cass., sez. III, 22 gennaio 1999,
n. 589, in Foto it., 1999, I, 3332; Cass. 14 luglio 2004, n. 13066: “Il rapporto
che si instaura tra paziente e casa di cura privata (o ente ospedaliero) ha
fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi
nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del
corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore,
dal Servizio Sanitario Nazionale o da altro Ente), insorgono a carico della
casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo «lato sensu» alberghieri,
obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del perso‑
nale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche
in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la respon‑
sabilità della casa di cura (o dell’Ente) nei confronti del paziente ha natura
contrattuale, e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 c.c., all’inadempimento
delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, ai sensi dell’art. 1228
c.c., all’inadempimento della prestazione medico‑professionale svolta diret‑
tamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un
rapporto di lavoro subordinato comunque sussistendo un collegamento tra
la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non ri‑
civile
1. La responsabilità professionale del medico
Occorre partire da un rapido excursus dell’evoluzione
giurisprudenziale in tema di responsabilità medica, inquadra‑
ta dall’angolo prospettico della distribuzione dell’onere pro‑
batorio.
Com’è noto, in ipotesi di danno conseguente ad un tratta‑
mento sanitario, la natura della responsabilità è pacificamen‑
te ritenuta contrattuale sia nei confronti del medico che ha
operato sia con riguardo alla struttura ospedaliera alle dipen‑
denze della quale il primo operava1.
10
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Invero, con riferimento a quest’ultima, anche richia‑
mando la sentenza in commento sul punto, l’accettazione
del paziente ai fini del ricovero o di una visita ambulatoria‑
le comporta la conclusione di un contratto, sicché l’ente
ospedaliero può rispondere ex art. 1218 c.c. dell’adempi‑
mento delle obbligazioni che sono direttamente a suo cari‑
co o ex art.1228 c.c. dell’adempimento della prestazione
medico‑professionale svolta direttamente dal sanitario di‑
pendente.
Con riferimento, invece, alla relazione intercorrente tra il
paziente e il sanitario, la giurisprudenza è incline nel ricono‑
scere un cd. contatto sociale qualificato. Più di frequente si
preferisce utilizzare l’espressione rapporti contrattuali di
fatto, per sottolineare, cioè, che la vicenda si realizza ed è
rilevante a prescindere da un atto formale. Scaturisce, così, la
nascita di un vincolo che va al di là del semplice dovere del
neminem laedere, dovendosi collaborare al fine di realizzare
le aspettative ingenerate nella controparte dell’avvenuta inge‑
renza (c.d. responsabilità da affidamento). In dottrina si os‑
serva che “laddove c’è contatto sociale, non c’è contratto, ma
c’è responsabilità contrattuale”2.
Dal punto di vista descrittivo, in stretta aderenza alla
questione di cui si tratta, la giurisprudenza tradizionale è
solita operare una macro‑distinzione tra obbligazioni di mez‑
zi e obbligazioni di risultato.
Le prime vengono definite come obbligazioni in cui il
debitore si impegna ad assicurare lo svolgimento della presta‑
zione secondo un parametro di diligenza ordinaria (art.1176,
1 comma c.c.) o qualificata (art.1176, 2 comma c.c.). Le se‑
conde come obbligazioni con cui il debitore si impegna al
raggiungimento di un determinato risultato a prescindere
dalle modalità adempitive.
Prima della pronuncia delle Sezioni Unite n.13533/2001,
la questione riverberava i suoi effetti anche con riguardo
all’onere della prova. Nelle obbligazioni di mezzi era onere del
creditore dimostrare la non conformità della prestazione al
parametro di diligenza richiestogli. Viceversa nelle obbliga‑
zioni di risultato, era sufficiente per il creditore dimostrare il
titolo della pretesa, gravando sul debitore l’onere della prova
del raggiungimento del risultato o della non imputabilità
dell’inadempimento.
Nell’ambito della responsabilità medica l’onere probatorio
pareva ancorarsi alla complessità dell’operazione. Mentre,
cioè, in relazione agli interventi routinari si presumeva sussi‑
stente la responsabilità del medico sulla sola base della dimo‑
strazione, da parte del paziente, della facilità dell’intervento,
con riguardo agli interventi complessi il sanitario andava
esente da imputazione della responsabilità nella causazione
dell’evento dannoso, allorquando avesse provato la difficoltà
dell’intervento.
Tale macro‑distinzione, di rilevante pregnanza dal punto
di vista descrittivo, ha cominciato ad assumere contorni sem‑
levando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere
anche “di fiducia” dello stesso paziente, o comunque dal medesimo
scelto”;Cass, sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577.
2 Gazzoni, Manuale di diritto privato, 2009, XIV edizione, pag. 860; Cass.,
sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, in Arch. Civ. 1999, 713; Corriere Giur. 1999,
441 con nota di Di Majo; Giust. Civ. 1999 con nota di Giacalone; Foro it.,
1999, I, 3332 con nota di Di Ciommo e di La Notte.
c i v i l e
Gazzetta
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pre meno definiti soprattutto in forza dell’intervento della
citata pronuncia delle Sezioni Unite.
Il Supremo Consesso della giustizia civile, invero, ha evi‑
denziato come la distinzione tra responsabilità contrattuale
ed extracontrattuale implichi oneri probatori diversi circa i
fatti costitutivi della pretesa.
Affermano i giudici di piazza Cavour che “in virtù del
principio di riferibilità o di vicinanza della prova, che muove
dalla considerazione che il creditore incontrerebbe difficoltà,
spesso insuperabili, se dovesse dimostrare di non aver rice‑
vuto la prestazione, l’onere della prova viene infatti ripartito
tenuto conto, in concreto, della possibilità per l’uno o per
l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono
nelle rispettive sfere di azione. Ed appare coerente alla rego‑
la dettata dall’art. 2697 c.c., che distingue tra fatti costituti‑
vi e fatti estintivi, ritenere che la prova dell’adempimento,
fatto estintivo del diritto azionato dal creditore, spetti al
debitore convenuto, che dovrà quindi dare la prova diretta e
positiva dell’adempimento, trattandosi di fatto riferibile alla
sua sfera di azione”3.
Sulla base di quanto innanzi delineato, il supremo giudice
di nomofiliachia ha statuito che, in tema di responsabilità da
inadempimento contrattuale, il creditore deve dare la prova
della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla
mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della
controparte, mentre grava sul debitore l’onere di provare il
fatto estintivo, costitutivo dell’avvenuto adempimento.
Trapiantando dette coordinate nell’alveo della responsa‑
bilità medica occorre tener conto di due considerazioni.
In primo luogo, più in generale, i confini tra obbligazioni
di mezzi e di risultato risultano stemperati anche dalla valuta‑
zione secondo la quale, da un lato, nelle obbligazioni di mezzi
la prestazione non è sempre astratta da un risultato, dall’altro,
anche per le obbligazioni di risultato occorre aver riguardo
alle modalità della prestazione. Mentre, infatti, nelle obbliga‑
zioni di risultato la diligenza viene assunta a parametro valu‑
tativo dell’esattezza adempitiva, con riguardo alle obbligazio‑
ni di mezzi essa costituisce il proprium della prestazione.
Si osserva che l’art. 1176 c.c. – relativo alla diligenza
nell’adempimento – e l’art. 1218 c.c. – riguardante la respon‑
sabilità del debitore per l’inadempimento – sono norme depu‑
tate a regolamentare tutte le obbligazioni, e non sono suscet‑
tibili di applicazione diversificata in ragione della tipologia
delle obbligazioni in argomento 4.
In secondo luogo, viene confutata, dall’intervento delle
Sezioni Unite con la citata sentenza n. 13533 del 2001, la tesi
della distribuzione differenziata del carico probatorio, in ra‑
gione della natura dell’intervento (routinario o complesso)5,
dovendo, in ogni caso, il danneggiato provare la fonte da cui
deriva il proprio diritto alla prestazione sanitaria (il contratto
o contatto sociale qualificato) e il danno che ne è derivato,
limitandosi ad una mera allegazione dell’inadempimento
(errore medico). Il medico‑debitore avrà il carico di dimostra‑
re l’esatto adempimento o il non imputabile inadempimento.
Opinioni discordanti si registrano, invero, con riferimen‑
3 Cass. sent. n. 13533/01; n. 973/96, cit.; 3232/98, cit.; 11629/99, cit.
4 In tal senso, Rescigno, Obbligazioni, in Enc. Dir., XXIX, 1979, 190 ss.
5 Cass. n. 10297 del 2004; Si veda anche Cass., sez. III, nn. 11488 e 9471 del 2004.
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MARZO
m
a r z o • a
APRILE
p r i l e
to al nesso di causalità tra l’inadempimento e l’evento di
danno.
A fronte di chi ritiene che la prova in tal senso gravi sul
danneggiato – assumendo il nesso di causalità una rilevanza
concettualmente autonoma, quale elemento costitutivo della
fattispecie – si registra l’opinione di chi, sulla base anche
della recente pronuncia delle Sezioni Unite n. 577/2008, so‑
stiene che il profilo della causalità si sciolga in quello dell’ina‑
dempimento.6 Nella responsabilità da inadempimento con‑
trattuale non si pone infatti un problema di causalità mate‑
riale (non essendo il 1223 c.c. una regola causale).
A detta delle Sezioni Unite, infatti, “il paziente danneg‑
giato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il
contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della pato‑
logia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamen‑
te idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a ca‑
rico del debitore dimostrare o che tale adempimento non vi
è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologi‑
camente rilevante”.
In altri termini, il danneggiato dovrà solo provare la fon‑
te dell’obbligo e dedurre l’errore, nonché le conseguenze
dannose, mentre sarà il debitore, per restare esente da respon‑
sabilità, a dimostrare l’insussistenza dell’errore o l’irrilevanza
dello stesso in termini causali.
È da evidenziare, tuttavia, che detta situazione – fotogra‑
fata in tal modo dalle Sezioni Unite – non trova, nella giuri‑
sprudenza di merito successiva, ampie convergenze7
Ma vi è di più. Tale distribuzione del carico probatorio si
atteggia, come si vedrà in avanti, in modo diverso per quanto
riguarda l’omessa acquisizione, ad opera del medico, del con‑
senso informato al trattamento medico‑chirurgico. La senten‑
za del Tribunale di Napoli in origine richiamata, anche in
forza del recente arresto della giurisprudenza della corte di
cassazione – che rivendica una autonomia del diritto all’auto‑
determinazione leso dal comportamento omissivo del medico
rispetto al diritto alla salute – è chiara nel sottolineare l’in‑
combenza sul paziente‑ creditore del nesso di causa intercor‑
rente tra il pregiudizio dallo stesso lamentato e la condotta
del sanitario.
2. Una palestra in tema di causalità: la responsabilità del medico
tra causalità civile e penale
La questione offre lo spunto per una breve riflessione
circa il nesso di causalità in ambito civile in relazione al di‑
verso atteggiarsi dell’omonima categoria in ambito penale.
Nel diritto civile unanime dottrina e giurisprudenza riten‑
gono che la nozione di nesso causale sia duplice, dovendosi
declinare nella causalità materiale (Haftungsbegrùndende
6 In tal senso Cass. civ., sez. III, 26 gennaio 2010, n.1524: “In caso di danni
connessi alle prestazioni di medici operanti all’interno della struttura sanitaria,
incombe sulla vittima che agisce in giudizio l’onere di provare la stipulazione
del contratto e l’inadempimento del professionista, mentre incombe sulla strut‑
tura l’onere di provare che la prestazione sia stata eseguita in modo idoneo e
che gli esiti letali/infausti siano dipesi da evento imprevisto ed imprevedibile.”.
7 Si veda, Trib. Rovereto, 2 agosto 2008 “nei rapporti tra medico e paziente – fon‑
dati sul contratto d’opera intellettuale – rimane fermo il principio secondo il
quale il nesso di causa tra inadempimento ed evento deve essere provato dal
danneggiato, mentre il fallimento della relativa prova o la prova contraria si
pone come ostativa ad ogni ulteriore valutazione degli aspetti soggettivi del
comportamento, quantunque predicabili in termini di gravissima negligenza,
non essendo lecito procedere ad una sorta di compensatio culpae cum causa”.
2 0 1 2
11
Kausalitàt) che lega condotta al danno‑evento e nella causa‑
lità giuridica (Haftungssausfùllende Kausalitat), che individua
il rapporto che intercorre tra la condotta dell’agente e il dan‑
no conseguenza.
Si è soliti pensare, in tema di nesso causale, ad una sorta
di scala discendente che dalla più rigorosa previsione del
criterio probabilistico in ambito penale attraversa quella più
labile della causalità civile, giungendo al sottosistema civili‑
stico di causalità da perdita di chance.
Ciò che costituisce l’elemento differenziale nei tre sistemi
delineati non riguarda il criterio causale, ma l’oggetto della
causalità. Non muta, cioè, il procedimento per l’accertamen‑
to del nesso di causalità, ma solo il grado di probabilità.
Nel sistema penale la questione della causalità in campo
medico è stata delineata con la celeberrima sentenza Franze‑
se, secondo la quale l’imputabilità del fatto all’autore va ac‑
certata “oltre ogni ragionevole dubbio”.
La sentenza in argomento chiarisce che la responsabilità
penale dev’essere provata con elevato grado di probabilità
logica e credibilità razionale, sostenendo, cioè, la necessità che
il risultato probatorio raggiunto, attraverso la sussunzione del
fatto storico nell’alveo della legge scientifica, universale o
statistica, applicabile nel caso di specie, debba essere calato
nell’evoluzione delle risultanze processuali del caso concreto.
La più stringente regola probabilistica adottata in tal
campo rispetto al diritto civile si spiega sulla base della diver‑
sità ontologica dei due sistemi. L’intrinseca funzione del dirit‑
to penale è quella di sanzionare la condotta illecita. Si vuole,
cioè, più che risarcire il danneggiato, punire il colpevole, in
aderenza alla ratio general‑preventiva che governa l’intero
impianto penalistico.
In ambito civile, viceversa, la causalità segue differenti
dinamiche, più labili, accogliendo la regola causale del “più
probabile che non”.
Anche in abito civile, tuttavia, l’accertamento del nesso
causale non può passare soltanto attraverso l’automatica
sussunzione del caso concreto nell’alveo delle leggi scientifiche
di copertura (probabilità statistica o pascaliana), dovendosi
ancorare, altresì, alla verifica delle stesse nell’ambito di ope‑
ratività del caso concreto (probabilità logica o baconiana).
È interessante notare che la necessità di far costante rife‑
rimento alle esigenze e alle diversità promananti dal caso
concreto costituisce il file rouge che lega i recenti indirizzi
della giurisprudenza della Cassazione in materia civile; basti
pensare alla dimensione concreta che ha assunto la causa del
contratto.
La regola probatoria del “più probabile che non” impone
al giudice, sulla base di ipotesi tra loro alternative, di sceglie‑
re di porre a causa dell’evento quella che riceve il supporto
maggiore sulla base degli elementi probatori acquisiti.
La meno rigorosa regola causale operante in ambito civile
si giustifica sulla base della finalità che si pone il legislatore ci‑
vile: tutelare la vittima e riparare il danno dallo stesso subito.
Anche in ambito civile, però, come si è detto, un respon‑
sabile è pur sempre necessario «se non si vuole trasformare
la responsabilità civile in un’assicurazione contro i danni,
peraltro in assenza di premio” 8.
8 Cass. civ., sez. Un, sentenza n. 581/2008.
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Chiude il cerchio il criterio causale adottato in ambito di
responsabilità per i danni da perdita di chance, il quale si
pone sul fronte della mera possibilità di conseguimento di un
diverso risultato terapeutico.
Per completezza, sull’argomento occorre osservare che la
causalità materiale e giuridica trovano un indice normativo
nel diritto civile nell’art. 1227 c.c., il quale ha la funzione di
perimetrare l’ambito del danno risarcibile in materia di re‑
sponsabilità contrattuale e extracontrattuale, in forza del ri‑
chiamo ex art. 2056 c.c. Il primo comma prende in esame
l’ipotesi in cui il fatto del creditore‑danneggiato interviene ad
interrompere il nesso causale, escludendo la ricollegabilità
dell’evento all’agente. Il secondo comma, relativo alla causa‑
lità giuridica, evidenzia come il fatto del creditore possa in‑
fluire sul piano delle conseguenze risarcibili.
È da sottolineare che, sulla base di una lettura dei recenti
interventi in giurisprudenza, il piano della causalità in ambi‑
to civile e penale sta procedendo verso una progressiva sepa‑
razione sol che si consideri la pronuncia delle sez. Un. della
Cassazione del 21 novembre del 2011 n. 24406, la quale ha
ritenuto sufficiente, al fine di fondare un concorso di colpa
del creditore/danneggiato, un comportamento omissivo dello
stesso caratterizzato, a differenza del diritto penale, dalla
sola colpa generica.
3. Consenso informato. Natura giuridica e danno risarcibile
Occorre, a tal punto, allo scopo di descrivere la portata
della sentenza in commento, affrontare l’analisi strutturale
dell’obbligazione, gravante sul medico, di acquisire il consen‑
so informato del paziente al trattamento medico‑chirurgico,
per poi spostarsi ad una disamina del suo momento patologi‑
co e dinamico, in relazione al danno risarcibile e alla distri‑
buzione del onere probatorio.
Come si è innanzi detto, la recentissima sentenza del Tri‑
bunale di Napoli pone a carico del creditore/danneggiato
l’onere di provare il nesso di causa tra la mancata acquisizio‑
ne del consenso del paziente al trattamento terapeutico e il
danno subito dallo stesso. Si fonda detto assunto sulla base
dei seguenti rilievi:
a) la prova del nesso causale tra inadempimento e danno
compete alla parte che alleghi l’inadempimento altrui e che
pretenda per questo il risarcimento
b) il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato
opposto dal paziente al medico;
c) si tratta pur sempre di stabilire in quale senso si sarebbe
orientare la scelta soggettiva del paziente, sicché anche il
criterio di distribuzione dell’onere probatorio in funzione
della “vicinanza” al fatto da provare induce alla medesima
conclusione
d) la scelta del paziente in termini contrari alla valutazio‑
ne di opportunità del medico costituisce un’eventualità che
non corrisponde all’id quod plerumque accidit.
Questa pronuncia si pone sulla scia del recente indirizzo
della Cassazione, secondo il quale, “Anche in caso di sola
violazione del diritto all’autodeterminazione, pur senza cor‑
relativa lesione del diritto alla salute ricollegabile a quella
violazione per essere stato l’intervento terapeutico necessario
e correttamente eseguito, può dunque sussistere uno spazio
risarcitorio; mentre la risarcibilità del danno da lesione della
salute che si verifichi per le non imprevedibili conseguenze
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dell’atto terapeutico necessario e correttamente eseguito se‑
cundum legem artis, ma tuttavia effettuato senza la preven‑
tiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti
pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmen‑
te prestato, necessariamente presuppone l’accertamento che
il paziente quel determinato intervento avrebbe rifiutato se
fosse stato adeguatamente informato. Il relativo onere pro‑
batorio, suscettibile di essere soddisfatto anche mediante
presunzioni, grava sul paziente” 9.
Ma si proceda con ordine.
La questione involge un importante rilievo pratico, in
ragione dell’ingente contenzioso che si registra in materia.
Volendo ricercare la fonte dell’obbligo di acquisire il con‑
senso informato del paziente occorre osservare che tale non
potrebbe essere la scriminante del consenso dell’avente diritto
ex art. 50 c.p., sulla base del rilievo secondo cui l’attività me‑
dico chirurgica è un’attività socialmente utile, che scrimina a
prescindere dal consenso e in quanto a ciò osta il divieto degli
atti di disposizione del proprio corpo, che comportino una
diminuzione permanente dell’integrità fisica ex art. 5 c.c.
Si è ritenuto di rinvenire, perciò, il fondamento di tale
obbligo in una serie di disposizioni di rango costituzionale,
quali l’art. 32, comma 2, Cost. (a norma del quale nessuno
può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario
se non per disposizioni di legge), l’art. 13 Cost. (che sancisce
l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche
alla libertà di salvaguardia della propria salute ed integrità
fisica) e l’art. 33 della l. 833/78 (che esclude la possibilità di
accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del
paziente)10.
9 Cass. civ., sentenza n.2847/2010.
10 Si può richiamare, a tal punto, quanto affermato dalla Cass. pen., sez. IV, 11
luglio 2001, n. 1572: “Il consenso afferisce alla libertà morale del soggetto ed
alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa come diritto
al rispetto delle proprie integrità corporee, le quali sono tutte profili della liber‑
tà personale proclamata inviolabile dall’art. 13 Cost., diretta conseguenza di
tale principio è che al medico non si può attribuire un generale diritto di cura‑
re, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell’ammalato che si
troverebbe in una posizione di soggezione su cui il medico potrebbe ad libitum
intervenire, con il solo limite della propria coscienza; appare, invero aderente
ai principi dell’ordinamento riconoscere al medico la facoltà o la potestà di
curare, situazioni soggettive queste derivanti dall’abilitazione all’esercizio della
professione sanitaria, le quali, tutta via, per potersi estrinsecare, hanno bisogno
di regole, del consenso della persona che al trattamento sanitario deve sotto‑
porsi”.
Deve evidenziarsi, altresì, che “sarebbe riduttivo […] fondare la legittimazione
dell’attività medica sul consenso dell’avente diritto (art. 50 c.p.), che incontre‑
rebbe spesso l’ostacolo di cui all’art. 5 c.c., risultando la stessa di per se’ legit‑
tima, ai fini della tutela di un bene, costituzionalmente garantito, quale il bene
della salute, cui il medico è abilitato dallo Stato. Dall’autolegittimazione dell’at‑
tività medica, anche al di là dei limiti dell’art. 5 c.c., non deve trarsi, tuttavia,
la convinzione che il medico possa, di norma, intervenire senza il consenso o
malgrado il dissenso del paziente. La necessità del consenso – immune da vizi
e, ove importi atti di disposizione del proprio corpo, non contrario all’ordine
pubblico ed al buon costume ‑, si evince, in generale, dall’art. 13 della Costitu‑
zione, il quale, come è noto, afferma l’inviolabilità della libertà personale – nel
cui ambito si ritiene compresa la libertà di salvaguardare la propria salute e la
propria integrità fisica ‑, escludendone ogni restrizione (anche sotto il profilo
del divieto di ispezioni personali), se non per atto motivato dell’autorità giudi‑
ziaria e nei soli casi e con le modalità previsti dalla legge. Per l’art. 32 co. 2
Cost., inoltre, “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento
sanitario se non per disposizione di legge” (tali norme hanno trovato attuazio‑
ne nella l. 13 maggio 1978, n. 180, sulla riforma dei manicomi, per la quale
“gli accertamenti e trattamenti sanitari sono volontari”, salvi i casi espressa‑
mente previsti – art. 1 ‑, e nella l. 23 dicembre 1978, n. 833, che, istituendo il
servizio sanitario nazionale, ha ritenuto opportuno ribadire il principio, stabi‑
lendo che “gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari”:
art. 33). Si eccettuano i casi in cui: a) il paziente non sia in grado, per le sue
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Divergenze in giurisprudenza si sono registrare il relazio‑
ne al tipo di danno risarcibile, soprattutto riguardo all’ipote‑
si, come quella rinvenibile nel caso di cui alla sentenza in
argomento, in cui l’intervento venga eseguito secundum legis
artis, ma senza aver acquisito un preventivo consenso ad ef‑
fettuare lo stesso.
Un primo indirizzo, proprio in virtù nell’assunto secondo
il quale l’attività medico‑chirurgica è un’attività socialmente
utile, che scrimina indipendentemente dal consenso, ha rin‑
venuto il bene giuridico leso nel diritto di autodeterminazione
del paziente. Si riconosce, in tal guisa, al danneggiato il dirit‑
to a conseguire il risarcimento parametrato al solo pregiudizio
alla autodeterminazione, senza che a ciò rilevi una lesione al
diritto alla salute.
Più di recente si è sostenuto che la ratio giustificatrice del
consenso informato si rinviene nell’esigenza di garantire al
paziente una cost‑benefit analys, una ponderazione comples‑
siva, cioè, dei rischi che ne derivano per la salute. Il paziente,
infatti, nel prestare il consenso decide di accollarsi il rischio
dell’alea dell’intervento. Ne consegue che, allorquando detto
consenso non venga prestato, in relazione ad una violazione
degli obblighi da parte del medico‑debitore, si verifica una
trasposizione del rischio dal paziente al medico che decide di
effettuare comunque l’intervento. Ciò che deve essere risarci‑
to, a detta di questa tesi11, non è, dunque, solo il danno con‑
seguenza derivato dalla lesione alla libertà di autodetermina‑
zione, ma anche il danno da lesione della salute, la cui tutela
costituisce l’oggetto dell’acquisizione del consenso.
Più in generale, può dirsi che, in tali fattispecie, la questio‑
ne si pone in relazione all’individuazione del termine finale
del nesso di causalità.
Ci si chiede, cioè, se la condizione di risarcibilità per
l’omessa acquisizione dell’intervento debba consistere nella
produzione di un evento lesivo o di un pregiudizio alla salute
del paziente, ovvero se, per dirsi risarcibile, l’illecita attività
omissiva del medico – che non ha acquisito il consenso infor‑
mato – possa trovare all’altro estremo della catena eziologica
un bene diverso dal diritto alla salute.
La soluzione del problema che ancora la risarcibilità della
condotta omissiva del medico alla causazione di un pregiudi‑
zio incidente sulla salute del paziente riduce e sposta i termini
della questione in esame, la quale non attiene alla lesione del
diritto alla salute (che ben può non esserci), ma alla lesione di
un altro interesse costituzionalmente rilevante, quale il dirit‑
to all’ autoderminazione del soggetto.
La mancata prestazione del consenso informato, invero,
come affermato dalla pronuncia del Tribunale di Napoli in
commento, che richiama, sul punto, l’indirizzo della Cassa‑
zione di cui alla sentenza n. 2847/2010, priva il paziente
della possibilità di effettuare una valutazione comparativa
degli interessi, al fine di scegliere di sacrificare l’uno piuttosto
che l’altro.
condizioni, di prestare un qualsiasi consenso o dissenso: in tale ipotesi, il dove‑
re di intervenire deriva dagli art. 593 c. 2 e 328 c.p.; b) sussistano le condizioni
di cui all’art. 54 c.p.” (Cass. 25.11.1994 n. 10014, in Foro it., 1995, I, 2913,
con nota di Scoditti, Chirurgia estetica e responsabilità contrattuale, nonché
in Nuova giur. civ., 1995, I, 937, con nota di Ferrando, Chirurgia estetica,
«consenso informato» del paziente e responsabilità del medico).
11 Cass. civ., sent. n. 20832/2006.
2 0 1 2
13
In altri termini, i due estremi attraverso i quali passa il
nesso di causalità nella vicenda in esame sono la condotta
omissiva del medico e (non già la lesione all’integrità psico‑fi‑
sica medicalmente accertata, ma) la lesione del diritto all’au‑
todeterminazione, la privazione, cioè, della possibilità di
scegliere, in un’operazione comparativo‑valutativa, quale in‑
teresse sacrificare sull’altare degli interessi ritenuti parimenti
rilevanti dal paziente.
In astratto, ad esempio, non potrebbe escludersi un risar‑
cimento a chi, in aderenza alla propria fede religiosa, abbia
consapevolmente rifiutato una trasfusione di sangue,
quand’anche gli sia stata salvata la vita, in quanto egli avreb‑
be, per assurdo, potuto preferire non vivere piuttosto che vi‑
vere in contrasto con il proprio credo religioso; ovvero si
pensi al medico che decida, senza aver acquisito un adeguato
consenso informato, di salvare la vita di un soggetto, pur
determinandogli delle sofferenze fisiche acute da dover sop‑
portare per il resto della sua esistenza. In tal caso, il paziente,
ben avrebbe potuto, in astratto, se adeguatamente informato,
scegliere di sacrificare il bene vita sull’altare di altri interessi
ritenuti dallo stesso parimenti rilevanti.
La ratio delle norme che obbligano il medico ad acquisire
il consenso, dunque, si rivolge alla protezione della libertà del
soggetto di autodeterminarsi, effettuando una automa, infun‑
gibile e libera valutazione circa gli interessi coinvolti, operan‑
do una scelta personale – che non può perciò essere sostituita
dal medico o da altro soggetto – di quali sacrificare.
Detta ricostruzione appare muoversi in aderenza con la
nuova fisionomia del danno non patrimoniale. È emersa, in‑
vero, in giurisprudenza, una ricostruzione che, lungi dal
considerare onnicomprensivo il diritto alla salute e il conse‑
guente danno all’integrità psico‑fisica, qualifica lo stesso
come uno soltanto tra gli interessi costituzionalmente rilevan‑
ti da prendere in considerazione ai fini risarcitori, senza far
assurgere il diritto ex. art. 32, comma 1, Cost. ad un rango
più elevato che non emerge dalla struttura costituzionale.
Accanto al diritto alla salute, il giudice deve prendere in
considerazione anche altri interessi costituzionalmente rilevan‑
ti (quali, ad esempio, quello all’autodeterminazione di cui qui
si discute), i quali non si inseriscono nel sottosistema onnicom‑
prensivo dell’art. 32, comma 1, Cost., ma ad esso si affiancano,
ben potendo ricevere autonoma tutela, scollegata alla lesione
dell’integrità psico‑fisica. La condizione, dunque, per la risar‑
cibilità dell’omesso consenso informato non può necessaria‑
mente passare per una lesione della salute del paziente.
In quest’ottica si è mossa invero la Corte Costituzionale,12
secondo la quale il consenso informato, inteso quale espres‑
sione della consapevole adesione al trattamento sanitario
proposto dal medico, si configura quale vero e proprio dirit‑
to della persona e trova fondamento nei principi espressi
nell’art. 2 della Costituzione che ne tutela e promuove i dirit‑
ti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabilisco‑
no rispettivamente che «la libertà personale è inviolabile» e
che «nessuno può essere obbligato a un determinato tratta‑
mento sanitario se non per disposizione di legge». Afferma
ancora la Consulta che numerose norme internazionali pre‑
12 Corte Costituzionale, sent. n. 438 del 2008.
civile
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vedono esplicitamente la necessità del consenso informato del
paziente nell’ambito dei trattamenti medici. La diversità tra i
due diritti è resa assolutamente palese dalle elementari con‑
siderazioni che, pur sussistendo il consenso consapevole, ben
può configurarsi responsabilità da lesione della salute se la
prestazione terapeutica sia tuttavia inadeguatamente esegui‑
ta; e che la lesione del diritto all’autodeterminazione non
necessariamente comporta la lesione della salute, come acca‑
de quando manchi il consenso ma l’intervento terapeutico
sortisca un esito assolutamente positivo (è la fattispecie cui
ha avuto riguardo Cass. pen., sez. Un., n. 2437 del 2009,
concludendo per l’inconfigurabilità del delitto di violenza
privata).
3.1. Distribuzione dell’onere probatorio
Vale evidenziare, a tal punto, che l’obbligo di informazio‑
ne gravante sul medico attiene ad una fase del rapporto con
il paziente che precede il contratto di prestazione d’opera
professionale; di talché dovrebbe considerarsi la condotta
omissiva del medico come responsabilità precontrattuale, con
conseguente carico dell’onere probatorio in capo al paziente.
Si è rilevata, però, l’infondatezza di tale tesi in ordine al
nuovo approdo della giurisprudenza, secondo il quale il rap‑
porto intercorrente tra il paziente e il sanitario è da ricondur‑
si nell’alveo dei rapporti contrattuali di fatto (c.d. contatto
sociale qualificato).
Orbene, alla luce delle considerazioni svolte sul riparto
dell’onere della prova, come delineato dalla pronuncia della
cassazione nel 2001 e 577/08, può dirsi che sarà il medico‑de‑
bitore a dover provare l’avvenuta acquisizione del consenso (il
più delle volte contenuto in un documento scritto), concretan‑
do questo un obbligo non accessorio, ma principale della
prestazione, la cui violazione non può essere condotta nella
categoria dell’inesatto adempimento, trattandosi di un inadem‑
pimento pieno. Di talché, il danneggiato‑creditore dovrà limi‑
tarsi a provare la fonte del suo diritto e ad allegare l’errore,
gravando l’intero carico probatorio sul convenuto debitore.
Di recente, tuttavia, la corte di cassazione, con sentenza
n. 2847 del 2010, pronunciandosi sul tema ha evidenziato un
principio – ripreso, poi, dalla sentenza in commento – in
parziale contrasto con la tesi innanzi delineata, soprattutto
con riguardo alla prova del nesso di causa.
Quest’ultimo invero, non rileva solo in relazione al rap‑
porto di consequenzialità tra intervento e pregiudizio alla
salute, bensì in relazione all’attività omissiva del medico per
mancata acquisizione del consenso e intervento praticato.
La condotta omissiva del medico, in altri termini, rileva
ex se, a prescindere da un eventuale pregiudizio alla salute, in
quanto ciò che costituisce l’oggetto della protezione da accor‑
dare attraverso l’obbligo di acquisizione del consenso infor‑
mato, è la libera autodeterminazione del paziente.
Osserva infatti, la corte che “la riduzione del problema al
rilievo che, essendo illecita l’attività medica espletata senza
consenso, per ciò stesso il medico debba rispondere delle
conseguenze negative subite dal paziente che il consenso in‑
formato non abbia prestato, costituirebbe una semplificazio‑
ne priva del necessario riguardo all’unitarietà del rapporto
ed al reale atteggiarsi della questione, la quale non attiene
tanto alla liceità dell’intervento del medico (che è solo una
qualificazione successiva), ma che nasce dalla violazione del
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diritto all’autodeterminazione del paziente, essendo al medi‑
co anzitutto imputabile di non averlo adeguatamente infor‑
mato per acquisirne il preventivo, consapevole consenso.
Ché, se lo avesse fatto ed all’esecuzione dell’intervento (con
le modalità rappresentategli) il paziente avesse in ipotesi ac‑
consentito, sarebbe palese l’insussistenza di nesso di causali‑
tà materiale tra il comportamento omissivo del medico e la
lesione della salute del paziente, perché quella lesione egli
avrebbe in ogni caso subito”.
Anche in caso, cioè, di sola “violazione del diritto all’au‑
todeterminazione, pur senza correlativa lesione del diritto
alla salute ricollegabile a quella violazione per essere stato
l’intervento terapeutico necessario e correttamente eseguito,
può dunque sussistere uno spazio risarcitorio; mentre la ri‑
sarcibilità del danno da lesione della salute che si verifichi
per le non imprevedibili conseguenze dell’atto terapeutico
necessario e correttamente eseguito secundum leges artis, ma
tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del pa‑
ziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque
senza un consenso consapevolmente prestato, necessaria‑
mente presuppone l’accertamento che il paziente quel deter‑
minato intervento avrebbe rifiutato se fosse stato adeguata‑
mente informato”.
Orbene, proprio con riguardo al principio della vicinanza
della prova, infatti, come delineato dalla celeberrima senten‑
za della cassazione n. 13533/2001, la richiamata pronuncia
ha affermato che se questo risulta promanante dalla conside‑
razione secondo la quale occorre porre a carico di un sogget‑
to la prova di un fatto che rientra nella sua “sfera d’azione”,
in quanto egli potrà più facilmente avere la “disponibilità” di
tale prova, anche al fine di evitare di accollare un gravoso
onere probatorio ad un soggetto che non ha il “dominio” di
quel fatto della cui prova si tratta, occorre giungere, in tema
di consenso informato, alle seguenti conclusioni.
Ed invero, il fatto da provare consiste nel verificare, attra‑
verso un giudizio controfattuale, se, laddove fosse intervenu‑
ta la condotta del medico (informare il paziente sui rischi e le
conseguenze dell’intervento) il paziente avrebbe prestato o
meno il consenso all’attività medico‑chirurgica.
Detta prova, se posta a carico del medico‑debitore, in
aderenza alla distribuzione dell’onere della prova in tema di
responsabilità contrattuale, si rileverebbe, nel caso di specie,
una probatio diabolica.
Il medico, cioè, per andare esente da responsabilità, avreb‑
be il grosso fardello di dimostrare che se fosse intervenuta la
sua condotta acquisitiva del consenso, il paziente, sulla base
di circostante oggettive, avrebbe acconsentito a procedere
all’intervento medico chirurgico. Se tale onere probatorio non
risulta assolto, si dovrebbe ritenere accertata la responsabili‑
tà del medico e lo stesso sarebbe perciò tenuto a risarcire i
danni incidenti sul diritto all’autodeterminazione.
Ricostruito il consenso, invece, come una valutazione
comparativa – personale e infungibile – tra i vari interessi
perseguiti dal paziente, al fine di stabilire quali tra questi
debba prevalere e quale debba recedere o rimanere privo di
tutela, è giocoforza ritenere che tale “conflitto” non possa
essere regolato ab externo, in ragione della titolarità di tali
interessi allo stesso soggetto, al quale soltanto compete la
scelta di quali sacrificare e quali tutelare.
La dimostrazione che anche in presenza di un valido con‑
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senso informato il paziente avrebbe comunque acconsentito
al trattamento medico‑chirurgico attiene a valutazioni le
quali, se non assolutamente relative all’elemento psicologico
del soggetto, quantomeno sono riferite a scelte personali del
paziente, che non possono essere sostituite né da valutazioni
del medico né di altri.
Orbene, una tale indagine su un elemento interno del vole‑
re del paziente non può essere rimessa a carico del medico‑de‑
bitore, sebbene trattasi di responsabilità da contatto sociale.
Richiedere un tale sforzo probatorio al medico significhe‑
rebbe accollargli una vera e propria probatio diabolica.
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In quanto, in vece, attinente a valutazioni proprie del
paziente e, dunque, rientranti nella sua “sfera d’azione”, la
dimostrazione che se fosse intervenuta la condotta informa‑
tiva del medico il paziente avrebbe evitato di sottoporsi
all’intervento, sulla base di valutazioni personali ed infungi‑
bili, non può che spettare – seguendo il ragionamento della
pronuncia del Tribunale di Napoli in commento – a quest’ul‑
timo, proprio in aderenza al principio di vicinanza della
prova. Il “dominio dei fatti”, in tal caso, appartiene al pa‑
ziente e la prova del nesso causale dev’essere sullo stesso ri‑
versata.
civile
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L’errore sul motivo
nel testamento
e la presupposizione
● Andrea Merlo
Avvocato
e
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Sommario: Premessa – 1. L’errore sul motivo nel testamen‑
to – 2. Il c.d. motivo mancato e la presupposizione – 3. Lega‑
to in sostituzione di legittima a favore del coniuge e decreto
di omologa di separazione con addebito o sentenza di divorzio
intervenuti nelle more dell’apertura della successione – 4.
Istituzione di erede a favore del coniuge e decreto di omologa
di separazione con addebito o sentenza di divorzio intervenu‑
ti nelle more dell’apertura della successione – 5. Presupposi‑
zione e legato di debito – 6. Fondazione testamentaria e so‑
pravvenuta carenza dello scopo – 7. Costituzione di fondo
patrimoniale per testamento e sopravvenuto divorzio dei
coniugi beneficiari – 8. Attribuzione alla comunione legale ex
art. 179 lett. b) c.c. e sopravvenuto scioglimento della comu‑
nione stessa.
Premessa
Il peculiare connotato del negozio mortis causa consisten‑
te nel differimento della sua efficacia al momento della morte
del de cuius può dare origine a questioni giuridiche complesse
qualora, nell’intervallo temporale che intercorre tra la reda‑
zione della scheda testamentaria e l’apertura della successione,
si verifichino episodi idonei, in linea teorica, ad incidere sulle
stesse disposizioni testamentarie.
La casistica al riguardo può comprendere varie ipotesi la
cui soluzione appare difficile, dato che in dottrina ed in giuri‑
sprudenza l’argomento non è stato approfondito.
Prima di affrontare alcuni casi specifici, è necessario di‑
stinguere, nell’area testamentaria, gli istituti che vengono ge‑
neralmente richiamati per la soluzione delle fattispecie: l’erro‑
re sul motivo e la presupposizione.
1. L’errore sul motivo nel testamento
Il dato normativo di riferimento è rappresentato
dall’art. 624, comma 2, c.c., ove sono richiesti due presuppo‑
sti affinché l’errore sul motivo assuma il rango di causa di
annullamento della disposizione testamentaria: il motivo deve
risultare dalla scheda testamentaria e deve essere il solo che
ha indotto il de cuius a disporre.
Riguardo al primo aspetto, il legislatore richiede che il
motivo scatenante la volontà del testatore risulti indicato in
qualsiasi modo nella scheda testamentaria. Non è indispensa‑
bile l’indicazione espressa ma è sufficiente che il testamento
contenga qualche indizio dal quale sia desumibile il motivo1.
Riguardo al secondo aspetto, la questione si rivela più
articolata in quanto l’indagine deve essere indirizzata a chia‑
rire sia a quali condizioni sia ravvisabile l’errore sul motivo sia
il significato di motivo determinante.
L’errore sul motivo presuppone una falsa rappresentazione
della realtà tale da condizionare la volontà espressa dal testa‑
tore nella scheda testamentaria. In altri termini, come confer‑
mato anche dalla giurisprudenza 2 , si ha errore sul motivo
quando questo attiene alla realtà obiettiva e non quando trae
origine da una valutazione, giuridicamente irrilevante, fatta
dal de cuius e dettata da considerazioni puramente personali.
Gli estremi per azionare il rimedio dell’azione di annulla‑
1 In tal senso L. Bigliazzi Geri, La vocazione testamentaria, in Trattato di diritto
privato diretto da Pietro Rescigno, vol. 6, Utet, 1997, pag. 122.
2 Cfr. Cass. n. 1357/1948; Cass. n. 1950/1962; Cass. n. 2132/1971.
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mento ai sensi dell’art. 624 c.c. ricorrono quando la rappre‑
sentazione di un fatto non vero ha condizionato la volontà
testamentaria a tal punto che la reale conoscenza della situa‑
zione avrebbe indotto il testatore a disporre diversamente3 .
Di conseguenza, quando la rappresentazione dei fatti, agli
occhi del testatore, risulta veritiera, la sussistenza dell’errore
sul motivo è esclusa.
In relazione ai connotati che deve rivestire l’errore, si deve
preventivamente sottolineare come il nostro legislatore,
nell’area testamentaria, non richieda il requisito della ricono‑
scibilità, prescritto invece dall’art. 1428 c.c., risultando assen‑
te nel testamento la contrapposizione di interessi propria dei
rapporti contrattuali4 .
Diverse riflessioni devono essere svolte in merito alla sus‑
sistenza nell’ambito testamentario di un requisito di essenzia‑
lità dell’errore come richiesto nell’area contrattuale
dall’art. 1429 c.c.
Si deve ritenere ormai superata l’impostazione autorevole
di chi5 sostiene che la disciplina prevista dagli artt. 624 e 625
c.c. sia diretta a regolare solo alcuni casi specifici, restando
salva, per le vicende non contemplate, la disciplina contrat‑
tuale nei limiti di compatibilità con il negozio testamentario.
Attualmente il carattere essenziale viene fatto rientrare nel
più ampio concetto di carattere determinante dell’errore che,
secondo la giurisprudenza6 , sussiste quando la volontà di re‑
golare mortis causa i propri assetti patrimoniali sia stata
condizionata in modo decisivo dalla percezione come reali di
fatti diversi dal vero.
Se l’area applicativa dell’errore sul motivo è quella appena
delineata, è evidente che le disposizioni condizionate da una
rappresentazione della realtà, veritiera al momento della re‑
dazione del testamento, ma successivamente alterata da vicen‑
de sopravvenute, sfuggono alla disciplina contenuta
nell’art. 624 c.c. e inducono l’operatore pratico del diritto a
ricorrere a differenti strumenti di tutela idonei a regolamen‑
tare un aspetto patologico del negozio che appare ignorato
dal legislatore.
In questo scenario si giustifica il ricorso alle figure del c.d.
motivo mancato e della presupposizione.
2. Il c.d. motivo mancato e la presupposizione
Il motivo mancato non è altro che il motivo determinante
della disposizione, presente nella fase di formazione della
volontà, ma venuto a mancare dopo la redazione del testa‑
mento.
In dottrina si discute se il motivo mancato possa rientrare
nell’area applicativa dell’art. 624 (a nulla rilevando il momen‑
to temporale in cui è venuto meno il motivo) o se invece
debba rientrare nel fenomeno della presupposizione.
Secondo autorevole dottrina7 non si applica l’art. 624 c.c.,
che renderebbe la disposizione testamentaria valida ma an‑
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7
In tal senso G. Corapi, Nullità, inesistenza, inefficacia del testamento in Trat‑
tato di diritto delle successioni e delle donazioni diretto da Giovanni Bonilini,
vol. II, La Successione Testamentaria, Giuffrè, 2009, pag. 1589.
Cfr. G. Corapi, op.cit., pag. 1585.
A. Cicu, Testamento, Milano, 1951, 132.
Cfr. Cass. n. 254/1985.
Cfr. C. Gangi, La successione testamentaria, Giuffrè, 1964, pag. 411; D. Ru‑
bino, La mancanza sopravvenuta del motivo espresso e determinante della di‑
sposizione testamentaria, in Riv. dir. priv., 1938, II, pag. 23 e ss.
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nullabile (su iniziativa di un interessato che eserciti la relativa
azione di annullamento entro cinque anni dal giorno in cui si
è avuto notizia dell’errore sul motivo), bensì la disposizione
deve ritenersi inefficace.
Deve trattarsi di un motivo determinante e risultante
dalla scheda testamentaria, venuto meno all’apertura della
successione.
Secondo una diversa impostazione, autorevolmente soste‑
nuta8 , la soluzione della questione necessita di una valutazio‑
ne caso per caso, che deve sempre risalire al momento della
testamentifactio, al fine di accertare:
‑ se si tratta di un errore di previsione relativo alla realiz‑
zazione di un fatto, o meglio, al carattere definitivo di quel
determinato evento;
‑ se la realizzazione del fatto ha costituito il presupposto
della disposizione.
Nel primo caso, che si basa su una falsa rappresentazione
della realtà fatta dal testatore al momento di redazione della
scheda testamentaria e che deve essere tenuto distinto dal
fenomeno della presupposizione, si applica l’art. 624 c.c.,
mentre nel secondo caso, dovendo la vicenda riferirsi ad even‑
ti sopravvenuti in un momento successivo, non trova applica‑
zione la norma citata, bensì si deve intendere venuto meno il
presupposto diretto a giustificare causalmente la disposizione,
da ritenersi inefficace. In quest’ultima ipotesi troverebbe ap‑
plicazione in ambito testamentario l’istituto della presuppo‑
sizione.
Secondo altra dottrina 9, la mancanza successiva della
presupposizione o della base negoziale è causa di risoluzione
della disposizione testamentaria.
Ancora, autorevole dottrina10 applica in via analogica
l’art. 624 c.c. anche al caso di deficienza sopravvenuta del
motivo determinante. In sostanza, tra il caso contemplato
dall’art. 624 c.c. e la sopravvenuta mancanza del motivo vi è
un’identità di ratio ed una equivalenza logica innegabile che
suggerisce di applicare ad entrambi i casi la stessa discipli‑
na.
Più di recente, parte della dottrina11 ha sostenuto la piena
validità ed efficacia della disposizione testamentaria la quale,
all’apertura della successione, sarà esposta ad impugnazione
da parte di quei soggetti interessati a chiedere un accertamen‑
to costitutivo della mancanza sopravvenuta del motivo.
In altri termini, la scheda testamentaria, al momento
della sua confezione, è perfetta in tutti i suoi elementi e l’aspet‑
to che ne giustifica la caducazione attiene ad un sopravvenu‑
to difetto di corrispondenza tra l’assetto negoziale voluto dal
testatore e la situazione effettiva in cui il testamento troverà
attuazione. L’accertamento di tale difetto di corrispondenza
dovrà avvenire mediante un provvedimento dell’autorità giu‑
diziaria su impulso delle parti interessate.
Si deve segnalare infine che un orientamento giurispruden‑
ziale confortato da tre sentenze della Suprema Corte12 , pur
8 Cfr. L. Bigliazzi Geri, op. cit., pag. 125 e ss.
9 Cfr. V. Pietrobon, voce Presupposizione (dir. civ.), in Enc. Giur. Treccani.
10 Cfr. G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento, Milano, 1954, pag.
202.
11 Cfr. Diritto delle Successioni a cura di Calvo‑Perlingeri, ESI, 2009, Tomo II,
829.
12Si tratta delle seguenti sentenze: Cass. n. 1357/1948, Cass. n. 1950/1962,
civile
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18
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condividendo la impostazione elaborata da Bigliazzi Geri sopra
esposta13 , ritiene che le disposizioni testamentarie, destinate a
sfuggire all’applicazione dell’art. 624 c.c., non siano colpite da
alcuna sanzione, non potendo essere ricondotte alle sopravve‑
nienze giuridicamente rilevanti soggette all’area applicativa
degli artt. 686‑687 c.c. che contengono un elenco tassativo di
cause di revocazione di disposizioni testamentarie.
In altri termini, secondo tale impostazione, da ritenersi
prevalente, non è configurabile errore sul motivo quando lo
scenario esistente al momento di redazione del testamento,
che ha influenzato la volontà del de cuius, si riveli veritiero e
risulti venuto meno o alterato a causa di eventi sopravvenuti
e imprevedibili, poiché manca la falsa rappresentazione della
realtà e la fattispecie esula dai casi giuridicamente rilevanti di
sopravvenienza. Quest’ultima, infatti, è dalla legge configu‑
rata come causa di revocazione ex lege delle disposizioni te‑
stamentarie solo in casi tassativamente determinati (artt. 686
e 687 c. c.) fuori dei quali le disposizioni conservano piena
efficacia ad onta dei mutamenti verificatisi nella situazione
tenuta presente dal testatore, qualora non siano revocate
nelle forme e nei modi previsti dagli artt. 680 e 684 c. c.
In sintonia con questa impostazione giurisprudenziale, si
può affermare che il nostro ordinamento contempla solo le vi‑
cende successive alla redazione del testamento idonee ad inci‑
dere sull’oggetto della disposizione testamentaria (vicende og‑
gettive), mentre trascura le vicende che vadano ad alterare una
posizione o una qualifica del beneficiario (vicende soggettive).
Infatti, ad esempio, quando un legato ha ad oggetto un
bene che, al momento della testamentifactio fa parte dell’asse
ereditario, mentre al momento di apertura della successione,
non ne fa più parte, il legato è senza effetto ai sensi dell’art. 654
c.c. oppure, ex art. 686 c.c., è revocato se c’è stata alienazio‑
ne. Nello stesso senso si può segnalare anche il disposto
dell’art. 673 c.c. che sancisce l’inefficacia del legato qualora
il bene oggetto della disposizione risulti interamente perito
durante la vita del testatore.
Invece, non sembra essere contemplato il caso di soprav‑
venuto mutamento del rapporto che lega il beneficiario al
testatore, come ad esempio quando viene meno la qualifica di
legittimario riferita al legatario.
Il soggetto beneficiario rappresenta un elemento esterno
al rapporto giuridico generato dalla disposizione testamenta‑
ria e viene in rilievo solo nel caso di premorienza, determi‑
nando, in tale ipotesi, l’operare della sostituzione o della
rappresentazione o dell’accrescimento o l’apertura della suc‑
cessione legittima.
La sopravvenienza di figli (art. 687 c.c.) è stata giudicata
dal legislatore giuridicamente rilevante in quanto idonea ad
incidere, sotto il profilo oggettivo, sul precedente assetto fa‑
Cass. n. 2132/1971; in particolare appare esemplare la massima n. 1357/1948
che viene di seguito riportata: “Per valutare l’esistenza di un motivo erroneo
bisogna risalire al momento della redazione del testamento; le modificazioni
nella realtà obiettiva che si verifichino successivamente non possono incidere
sulla validità della disposizione. Per aversi motivo erroneo, idoneo a rendere
inefficace la disposizione testamentaria, è necessario che risulti dallo stesso te‑
stamento che la volontà del testatore sia stata dominata da una rappresentazio‑
ne di fatto non vero o diverso dal vero, in modo che, se il fatto fosse stato
percepito o conosciuto nella sua verità, la disposizione testamentaria non sa‑
rebbe stata fatta”.
13 Cfr. nota 8.
c i v i l e
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miliare con conseguente necessità di tutela degli interessi
successori dei figli e dei discendenti del testatore14 , garantita
dalla revocazione di diritto delle disposizioni testamentarie.
Neppure risulta contemplato nel nostro ordinamento il
fenomeno in base al quale un evento sopravvenuto incida
sulla causa della disposizione testamentaria.
Si vuole alludere alla disposizione diretta a costituire una
fondazione (art. 14 c.c.) ed a quella diretta a costituire un
fondo patrimoniale (art. 167 c.c.), qualora, all’epoca di aper‑
tura della successione, nel primo caso, lo scopo dell’ente ri‑
sulti esaurito o inutile a causa di eventi sopravvenuti, o, nel
secondo caso, i beneficiari non siano coniugati o risultino
divorziati.
Inoltre si deve segnalare che il ricorso alla presupposizio‑
ne nell’area testamentaria appare di difficile attuazione in
quanto tale istituto risponde a logiche contrattuali e, di con‑
seguenza, la sua area applicativa deve intendersi circoscritta
agli atti inter vivos.
In questo senso si può richiamare il principio non codifica‑
to di sottrazione del testamento alla disciplina contrattuale.
In altri termini, tutta la materia successoria, contenuta nel
Libro II del codice civile, è sottoposta ad una regolamentazio‑
ne autonoma che non necessita di integrazioni o di richiami
analogici alla disciplina del contratto.
La questione delineata può emergere in differenti profili
casistici che devono essere analizzati singolarmente.
3. Legato in sostituzione di legittima a favore del coniuge e decre‑
to di omologa di separazione con addebito o sentenza di divorzio
intervenuti nelle more dell’apertura della successione
Nel caso di legato in sostituzione di legittima a favore del
coniuge, il quale, al momento di apertura della successione
risulta separato con addebito o divorziato, si può affermare
che la fattispecie esula dall’applicazione dell’art. 624 c.c.. Il
legato disciplinato dall’art. 551 c.c. rappresenta un caso di
disposizione testamentaria a beneficiario qualificato, in quan‑
to il perfezionamento di tale fattispecie richiede la sussistenza
in capo al legatario della posizione di legittimario rispetto al
testatore e la perdita di tale qualifica (come avviene a seguito
del decreto di omologa della separazione con addebito o a
seguito della sentenza di divorzio15) al momento in cui il ne‑
14 Cfr. Cass. n.1935/1996.
15 Al riguardo, si deve segnalare che se, da una parte, nessuno dubita che la sen‑
tenza di divorzio comporti la perdita della qualifica di legittimario in capo al
coniuge superstite, dall’altra, è discusso se il coniuge superstite separato con
addebito conservi la posizione di legittimario. A sostegno della tesi positiva,
vengono segnalati due argomenti. Innanzitutto si sottolinea la collocazione si‑
stematica dell’art. 548 c.c. inserito nell’ambito della successione dei legittimari:
l’unica giustificazione di tale scelta legislativa è quella di riconoscere anche
detto coniuge come legittimario. Un altro argomento che depone a favore
della tesi positiva risiede nella terminologia impiegata nel c.c. laddove lo stesso
art. 548 c.c. parla comunque del “coniuge superstite” ponendo l’accento sulla
sopravvivenza del vincolo coniugale che dovrebbe assicurare la qualifica di le‑
gittimario. A sostegno della tesi negativa, da ritenersi attualmente preferibile
(cfr. Diritto delle Successioni a cura di Calvo‑Perlingeri, ESI, 2008, Tomo I,
pag. 464 e ss.), vengono richiamati alcuni argomenti. In primo luogo, la circo‑
stanza che a detto coniuge non venga assicurata una quota di eredità porta ad
escludere il coniuge separato con addebito dalla categoria dei legittimari. In
secondo luogo, se si considera che l’assegno ex art. 548 c.c. non è altro che un
diritto di credito sorto in capo al coniuge separato con addebito, tale aspetto
porta ad escludere dal novero dei legittimari il coniuge il quale potrà agire per
la soddisfazione del credito rimasto insoddisfatto con gli ordinari mezzi di tu‑
tela del credito e non con l’azione di riduzione. Infatti, nell’ipotesi di mancata
corresponsione dell’assegno, non è ravvisabile una lesione di legittima poiché
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gozio testamentario diventa produttivo di effetti (ossia al
momento di apertura della successione) sembra dover assu‑
mere una certa rilevanza nella vicenda delineata.
Le opinioni relative alla vicenda in esame non sono uni‑
voche.
Secondo una impostazione che emerge da una risalente
pronuncia della Suprema Corte16 , l’operatività della presup‑
posizione va valutata caso per caso, indagando la effettiva
volontà del testatore, poiché a determinare l’applicazione di
detto istituto non è sufficiente la mera indicazione della qua‑
lità di coniuge del beneficiario che può avere una valenza
puramente descrittiva.
Questo orientamento qualifica la presupposizione come
“condizione non sviluppata” da cui dipende l’efficacia del
rapporto, sottolinea il fondamento normativo di tale istituto
e assegna alla presupposizione il rango di principio di diritto
positivo.
Con queste premesse viene affermata l’applicazione della
presupposizione al caso che qui interessa e, di conseguenza,
viene chiarito che il decreto di omologa della separazione con
addebito e la sentenza di divorzio eliminano il presupposto
che sorregge sotto il profilo causale l’attribuzione a titolo di
legato: di conseguenza, la disposizione deve intendersi risolta
di diritto.
Secondo un diverso orientamento, confortato da tre pro‑
nunce della Suprema Corte17, che, come detto, in casi analo‑
ghi, negano l’operatività della presupposizione, la disposizio‑
ne mantiene la sua efficacia, in quanto le modificazioni nella
realtà obiettiva che si verifichino successivamente alla reda‑
zione del testamento non possono incidere sulla validità della
disposizione stessa.
L’adesione a tale impostazione non può trascurare il di‑
sposto dell’art. 551, comma 3, c.c. laddove il legislatore di‑
spone che il legato in sostituzione di legittima grava sulla
porzione indisponibile.
Infatti, pur rimanendo la disposizione valida ed efficace,
il venir meno in capo al beneficiario della qualifica di legitti‑
mario comporta che il legato, all’apertura della successione,
dovrà intendersi gravante sulla porzione disponibile, risultan‑
do a tutti gli effetti una disposizione mortis causa a titolo
particolare sottratta alla disciplina prevista dall’art. 551 c.c.
Inoltre un’eventuale rinunzia al legato non consentirà di
avvalersi dell’azione di riduzione ex art. 551, comma 1, c.c.
dato che l’ex coniuge, a seguito della separazione con addebi‑
to o del divorzio, ha perso la posizione ed i privilegi che la
legge riconosce ai legittimari.
4. Istituzione di erede a favore del coniuge e decreto di omologa
di separazione con addebito o sentenza di divorzio intervenuti
nelle more dell’apertura della successione
L’evento sopravvenuto rappresentato dal decreto di omo‑
il coniuge separato con addebito non ha diritto ad una quota del patrimonio
ereditario. Si noti infine che se il coniuge superstite non godeva degli alimenti
al momento di apertura della successione, pur a fronte di un effettivo bisogno,
detto coniuge non avrebbe diritto a ricevere l’assegno, anche se avesse messo
in mora il defunto.
16 Cfr. Cass. n. 1619 del luglio 1947, in Riv. dir. comm., 1948, II, 163, con nota
critica di R. Sacco, La presupposizione e l’art. 1467 cod. civ.
17 Cfr. nota 12.
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19
loga della separazione con addebito o dalla sentenza di divor‑
zio deve essere analizzato anche in relazione al caso in cui il
coniuge sia stato istituito erede.
A parere di chi scrive, si possono immaginare tre diversi
profili casistici ed ai fini della soluzione rileva l’orientamento
prescelto.
Potrebbe verificarsi l’ipotesi del coniuge istituito erede in
una quota eccedente la legittima o senza predeterminazione
di quota, del coniuge istituito erede nella quota di riserva o
ancora del coniuge istituito erede nella quota che la legge gli
riserverà all’apertura della successione.
Sempre aderendo alla opinione prevalente sopracitata, che
sostiene la validità e l’efficacia delle disposizioni testamentarie
nell’eventualità che venga meno la posizione di legittimario in
capo al beneficiario, nel primo caso si deve ritenere che l’istitu‑
zione di erede, alla morte del testatore, graverà sulla porzione
disponibile e, per l’eventuale eccedenza, sarà esposta all’azione
di riduzione da parte degli altri legittimari, se esistenti.
Nel secondo caso, essendo la disposizione esclusa dall’area
applicativa dell’art. 624 c.c., l’istituzione di erede verrà impu‑
tata, all’apertura della successione, nei limiti di capienza,
sulla quota disponibile.
La terza vicenda riproduce una tecnica redazionale che
potrebbe rivelarsi soddisfacente al fine di confezionare una
scheda testamentaria blindata e non impugnabile.
Infatti, la tecnica redazionale impiegata, contenente una
relatio formale alla disciplina relativa alla successione neces‑
saria (e segnatamente agli artt. 540 e 542 c.c.), consente di
risolvere ab origine la questione relativa alla sorte della dispo‑
sizione a favore del coniuge, qualora all’apertura della succes‑
sione, siano già intervenuti il decreto di omologa della sepa‑
razione con addebito oppure la sentenza di divorzio: in tal
caso la disposizione risulterà inefficace.
In altri termini, la clausola testamentaria è elaborata in
modo tale da prevedere qualunque condizione in cui si venga
a trovare il coniuge superstite: se, all’apertura della successio‑
ne, avrà già perso la qualifica di legittimario, l’istituzione di
erede sarà inefficace in quanto la legge non riserva nulla al
coniuge separato con addebito o divorziato; se invece è anco‑
ra legittimario, la disposizione sarà efficace e la relativa quota
ereditaria verrà calcolata ai sensi degli artt. 540‑542 c.c.
La clausola testamentaria potrebbe essere del seguente
tenore: “istituisco erede Tizia nella quota che le sarà riserva‑
ta dalla legge vigente all’epoca della mia morte.”
5. Presupposizione e legato di debito
Un’altra vicenda emblematica può essere quella rappresen‑
tata dal legato a favore del creditore e dalla estinzione (sati‑
sfattiva o non satisfattiva) del rapporto obbligatorio interve‑
nuta prima dell’apertura della successione.
Il legato ex art. 659 è composto da una disposizione a
carattere patrimoniale solvendi causa, diretta ad estinguere
il debito ed avente ad oggetto, di regola, una somma di dena‑
ro, e da una dichiarazione di scienza diretta a specificare il
rapporto obbligatorio da estinguere, nel cui ambito il ruolo
di debitore spetta al testatore mentre il ruolo di creditore ri‑
guarda il legatario.
Nel caso di legato a favore del creditore, qualora all’aper‑
tura della successione il debito risulti estinto, si ripresenta in
altre vesti la stessa questione connessa al motivo mancato,
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anche se in tale scenario l’efficacia della disposizione in og‑
getto ha come presupposti, oltre alla qualifica specifica di
creditore del de cuius in capo al beneficiario (che resta un
elemento esterno del rapporto), anche la sussistenza del rap‑
porto obbligatorio alla morte del testatore.
Proprio tale ultimo aspetto si innesta nella causa solvendi
che giustifica l’attribuzione patrimoniale a titolo di legato e,
di conseguenza, si deve ritenere che la sopravvenuta estinzio‑
ne del rapporto obbligatorio al momento di apertura della
successione determini il venir meno della giustificazione cau‑
sale dell’attribuzione stessa.
È evidente che tale legato, valido al momento della testa‑
menti factio, sarà affetto da inefficacia per sopravvenuta
mancanza di causa al momento dell’apertura della successio‑
ne, qualora il rapporto obbligatorio risulti estinto.
Secondo autorevole dottrina18 , in via estensiva troverebbe
applicazione alla vicenda delineata il disposto dell’art. 624
c.c. e la conseguente inefficacia del legato ex art. 659 c.c. si
ricaverebbe dal fatto che lo scopo o il motivo determinante
del lascito sono venuti meno.
Secondo un’opinione rimasta isolata19, in caso di estinzio‑
ne del debito prima dell’apertura della successione, il legato a
favore del creditore mantiene la sua efficacia poiché il paga‑
mento compiuto dal de cuius testimonia la sua volontà tesa ad
escludere che il legato sia finalizzato ad estinguere il debito.
6. Fondazione testamentaria e sopravvenuta carenza dello scopo
Altro scenario da prendere in esame attiene alla costitu‑
zione diretta per testamento di una fondazione, il cui scopo,
legittimo e meritevole di tutela al momento di redazione del
testamento, si rivela, per varie ragioni, irrealizzabile alla
morte del de cuius.
Si deve premettere che la costituzione di fondazione, am‑
messa anche attraverso la fonte testamentaria dall’art. 14 c.c.,
viene generalmente inquadrata come un negozio di destina‑
zione dei beni allo scopo, e in questo scenario appare eviden‑
te che lo scopo, elemento irrinunciabile da inserire nell’atto
costitutivo ai sensi dell’art. 16 c.c. e dell’art. 1, comma 3,
D.p.r. 10 febbraio 2000 n. 361, concorre in modo determi‑
nante a formare il congegno causale dello stesso negozio co‑
stitutivo dell’ente.
In coerenza con le norme sopra citate, gli artt. 27 e 28 c.c.
prevedono l’estinzione o la trasformazione della persona giuri‑
dica per esaurimento, impossibilità o scarsa utilità dello scopo.
Nella fattispecie che qui interessa, si pensi, a titolo esem‑
plificativo, ad una fondazione istituita con il preciso scopo di
promuovere la ricerca di un vaccino efficace contro una ma‑
lattia incurabile, vaccino che, all’apertura della successione,
risulta già scoperto.
In tale ipotesi, l’evento sopravvenuto (come può essere la
scoperta di un vaccino per una malattia incurabile) si presen‑
ta come una vicenda oggettiva che va ad incidere sulla causa
destinatoria della disposizione costitutiva della fondazione,
risultando lo scopo già raggiunto prima della venuta ad esi‑
stenza dell’ente.
18 Cfr. Gangi, op.cit., pag. 412.
19 Cfr. F.S. Azzariti‑G. Martinez ‑G. Azzariti, Successioni per causa di morte
e donazioni, Cedam, 1963, pag. 483.
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Di conseguenza, nella vicenda descritta si assiste al venir
meno non del motivo determinante bensì della causa stessa
della disposizione e tale aspetto rende inefficace la disposizio‑
ne ab origine.
7. Costituzione di fondo patrimoniale per testamento e sopravve‑
nuto divorzio dei coniugi beneficiari
Le medesime riflessioni svolte per la fondazione possono
essere richiamate anche per il fondo patrimoniale costituito
per testamento.
L’art. 167 c.c. consente espressamente la costituzione te‑
stamentaria del fondo patrimoniale che, tecnicamente, si
presenta formata da due disposizioni: 1) attribuzione del bene
(a titolo di institutio ex re certa o di legato20); 2) costituzione
sullo stesso bene del vincolo di destinazione per far fronte ai
bisogni della famiglia.
Come ha fatto notare autorevole dottrina 21 , tale specifica
destinazione rappresenta sia la funzione del fondo patrimo‑
niale sia la sua connotazione causale.
Nello scenario delineato, lo scioglimento degli effetti ci‑
vili del matrimonio, determinato dal divorzio, estingue sul
nascere il fondo patrimoniale poiché, nelle more dell’apertura
della successione, è venuto meno lo scopo del vincolo di de‑
stinazione, concepito ad sustinenda onera familiae.
Gli stessi effetti si verificano anche qualora alla morte del
testatore i beneficiari non risultino tra loro coniugati.
Di conseguenza, si deve ritenere che anche la costituzione
diretta per testamento del fondo patrimoniale risulti ineffica‑
ce ab origine qualora, alla morte del testatore, venga a man‑
care la causa destinatoria rappresentata, nel caso specifico,
dall’assenza di una famiglia quale beneficiaria del vincolo di
destinazione.
8. Attribuzione alla comunione legale ex art. 179 lett. b) c.c. e so‑
pravvenuto scioglimento della comunione stessa
Come noto, nell’elenco tassativo di acquisti esclusi dalla
comunione legale sono compresi anche quelli di provenienza
successoria.
Il dato normativo di riferimento è rappresentato
dall’art. 179 lett. b) c.c. che tuttavia fa salva la possibilità per
il testatore di indirizzare l’attribuzione mortis causa alla co‑
munione legale.
I profili casistici che qui interessano attengono sia alla
attribuzione ad un solo coniuge con destinazione alla comu‑
nione legale sia alla attribuzione ad entrambi i coniugi in
comunione legale.
In tali ipotesi ci si deve interrogare sulle conseguenze
dello scioglimento della comunione legale, per una qualsiasi
delle cause indicate dall’art. 191 c.c., intervenuto nelle more
dell’apertura della successione.
Il caso di attribuzione ad un solo coniuge con destinazio‑
ne alla comunione legale allude alla disposizione testamenta‑
ria in cui l’attribuzione patrimoniale mortis causa viene af‑
20 Cfr. M. Ieva, Manuale di tecnica testamentaria, Cedam, 1996, pag. 75. Per
l’ammissibilità incondizionata della costituzione testamentaria del fondo
patrimoniale anche mediante una disposizione a titolo universale si veda M.
L. Cenni, in Trattato di diritto di famiglia diretto da Zatti, Giuffrè, 2002,
pag. 594.
21 M. L. Cenni, op. cit., pag. 556.
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fiancata da una clausola idonea a determinare l’acquisto in
comunione legale a favore dell’altro coniuge, come consentito
dall’art. 179 lett. b) c.c.. In questo scenario, lo scioglimento
di detto regime dovrebbe far salva l’attribuzione a favore del
singolo beneficiario, a meno che non risulti dalla scheda te‑
stamentaria che la destinazione alla comunione legale costi‑
tuisca la ragione determinante della disposizione.
In quest’ultima ipotesi, secondo un autore22 , appare cor‑
retto il richiamo all’art. 624, comma 2, c.c. con conseguente
annullabilità della disposizione nella sua interezza per errore
sul motivo determinante.
Ad avviso di chi scrive, in tale ipotesi l’intervenuto scio‑
glimento della comunione legale non rientra nell’area appli‑
cativa dell’art. 624, comma 2, c.c., poiché non è ravvisabile
al momento di redazione del testamento una falsa rappresen‑
tazione della realtà. In altri termini il de cuius ha espresso la
sua volontà mortis causa riguardo ai suoi assetti patrimonia‑
li sulla scorta di una rappresentazione veritiera della realtà e,
nel dettaglio, essendosi correttamente accertato della vigenza
22 cfr. L. Mattiangeli, Brevi considerazioni in ordine alle attribuzioni mortis
causa alla comunione legale ai sensi dell’art. 179 lettera b) c.c., in Il Notaro,
ottobre‑novembre 1999, pag. 109 e ss.
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del regime di comunione legale tra i coniugi beneficiari della
disposizione. Il venir meno del regime di comunione legale al
momento di apertura della successione non intacca l’attribu‑
zione a favore del singolo beneficiario che rimane valida ed
efficace in ogni caso, mentre comporta l’inefficacia della
clausola diretta a far rientrare nel regime di comunione lega‑
le detta attribuzione mortis causa, per sopravvenuta mancan‑
za dello stesso regime patrimoniale, a prescindere dalla circo‑
stanza che la destinazione abbia costituito l’unico motivo
determinante della disposizione.
Nel caso di attribuzione ad entrambi i coniugi in comu‑
nione legale, la disposizione può restare ferma o essere affet‑
ta da vizio di annullabilità in base al rilievo assegnato dal de
cuius alla vigenza del regime patrimoniale.
Di conseguenza l’azione di annullamento deve intendersi
preclusa tutte le volte in cui sia sottolineata nel testamento la
volontà di beneficiare i coniugi a prescindere dalla preferen‑
ziale attribuzione agli stessi in comunione legale 23 .
23In questo cfr. L. Mattiangeli, op. cit., pag. 109 e ss.
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Rassegna di legittimità
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A cura di
Corrado d’Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
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Circolazione stradale – Sanzioni – Decurtazione dei punti dalla
patente – Opposizione ai sensi dell’art. 204‑bis Cod. Strada – Im‑
pugnazione immediata ai soli effetti della sanzione accesso‑
ria – Ammissibilità
La Sezioni Unite Civili hanno affermato che l’autore di
un’infrazione al Codice della Strada, destinatario del prean‑
nuncio della prevista sanzione accessoria della decurtazione
dei punti dalla patente di guida, di cui va fatta menzione nel
verbale di accertamento, può proporre opposizione immedia‑
ta dinnanzi al giudice di pace per i vizi afferenti a tale sanzio‑
ne, senza necessità di attendere la comunicazione della varia‑
zione di punteggio da parte dell’Anagrafe nazionale degli
abilitati alla guida.
Cass. civ., sez. Unite, sentenza 13 marzo 2012, n. 3936
Pres. Vittoria, Est. Petitti
Famiglia – Filiazione naturale –Violazione degli obblighi gravanti
sul genitore che non abbia riconosciuto il figlio – Obbligo di risar‑
cimento del danno non patrimoniale – Sussistenza
La Corte ha affermato il principio secondo cui la viola‑
zione del complesso dei doveri facenti capo al genitore natu‑
rale, cui corrispondono diritti inviolabili e primari della
persona del destinatario costituzionalmente garantiti (art. 2
e 30 Cost.), comporta la sussistenza di un illecito civile, tro‑
vando l’illecito endofamiliare sanzione non soltanto nelle
misure tipiche previste dal diritto di famiglia, ma anche
nell’obbligo di risarcimento dei danni non patrimoniali, san‑
cito dall’art. 2059 cod. civ. In particolare, il disinteresse di‑
mostrato verso il figlio dal genitore naturale, manifestatosi
per lunghi anni e connotato, quindi, dalla violazione degli
obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione, deter‑
mina un vulnus dalle conseguenze rimarchevoli ed inelimina‑
bili a quei diritti che, scaturendo dal rapporto di filiazione,
trovano tutela nella Carta costituzionale e nelle norme di
natura internazionale recepite nel nostro ordinamento.
Né la pronuncia di riconoscimento della paternità natu‑
rale o la proposizione della relativa domanda costituiscono
presupposti della responsabilità aquiliana scaturente dalla
violazione dei doveri inerenti al rapporto di filiazione, in
quanto l’obbligo del genitore naturale di concorrere nel man‑
tenimento del figlio sorge con la nascita del medesimo.
Cass. civ., sez. I, sentenza 10 aprile 2012, n. 5652
Pres. Luccioli, Est. Campanile
Famiglia – Matrimonio civile – Tra persone omosessuali – Celebra‑
to all’Estero – Rilevanza per l’Ordinamento Italiano
La Prima Sezione, rigettando il ricorso di due cittadini
italiani dello stesso sesso, unitisi in matrimonio all’estero, i
quali rivendicavano il diritto alla trascrizione dell’atto nei
registri dello stato civile italiano, ha affermato, sulla scorta
della giurisprudenza costituzionale ed europea, che quel
matrimonio non è tuttavia “inesistente” per l’ordinamento
interno, ma è solo inidoneo a produrvi effetti giuridici; ha
affermato, altresì, in senso generale, che le persone omoses‑
suali conviventi in stabile relazione di fatto sono titolari del
diritto alla “vita familiare” e possono agire in giudizio in
“specifiche situazioni” per reclamare un “trattamento omo‑
geneo” rispetto ai conviventi matrimoniali.
Cass. civ., sez. I, sentenza 15 marzo 2012, n. 4184
Pres. Luccioli, Est. Di Palma
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Giurisdizione – Giudizio tempestivamente riproposto innanzi al
G.A. – Consiglio di Stato – Conflitto di giurisdizione d’ufficio ex
art. 11 c.p.a. – Ammissibilità – Limiti
Le Sezioni Unite hanno enunciato nell’interesse della leg‑
ge, ai sensi dell’art. 363, terzo comma, cod. proc. civ., il se‑
guente principio di diritto: “La disposizione dettata dall’art. 11,
comma 3, del codice del processo amministrativo – che si in‑
terpreta alla stregua di quella analoga contenuta dell’art. 59,
comma 3, della legge n. 69 del 2009 – non preclude in linea
di principio che nel giudizio tempestivamente riproposto da‑
vanti a sé il giudice amministrativo di secondo grado sollevi
d’ufficio il conflitto di giurisdizione: ad evitare che tale giudi‑
ce risulti privato del potere di rilievo d’ufficio del proprio
difetto di giurisdizione, ciò si deve ammettere quante volte il
giudizio di primo grado si sia concluso previo rilievo di que‑
stione attinente all’ordine del processo, logicamente pregiudi‑
ziale rispetto alla stessa questione di giurisdizione”.
Cass. civ., sez. Unite, sentenza 13 aprile 2012, n. 5873
Pres. ed Est. Vittoria
Lavoro – Lavoro subordinato – Rapporto a termine – Conversio‑
ne – Indennità ex art. 32 della Legge n. 183 del 2010 – Natura – Pe‑
nale “ex lege” – Liquidazione – Requisiti – Criteri – Periodo di ri‑
ferimento
In tema di risarcimento del danno per i casi di conversio‑
ne del contratto di lavoro a tempo determinato, lo “ius su‑
perveniens” ex art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del
2010 configura una sorta di penale “ex lege” a carico del
datore di lavoro che ha apposto il termine nullo; pertanto,
l’indennità va liquidata, nei limiti e con i criteri fissati dalla
novella, a prescindere dalla costituzione in mora del datore
di lavoro e dalla prova di un danno effettivo del lavoratore,
trattandosi di indennità “forfetizzata” e “onnicomprensiva”
per i danni causati dalla nullità del termine nel “periodo
intermedio” (dalla scadenza del termine alla sentenza di
conversione).
Cass. civ., sez. lav., sentenza 29 febbraio 2012, n. 3056
Pres. Roselli, Est. Nobile
Marchi e brevetti – Brevetto di procedimento chimico – Pre‑uso
La Corte ha tracciato le linee interpretative del “pre‑uso
aziendale”, ai sensi dell’art. 68, comma 3, del Codice della
proprietà industriale, stabilendo che il pre‑utente ha diritto
di continuare ad usare l’unitario procedimento, dal momen‑
to che egli per primo lo ha adoperato, restando peraltro
commisurata la sua facoltà di uso all’anno antecedente la
prima protezione brevettuale da altri ottenuta, sebbene il
titolare giuridico abbia proceduto a doppia registrazione. Ha,
inoltre, precisato la Corte che la legge individua, quale para‑
metro, l’uso endo‑anziendale, mentre non considera l’esito
commerciale del prodotto di quell’uso.
Cass, civ., sez. I, sentenza 5 aprile 2012, n. 5497
Pres. Carnevale, Est. Berruti
Previdenza (assicurazioni sociali) – Pensione di vecchiaia – Regi‑
me di favore per i lavoratori discontinui – Estensione ai lavorato‑
ri domestici con orario ridotto – Esclusione
In tema di diritto alla pensione di vecchiaia, la deroga
stabilita dall’art. 2, comma 3, lettera b), del d.lgs. n. 503 del
1992 a favore dei lavoratori subordinati che, in possesso di
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un’anzianità assicurativa di almeno venticinque anni, siano
stati occupati, per almeno dieci anni, per periodi inferiori
all’intero anno solare (“di durata inferiore a 52 settimane
nell’anno solare”) non è suscettibile di applicazione analogi‑
ca, né di interpretazione estensiva, e, pertanto, non opera a
favore dei lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari
che, a parità delle altre condizioni richieste dalla norma,
possano far valere una minore contribuzione per aver lavo‑
rato, per circa un decennio, per l’intero anno solare, ma con
orario inferiore alle ventiquattro ore settimanali.
Cass. civ., sez. lav., sentenza 28 febbraio 2012, n. 3044
Pres. Miani Canevari, Est. Mancino
Previdenza (assicurazioni sociali) – Prescrizione – Delle prestazio‑
ni – Sospensione del termine
Le Sezioni Unite Civili hanno stabilito, con specifico ri‑
guardo all’indennità di maternità, ma componendo un con‑
trasto di portata generale, che la prescrizione delle prestazio‑
ni assistenziali e previdenziali è sospesa, oltre che durante il
tempo di formazione del silenzio rifiuto sulla richiesta all’isti‑
tuto ex art. 7 della legge n. 533 del 1973, anche durante il
tempo di formazione del silenzio rigetto sul ricorso ammini‑
strativo condizionante la procedibilità della domanda giudi‑
ziale ex art. 443 cod. proc. civ., vigendo una regola di setto‑
re, conforme ai principi costituzionali di equità del processo
ed effettività della tutela giurisdizionale, per cui la prescri‑
zione non corre durante il tempo di attesa incolpevole dell’as‑
sicurato.
Cass. civ., sez. I, sentenza 6 aprile 2012, n. 5572
Pres. Vittoria, Est. Amoroso
Procedimenti sommari – D’ingiunzione – Decreto – Opposizio‑
ne – Art. 2 della l. 29 dicembre 2011, n. 218 – Interpretazione au‑
tentica dell’art. 165, primo comma, cod. proc. civ. – Riduzione del
termine di costituzione dell’opponente – Presupposti – Assegna‑
zione all’opposto di termine a comparire ridotto – Necessità
La Sezione II, ritornando sulla questione già oggetto di
Cass., sez. Un. 9 settembre 2010, n. 19246, ha affermato che,
per effetto della norma di interpretazione autentica
dell’art. 165, primo comma, cod. proc. civ., dettata dall’art. 2
della l. 29 dicembre 2011, n. 218, nei giudizi di opposizione
a decreto ingiuntivo la riduzione alla metà del termine di
costituzione dell’opponente si applica solo se questi abbia
assegnato all’opposto un termine di comparizione inferiore a
quello di cui all’art. 163‑bis, primo comma, cod. proc. civ..
Cass. civ., sez. II, sentenza 16 febbraio 2012, n. 2242
Pres. Triola, Est. Giusti
Responsabilità civile – Responsabilità dello Stato per omesso re‑
cepimento di direttive comunitarie – Prescrizione – Disciplina in‑
trodotta dalla Legge di stabilità 2012 – Retroattività – Esclusione
In tema di responsabilità dello Stato per mancato recepi‑
mento di direttive comunitarie, la norma introdotta dall’art. 4,
comma 43, della legge n. 183 del 2011, secondo la quale la
prescrizione del diritto al risarcimento del danno soggiace al
termine quinquennale ex art. 2947 cod. civ., vale soltanto per
i fatti verificatisi successivamente alla sua entrata in vigore,
poiché essa non evidenzia i caratteri della norma interpreta‑
tiva, idonei a sottrarla al principio di irretroattività; ne con‑
segue che, per i fatti anteriori alla novella, opera la prescrizio‑
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ne decennale, secondo la qualificazione giurisprudenziale nei
termini dell’inadempimento contrattuale. (Principio afferma‑
to in fattispecie relativa al danno da omesso recepimento
delle direttive CEE sui compensi dei medici specializzandi).
Cass. civ., sez. lav., sentenza 8 febbraio 2012, n. 1850
Pres. Miani Canevari, Est. Mancino
venir meno di prestazioni in denaro o di altre provvidenze
comportanti un’utilità economica, spontaneamente erogate in
vita dal parente deceduto, è necessario che preesistesse tra i
congiunti una situazione di effettiva convivenza.
Cass. civ., sez. III, sentenza 16 marzo 2012, n. 4253
Pres. Trifone, Est. Carluccio
Risarcimento del danno – Morte di congiunti (parenti della vitti‑
ma) – Danno patrimoniale e non patrimoniale soggetti estranei
allo stretto nucleo familiare (nonni, nipoti, genero, nuora) – Risar‑
cibilità – Condizioni – Situazione di convivenza con la vitti‑
ma – Necessità
La Terza Sezione Civile ha affermato che, in ipotesi di
fatto illecito costituito dall’uccisione del congiunto, con riguar‑
do a soggetti estranei all’ambito del ristretto nucleo familiare
(quali i nonni, i nipoti, il genero, o la nuora), perché possano
ritenersi risarcibili il danno non patrimoniale per lesione del
rapporto parentale, nonché il danno patrimoniale correlato al
Tributi – Poste e radiotelecomunicazioni pubbliche – Radio e te‑
levisione – Canone di abbonamento Rai – Irripetibilità da parte
del contribuente
La Corte ha escluso il diritto del contribuente di agire in
giudizio per ottenere il rimborso del canone di abbonamento
Rai, qualificato come imposta destinata alla realizzazione di
un aiuto di Stato esistente e, dunque, del tutto legittimo,
attesa la decisione della Commissione Europea del 20 aprile
2005 n. E 9/2005.
Cass. civ., sez. I, sentenza 26 marzo 2012, n. 4776
Pres. Rovelli, Est. Campanile.
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Rassegna di merito
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A cura di
Mario De Bellis e Daniela Iossa
Avvocati
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Abuso del diritto – Notifica plurimi atti di precetto per più credito‑
ri patrocinati da un unico difensore – Inutile moltiplicazione di
spese – Violazione dei principi di lealtà e buona fede nel processo
1. Pur senza incorrere in una sanzione di inammissibilità
e/o irricevibilità, viola i principi di lealtà e buona fede nel
processo (e commette dunque abuso del diritto) il difensore
che, in virtù di un unico titolo esecutivo ed a favore di più
creditori, notifica plurimi atti di precetto all’unico debitore,
gravando inutilmente quest’ultimo di una moltiplicazione di
spese in ragione della moltiplicazione dei precetti, che, vice‑
versa, ben avrebbero potuto essere ridotti ad uno, benefician‑
do della circostanza oggettiva della presenza di un unico di‑
fensore.
2. Ai sensi dell’art. 49 del Codice deontologico Forense,
l’avvocato non deve aggravare con onerose e plurime inizia‑
tive giudiziali la situazione debitoria della controparte quan‑
do ciò non corrisponda ad effettive ragioni di tutela della
parte assistita. Pertanto commette abuso del diritto il difen‑
sore che, in virtù di un unico titolo esecutivo ed a favore di
più creditori che hanno conferito lui mandato, notifica pluri‑
mi atti di precetto all’unico debitore, aggravando la posizione
del debitoria con una moltiplicazione delle spese senza alcun
effetto migliorativo per la parte assistita.
Trib. Napoli, sez. V‑bis, sentenza 20 gennaio 2012, n. 687
Giud. M. Cacace
Contratto di fideiussione – Inserimento della clausola di pagamen‑
to “a prima richiesta e senza eccezioni” – Qualificazione del nego‑
zio – Limite alla operatività del contratto autonomo di garan‑
zia – Escussione – Istanza cautelare di sospensione – Onere pro‑
batorio.
1. L’inserimento in un contratto di fideiussione di una
clausola di pagamento “a prima richiesta e senza eccezioni”
vale di per sé a qualificare il negozio come contratto autono‑
mo di garanzia (cd. Garantievertrag), in quanto incompatibi‑
le con il principio di accessorietà che caratterizza il contratto
di fideiussione (cfr. Cass. sez. Un. 18/2/2010, n. 3947).
È noto che il tratto caratteristico di tale figura atipica
contrattuale attiene alla autonomia dell’obbligazione assunta
dal garante rispetto a quella garantita, il che pone in evidenza
la distinzione netta rispetto alla fattispecie tipica della fide‑
iussione, modellata, al contrario, proprio sull’accessorietà
della prima obbligazione rispetto alla seconda, della quale
segue le sorti.
Attraverso la rinuncia da parte del garante alle eccezioni
relative al rapporto sottostante, il beneficiario consegue il
risultato di essere tenuto indenne dal mancato adempimento
dell’obbligazione principale, senza vedersi esposto a contesta‑
zioni concernenti il rapporto con il soggetto ordinante la
garanzia, o debitore principale.
La causa concreta del contratto autonomo di garanzia,
nella prospettiva della meritevolezza dell’interesse perseguito
ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c., è insita nel trasferire da
un soggetto ad un altro il rischio economico connesso alla
mancata esecuzione di una prestazione contrattuale, sia essa
dipesa da inadempimento colpevole oppure no (ex multiis,
Cass. 8/5/2006, n. 10490).
2. L’unico limite alla concreta operatività della autonomia
del Garantievertrag rispetto al rapporto garantito attiene,
come affermato in dottrina e giurisprudenza, ai casi in cui
civile
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venga formulata eccezione relativa all’invalidità dello stesso
contratto di garanzia (v. Cass. 7/3/2002, n. 3326), ovvero al
rapporto fra garante e beneficiario (cfr. Cass. 10/5/2002,
n. 6728), o con la quale si faccia valere l’inesistenza del rap‑
porto garantito (cfr. Cass. 24/4/2008, n. 10652), o ancora sia
sollevata l’exceptio doli (ex aliis, Cass. 14/12/2007, n. 26262;
Cass. 16/11/2007, n. 23786; Cass. 17/3/2006, n. 5997).
3. In caso di contratto autonomo di garanzia, l’ordinante
può ottenere in sede cautelare atipica l’invocato provvedi‑
mento solo ove il Giudice “sia in grado di conoscere con
assoluta evidenza la malafede del creditore e, dunque, di
escludere ictu oculi l’esistenza di una genuina controversia
tra le parti del rapporto principale” (così Trib. Torino
29/8/2002, cit.).
Il garante è tenuto, in applicazione del dovere di prote‑
zione dell’ordinante da abusi del beneficiario e a pena della
perdita dell’azione di rivalsa, a sollevare l’exceptio doli ogni
qual volta risulti evidente la pretestuosa escussione della
garanzia, tanto da risultare fraudolenta ed in mala fede (v.
Trib. Milano 25/2/2008, in Banca borsa tit. cred., 2010, 3,
375; v., altresì, Trib. Verona 30/12/2003, in Giur. merito,
2005, 1, 76; trattasi di principio, ovviamente, che vale anche
nei casi in cui l’azione sia esperita non già dal garante ma dal
debitore principale).
La necessità di fornire, anche in sede cautelare, una pro‑
va liquida del carattere fraudolento dell’escussione della ga‑
ranzia da parte del debitore, è strettamente connessa alle
caratteristiche proprie del contratto autonomo di garanzia
concernenti sia il profilo strutturale che causale della fatti‑
specie.
Trib. Napoli, sez. X, ordinanza 14 dicembre 2011
Pres. G. Cioffi
Preliminare di compravendita ad effetti anticipati – Immissione
nel godimento – Possesso ad usucapionem – Esclusione – Diritto
alla stipula del contratto definitivo – Estinzione per prescrizio‑
ne – Trasferimento a terzi – Inadempimento contrattuale – Diritto
alla risoluzione del contratto e risarcimento del danno.
1. Il promissario acquirente di un bene immobile il quale,
in virtù di un preliminare di compravendita, da un lato, an‑
ticipi in tutto o in parte il pagamento del prezzo e, dall’altro,
ottenga l’immediata immissione nel godimento del bene per
effetto dell’esecuzione anticipata della consegna della res da
parte del promittente venditore, non può essere qualificato
come possessore in grado di acquisirne la proprietà a titolo
di usucapione, non avendo egli l’animus possidendi che, es‑
sendo uno stato di fatto, non può essere trasferito. Costui,
infatti, consegue la disponibilità materiale del bene in virtù
di un contratto di comodato collegato al preliminare ed ha,
pertanto, la semplice detenzione qualificata della res, eserci‑
tata alieno nomine. Per converso, l’anticipazione del prezzo
si spiega con la stipulazione di un contratto di mutuo gratu‑
ito, anch’esso collegato al preliminare. Tale detenzione, per
trasformarsi in possesso utile ai fini dell’usucapione venten‑
nale, necessita di uno specifico atto di interversio possessio‑
nis. Quest’ultimo, peraltro, non è un semplice atto di volizio‑
ne interna, ma deve chiaramente manifestarsi all’esterno
attraverso il compimento di atti che consentano di desumere,
anche al possessore, che il detentore ha iniziato a esercitare
il potere di fatto sulla cosa nomine proprio (Cass. civ.,
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sez. un., 27/03/2008, n. 7930; conf. Cass. civ., sez. II,
25/01/2010, n. 1296, e Cass. civ., sez. I, 01 marzo 2010,
n. 4863).
In definitiva, nel contratto preliminare ad effetti antici‑
pati – in base al quale le parti, nell’assumere l’obbligo della
prestazione del consenso a contratto definitivo, convengono
l’anticipata esecuzione di alcune delle obbligazioni nascenti
da questo, quale la consegna immediata della cosa al promis‑
sario acquirente, con o senza corrispettivo – la disponibilità
del bene conseguita dal promissario acquirente ha luogo con
la piena consapevolezza dei contraenti che l’effetto traslativo
non si è ancora verificato, risultando piuttosto dal titolo
l’altruità della cosa. Ne consegue che deve ritenersi inesisten‑
te nel promissario acquirente l’animus possidendi, sicché la
sua relazione con la cosa va qualificata come semplice deten‑
zione e non costituisce possesso utile ai fini dell’usucapione
(Cass. civ., sez. II, 14/11/2006, n. 24290).
2. In tema di contratto preliminare, qualora le parti ab‑
biano rimesso alla volontà di una di esse la fissazione del
termine relativo alla stipulazione del contratto definitivo, e
quest’ultima ritardi ingiustificatamente l’esercizio di tali fa‑
coltà, l’altra parte, adempiute le obbligazioni poste a suo
carico, può tanto rivolgersi al giudice per la fissazione del
termine, ex art. 1183 c.c., quanto proporre direttamente
domanda di adempimento in forma specifica, ex art. 2932
stesso codice (domanda nella quale deve ritenersi implicita
la richiesta di fissazione del detto termine), con la conseguen‑
za che, trascurato l’esercizio di tali, alternative facoltà, e
protrattasi l’inerzia per l’ordinario termine prescrizionale, il
suo diritto alla stipula del contratto definitivo deve ritenersi
estinto per intervenuta prescrizione (Cass. civ., sez. II,
10/12/2001, n. 15587; conf. Cass. civ., sez. III, 19/06/2009,
n. 14345).
3. Con riguardo al contratto preliminare di vendita,
poiché nella volontà espressa dal promittente venditore di
trasferire al compratore, tramite il successivo contratto
definitivo, la piena ed esclusiva disponibilità della cosa è
implicito l’obbligo di non trasferire la stessa cosa ad altri, la
condotta del proprietario del bene che, dopo averlo promes‑
so in vendita a una persona, lo venda successivamente a un
terzo costituisce inadempimento contrattuale, con il conse‑
guente diritto del promissario acquirente alla risoluzione
del contratto ed al risarcimento del danno, il cui termine di
prescrizione decorre, secondo la regola generale, dal mo‑
mento in cui il diritto può esser fatto valere, e dunque dal
momento dell’inadempimento costituito dalla vendita del
bene al terzo (Cass. civ., sez. I, 14/04/2004, n. 7066). Ana‑
logamente, la vendita successiva, trascritta, ad un terzo
dello stesso bene immobile già venduto, ma con atto non
trascritto, costituisce inadempimento all’obbligo contrat‑
tuale che il venditore implicitamente assume nei confronti
del primo compratore allorché esprime la volontà di trasfe‑
rirgli la piena ed esclusiva disponibilità della cosa – impe‑
dita invece dalla seconda alienazione della medesima – che
pertanto legittima la domanda di risoluzione del primo
contratto, nel termine prescrizionale ordinario, decorrente
dal secondo trasferimento (Cass. civ., sez. II, 17/11/1998,
n. 11571).
Trib. Torre Annunziata, sentenza 25 gennaio 2012
Giud. A. Penta
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Responsabilità civile – Mancata manutenzione stradale – Onere
probatorio – Presunzione di responsabilità – Caso fortuito – Esclu‑
sione responsabilità.
La disciplina di cui all’art. 2051 c.c. è applicabile agli enti
pubblici proprietari o manutentori di strade aperte al pubblico
transito in riferimento a situazioni di pericolo derivanti da una
non prevedibile alterazione dello stato della cosa; detta norma
non dispensa il danneggiato dall’onere di provare il nesso
causale tra cosa in custodia e danno, ossia di dimostrare che
l’evento si è prodotto come conseguenza normale della parti‑
colare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta dalla cosa,
mentre resta a carico del custode, offrire la prova contraria
alla presunzione “iuris tantum” della sua responsabilità, me‑
diante la dimostrazione positiva del caso fortuito, cioè del
fatto estraneo alla sua sfera di custodia, avente impulso causa‑
le autonomo e carattere di imprevedibilità e di assoluta ecce‑
zionalità”. La presunzione di responsabilità in oggetto non si
applica, invero (cfr. Cass., sez. III, 22/04/2010 n. 9546) quel‑
le volte in cui non sia possibile esercitare sul bene stesso la
custodia, da valutarsi alla luce di una serie di criteri, quali
l’estensione della strada, la posizione, le dotazioni e i sistemi
di assistenza che la connotano, per cui l’oggettiva impossibili‑
tà della custodia rende inapplicabile il citato art. 2051.
La responsabilità dell’ente proprietario della strada è
sussistente ai sensi dell’art. 2051 cc, venendo esclusa solo dal
caso fortuito, configurabile in relazione a quelle situazioni
provocate dagli stessi utenti, ovvero da una repentina e non
specificamente prevedibile alterazione dello stato della cosa
che, nonostante l’attività di controllo e la diligenza impiega‑
ta allo scopo di garantire un intervento tempestivo, non
possa essere rimossa o segnalata, per difetto del tempo stret‑
tamente necessario a provvedere.
App. Napoli, sez. I, sentenza 1 marzo 2012
Pres. V. Frallicciardi; Rel. F. Dacomo
Responsabilità medica – Obbligo del c.d. consenso informa‑
to – Violazione – Danno da lesione alla salute – Risarcibilità – Pre‑
supposto – Accertamento del rifiuto del paziente se adeguata‑
mente informato – Necessità
La risarcibilità del danno da lesione della salute che si
verifichi per e non imprevedibili conseguenze dell’intervento
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chirurgico eseguito secundum legem artis, ma tuttavia effet‑
tuato senza la preventiva informazione del paziente circa i
suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un con‑
senso consapevolmente prestato, necessariamente presuppo‑
ne l’accertamento che il paziente avrebbe rifiutato se fosse
stato adeguatamente informato.
Trib. Napoli, sez. X, sentenza 6 marzo 2012, n. 2701
Giud. L. Trapani
Responsabilità medica – Obbligo del c.d. consenso informa‑
to – Violazione – Sussistenza – Nesso causale tra la mancata ac‑
quisizione del consenso e il pregiudizio lamentato dal paziente –
Necessità
In assenza di valido consenso al trattamento informato,
la responsabilità del medico per l’aggravamento delle condi‑
zioni di salute sussiste anche nel caso di corretta esecuzione
dell’intervento. Resta fermo tuttavia il problema della neces‑
sità del nesso causale tra la mancata acquisizione del consen‑
so e il pregiudizio lamentato dal paziente.
Trib. Napoli, sez. X, sentenza 6 marzo 2012, n. 2701
Giud. L. Trapani
Responsabilità medica – Obbligo del c.d. consenso informa‑
to – Violazione – Onere della prova a carico del paziente – Nesso
di causalità tra la mancata acquisizione del consenso e il pregiu‑
dizio lamentato dal paziente – Prova presuntiva – Onere di alle‑
gazione di tutti gli elementi idonei ex art. 2729 c.c.
In tema di responsabilità medica, la violazione dell’obbli‑
go di informare preventivamente il paziente determina la
responsabilità contrattuale del medico (c.d. responsabilità da
contatto sociale). Tuttavia grava sul paziente l’onere di dimo‑
strare che se correttamente ed esaustivamente informato
avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento. Siffatta prova
può darsi anche in via presuntiva, ma in questo caso il dan‑
neggiato è onerato dell’allegazione di tutti gli elementi che
nella concreta fattispecie, siano idonei – secondo i requisiti
di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729
c.c. – a fornire la serie concatenata di fatti noti che consen‑
tano di risalire al fatto ignoto.
Trib. Napoli, sez. X, sentenza 6 marzo 2012, n. 2701
Giud. L. Trapani
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
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p r o c e d u r a
In evidenza
TRIBUNALE DI NAPOLI, sezione civile VII, sentenza 5
gennaio 2012.
Giud. E. Campese
Obbligazioni e contratti – Autonomia contrattuale – Sale and le‑
ase back – Contratto di impresa – Definizione.
Obbligazioni e contratti – Sale and lease back – Liceità – Accerta‑
mento di fatto – Necessità – Violazione del divieto di patto com‑
missorio – Configurabilità – Condizioni
Il contratto di sale and lease back – in forza del quale
un’impresa vende un bene strumentale ad una società finan‑
ziaria, la quale ne paga il prezzo e contestualmente lo
concede in locazione finanziaria alla stessa impresa vendi‑
trice, verso il pagamento di un canone e con possibilità di
Nota redazionale a cura di
Avvocato
Pietro d'Alessandro
(1) La sentenza del Tribunale di Napoli recepisce i risultati ormai acquisiti cui è
giunta l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale in tema di sale and lease
back.
Il sale and lease back (o locazione finanziaria di ritorno o, con terminologia
più corrente, lease back) è la complessa operazione economica in virtù della
quale un soggetto vende un bene ad altro soggetto, il quale, poi, concede im‑
mediatamente al venditore in leasing il bene acquistato.
La particolare struttura del contratto, che racchiude in sè unitariamente la
duplice operazione di vendita e locazione finanziaria, consente il perseguimen‑
to da parte dei privati di funzioni economiche diverse.
Il lease back nella sua utilizzazione, per così dire, fisiologica è principalmente
un’operazione di finanziamento, mediante la quale un imprenditore può otte‑
nere, tramite la vendita di un proprio bene aziendale, liquidità immediata, pur
conservando, attraverso il meccanismo operativo della locazione finanziaria,
il godimento del bene stesso, con la sola modifica del titolo giuridico (median‑
te cioè constituto possessorio).
Il sale and lease back (che in questa utilizzazione viene comunemente definito
“puro”) realizza quindi specifici interessi patrimoniali dell’impresa: l’acquirente/­
concedente, attraverso la percezione del canone, riesce ad ottenere il rimborso
dell’intero capitale utilizzato nell’operazione (comprensivo del costo del bene,
ammortamento, interessi e spese) ed un proprio margine di guadagno;
l’alienante­/utilizzatore ottiene invece la liquidità di cui ha evidentemente biso‑
gno, smobilizzando capitali improduttivamente immobilizzati, e nel contempo
continua ad utilizzare il bene venduto, con facoltà di riacquistarne la proprie‑
tà dopo la restituzione del finanziamento (e quindi al termine del rapporto).
Talvolta il lease back viene invece concluso a scopo di garanzia. Il trasferimen‑
to della proprietà del bene, in questo caso, viene effettuato al fine di garantire
il finanziamento costituito dal prezzo della vendita; il pagamento dei canoni
del leasing costituisce solo la modalità concreta di restituzione del finanzia‑
mento.
È ormai pacifica l’opinione espressa dal Tribunale secondo la quale lo schema
contrattuale non è illecito per violazione dell’art 2744 ma è perfettamente
valido salvo che in concreto non sia “anomalo”, cioè concluso a scopo di ga‑
ranzia.
Solo raramente in verità si è affermato che il lease back è di per sé nullo [Ce‑
saro, Lease‑back e patto commissorio, Riv. not., 1986, I, p. 830 ss.; Ferra‑
rini, La locazione finanziaria, Tratt. Dir. Priv., diretto da Rescigno, vol. XI,
Torino, 1984, p. 17].
In senso contrario, si è sottolineato che esso assolve, tipicamente e fisiologica‑
mente, non già ad una funzione di garanzia ma alla funzione di finanziamento
prima indicata [De Nova, II contratto di leasing, Milano, 1995, 399 ss; De
Nova, Appunti sul sale and lease back e il divieto del patto commissorio, in
Riv,. it. leasing, 1985, 307 ss; Purcaro, Sulla liceità del sale and lease back, in
Riv. it. leasing, 1986, 586 ss.; Id, I problemi di struttura del leasing, in Riv. it.
leasing, 1987, 543 ss.; Tardivo, Condizioni generali di contratto, cenni sul le‑
ase‑back, in Riv. it. leasing, 1988, 303; Pasquino, Patto commissorio: le alie‑
nazioni in garanzia e contratti di lease back… vite parallele, Riv. not., 1989,
II, p. 919 e ss.: Pelosi, Lease‑back, divieto del patto commissorio ed elusione
fiscale, in Riv. it. leasing, 1989, 485 ss.].
Si è osservato ancora [De Nova, v. “Leasing”, in Dig. disc. priv./sez. civ.. 1995,
485 e ss] che, almeno normalmente, la struttura dell’intera operazione del
sale and lease back si presenta affatto diversa dalle convenzioni commissorie,
dal momento che al lease back non preesiste un debito da garantire, necessario
invece – come costantemente richiesto dalla giurisprudenza [Cass. 3.11.1984,
c i v i l e
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riacquisto del bene al termine del contratto – configura un
contratto d’impresa socialmente tipico che, come tale, è, in
linea di massima, astrattamente valido, ferma la necessità
di verificare, caso per caso, la presenza di elementi sinto‑
matici atti ad evidenziare che la vendita è stata posta in
essere in funzione di garanzia ed è volta, pertanto, ad aggi‑
rare il divieto del patto commissorio. A tal fine, l’operazio‑
ne contrattuale può definirsi fraudolenta nel caso in cui si
accerti, con una indagine che è tipicamente di fatto, sinda‑
cabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della
correttezza della motivazione, la compresenza delle seguen‑
ti circostanze: l’esistenza di una situazione di credito e de‑
bito tra la società finanziaria e l’impresa venditrice utiliz‑
zatrice, le difficoltà economiche di quest’ultima, la spro‑
porzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo
versato dall’acquirente [1].
n. 5569, (che paria di somma mutuata): Cass. 6.12.1983, n. 7271, (che richie‑
de la “preesistenza di un debito”): Cass. 3.6.1983, n. 3800, (secondo cui “la
sussistenza del debito” è l’unico elemento richiesto per la configurabilità del
patto commissorio)] – per la configurabilità del patto commissorio; conseguen‑
temente, la vendita non è un contratto accessorio a scopo di garanzia, ma il
presupposto necessario per il leasing, come è confermato dal fatto che l’acqui‑
rente concedente è libero di disporre del bene.
Si è rilevato infine, la vendita nel lease back pura e semplice e non condiziona‑
ta risolutivamente all’adempimento, e pertanto essa non diviene inefficace in
caso di integrale pagamento dei canoni di leasing, essendo necessario l’eserci‑
zio dell’opzione che accede alla locazione finanziaria perché l’alienante‑utiliz‑
zatore riacquisti la proprietà del bene precedentemente alienate.
In analoga prospettiva, è stato evidenziato da altri [Frignani, Factoring, leasing,
franchising, venture capital, concorrenza, 1987, 348 ss.] che nel lease back
sono due le obbligazioni dell’utilizzatore – il pagamento del canone e la resti‑
tuzione del bene – mentre l’art. 2744 c.c. pone la sola obbligazione del paga‑
mento del debito; e che non sussiste il pericolo cui vuole opporsi l’art. 2744
c.c. (il pericolo, cioè, che venga concesso in garanzia un bene di valore supe‑
riore al credito garantito) nel lease back, dove il debitore può riacquistare la
proprietà del bene con l’esercizio dell’opzione.
A parere di chi scrive non tutti i rilievi sollevati in ordine ad una differente
struttura tra patto commissorio e lease back sembrano forse condivisibili.
Anzitutto, l’insussistenza tra le parti di un sottostante credito da garantire non
è sufficiente ad escludere la qualificazione del lease back in termini di stipula‑
zione commissoria, dal momento che in queste forme di garanzia il credito può
essere anche contestualmente creato. La presenza di un rapporto di mutuo da
garantire viene bensì richiesta costantemente dalla giurisprudenza, ma sempre
in tema di vendita con patto di riscatto a scopo di garanzia, e per il motivo che
questo schema non è in grado di far sorgere di per sè una situazione di obbligo:
in altri termini, nella vendita il venditore non è in alcun modo obbligato a
restituire la somma, ciò che può avvenire solo in presenza di un distinto rap‑
porto obbligatorio. Nel sale and lease back, al contrario, l’alienante‑utilizza‑
tore diviene debitore in senso tecnico in quanto, essendo obbligato a pagare i
canoni, è tenuto, proprio per effetto della stipulazione, alla restituzione della
somma ottenuta.
Parimenti, non sembra rappresentare una significativa differenza strutturale la
circostanza che la vendita non sia risolutivamente condizionata all’adempi‑
mento ma sia invece pura e semplice, accedendo l’opzione al leasing, e che
pertanto la proprietà del bene non torna al debitore per effetto dell’adempi‑
mento. È nozione comune, infatti, che una operazione commissoria può esse‑
re realizzata dai privati con qualunque strumento all’uopo utilizzabile, e che,
conseguentemente, il ritrasferimento definitivo del bene può avvenire con
mezzi diversi (condizione sospensiva o risolutiva, patto di riscatto, retrovendi‑
ta, opzione) a seconda dello schema prescelto dalle parti.
Più in generale, poco convince l’analitica scomposizione della operazione nei
due passaggi di vendita e leasing in cui si articola: l’operazione, in quanto
unitaria, va valutata nel suo complesso, e quindi nella sintesi di insieme degli
effetti che da essa derivano.
Più convincente appare invece la rilevata differenza di funzione tra lease back
puro e alienazioni a scopo di garanzia: se ed in quanto il contratto assolva una
funzione di finanziamento e non di garanzia, vengono meno le ragioni del
divieto, e si è dunque al di fuori dell’area precettiva dell’art. 2744 c.c.
È del tutto pacifico, quindi, come rileva il Tribunale, che è essenziale un’ana‑
lisi condotta caso per caso per stabilire la concreta giustificazione causale
dell’operazione, tenendo presente che essa non può non conformare funzio‑
nalmente il contratto allo scopo cui è diretto.
In giurisprudenza, ad esempio, sono stati considerati indizi del carattere “ano‑
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MARZO
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APRILE
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Obbligazioni e contratti – Sale and lease back – Qualificazio‑
ne – Leasing.
Obbligazioni e contratti – Sale and lease back – Leasing – Diffe‑
renze – Struttura bilaterale
Il sale and lease back è una variante del contratto di lea‑
sing, dal quale si differenzia perché ha struttura bilaterale. Di
conseguenza, deve essere qualificata in termini non già di
lease back ma di leasing l’operazione che si svolge tra tre di‑
versi soggetti [2].
Responsabilità patrimoniale – Cause di prelazione –Divieto di
patto commissorio – funzione – Ambito di applicazione – Indivi‑
duazione.
Il divieto di patto commissorio sancito dall’art. 2744 c.c. si
estende a qualsiasi negozio, ancorché lecito e quale ne sia il
malo” del lease back, oltre quelli individuati dal Tribunale nella sentenza che
si annota: la destinazione del prezzo pagato per la vendita del bene non ad
opere di ristrutturazione dell’impresa venditrice, ma a interventi di sostegno
finanziario del gruppo societario di appartenenza, la qualità dell’utilizzatrice,
società finanziaria non esercente alcuna attività produttiva e la situazione di
difficoltà economica in cui versava l’utilizzatrice medesima [Trib Piacenza. 12
giugno 2002, Giur. it. 2002, 1877]; la breve durata del contratto e la inutilità
dei beni rispetto al conseguimento dell’oggetto sociale [Trib. Torino, 29.3.1988,
Riv It Leasing. 1989, 212]; la natura di bene mobile dell’oggetto del contratto,
la mancanza di interesse dell’alienante ad utilizzare i macchinari (al punto che
era facultizzato a sublocarli), nonché la situazione di dissesto patrimoniale
dell’alienante e l’assunzione del rischio del perimento a suo carico [Trib. Mi‑
lano, 13.6.1985, Riv It Leasing. 1986, 172]; la circostanza che i beni in ogget‑
to fossero macchinari prodotti dall’alienante‑utilizzatore e destinati al com‑
mercio, e la mancata previsione di una stima dei beni stessi [Trib. Pavia,
1.4.1988, Giust civ, 1988, I, 2383]; la situazione di dissesto del venditore‑uti‑
lizzatore e la sproporzione tra le prestazioni corrispettive, da valutarsi avuto
concreto riguardo alla stima del prezzo di vendita del bene strumentale onde
accertarne il valore di mercato, all’importo dei canoni di leasing, per valutare
se in conformità alle tecniche di tale figura contrattuale ed alla quantificazione
del prezzo di opzione (per accertare se coerente con il complessivo meccanismo
economico perseguito) [Cass. 16.10.1995, n. 10805, Giur. it. 1996, I,1,1382];
la mancanza di destinazione strumentale dei beni venduti all’attività di impre‑
sa del venditore [Trib. Roma, 22.5.1996, Giur it., rep., 1997, v. Obbligazioni
e contratti, n. 685].
2) Sul piano tipologico si discute se il lease back sia una vicenda contrattuale
unitaria e non scindibile nelle due diverse operazioni di vendita e leasing che
lo compongono ovvero se essa si risolva invece in un collegamento negoziale
tra i due contratti [Sull’unitarietà del tipo Oberto, Vendita con patto di riscat‑
to, divieto del patto commissorio e contratto di lease back, in Quadrimestre,
1984, 372; Pacifico, Aspetti civilistici del lease back, in Riv. it. leasing, 1989,
477 ss: Purcaro, Sulla liceità del sale and lease back, in Riv. it. leasing, 1986,
586 ss.; ID., I problemi di struttura del leasing, in Riv. it. leasing, 1987, 543
ss.; TARDIVO, Condizioni generali di contratto, cenni sul lease‑back, in Riv.
it. leasing, 1988, 303 ss.; in giurisprudenza Cass., 16.10.1995, n. 10805, in
Foro it., 1996, I, 3492 e ss.; App. Cagliari, 3.3.1993, in Giur. Comm., 1994,
II, 662 ss.; Trib. Verona, 15.12.1988, in Foro It., 1989, I, 1251 ss.; Trib. Mi‑
lano, 3.3.1988, Riv. it. leasing, 1988, II, 445 ss; in senso contrario, cfr Bussani,
Il contratto di lease back, in Contratto e impresa, 1986, Il, 53 ss.; Fanan, Le‑
ase back, in ‘l contratti del commercio, dell’industria e del mercato finanziario’,
Trattato diretto da Galgano, Utet, 1995, 786 ss.; Leo, Il lease back approda in
Cassazione, Giur. It., 1997, I, p. 685.; Pierallini, Lease back e patto commis‑
sorio: un problema ancora aperto, in Giust. civ., 1988, I, 2388 ss.; Trib. Ra‑
venna, 9.6.1993, riportata in De Nova, II contratto di leasing, Milano, 1995,
399 ss.; Trib. Vicenza 12.7.1988, in Foro it., 1989, I, 1251 ss.]
Nettamente prevalente appare l’interpretazione secondo cui il lease back è uno
schema unitario di contratto.
Si discute inoltre se il lease back sia una variante tipologica del contratto di
leasing ovvero un autonomo e distinto schema regolamentare. La differenza
tra i due contratti su cui si è principalmente incentrata l’attenzione consiste
nella trilateralità che caratterizza il leasing e che manca nel lease back, dove
l’operazione si svolge tra due soli soggetti e non tre (coincidendo nella stessa
persona le figure del fornitore e dell’utilizzatore). Questa differenza, secondo
un orientamento [Clarizia, La locazione finanziaria, in Nuova giur. civ. comm..
1985, 11, 45: Id. Lease back e operazioni inesistenti, in Riv. it. leasing, 1989,
2 0 1 2
29
contenuto, che venga impiegato per conseguire il risultato
concreto, vietato dall’ordinamento, dell’illecita coercizione del
debitore a sottostare alla volontà del creditore, accettando
preventivamente il trasferimento di proprietà di un suo bene
come conseguenza della mancata estinzione del debito [3] [4].
(Omissis)
Motivi in fatto ed in diritto della decisione
Con atto ritualmente notificato il 5/12.8.2010, la Curate‑
la del Fallimento di A. di G.S. & C. s.a.s., premettendo, in
sintesi, che la menzionata società in bonis, con atto per notar
Luigi Mauro del 2.5.2007, aveva trasferito alla S. L. s.p.a.
(oggi L. s.p.a.) l’immobile, ove aveva la sua sede ed in cui
svolgeva la sua attività, sito in Napoli, alla via O., che l’acqui‑
rente l’aveva poi contestualmente concesso in locazione finan‑
521 ss.; Trib. Pavia 1.4.1988, in Giust. civ., I, 2383 ss.; Trib. Milano,
13.6.1985, in Riv. it. leasing, 1986, 172 ss], è sufficiente ad escludere che il
sale and lease back rientri nel più ampio tipo contrattuale del leasing.
Secondo altra impostazione [Buonocore, Il contratto di leasing, in Buonoco‑
re‑Luminoso, ‘I contratti di impresa’, Milano, 1993, 1662 ss.: Cinquemani,
Sale and lease back tra liceità e frode al divieto del patto commissorio, in Giur
it., 1996, I, 1, 1381; DE Nova, Appunti sul sale and lease back e il divieto del
patto commissorio, in Riv. it. leasing, 1985, 307 ss.; Id, Il lease back, in Riv.
it. leasing. 1987, 517 ss.:: Luminoso, I contratti tipici e atipici, in. Tratt. dir.
priv. a cura di ludica‑Zatti. Milano, 1995. 420 ss; Munari, Validità e nullità
del sale and lease back in relazione al divieto del patto commissorio, in Rív. it.
leasing, 1986, 173. In giurisprudenza, cfr. App. Cagliari, 3.3.1993; Trib. Vi‑
cenza, 12.7.1988: Trib. Milano, 13.6.1985; App. Milano, 5.6.1984] il lease
back é comunque una locazione finanziaria perché ciò che è essenziale per
caratterizzare il tipo del leasing – e per distinguerlo da altri schemi tipici,
quali, a seconda della prospettiva, la locazione, il noleggio o l’affitto – è la
sola differenziazione del fornitore dal concedente, differenziazione presente
anche nel lease back, pur in assenza della tritateralità della vicenda: in altre
parole, è essenziale che la società di leasing non sia già proprietaria del bene,
come puntualmente avviene nel caso di lease back, dove la confusione è, inve‑
ce, tra utilizzatore e fornitore.
(3) (4) È opinione oramai consolidata quella espressa dal Tribunale secondo
la quale il divieto ex art 2744 cc (e 1963 cc) riguarda non solo le ipotesi
espressamente previste ma anche il patto commissorio cd autonomo, cioè
qualsivoglia operazione privata che, pur non collegandosi con un diritto di
garanzia tipico, realizzi il medesimo risultato economico che l’ordinamento
intende, invece, impedire. Pertanto, secondo tale impostazione, è da conside‑
rarsi nulla qualunque convenzione che crei un meccanismo tale da assicurare
al creditore, nel caso di inadempimento, la soddisfazione immediata ed auto‑
matica del suo diritto di credito, senza necessità del ricorso all’esecuzione
forzata, mediante il (definitivo) acquisto della proprietà del bene.
È noto che la giurisprudenza, sino al 1983, limitava l’operatività del divieto
del patto commissorio alle sole alienazioni commissorie sospensivamente
condizionate all’inadempimento del debitore, ritenendo invece pienamente
valide le alienazioni a scopo di garanzia immediatamente traslative del diritto
[Cass. 6.6.1983, n. 3843, in Rep. Foro it.. 1983, v Vendita, n. 14; Cass.,
12.11.1982, n. 6005, in Rep. giur. 1982, v. Patto commissorio, n. 2; Cass.,
14.4.1981, n. 2245, in Rep. giur. it., 1981, v. Vendita, n. 73: Cass., 29.4.1980,
n. 2854, in Rep. giur. it., 1980, v. Patto commissorio, n. 1].
La convenzione veniva comunque dichiarata nulla se simulata e dissimulante
una alienazione a scopo di garanzia sospensivamente condizionata [Cass.,
11.8.1982, n. 4539, in Rep. Foro it., 1982, v. Patto commissorio, n. 2; Cass.,
7.5.1981, n. 2983, in Rep. Foro it., 1981, v. Prova civile, n. 10; Trib. Savona,
31.12.1980. in Rep. Foro it., 1981, v. Patto commissorio, n. 2; Cass.,
14.12.1978, n. 5967, in Arch Civ., 1979, 462].
Detto orientamento [criticato da parte della dottrina: BIANCA, Il divieto del
patto commissorio, Milano, 1957, 153 ss.; Roppo, Note sopra il divieto del
patto commissorio, in Riv. notar, 1981, l, p. 404 ss.; Carnevali v. “Patto com‑
missorio”, Enc. Dir, Milano, 1982, p. 504; in senso favorevole, invece, Dal‑
martello, v. “Pegno irregolare”, in Noviss. Dig. it., XII, Torino, 1957, 803;
Mirabelli, Della vendita, in Comm. cod. civ., Torino, 1968, 122], è in seguito
venuto meno.
Oggi la giurisprudenza ritiene pacificamente nulle anche le alienazioni in ga‑
ranzia immediatamente traslative [Cass. 10 marzo 2011, n. 5740, Giust civ,
2011, 6, 1449; Cass., 4.11.1996, n, 9540, Riv not, 1998, 1013; Cass. 4.3.1996,
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ziaria alla A I s.r.l. (costituita solo il 26.3.2007, e con compa‑
gine sociale in parte coincidente con quella della A. di G.S. &
C. s.a.s., e per il residuo composta dai figli del socio accoman‑
datario di quest’ultima), la quale, a sua volta, l’aveva commer‑
cialmente locato, con decorrenza sempre dal 2.5.2007, alla
stessa A. di G.S. & C. s.a.s., ed assumendo che una siffatta
complessiva operazione era stata intenzionalmente posta in
essere dalla società poi fallita, con la consapevole partecipa‑
zione degli altri contraenti, al fine di sottrarre alla garanzia
dei propri creditori l’unico suo immobile, citava in giudizio,
innanzi all’intestato Tribunale, la S. L. s.p.a. e la A. I. s.r.l.,
onde sentire nei loro confronti accertarsi e dichiararsi che la
descritta compravendita intervenuta tra la A. di G.S. & C.
s.a.s. e la S. L., e la collegata locazione finanziaria tra quest’ul‑
tima e la A. I. s.r.l. costituivano entrambi atti che dissimula‑
vano un contratto di finanziamento assistito da una vendita
in funzione di garanzia, volto cioè ad aggirare, con intento
fraudolento, il divieto del patto commissorio previsto
dall’art. 2744 c.c., e, per l’effetto, dichiararsene la nullità per
illiceità della causa ai sensi del combinato disposto degli
artt. 1344 c.c. e 1418, secondo comma, c.c., con tutte le con‑
seguenze di legge.
In subordine, od alternativamente, chiedeva dichiararsi
inefficaci e/o inopponibili alla Curatela, e comunque revocar‑
si ex artt. 66 l. fall. e 2901 c.c., i predetti atti. In ogni caso,
infine, domandava la condanna delle convenute, ciascuna per
quanto di propria competenza, alla restituzione dell’immobi‑
le oggetto di questi ultimi, oltre che, in via solidale, al risar‑
cimento dei danni conseguenti alla illegittima sua detenzione
fino al momento dell’effettivo rilascio.
n. 1657, Giur Comm, 1997, II, 656; Cass. sez. un., 21.4.1989, n. 1907, in
Foro it., 1990. 1, p. 205; Cass. sez. un., 3.4.1989, n. 1611, in Foro it., 1989, I,
1428; Cass., 3.11.1984, n. 5569, in Riv. It leasing, 1985, 469 ss.; Cass.,
6.12.1983, n. 7271, in Giur. it., 1984, 1, l, 1697; Cass., 3.6.1983, n. 3800, in
Foro it., 1984, l, 1, 212].
(4) Diverse sono state le spiegazioni del fondamento del divieto del patto com‑
missorio.
A)Secondo l’opinione tradizionale, cui sembra aderire il Tribunale nella sentenza
che si annota, l’intenzione del legislatore è stata quella di approntare una tute‑
la per il debitore, facilmente soggetto, in quanto parte debole, a sfruttamenti e
pressioni del creditore nonché a forme di coazione morale create dal bisogno
di denaro [Martorano, Cauzione e pegno irregolare, in Riv. dir. comm., 1960,
I, 94; Rescigno. Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1977, 611; Rubi‑
no, La compravendita, in Tratt. dir. civ. diretto da Cicu‑Messineo, Milano, 1971,
1025 ss. In giurisprudenza Cass. 19.7.1967, n. 1848, in Giur. it. mass., 1967,
707; Cass. 5.4.1960, n. 776, in Foro pad., 1961, I, 49].
A questa teoria viene frequentemente opposto [Andrioli, II divieto del patto
commissorio, in Comm. cod. civ. a cura di Scialoja‑Branca, Bologna‑Roma,
1958, sub art. 2744: Bianca, op. cit., 208 ss.: CARNEVALI, op. cit., 500] che
una ratio siffatta, da un lato, contrasta con la natura della Sanzione prevista,
essendo nel nostro ordinamento la tutela del singolo debitore attuata da sanzio‑
ni di tipo diverso dalla nullità (quali l’azione di rescissione per lesione o fazione
di annullamento), e, dall’altro lato, non riesce a spiegare perché il patto commis‑
sorio sia comunque nullo, pur se in concreto non svantaggioso per il debitore.
B) Altra teoria ravvisa il fondamento del divieto del patto commissorio nell’esi‑
genza di tutela degli altri creditori. In questa ottica, talvolta si pone in risalto
come il patto commissorio verrebbe a creare una forma di prelazione non
prevista dalla legge [Andrioli, op. loc. cit.; Barbiera, Responsabilità patrimo‑
niale, in Comm. cod. civ. diretto da Schlesinger, Milano, 1991, sub art. 2744;
nello stesso senso già Carnelutti, Note sul patto commissorio, in Riv. dir. comm.,
1916. II. 887 ss.; Stolfi, Patto commissorio ed ipoteca, in Foro it., 1926, lI, 282
ss.]; talvolta si fa riferimento al danno che gli altri creditori subirebbero qualo‑
ra il creditore garantito venga ad appropriarsi di un bene di valore maggiore
rispetto a quello del credito vantato [Gazzoni, Manuale di diritto privato,
Napoli, 1990, pp. 629 e 1018].
Contro tale teoria si afferma che la sanzione applicata non sarebbe conforme
alla logica del sistema, la quale prevede per gli atti pregiudizievoli ai creditori
il rimedio della revocatoria, e dunque (non già la nullità ma) l’inefficacia rela‑
tiva dell’atto [Bianca. op. cit., 214 ss.; Carnevali, op. cit., 501; ROPPO, La
responsabilità patrimoniale del debitore: il divieto del patto commissorio, in
Tratt. dir. priv. diretto da P. Rescigno, XIX, 1985, 437]; che non esiste, al di
fuori delle procedure concorsuali, una vera e propria tutela della par condicio
creditorum [Pelosi, op cit].
C) Alcuni [Bianca, op. cit.; Id., Patto commissorio, in Noviss. Dig. it., XII, Torino,
1965, 717; Carnevali, op. cit., 501; Morace Pinelli, Trasferimento a scopo di
garanzia da parte del terzo e divieto del patto commissorio, in Giur. it., 1994,
1, 1, 67] risalgono alla spiegazione del divieto in esame dal tipo di sanzione che
l’ordinamento commina: si sostiene cioè che il legislatore, se prevede per le
stipulazioni commissorie la nullità radicale, intende tutelare un interesse di
carattere necessariamente generale, dal momento che la nullità è sanzione ri‑
volta, appunto, alla tutela di interessi generali. Sulla base della premessa che,
se non vietato, il patto commissorio finirebbe col divenire pratica generalizzata
dei traffici commerciali, l’interesse generale tutelato del divieto viene individua‑
to nell’evitare che prevalga nel nostro ordinamento un sistema di garanzia
inidoneo ad esprimere un assoggettamento del patrimonio del debitore esatta‑
mente adeguato alla funzione di garanzia.
Contro tale opinione si è rilevato che l’affermazione secondo cui il divieto è
stato previsto non per evitare (non tanto la singola conclusione, ma) la genera‑
le diffusione del patto commissorio lascia aperto il problema di individuare la
dannosità sociale che deriverebbe da tale diffusione e le modalità e condizioni
del suo verificarsi [Realmonte, Stipulazioni commissorie, vendita con patto di
riscatto e distribuzione dei rischi, in Foro it., 1989, I, 1443, il quale osserva che
la suscettibilità del patto commissorio a divenire clausola di stile “non da di per
se conto delle ragioni di riprovevolezza retrostanti la scelta legislativa sfavore‑
vole al proliferare delle pattuizioni commissorie”].
D)Secondo una diversa opinione [Realmonte, Stipulazioni commissorie, vendita
con patto di riscatto e distribuzione dei rischi, in Foro it., 1989, I, 1443; Id., Le
garanzie immobiliari, in Jus, 1986] il legislatore, nel vietare il patto commisso‑
rio, avrebbe voluto impedire che uno stesso soggetto (cioè a dire, il debitore)
sopporti contestualmente due diversi rischi: il rischio del perimento non impu‑
tabile del bene oggetto della garanzia commissoria ed il rischio di una spropor‑
zione tra credito garantito e valore del bene stesso.
La tesi muove dal confronto tra la sancita invalidità del patto commissorio e la
sicura validità di operazioni – quali la vendita con patto di riscatto e il pegno
con patto marciano – con cui un soggetto può procurarsi denaro sopportando
solo uno dei due rischi indicati.
Nella vendita con patto di riscatto, infatti, il rischio del perimento del bene
grava interamente sul compratore, a differenza di quanto accade nel patto
commissorio (anche autonomo ed immediatamente traslativo) dove, coerente‑
mente con la funzione di garanzia svolta, il rischio rimane a carico del debito‑
re‑alienante, giacche il creditore conserva l’azione per l’adempimento del credi‑
to: in altri termini, il rischio del perimento sopportato dal creditore solo nel li‑
mitato senso che questi finisce col perdere la garanzia specifica del credito che
però rimane in vita ed comunque garantito da tutti i beni presenti e futuri del
debitore (ex art. 2740 c.c.).Nel pegno con patto marciano, viceversa, il debito‑
re non corre il fischio di perdere un bene di valore sproporzionato rispetto
all’ammontare del credito, di modo che, pure in tal caso, non si combinano i
due rischi indicati. La critica comunemente portata alla tesi sta nel fatto che non
si ritiene plausibile che il legislatore, nel vietare il patto commissorio, abbia
avuto in specifica considerazione un rischio così remoto come quello del peri‑
mento del bene, rischio particolarmente remoto proprio nelle operazioni di
maggiore rilevanza economica, quelle cioè aventi ad oggetto beni immobili.
e)Una articolata spiegazione del divieto del patto commissorio è proposta dalla
dottrina secondo la quale i contratti con effetti traslativi in funzione di garanzia
sono nulli perché non giustificati dalla causa sufficiente che necessariamente
deve sorreggere ogni trasferimento o impegno, causa che, con riferimento ai
contratti ad efficacia reale, può essere solo tipica. La generale configurabilità di
trasferimenti in garanzia è, quindi, impedita dal principio della tipicità dei vin‑
coli e delle garanzie reali: un trasferimento commissorio costituisce un vincolo
sul bene non contemplato dalla legge e perciò non tutelabile. In questo ambito,
il divieto del patto commissorio svolge la funzione di rendere nulle le stipulazio‑
ni commissorie pur in presenza di negozi tipici di garanzia, ove l’effetto com‑
missorio potrebbe altrimenti prodursi non essendo sussistente il difetto di causa
[Mariconda, Trasferimenti commissori e principio di causalità, in Foro il., 1989,
I, 1428 ss.: Cass. 29.8.1998, n. 8624. Foro it., 1999, I, 175 e ss]
Contro tale opinione è stato rilevato che, in primo luogo, il problema dell’indi‑
viduazione del fondamento del divieto viene sostanzialmente eluso; in secondo
luogo, che l’inconfigurabilità di contratti di garanzia ad effetti reali viene solo
affermata e non provata, e che anzi essa non ha mai ottenuto una definitiva
dimostrazione, sembrando vero, piuttosto, il contrario [Luminoso, Alla ricerca
degli arcani confini del patto commissorio, in Riv. dir. civ., 1990, I, 226]
F)Un’altra opinione [Triola, Vendita con patto di riscatto e divieto del patto
commissorio, in Giust. civ., 1988, 1, 1769 ss.], muovendo dalla qualificazione
del patto commissario come convenzione di natura transattiva con la quale le
parti definiscono preventivamente gli effetti dell’inadempimento, rinviene la
spiegazione del divieto in esame nel contrasto con il generale principio, desumi‑
F O R E N S E
MARZO
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a r z o • a
APRILE
p r i l e
2 0 1 2
31
Instauratosi il contraddittorio, si costituivano la L. s.p.a.
(già S. L. s.p.a.) e la A. I. s.r.l., ognuna contestando le ar‑
gomentazioni di controparte e concludendo per il rigetto
delle avverse pretesa perché infondate.
La L s.p.a., inoltre, chiedeva, in via subordinata, e per
la denegata ipotesi di loro anche parziale accoglimento,
condannarsi la A. I. s.r.l. a manlevarla ed a tenerla indenne
da ogni e qualsiasi danno o conseguenza negativa che le
fosse derivata dal presente giudizio.
Pertanto, elassi i termini ex art. 183, sesto comma, c.p.c.
(nel testo, qui applicabile ratione temporis, risultante alle
modifiche ad esso apportate dalle leggi nn. 80/2005 e
263/2005), disattese, per le ragioni di cui all’ordinanza del
12.4.2011, le formulate istanze istruttorie, ed acquista do‑
cumentazione, lo scrivente, all’udienza del 18.7.2011, pre‑
cisate dalle parti le conclusioni di cui all’epigrafe, le asse‑
gnava i termini di cui all’art. 190 c.p.c. all’esito dei quali la
causa è stata trattenuta in decisione.
Tanto premesso, ritiene il Tribunale che esigenze di
chiarezza della presente motivazione ne impongano la di‑
stinzione in separati paragrafi concernenti l’esame, rispet‑
tivamente, delle eventuali questioni pregiudiziali, della
domanda formulata dall’attrice ex artt. 1344 e 1418, secon‑
do comma, c.c. e di quella, proposta da quest’ultima “…
gradatamente in subordine e/o alternativamente…” (cfr.
conclusioni della citazione introduttiva), ex artt. 66 l. fall.
e 2901 c.c., laddove soltanto in ipotesi di accoglimento di
una di esse, si imporrà la effettiva delibazione anche delle
ulteriori istanze con cui la Curatela ha chiesto la condanna
delle convenute, ciascuna per quanto di propria competen‑
za, alla restituzione dell’immobile oggetto degli atti impu‑
gnati, oltre che, in via solidale, al risarcimento dei danni
conseguenti alla illegittima sua detenzione fino al momento
dell’effettivo rilascio.
1. Le eventuali questioni pregiudiziali
Ad avviso di questo Giudice si impongono alcune consi‑
derazioni, di carattere pregiudiziale, concernenti l’effettiva
sussistenza della legittimazione processuale della Curatela
attrice a proporre le odierne azioni.
Giova premettere, in proposito, che, come ormai chiarito
dalla Suprema Corte:
a) l’autorizzazione del giudice delegato a promuovere
azione giudiziale, od a resistere all’altrui azione, costituisce
una condizione di efficacia dell’attività processuale del cura‑
tore (cfr. Cass. 11.9.2007, n. 19087, in motivazione, in cui si
richiamano anche Cass. 25.7.1961, n. 1808, Cass. 18.9.1970,
n. 1559, Cass. 22.10.1974, n. 3016, nonché Cass. Civ.
nn. 4604/83, 553/89, 11572/92, 3189/93), cui consegue la
possibilità di sanatoria con effetto ex tunc, anche nel caso in
cui l’autorizzazione sia data con l’autorizzazione ad agire o
resistere nel successivo giudizio di impugnazione (cfr.
Cass. 6.2.1999, n. 1031; Cass. 28.3.2003, n. 4704;
Cass. 9.7.2005, n. 14469);
b) “l’autorizzazione a promuovere un’azione giudiziaria,
conferita dal giudice delegato ex artt. 25, comma 1, n. 6 e 31,
legge fall., al curatore del fallimento, si estende, senza bisogno
di specifica menzione, a tutte le possibili pretese ed istanze
strumentalmente pertinenti al conseguimento dell’obiettivo
del giudizio cui si riferisce l’autorizzazione e l’eventuale limi‑
tazione di quest’ultima, in rapporto alla maggiore latitudine
dell’azione effettivamente esercitata, costituisce una questione
interpretativa di un atto di natura processuale” (cfr.
Cass. 13.5.2011, n. 10652);
c) l’art. 182, secondo comma, cod. proc. civ. (nel testo, qui
applicabile ratione temporis, risultante dalle modifiche intro‑
dotte dalla legge n. 69 del 2009), secondo cui il giudice che
rilevi un difetto di rappresentanza, assistenza o di autorizza‑
zione assegna un termine per la regolarizzazione della costi‑
tuzione in giudizio, va interpretato nel senso che il giudice
bile dagli arti. 1382 ss c.c., secondo cui una definizione preventiva e conven‑
zionale dei danni causati dall’inadempimento è possibile solo su base obbliga‑
toria e con garanzia per il debitore di chiedere eventualmente la riduzione
equitativa della penale.
Una convenzione commissoria, invece, avrebbe natura reale e non consentireb‑
be alcuna protezione al debitore nell’ipotesi di sproporzione tra ammontare
del debito e valore del bene oggetto della garanzia
Alla tesi viene obbiettato che al patto commissorio non può certo attribuirsi
natura transattiva [Luminoso, Alla ricerca… cit., 225, in nota].
G)Un’altra dottrina [Luminoso, Vendita con patto di riscatto, in Comm. cod. civ.
diretto da P. Schlesinger, Milano, sub artt. 1500‑1509, 241; ID., Alla ricerca
degli arcani confini del patto commissorio, in Riv. dir. civ., 1990, I, 229; Sesta,
Le garanzie atipiche, I, Padova, 1988, 21] propone una più articolata ricostru‑
zione della ratio e della portata del divieto del patto commissorio. Detta dot‑
trina, preso atto dell’impossibilità di ricostruire la fattispecie sulla base del
solo art. 2744 c.c., a causa della sua estrema genericità, ritiene necessario
rinvenire elementi utili dall’intero sistema, e cioè da tutte le figure affini al
patto commissorio che l’ordinamento ritiene lecite, in modo da comprendere
i motivi per i quali queste sono ammesse e ricavare, a contrario, il fondamento
della nullità del patto commissorio.
Le figure da cui si è ritenuto poter trarre elementi significativi sono, in sostan‑
za, tre: pegno irregolare (art. 1851 c.c.); prestazione in luogo di adempimento
(art. 1197 c.c.); vendita con patto di riscatto (art. 1500 e ss. c.c.). La previsio‑
ne legislativa del pegno irregolare e la riconosciuta ammissibilità del pegno con
patto marciano mostrerebbero una delle ragioni del divieto: il pericolo cioè
che, mancando un meccanismo che consenta il recupero di ciò che eccede
l’ammontare del debito (a differenza di quanto, appunto, accade per le figure
menzionate), il creditore possa ottenere un bene di valore maggiore rispetto al
credito. Dalla prestazione in luogo dell’adempimento – certamente valida anche
quando il bene attribuito sia di valore superiore al credito – si è ritenuto di
poter evincere il secondo motivo del divieto: il patto commissorio espone il
debitore ad una insidia costituita da ciò, che egli si induce a vincolare un pro‑
prio bene ‘allettato da una formula che ne evita la perdita definitiva’ e con la
speranza di riuscire a procurarsi le somme per pagare il debito prima della
scadenza.
Infine, dal confronto con la vendita con patto di riscatto si è desunto che i
motivi della nullità del patto commissorio sono da ricercare anche nel fatto che
l’alienante è pure debitore dell’acquirente, e come tale in posizione di formale
soggezione.
La ragione del divieto consisterebbe, dunque, nella contemporanea presenza
di tutti e tre gli elementi indicati. Il legislatore avrebbe voluto, cioè, impedire
che un soggetto, al fine di garantire un debito, vincoli un proprio bene – nella
prospettiva di riuscire a pagare il debito e di conservarne la titolarità – al
soddisfacimento diretto del creditore, senza che sia possibile, in caso di ina‑
dempimento, recuperare l’eccedenza del valore del bene.
La tesi appare poco convincente proprio nell’elemento di reale novità che ap‑
porta alle teorie tradizionali a chi ritiene che, se è certo che il legislatore si sia
preoccupato di evitare il pericolo che il debitore perda un bene di valore spro‑
porzionato rispetto all’ammontare del debito, non è possibile il confronto tra
patto commissorio e prestazione in luogo dell’adempimento: la funzione assol‑
ta dalle due figure, e la situazione che ciascuna di esse volta a regolare, sono
troppo diverse perché possa tentarsi qualche accostamento; nel caso di presta‑
zione in luogo di adempimento il debitore, che non può o non vuole adempie‑
re l’obbligazione così come stabilito e si accorda per mutare il bene non corre
nessun pericolo di perdere un bene di valore maggiore del credito, dal momen‑
to che in caso di inadempimento può solo essere assoggettato ad un procedi‑
mento per esecuzione coattiva, che comunque gli assicura una tendenziale
parità tra l’ammontare del debito e la diminuzione patrimoniale subita [PELO‑
SI, Sale and lease back e alienazioni a scopo di garanzia, in Riv. it. lcasing, 1988,
449 ss].
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
deve promuovere la sanatoria, in qualsiasi fase e grado del
giudizio ed indipendentemente dalle cause del predetto difet‑
to, all’uopo assegnando un termine perentorio alla parte che
non vi abbia già provveduto di sua iniziativa, con effetti so‑
stanziali e processuali ex tunc (cfr. sostanzialmente in tal
senso Cass. S.U. 19.4.2010, n. 9217).
Ciò posto, si osserva che, nella specie, il Curatore del
Fallimento della A. di G.S. & C. s.a.s. ha inteso proporre
l’odierno giudizio, avente ad oggetto un’azione di nullità ex
artt. 1344 e 1418, secondo comma, c.c., ed una revocatoria
ex artt. 66 l. fall. e 2901 c.c., ritenendosi legittimato a farlo
“…giusta autorizzazione del Giudice delegato…” (cfr. intesta‑
zione della citazione introduttiva), ed a sostegno di tale affer‑
mazione ha prodotto la corrispondente istanza rivolta a quel
Giudice il 23.6.2010 (cfr. in atti) recante, in calce, il seguente
provvedimento di quest’ultimo: “Il G.D., ricevuta l’istanza in
data 29.6.2010, autorizza l’azione proposta. Voglia, peraltro,
il curatore valutare se, nella specie, non vi siano gli estremi di
un’azione di nullità (e di conseguente restituzione dell’immo‑
bile) per violazione del divieto del patto commissorio a mezzo
di un’operazione riconducibile al cd. sale and lease back
(struttura trilaterale)”.
Va però evidenziato che la copia della menzionata istanza
del 23.6.2010 rinvenibile nel fascicolo dell’attrice è certamen‑
te priva di una o più pagine (come agevolmente può evincersi
dalla sua lettura), e per di più proprio di quella dove sarebbe
stata descritta l’azione per cui originariamente il Curatore
aveva chiesto l’autorizzazione ad agire, con la conseguenza che
il riportato provvedimento reso dal Giudice delegato (sostan‑
zialmente per relationem: “…autorizza l’azione proposta…”)
non consente di avere certezza circa la effettiva corrisponden‑
za tra l’azione ivi autorizzata e quella oggi proposta.
A tanto deve aggiungersi che nemmeno si rinviene in atti
un ulteriore provvedimento del medesimo Giudice che abbia
espressamente acconsentito alla proposizione (anche) della
domanda qui formulata ex artt. 1344 e 1418, secondo comma,
c.c., e ciò benché il già indicato tenore letterale del suo decreto
del 29.6.2010 lasciasse verosimilmente desumere che la valu‑
tazione all’uopo sollecitata al Curatore dovesse sfociare in una
successiva relazione/comunicazione di quest’ultimo al primo.
Fermo quanto precede, appare di immediata evidenza che
l’impossibilità, per le ragioni tutte finora esposte, di avere
certezze circa la effettiva corrispondenza tra le azioni autoriz‑
zate dal Giudice delegato e quelle oggi concretamente proposte
comporterebbe, ragionevolmente, il difetto di legittimazione
processuale del Curatore a proporre le odierne domande, per‑
ché sprovvisto di idonea adeguata autorizzazione del Giudice
delegato: il raffigurato vizio, peraltro, dovrebbe imporre a
questo Tribunale, ai sensi dell’art. 182 c.p.c., secondo comma,
c.p.c., – nel già richiamato testo (quando rileva un difetto di
rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione, …, il giudi‑
ce assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione
della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza,
o per il rilascio delle necessarie autorizzazioni…,), qui appli‑
cabile ratione temporis, risultante dalle modifiche ad esso
apportate dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 – di rimettere la
causa sul ruolo, fissando una nuova udienza, invitando la
Curatela attrice a depositare la copia integrale della sua istan‑
za al Giudice delegato del 23.6.2010, oppure a regolarizzare
la propria costituzione nei termini in precedenza indicati.
c i v i l e
Gazzetta
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Un siffatto modus operandi, però, ritarderebbe inutilmen‑
te la decisione della presente controversia, già allo stato co‑
munque possibile per quanto appresso si dirà con riguardo
all’infondatezza delle formulate domande, sicché, proprio in
omaggio al principio della ragionevole durata dei processi
desumibile dall’art. 111 Cost., lo stesso può omettersi, sotto‑
lineandosi, peraltro, che, come chiarito anche dalla Suprema
Corte, “il rispetto del fondamentale diritto ad una durata
ragionevole del processo impone, in concreto, al Giudice di
evitare ed impedire comportamenti che siano di ostacolo ad
una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano
certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di
energie processuali e formalità da ritenere superflue perché
non giustificate dalla struttura dialettica del processo ed in
particolare dal rispetto effettivo del principio del contraddit‑
torio, espresso dall’art. 101 c.p.c., da effettive garanzie di di‑
fesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al proces‑
so, in condizione di parità (art. 111, secondo comma, Cost.),
dei soggetti, nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato
ad esplicare i suoi effetti” (cfr. Cass. S.U. 3.11.2008, n. 26373,
nonché, in senso sostanzialmente conforme, le più recenti
Cass. 19.8.2009, n. 18140; Cass. 18.12.2009, n. 26773;
Cass. 6.8.2010, n. 18375).
2. La domanda proposta dall’attrice ai sensi degli artt. 1344 e 1418,
secondo comma, c.c..
La Curatela del Fallimento di A. di G.S. & C. s.a.s., pre‑
mettendo, in sintesi, che la menzionata società in bonis, con
atto per notar Luigi Mauro del 2.5.2007, aveva trasferito
alla S. L. s.p.a. (oggi L. s.p.a.) l’immobile, ove aveva la sua
sede ed in cui svolgeva la sua attività, sito in Napoli, alla via
O., che l’acquirente l’aveva poi contestualmente concesso in
locazione finanziaria alla A. I. s.r.l. (costituita solo il
26.3.2007, e con compagine sociale in parte coincidente con
quella della Agorà di G.S. & C. s.a.s., e per il residuo compo‑
sta dai figli del socio accomandatario di quest’ultima), la
quale, a sua volta, l’aveva commercialmente locato, con de‑
correnza sempre dal 2.5.2007, alla stessa A di G.S. & C. s.a.s.,
ed assumendo che una siffatta complessiva operazione era
stata intenzionalmente posta in essere dalla società poi fallita,
con la consapevole partecipazione degli altri contraenti, al
fine di sottrarre alla garanzia dei suoi creditori l’unico suo
immobile, ha chiesto accertarsi e dichiararsi che la descritta
compravendita intervenuta tra la A. di G.S. & C. s.a.s. e la S.
L, e la collegata locazione finanziaria tra quest’ultima e la
Ago Immobiliare s.r.l. costituivano entrambi atti che dissimu‑
lavano un contratto di finanziamento assistito da una vendi‑
ta in funzione di garanzia, volto cioè ad aggirare, con intento
fraudolento, il divieto del patto commissorio previsto
dall’art. 2744 c.c., e, per l’effetto, dichiararsene la nullità per
illiceità della causa ai sensi del combinato disposto degli
artt. 1344 c.c. e 1418, secondo comma, c.c., con tutte le con‑
seguenze di legge (cfr. capi 1 e 2 delle conclusioni della cita‑
zione introduttiva).
In altri termini, secondo l’attrice, ci si troverebbe “… al
cospetto di una serie di atti:
(I) compravendita tra A. e S. L.;
(II) locazione finanziaria tra S. L. e A. I.;
(III) contratto di locazione tra la A. I. e la A., apparente‑
mente leciti, ma in realtà funzionalmente collegati tra loro e
F O R E N S E
MARZO
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a r z o • a
APRILE
p r i l e
finalizzati al perseguimento dell’unitario scopo illecito consi‑
stente, tra l’altro, anche nella sottrazione di garanzie ai credi‑
tori della A….” (cfr. pag. 8 della predetta citazione).
Entrambe le società convenute, ritualmente costituitesi in
giudizio, hanno ampiamente confermato la cronologia degli
atti descritti dalla controparte, ma ne hanno decisamente
contestato il loro asserito fine illecito come ipotizzato da
quest’ultima.
Alla soluzione del caso di specie vanno, quindi, opportu‑
namente premesse alcune considerazioni, di carattere più ge‑
nerale, funzionali al compimento di una ineludibile actio fi‑
nium regundorum tra gli istituti del leasing puro, del sale &
lease back, della vendita a scopo di garanzia, del collegamen‑
to negoziale, del patto commissorio.
è noto come la giurisprudenza della Suprema Corte abbia
avuto a più riprese (cfr. ex multis, Cass. 16.10.1995, n. 10805;
Cass. 21.1.2005, n. 1273; Cass. 14.3.2006, n. 5438;
Cass. 29.3.2006, n. 7296; Cass. 22.3.2007. n. 6909;
Cass. 12.1.2009, n. 437; Cass. 25.5.2009, n. 12044;
Cass. 5.3.2010, n. 5426; Cass. 9.3.2011, n. 5583) modo di
occuparsi delle fattispecie negoziali del leasing e del lease &
sale back con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 2744 c.c. (il
cd. patto commissorio), giungendo, generalmente, alla conclu‑
sione che il contratto di sale and lease back configura un
contratto d’impresa socialmente tipico che, come tale, è, in
linea di massima, astrattamente valido, ferma la necessità di
verificare, caso per caso, la presenza di elementi sintomatici
atti ad evidenziare che la vendita è stata posta in essere in
funzione di garanzia ed è volta, pertanto, ad aggirare il divie‑
to del patto commissorio.
In particolare, già con la sentenza 16 ottobre 1995,
n. 10805, sono stati affermati i principi di diritto secondo i
quali nel contratto di sale and lease back, con il quale una
impresa commerciale od industriale vende un bene (general‑
mente un immobile) di sua proprietà ad un imprenditore fi‑
nanziario che ne paga il corrispettivo, diventandone proprie‑
tario, e contestualmente lo cede in locazione finanziaria alla
stessa venditrice, che versa periodicamente dei canoni di lea‑
sing per una certa durata, con facoltà di riacquistare la pro‑
prietà del bene venduto corrispondendo al termine di durata
del contratto il prezzo stabilito per il riscatto, la vendita ha
scopo di leasing e non di garanzia perché, nella configurazio‑
ne socialmente tipica del rapporto, (essa) costituisce solo il
presupposto necessario della locazione finanziaria, inserendo‑
si nella operazione economica secondo la funzione specifica
di questa, che è quella di procurare all’imprenditore, nel qua‑
dro di un determinato disegno economico di potenziamento
dei fattori produttivi, liquidità immediata mediante l’aliena‑
zione di un suo bene strumentale, conservandone l’uso con
facoltà di riacquistarne la proprietà al termine del rapporto.
Tale vendita (recita, ancora, la massima estratta dalla
sentenza), ed il complesso rapporto atipico nel quale si inseri‑
sce, non è, quindi, di per sé, in frode al divieto di patto com‑
missorio, che – essendo diretto ad impedire al creditore l’eser‑
cizio di una coazione morale sul debitore spinto alla ricerca di
un mutuo (od alla richiesta di una dilazione, nel caso di patto
commissorio ab intervallo) da ristrettezze finanziarie, ed a
precludere, quindi, al predetto creditore la possibilità di fare
proprio il bene attraverso un meccanismo che lo sottrarrebbe
alla regola della par condicio creditorum, – deve, invece, rite‑
2 0 1 2
33
nersi violato ogni qualvolta lo scopo di garanzia non costitui‑
sca solo motivo, ma assurga a causa del contratto di vendita
con patto di riscatto o di retrovendita, a meno che non risulti
in concreto, da dati sintomatici ed obiettivi, quali la presenza
di una situazione creditoria/debitoria preesistente o contestua‑
le alla vendita, o la sproporzione tra entità del prezzo e valore
del bene alienato (ed, in altri termini, delle reciproche obbliga‑
zioni nascenti dal rapporto), che la predetta vendita, nel quadro
del rapporto diretto ad assicurare una liquidità all’impresa
alienante, è stata piegata al rafforzamento della posizione del
creditore/finanziatore, che in tal modo tenta di acquisire l’ec‑
cedenza del valore, abusando della debolezza del debitore.
La sentenza contiene, in limine, un’ampia ricognizione dei
principi regolatori dell’istituto di cui all’art. 2744 c.c. (cd. patto
commissorio), norma che, come noto, dispone la nullità dell’ac‑
cordo “con il quale si conviene che, in mancanza del pagamen‑
to del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipote‑
cata o data in pegno passi al creditore. Il patto è nullo anche se
posteriore alla costituzione dell’ipoteca o del pegno”.
Si legge, in seno all’ampia motivazione della pronuncia
predetta, che, avendo l’espressa comminatoria di nullità espun‑
to dalla pratica degli affari la fattispecie legale illecita concer‑
nente il patto commissorio aggiunto ad ipoteca, pegno o an‑
ticresi, è sorta questione se la nullità riguardasse, o meno,
anche il patto commissorio autonomo, e cioè l’operazione
contrattuale, di regola integrata da una alienazione in funzio‑
ne di garanzia, che di per sé preveda che la proprietà della
cosa alienata in garanzia passi al creditore in mancanza del
pagamento del credito nel termine fissato.
E la risposta della giurisprudenza della Suprema Corte (cfr.
Cass. Civ. n. 282/74) e della dottrina è stata concordemente
positiva, sul rilievo, tra l’altro, che il risultato giuridico eco‑
nomico dell’operazione è equivalente a quello espressamente
sanzionato, mentre meno omogenea è apparsa l’individuazio‑
ne della ragione giustificatrice della ritenuta nullità del patto
commissorio (sia accessorio che autonomo).
Le tesi tradizionali hanno individuato il fondamento del
divieto nell’esigenza di tutela dei debitori – esposti, a causa del
bisogno, a subire il rischio di un approfittamento da parte dei
creditori ‑, ovvero di tutela dei creditori risultando leso il prin‑
cipio della par condicio o di entrambe le categorie, mentre, su
un piano diverso, è stato sottolineato il contrasto del potere di
autosoddisfacimento del creditore con l’esclusiva statale della
funzione esecutiva, ed ancora, secondo altra tesi, il divieto si
giustificherebbe con l’esigenza di evitare che il patto, quale
clausola di stile, determini l’instaurarsi di un sistema di garan‑
zia inidoneo ad esprimere un assoggettamento del patrimonio
del debitore esattamente adeguato alla funzione di garanzia.
A sua volta, la giurisprudenza di legittimità, dopo avere
per lungo tempo affrontato la questione della liceità o illiceità
del patto commissorio autonomo con riferimento alla decor‑
renza degli effetti del trasferimento della cosa alienata in ga‑
ranzia (si predicava, invero, costantemente la liceità della
vendita fiduciaria a scopo di garanzia, accompagnata dal
patto di riscatto o di ritrasferimento, se caratterizzata da un
trasferimento effettivo ed immediato della proprietà al credi‑
tore, ritenendo viceversa nulla, ai sensi dell’art. 2744 c.c., la
vendita dissimulante un mutuo con patto commissorio ricor‑
rente nell’ipotesi in cui le parti, pur dichiarando formalmente
di voler vendere ed acquistare, concordano in sostanza che il
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creditore acquirente diventerà proprietario soltanto se il debi‑
tore ed alienante non estinguerà il debito nel termine pattuito,
attuando così una vendita sottoposta a condizione sospensiva.
Cfr., ex multis, Cass. Civ. nn. 1004/62 e 642/80), abbandonò
tale, discutibile criterio distintivo, rilevando come anche nella
vendita con patto di riscatto o di retrovendita, se conclusa a
scopo di garanzia, l’effetto traslativo diviene definitivo ed ir‑
revocabile soltanto a seguito dell’inadempimento del mutua‑
tario, così che, ove risulti l’intento primario delle parti di
vincolare il bene a garanzia ed in funzione del rapporto di
mutuo, la complessa convenzione – in quanto produttiva degli
stessi effetti di una alienazione sottoposta a condizione so‑
spensiva e caratterizzata da un nesso teleologico e strumenta‑
le tra i due negozi di mutuo e di compravendita – presenta una
causa effettiva divergente da quella tipica della compravendi‑
ta, di natura sicuramente illecita, in quanto volta a frodare il
divieto del patto commissorio attraverso il ricorso ad un pro‑
cedimento simulatorio.
Tale, nuovo orientamento venne fatto proprio, come noto,
dalle Sezioni Unite, con due sentenze (nn. 1611 e 1907 del
1989) le quali, premesso, in adesione alla tesi tradizionale, che
il divieto di patto commissorio è diretto ad impedire al credi‑
tore l’esercizio di una coazione morale sul debitore, spesso
spinto alla ricerca di un mutuo (o alla richiesta di una dilazio‑
ne, nel caso di patto commissorio ex intervallo) da ristrettez‑
ze finanziarie, con facoltà di far proprio il bene, attraverso un
meccanismo che gli consenta di sottrarsi alla regola della par
condicio creditorum, affermeranno poi, con radicale revire‑
ment rispetto alla giurisprudenza precedente, che, nella ven‑
dita con patto di riscatto o di retrovendita a scopo di garanzia,
questa non costituisce soltanto motivo, ma assurge a dignità
di vera e propria causa del negozio, in quanto il trasferimento
della proprietà trova obiettiva giustificazione nel fine di ga‑
ranzia, e tale causa è inconciliabile con quella della vendita,
posto che il versamento del denaro non costituisce pagamento
del prezzo, ma esecuzione di un mutuo, mentre il trasferimen‑
to del bene non integra l’attribuzione al compratore, bensì
l’atto costitutivo di una posizione di garanzia innegabilmente
provvisoria, in quanto suscettibile di evolversi a seconda che
il debitore adempia o meno.
è, dunque, proprio la provvisorietà che costituisce l’indice
rivelatore della causa di garanzia, e quindi della divergenza
tra causa tipica del negozio prescelto e determinazione causa‑
le concreta, funzionale alla elusione di una norma imperativa,
quale l’art. 2744 c.c.: le parti, invero, adottando uno schema
negoziale astrattamente lecito per conseguire un risultato
vietato dalla legge, realizzano un’ipotesi di contratto in frode
alla legge (art. 1344 c.c.).
Va quindi ribadita la sanzionabilità in termini di nullità
della vendita con patto di riscatto (o di retrovendita, o, più in
generale, di tutte quelle alienazioni che, funga l’adempimento
del sottostante debito da condizione sospensiva ovvero risolu‑
tiva) che, risultando inserite in un più complesso tessuto ne‑
goziale, caratterizzato dalla preesistenza/sussistenza di un
rapporto credito/debito tra venditore ed acquirente, siano
“piegate” al perseguimento non già di un trasferimento di
proprietà, bensì di un rafforzamento, in funzione di subordi‑
nazione e di accessorietà rispetto al mutuo, della posizione del
creditore, suscettibile di determinare la (definitiva) acquisizio‑
ne della proprietà stessa sul bene in caso di inadempimento
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del debito garantito (così realizzando il risultato giuridico ed
economico vietato dall’art. 2744 c.c.).
Quanto agli elementi sintomatici idonei a disvelare la
consumazione di una siffatta operazione fraudolenta, più che
l’indagine sull’atteggiamento soggettivo delle parti (valorizza‑
ta dalla sentenza della Suprema Corte n. 3800/83, non segui‑
ta, peraltro, sul punto, dalle Sezioni Unite), va piuttosto pre‑
dicata la necessità di accertamento di dati obiettivi, quali la
presenza di un rapporto credito/debito preesistente o conte‑
stuale alla vendita e, soprattutto, la sproporzione tra entità del
debito e valore del bene alienato in garanzia (significativo
indice della presenza di un illegittimo vulnus alla libera deter‑
minazione volontaristica del debitore. Ogni profilo di illiceità
è invece escluso, pur in presenza di costituzioni di garanzie
che presuppongano un trasferimento di proprietà, qualora
queste risultino integrate entro schemi negoziali che tale abu‑
so escludono in radice, come nel caso del pegno irregolare, del
riporto finanziario e del c.d. patto marciano, in virtù del
quale, come è noto, al termine del rapporto si procede alla
stima, ed il creditore, per acquisire il bene, è tenuto al paga‑
mento dell’importo eccedente l’entità del credito).
Quanto alla fattispecie negoziale del sale & lease back,
essa, secondo un’opinione largamente diffusa in dottrina, si
struttura secondo uno schema negoziale, socialmente tipico
(in quanto frequentemente applicato, sia in Italia che all’estero,
nella pratica degli affari), contrassegnato da specificità di
struttura e di funzione (e quindi da originalità ed autonomia
rispetto ai tipi negoziali codificati dal legislatore del ‘42),
ascrivibile, in definitiva, ai c.d. contratti di impresa.
Con il sale & lease back (in pratica, una vendita con leasing
di ritorno), un’impresa (od un lavoratore autonomo) vende un
proprio bene (mobile o immobile), di natura strumentale per
l’esercizio dell’impresa o dell’attività, ad una società di finan‑
ziamento la quale, a sua volta, lo concede contestualmente in
leasing all’alienante, che corrisponde, per la relativa utilizza‑
zione, un canone, con facoltà, alla scadenza del contratto, di
riacquistarne la proprietà esercitando un diritto di opzione per
un predeterminato prezzo.
Sotto l’aspetto strutturale, dunque, la fattispecie si colloca
nella più vasta orbita del leasing – istituto che, come noto, a
seguito delle agevolazioni fiscali per esso previste, ha avuto un
notevole sviluppo nella prassi, e del quale è prevalentemente
predicata, in dottrina, la atipicità contrattuale (anche se non
ne sono mancano ricostruzioni in termini di negozio misto,
ovvero assimilazioni funzionali a contratti tipici quali loca‑
zione, affitto, vendita con riserva di proprietà).
Manca, peraltro, nel sale and lease back, quella trilatera‑
lità propria del leasing finanziario (sicché in tal senso andreb‑
be rivisto l’incipit della massima estratta dalla sentenza
n. 6663/1997 della Suprema Corte secondo la quale “poiché
il contratto di sale & lease back è trilaterale …. per l’ipotizza‑
bilità del patto commissorio è necessario dedurre l’interposi‑
zione fittizia dell’utilizzatrice”: la motivazione della sentenza
stessa chiarisce, difatti, la natura evidentemente bilaterale
della fattispecie, e l’erroneità della proposizione inizialmente
predicata in tema di trilateralità del sale & lease back), perché
due soltanto sono, e possono essere, i soggetti dell’operazione,
ovvero della “relazione bilaterale”, non ricorrendo, nella pe‑
culiare fattispecie, la figura del terzo da cui il lessor si procu‑
ri la disponibilità del bene da concedere all’utilizzatore.
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Trilateralità esclusa, dunque, in quanto l’utilizzatore assu‑
me il duplice ruolo (divenendo parte di due distinti anche se
connessi contratti), del fornitore/venditore e dell’utilizzatore
vero e proprio.
Entrambe le convenzioni negoziali divisate dalle parti (di
vendita e di leasing) si realizzano, dunque, tra gli stessi sogget‑
ti, secondo un procedimento non diverso da quello dell’antico
costituto possessorio, e la vicenda contrattuale, al pari di qua‑
lunque altra fattispecie di collegamento negoziale, viola la
suddetta ratio del patto commissorio sol che (e tutte le volte che)
il debitore, allo scopo di garantire al creditore l’adempimento
dell’obbligazione, trasferisca a garanzia del creditore un proprio
bene, riservandosi la possibilità di riottenerne la proprietà
all’esito dell’adempimento dell’obbligazione, senza però riser‑
varsi alcuna facoltà, in caso di inadempimento, di recuperare
l’eventuale eccedenza di valore del bene rispetto all’ammontare
del credito, con un adattamento funzionale dello scopo di ga‑
ranzia incompatibile con la struttura e con la ratio del contrat‑
to di compravendita, mentre l’esistenza di una concreta causa
negoziale di scambio (che può riguardare, o meno, tanto il lea‑
se & sale back quanto lo stesso lo stesso leasing finanziario)
esclude in radice la configurabilità del patto vietato.
Sotto l’aspetto funzionale, come tutti i contratti atipici,
anche il lease & sale back presenta non poche analogie con
figure negoziali tipiche, tanto da poterne astrattamente ascri‑
vere i caratteri salienti a tipi contrattuali predeterminati ex
lege (vendita; mutuo; locazione; opzione), secondo un’opera‑
zione ermeneutica, peraltro, affatto riduttiva e non rispettosa
della funzione integratrice dell’ordinamento svolta dall’auto‑
nomia contrattuale nel settore dei traffici commerciali.
Autonomamente considerato, infatti, il lease back si con‑
figura come operazione economica complessa, funzionale ad
una esigenza tipicamente ricorrente nell’attività imprendito‑
riale, e cioè quella del venditore/ utilizzatore, nel quadro di un
determinato disegno economico di potenziamento dei fattori
produttivi di natura finanziaria, di ottenere con immediatez‑
za liquidità mediante l’alienazione di un suo bene strumenta‑
le – di norma inserito entro un determinato assetto produttivo,
non sempre agevolmente collocabile sul mercato ‑, conservan‑
done l’uso senza soluzione di continuità, e con facoltà di riac‑
quistarne la proprietà al termine del rapporto.
è innegabile che, nella vita di un’impresa, siffatta esigenza
possa fisiologicamente manifestarsi ove ricorra l’opportunità
di smobilizzare precedenti investimenti sfruttando il valore di
scambio degli strumenti di impresa onde avvalersi della liqui‑
dità così ottenuta per finanziare riconversioni o acquisizioni
di nuovi impianti tecnologici, continuando ad utilizzare, in
leasing, il bene strumentale alienato, con i relativi benefici
fiscali, e riservando alla cessazione del rapporto la scelta tra
il riacquisto del bene o la sua restituzione.
Nell’ambito di tale schema, caratterizzantesi come momen‑
to di normale svolgimento dell’attività di impresa, la vendita
alla società di leasing non risulta quindi “normalmente” o
“necessariamente” piegata allo scopo di garanzia, quale ac‑
cessorio di un preesistente o concomitante mutuo, ma costi‑
tuisce il necessario presupposto per la concessione del bene in
leasing: non, dunque, come si è avuto modo di rilevare, ven‑
dita a scopo (necessariamente) di garanzia, bensì vendita a
scopo di leasing.
In conclusione, lo schema negoziale socialmente tipico del
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lease back presenta autonomia strutturale e funzionale, quale
contratto d’impresa, e caratteri peculiari, di natura soggettiva
ed oggettiva, che non consentono di ritenere che esso integri,
per sua natura, e nel suo fisiologico operare, una fattispecie
negoziale fraudolenta sanzionabile ai sensi degli artt. 1344 e
2744 c.c. (ovvero, quale negozio atipico, affetto da illiceità
della causa concreta, ex art. 1343 c.c., per violazione di norma
imperativa, e cioè dell’art. 2744 c.c.).
Ciò non esclude, ovviamente, che anche il lease back, come
qualsiasi altro contratto, possa essere impiegato per scopi il‑
leciti o fraudolenti, ed in particolare, in ragione della già ri‑
cordata indubbia assonanza tra schemi negoziali, a fini di
violazione o di elusione del divieto di patto commissorio ex
art. 2744 c.c.: a tal fine, dovrà procedersi a riscontrare l’even‑
tuale sussistenza di alterazioni dello schema negoziale social‑
mente tipico, idonee a denunciare che l’operazione non tende
al perseguimento dell’assetto di interessi proprio del lease back
come contratto di impresa, bensì al perseguimento di uno
scopo di garanzia con caratteristiche integranti la realizzazio‑
ne del risultato materiale vietato dall’art. 2744 c.c..
Oltre all’assenza di uno o più degli elementi caratterizzan‑
ti di tipo soggettivo ed oggettivo sopra menzionati, il perse‑
guimento di uno scopo di garanzia in violazione dell’art. 2744
c.c. potrà, quindi, essere denunciato dalle difficoltà economi‑
che dell’impresa venditrice, legittimante il sospetto di un ap‑
profittamento della sua condizione di debolezza, nonché della
concreta valutazione economica dell’affare, in termini di ade‑
guata proporzionalità delle prestazioni corrispettive: valuta‑
zione, questa, da condursi avuto riguardo ai criteri adottati
per la stima del prezzo di vendita del bene strumentale (onde
accertarne la corrispondenza a correnti valori di mercato,
correlati, peraltro, alle peculiarità del bene strumentale ed
alla sua eventuale ridotta commerciabilità), per la determina‑
zione dei canoni del leasing (se in conformità alle tecniche
proprie di siffatta figura contrattuale), e per la quantificazio‑
ne del prezzo di opzione (se coerenti con il complessivo disegno
economico perseguito).
Quanto, invece, alla fattispecie “madre” del leasing finan‑
ziario, è noto come la legittimità della nuova figura contrat‑
tuale sia stata riconosciuta dalla Suprema Corte con le sei
sentenze del 13 dicembre 1989, dalla n. 5569 alla n. 5574.
Tale, importante intervento giurisprudenziale ebbe ad in‑
dividuare, nell’ambito del leasing finanziario, due distinte fi‑
gure contrattuali, una delle quali, in particolare, si connota di
un profilo traslativo, perché le parti, al momento della forma‑
zione del contratto, hanno previsto che il trasferimento del
bene all’utilizzatore non costituisce, come nel leasing tradizio‑
nale, un’eventualità del tutto marginale ed accessoria, ma ri‑
entra nella funzione assegnata dalle parti al leasing (sicché
proprio la riconosciuta funzione di scambio ha consentito
l’applicazione a questa individuata figura di leasing della di‑
sposizione dell’art. 1526 c.c.).
La fattispecie del collegamento negoziale (di elaborazione
prevalentemente teorica, frutto di costante riflessione e rime‑
ditazione da parte della dottrina e della giurisprudenza), infi‑
ne, ha ottenuto anche un espresso riconoscimento normativo
(si pensi all’art. 7 del d. lgs. 8.10.1997, n 358, secondo il qua‑
le sono inopponibili all’Amministrazione finanziaria gli atti
ed i negozi, anche collegati, privi di valide ragioni economiche
diretti ad aggirare obblighi previsti dall’ordinamento tributa‑
civile
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rio e ad ottenere riduzioni d’imposta o rimborsi altrimenti
indebiti, ovvero all’ex 1469 ter, primo comma c.c., introdotto
con legge 52/96, – poi eliminato dall’art. 142, primo comma,
c del d. lgs. 6 settembre 2005, n. 206, che ha sostituito, con
l’attuale art. 1469 bis, gli originari artt. 1469 bis, 1469 ter,
1469 quater, 1469 quinquies e 1469 sexies ‑secondo cui la
vessatorietà di una clausola era valutata facendo riferimento
alle altre clausole del contratto medesimo o di un altro colle‑
gato o da cui dipendeva).
Altri ordinamenti continentali avevano, invero, già da
tempo disciplinato giuridicamente la fattispecie (in Germania,
in tema di tutela di credito al consumo, con la Verbraucherkre
ditsgesetz del 17.12.1990 – la cui rubrica è inequivocabilmen‑
te intitolata Verbundene Geschaefte – lett. negozi collegati ‑,
e fa esplicito riferimento alla Wirtschaftliche Einheit, e cioè
all’unitarietà economica della vicenda negoziale ‑, che non è
altro, in tema di opponibilità delle eccezioni relative al con‑
tratto di compravendita direttamente al finanziatore, che la
riproduzione del risalente Abzhalungsgesetz, disciplinante la
vendita rateale, del 1894: secondo tradizione, l’opponibilità
delle eccezioni relative al contratto di vendita viene spiegato
con il ricorso al principio di buona fede nell’esecuzione del
contratto. Del pari, l’ordinamento francese, individuata la
stretta relazione causale tra contratti – contrat principal, con‑
trat de pret ‑, parla di nuovo tipo contrattuale, il “contratto
di credito”, operando, altresì, un ricorso allo schema della
delegazione).
I canoni ermeneutici enucleati da dottrina e giurispruden‑
za (non sempre consonanti) in subiecta materia hanno gene‑
ralmente affrontato la peculiare problematica dell’armonizza‑
zione di un dato socio – economico unitario e di un dato
giuridico plurimo.
Anche in tema di negozi collegati, si è riproposto l’antico
schema dualistico tra criterio soggettivo d’interpretazione (i
negozi collegati in base alla ricostruzione della volontà delle
parti) e criterio oggettivo (il collegamento negoziale ricostru‑
ito in funzione del legame tra le varie funzioni economico – so‑
ciali dei diversi negozi), senza che sia mancata la proposta,
secondo altra parte della dottrina, di una sorta di criterio
sintetico tra i due orientamenti, che tenga conto sia dell’ele‑
mento soggettivo che di quello oggettivo (orientamento accol‑
to, peraltro, da parte della giurisprudenza della Suprema
Corte. Cfr. Cass. 4.9.1996, n. 8070; Cass. 20.11.1992,
n. 12401).
La giurisprudenza di legittimità si mostra per lo più con‑
corde nel tener distinti i piani economico e giuridico del feno‑
meno del collegamento: pur essendo sostanzialmente unitario
l’aspetto e l’interesse economico sotteso all’intera operazione,
i singoli negozi restano, dunque, pur sempre autonomi, ed
autonomamente forniti della propria rispettiva causa, il che
ha indotto una dottrina più recente a sostenere che, nei con‑
tratti collegati, vada necessariamente identificata tanto la
causa parziale dei singoli contratti, quanto la causa comples‑
siva dell’operazione, ciò che sposta il problema del collegamen‑
to dal piano strutturale a quello effettuale, sotto il profilo
dell’applicabilità delle regole della nullità parziale e dell’ecce‑
zione di inadempimento.
Criterio guida della giurisprudenza della Suprema Corte
può, ad ogni buon conto, dirsi quello del simul stabunt, simul
cadent, ed oggi, con ogni probabilità, l’art. 34 del d. lgs.
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n. 205/2005 fornisce la base normativa sinora mancante per
il definitivo riconoscimento del collegamento negoziale come
istituto giuridico e non soltanto fenomeno economico, poiché,
con riferimento all’accertamento della vessatorietà delle clau‑
sole, il “significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi de‑
rivanti dal contratto” (cfr. art. 33, primo comma, del medesi‑
mo decreto legislativo) va valutato “tenendo conto della natu‑
ra del bene o del servizio oggetto del contratto e facendo rife‑
rimento alle circostanze esistenti al momento della sua con‑
clusione ed alle clausole del contratto medesime o di un altro
collegato o da cui dipende”, così consentendo l’estensione
della regola ermeneutica di cui all’art. 1363 c.c. a tutte le
fattispecie di collegamento ritenute tali dall’interprete.
Sulla scorta di tali premesse metodologiche, può allora
esaminarsi l’odierna domanda con cui, come si ricorderà, la
Curatela del Fallimento di A. di G.S. & C. s.a.s., premettendo,
in sintesi, che la menzionata società in bonis, con atto per
notar Luigi Mauro del 2.5.2007, aveva trasferito alla S. L.
s.p.a. (oggi L. s.p.a.) l’immobile, ove aveva la sua sede ed in
cui svolgeva la sua attività, sito in Napoli, alla via O., che
l’acquirente l’aveva poi contestualmente concesso in locazione
finanziaria alla A. I. s.r.l. (costituita solo il 26.3.2007, e con
compagine sociale in parte coincidente con quella della A. di
G.S. & C. s.a.s., e per il residuo composta dai figli del socio
accomandatario di quest’ultima), la quale, a sua volta, l’aveva
commercialmente locato, con decorrenza sempre dal 2.5.2007,
alla stessa A. di G.S. & C. s.a.s., ed assumendo che una sif‑
fatta complessiva operazione era stata intenzionalmente posta
in essere dalla società poi fallita, con la consapevole parteci‑
pazione degli altri contraenti, al fine di sottrarre alla garanzia
dei suoi creditori l’unico suo immobile, ha chiesto accertarsi
e dichiararsi che la descritta compravendita intervenuta tra la
A. di G.S. & C. s.a.s. e la S. L, e la collegata locazione finan‑
ziaria tra quest’ultima e la A. I. s.r.l. costituivano entrambi
atti che dissimulavano un contratto di finanziamento assistito
da una vendita in funzione di garanzia, volto cioè ad aggirare,
con intento fraudolento, il divieto del patto commissorio pre‑
visto dall’art. 2744 c.c., e, per l’effetto, dichiararsene la nulli‑
tà per illiceità della causa ai sensi del combinato disposto
degli artt. 1344 c.c. e 1418, secondo comma, c.c., con tutte le
conseguenze di legge (cfr. capi 1 e 2 delle conclusioni della
citazione introduttiva).
In altri termini, secondo l’attrice, ci si troverebbe “…al
cospetto di una serie di atti: (I) compravendita tra A. e S. L.
(II) locazione finanziaria tra Sanpaolo Le. e A. I;
(III) contratto di locazione tra la A. I. e la A., apparente‑
mente leciti, ma in realtà funzionalmente collegati tra loro e
finalizzati al perseguimento dell’unitario scopo illecito consi‑
stente, tra l’altro, anche nella sottrazione di garanzie ai credi‑
tori della Agorà…” (cfr. pag. 8 della predetta citazione).
Giova, peraltro, ribadire che entrambe le società convenu‑
te, ritualmente costituitesi in giudizio, hanno ampiamente
confermato la cronologia degli atti descritti dalla controparte,
ma ne hanno decisamente contestato il loro asserito fine ille‑
cito come ipotizzato da quest’ultima.
Orbene, alla stregua dei principi finora ampiamente espo‑
sti, può nella specie agevolmente ritenersi sussistente una
fattispecie di collegamento negoziale tra il rogito per notar
Luigi Mauro del 2.5.2007 (cfr. in atti), con cui la A. di G.S.
& C. s.a.s. aveva trasferito alla S. L s.p.a. (oggi L s.p.a.) il già
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descritto immobile sito in Napoli, alla via O., ove aveva la sua
sede ed in cui svolgeva la sua attività, il contratto di locazione
finanziaria n. omissis (cfr. in atti), con cui, in pari data, l’ac‑
quirente aveva poi concesso il medesimo cespite, in locazione
finanziaria, alla A. I. s.r.l. (costituita solo il 26.3.2007, e con
compagine sociale in parte coincidente con quella della A.di
G.S. & C. s.a.s., e per il residuo composta dai figli del socio
accomandatario di quest’ultima) e l’ulteriore contratto, data‑
to 1.5.2007 ma con efficacia decorrente dal 2.5.2007 (cfr. in
atti), con cui quest’ultima, a sua volta, l’aveva commercial‑
mente locato alla stessa A. di G.S. & C. s.a.s., secondo la
analitica e mera ricostruzione in fatto sostanzialmente desu‑
mibile dagli scritti difensivi di tutte le parti in causa.
Deve, invece, assolutamente escludersi l’esistenza di un
contratto di sale & lease back (come condivisibilmente eviden‑
ziato dal difensore della L s.p.a. già nella sua comparsa di
costituzione del 28.12.2010. Cfr. pag. 7 e ss.), atteso che, nel‑
la realtà, l’operazione economico giuridica ideata e realizzata
dalle parti aveva, sotto il profilo soggettivo, indubbio caratte‑
re trilaterale (A. s.a.s. di G.S. & C., quale venditrice; S Ls.p.a.
come concedente in leasing; A I s.r.l. come utilizzatrice in lea‑
sing, sebbene tale utilizzo si sia concretizzato nel locare com‑
mercialmente il cespite de quo alla originaria venditrice),
senza che, peraltro, in seno alla più complessa vicenda nego‑
ziale, fossero in alcun modo riscontrabili gli estremi (nemme‑
no specificamente allegati dall’attrice) dell’interposizione fitti‑
zia di persona nel contratto di leasing (evidentemente smentita
per tabulas proprio dal successivo contratto di locazione com‑
merciale intercorso tra A. I. s.r.l. ed A s.a.s. di G.S. & C.).
La innegabile distinzione soggettiva tra fornitore (la socie‑
tà poi fallita) ed utilizzatore in leasing del bene (la A I s.r.l.),
attesa l’autonomia patrimoniale dei soggetti protagonisti del‑
la vicenda, e la non identificabilità dell’alienante con l’utiliz‑
zatore – la circostanza che tale utilizzazione sia avvenuta
mediante la successiva stipula tra quest’ultimo e l’originaria
venditrice, di un contratto di locazione commerciale per effet‑
to del quale la detenzione dell’immobile di cui si discute è, di
fatto, rimasta alla A s.a.s. di G.S. & C., non può incidere, ad
avviso di chi scrive, sulla struttura trilaterale del descritto
rapporto originato dai contratti di compravendita e lea‑
sing – non comporta, peraltro, come pure parrebbe auspicato
dal difensore della L s.p.a. (cfr. le già richiamate pag. 7 e ss.
della sua citata comparsa di costituzione), la conseguente
impossibilità, sul piano ontologico, di ravvisare, nell’opera‑
zione, la sussistenza di un contratto di leasing elusivo del di‑
vieto di cui all’art. 2744 c.c., e ciò per l’evidente ragione, già
ampiamente illustrata in sede di premesse metodologiche,
secondo cui qualsiasi struttura contrattuale (e, dunque, anche
un asserito leasing finanziario “puro”) è astrattamente idonea,
in sede di adattamento funzionale (specie se tale adattamento
sia frutto, come avvenuto nella vicenda oggi in esame, di un
più articolato procedimento di collegamento negoziale), a
violare il divieto di patto commissorio.
Affinché, però, tale astratta idoneità si tramuti in avvenu‑
ta concreta violazione, nella fattispecie de qua, di detto divie‑
to, è necessario accertare se ricorrano, o non, quegli elementi
patologici sintomatici dell’esistenza, benché mascherata da un
fenomeno, in sé lecito, di collegamento negoziale, di un con‑
tratto di finanziamento assistito da una vendita in funzione di
garanzia, volto cioè ad aggirare, con intento fraudolento, il
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divieto di patto commissorio previsto dall’art. 2744 c.c., e
pertanto sanzionabile, per illiceità della causa, con la nullità,
ai sensi del cit. art. 1344, in relazione all’art. 1418, secondo
comma, c.c..
In proposito, si è già detto in precedenza che gli elementi
ordinariamente sintomatici della frode alla legge sono essen‑
zialmente tre, così individuati:
a) la presenza di una situazione di credito e debito tra la
società finanziaria (concedente) e l’impresa venditrice utiliz‑
zatrice, preesistente o contestuale alla vendita;
b) le difficoltà economiche dell’impresa venditrice, legitti‑
manti il sospetto di un approfittamento della sua condizione
di debolezza;
c) la sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il
corrispettivo versato dall’acquirente, che confermi la validità
di tale sospetto.
Soltanto il loro concorso vale, cioè, a fondare ragionevol‑
mente la presunzione che una fattispecie di collegamento ne‑
goziale, di per sé lecita, sia stata in concreta impiegato per
eludere il divieto di patto commissorio e sia pertanto nulla
perché in frode alla legge (ed a conclusioni pressoché identiche
si giungerebbe, peraltro, alla stregua dei principi generali già
ampiamente illustrati in precedenza, anche qualora volesse,
per mera ipotesi, qualificarsi l’intera operazione commerciale
in esame come sale & lease back, contratto d’impresa di per
se lecito, ma il cui utilizzo può prestarsi ad ipotesi di nullità
per frode alla legge).
Nella specie, però, manca qualsivoglia adeguata dimostra‑
zione della preesistenza, rispetto alla compravendita di cui al
rogito Mauro del 2.5.2007, di una situazione di credito e de‑
bito tra la S. L. s.p.a. (oggi L s.p.a.), società finanziaria (ac‑
quirente e poi concedente in leasing), e la A s.a.s. di G.S. &
C., impresa venditrice, e/o la A I s.r.l., utilizzatrice in leasing,
né sono documentati diversi ed ulteriori rapporti tra tali sog‑
getti anteriori al menzionato rogito.
Ad avviso di chi scrive, peraltro, e diversamente da quanto
preteso dalla Curatela attrice (cfr. pag. 11‑12 della citazione
introduttiva), non possono certamente utilizzarsi, al fine di
poter ritenere come esistente una situazione di credito e debito
tra la società finanziaria (concedente) e l’impresa venditrice e/o
utilizzatrice contestuale alla vendita ed al leasing del 2.5.2007,
le obbligazioni rispettivamente nascenti da questi ultimi, doven‑
do invece, ragionevolmente, il suddetto requisito riferirsi ad
eventuali situazione di credito e debito diverse da quelle nascen‑
ti dalla operazione negoziale posta in essere, pur se contestuali
ad essa, non ravvisandosi, altrimenti, lo scopo di garanzia (ma‑
gari in frode alla legge), che quest’ultima dovrebbe assicurare.
La indicata Curatela, benché gravata del corrispondente
onere, non ha poi fornito sufficiente dimostrazione circa le
asserite difficoltà economiche della società venditrice (poi
fallita), legittimanti il sospetto di un consapevole approfitta‑
mento, da parte della S L s.p.a., della sua condizione di debo‑
lezza (a tal fine apparendo del tutto insufficiente, per le con‑
vincenti ragioni esposte dalla A I s.r.l. alle pagine 6‑7 della sua
memoria depositata l’11.4.2011, da intendersi, per brevità, qui
integralmente riportate e che questo Tribunale, pienamente
condividendole, fa proprie, la produzione dello stato passivo
del fallimento della A di G.S. & C. s.a.s.): in altri termini, non
ha provato che quest’ultima fosse a conoscenza, al momento
della conclusione della vendita, della asseritamente infelice
civile
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condizione economica della alienante (quali che fossero i suoi
concreti rapporti con la A I s.r.l.).
Sul punto, infatti, la stessa si è limitata a mere affermazio‑
ni (cfr. pag. 12 e ss. della citazione introduttiva, le cui argo‑
mentazioni sono state poi reiterate, in modo pressoché identi‑
co, negli altri suoi successivi scritti difensivi malgrado l’avve‑
nuta loro confutazione, ab origine, da parte delle convenute),
rimaste sfornite di adeguato supporto probatorio, anche me‑
ramente indiziario, trattandosi di assunti affatto privi quanto
meno della necessaria inequivocità (come dimostrato dalle
giustificazioni, tutt’altro che implausibili, fornite, con riguar‑
do a ciascuno di essi, dalla L s.p.a. e dalla A I s.r.l. già con la
rispettive comparse di costituzione), e/o comunque, sebbene
unitariamente considerati, carenti di significatività e conclu‑
denza ai fini della circostanza che si pretenderebbe di dare per
dimostrata, sottolineandosi, peraltro, che, non basta consta‑
tare come la A di G.S. & C. s.a.s. (società venditrice, e poi
effettiva utilizzatrice dell’immobile in questione, benché attra‑
verso l’ulteriore contratto di locazione commerciale stipulato
con la A I s.r.l., sua utilizzatrice in leasing) sia fallita il 26
novembre 2009, – dopo oltre due anni e mezzo (poco più di
30 mesi dopo) rispetto alla data della complessiva operazione
di cui si discute – per indurne uno stato economico di insol‑
venza o di semplice difficoltà del quale vi sarebbe stato appro‑
fittamento da parte della concedente S L s.p.a..
Ed infatti, in assenza di qualsivoglia dimostrazione (ma‑
gari attraverso la produzione dei corrispondenti bilanci) della
effettiva situazione economica, finanziaria e patrimoniale
della società poi fallita al 2.5.2007 (ma altrettanto potrebbe
dirsi, ove fosse necessario, per la A I s.r.l., rispetto alla quale
l’attrice si è sostanzialmente limitata ad affermare che era
stata costituita circa trentasei prima della suddetta operazio‑
ne), e non risultando documentati, in suo danno, in quel pe‑
riodo, protesti, sequestri, pignoramenti e/o procedure esecu‑
tive di alcun genere, sarebbe agevole obiettare che il peraltro
lungo intervallo trascorso tra la conclusione della suddetta
complessiva operazione di cui oggi si discute ed il fallimento
della A di G.S. & C. s.a.s. non prova nulla circa le effettive
condizioni economiche delle due società (quest’ultima e I.
s.r.l.) in essa coinvolte (e, soprattutto, della loro concreta
conoscenza da parte della S. L s.p.a.), non potendosi certo
applicare nella materia in esame la presunzione juris et de
jure di insolvenza sancita dall’art. 67 l. fall. a tutt’altri, non
estensibili, fini; e nemmeno potendosi ragionevolmente pre‑
sumere, solo per quella consecutio cronologica, che una di
esse od ambedue versassero in un semplice stato di difficoltà
economica, premonitore dell’insolvenza vera e propria.
Quanto poi alla asserita sproporzione tra il valore di mer‑
cato dell’immobile trasferito ed il corrispettivo versato dall’ac‑
quirente, anche in tal caso le argomentazioni della Curatela
appaiono assolutamente generiche, nulla specificandosi con
riferimento ai richiamati immobili con analoghe caratteristi‑
che in zona ed ai loro pretesi valori di mercato dell’epoca,
così pretendendosi di rimetterne la dimostrazione ad una in‑
vocata c.t.u., che, però, notoriamente, non può sopperire alle
carenze istruttorie dovute all’inadempimento al proprio onere
probatorio da parte di ciascuno dei soggetti in lite.
Si può, allora, concludere nel senso che la sussistenza della
frode alla legge e, con essa, del vietato, sottostante patto com‑
missorio, con la conseguente nullità dell’intera operazione, è
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stata domandata dall’attrice, piuttosto che con il concreto ri‑
corso ai soli indici rivelatori concordemente individuati dalla
dottrina e dalla giurisprudenza (dei quali tutti, peraltro, come
si è finora detto, non è stata fornita adeguata dimostrazione),
sostanzialmente attraverso una serie di proposizioni meramen‑
te assertive, le quali pongono l’accento su elementi di incerto
e/o equivoco e/o nullo valore indiziario ai fini del suo assunto,
e si traducono quindi in altrettante petizioni di principio, che
danno per dimostrato quanto invece si doveva dimostrare.
In definitiva, ritiene questo Tribunale che non sia predica‑
bile, – in assenza di riscontri certi quanto alla sussistenza
delle necessarie anomalie rispetto all’ipotesi tipo di per sé non
illecita – con riguardo all’intera operazione negoziale così
come funzionalmente collegata, la violazione del patto com‑
missorio, avendo le parti stipulato, da un canto, un leasing
finanziario puro (e non, dunque, un sale & lease back), dall’al‑
tro, atti negoziali ad esso collegati (compravendita, locazione
commerciale) che, al di là delle disarmonie soggettive, condu‑
cono inevitabilmente ad escludere la realizzazione di una
fattispecie rientrante tra quelle vietate dall’art. 2744 c.c..
Tale, dunque, la soluzione cui le vicende processuali oggi
sottoposte all’esame di questo Giudice impongono di perve‑
nire, atteso, in particolare, che i due contratti, di leasing fi‑
nanziario e di compravendita, appaiono, proprio in virtù
dell’assenza di quegli indici rivelatori all’uopo ritenuti neces‑
sari dalla giurisprudenza di legittimità in precedenza richia‑
mata, indiscutibilmente concepiti e stipulati in stretta connes‑
sione tra loro, senza che però, dal loro collegamento, possa
ragionevolmente desumersi che l’unico loro scopo sia stato
quello di garanzia di (peraltro insussistenti) debiti della ven‑
ditrice, verso l’acquirente, preesistenti e/o contestuali a detta
operazione, altresì ricordandosi che il collegamento negozia‑
le (come più volte affermato dalla Suprema Corte. Cfr. ex
multis, Cass. 16.9.2004, n. 18655; Cass. 16.2.2007, n. 3645)
è fattispecie configurabile anche quando i singoli atti siano
stipulati tra soggetti diversi, purché essi risultino concepiti e
voluti come funzionalmente connessi e tra loro interdipenden‑
ti, onde consentire il raggiungimento dello scopo divisato
dalle parti.
Pertanto, la domanda della Curatela di cui si discute non
può che essere rigettata.
3. La domanda proposta dall’attrice ai sensi degli artt. 66 l. fall. e
2901, c.c..
L’attrice ha altresì chiesto, in subordine, od alternativamen‑
te, rispetto alla domanda formulata ex artt. 1344 e 1418, se‑
condo comma, c.c, dichiararsi inefficaci e/o ad essa inopponi‑
bili alla Curatela, e comunque revocarsi ex artt. 66 l. fall. e 2901
c.c., la già descritta compravendita del 2.5.2007 per notar
Luigi Mauro, con cui la A. di G. S. & C. s.a.s. aveva venduto
alla S L s.p.a. l’immobile ivi più compiutamente indicato, non‑
ché, per quanto di ragione, l’atto successivo di concessione in
leasing del medesimo cespite da quest’ultima alla A I s.r.l. (cfr.
capo 3 delle conclusioni della citazione introduttiva).
Entrambe le convenute hanno, invece, chiesto il rigetto di
tale domanda per insussistenza dei requisiti di legge.
In proposito, appare opportuno premettere che l’art. 66
della legge fallimentare attribuisce al curatore la facoltà di
domandare che siano dichiarati inefficaci gli atti compiuti dal
debitore in pregiudizio dei creditori, secondo le norme del
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codice civile, e che diversi sono i presupposti dell’azione revo‑
catoria ordinaria appena considerata e di quella fallimentare,
pure quando entrambe le azioni siano instaurate dal medesimo
soggetto (il curatore).
L’art. 67 legge fallimentare, invero, individua una tipologia
di atti, posti in essere dal fallito nel periodo “sospetto”, dei
quali si presume l’attitudine a recare danno al suo patrimonio,
con conseguente pregiudizio per i creditori concorsuali (non
rileva, invece, sotto questo specifico aspetto, la differente di‑
sciplina delle fattispecie di cui al primo ed al secondo comma,
che attiene alla distribuzione dell’onere della prova circa la
scientia decoctionis), laddove l’art. 66, come si è detto, rinvia
al regime normativo generale del codice civile e, pertanto,
all’art. 2901; in base a tale disposizione, il creditore può do‑
mandare la revoca degli atti pregiudizievoli quando il debito‑
re fosse a conoscenza del pregiudizio arrecato alle ragioni del
creditore stesso (consilium fraudis), ovvero ne fosse a cono‑
scenza pure il terzo trattandosi di atto a titolo oneroso (par‑
ticipatio fraudis).
In ogni caso, condizione necessaria ed imprescindibile è
l’esistenza di un pregiudizio per il creditore (c.d. eventus
damni).
Esso dovrà esser accertato e valutato in concreto, senza
possibilità di accedere a presunzioni; in altri termini, è onere
del creditore che agisca in revocatoria dimostrare che l’atto,
di cui si vuol far valere l’inefficacia, abbia compromesso la
garanzia patrimoniale rappresentata dall’intero patrimonio
del debitore ex art. 2740 c.c..
In tale contesto, assumono rilevanza gli atti che riducono
la consistenza del patrimonio del debitore in misura tale da
rendere la parte residua insufficiente a coprire l’ammontare
dei debiti, e tale situazione può verificarsi anche quando siano
posti in essere atti di disposizione che comportino la sostitu‑
zione di beni facilmente aggredibili con altri (quali il denaro)
che possono essere agevolmente sottratti all’esecuzione.
Del pari possono costituire oggetto di revocatoria altri
atti con i quali venga vanificata o gravemente ostacolata
un’esecuzione, pur rimanendo i cespiti di proprietà del debi‑
tore (si pensi all’accensione di ipoteche od alla costituzione di
diritti reali minori, ma anche alla devoluzione dei beni in
fondo patrimoniale, in relazione al quale si è formata una
giurisprudenza consolidata proprio in ambito fallimentare).
Può peraltro verificarsi che, nonostante i predetti atti posti
in essere dal debitore (magari poi fallito), il patrimonio residuo
di questi, per la sua capienza, sia comunque idoneo ad assicu‑
rare il soddisfacimento delle ragioni del creditore: va da sé che,
in questo caso, l’azione revocatoria che dovesse essere instau‑
rata, prima ancora che infondata, risulterebbe inammissibile
per difetto di interesse ad agire.
I principi predetti, elaborati da giurisprudenza e dottrina in
relazione all’azione revocatoria ordinaria esperita dai singoli
creditori, trovano puntuale applicazione pure quando parte at‑
trice sia la curatela fallimentare ex art. 66 legge fallimentare.
Invero, come chiarito dalla Suprema Corte (cfr.
Cass. 5.12.2003, n. 18607, nonché, in senso sostanzialmente
conforme, le motivazioni delle più recenti Cass. S.U. 17.12.2008,
n. 29420 e Cass. 28.5.2009, n. 12513), l’azione revocatoria
ordinaria esercitata dal curatore a norma dell’art. 66 legge
fallimentare si identifica con quella che i singoli creditori,
prima della dichiarazione di fallimento, avrebbero potuto
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39
esperire, a norma degli artt. 2901 e segg. cod. civ., contro gli
atti pregiudizievoli compiuti dal debitore.
La revocatoria ordinaria esperita dal curatore si caratte‑
rizza, infatti, rispetto a quella contemplata dall’art. 2901 c.c.,
solo per il fatto che è rivolta a tutelare tutti i creditori del
fallito, nei cui confronti – in caso di accoglimento della do‑
manda – l’atto revocato sarà privo di efficacia (mentre nella
fattispecie di cui all’art. 2901 c.c. gli effetti positivi della sen‑
tenza riguarderanno solo il creditore che abbia assunto l’ini‑
ziativa in sede giudiziale).
Illuminante, in proposito, appare la citata Cass. S.U.
17.12.2008, n. 29420, laddove si afferma che (cfr. pag. 9‑10
della motivazione) “… Quando, però, il debitore sia un im‑
prenditore commerciale e l’atto di disposizione da lui compiu‑
to ne abbia causato (o aggravato) l’insolvenza, onde ne è se‑
guita la dichiarazione di fallimento, il pregiudizio che giusti‑
fica l’esercizio dell’azione revocatoria si riflette necessariamen‑
te sulla posizione dell’intera massa dei creditori, le cui ragioni
devono essere soddisfatte secondo le regole del concorso. Si
spiega, quindi, come mai la L. Fall., art. 66, in tal caso, attri‑
buisca al curatore, nell’interesse della massa, la legittimazione
all’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria, quale prevista
dal citato art. 2901 c.c. e segg., in aggiunta all’azione revoca‑
toria fallimentare disciplinata dal successivo art. 67 della
stessa Legge. In dottrina, anzi, è stato osservato che, nell’ipo‑
tesi in cui il debitore è un imprenditore commerciale di cui
però non sia stato dichiarato il fallimento, l’esercizio dell’azio‑
ne revocatoria individuale inevitabilmente comporta una
stortura: perché l’atto di disposizione patrimoniale del debi‑
tore è sempre potenzialmente dannoso per la collettività dei
creditori (ed il consilium fraudis ha carattere impersonale),
mentre l’azione produce effetti a vantaggio di un creditore
singolo. Stortura che cessa invece di esistere, in caso di dichia‑
razione di fallimento, qualora l’azione sia esercitata dal cura‑
tore nell’interesse indistinto di tutti i creditori pregiudicati da
quell’atto; ed il cosiddetto effetto recuperatorio, che si suole
ricollegare all’azione revocatoria in ambito fallimentare (di‑
versamente da quando essa è esercitata al di fuori del fallimen‑
to), non è che una conseguenza del diverso modo in cui si at‑
teggia la successiva fase esecutiva nella procedura concorsua‑
le rispetto all’esecuzione forzata individuale. Pur potendosi
ammettere, pertanto, che l’inserimento dell’azione revocatoria
ordinaria nell’ambito della procedura concorsuale richiede
degli adattamenti, sembra senz’altro da affermare che essa
resta, anche in tale evenienza, la medesima prevista dal codi‑
ce civile, come del resto l’espressione adoperata della L. Fall.,
art. 66, comma 1, sta chiaramente ad indicare…”.
È innegabile, peraltro, che la revocatoria ordinaria ex
art. 66, legge fallimentare, pur richiamandosi espressamente
alle “norme del codice civile” di cui agli artt. 2901 e ss., rive‑
li in sé caratteri assolutamente peculiari sotto il profilo quan‑
to meno soggettivo.
Le particolarità sono essenzialmente di due tipi: in primo
luogo, venendo di fatto meno il soggetto debitore a seguito
dell’assoggettamento alla procedura di fallimento, ed assom‑
mando in generale in sé il curatore il duplice ruolo di sostitu‑
to del debitore fallito e di rappresentante della massa dei cre‑
ditori ammessi al passivo, si instaura un rapporto processuale
non più trilaterale, ma bilaterale, con la particolarità che il
curatore/attore incarna sostanzialmente le posizioni di due
civile
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soggetti (il debitore ed il creditore, mentre resta invariata
quella del terzo partecipe dell’atto dispositivo) che in sede
ordinaria non sono di fatto schierati dalla stessa parte a dife‑
sa dell’efficacia dell’atto che si intende revocare, bensì su po‑
sizioni contrapposte. È ovvio, infatti, che l’azione ex art. 2901
c.c., promossa da un creditore, implica che il debitore non
abbia soddisfatto la propria obbligazione o si rifiuti di farlo,
inducendo il creditore a far valere l’inefficacia dell’atto pregiu‑
dizievole, sicché, salvo ipotesi particolari, quasi sempre le
azioni ordinarie rivelano in sede processuale una alleanza tra
debitore e terzo contro il creditore procedente. Nell’ipotesi di
cui all’art. 66 legge fallimentare, dunque, il terzo perderebbe
il presunto appoggio della parte debitrice e si vedrebbe costret‑
to a fronteggiare da solo l’attacco della parte creditrice, im‑
personata collettivamente dal curatore.
In secondo luogo, essendo il curatore l’unico soggetto cui
l’art. 66 legge fallimentare riconosce la legittimazione attiva
(cfr. Cass. S.U. 17.12.2008, n. 29420), si viene a creare, agen‑
do sulla base di tale norma, una scissione tra elemento sogget‑
tivo (da intendersi come il soggetto che ritiene di aver subito il
danno) ed elemento oggettivo (cioè, l’individuazione della ra‑
gione creditoria che si considera compromessa).
Nella revocatoria ex art. 2901 c.c., invero, agisce sogget‑
tivamente chi ritiene che le aspettative di soddisfacimento di
un proprio credito siano pregiudicate dall’atto dispositivo che
si intende revocare.
Nell’azione ex art. 66, legge fallimentare, invece, il cura‑
tore si fa carico dal punto di vista soggettivo delle aspettative
dell’intera massa dei creditori, come espressamente previsto
dalla citata norma e come risulta insito nella natura stessa del
ruolo ricoperto dal suddetto organo fallimentare.
Anche la revocatoria ordinaria ex art. 66 L. Fall., inoltre,
può investire non solo gli atti posteriori, ma pure quelli ante‑
riori al sorgere del credito, ove sia data prova della dolosa
preordinazione degli stessi a pregiudicare il soddisfacimento
del futuro credito.
Può trattarsi, peraltro, di atti a titolo oneroso o gratuito:
in questa sede, in considerazione delle complessive allegazioni
di parte attrice, interessano, in particolare, gli atti di disposi‑
zione posteriori al sorgere del credito compiuti dal debitore a
titolo oneroso.
La giurisprudenza, poi, ha ripetutamente chiarito (cfr.
Cass. 12.9.1998, n. 9092, e le più recenti Cass. 6.8.2004,
n. 15257 e Cass. 31.10.2008, n. 26331) che è onere del cura‑
tore fornire la prova dell’eventus damni, consistente nell’inci‑
denza dell’atto, oggetto di revocatoria, sull’insorgere o sul
successivo evolversi dello stato di insolvenza.
In particolare, secondo Cass. 12.9.1998, n. 9092, “il cu‑
ratore del fallimento che esperisca l’azione revocatoria ordina‑
ria è tenuto a provare, a meno che non venga ipotizzata una
dolosa preordinazione dell’atto dispositivo al fine di pregiudi‑
care il soddisfacimento del credito [ipotesi che, ragionevolmen‑
te, non ricorre nella fattispecie per cui è causa. Ndr], che il
credito dei creditori ammessi o di alcuni dei creditori ammes‑
si al passivo era già sorto al momento del compimento dell’at‑
to che si assume pregiudizievole, quale era la consistenza dei
loro crediti, quale era la consistenza quantitativa e qualitativa
del patrimonio del debitore subito dopo il compimento dell’at‑
to che si assume pregiudizievole, consentendo soltanto la ac‑
quisizione di tali dati di verificare in concreto, attraverso il
c i v i l e
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loro raffronto, se l’atto in questione abbia effettivamente pre‑
giudicato le ragioni dei creditori”.
La successiva Cass. 6.8.2004, n. 15257, inoltre, ha speci‑
ficato che “il curatore del fallimento che esperisca l’azione
revocatoria ordinaria non può limitarsi a far genericamente
valere le ragioni creditorie del fallimento, essendo, invece, te‑
nuto, in caso di esplicita contestazione del convenuto, a forni‑
re la prova che il credito di cui si tratta sia stato insinuato
nella massa fallimentare”.
Infine, la più recente Cass. 31.10.2008, n. 26331, sostan‑
zialmente riepilogando le prime due riportate pronunce, ha
statuito che “il curatore che intenda promuovere l’azione revo‑
catoria ordinaria, per dimostrare la sussistenza dell’eventus
damni ha l’onere di provare tre circostanze:
(a) la consistenza del credito vantato dai creditori ammes‑
si al passivo nei confronti del fallito;
(b) la preesistenza delle ragioni creditorie rispetto al com‑
pimento dell’atto pregiudizievole;
(c) il mutamento qualitativo o quantitativo del patrimonio
del debitore per effetto di tale atto. Solo se dalla valutazione
complessiva e rigorosa di tutti e tre questi elementi dovesse
emergere che per effetto dell’atto pregiudizievole sia divenuta
oggettivamente più difficoltosa l’esazione del credito, in misu‑
ra che ecceda la normale e fisiologica esposizione di un impren‑
ditore verso i propri creditori, potrà ritenersi dimostrata la
sussistenza dell’eventus damni”.
Muovendo, allora, da tali coordinate ermeneutiche, e ve‑
nendo all’esame dell’odierna domanda attrice, va subito riba‑
dito che, come si è già detto nel precedente paragrafo 2 di
questa motivazione, risulta pacifica la data (2.5.2007) della
complessiva operazione realizzata dalla A di G.S. & C. s.a.s.,
dalla S L (oggi L s.p.a.) e dalla A I. s.r.l. mediante il collega‑
mento di operazioni negoziali da ciascuna di esse posta in es‑
sere, come ampiamente già descritte nel prima richiamato
paragrafo 2, ed oggetto (sebbene nei limiti di cui al menziona‑
to capo 3 delle conclusioni di cui alla citazione introduttiva)
della presente istanza ex art. 66 l. fall. e 2901 c.c., sicché è
indiscutibile che si sia in presenza di atti compiuti nel quin‑
quennio antecedente la notifica (5/12.8.2010) dell’odierna
domanda giudiziale.
Del contenuto e degli effetti di tale complessa operazione
negoziale si è pure già ampiamente riferito, per cui possono
qui intendersi integralmente ribadite le corrispondenti argo‑
mentazioni esposte nel precedente paragrafo 2.
Fermo quanto precede, a dire della Curatela attrice (cfr.
amplius, pag. 17 e ss. della citazione introduttiva), detta com‑
pravendita del 2.5.2007, così come, per quanto di ragione, la
concessione in leasing alla A. I. s.r.l. del medesimo cespite
oggetto della prima, sarebbero senz’altro revocabili, ex artt. 66
l. fall. e 2901 c.c., sussistendone tutti gli elementi, e cioè:
a) quanto meno la consapevolezza dell’acquirente (e, secon‑
do la prospettazione della Curatela, anche della A. I. s.r.l.) che
tale atti avrebbero (in particolare la vendita) arrecato pregiu‑
dizio ai creditori dell’alienante;
b) il danno per questi ultimi, atteso che il bene che ne co‑
stituiva l’oggetto costituiva l’unico immobile di cui la società
venditrice era proprietaria, per cui l’avvenuta sua disposizione
aveva reso sostanzialmente impossibile, o comunque molto più
difficoltoso, il legittimo soddisfacimento delle pregresse ragio‑
ni di credito della massa.
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Premettendosi, allora, l’assoluta irrilevanza, in questa sede,
di un’eventuale sproporzione tra le prestazioni di cui al men‑
zionato rogito, – l’art. 2901 c.c., invero, differentemente da
quanto sancito dall’art. 67 l. fall. in tema di revocatoria falli‑
mentare, nessun rilievo attribuisce, in sé, all’eventuale spro‑
porzione tra le prestazioni contrattuali – la menzionata Cura‑
tela, attesi i principi giurisprudenziali in precedenza richiama‑
ti (cfr. Cass. 12.9.1998, n. 9092; Cass. 6.8.2004, n. 15257;
Cass. 31.10.2008, n. 26331), ed a cui questo Tribunale inten‑
de dare continuità, avrebbe dovuto dimostrare:
a) che i crediti di coloro che risultavano ammessi allo sta‑
to passivo, o almeno di alcuni di essi, fossero già sorti al
momento in cui la società poi fallita pose in essere la vendita
oggetto di revocatoria;
b) la consistenza quantitativa e qualitativa del patrimonio
della debitrice subito dopo il compimento dell’atto che si as‑
sume pregiudizievole.
Orbene, rileva lo scrivente che, quanto al primo punto,
l’attrice ha prodotto (cfr. allegato alla memoria depositata il
21.3.2011) lo stato passivo approvato dal Giudice delegato al
Fallimento della A. di G.S. & C. s.a.s., dal cui esame, però,
emerge che solo il credito di Equitalia Polis s.p.a. (per comples‑
sivi euro 1.716,20. Cfr. domanda n. 3) riguarda causali ante‑
riori al 2.5.2007, atteso che, per tutti gli altri, o non si evince
l’epoca di loro insorgenza (cfr. domande nn. 2, 4, 5, 6, 7, 8, 9,
14, 15), oppure la stessa è successiva al 2.5.2007 (cfr. doman‑
de nn. 1, 10, 11, 12, 13, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23).
Dall’esibita visura effettuata dalla Curatela presso la
Conservatoria dei RR.II. di Napoli, emerge, inoltre, che ef‑
fettivamente la A. di G.S. & C. s.a.s. non disponeva di altri
immobili.
Fermo quanto precede, se, allora, è incontrovertibile che
l’avvenuta alienazione del proprio unico cespite aveva compor‑
tato una variazione, in negativo, del suo patrimonio, è pari‑
menti innegabile che, atteso l’importo particolarmente esiguo
(euro 1.716,20) del solo credito di cui è stata fornita, dall’at‑
trice, la prova della sua esistenza già all’epoca della suddetta
operazione del 2.5.2007, non sembra che, da sola, quest’ulti‑
ma (che comunque aveva portato nelle casse sociali il relativo
corrispettivo, nella cospicua misura di euro 1.200.000,00,
oltre I.V.A.) possa essere stata certamente foriera di una reale
maggiore difficoltà od incertezza nella esazione coattiva dello
stesso: circostanza, quest’ultima, idonea a far ritenere insus‑
sistente l’eventus damni, avendo la Suprema Corte chiarito sul
punto che “in tema di revocatoria ordinaria, ai fini dell’inte‑
grazione dell’elemento oggettivo dell’eventus damni, la cui
sussistenza il curatore deve provare, non è necessario che
l’atto abbia reso impossibile la soddisfazione del credito, ma
è sufficiente che abbia causato maggiore difficoltà od incer‑
tezza nel recupero coattivo, secondo una valutazione operata
ex ante, con riferimento alla data dell’atto dispositivo e non a
quella futura dell’effettiva realizzazione del credito, avendo
riguardo anche alla modificazione qualitativa della composi‑
zione del patrimonio” (cfr. Cass. 1.8.2007, n. 16986).
Va poi osservato che “allorché l’atto dispositivo pregiudi‑
zievole delle ragioni del creditore sia successivo al sorgere del
credito (come accaduto nell’ipotesi in esame, chiarendosi
all’uopo che il requisito dell’anteriorità del credito rispetto
all’atto impugnato in revocatoria deve essere riscontrato in
base al momento in cui il credito stesso insorga e non a quello
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41
del suo accertamento giudiziale. Cfr. Cass. Civ. n. 8013/96),
l’azione pauliana richiede solo che il debitore conoscesse il
pregiudizio e, trattandosi di atto a titolo oneroso, che di esso
fosse consapevole il terzo” (cfr. Cass. Civ. n. 7452/2000,
8581/96), sottolineandosi, inoltre, che “la prova dell’atteggia‑
mento soggettivo del debitore e del terzo – nella specie: scien‑
tia damni – ben può essere fornita tramite presunzioni” (cfr.
ex multis, Cass. Civ. nn. 7452/2000, 1054/99, 6272/97, non‑
ché, in senso sostanzialmente conforme, Cass. Civ.
nn. 15257/2004, 13330/2004).
In virtù dei suesposti principi, e quando pure si volesse
ritenere sussistente la consapevolezza della A. di G.S. & C.
s.a.s. di arrecare pregiudizio quanto meno agli Enti Imposito‑
ri del menzionato credito (giova ribadirlo, di complessivi euro
1.716,20) azionato da Equitalia Polis s.p.a., deve rilevarsi che,
invece, nulla autorizza un’analoga conclusione relativamente
all’atteggiamento soggettivo della società (S. L. s.p.a., oggi L.
s.p.a.) acquirente di quel cespite.
In particolare, quanto alla consapevolezza dell’evento
dannoso da parte del terzo, la Suprema Corte ha avuto più
volte occasione di rilevare che è sufficiente la conoscenza ge‑
nerica del pregiudizio, che può esser provata anche con pre‑
sunzioni (cfr. Cass. 27.3.2007, n. 7507; Cass. 18.5.2005,
n. 10430).
È noto, poi, che l’esistenza di una presunzione sulla quale
sia possibile fondare la decisione di una causa può validamen‑
te desumersi in presenza di una pluralità di elementi di valu‑
tazione gravi, precisi e concordanti, nei quali il requisito della
gravità è ravvisabile per il grado di convincimento che ciascu‑
no di essi è idoneo a produrre ed, a tal fine, è necessario che
l’esistenza del fatto ignoto sia allegato e dimostrato come
dotato di ragionevole certezza, se pure probabilistica; il requi‑
sito della precisione impone che i fatti noti, dai quali muove il
ragionamento probabilistico, e l’iter logico nel ragionamento
stesso seguito non siano vaghi ma ben determinati nella loro
realtà storica; infine, il requisito, unificante, della concordan‑
za richiede che il fatto ignoto sia desunto, salvo l’eccezionale
caso d’un singolo elemento di gravità e precisione tali da esse‑
re di per se solo esaustivamente ed incontrovertibilmente si‑
gnificativo, da una pluralità di fatti noti, gravi e precisi uni‑
vocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussisten‑
za (cfr. Cass. 24.2.2004, n. 3646, in motivazione).
In buona sostanza, quindi, in tema di presunzioni sempli‑
ci, vige il criterio secondo cui le circostanze sulle quali la
presunzione si fonda devono essere tali da lasciare apparire
l’esistenza del fatto ignoto come una conseguenza ragionevol‑
mente probabile del fatto noto, dovendosi ravvisare una con‑
nessione fra i fatti accertati e quelli ignoti secondo regole di
esperienza che convincano di ciò, sia pure con qualche margi‑
ne di opinabilità (cfr. Cass. 16.7.2004, n. 13169), escludendo‑
si, invece, che possa attribuirsi valore probatorio ad una pre‑
sunzione fondata su dati meramente ipotetici (cfr.
Cass. 16.11.2005, n. 23079), e precisandosi, altresì, che, in
presenza di una molteplicità d’indizi, in ossequio al requisito
della loro concordanza, la relativa valutazione va effettuata
complessivamente e non atomisticamente (cfr. Cass. 18.2.2005,
n. 3390) e che il convincimento del giudice può ben fondarsi
anche su una sola presunzione, purché grave e precisa, nonché
su una presunzione che sia in contrasto con altre prove acqui‑
site, qualora la stessa sia ritenuta di tale precisione e gravità
civile
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42
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e
p r o c e d u r a
da rendere inattendibili gli elementi di giudizio ad essa con‑
trari (cfr. Cass. 1.8.2007, n. 16993).
Muovendo, allora, dai riportati principi e dalla indicata,
e qui condivisa, giurisprudenza della Suprema Corte, ritiene
questo Tribunale, sul punto evidentemente ribadendosi quan‑
to si è già detto con riferimento alla domanda formulata
dall’attrice ex artt. 1344 e 1418, secondo comma, c.c., che, in
assenza di qualsivoglia dimostrazione (magari attraverso la
produzione dei corrispondenti bilanci) della effettiva situazio‑
ne economica, finanziaria e patrimoniale della società poi
fallita al 2.5.2007, e non risultando documentati, in suo dan‑
no, in quel periodo, protesti, sequestri, pignoramenti e/o
procedure esecutive di alcun genere, è agevole osservare che il
peraltro lungo intervallo trascorso tra la conclusione della
suddetta complessiva operazione di cui oggi si discute ed il
fallimento della A. di G.S. & C. s.a.s. non prova nulla circa le
effettive condizioni economiche di quest’ultima, e, soprattut‑
to, della loro concreta conoscenza da parte della S L s.p.a.,
non potendosi certo applicare nella materia in esame la pre‑
sunzione juris et de jure di insolvenza sancita dall’art. 67 l.
fall. a tutt’altri, non estensibili, fini; e nemmeno potendosi
ragionevolmente presumere, solo per quella consecutio crono‑
logica, che essa versasse in un semplice stato di difficoltà
economica, premonitore dell’insolvenza vera e propria.
Ne deriva, quindi, logicamente, che nemmeno può ragio‑
nevolmente ipotizzarsi che la S L s.p.a. (il cui oggetto sociale
era esclusivamente l’esercizio di attività di locazione finanzia‑
ria, in Italia ed all’estero, e che, pertanto, nella vicenda in
esame, altro non ha fatto che stipulare un contratto perfetta‑
mente rientrante in detto oggetto), di cui non è stata fornita
adeguata dimostrazione dell’assunto che fosse a conoscenza
delle reale situazione economiche della venditrice, possa esse‑
re stata consapevole di avere, con la conclusione del contratto
in esame, pregiudicato la possibilità di eventuali creditori di
quest’ultima (a lei peraltro ignoti).
Anche in tal caso, allora, può concludersi nel senso che la
Curatela ha sostanzialmente inteso affidare la dimostrazione
del requisito in esame ad una serie di proposizioni meramente
assertive, le quali pongono l’accento su elementi di incerto e/o
equivoco e/o nullo valore indiziario ai fini del suo assunto, e
si traducono quindi in altrettante petizioni di principio, che
danno per dimostrato quanto invece si doveva dimostrare (e
ciò anche – ed ancor di più – qualora volesse ipotizzarsi che
l’atto dispositivo in questione fosse stato anteriore al sorgere
dei crediti della società poi fallita, circostanza questa che
avrebbe richiesto al concreta dimostrazione della dolosa pre‑
ordinazione del trasferimento in questione da parte della A.
di G.S. & C. s.a.s. e la partecipatio fraudis – e non la mera
scientia damni – dell’acquirente).
Ne consegue, quindi, che, essendo stato impugnato, come
si è chiarito in precedenza, un atto dispositivo successivo al
sorgere di crediti poi ammessi al passivo della procedura fal‑
limentare odierna istante, sarebbe stato necessario e sufficien‑
te accertare la sola consapevolezza di arrecare pregiudizio agli
interessi dei creditori (scientia damni), essendo l’elemento
soggettivo integrato dalla semplice conoscenza, cui va equi‑
parata la agevole conoscibilità (cfr. Cass. Civ. n. 1469/79), nel
debitore e nel terzo di tale pregiudizio, a prescindere dalla
specifica conoscenza del credito per la cui tutela viene esperi‑
ta l’azione e senza che assuma rilevanza l’intenzione del debi‑
c i v i l e
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tore di ledere la garanzia patrimoniale generica del creditore
(consilium fraudis) e la partecipazione o la conoscenza del
terzo in ordine all’intenzione fraudolenta del debitore (parte‑
cipatio o scientia fraudis): pertanto, potendosi agevolmente
ritenere insussistente anche il menzionato requisito (così come
l’eventus damni di cui si è già detto) per effetto di tutte le
considerazioni appena esposte, deve concludersi nel senso che
anche la presente domanda dell’attrice non può che essere
respinta.
4. Le ulteriori domande restitutorie e risarcitorie della
Curatela attrice, e quella di manleva della L s.p.a..
Le conclusioni raggiunte con riferimento alle domande
della Curatela attrice ampiamente trattate ai paragrafi 2 e 3
di questa motivazione comportano, con tutta evidenza, da un
lato, il rigetto dell’ulteriore sua pretesa finalizzata ad ottenere
la condanna delle società convenute, ciascuna per quanto di
propria competenza, alla restituzione dell’immobile oggetto
della complessiva operazione negoziale in precedenza descrit‑
ta, e, dall’altro, la possibilità di ritenere ormai assorbita la
domanda di manleva proposta dalla L s.p.a., nei confronti
della A. I. s.r.l., per la sola ipotesi di accoglimento, anche
parziale, delle istanze dell’attrice in danno della prima.
5. Le spese del giudizio e la domanda ex art. 96 c.p.c.
della A. I srl.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquida‑
no, in favore di ciascuna delle società convenute, come in di‑
spositivo, con attribuzione all’Avv. L. B. per dichiarazione di
fattone anticipo, evidenziandosi che il calcolo dei diritti e
degli onorari viene effettuato tenendosi conto delle risultanze
processuali, delle pertinenti voci della vigente tariffa forense
in materia giudiziale civile, sottolineandosi, altresì, che, come
costantemente chiarito dalla Suprema Cor te (cfr.,
Cass. 3.7.1991, n. 7275; Cass. 19.1.1966, n. 196), gli onorari
per le comparse conclusionali e per le repliche costituiscono
un unicum, per cui non può duplicarsene la richiesta (cfr. la
notula depositata dal difensore della L s.p.a..
Nella stessa, peraltro, per la voce partecipazione udienze
[2] dei diritti, sono dovuti euro 142,00 – euro 71,00 x 2 – e
non gli invocati 213,00), e conteggiandosi infine, avuto riguar‑
do alla natura delle questioni trattate, gli onorari tendenzial‑
mente medi (in luogo di quelli massimi applicati nella menzio‑
nata notula del difensore della L s.p.a.), atteso che “la loro
determinazione costituisce un potere discrezionale del giudice
di merito, che, se contenuta tra il minimo ed il massimo della
tariffa non richiede specifica motivazione” (cfr., ex multis,
Cass. Civ. nn. 7527/2002, 3267/99, 11994/98).
Va, invece, respinta l’istanza risarcitoria formulata dalla
A. I. s.r.l. ai sensi dell’art. 96 c.p.c. (cfr. conclusioni della
comparsa di risposta).
Premesso, invero, che la temerarietà della lite va ravvisata
nella coscienza dell’infondatezza della domanda e delle tesi
sostenute, ovvero nel difetto della normale diligenza per l’ac‑
quisizione di detta coscienza, e non già nella mera opinabilità
del diritto fatto valere (cfr. Cass. Civ. n. 9060/2003), va co‑
munque osservato che la liquidazione del relativo danno,
benché possa effettuarsi d’ufficio, richiederebbe pur sempre la
prova, oltre che dell’an, dell’entità del pregiudizio subito (cfr.
Cass. 27.11.2007, n. 24645) od, almeno, la desumibilità di
tali elementi dagli atti di causa (cfr. Cass. Civ. nn. 27383/2005,
3941/2002, 1200/98): alcunché, invece, è stato in proposito
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specificamente dedotto (ad esempio, quanto all’asserito tempo
dedicato alla predisposizione della propria difesa, a quello
sottratto alla propria attività imprenditoriale) ancor prima che
concretamente dimostrato, dalla menzionata convenuta, con
la conseguenza che la invocata liquidazione equitativa di un
siffatto preteso danno finirebbe con il trasformarsi, di fatto,
in una sua determinazione pressoché arbitraria.
Questo Giudice, peraltro, non ritiene di doversi avvalere
della previsione di cui all’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c. (in
ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo
91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la par‑
te soccombente al pagamento, a favore della controparte, di
una somma equitativamente determinata), introdotto dalla
legge 18.6.2009, n. 69, e qui certamente applicabile ratione
temporis.
Invero, se si considera che la norma non può avere ad og‑
getto il risarcimento dei danni provocati dalle temerarie ini‑
ziativa e/o resistenze processuali, perché altrimenti rappresen‑
terebbe una duplicazione del non abrogato rimedio previsto
dai suoi commi precedenti, sembra doversi concludere nel
senso che il suo obiettivo è solo quello di sanzionare strategie
processuali non sorrette dal minimo grado di diligenza tolle‑
2 0 1 2
43
rabile per rendere prevalente la tutela del diritto di difesa ri‑
spetto all’esigenza di garantire la ragionevole durata del pro‑
cesso.
Ed allora, in una prospettiva di analisi economica dell’isti‑
tuto, appare ragionevole ritenere che il giudice, una volta ac‑
certata l’esistenza (almeno) di siffatta grave negligenza, dovrà
considerare, in una prospettiva sanzionatoria (per il passato) e
deterrente (per il futuro), quale sia l’importo adeguato a rimuo‑
vere il vantaggio che la parte in malafede ha tratto dalla sua
strategia dilatoria ed a scoraggiare l’impiego di tali strategie.
Ciò comporterà un’adeguata considerazione del valore
della causa, del peso economico dei soggetti in essa coinvolti,
della durata che, nella concreta realtà processuale, ha avuto il
processo.
Muovendo, allora, dalle riportate convinzioni, lo scriven‑
te ritiene non doversi pronunciare l’ulteriore condanna previ‑
sta dalla norma in esame perché, ed a tacer d’altro, per quan‑
to si è complessivamente detto, non sembra ragionevolmente
ravvisabile, nella condotta processuale della Curatela attrice,
una strategia processuale priva del minimo grado di diligenza
tollerabile.
(Omissis)
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In evidenza
TRIBUNALE DI NAPOLI, sez. Lavoro, sentenza 27 ottobre
2011, n. 24101
Giud. M.V. Ciaramella
Indennità di Ente ex art 71 CCNL 2002 – Inclusione nella base di
calcolo del TFR – Sussisten- Indennità annuale ex 44, comma 2,
CCNL 94/97 – Indennità mensile ex art. 44, comma 2, CCNL 94/97
L’indennità di ente ex art. 71 del CCNL del 2002 deve
essere considerata a pieno titolo base di calcolo per il TFR.
L’art 71 del CCNL del 2002 dispone testualmente che l’in‑
dennità in parola, atteso il suo carattere di stabilità, è consi‑
derata utile ai fini dell’indennità premio di fine servizio e del
trattamento di fine rapporto. La norma contrattuale prevede
esplicitamente l’inclusione nella base di calcolo della buonu‑
scita della c.d. indennità di ente e ciò in considerazione del
suo carattere di stabilità. Il chiaro riferimento giustificativo
dell’inclusione alla natura stabile dell’erogazione dell’inden‑
nità depongono nel senso della inclusione nella base di cal‑
colo del TFR sia dell’indennità di ente erogata annualmente
nel mese di giugno ex art. 44,comma 2, del CCNL 94/97, sia
della quota erogata mensilmente ex art. 44, comma 4: l’in‑
dennità di ente prevista dall’art. 44 del CCNL si compone,
infatti, delle due voci indicate (che sono tra loro identiche
quanto a caratteristiche strutturali e funzionali) e che si dif‑
ferenziano esclusivamente per le modalità di erogazione e di
finanziamento. Il tenore letterale dell’art. 71, pertanto, è
chiaro nell’includere l’indennità di ente nella base di calcolo
del TFR [1].
(Omissis)
Con tre distinti ricorsi successivamente riuniti, i ricorren‑
ti di cui in epigrafe convenivano in giudizio il C.N.R. chie‑
Nota redazionale a cura di
Avvocato
Gazzetta
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dendo di accertare il loro diritto alla riliquidazione dell’in‑
dennità di buonuscita computando, nel calcolo delle retribu‑
zione annua da assumere a base della liquidazione, l’indenni‑
tà di ente mensile di cui all’art. 44, comma CCNL comparto
ricerca 1994/97 in quanto avente natura retributiva e corri‑
sposta con continuità, con conseguente condanna alla corre‑
sponsione delle somme a tale titolo dovute e quantificate come
nei rispettivi atti introduttivi.
Il CNR, costituitosi in giudizio, deduceva che l’emolumen‑
to in oggetto non era stato incluso nella base di calcolo del
TFR per ragioni inerenti alla “totale assenza di copertura
finanziaria della pretesa avversaria”. Nel merito, contestava
con varie argomentazioni la fondatezza della pretesa aziona‑
ta e concludeva per il rigetto del ricorso.
Disposta la riunione dei giudizi connessi per identità di
questioni ed autorizzato il deposito di note illustrative,
all’udienza del 13.10.2011 la causa veniva decisa come da
dispositivo in calce di cui si dava lettura previa fissazione del
termine di giorni sessanta per il deposito della motivazione.
Il ricorso è fondato e va pertanto accolto.
L’art 71 CCNL 2002 dispone testualmente “L’indennità
di Ente, atteso il suo carattere di stabilità, è considerata utile
ai fini dell’indennità premio di fine servizio e del trattamento
di fine rapporto”.
La norma contrattuale richiamata prevede, quindi, espli‑
citamente l’inclusione nella base di calcolo della buonuscita
della c.d. indennità di ente e ciò in considerazione del “suo
carattere di stabilità”.
Il chiaro riferimento giustificativo dell’inclusione alla
natura stabile dell’erogazione dell’indennità in parola e l’as‑
senza di ulteriori specificazioni depongono nel senso della
inclusione nella base di calcolo del TFR sia dell’indennità di
ente erogata annualmente nel mese di giugno ex art. 44,c. 2°,
Carmen Scuotto
(1) Pur considerando che il contratto collettivo di diritto comune può avere una
funzione normativa (in quanto diretto a determinare il contenuto dei contratti
individuali di lavoro), ovvero una funzione obbligatoria (che si esprime nell’in‑
staurazione di rapporti obbligatori che vincolano esclusivamente le parti collet‑
tive e gli imprenditori che li stipulano, non anche i singoli lavoratori), nonché
una funzione transattiva di conflitti di diritti o interessi, ovvero di mero accer‑
tamento (Cass. civ. sez. lavoro, n. 8576/04), l’enorme contenzioso aperto nei
confronti del CNR e volto al riconoscimento del inclusione nel calcolo del TFR
della c.d. indennità di ente, ha trovato duri contrasti giurisprudenziali e diverse
interpretazioni.
Il contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) è il contratto stipulato a li‑
vello nazionale con cui le organizzazioni rappresentative dei lavoratori e le as‑
sociazioni dei datori di lavoro (o un singolo datore) predeterminano congiun‑
tamente la disciplina dei rapporti individuali di lavoro (cosiddetta parte norma‑
tiva) ed alcuni aspetti dei loro rapporti reciproci (cosiddetta parte obbligatoria).
Nel settore del pubblico impiego è stipulato tra le rappresentanze sindacali dei
lavoratori e l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche ammini‑
strazioni (ARAN), che rappresenta per legge l’Amministrazione Pubblica nella
contrattazione collettiva. L’efficacia erga omnes, verso una serie indeterminata
di soggetti e l’inderogabilità equiparano di fatto il contratto collettivo a una
legge ordinaria.
Il CCNL ha chiaramente – e senza possibilità di diversa interpretazione – pre‑
visto la inclusione della indennità di Ente “Benché nella interpretazione dei
contratti la ricerca della comune Intenzione delle parti debba essere operata
innanzitutto sulla base del criterio della interpretazione letterale delle clausole,
nella interpretazione della disciplina contrattuale collettiva relativa ai rapporti
di lavoro – che è spesso articolata su vari livelli (nazionale, provinciale, azien‑
dale) e utilizza il linguaggio delle cosiddette relazioni industriali, non necessa‑
c i v i l e
riamente coincidente con quello comune – ai fini della corretta individuazione
della comune volontà delle parti assume un rilievo particolare il criterio, detta‑
to dall’art. 1363 c.c., della interpretazione complessiva delle clausole”
(Cass. sez. Lavoro, 5 maggio 2004 n. 8576).
A norma dell’art. 3 del D.p.r. n. 1032/1973 l’indennità di buonuscita spettante
al dipendente statale è pari a tanti dodicesimi della base contributiva di cui
all’art. 38 dello stesso D.p.r., quanti sono gli anni di servizio computabili ai
sensi delle disposizioni contenute nel successivo capo III. Ritenuto pacifico in
giurisprudenza il principio per cui “Ai fini della determinazione del trattamen‑
to pensionistico dei dipendenti degli enti locali, non trovando applicazione il
diverso principio, previsto per i dipendenti di datori di lavoro privati, che
configura come pensionabile tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di la‑
voro, non vanno considerati tutti gli emolumenti fissi e continuativi dovuti
come remunerazione per l’attività lavorativa, ma solo gli emolumenti espressa‑
mente indicati ovvero riconosciuti come fissi e continuativi da provvedimenti
normativi riferibili al detto personale” (Cass. civ. sez. Lav. n. 21667/08) il
Giudice del Tribunale di Napoli correttamente ha ritenuto di applicare quanto
previsto in sede di contrattazione collettiva, e quanto previsto dalle parti già nel
CCNL del 1996 che individuava la struttura della retribuzione per il personale
del comparto degli enti di ricerca composta dalle seguenti voci: stipendio tabel‑
lare, retribuzione individuale di anzianità e relativi incrementi, indennità inte‑
grativa speciale, indennità di valorizzazione professionale, compensi di lavoro
straordinario, indennità di rischio disagio responsabilità, indennità di ente,
indennità di posizione, compensi per la produttività collettiva ed individuale.
L’art. 71 comma 3 del successivo CCNL 1998‑2001, prevedeva espressamente
che “l’indennità di ente, atteso il suo carattere di stabilità, è considerata utile ai
fini dell’indennità di fine servizio e del trattamento di fine rapporto”.
Dello stesso avviso è il Tribunale di Torino che con sentenza del 17/04/09
analogamente alla Sentenza in esame “L’art. 13 della legge n. 70/1975, dispo‑
ne che: “all’atto della cessazione dal servizio spetta al personale una indennità
di anzianità, a totale carico dell’ente, pari a tanti dodicesimi dello stipendio
annuo complessivo in godimento, qualunque sia il numero delle mensilità in
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del CCNL 94/97, sia della quota erogata mensilmente ex
art. 44 c. 4°: l’indennità di ente prevista dall’art. 44 del CCNL
si compone, infatti, delle due voci indicate (che sono tra loro
identiche quanto a caratteristiche strutturali e funzionali) e
che si differenziano esclusivamente per le modalità di eroga‑
zione e di finanziamento. Il tenore letterale dell’art 71 sopra
riportato è chiaro nell’includere l’indennità di ente (senza
ulteriori distinzioni e sulla base del suo carattere di stabilità)
nella base di calcolo del TFR. Né la difesa dell’ente convenu‑
to ha fornito valide argomentazioni a supporto della esclusio‑
ne nel computo del TFR e dell’erogazione mensile dell’inden‑
nità di ente prevista dall’art. 44.
In particolare – a fronte della chiara volontà di riconosce‑
re all’indennità di ente di cui all’art. 44, complessivamente
considerata, natura di elemento stabile della retribuzione e,
quindi, voce necessariamente utile ai fini del calcolo del
t.f.r. – non può opporsi una diversa interpretazione della
norma che si fondi sulla “totale assenza di copertura finan‑
ziaria della pretesa avversaria” come, invece, dedotto da
parte resistente.
Pertanto in assenza di specifiche disposizioni di legge o di
contratto che escludono la voce retributiva indicata dai ricor‑
renti come parte della base di calcolo del TFR, deve ricono‑
scersi il diritto dei ricorrenti alla riliquidazione dell’indennità
di buonuscita includendo nella base di calcolo la voce relativa
ai compensi percepiti a titolo di indennità di ente prevista
dall’art. 44, comma, 4.
Il CNR va, quindi, condannato al pagamento, al paga‑
mento, in favore dei ricorrenti, delle somme indicate nei ri‑
spettivi ricorso introduttivi che risultano essere state compu‑
tate correttamente ed in assenza di contestazione del conve‑
nuto in ordine ai criteri di calcolo adottati.
Sulle somme dovute vanno altresì computati gli interessi
legali alla data della maturazione dei rispettivi crediti al saldo.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in
dispositivo, con attribuzione al difensore costituito che ha
dichiarato di averne fatto anticipo.
(Omissis)
cui esso è ripartito, quanti sono gli anni di servizio prestato”. È da ritenersi
pacifico in giurisprudenza (cfr. Cass., 14.8.2008, n. 21667 e Cass., 3.3.2006,
n. 4695) il principio per il quale la determinazione del trattamento pensionisti‑
co (dei dipendenti pubblici) va ad includere, diversamente da quanto previsto
per i dipendenti privati, soltanto gli emolumenti espressamente indicati, ovvero
riconosciuti come fissi e continuativi da provvedimenti normativi riferibili a
detto personale. Nel caso di specie la struttura della retribuzione per il perso‑
nale del comparto degli enti di ricerca è stata individuata dalla contrattazione
collettiva già a partire dal CCNL 7 ottobre 1996 come composta dalle voci:
stipendio tabellare, retribuzione individuale di anzianità e relativi incrementi,
indennità integrativa speciale, indennità di valorizzazione professionale, com‑
pensi di lavoro straordinario, indennità di rischio disagio responsabilità, inden‑
nità di ente, indennità di posizione, compensi per la produttività collettiva ed
individuale. L’art. 71, comma 3 del CCNL 1998/2001 ha espressamente previ‑
sto che “l’indennità di ente, atteso il suo carattere di stabilità, è considerata
utile ai fini dell’indennità di fine servizio e del trattamento di fine rapporto”.
Lo stesso Inpdap con la nota informativa del 10 luglio 2002, n. 64 ha ritenuto
che, così come previsto per esplicita previsione contrattuale, l’indennità di ente
rivesta carattere di stabilità (siccome non soggetta a revisione o revoca) e che
essa venga corrisposta in via continuativa a tutto il personale in servizio, “date
le caratteristiche di continuità e fissità rivestite dagli emolumenti in esame,
l’indennità di ente indica nelle quote di pensione di cui all’art. 13, lettera a) del
D.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503”. A sancire la pensionabilità della voce in
questione giova rammentare che la stessa circolare in esame prevede che l’even‑
tuale valore differenziale dell’indennità in questione rispetto alle indennità di
incentivazione e funzionalità già in godimento al 31 dicembre 1995 (e sostitu‑
ite da quella oggetto di causa) sarebbe stato conservato ed erogato ad personam,
così da essere comunque valutabile nella quota di pensione di cui all’art. 13 lett.
a) del D.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503. Orbene, a norma del combinato dispo‑
sto degli artt. 2120 e 2121 c.c. e della stessa giurisprudenza amministrativa (cfr.
Cons. Stato, nn. 4/96, 18/96, 19/96) sono da includere nel calcolo della buo‑
nuscita le indennità e gli assegni previsti dalla legge come utili ai fini del tratta‑
mento previdenziale. Avendo carattere fisso e continuativo le indennità in
esame sono da ritenere utili ai fini del trattamento di quiescenza, così come
statuito dall’Inpdap nella nota già citata e pertanto da inserire nel calcolo delle
indennità di buonuscita… Ne consegue che l’ente convenuto deve essere con‑
dannato al pagamento in favore della parte ricorrente, di un ulteriore somma,
a titolo di differenza sull’indennità di fine servizio liquidata all’atto della cessa‑
zione del rapporto, oltre agli interessi legali dalla cessazione del rapporto sino
al saldo”.
Sentenze di segno opposto, invece ritengono che il CCNL non posa derogare
alle norme di legge. In argomento si sottolinea come il D.p.r. n.1032 del 1972,
all’art. 38 non prevede espressamente che nella base di calcolo della buonuscita
“non” sia inclusa anche la indennità di ente (che nel tempo ha costituito un di‑
ritto quesito del lavoratore). Le ragioni di ciò sono da ricercare nella consecutio
temporum delle fonti normative in parola. Il CCNL che ha previsto la inclusio‑
ne della indennità è successivo – nel tempo – al D.p.r. n. 1032, talché in ragione
della successione delle norme nel tempo (criterio cronologico), della facoltà
concessa al CCNL di derogare a nome di legge solo se più favorevoli per il la‑
voratore (essendo analiticamente previste ipotesi tassative e tipizzate di peggio‑
ramento), ed atteso che – in generale – il diritto all’emolumento previdenziale è
irrinunciabile, non può non considerarsi come quesito il diritto alla prestazione
previdenziale che ha seguito quella lavorativa: non vi sono motivi per non con‑
siderare l’indennità di ente ricevuta dal lavoratore come un diritto quesito, a cui
il dipendente non ha potuto rinunciare e che ha formato, giocoforza, la base di
calcolo del TFS.
In caso di conflitto tra due fonti – come nel caso specifico – il contratto colletti‑
vo prevale sulla legge solo laddove introduca un trattamento migliorativo per il
lavoratore (principio del favor lavoratoris).
In ragione di tale conflitto – anche interpretativo – dell’art. 38 del D.p.r.
n. 1032/73 e del CCNL (quest’ultimo che ha espressamente previsto la indenni‑
tà di ente per i dipendenti del CNR), in relazione all’art. 39 Cost., ai sensi e per
gli effetti di legge sarebbe auspicabile la rimessione degli atti alla Corte Costitu‑
zionale, giacché, ferme restando le superiori osservazioni, il D.p.r. n.1032 non
poteva prevedere, per il futuro, la esclusione di una voce successivamente previ‑
sta dal CCNL.
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
In evidenza
TRIBUNALE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE, Sezione
distaccata di Aversa, sentenza 22.02.2011, n. 19
Giud. A. Margarita
Responsabilità ente proprietario e gestore della strada – Efficacia
del giudicato penale nel processo civile: presupposti – Danno da
illecito aquiliano: nesso di causalità – Danno da lutto e danno da
morte – Danno morale e danno esistenziale – Danno riflesso del
congiunto di persona riportante macrolesioni – Inosservanza
norme di sicurezza nella circolazione veicolo: concorso di colpa
del genitore di figlio minore deceduto – Rilevanza giuridica della
famiglia di fatto – Invalidità temporanea del lavoratore infortu‑
nato percipiente retribuzione – Diritto del datore di lavoro al ri‑
storo dei danni patrimoniali conseguenti infortunio lavoratore
Nei compiti istituzionali dell’ente proprietario e gestore
della strada sussiste anche quello di porre in essere tutte le
cautele atte a garantire la sicurezza del traffico sulle strade di
sua pertinenza: l’inosservanza di tale obbligo è fonte di respon‑
sabilità. Il presupposto dell’efficacia vincolante del giudizio
penale per il giudizio civile è la perfetta coincidenza soggettiva
delle parti dei giudizi. In tema di illecito extracontrattuale, il
nesso di causalità, dovendo essere ritenuto sussistente non
solo quando il danno possa considerarsi conseguenza inevita‑
bile della condotta, ma anche quando ne sia conseguenza al‑
tamente probabile e verosimile, può essere riconosciuto anche
in base ad un serio e ragionevole criterio di probabilità, che
deve però risultare qualificata da ulteriori elementi idonei a
tradurre in certezze giuridiche le conclusioni astratte svolte in
termini probabilistici. Il risarcimento del danno non patrimo‑
niale, derivante dalla morte “ex delicto”, va riconosciuto in
favore dei prossimi congiunti, “iure proprio”, cioè, indipen‑
Nota redazionale a cura di Raffaele Micillo
Avvocato
(1) Il Giudice estensore, con indiscusso merito, nella sentenza in commento,
opera un recupero sistematico delle norme positive sottese al caso di specie
e alla luce orientamenti dottrinari e giurisprudenziali, giunge ad una inter‑
pretazione e valutazione delle risultanze processuali tuzioristicamente con‑
divisibile. Il parziale accoglimento delle domande attoree e degli interven‑
tori ne è una fulgida dimostrazione.
La motivazione sottesa alla condanna dell’ANAS al risarcimento del danno
è, sotto l’aspetto logico e normativo, ineccepibile, laddove si individuano le
“norme primarie” che, con riferimento specifico alla temporalità dell’even‑
to, imponevano all’ente proprietario e gestore della strada l’adozione di
tutte le misure atte ad evitare il verificarsi dell’evento mortale poi verifica‑
tosi. L’art. 14 del Codice della Strada ed il D. Lgs n. 143 del 26/02/1994,
quali fonte di diritto primarie e per ciò stesse sovraordinate alle norme re‑
golamentari e secondarie, imponevano all’ANAS la realizzazione, rectel’ade‑
guamento delle barriere spartitraffico a canoni di maggiore efficienza e si‑
curezza. Fine il ragionamento ed interessanti le argomentazioni per giustifi‑
care la responsabilità dell’ANAS, richiamandosi principio della c. d. causa‑
lità adeguata o quella similare della c.d. regolarità causale (ex multis:
Cass. n. 4791/2007; Cass. n. 15384/2006; Cass. n. 21020/2006;
Cass. n. 17152/2002; Cass. n. 5962/2000), individuandosi, segnatamente,
l’esistenza del “nesso di causalità, tra evento e danno,…anche quando ne
sia conseguenza altamente probabile e verosimile (Cass. n. 23059/2009).
Secondo la teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli
ordinamenti di common law, ciascuno è responsabile soltanto delle conse‑
guenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemen‑
te prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la
responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedi‑
bili. Sulle modalità con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza,
se cioè con valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex post, al
c i v i l e
Gazzetta
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dentemente dalla loro qualità di eredi, quando il rapporto di
stretta parentela con la vittima, le condizioni personali ed ogni
altra circostanza del caso concreto evidenzino un grave per‑
turbamento del loro animo e della loro vita familiare, per la
perdita di un valido sostegno morale. Il danno da morte con‑
siste in una reazione depressiva caratterizzata da sofferenze e
dolori per una perdita che viene vissuta come angosciante che,
solo se diventa clinicamente significativa, può sfociare in un
danno da lutto. Il prestatore di lavoro che percepisce, in co‑
stanza dell’infortunio, la normale retribuzione non ha diritto
a percepire il risarcimento danni da invalidità temporanea
assoluta. Alla pari, il datore di lavoro, che per effetto dell’in‑
fortunio, è provato della prestazione lavorativa del suo dipen‑
dente, spetta il risarcimento del danno. [1]
(Omissis)
Si richiamano gli atti ed i verbali di causa per ciò che
concerne lo svolgimento del processo e le deduzioni difensi,
in ossequio al nuovo testo dell’art. 118 disp. att. c.p.c., così
come modificato con l. 69/2009.
Fin da subito va evidenziata la necessità di supplemento
di istruttoria per la domanda di risarcimento proposta da
Sempronia.
Invero, come si dirà più diffusamente trattando la speci‑
fica posizione, appare doveroso disporre la rinnovazione
della ctu medica effettuata sulla persona dell’interventrice in
quanto quella già espletata, nonostante i chiarimenti resi, si
presenta non adeguatamente motivata, nonché carente in
ordine a taluni specifici accertamenti (su cui più diffusamen‑
te nel prosieguo della motivazione, nonché nell’ordinanza di
rimessione sul ruolo istruttorio).
È dunque necessario fare applicazione del potere previsto dal
combinato disposto degli artt. 104, comma secondo e 279, com‑
ma secondo, n. 5 c.p.c., essendo, quantomeno le ulteriori doman‑
momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si è interrogata la dot‑
trina tedesca ben più di quella italiana, giungendo alle prevalenti conclusio‑
ni secondo le quali la valutazione della prevedibilità obiettiva deve compier‑
si ex ante, nel momento in cui la condotta è stata posta in essere, operan‑
dosi una “prognosi postuma”, nel senso che si deve accertare se, al momen‑
to in cui è avvenuta l’azione, era del tutto imprevedibile che ne sarebbe
potuta discendere una data conseguenza. Sezioni Unite della Cassazione
nella sentenza. 581 dell’11 gennaio 2008 stabilito che non è consentito
dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla
legge statistica la conferma o meno dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del
nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concre‑
to, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che,
all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferen‑
za di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la con‑
clusione che la condotta è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con
alto grado di credibilità razionale o probabilità logica. teoria della regola‑
rità causale, pur essendo la più seguita dalla giurisprudenza, sia civile che
penale, non è andata esente da critiche da parte della dottrina italiana(Bona,
Il nesso di causa nella responsabilità civile del medico e del datore di lavoro
a confronto con il decalogo delle sezioni unite penali sulla causalità omissi‑
va, in Riv. dir. civ. 2003; ZenoZencovich, La responsabilità civile da rea‑
to, in Le monografie di contratto e impresa, Padova, 1989; Stella, A
proposito di talune sentenze civili in tema di causalità, in Riv. Trim. Dir.
Proc. civ. 2005; Valcavi, Intorno al rapporto di causalità nel torto civile,
in Riv. dir. civ., 1995, II; Landini, Causalità giuridica e favor veritatis, in
Riv. dir. civ., 2003; Fiandaca, Il giudice di fronte alle controversie tecni‑
co‑scientifiche. Il diritto e il processo penale, Relazione al convegno “Scien‑
ze e diritto. Il giudice di fronte alle controversie tecnico‑scientifiche”, Firen‑
ze, 7‑8 maggio 2004), che non ha mancato di sottolineare che il giudizio di
causalità adeguata, ove venisse compiuto con valutazione ex ante verrebbe
a coincidere con il giudizio di accertamento della sussistenza dell’elemento
soggettivo. Nel caso in esame, si rinviene la motivazione logica e sistemati‑
F O R E N S E
MARZO • APRILE
2 0 1 2
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de – principali e riconvenzionale – di immediata definizione.
In via preliminare, va dichiarata la contumacia dei convenu‑
ti, quali eredi di X, non costituiti, sebbene regolarmente citati.
In ordine, invece, alla posizione di X, va osservato quanto
segue.
Egli è rimasto contumace nel giudizio principale e va eviden‑
ziato che non si intendono le ragioni per le quali nel predetto
giudizio il precedente g.i. all’udienza del 6 luglio 2005 ordinava
la rinnovazione della notifica dell’atto introduttivo nei suoi con‑
fronti, laddove dall’esame della relata di notifica dell’atto intro‑
duttivo emerge che lo stesso era stato regolarmente notificato in
data 26 novembre 2004 a mani del fratello.
Il medesimo convenuto si è, invece, costituito nel giudizio
riunito, con comparsa depositata il 30 dicembre 2005.
La costituzione è tardiva.
Invero, anche in tal caso, all’udienza del 6 luglio 2005, il
giudice istruttore ordinava la rinnovazione dell’atto introduttivo
del giudizio (questo ultimo con fissazione prima udienza al 29
giugno 2005).
Tuttavia, dall’esame degli atti emerge che il predetto atto di
citazione era stato regolarmente notificato, con l’osservanza di
tutte le formalità prescritte ex lege, ai sensi dell’art. 140 c.p.c..
Pertanto, risultando regolarmente citato in giudizio per
l’udienza del 29 giugno 2005, irrimediabilmente tardiva è la sua
costituzione avvenuta il 30 dicembre 2005.
Ancora in via preliminare, ed in riforma dell’ordinanza
emessa in data 6 febbraio 2008, va dichiarata l’ammissibilità e
tempestività dell’intervento spiegato dalla X s.r.l. all’udienza del
29 giugno 2005 nel giudizio rg. 368/2005.
Invero, nel nuovo testo introdotto dalla legge 26 novembre
1990 n. 353, secondo cui il terzo interveniente non può compie‑
re atti che non siano più consentiti alle parti in causa, non si
estende all’attività assertiva del volontario interveniente, nei cui
confronti, perciò, non è operante il divieto di proporre domande
nuove ed autonome in seno al procedimento “fino all’udienza di
precisazione delle conclusioni”, configurandosi solo l’obbligo, per
l’interventore stesso ed avuto riguardo al momento della sua
costituzione, di accettare lo stato del processo in relazione alle
preclusioni istruttorie già verificatesi per le parti originarie.
Ciò in quanto una lettura costituzionalmente orientata delle
norme processuali in materia di intervento adesivo autonomo
deve consentire all’interessato la legittimazione a partecipare al
processo già pendente tra altri soggetti, acquisendo, per effetto
del processo stesso, la qualità di parte.
Laddove tale ampliamento del processo sotto il profilo sog‑
gettivo è giustificato dalla esigenza della economia dei giudizi,
di favorire l’esaurimento contestuale delle controversie connesse
in ragione dei medesimi oggetti o titoli dei contrapposti diritti e
di ridurre così il rischio della contraddittorietà dei giudicati.
E tali esigenze, da ritenersi preminenti e non confliggenti
rispetto alle barriere preclusive previste dalla nostra legge pro‑
cessuale con riguardo all’attività assertiva delle parti originarie,
devono essere contemperate esclusivamente con quelle di econo‑
mia interna al processo, onde i soggetti che intervengono debbo‑
no semplicemente accettare il giudizio nello stato in cui si trova,
operando nei loro confronti solo quelle preclusioni connesse
funzionalmente alle fasi di sviluppo del procedimento. (Cass. Civ.
sez. 3, Sentenza n. 3186 del 14/02/2006; Cass. Civ. sez. 1, Sen‑
tenza n. 2093 del 31/01/2007; Cass. Civ. sez. 3, Sentenza n. 17418
del 08/08/2007; Cass. Civ. sez. 3, Sentenza n. 20987 del
08/10/2007; Cass. Civ. sez. 3, Sentenza n. 15787 del
28/07/2005).
Inoltre, rilevato che sono state sollevate eccezioni attinenti
alla presunta mancata notifica delle comparse di intervento ai
convenuti contumaci, è sufficiente osservare: “l’atto di interven‑
to volontario in giudizio, che contenga la formulazione di una
domanda diretta nei confronti della parte rimasta contumace,
deve essere notificato anche a quest’ultima parte; tuttavia, ove
siffatta notifica sia stata omessa, la nullità che ne consegue non
può essere rilevata d’ufficio dal giudice, ma può essere eccepi‑
ca che ha indotto il Giudice ha individuare nella mancanza di un lungo
tratto di guardrailil titolo della responsabilità, seppure solidale, in capo
all’ANAS, ovvero l’esistenza del nesso eziologico tra l’evento ed il danno
cagionato.
In tale contesto si inserisce anche la problematica afferente la efficacia del
giudicato penale nel processo civile (Vedi anche Gazzetta Forense. 1/2010):
l’efficacia “prospettata” è subordinata – secondo la giurisprudenza della
Suprema Corte (vedine, per tutte, le sentenze n. 20325, 19559,10665, 9235,
5467/2006; 11998, 2975, 1218/2005;14470/2004; 7765/2003; 11272/2001;
10277/1998) – alla condizione indefettibile (condicio iuris) che vi sia coin‑
cidenza soggettiva delle parti – tra il giudizio penale, nel quale si sia forma‑
to il giudicato penale, ed il giudizio civile per il risarcimento del danno – ed
in particolare che il danneggiato si sia costituito oppure, quantomeno, sia
stato posto in condizione di costituirsi parte civile nel giudizio penale (su
quest’ultimo punto, vedi, per tutte, Cass. n. 4775/2004).
Eterogenee sono state le domande spiegate dalla parti in causa, nelle loro
rispettive qualità: tutte hanno trovato puntuale ed esaustivo riscontro nella
sentenza in commento.
Nella sentenza in commento si approfondisce, con adeguata ed apprezzabi‑
le motivazione, l’irrisarcibilità del cosiddetto danno esistenziale, quale du‑
plicazione del danno morale, ovvero altra voce del danno non patrimoniale:
da parte del giudice vi è stato un puntuale richiamo della giurisprudenza e
della dottrina che nell’ultimo lustro si è interessata all’istituto in parola. In
tal senso, la ricostruzione positiva e giurisprudenziale dell’istituto viene
selezionata, rectecensurata con un coerente e, tuzioristicamente, condivisi‑
bile ragionamento logico giuridico confluente, come detto, nella impossibi‑
lità materiale e giuridica di una sua autonoma liquidazione e\o riconosci‑
mento, rendendo superfluo e ripetitivo un ulteriore commento.
La distinzione tra danno da lutto e danno da morto, correlate agli oneri
probatori sottesi al loro possibile risarcimento, in uno alla diverse tipologie
di danno risarcendi, fanno da sfondo a ulteriori tratti di particolare interes‑
se della sentenza in commento, segnatamente l’incidenza della corresponsa‑
bilità dell’agente nella produzione dell’evento e il danno riflesso del con‑
giunto (nella accezione più ampia) della persona riportante macrolesioni,
ovvero l’incidenza del grado di parentela sul possibile risarcimento.
L’art. 1227 c.c. disciplina l’ipotesi in cui il creditore abbia concorso
a determinare l’evento, prevedendosi, come è noto, una diminuzione ovve‑
ro l’esclusione del risarcimento. In tema sovviene la sentenza della Suprema
Corte di, Sezioni Unite, 21 novembre 2011, n. 24406, in particolare, “stan‑
te la genericità dell’art. 1227,c. I, c.c. sul punto, la colpa sussiste non solo
in ipotesi di violazione da parte del creditore‑danneggiato di un obbligo
giuridico, ma anche nella violazione della norma comportamentale di dili‑
genza, sotto il profilo della colpa generica”. Rispetto agli indirizzi più re‑
strittivi precedentemente espressi dalla giurisprudenza, il principio di dirit‑
to declamato dai Giudici di Piazza Cavour si colloca nel solco di una
maggiore responsabilizzazione del soggetto danneggiato, nella prospettiva
di una più completa affermazione del corollario, desumibile dall’art. 1227
c.c., per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che
non è a lui causalmente imputabile. Coerentemente il Giudice ha individua‑
to nel mancato utilizzo di qualsivoglia mezzo di ritenzione del minore
(cintura di sicurezza, seggiolino) una specifica responsabilità della attrice\
madre, tanto da dimezzarne, nella sua qualità, il risarcimento dovutole. Da
tempo la giurisprudenza afferma che il mancato utilizzo della cintura di
sicurezza deve essere valutato come concorso alla produzione dell’evento
dannoso e che la prova del nesso causale tra la inosservanza dell’obbligo di
utilizzazione del dispositivo di ritenuta ed il danno può essere ricavata dal
giudice anche sulla scorta delle ordinarie presunzioni (Tribunale Como
9.1.1995; Tribunale Roma 18.3.1997; Tribunale Udine 15.4.1998; Tribu‑
nale Cassino 15.6.2000; Tribunale Verona 10.10.2000). La messa in circo‑
lazione dell’autoveicolo in condizioni di insicurezza (tale dovendo qualifi‑
carsi la circolazione senza che il trasportato abbia allacciato la prescritta
cintura di sicurezza) ricollegabile all’azione o omissione anche dello stesso
civile
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Breve excursus sullo svolgimento del processo
Tizia agiva in giudizio esponendo quanto segue: il giorno
26 dicembre 1999 viaggiava, in qualità di trasportata sul sedi‑
le anteriore, sull’autovettura Fiat Bravo condotta dal coniuge;
la detta autovettura, in cui viaggiava, altresì, il figlio della cop‑
pia, (anch’egli sul sedile anteriore), nonché la figlia dell’ attrice,
Caia, percorreva sulla corsia di destra e a velocità moderata la
S.S. 7 bis Nola Villa – Literno; all’improvviso la propria corsia
veniva invasa da una Mercedes tg. che, provenendo dalla car‑
reggiata opposta a velocità sostenuta, dopo aver urtato il mar‑
gine destro del guard rail posto alla sinistra della propria corsia,
effettuava salto di carreggiata attraverso un varco, delle dimen‑
sioni di circa ventidue metri, totalmente aperto, posto tra le due
carreggiate; a ciò seguiva un violento impatto frontale tra la
Mercedes e la Fiat Bravo a bordo della quale viaggiava l’istante;
che a seguito dello scontro la Mercedes ruotava in senso antio‑
rario, finendo per collidere con altra autovettura viaggiante
sulla stessa corsia di marcia dell’istante.
Per effetto del violento impatto perdevano la vita nell’im‑
mediatezza gli occupanti della Mercedes (), nonché …il co‑
niuge ed il figlio di Tizia, questa ultima riportava gravi feri‑
te….. Sul posto interveniva la Polizia Stradale che effettuava
rilievi e redigeva rapporto.
Deducendo la responsabilità del conducente dell’auto
(garantita per i rischi derivanti dalla circolazione da Y assi‑
curazioni s.p.a.) in via solidale con l’Anas (per aver consenti‑
to, in qualità di ente tenuto alla manutenzione e gestione del
tratto viario de quo, l’esistenza di un varco di così ampie di‑
mensioni e privo di qualsivoglia cautela atta ad impedire il
salto di carreggiata), li conveniva tutti in giudizio per ottene‑
re il ristoro di tutti i danni, patrimoniali e non, patiti per ef‑
fetto delle lesioni riportare, della prematura scomparsa del
coniuge e del figlio, nonché per le sofferenze patite a causa
delle gravi lesioni arrecate all’altra figlia Caia.
Si costituiva l’Anas che negava ogni addebito, deducendo
l’avvenuto rispetto di tutta la normativa allora vigente.
Si costituiva, altresì, la Y Assicurazione che instava per
l’accertamento e la graduazione della responsabilità di e
dell’Anas nella causazione del sinistro de quo.
Nel corso del giudizio, veniva disposta la riunione al pre‑
sente procedimento di altro promosso per i medesimi fatti nei
confronti dei medesimi soggetti da Tizio, trasportato sulla
Fiat Bravo, che chiedeva il ristoro di tutti i danni patiti per
effetto del sinistro de quo.
Nel giudizio riunito si costituiva, oltre all’Anas e alla
compagnia assicurativa, anche Mevio, che, in via riconven‑
zionale, chiedeva la condanna dell’Anas al risarcimento di
tutti i danni patiti per effetto della scomparsa del padre.
Spiegavano, altresì, intervento volontario autonomo Sem‑
pronia e Caia, trasportate, che chiedevano ai convenuti il ri‑
storo di tutti i danni patiti per effetto del sinistro de quo.
Spiegava, altresì, intervento volontario la X s.r.l.. che, in
qualità di datore di lavoro, all’epoca dei fatti, di Tizio, chie‑
deva che, previo accertamento della responsabilità esclusiva
del de cuius X nella causazione del sinistro de quo, i suoi ere‑
di nella detta qualità unitamente alla compagnia assicurativa
venissero condannati al risarcimento dei danni subiti per il
pagamento delle assenze per malattia del dipendente Tizio.
Concessa provvisionale in favore di Tizia, espletata
l’istruttoria (prova testimoniale, consulenza tecnica sulla
conformazione della strada teatro dell’evento e consulenze
mediche sulle vittime), convocati a chiarimenti l’ausiliario
trasportato, imputa a quest’ultimo la consapevole ed implicita accettazione
dei relativi rischi che, in caso di infortunio, costituiscono comportamento
colposo concorrente da parte del danneggiato al verificarsi dell’evento e
come tale rilevante ai sensi dell’art.1227 comma I c.c.. Una colpa che legittima
ed impone la riduzione del risarcimento, in misura pari alla incidenza percen‑
tuale assunta dal comportamento colposo concorrente del danneggiato nella
produzione delle conseguenze dannose (Cass. 4993/2004). Si è, inoltre, oppor‑
tunamente evidenziato che “tema di risarcimento del danno, il fatto colposo
del creditore che abbia contribuito al verificarsi dell’evento dannoso – ipotesi
regolata dall’art. 1227, comma 1, c.c. – è rilevabile d’ufficio, per cui la sua
prospettazione non richiede la proposizione di un’eccezione in senso
proprio”(Cfr. Cass. 23784/2009).
Conformemente a quanto sancito anche dalla sentenza della Suprema Corte di
Cassazione n. 12278/2011, si ammette oggi la risarcibilità del danno da lesione
della serenità familiare a seguito di un attentato all’integrità fisica e morale di
un congiunto, che ne abbia determinato la morte o lesioni gravi (cd. Danni ri‑
flessi), purché la sofferenza si presenti come effetto normale dell’illecito secon‑
do un criterio di regolarità causale (Cass., sez. Un., 22 maggio 2002 n. 9556 e
Cass. 23 aprile 1998 n. 4186; Cass., 23 aprile 1998, n. 4186, in Danno e Resp.,
1998, 686, con nota di DE MARZO; in Resp. Civ. e Prev., 1998, 1409, con
nota di Pellecchia. Cfr. anche Id., 19 maggio 1999, n. 4852, in Giur. It., 2000,
479, con nota di Patarnello; Bona, Il danno non patrimoniale dei congiunti:
edonistico, esistenziale, da lesione del rapporto parentale, alla serenità famiglia‑
re, alla vita di relazione, biologico, psichico o morale “costituzionalizzato”?
Giur. It., 2002, 953G.B. PETTI, Il risarcimento dei danni: biologico, genetico,
esistenziale,Torino, 2002; La valutazione del danno alla salute, a ed., a cura di
M. Bargagnae F.D. Busnelli, Padova, 2001; Trattato breve dei nuovi danni,
a cura di PaoloCendon,, 2001; G.B. Petti, Il risarcimento del danno patri‑
moniale e non patrimoniale della persona,, 1999; G. Visintini, Trattato breve
della responsabilità civile, a ed., Padova, 1999; P.G. Monateri, La responsabi‑
lità civile, in Trattato di diritto civile, Torino, 1998; Gianninie Pogliani, Il
danno da illecito civile,, 1997). L’oggetto giuridico protetto non è il bene salu‑
te (risarcibile in termini di danno biologico in caso di lesione dell’integrità
biopsichica), né l’integrità morale (risarcibile come danno morale soggettivo
per l’ingiusta sofferenza contingente), ma un bene diverso e, precisamente,
quello dell’ “intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà
nell’ambito della famiglia” che trova tutela a livello costituzionale (artt. 2, 29
e 30). Nella sentenza in commento si chiarisce che nell’ipotesi di danno da ille‑
cito plurioffensivo, “Il riconoscimento dei “diritti della famiglia” (art. 29,
comma, Cost.) va inteso non già, restrittivamente, come tutela delle estrinseca‑
zioni della persona nell’ambito esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di
carattere meramente interno, ma nel più ampio senso di modalità di realizza‑
zione della vita stessa dell’individuo alla stregua dei valori e dei sentimenti che
il rapporto parentale ispira, generando bensì bisogni e doveri, ma dando anche
luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni e significati” (Cass. 31 maggio
2003 n. 8827). Il danno cd. riflesso, rappresentato dalla limitazione del godi‑
mento del congiunto, privato della possibilità di esprimere appieno le sue risor‑
se umane, materiali ed affettive, secondo le varie modalità con le quali le reci‑
proche relazioni interpersonali normalmente si esprimono nell’ambito del nu‑
cleo familiare, si distingue dal danno morale soggettivo, che è un danno con‑
tingente, in quanto si proietta nel futuro e può essere risarcito unitamente a
quest’ultimo senza che sia ravvisabile una duplicazione di risarcimento. In sede
di liquidazione si dovrà tenere conto “dell’intensità del vincolo famigliare,
della situazione di convivenza e di ogni ulteriore circostanza, quali la consisten‑
za più o meno ampia del nucleo famigliare, le abitudini di vita, l’età della vitti‑
ma e dei singoli superstiti”, pur chiarendosi che la mera titolarità di un rappor‑
to familiare non può essere considerata sufficiente a giustificare la pretesa ri‑
sarcitoria, occorrendo di volta in volta verificare in che cosa il legame affettivo
sia consistito (Cass. 31 maggio 2003 n.8828). La situazione qualificata che dà
diritto al risarcimento non risponde a criteri rigidi e non si esaurisce nei rap‑
porti familiari; soggetti del tutto esterni alla cerchia familiare, ma con qualifi‑
cati e provati legami di fatto, possono ritenere di aver subito una sofferenza
ta soltanto dal contumace successivamente costituitosi o dal
medesimo fatta valere con uno specifico motivo d’impugnazio‑
ne della sentenza che abbia pronunciato sul merito della do‑
manda” (cfr Cassazione civile, sez. III, 31/03/2010, n. 7790).
Pertanto, alcuna legittima doglianza può essere sollevata
da soggetti diversi rispetto a coloro che sono rimasti contu‑
maci nel presente giudizio.
F O R E N S E
MARZO • APRILE
2 0 1 2
49
Dinamica del sinistro e responsabilità
Dall’istruttoria espletata, segnatamente dall’analisi della
deposizione testimoniale resa da, nonché dalla lettura del ver‑
bale redatto dalla Polizia Stradale di Mondragone, intervenuta
nell’immediatezza dei fatti, la dinamica del sinistro è ricostru‑
ibile, con elevato grado di certezza, nei termini che seguono.
Verso le ore 20.10 del 26 dicembre 1999, il de cuius X,
alla guida della propria autovettura Mercedes 2500, percor‑
reva la SS 7 bis Variante con direzione di marcia Nola – Villa
Literno quando, giunto nei pressi della progressiva chilome‑
trica 17+400, su tenimento del Comune di Succivo, a velocità
superiore al limite consentito di 80 km/h, sbandando da destra
verso sinistra (cfr tracce di frenata rinvenute lungo la detta
traiettoria), andando verso il margine sinistro rispetto alla sua
direzione, collideva con lo spigolo sinistro della parte anterio‑
re dell’auto contro il guardrail sito sul margine sinistro rispet‑
to alla sua direzione di marcia (cfr esiti analisi chimiche delle
tracce di vernice rinvenute sul detto guardrail giudicata per‑
fettamente sovrapponibile con il colore della Mercedes); dopo
la suddetta collisione, la Mercedes continuava la sua marcia
attraversando il By pass, privo dei paletti segnalimite, inva‑
dendo così la carreggiata opposta di marcia, entrando in
collisione frontale con l’autovettura Fiat Bravo, condotta da,
con a bordo Tizia e il piccolo figlio, entrambi seduti sul sedi‑
le anteriore destro, mentre gli altri trasportati si trovavano
tutti sui sedili posteriori; tale ultimo mezzo viaggiava rego‑
larmente nella propria carreggiata e sulla propria corsia di
marcia con direzione Villa Literno – Nola.
A seguito della collisione tra i due veicoli, la Mercedes
ruotava su se stessa in senso antiorario, entrando così in col‑
lisone con altra autovettura Skoda Felicia che seguiva la
Bravo, e che urtava la fiancata laterale destra della Mercedes
con la propria parte anteriore centrale.
La dinamica così ricostruita trova conferma nei rilievi
eseguiti dalla Polizia Stradale, i cui esiti accertavano la pre‑
senza lungo il percorso della Mercedes e precisamente sulla
carreggiata Nola‑Villa Literno di due tracce di frenata ben
impresse dai pneumatici del veicolo con andamento obliquo
verso sinistra, tracce che continuavano sulla carreggiata op‑
posta di marcia e che si interrompevano all’altezza della prima
collisione avvenuta tra la Mercedes e la Bravo.
Inoltre, come detto, sul guard rail contro cui impattava la
Mercedes, visibilmente danneggiato (cfr rilievi fotografici alle‑
gati al verbale) venivano rivenute tracce di vernice che, all’esito
delle analisi chimiche su di esse eseguito, risultava perfettamen‑
te sovrapponibile con quella di pertinenza della Mercedes (cfr
perizia della dott. ssa eseguita nel corso dell’incidente proba‑
torio relativo al procedimento penale promosso contro l’inge‑
gnere del Cento di Manutenzione del Compartimento Anas ed
il Capo Cantoniere addetto alla sorveglianza del tratto strada‑
le de quo, definito con sentenza di assoluzione).
Infine, la versione è stata integralmente confermata dalla
dichiarazione resa nell’immediatezza dei fatti da … (condu‑
cente della Skoda Felicia) che, escusso nella presente sede
come teste, ha riferito, senza alcuna contraddizione e con
massima linearità, la medesima ricostruzione dei fatti.
Orbene, questa la ricostruzione della dinamica del sinistro
di cui è causa, evidenziato che alcun elemento atto a porre in
dubbio la detta versione dei fatti risulta introdotto nel presen‑
te giudizio, appare evidente la responsabilità, in primo luogo,
del conducente della Mercedes.
Invero, egli contravveniva alle più elementari regole di
prudenza e diligenza, tenendo una velocità che, oltre che
violativa dello specifico limite imposto sul tratto stradale de
quo (80 km/h), era chiaramente non commisurata alle condi‑
zioni di tempo e di luogo.
È di certo da imputare all’eccessiva velocità la perdita di
controllo dell’autovettura, che ne determina prima l’urto
contro il guard rail e di poi l’invasione della carreggiata op‑
posta, con gli esiti tragici appena descritti.
Di certo alcuna colpa può imputarsi alla condotta di gui‑
da della Fiat Bravo che, dagli accertamenti eseguiti, risultò
percorrere la strada sulla corsia di destra e a velocità mode‑
rata: di certo l’improvviso arrivo, in senso opposto, della
Mercedes, fu ostacolo imprevedibile per lui che, attesa la re‑
pentinità dell’apparire dell’ostacolo, nulla potè fare per evita‑
re l’impatto.
L’inevitabilità dell’impatto è resa ancora più evidente
dalla circostanza che anche la macchina che seguiva la Bravo,
pur avendo maggior tempo per avviare manovra di emergen‑
za, con vigorosa sterzata, non riuscì ad evitare lo scontro con
la Mercedes.
Tuttavia, ad avviso della scrivente, non può non ravvisar‑
si nei tragici fatti di cui è causa, una concorsuale responsabi‑
lità in capo all’Anas quale ente tenuto alla manutenzione del
tratto stradale de quo.
diretta in seguito alle lesioni subite dalla vittima e agire per il risarcimento
(Pellecchia, Danno morale e legittimazione ad agire delle c.d. vittime secon‑
darie in caso di lesioni).
Va infine evidenziata la posizione speculare tra il prestatore e il datore di
lavoro rispetto al riconoscimento di un risarcimento danni da illecito aqui‑
liano. Fermi gli oneri probatori, è stato chiarito che è lavoratore, rimasto
infortunato per fatto illecito del terzo, nulla compete a titolo di risarcimen‑
to del danno da invalidità temporanea nell’ipotesi in cui abbia continuato
a percepire durante il periodo di invalidità la retribuzione dal proprio dato‑
re di lavoro, dovendosi escludere nella sfera patrimoniale dell’infortunato,
fatta salva prova di avere subito altri pregiudizi economici” (cfr
Cass. n. 15385/2010), mentre “Gli esborsi a titolo di retribuzione, effettua‑
ti dal datore di lavoro, in adempimento di un dovere fissato dalla legge o
dal contratto, in favore del dipendente per il periodo di inabilità temporanea
conseguente ad infortunio, e, quindi, senza ricevere il corrispettivo costitu‑
ito dalle prestazioni lavorative, integrano un danno che si ricollega con
nesso di causalità a detto infortunio e come tale deve essere risarcito dal
terzo responsabile del fatto medesimo. Costituiscono componente di tale
danno anche i contributi dovuti dal datore di lavoro agli enti di assicura‑
zione sociale (Cass., sez. Un., n 6132/88 e Cass. n. 5373/89). Il datore di
lavoro agisce dunque per il risarcimento di un danno direttamente subito
per fatto illecito del terzo” (cfr Cass. 2844/2010).
ingegnere e due dei tre medici ausiliari, la causa veniva defi‑
nitivamente riservata in decisione all’udienza del 14 ottobre
2010, previa assegnazione di termini ridotti x art. 190, II
comma, c.p.c., pari a giorni venti più venti.
Stante la molteplicità delle posizioni processuali e delle
domande spiegate, dopo aver affrontato la problematica, co‑
mune a tutte le domande, dell’accertamento della dinamica
del sinistro e della responsabilità di tutti i soggetti evocati in
giudizio, verranno trattate separatamente, ai fini di una mi‑
gliore comprensione, le singole posizioni processuali delle
parti (principali ed interventori).
civile
Gazzetta
50
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
In via preliminare, va evidenziata l’assoluta irrilevanza nel
presente giudizio degli esiti del processo penale avviato, per i
fatti di cui è causa, nei confronti dell’ingegnere del Cento di
Manutenzione del Compartimento Anas e del Capo Canto‑
niere addetto alla sorveglianza del tratto stradale de quo
(processo definito con sentenza di assoluzione).
Invero, è ben noto che, salvo i casi di pregiudizialità, nel‑
la fattispecie non ricorrenti, sussiste indipendenza tra giudizio
civile e giudizio penale: da qui l’infondatezza della richiesta
di sospensione del giudizio civile in attesa degli esiti del giu‑
dizio penale reiteratamente richiesta dalla difesa dell’Anas.
È ben noto che “l’art. 654 c.p.p., che stabilisce che l’effi‑
cacia del giudicato penale nei giudizi civili ed amministrati‑
vi, in cui si controverte intorno ad un diritto o ad un interes‑
se legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento
degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio
penale, opera nei confronti dell’imputato, della parte civile
e del responsabile civile che si sia costituito o che sia inter‑
venuto nel processo penale, è norma che, ponendo un’ecce‑
zione ai principi generali circa l’ambito di efficacia del giu‑
dicato, deve formare oggetto di stretta interpretazione, sicché
va esclusa l’efficacia del giudicato penale nel giudizio civile
ove non vi sia coincidenza soggettiva tra i due giudizi”. (cfr
Cassazione civile, sezione III, 31 maggio 2006, n. 13016).
Nel caso di specie, manca, per l’appunto, la coincidenza
soggettiva delle parti dei giudizi quale necessario presupposto
affinché gli esiti del giudizio penale abbiano efficacia vinco‑
lante per il giudizio civile.
È ben noto che il D. Lgs. n. 143 del 26/2/1994 istitutivo
dell’ANAS e vigente all’epoca del sinistro, tra i compiti istitu‑
zionali dell’Ente prevede all’art. 2: “l’Ente provvede: A) gestire
le strade e le autostrade nonché alla loro manutenzione ordi‑
naria e straordinaria; B) realizzare il progressivo miglioramen‑
to ed adeguamento della rete delle strade e della autostrade
statali; E) curare l’acquisto la costruzione la conservazione il
miglioramento e l’incremento dei beni immobili e dei beni
mobili destinati al servizio delle strade e delle autostrade sta‑
tali (i.e. Pertinenze stradali); F) attuare le leggi ed i regolamen‑
ti concernenti la tutela del patrimonio delle strade e delle au‑
tostrade statali, nonché della tutela del traffico e della segna‑
letica; adottare i provvedimenti ritenuti necessari ai fini della
sicurezza del traffico sulle strade e autostrade medesime”.
Rientra nei compiti istituzionali dell’ente, quindi, tra i
vari e per quel che concerne specificatamente l’odierno giudi‑
zio, porre in essere tutte le cautele atte a garantire la sicurez‑
za del traffico sulle strade di sua pertinenza.
Orbene, prima di analizzare le disposizioni all’epoca vigen‑
ti, una precisazione preliminare si impone: non può essere
messo in alcun dubbio, se non sovvertendo le regole della logi‑
ca e della razionalità, che l’esistenza di un varco di ben ventidue
metri, privo di alcuna protezione od ostacolo atto ad evitare il
cd salto di carreggiata, sia fonte di pericolo oggettivo, la cui
esistenza è da scongiurare in tutti i modi che la tecnica, le co‑
noscenze e le acquisizioni dello specifico settore consentano.
È davvero arduo sostenere, come fa la difesa del convenu‑
to Anas, che la presenza di un varco con le predette caratte‑
ristiche fosse lecita in quanto consentita dalla legge.
Orbene, tale affermazione, oltre a essere sconfessata da quan‑
to si dirà nel prosieguo, è contraddetta dalla pura constata‑
zione della realtà dei fatti.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
È fonte di gravissimo pericolo di carattere oggettivo, la
presenza su strada extraurbana (e quindi a scorrimento veloce)
di un varco di dimensioni pari a ben 22 metri, totalmente libe‑
ro, privo cioè di qualsiasi protezione, mobile o fissa che sia.
E ciò, non tanto e solo per evitare la folle e pertanto re‑
mota possibilità di volontaria inversione di marcia da parte
dell’utente della strada (come afferma il ctu), ma al fine di
contenere e ridurre i rischi che ordinariamente provengono
dalla circolazione stradale che quotidianamente (e soprattut‑
to su strade a scorrimento veloce quale quella teatro dell’odier‑
no sinistro) si concretizzano in sinistri stradali con esiti fre‑
quentemente letali.
È di tutta evidenza, invero, che l’involontaria invasione di
carreggiata opposta (quale quella facilitata dalla conforma‑
zione della strada de qua) è foriera di rischi e pericoli ben
maggiori rispetto al sinistro che si sviluppa e cessa all’interno
della stessa carreggiata.
L’invasione della carreggiata opposta su strade a scorrimen‑
to veloce rappresenta un evento imprevisto ed imprevedibile
per l’utente della corsia invasa che, pur nell’osservanza di tutte
le regole precauzionali imposte (come nel triste caso di specie),
ha limitatissimi spazi di manovra per evitare lo scontro.
Diversamente è a dirsi laddove il sinistro si sviluppa e
cessa all’interno della medesima carreggiata: in tal caso, l’os‑
servanza della fondamentale regola che impone il rispetto
della distanza di sicurezza, pone il diligente utente dalla stra‑
da al riparo dai pericoli provenienti dalle violazioni altrui.
Questo era imposto all’Anas, prima ancora che da norme
specifiche, da comuni regole di prudenza e diligenza, la cui
violazione, come noto, integra un addebito per colpa generica.
D’altronde, che la predetta conformazione fosse di per sé
pericolosa è reso ben evidente dalla lettura delle “Norme
Tecniche C.N.R. n. 78 del 28/7/80” recanti la disciplina sulle
caratteristiche delle strade extraurbane che prevedono tra
l’altro all’art. 4.1.4 che”In corrispondenza dei varchi non
deve interrompersi la continuità delle barriere di sicurezza,
da realizzarsi pertanto in modo tale da essere facilmente ri‑
mosse in caso di necessità”.
È ben vero che trattasi di mera raccomandazione, ma
appare quantomeno significativo che il contenuto delle stesse
sia stato poi trasfuso Linee Guida per le Analisi di Sicurezza
delle strade emanate con la Circolare 3699 dell’8 giugno 2001
(il cui estratto è allegato alle note di parte)
Orbe in tale documento (appendice A‑27) si legge che “…
tra gli ostacoli si possono considerare i varchi spartitraffico,
che consentono una buona rapidità per la deviazione del
traffico ma hanno lo svantaggio di essere attraversabili e
pertanto potrebbe accadere che qualche veicolo in svio finisca
nella carreggiata opposta provocando scontri frontali. Al
pericolo dell’attraversamento spesso si associa quello dell’ur‑
to contro terminali di barriera inadeguati. In questi casi la
soluzione ottimale è costituita dall’installazione di barriere
amovibili per varco spartitraffico; in alternativa è possibile
prevedere la protezione dei terminali delle barriere con atte‑
nuatori d’urto o la chiusura completa dei varchi”
Ancora in detto documento (appendice B – casi di Studio)
l’esempio di un varco completamente aperto come quello in
esame è segnalato come “problema di sicurezza”ed è racco‑
mandato in questi casi di “considerare la possibilità di instal‑
lare barriere di sicurezza amovibili per varco spartitraffico o
F O R E N S E
MARZO • APRILE
di chiudere i varchi. Se non si realizza uno dei due provvedi‑
menti suddetti si devono proteggere i terminali delle barriere
con attenuatori d’urto”.
Se pur all’epoca dei fatti, come affermato dalla difesa
dell’Anas, non vi erano barriere di sicurezza contemporanea‑
mente facilmente rimovibili e con funzionalità contenitiva in
caso di urto, era preciso obbligo dell’Anas, in base, si ribadisce,
a norme di comune prudenza, chiudere il varco o quantomeno
ridurne in maniera considerevole le dimensioni al fine di garan‑
tire il solo volontario passaggio dei mezzi di soccorso, ed evita‑
re involontari salti di carreggiata a seguito di sbandamenti.
Senza considerare, poi, che la vicinissima presenza di ben
due svincoli poteva addirittura indurre a ritenere superflua
l’esistenza dello stesso varco.
Non vi è dubbio alcuno che se il varco avesse avuto dimen‑
sioni tali da consentire solo la, si ribadisce, volontaria mano‑
vra di inversione da parte dei mezzi di soccorso, ovvero fosse
stato protetto con gli strumenti allora a disposizione (vedi
anche solo i paletti uniti da catene posizionati sul luogo pochi
giorni dopo i tragici avvenimenti di cui è causa), sarebbe
stato evitato con altissima probabilità(e ciò è sufficiente per
affermare la responsabilità civile laddove, invece, in caso di
responsabilità penale si impone l’evidenza della colpevolezza
“oltre ogni ragionevole dubbio”), il salto di carreggiata con
gli esiti mortali descritti (“In tema di illecito extracontrattua‑
le, il nesso di causalità, dovendo essere ritenuto sussistente
non solo quando il danno possa considerarsi conseguenza
inevitabile della condotta, ma anche quando ne sia conse‑
guenza altamente probabile e verosimile, può essere ricono‑
sciuto anche in base ad un serio e ragionevole criterio di
probabilità, che deve però risultare qualificata da ulteriori
elementi idonei a tradurre in certezze giuridiche le conclusio‑
ni astratte svolte in termini probabilistici” cfr Cassazione
civile, sez. III, 30/10/2009, n. 23059).
È certo che la specifica conformazione della strada, ha
agevolato la perpetrazione dell’illecito di cui è giudizio, agen‑
do, unitamente alla condotta gravemente colposa del condu‑
cente della Mercedes, quale concausa dell’evento de quo.
A ciò aggiungasi che, così come contestato ed evidenziato
dalla difesa dell’attrice, anche il tratto di guard rail su cui
impattava con lo spigolo anteriore sinistro la Mercedes non
era conforme alla normativa all’epoca vigente.
Invero, lo stesso consulente afferma che per la strada in
oggetto, all’epoca del sinistro, occorresse una barriera di
categoria H3, in virtù di quanto previsto nel D.M. 223/92
secondo cui nelle strade extraurbane principali con percen‑
tuale di veicoli pesanti superiore al 5% (ossia nella strada in
esame) lo spartitraffico deve essere protetto con barriere di
sicurezza di classe non inferiore ad H3.
Le barriere di classe H3, hanno una capacità di conteni‑
mento superiore a 463 kJ, cioè una capacità di contenimento
almeno 7 volte superiore a quelle installate al momento del
sinistro (con capacità di contenimento inferiore a 68 kJ).
Si concorda con la doglianza della difesa dell’attrice Tizia
laddove afferma che in merito il CTU si limita solo ad affer‑
mare che all’atto dell’incidente (dicembre 1999) non vi erano
normative che obbligassero l’Anas a sostituire le barriere
preesistenti con quelle nuove con assai più elevata capacità
di contenimento, in quanto tale obbligo era previsto dall’art. 2
comma III del D.M. 223/92 solo per le strade di nuova pro‑
2 0 1 2
51
gettazione ovvero per le strade esistenti oggetto di intervento
di adeguamento.
La mancanza di un obbligo previsto nel precitato D.M. non
esclude l’esistenza di altri disposti normativi di rango superio‑
re che imponevano comunque all’Ente la sostituzione della
preesistente barriera con quelle a contenimento superiore.
Tali norme vanno individuate:
‑ nell’art. 14 del Codice della Strada (D. Lgs. 30 aprile
1992 n. 285) ove si prescrive che “gli enti proprietari delle
strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della
circolazione provvedono a) alla manutenzione, gestione e
pulizia delle strade, delle loro pertinenze ed arredo, nonché
delle attrezzature, impianti e servizi; b) al controllo tecnico
dell’efficienza delle strade e relative pertinenze”
‑ nel D. Lgs. n. 143 del 26/2/1994 istitutivo dell’ANAS e
vigente all’epoca del sinistro, in cui tra i compiti istituzionali
dell’Ente è previsto all’art. 2: “l’Ente provvede: A) gestire le
strade e le autostrade nonché alla loro manutenzione ordina‑
ria e straordinaria; B) realizzare il progressivo miglioramen‑
to ed adeguamento della rete delle strade e della autostrade
statali; E) curare l’acquisto la costruzione la conservazione
il miglioramento e l’incremento dei beni immobili e dei beni
mobili destinati al servizio delle strade e delle autostrade
statali (i.e. Pertinenze stradali); F) attuare le leggi ed i rego‑
lamenti concernenti la tutela del patrimonio delle strade e
delle autostrade statali, nonché della tutela del traffico e
della segnaletica; adottare i provvedimenti ritenuti necessari
ai fini della sicurezza del traffico sulle strade e autostrade
medesime”.
È di tutta evidenza dunque che norme di legge, cioè di
rango superiore a quella del precitato D.M. 223/92, impone‑
vano all’ANAS di adeguare le barriere spartitraffico installan‑
do quelle tecnicamente adeguate alle strade extraurbane prin‑
cipali, come quella in esame, cioè barriere di categoria H3.
Il controllo tecnico dell’efficienza implica per l’ente l’ac‑
certamento e l’adeguamento della strada e della pertinenza
agli standard tecnici e di sicurezza più evoluti. Questa inter‑
pretazione è confermata dalla richiamata normativa istitutiva
dell’ANAS che tra i compiti prevede, oltre che la manutenzio‑
ne straordinaria e ordinaria (lett. A), gli ulteriori compiti di
cui alle precitate lett. B), E) F) tra cui appunto curare l’acqui‑
sto la costruzione la conservazione il miglioramento e l’in‑
cremento delle pertinenze stradali.
Dunque norme di rango primario imponevano all’Anas
l’adeguamento del guard‑rail, a prescindere da quello che
stabiliscono normative di rango secondario come un decreto
ministeriale, ovvero norme di rango ancora inferiore come la
direttiva ministeriale del 2004 richiamata dal CTU.
Peraltro l’Anas non ha dimostrato che quel tratto di strada
non era soggetto ad un obbligo di adeguamento, anche perché
come riferito dallo stesso CTU e documentato in atti è dimo‑
strato che dopo l’incidente l’adeguamento c’è stato ed attual‑
mente sono installate barriere appunto di categoria H3.
In ogni caso, seppure mai in ipotesi non fosse esistito un
specifico obbligo di adeguamento, i normali criteri di diligen‑
za prudenza e perizia dell’Ente gestore, come detto, avrebbe‑
ro comunque imposto l’adeguamento della barriera.
Se il guard rail avesse avuto le specifiche capacità di con‑
tenimento all’epoca prescritte appare evidente che la Mercedes
al momento dell’impatto contro di esso avrebbe dissipato
civile
Gazzetta
52
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
larga parte della propria energia: è questa un’affermazione di
carattere oggettivo, basata sull’id plerumque accidit.
Pertanto, alla stregua delle ampie considerazioni che pre‑
cedono ritiene la scrivente che il sinistro vada ascritto alla
concorsuale responsabilità nella misura del 50% ciascuno da
un lato all’imprudente condotta di guida del conducente della
Mercedes e dall’altro alla negligente mancata osservanza da
parte dell’Anas di norme di comune prudenza e diligenza.
La responsabilità ha carattere solidale a nulla rilevando il
diverso titolo di responsabilità in base al quale sono chiama‑
ti i predetti soggetti: “per il sorgere della responsabilità soli‑
dale dei danneggianti l’art. 2055, comma 1, c.c. richiede
solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancor‑
ché le condotte lesive siano tra loro autonome e pure se di‑
versi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone,
anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabi‑
lità contrattuale e extracontrattuale, atteso che l’unicità del
fatto dannoso considerata dalla norma suddetta deve essere
riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come
identità delle norme giuridiche da essi violate” (cfr Cassazio‑
ne civile, sez. un., 15/07/2009, n. 16503).
L’accertato concorso di colpa, poi, rileverà solo nel diverso
rapporto interno tra i condebitori solidali, ben potendo il
creditore esigere per intero la prestazione da ciascuno di essi.
Posizione di Tizia
L’attrice, vittima del sinistro, coniuge del conducente, ma‑
dre del piccolo (deceduto) e di Caia, ha proposto nel presente
processo varie domande risarcitorie, suddivisibili, preliminar‑
mente, in due categorie: da un lato i danni sofferti per effetto
del coinvolgimento diretto nel sinistro e dall’altro i danni pati‑
ti per effetto della prematura scomparsa di due prossimi con‑
giunti, nonché per le gravi lesioni riportate dalla figlia Caia.
Danni patiti per effetto del coinvolgimento del sinistro
Danni non patrimoniali
Dagli atti di causa (cfr verbale Polizia stradale sopraggiun‑
ta sui luoghi nell’immediatezza dei fatti) emerge che l’attrice
viaggiava, in qualità di trasportata sul sedile anteriore, sull’au‑
tovettura condotta dal coniuge.
Per effetto del violento impatto frontale con l’autovettura
Mercedes, riportava svariate lesioni.
Richiamato quanto detto prima in ordine alle cause che
determinarono il sinistro, è risarcibile il danno biologico su‑
bito dalla ricorrente in seguito al sinistro in oggetto connesso
alla invalidità permanente, inteso, secondo la nozione ormai
generalmente condivisa in giurisprudenza, come menomazio‑
ne dell’integrità della persona in sè e per sè considerata, in
quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta di‑
mensione, che non si esaurisca nella sola attitudine a produr‑
re ricchezza, ma si collega alla somma delle funzioni natura‑
li afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita si esplica ed
aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica,
sociale, culturale ed estetica.
Vanno a tal riguardo condivise le conclusioni cui è giunto
il c.t.u..
Riferisce il C.T.U. che dall’analisi dei dati anamnestici e
dalla lettura dei documenti acquisiti si perviene all’identifica‑
zione del nesso di causalità delle lesioni e dei postumi riscon‑
trati con l’evento traumatico per cui è causa.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
Tali lesioni, secondo il consulente di ufficio, hanno deter‑
minato uno stato di malattia della durata di centoventi giorni
così suddivisibili: l)una ITT al 100% di giorni sessanta; 2) una
ITP al 75% di giorni sessanta). Infine, il CTU ha valutato
postumi solo sotto il profilo del danno biologico, nella misu‑
ra del 20%.
Per il risarcimento di siffatto danno questo giudice farà
ricorso alle tabelle di liquidazione del danno biologico in uso
presso il Tribunale di Milano (rivalutate al giugno 2009) in
quanto destinate a risolvere da un lato il problema della ec‑
cessiva rigidità di altri criteri di liquidazione equitativa (siste‑
ma del multiplo della pensione sociale e quello del valere del
punto fisso) inidonei a valorizzare la diversa entità della com‑
promissione della integrità psicofisica che si determina con
l’aumento del tasso di invalidità riscontrato e, dall’altro lato,
ad evitare possibili disparità di trattamento conseguenti alla
adozione di criteri di aggiustamento delle tecniche di liquida‑
zione innanzi descritte.
Tali tabelle realizzano un criterio di valore di punto pre‑
determinato sulla base di variabili senz’altro incidenti sulla
entità del danno quali l’età del danneggiato e l’entità dei po‑
stumi.
Va rilevato, tuttavia, che le predette tabelle si caratteriz‑
zano per un profilo di alta innovatività.
Invero, a seguito del nuovo indirizzo giurisprudenziale di
cui alle sentenze delle Sezioni unite della Corte di cassazione
dell’11.11.2008, si è rilevata l’esigenza di una liquidazione
unitaria del danno non patrimoniale biologico e di ogni altro
danno non patrimoniale connesso alla lesione della salute,
contattandosi l’inadeguatezza dei valori monetari fino a quel
momento utilizzati nella liquidazione del c.d. danno biologico
a risarcire gli altri profili di danno non patrimoniale.
Pertanto, nelle predette tabelle si è operata un’adeguata
valutazione di tutte le componenti non patrimoniali degli
esiti lesivi di un evento delittuoso.
In particolare, si è proposta ed attuata la liquidazione
congiunta:
a) del danno non patrimoniale conseguente a “lesione
permanente dell’integrità psicofisica della persona suscetti‑
bile di accertamento medico‑legale”, sia nei suoi risvolti
anatomo‑funzionali e medi ovvero peculiari e del danno non
patrimoniale conseguente alle medesime lesioni in termini di
“dolore”,”sofferenza soggettiva”, in via di presunzione in ri‑
ferimento ad un dato tipo di lesione, a dire la liquidazione
congiunta dei pregiudizi in passato liquidati a titolo di:
1) c.d. danno biologico “standard”,
2) c.d. personalizzazione – per particolari condizioni
soggettive – del danno biologico,
3) c.d. danno morale.
Per individuare i valori monetari di tale liquidazione con‑
giunta, si è poi fatto riferimento all’andamento dei preceden‑
ti degli Uffici giudiziari di Milano, e si è quindi pensato: ad
una tabella di valori monetari “medi”, corrispondenti al caso
di incidenza della lesione in termini “standardizzabili” in
quanto frequentemente ricorrenti (sia quanto agli aspetti
anatomofunzionali, sia quanto agli aspetti relazionali, sia
quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva); ad una percen‑
tualità di aumento di tali valori “medi” da utilizzarsi ‑onde
consentire una adeguata “personalizzazione” complessiva
della liquidazione‑ laddove il caso concreto presenti peculia‑
F O R E N S E
MARZO • APRILE
rità che vengano allegate e provate (anche in via presuntiva)
dal danneggiato, in particolare:
o sia quanto agli aspetti anatomo‑funzionali e relazionali
(ad es. lavoratore soggetto al maggior sforzo fisico senza con‑
seguenze patrimoniali; lesione al “dito del pianista dilettan‑
te”), o sia quanto agli aspetti di sofferenza soggettiva (ad es.
dolore al trigemino; specifica penosità delle modalità del fatto
lesivo), ferma restando, ovviamente, la possibilità che il giu‑
dice moduli la liquidazione oltre i valoriin relazione a fattispe‑
cie del tutto eccezionali alla casistica comune degli illeciti.
La versione finale delle nuove Tabelle varata nella riunio‑
ne dell’Osservatorio 28 aprile 2009‑ segue ed innova l’impian‑
to delle precedenti tabelle quanto alla del danno permanente
da lesione all’integrità psico‑fisica, particolare:
a) individuando il nuovo valore del c.d. “punto” dal va‑
lore del “punto” delle Tabelle precedenti (relativo alla sola
componente di danno non patrimoniale anatomo‑funzionale,
c.d. danno biologico permanente), aumentato in riferimento
all’inserimento nel valore di liquidazione “medio” anche
della componente di danno non patrimoniale relativa alla
“sofferenza soggettiva”di una percentuale ponderata (dall’1
al 9% di invalidità l’aumento è del 25% fisso, dal 10 al 34
% di invalidità l’aumento è progressivo per punto dal 26%
al 50%, dal 35 al 100% di invalidità l’aumento torna ad
essere fisso al 50%), così tenendo conto del fatto che, a par‑
tire dal 10% di invalidità, in concreto le liquidazioni giuri‑
sprudenziali ante 11.11.2009 si sono costantemente attestate
intorno ai valori più alti della fascia relativa al c.d. danno
morale, secondo le tabelle all’epoca in uso parametrato tra
un quarto e la metà del valore di liquidazione del c.d. danno
biologico, e prevedendo inoltre massime di aumento utiliz‑
zarsi in via di c.d..
A seguito del nuovo orientamento giurisprudenziale, si è
proposta ed attuata anche una rivisitazione dei valori in pas‑
sato liquidati a titolo di c.d. danno biologico e morale tempo‑
raneo, anche in questo caso proponendo una liquidazione
congiunta dell’intero danno non patrimoniale “temporaneo”
derivante da lesione alla persona.
In particolare, sempre tenuto conto dei precedenti degli
uffici giudiziari di Milano, si è proposto:
per il risarcimento del danno non patrimoniale “tempo‑
raneo” complessivo corrispondente a un giorno di invalidità
temporanea al 100%,una forbice di valori monetari, da un
minimo di euro 88,00 ad un massimo di euro 132,00 (il va‑
lore minimo della forbice è stato ottenuto aumentando del
25% il valore base di liquidazione ‑rivalutato al 2009 e pari
a euro 70,56 finora in uso per la liquidazione del c.d. danno
biologico temporaneo‑ mentre il valore massimo è stato otte‑
nuto aumentando il valore minimo del 50 %), onde così
consentire l’adeguamento del risarcimento alle caratteristiche
del caso concreto.
Quanto detto si può riassumere in tal modo: punto biolo‑
gico 2008 riv. al 2009 Euro 70,56; aumento 25 % Punto
danno “non patrimoniale” 2009 Euro 88,00 Aumento perso‑
nalizzato: Fino a max Euro 132,00.
Nel caso di specie, attesa la mancata specifica deduzione
di circostanze atte a personalizzare il danno, la liquidazione
può avvenire tenendo conto dei valori cd standard.
Ciò premesso, tenuto conto del tasso di invalidità riscon‑
trato dal CTU (20%), della età della danneggiata all’epoca
2 0 1 2
53
del sinistro (32 anni), della entità delle lesioni riportate com‑
peterà alla ricorrente, a titolo di risarcimento di danno biolo‑
gico c.d. “standard”, e di c.d. danno morale la somma di
€.162,00.
Alla somma suddetta va aggiunta quella destinata a risar‑
cire il danno biologico connesso all’invalidità temporanea.
Pertanto, rilevato che il ctu ha riconosciuto un’invalidità
al 100% per giorni sessanta pari a €. 5.280,00 e una ITP al
75% di giorni sessanta per la somma di euro 3.960,00, il
totale complessivo spettante all’attrice, unitamente a quanto
riconosciuto per il danno biologico permanente, è pari ad €
76.402,00.
Per le considerazioni ampiamente espresse in precedenza
la somma predetta va ritenuta comprensiva di tutte le compo‑
nenti non patrimoniali dei danni sofferti dalla ricorrente in
conseguenza del sinistro di cui è causa.
In via conclusiva, la somma di spettanza di parte attrice,
per il ristoro dei danni non patrimoniali sofferti per effetto
del sinistro è pari ad €. 76.402,00.
Essendo stata effettuata la liquidazione di cui sopra all’at‑
tualità, sulla somma anzidetta, devalutata
alla data del sinistro e rivalutata anno per anno secondo
gli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di impie‑
gati ed operai, sono dovuti in adesione all’orientamento della
S.C. (S.U. n. 1712/1995) gli interessi nella misura legale a
partire dalla data del sinistro fino al saldo.
Spettano ovviamente gli interessi legali sulla suindicata
somma liquidata dalla pubblicazione della presente pronuncia
sino al soddisfo effettivo.
Infatti, per effetto della pubblicazione della sentenza che
provvede sulla liquidazione del danno, l’obbligazione risarci‑
toria, che è debito di valore, si trasforma in debito di valuta
(cfr. Cass. 10.10.1988 n. 5465).
Danni patrimoniali
Nulla va riconosciuto a titolo di riduzione di capacità la‑
vorativa specifica, in quanto espressamente esclusa dal ctu.
Né è stato comprovato l’esborso di somme di denaro per
cause riconducibili al sinistro (spese mediche ecc).
Danni sofferti a seguito della perdita del coniuge e del fi‑
glio e delle lesioni patite dalla figlia Caia.
Danni non patrimoniali per la perdita del coniuge e del figlio
Appare necessario operare una prima distinzione tra dan‑
no da morte e danno da lutto.
A seguito della morte di un congiunto o di un familiare i
danni sono essenzialmente i due sopraccitati ma, tra loro,
devono essere nettamente distinti e differenziati.
Difatti, il danno da lutto consiste in una psicopatologia
dell’elaborazione del luttodistinguendosi dal danno da morte
che, invece, si esplica attraverso un’invalidità temporanea e,
in casi eccezionali, in una invalidità permanente determinata
dalla perdita dell’oggetto d’amore.
Le due tipologie di dannosi collocano su due livelli diver‑
si. Mentre il secondo consiste in “… alterazioni permanenti
sul piano psichico ed emozionale che conseguono ad effetti‑
ve difficoltà del “lavoro del lutto”. Intendendo con ciò far
riferimento alle difficoltà dell’elaborazione del lutto, o, tal‑
volta, alla mancata elaborazione o del tutto alla negazione
del lutto”, il primo consiste in una reazione depressiva carat‑
terizzata da sofferenze e dolori per una perdita che viene
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
vissuta come angosciante che, solo se diventa clinicamente
significativa, può sfociare in un danno da lutto.
In sintesi, il danno biologicoda morte, consiste in un
dannopsichico determinato dalla lesione del diritto alla salu‑
te psichica subito dagli stretti congiunti a seguito della morte
di un familiare per un fatto illecito di terzi.
Ad oggi si intende per “dannoda lutto” “… un pregiudizio
subito dai prossi mi congiunti per la perdita di un familiare
a seguito del fatto illecito di un terzo, originariamente qua‑
lificato da un’autorevole dottrina come “danno alla serenità
familiare”, “… l’evento morte non determina solo la fine
della vita della vittima, quindi, un “danno da perdita del
diritto alla vita”, o comunemente definito “danno tanatolo‑
gico”, ma causa, al contempo, l’estinzione di un rapporto
familiare con i congiunti…”.
La tesi secondo cui il danno morale costituisce pur sem‑
pre una lesione della salute psicofisica, è contraddetta da una
indicazione costante della giurisprudenza della Corte costi‑
tuzionale, nel senso della differenza di natura delle due
specie di danno (cfr. sentenze n. 356 del 1991 e 37 del 1994);
pure la sentenza n. 372 del 1994, non si è allontanata su
questo punto dalla sentenza n. 184 del 1986, ma piuttosto
vi ha apportato un’aggiunta con riguardo all’ipotesi partico‑
lare (già prefigurata nella precedente sentenza n. 37 del 1994
come problema a sé stante di ordine interpretativo) in cui il
danno alla salute, sofferto da una persona in conseguenza
della morte di un familiare cagionata dal fatto illecito penal‑
mente rilevante di un terzo, sia “il momento terminale di un
processo patogeno originato dal medesimo turbamento
dell’equilibrio psichico che sostanzia il danno morale sog‑
gettivo, e che in persone predisposte da particolari condizio‑
ni (debolezza cardiaca, fragilità nervosa, ecc.), anziché
esaurirsi in un patema d’animo o in uno stato di angoscia
transeunte, può degenerare in un trauma fisico o psichico
permanente.
In relazione a quest’ipotesi di somatizzazione del danno
morale, che delimitava la rilevanza dell’incidente di costitu‑
zionalità, la sentenza n. 372‑94 non ha confuso il danno
biologico col pretium doloris, ma ne ha parificato il tratta‑
mento giuridico sul presupposto della loro distinzione.
Detta ultima distinzione vede da un lato (quale danno
biologico) un vero e proprio stato patologico (suscettibile di
accertamento medico – legale, come è avvenuto nel presente
processo) insorto in capo al congiunto (stato di menomazione
fisica o psichica permanente o comunque duratura, tale da
integrare – in caso di menomazione psichica – una malattia
mentale), e dall’altro lato la normale reazione da lutto (tran‑
seunte turbamento psicologico) (v. Cass. n. 3766‑05, in punto
5.1 dei Motivi della decisione).
Per quanto riguarda il danno morale soggettivo si è rite‑
nuto (Cass. 3116‑83) che il risarcimento del danno non patri‑
moniale, derivante dalla morte “ex delicto”, va riconosciuto
in favore dei prossimi congiunti, “iure proprio”, cioè, indipen‑
dentemente dalla loro qualità di eredi, quando il rapporto di
stretta parentela con la vittima, le condizioni personali ed ogni
altra circostanza del caso concreto evidenzino un grave per‑
turbamento del loro animo e della loro vita familiare, per la
perdita di un valido sostegno morale.
Va evidenziato che secondo costante orientamento giuri‑
sprudenziale “nel caso in cui la morte di una persona provo‑
c i v i l e
Gazzetta
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chi nei prossimi congiunti, oltre una sofferenza morale, anche
un vero e proprio danno biologico di natura psichica, la
sofferenza morale provocata dal lutto e quella provocata dal
danno biologico non possono dar luogo a due distinte liqui‑
dazioni, trattandosi di pregiudizi di identica natura” (cfr
Cassazione civile, sez. III, 13/01/2009, n. 458).
Questo è quanto accaduto nel caso di specie.
Difatti, come chiarito in precedenza, il danno subito di‑
rettamente dai congiunti per effetto della perdita della perso‑
na cara, da non confondersi con il semplice turbamento
emotivo connaturato a simili tragici eventi, è risarcibile solo
qualora sia dimostrata la sussistenza di una vera e propria
malattia psichica del familiare, direttamente collegabile al
trauma subito in conseguenza dell’evento morte. È necessario
cioè un vero e proprio stato patologico che incida permanen‑
temente sull’integrità psichica del soggetto leso, clinicamente
accertabile.
Nella fattispecie concreta, tale prova può dirsi raggiunta.
Difatti, il C.T.U., specialista in psichiatria, ha accertato
che l’attrice a causa della duplice e contestuale perdita soffer‑
ta, ha sviluppato “una sindrome da stress post traumatico,
con menomazione grave medio della normale vita psichica,
parziale disgregazione della vita psichica, modico declino
cognitivo e parziale disorganizzazione della vita sociale ed
affettiva” da considerare quale vero e proprio danno alla
salute, valutando nella misura percentuale del 35% l’inciden‑
za dei postumi permanenti residuati.
Richiamato quanto detto in precedenza in ordine ai crite‑
ri ispiratori delle Tabelle di Milano del 2009, tenuto conto del
tasso così riconosciuto, spetterà all’attrice la somma di euro
190.761,00.
La tabella prevede un possibile incremento fino al 25% in
caso di ricorrenza di elementi ulteriori che possano orientare
una liquidazione maggiormente aderente al caso di specie.
Non vi è dubbio che nella fattispecie, la particolare e sin‑
golare dolorosità della vicenda (l’attrice è stata in un sol mo‑
mento privata di quasi tutto il proprio nucleo familiare), la
tenerissima età del figlio deceduto (due anni), la giovane età
del coniuge (circostanza che può lasciare presumere con suffi‑
ciente tranquillità che la vita coniugale si sarebbe protratta per
un lungo periodo di tempo), sono tutti elementi che inducono
la scrivente a riconoscere un aumento del 20% per operare
un’adeguata e doverosa personalizzazione della liquidazione.
Pertanto, complessivamente la somma dovuta è pari ad
euro 228.913,00.
Orbene, questa la somma corrispondente alla liquidazione
del danno sofferto per effetto della perdita dei due congiunti,
è razionale presumere che la sofferenza patita sia stata deter‑
minata in misura eguale dalla privazione di ciascuno di essi.
Pertanto, per la liquidazione del danno patito per effetto
della perdita del coniuge va riconosciuta la somma di euro
114.456,50.
Essendo stata effettuata la liquidazione di cui sopra all’at‑
tualità, sulla somma anzidetta, devalutata alla data del sini‑
stro e rivalutata anno per anno secondo gli indici Istat dei
prezzi al consumo per le famiglie di impiegati ed operai, sono
dovuti in adesione all’orientamento della S.C. (S.U.
n. 1712/1995) gli interessi nella misura legale a partire dalla
data del sinistro fino al saldo.
Spettano ovviamente gli interessi legali sulla suindicata
F O R E N S E
MARZO • APRILE
somma liquidata dalla pubblicazione della presente pronuncia
sino al soddisfo effettivo.
Infatti, per effetto della pubblicazione della sentenza che
provvede sulla liquidazione del danno, l’obbligazione risarci‑
toria, che è debito di valore, si trasforma in debito di valuta
(cfr. Cass. 10.10.1988 n. 5465).
Discorso in parte diverso va compiuto per la perdita del
piccolo figlio.
Invero, dalla lettura degli atti di causa (cfr verbale della
Polizia Stradale intervenuta sul luogo del sinistro), emerge che
il piccolo, di soli due anni, viaggiava, al momento del fatale
impatto, in braccio alla madre sul sedile anteriore.
La posizione del bambino, oltre ad essere contraria alle
generiche norme di prudenza (appare evidente, invero, che il
bambino non era trattenuto da alcun sistema di sicurezza e
in posizione, quella sul sedile anteriore, di certo più perico‑
losa in caso di collisione con altro veicolo o contro ostacolo
fisso, perché espone al rischio elevatissimo di impatto del
capo sul parabrezza) è specificatamente violativa delle norme
del Codice della Strada allora vigenti.
Invero, l’art. 172 stabilisce: “i passeggeri di età inferiore
ai dodici anni che abbiano una statura inferiore al 1,50 m.
devono essere trattenuti da un sistema di ritenuta, adeguato
alla loro statura e peso”.
Appare evidente che nel caso di bambino di anni due l’uni‑
co strumento di ritenuta idoneo è quello dei cd. seggioloni.
L’obbligo del sistema di ritenuta viene meno solo nel caso
in cui il bambino di età inferiore ai tre anni viaggi sul sedile
posteriore e accompagnato da un passeggero di età non infe‑
riore ai sedici anni (disposizione questa che conferma la
maggior pericolosità della posizione accanto al guidatore).
A ciò si aggiunga che la macchina a bordo della quale era
trasportato il minore viaggiava su strada extra urbana ed in
orario notturno: da qui quindi la necessità ancor maggiore di
osservare tutte le norme di prudenza generica e specifica atte
a salvaguardare l’incolumità del minore.
Per le considerazioni che precedono, la morte del bambi‑
no, specie laddove si consideri che i trasportati sui sedili po‑
steriori sono sopravvissuti all’incidente, deve essere attribui‑
ta nella misura concorsuale del 50% anche all’omissione da
parte della madre Tizia delle precauzioni di cui si è detto.
Va rilevato che tale accertamento rientra nei poteri offi‑
ciosi del giudice (“In tema di risarcimento del danno, il fatto
colposo del creditore che abbia contribuito al verificarsi
dell’evento dannoso – ipotesi regolata dall’art. 1227, com‑
ma 1, c.c. – è rilevabile d’ufficio, per cui la sua prospettazio‑
ne non richiede la proposizione di un’eccezione in senso
proprio”: Cassazione civile, 23784/2009).
Pertanto, a tale specifico titolo spetterà all’attrice la som‑
ma di euro 57.228,25.
Essendo stata effettuata la liquidazione di cui sopra all’at‑
tualità, sulla somma anzidetta, devalutata
alla data del sinistro e rivalutata anno per anno secondo
gli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di impie‑
gati ed operai, sono dovuti in adesione all’orientamento della
S.C. (S.U. n. 1712/1995) gli interessi nella misura legale a
partire dalla data del sinistro fino al saldo.
Spettano ovviamente gli interessi legali sulla suindicata
somma liquidata dalla pubblicazione della presente pronuncia
sino al soddisfo effettivo.
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Infatti, per effetto della pubblicazione della sentenza che
provvede sulla liquidazione del danno, l’obbligazione risarci‑
toria, che è debito di valore, si trasforma in debito di valuta
(cfr. Cass. 10.10.1988 n. 5465).
Cd danno esistenziale
Si è già accennato al fatto che parte attrice ha domandato
il ristoro di un ulteriore pregiudizio di non patrimoniale,
definito “danno esistenziale”.
Quanto già esposto in merito alla omnicomprensività del
danno non patrimoniale da morte del congiunto dovrebbe in
teoria essere sufficiente a motivare la infondatezza di tale
pretesa, la quale non costituisce che una richiesta di liquidare
due volte il medesimo pregiudizio.
Nondimeno, i contrasti che stanno dividendo la stessa
Suprema Corte in merito a tale bizzarra categoria di danno
impongono alcune osservazioni aggiuntive.
La scrivente non ignora che alcune decisioni giurispruden‑
ziali (di legittimità e di merito) hanno ritenuto che nel caso di
uccisione di un congiunto dovuta all’altrui illecito i superstiti
abbiano diritto al risarcimento di un danno variamente defi‑
nito, diverso in tesi tanto dal danno alla salute, quanto da
quello morale.
Tale danno consisterebbe nella forzosa rinuncia alle pro‑
prie abitudini di vita, in conseguenza del fatto illecito del
terzo. Esso – si afferma – sarebbe diverso ed ulteriore – rispet‑
to al pregiudizio usualmente definito “morale”, di cui agli
artt. 2059 c.c. e 185 c.p..
Nella maggior parte delle decisioni che hanno ritenuto
esistente tale tipo di danno, il fondamento normativo viene
solitamente ravvisato in una norma composita, ricavata in
via interpretativa dal combinato disposto di una norma ordi‑
naria (ravvisata talora nell’art. 2043 c.c., più di recente
nell’art. 2059 c.c.) e di una norma costituzionale (ravvisata
di volta in volta negli artt. 2 o 29 cost.), secondo lo “schema”
adottato da Corte cost. 184/86 per sostenere la risarcibilità
ex art. 2043 c.c. del danno biologico [cfr., sia pure con mo‑
tivazioni tra loro non omogenee, e comunque con riferimen‑
to a c a s i no n c o n c e r n e nt i d a n no d a u c c i s io n e ,
Cass. sez. un. 24.3.2006 n. 6572, in Resp. civ. prev., 2006,
1477; Cass. sez. lav. 4.6.2003 n. 8904, in Orient. giur. lav.,
2003, I, 523; Cass., sez. lav., 03‑07‑2001, n. 9009, in Lavoro
e prev. oggi, 2001, 1396 (queste decisioni tuttavia non aveva‑
no ad oggetto il ristoro del danno da morte); per la giurispru‑
denza di merito, ex aliis, si vedano in tal senso Giud. pace
Sora 10.7.2000, in Giurispr. romana, 2001, 341; Trib. Mila‑
no 31.5.1999 e Trib. Treviso 25.11.1998, ambedue in Riv.
giur. circolaz., 2000, 143; Trib. Torino, 08‑08‑1995, in Resp.
civ., 1996, 282).
Questo orientamento non consolidato, multiforme negli
esiti e polisenso nelle motivazioni, è ritenuto non condivisibile.
Ad esso possono muoversi (almeno) quattro ordini di
obiezioni.
In primo luogo, esso si fonda sull’assunto che la lesione di
un diritto costituzionalmente protetto costituisca di per sé un
danno risarcibile, a prescindere da qualsiasi accertamento in
concreto.
Questa opinione, che già un tempo fu condivisa dalla
Consulta, è stata oramai abbandonata da più di dieci anni
dalla Corte costituzionale, la quale già con la sentenza
27‑10‑1994, n. 372, in Giust. civ., 1994, I, 3029, giudicò non
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
condivisibile il principio secondo cui la lesione di un diritto
costituzionalmente protetto fosse risarcibile di per sé, a pre‑
scindere dalle conseguenze che tale lesione abbia cagionato,
e statuì che il risarcimento presuppone sempre una “perdita
di tipo patrimoniale o personale”. Assunto, questo, condiviso
anche dal giudice di legittimità, il quale ha osservato (con
riferimento al danno biologico, ma le conclusioni non cam‑
biano rispetto a qualsiasi altro tipo di danno) che in tema di
illeciti aquiliani “non vale la regola che, verificatosi l’evento,
vi sia senz’altro un danno da risarcire.
Il risarcimento del danno vi sarà se vi sarà perdita di quel‑
le utilità che fanno capo all’individuo nel modo preesistente al
fatto dannoso e che debbono essere compensate con utilità
economiche equivalenti”(Cass., 29‑5‑1996, n. 4991, in Foro
it., 1996, I, 3107; sostanzialmente nello stesso senso si veda
anche, in motivazione, la più recente Cass. sez. un. 24.3.2006
n. 6572, in Resp. civ. prev., 2006, 1477, che pure viene invo‑
cato a sostegno della tesi del c.d. “danno esistenziale”).
Dunque non basta allegare il mero fatto della morte di un
prossimo congiunto per pretendere il risarcimento di un dan‑
no ulteriore ed aggiuntivo rispetto a quello non patrimoniale
di cui all’art. 2059 c.c.. In secondo luogo, la tesi del “danno
esistenziale” – o come lo si voglia definire – sembra trascura‑
re del tutto che il nostro sistema della responsabilità civile si
fonda sul criterio della colpa, con poche (anche se non mar‑
ginali) eccezioni (ad esempio, quelle di cui agli artt. 2048,
2050, 2052 c.c.).
La nozione di colpa civile, distinta da quella di colpa pe‑
nalmente rilevante (Cass., 22‑2‑1996, n. 1375, in Arch. circo‑
laz., 1996, 537; Pret. Forlì, 19‑2‑1986, in Resp. civ. prev.,
1986, 176), viene tradizionalmente fondata su due elementi:
‑ da un lato, l’idea di deviazione, di scostamento, di ab‑
bandono, di inosservanza di una regola (che si tratti di una
norma di legge, regolamentare, contrattuale, deontologica, di
comune prudenza: arg. ex art. 1176 c.c.);
‑ dall’altro lato, la concreta prevedibilità ed evitabilità
dell’evento. Nella prevedibilità ed evitabilità, anzi, risiede la
distinzione tra colpa e caso fortuito: giacché non sarebbe
giusto né condivisibile ascrivere ad un soggetto le conseguen‑
ze di un fatto che egli non poteva né prevedere né evitare.
La necessaria prevedibilità dell’evento dannoso è stata
affermata anche dalla Corte costituzionale, la quale ha espres‑
samente affermato che, là dove essa manchi, non è possibile
una valutazione autonoma della colpa (Corte cost., 27‑10‑1994,
n. 372, in Giust. civ., 1994, I, 3029). Ovviamente, la prevedi‑
bilità o prevenibilità dell’evento non va confusa con la preve‑
dibilità delle conseguenze dannose da esso scaturite. Come
noto, infatti, in materia extracontrattuale il danneggiante
risponde anche delle conseguenze imprevedibili della propria
condotta.
È a questo punto, però, che la nozione di danno esisten‑
ziale sembra entrare in apparente collisione con la nozione di
colpa come ora tratteggiata. Infatti delle due l’una:
(a) se il danno esistenziale, come i suoi sostenitori mostra‑
no di ritenere, va qualificato “danno‑conseguenza”, la preve‑
dibilità o la prevenibilità dell’evento dannoso (fonte del danno
esistenziale, cioè il “danno‑evento” propriamente detto) dovrà
necessariamente concernere una lesione ontologicamente di‑
versa dalla perdita dell’attività esistenziale: e quindi, ancora
una volta, una lesione o biologica, o patrimoniale o morale.
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
Insomma, se il danno esistenziale è un danno‑conseguenza,
esso presuppone un danno‑evento che difficilmente potrebbe
collocarsi al di fuori delle tre categorie tradizionali. Ma, se
così è, gli effetti della lesione dovranno essere retti dalle rego‑
le consuete, e quindi:
(‑) in caso di lesione della salute, le perdite esistenziali da
questa causate sono già oggi risarcibili, ex art. 2059 c.c.;
(‑) in caso di danno patrimoniale, le perdite esistenziali da
esso causate non sono risarcibili, ex artt. 1223 e 2056 c.c.;
(‑) in caso di danno non patrimoniale, le perdite esisten‑
ziali, in quanto fonte di sofferenza, sono già oggi risarcibili
ex art. 2059 c.c.;
(b) se invece, per evitare le secche del doppio nesso causa‑
le tra condotta illecita e danno‑evento, e tra quest’ultimo e
danno‑conseguenza, si volesse configurare il danno esisten‑
ziale come danno‑evento, allora verrebbe a mancare del tutto
il requisito della prevedibilità o prevenibilità dell’evento di
danno, e con esso la configurabilità stessa della colpa civile.
Le attività esistenziali astrattamente compromettibili per ef‑
fetto dell’altrui illecito, infatti, sono troppo varie e multiformi
per potere essere ritenute prevedibili dal danneggiante.
Il primo nodo irrisolto della nozione di danno esistenzia‑
le appare dunque così riassumibile:
(‑) se questo danno è un danno‑evento, esso è imprevedi‑
bile e dunque non può essere ascritto all’offensore a titolo di
colpa;
(‑) se esso è un danno‑conseguenza, presuppone necessa‑
riamente un danno‑evento, che dovrà incidere sulla salute, sul
patrimonio o sul morale, ed ubbidire alla regole risarcitorie
normativamente poste o giurisprudenzialmente elaborate per
questi tre tipi di danno.
Vale la pena aggiungere che Cassazione civile, sez. III,
31‑05‑2003, n. 8828, in Foro it., 2003, I, 2272, ha espressa‑
mente definito il pregiudizio non patrimoniale derivante dallo
sconvolgimento delle abitudini di vita come “danno‑conse‑
guenza”, con le conseguenze sopra evidenziate, sub (a).
In terzo luogo, sul piano del contenuto, la nozione di
“danno esistenziale” deve affrontare una “scelta tragica”:
(a) o ammettere che persino la perduta possibilità – ad
esempio – di fare schiamazzi, imbrattare i muri, o compiere
qualsiasi insignificante gesto quotidiano costituisca un danno
risarcibile: ed in questo caso l’interprete deve spiegare perché
mai debba considerarsi “ingiusta” la perdita della possibilità
di compiere un gesto od un’attività insignificanti, inutili od
illeciti;
(b) ovvero, ammettere che non qualsiasi perdita esisten‑
ziale possa costituire un danno risarcibile: ed in questo caso
l’interprete avrà il non agevole compito di individuare il “se‑
lettore”, cioè il criterio in base al quale discernere le perdite
esistenziali meritevoli di tutela risarcitoria da quelle non ri‑
sarcibili, e non è difficile prevedere che l’attività esistenziale
meritevole di tutela sarà immancabilmente ancorata o a prin‑
cìpi costituzionali, o a norme di legge. Ma, in questo modo,
viene a perdersi tutta la portata innovativa del danno esisten‑
ziale: se infatti, perché il danno sia risarcibile, è necessario
individuare la norma costituzionale o la norma di legge alla
quale “ancorare” l’ingiustizia del danno, non c’è bisogno di
mettere in campo una nuova figura, in quanto già oggi la le‑
sione di un interesse normativamente qualificato costituisce
un danno risarcibile, secondo quanto stabilito da Cassazione
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MARZO • APRILE
civile, S.U., 500/99. Secondo quest’ultima decisione della
Corte di legittimità, qualsiasi lesione, e quindi qualsiasi per‑
dita (patrimoniale, biologica, morale od esistenziale), può dar
luogo a un risarcimento, a condizione che l’interesse leso: (a)
sia protetto da disposizioni specifiche; ovvero (b) sia oggetto
di norme che rivelano una esigenza di protezione. Nel primo
caso, il risarcimento sarà sempre dovuto, purché sussistano
gli altri elementi dell’illecito; nel secondo caso, il risarcimen‑
to sarà dovuto se il giudice accerti, nel caso concreto, la pre‑
valenza dell’interesse leso rispetto a quello, eventualmente
concorrente, dell’offensore.
Vale la pena aggiungere che Cassazione civile 8828/03,
cit., espressamente ammettendo la risarcibilità senza limiti dei
danni non patrimoniali consistenti nella lesione di interessi
della persona di rango costituzionale, ha per ciò solo escluso
la risarcibilità, fuori delle ipotesi previste dalla legge, di per‑
dite “esistenziali” che costituiscano Bagatellenschaden. In quarto luogo, ed è quel che appare assolutamente riso‑
lutore, in caso di danno da morte del prossimo congiunto il
concreto pregiudizio che si intende coonestare come “danno
esistenziale” non riesce a distinguersi in nulla dal danno c.d.
morale.
Secondo i sostenitori della tesi del danno esistenziale,
quest’ultimo costituisce una rinuncia ad un facere, ad una
attività positiva, mentre il danno morale costituisce una mera
sofferenza soggettiva, interiore, inesprimibile, un pati.
A tale affermazione può replicarsi, innanzitutto, che è
pericoloso e controproducente sostenere che il danno morale
costituisce una sofferenza “interna”. Se così fosse, tale danno
non potrebbe mai essere dedotto né provato in giudizio, giac‑
ché i moti dell’animo sono noti solo a chi li avverte. Il risarci‑
mento del danno morale diverrebbe così una pura e semplice
sanzione, o – se si preferisce – un grazioso regalo, che il dan‑
neggiato avrebbe sempre diritto di pretendere, a prescindere
da qualsiasi dimostrazione circa l’effettiva esistenza di esso.
Inoltre, non convince la distinzione tra danno morale e
danno esistenziale fondata sul rilievo secondo cui chi subisce
un danno morale “soffre”, mentre chi subisce un danno esi‑
stenziale “non fa”. La sofferenza morale causata dall’illecito,
infatti, è sempre una sofferenza causata da una rinuncia:
tanto è vero che nessuno potrebbe ragionevolmente sostenere
che costituisce un danno la rinuncia ad attività sgradite o
spiacevoli. Ma se così è, deve concludersi che il c.d. “danno
esistenziale” non è che la sofferenza causata da una rinuncia,
cioè un pregiudizio d’affezione, e quindi un danno morale.
Così, nel caso di specie, la sofferenza causata dalla perdita
di una persona cara può condurre a molteplici rinunce (con‑
versare, farsi compagnia, andare al cinema, andare a passeg‑
gio, viaggiare per diporto, visitare musei e mostre, eccetera).
Ma questo tipo di danno, conseguenza della sofferenza mora‑
le, già oggi viene “messo in conto” e valutato al momento
della liquidazione del danno morale. Se si ammettesse, accan‑
to a quest’ultimo, la risarcibilità anche del danno esistenziale,
delle due l’una: o si compirebbe una duplicazione risarcitoria,
liquidando due volte la pecunia doloris per le medesime priva‑
zioni; oppure, se si “scomputa”, per così dire, il danno esisten‑
ziale da quello morale, quest’ultimo corre il rischio di divenire
una entità sfuggente e difficilmente valutabile.
Nemmeno è accettabile la tesi – pur affermata in dottri‑
na – secondo cui il danno morale sarebbe “transeunte”,
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57
quello c.d. esistenziale no.
Tale affermazione, a ben vedere, sembra costituire una
petitio principii.
Da un punto di vista naturalistico, il danno c.d. morale
non è né più, né meno transeunte di qualsiasi altro pregiudizio
consistito nella lesione di un interesse fondamentale della
persona. Così, è ben possibile immaginare danni morali per‑
manenti: si pensi alla sofferenza di chi ha subito una gravis‑
sima menomazione, come l’amputazione di un arto; ovvero
alla sofferenza di chi ha perso un prossimo congiunto, come
appunto nel caso di specie.
Allo stesso modo, sono ben concepibili danni non patri‑
moniali, consistiti in uno sconvolgimento o un mutamento
delle precedenti abitudini di vita della vittima, che abbiano
carattere transeunte: si pensi all’ipotesi della vedova che con‑
trae nuove nozze, od all’orfano in tenerissima età che venga
immediatamente adottato; od ancora al professionista calun‑
niato che, in seguito alla condanna del calunniatore, riacqui‑
sta ed anzi incrementa il proprio prestigio e la propria repu‑
tazione.
Del resto, tali conclusioni sembrano condivise proprio
dalla S.C. nella sentenza Cass., sez. III, 31‑05‑2003, n. 8827,
in Foro it., 2003, I, 2273, là dove afferma che “alcuni tipi di
patemi d’animo hanno un’intrinseca attitudine ad essere ine‑
luttabilmente permanenti, piuttosto che meramente transeun‑
ti” (§ 4.6. dei “Motivi della decisione”).
Quanto si è qui sin esposto sul tema del c.d. “danno esi‑
stenziale” causato dalla morte di un congiunto non è infirma‑
to dalle importanti decisioni con le quali la Corte di cassazio‑
ne prima (Cass. 31.5.2003 n. 8827 e Cass. 31.5.2003 n. 8828,
ambedue in Danno e resp., 2003, 816 e ss.), e la Corte costi‑
tuzionale poi (Corte cost., 11.7.2003 n. 233, in Danno e resp.,
2003, 939) sono intervenute sul tema in questione.
Con le sentenze nn. 8827 e 8828 del 2003, cit., innovando
il proprio precedente orientamento, la Suprema Corte ha
statuito che:
(a) “il danno non patrimoniale deve essere inteso come
categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un
valore inerente alla persona” (Cass. 8827/03, cit., p. 821);
(b) “non [è] proficuo ritagliare all’interno di tale generale
categoria specifiche figure di danno, etichettandole in vario
modo: ciò che rileva, ai fini dell’ammissione a risarcimento,
in riferimento all’art. 2059, è l’ingiusta lesione di un interesse
inerente alla persona, dal quale conseguano pregiudizi non
suscettivi di valutazione economica” (Cass. 8827/03, cit., p.
822);
(c) il limite risarcitorio dettato dall’art. 2059 c.c. non
opera “se la lesione ha riguardato valori della persona costi‑
tuzionalmente garantiti” (Cass. 8827/03, loc. ult. cit.);
(d) la tutela risarcitoria della persona “va ricondotta al
sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non pa‑
trimoniale: quest’ultimo comprensivo del danno biologico in
senso stretto, del danno morale soggettivo come tradizional‑
mente inteso e dei pregiudizi diversi ad ulteriori, purché co‑
stituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzio‑
nalmente protetto” (Cass. 8827/03, cit., p. 825).
Tali sentenze, dunque, hanno avuto l’effetto di ricondurre
qualsiasi pregiudizio non patrimoniale nell’ambito della disci‑
plina dell’art. 2059 c.c., e contestualmente di eliminare il li‑
mite risarcitorio dei “casi previsti dalla legge” nelle ipotesi in
civile
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cui il danno abbia leso interessi della persona di rango costi‑
tuzionale, ma non di creare nuove ed ondivaghe categorie di
danno.
Ha precisato, altresì, la S.C., che anche i danni non patri‑
moniali consistenti nella perdita o nello stravolgimento delle
proprie abitudini di vita sono risarcibili, ma per quanto già
ampiamente esposto tali ultimi pregiudizi:
(a) costituiscono danni non patrimoniali indistinguibili
dalle sofferenze morali;
(b) di essi si deve debitamente tenere conto nella liquida‑
zione del (unico ed unitario) danno morale, e non possono
essere liquidati a parte ed in aggiunta rispetto agli altri danni
non patrimoniali.
Queste conclusioni sono state condivise dalla S.C., la qua‑
le – intervenuta a precisare il senso e la portata del revirement
inaugurato da Cass. 8828/03, cit., ha chiaramente affermato
che “non esiste la categoria del c.d. danno esistenziale, essendo,
invece risarcibili le lesioni di specifici valori costituzionalmen‑
te protetti” (così, testualmente, Cass. 29.7.2004 n. 14488, in
Dir. e giust., 2004, § 6.4 dei Motivi della decisione, e nello
stesso senso, più di recente, Cass. 9.11.2006 n. 23918, inedita,
§§ 2.1 e ss. dei “Motivi della decisione” e ancora più di recen‑
te Cassazione civile, sezioni unite, 11 novembre 2008, n. 26972:
“Il danno non patrimoniale è categoria generale non suscet‑
tiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate.
In particolare, non può farsi riferimento ad una generica
sottocategoria denominata danno esistenziale perché attra‑
verso questa si finisce per portare anche il danno non patri‑
moniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione
della apparente tipica figura categoriale del danno esistenzia‑
le, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamen‑
te previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di
danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore
ordinario né è necessitata dall’interpretazione costituzionale
dell’art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarci‑
toria di specifici valori della persona presidiati da diritti in‑
violabili secondo Costituzione. Il riferimento a determinati
tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale,
danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale),
risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconosci‑
mento didistinte categorie di danno. È compito del giudice
accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a
prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali riper‑
cussioni negative sul valore‑uomo si siano verificate e prov‑
vedendo alla loro integrale riparazione”.
Danni riflessi per lesioni riportate dalla figlia Caia
Per quanto riguarda il danno non patrimoniale del geni‑
tore, va osservato che la Suprema Corte ammette oggi la ri‑
sarcibilità del danno da lesione della serenità familiare a se‑
guito di un attentato all’integrità fisica e morale di un con‑
giunto.
Tale danno ha caratteristiche peculiari relativamente
all’oggetto giuridico protetto, che non è il bene salute (risar‑
cibile in termini di danno biologico in caso di lesione dell’in‑
tegrità biopsichica), né l’integrità morale (risarcibile come
danno morale soggettivo per l’ingiusta sofferenza contingen‑
te), ma un bene diverso e, precisamente, quello dell’ “intangi‑
bilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà
nell’ambito della famiglia” che trova tutela a livello costitu‑
zionale (artt. 2, 29 e 30).
c i v i l e
Gazzetta
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“Il riconoscimento dei “diritti della famiglia” (art. 29,
comma, Cost.) va invero inteso non già, restrittivamente,
come tutela delle estrinsecazioni della persona nell’ambito
esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di carattere me‑
ramente interno, ma nel più ampio senso di modalità di rea‑
lizzazione della vita stessa dell’individuo alla stregua dei va‑
lori e dei sentimenti che il rapporto parentale ispira, generan‑
do bensì bisogni e doveri, ma dando anche luogo a gratifica‑
zioni, supporti, affrancazioni e significati” (così, Cass. 31
maggio 2003 n. 8827).
La Suprema Corte, peraltro, colloca tale interesse, di ri‑
lievo costituzionale, non avente natura economica, nell’area
dell’art. 2059 cod. civ., svincolandolo, però, dal limite ivi
previsto della correlazione all’art. 185 cod. pen., consentendo
cioè la risarcibilità di tale danno anche al di fuori dell’ipotesi
di reato in presenza, come si è detto, di una lesione di diritti
fondamentali della persona.
Ciò premesso, sotto il profilo del nesso di causalità, siffat‑
ta lesione deriva direttamente ed immediatamente dal mede‑
simo fatto illecito perpetrato contro la vittima diretta: l’ille‑
cito, cosiddetto “plurioffensivo”, è idoneo a ledere contempo‑
raneamente i diritti di soggetti diversi, quello all’integrità fi‑
sica e morale, proprio della vittima primaria, e quello all’in‑
tangibilità delle relazioni famigliari ed affettive, proprio dei
congiunti della vittima. Si tratta di lesione considerata preve‑
dibile, rientrando nella normalità che la vittima sia inserita in
un nucleo familiare.
Il danno è rappresentato dalla limitazione del godimento
del congiunto, privato della possibilità di esprimere appieno
le sue risorse umane, materiali ed affettive, secondo le varie
modalità con le quali le reciproche relazioni interpersonali
normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare: si
distingue, dunque, dal danno morale soggettivo, che è un
danno contingente, in quanto si proietta nel futuro e può es‑
sere risarcito unitamente a quest’ultimo senza che sia ravvisa‑
bile una duplicazione di risarcimento. Per quanto l’onere della
prova di tale disagio e turbamento, in termini di intensità e
persistenza, sia a carico della parte che lo allega, va conside‑
rato che, proprio per il fatto che il godimento del congiunto si
esplica nel tempo, la dimostrazione potrà essere data attraver‑
so l’impiego di valutazioni prognostiche e di presunzioni rica‑
vabili dalle circostanze dedotte e la liquidazione, di tipo evi‑
dentemente equitativo, terrà conto “dell’intensità del vincolo
famigliare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore
circostanza, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo
famigliare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli
superstiti” (così, Cass. 31 maggio 2003 n.8828).
La risarcibilità di tale danno (c.d. riflesso o di rimbalzo),
derivante dalla lesione di diritti di soggetti diversi dalla vitti‑
ma primaria dell’illecito, ma che hanno con quest’ultima una
significativa relazione affettiva, viene ritenuta ammissibile
non soltanto in caso di morte, ma anche in caso di sopravvi‑
venza alle lesioni del soggetto direttamente colpito, purché la
sofferenza si presenti come effetto normale dell’illecito secon‑
do un criterio di regolarità causale (Cass. S.U. 22 maggio 2002
n. 9556 e Cass. 23 aprile 1998 n. 4186).
Nella fattispecie, oltre al perturbamento generato in Tizia
dall’apprendere che l’unico prossimo congiunto sopravvissuto
al tragico evento fosse gravemente ferito, va risarcito anche il
danno non patrimoniale sopportato dal genitore nella fase
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MARZO • APRILE
successiva dei ricoveri ospedalieri, delle cure e terapie cui
Caia è stata costretta a sottoporsi, con conseguente radicale
modificazione delle normali relazioni interne ed esterne.
Per la liquidazione di tale danno nel suo complesso, si ri‑
tiene opportuno, in conformità con i più recenti orientamen‑
ti in materia volti a promuovere criteri tendenzialmente uni‑
formi di liquidazione del danno alla persona, svincolare la
quantificazione dal riferimento alla percentuale del danno
biologico subìto dalla vittima primaria a favore di una valu‑
tazione equitativa che privilegi essenzialmente il legame tra
vittima primaria e vittime secondarie e la concreta alterazio‑
ne della vita famigliare. In tale prospettiva, tenuto conto
dell’intensità dei legami familiari (Caia era ancora convivente
con la madre), della giovane età della stessa (13 anni), nonché
di quella della madre (32), si reputa equo liquidare l’importo
di Euro 10.000,00.
Essendo stata effettuata la liquidazione di cui sopra all’at‑
tualità, sulla somma anzidetta, devalutata
alla data del sinistro e rivalutata anno per anno secondo
gli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di impie‑
gati ed operai, sono dovuti in adesione all’orientamento della
S.C. (S.U. n. 1712/1995) gli interessi nella misura legale a
partire dalla data del sinistro fino al saldo.
Spettano ovviamente gli interessi legali sulla suindicata
somma liquidata dalla pubblicazione della presente pronuncia
sino al soddisfo effettivo.
Infatti, per effetto della pubblicazione della sentenza che
provvede sulla liquidazione del danno, l’obbligazione risarci‑
toria, che è debito di valore, si trasforma in debito di valuta
(cfr. Cass. 10.10.1988 n. 5465).
Danni patrimoniali
Danno patrimoniale patito per effetto del decesso del figlio
Non è accoglibile la domanda con la quale Tizia chiede il
risarcimento del danno da lucro cessante relativo alla quota
di guadagni futuri che il figlio, una volta abile al lavoro,
avrebbe destinato al nucleo familiare di origine.
Si è ritenuto che (con riguardo al risarcimento del danno
futuro sofferto dai familiari per la morte di un congiunto ed
in particolare alla privazione della legittima aspettativa dei
genitori ad un contributo economico da parte del figlio pre‑
maturamente scomparso) è necessario (per il riconoscimento
del danno patrimoniale futuro da lucro cessante) che le circo‑
stanze del caso permettano di ritenere probabile, e non sol‑
tanto possibile, l’anzidetto danno futuro (Cassazione civile,
sez. III, n. 8002‑05, in Guida dir., n. 23‑05, p. 57, richiede
una ragionevole previsione, affidata ad un criterio di ponde‑
rata probabilità), sicché il risarcimento deve di regola esclu‑
dersi in rapporto ai futuri risparmi che il defunto avrebbe
realizzato, dovendo ritenersi probabile che il medesimo si
sarebbe formato una famiglia i cui membri avrebbero avuto
esclusivamente diritto sui risparmi del loro genitore e marito
(Cassazione civile, sez. III, n. 11097‑92, in Giust. civ. Mass.,
1992, fasc. 10).
Nei casi di specie, per negare il risarcimento del danno
patrimoniale futuro da lucro cessante basta evidenziare che
non sono state fornite le prove dalle quali si possa evincere un
sufficiente grado di probabilità circa la destinazione all’attri‑
ce dei futuri guadagni percepiti dalla giovanissima vittima.
Secondo ciò che comunemente accade, è anzi ragionevole
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la previsione secondo la quale sarebbe stato ancora il nucleo
familiare di origine a dover sostenere il minore il quale poi,
raggiunta la piena indipendenza economica, avrebbe proba‑
bilmente destinato i suoi guadagni alla formazione di una
propria famiglia.
Per opinare diversamente sarebbero state necessarie prove
anche indiziarie di segno diverso, in mancanza delle quali le
mere ipotesi a nulla valgono.
Ed invero, “i genitori di persona minore d’età, deceduta
in conseguenza dell’altrui atto illecito, ai fini della liquida‑
zione del danno patrimoniale futuro provocato dalla frustra‑
zione dell’aspettativa a un contributo economico da parte del
familiare prematuramente scomparso, hanno l’onere di alle‑
gare e provare che il figlio deceduto avrebbe verosimilmente
contribuito ai bisogni della famiglia. A tal fine la previsione
va operata sulla base di criteri ragionevolmente probabilisti‑
ci, non già in via astrattamente ipotetica, ma alla luce delle
circostanze del caso concreto, conferendo rilievo alla condi‑
zione economica dei genitori sopravvissuti, all’età loro e del
defunto, alla prevedibile entità del reddito di costui, doven‑
dosi escludere che sia sufficiente la sola circostanza che il
figlio deceduto avrebbe goduto di un reddito proprio” (cfr
Cassazione civile, sez. III, 03/04/2008, n. 8546).
Pertanto, la domanda va reietta.
Danno patrimoniale per effetto del decesso del coniuge
Diversamente è a dirsi in relazione alla prematura scom‑
parsa del marito.
Deve, infatti, affermarsi la spettanza del risarcimento
dello stesso a favore dell’attrice in base a presunzioni sempli‑
ci che consentono di ritenere che anche nella famiglia del
defunto, secondo “l’id quod plerumque accidit”, il reddito del
capo‑famiglia, detratta una quota destinata a sé (quota sibi),
venisse destinato in una certa aliquota al nucleo familiare, che
risente, quindi di pregiudizio a seguito del venir meno, per
l’uccisione, del produttore di reddito.
Così, la giurisprudenza afferma che il raggiungimento da
parte dei figli della maggiore età e dell’idoneità al lavoro pro‑
duttivo non segna un limite invalicabile alla risarcibilità del
danno derivato dalla morte del genitore, stante il permanere
dell’aspettativa dei superstiti di poter beneficiare degli even‑
tuali risparmi che il defunto avrebbe costituito con la parte di
reddito non destinata a proprie spese o alla famiglia.
Pertanto si spiega l’irrilevanza della circostanza che even‑
tualmente Tizia abbia svolto o svolga attività lavorativa, po‑
tendo una siffatta circostanza incidere solo su una eventuale
maggiore destinazione di risorse al “menage”, non anche a
ridurre l’importanza del contributo ad esso del defunto.
Nel liquidare il danno patrimoniale subito dagli eredi di
persona deceduta in conseguenza dell’altrui atto illecito, danno
pari alla perdita della quota di reddito che il defunto destinava
stabilmente alla propria famiglia, il giudice di merito, anche
qualora ricorra ad un calcolo parametrico soltanto per indiriz‑
zare l’esercizio dell’equità giudiziale – ha l’onere di indicare
anzitutto il reddito da porre a base del calcolo liquidatorio.
Determinato il reddito disponibile, al netto delle imposte,
presumibilmente conseguibile dall’estinto nel corso della sua
vita lavorativa, va poi effettuato un secondo computo diretto
alla quantificazione della parte di questo reddito che sarebbe
stata destinata ai familiari.
civile
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p r o c e d u r a
Tale quota reddituale va poi assoggettata poi a capitaliz‑
zazione sulla base di un coefficiente correlato all’età del de‑
funto, apportando o meno – secondo l’apprezzamento del
giudice del merito – un correttivo di una riduzione per scarto
tra vita fisica e vita lavorativa, correttivo che può anche omet‑
tersi onde tener conto dei cambiamenti intervenuti nell’aspet‑
tativa di vita quando la liquidazione del danno ai superstiti è
operata mediante l’applicazione delle tabelle di cui al r.d. 9
ottobre 1922 n. 1403.
Il giudice deve utilizzare il coefficiente corrispondente alla
maggiore età tra quella della vittima e quella del superstite
danneggiato nel momento in cui si è verificato il pregiudizio
patrimoniale ed in cui, quindi, ha avuto o avrà inizio la per‑
dita del reddito dalla quale è derivato il danno da liquidare.
Per quanto attiene al concorso tra coniuge e figli in ordine
alla quota di reddito dell’altro coniuge defunto, nel riparto
della capitalizzazione della quota di reddito del coniuge dece‑
duto va tenuto conto che, dal momento dell’allontanamento
del figlio dalla famiglia, la sua quota si riversa in favore del
coniuge superstite.
Una precisazione si impone.
Nella fattispecie va fatta rientrare anche Caia, sebbene
sola figlia di Tizia, e non anche del compianto coniuge di
questa ultima.
Invero, l’avvenuta unione nel vincolo del matrimonio tra
Tizia e, lascia presumere con evidente certezza che la quota
destinata dal coniuge per le necessità della famiglia venisse
destinata anche alle esigenze di Caia.
Nell’applicare i predetti principi, va tenuto conto che,
come risulta dalla busta paga del defunto prodotta agli atti
questi nell’ultimo integrale mese lavorativo (novembre 1999)
aveva percepito un reddito netto di euro 1.043,76 (lire
2.021.000).
Può quindi ritenersi che il reddito annuo disponibile del
defunto, in caso di naturale prosieguo del rapporto lavorativo,
al momento della morte, sarebbe stato di euro 12.525,12.
Tenuto conto delle spese di produzione del reddito (tra‑
sporti, vitto, ecc.) di cui si tiene solo parzialmente conto nelle
detrazioni fiscali (che si traducono in minor carico di impo‑
sta), può ritenersi che detto reddito disponibile si riducesse a
€. 9.000.00, per cui, detratta alla luce della composizione
della famiglia una quota “sibi” di 1/3 (non si può tener conto
invero in tale fase della presenza del figlio defunto), può
quantificarsi in cifra tonda in euro 6.000,00 la quota di red‑
dito netto destinata alla famiglia.
La somma va moltiplicata, onde operarne la capitalizza‑
zione, per il coefficiente di 176.79 previsto per l’età di 32
anni (32.6 per la tabella) del coniuge superstite (in quanto più
anziano) dalla tabella di cui al r.d. 9 ottobre 1922 n. 1403:
l’importo capitalizzato risulta quindi di euro. La somma va
moltiplicata, onde operarne la capitalizzazione, per il coeffi‑
ciente di 176.79 previsto per l’età di 32 anni (32.6 per la ta‑
bella) del coniuge superstite (in quanto più anziano) dalla
tabella di cui al r.d. 9 ottobre 1922 n. 1403: l’importo capi‑
talizzato risulta quindi di euro 106.074,00.
Può omettersi di detrarre dal risultato definitivo la per‑
centuale pari allo scarto fra vita fisica e vita lavorativa, al
fine di adeguare gli indici di cui alla citata tabella all’incre‑
mento attuale della vita media.
Detto importo va ripartito tra gli aventi diritto tenuto
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
conto del predetto riversamento a favore del coniuge supersti‑
te della quota di reddito di spettanza di Caia a far tempo dal
suo allontanamento. Il computo può effettuarsi in proporzio‑
ne al numero di anni per i quali sarebbe sussistito il concorso
di più aventi diritto, fino all’allontanamento della medesima,
da stimarsi all’età di anni 25.
Tenuto quindi conto che al momento del sinistro (1999) il
sig. (nato nel 1971) avrebbe avuto un’aspettativa di vita di 42
anni (in relazione alle notorie emergenze demografiche
dell’epoca, oggi ancora migliorate), mentre Caia (nata nel
1986) aveva una presumibile residua convivenza dinanzi a sé
di 12 anni, il riparto può effettuarsi come segue: suddiviso
l’importo in 42 annualità (da ipotizzarsi costanti), sulle prime
dodici vanno fatte concorrere (in quote eguali) Caia e Tizia,
sulle residue la sola Tizia.
Ne deriva che a Tizia spetta ½ di 12/42, nonché 30/42
della predetta somma di euro 106.074,00, pari ad euro
90.924,42 (pari ad euro 15.153,42 più euro 75.767,10).
Essendo stata effettuata la liquidazione di cui sopra all’at‑
tualità, sulla somma anzidetta, devalutata
alla data del sinistro e rivalutata anno per anno secondo
gli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di impie‑
gati ed operai, sono dovuti in adesione all’orientamento della
S.C. (S.U. n. 1712/1995) gli interessi nella misura legale a
partire dalla data del sinistro fino al saldo.
Spettano ovviamente gli interessi legali sulla suindicata
somma liquidata dalla presente pronuncia sino al soddisfo
effettivo.
Infatti, per effetto del passaggio in giudicato della senten‑
za che provvede sulla liquidazione del danno, l’obbligazione
risarcitoria, che è debito di valore, si trasforma in debito di
valuta (cfr. Cass. 10.10.1988 n. 5465).
Posizione di Caia
Anch’ella, come la madre Tizia, da un lato, lamenta dan‑
ni derivanti dal proprio coinvolgimento diretto nel sinistro e
dall’altro, danni derivanti dalla perdita del fratello unilatera‑
le e del marito del genitore.
Danni patiti per effetto del coinvolgimento del sinistro
Dagli atti di causa (cfr verbale Polizia stradale sopraggiun‑
ta sui luoghi nell’immediatezza dei fatti) emerge che l’attrice
viaggiava, in qualità di trasportata sul sedile posteriore,
sull’autovettura condotta dal coniuge di Tizia.
Per effetto del violento impatto frontale con l’autovettura
Mercedes, riportava svariate lesioni.
Richiamato quanto detto prima in ordine alle cause che
determinarono il sinistro e alla relativa graduazione di respon‑
sabilità, è risarcibile il danno biologico subito dall’interventrice
in seguito al sinistro in oggetto connesso alla invalidità perma‑
nente, inteso, secondo la nozione ormai generalmente condivi‑
sa in giurisprudenza, come menomazione dell’integrità della
persona in sè e per sè considerata, in quanto incidente sul valo‑
re uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esauri‑
sca nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega
alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell’am‑
biente in cui la vita si esplica ed aventi rilevanza non solo eco‑
nomica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica.
Vanno a tal riguardo condivise le conclusioni cui è giunto
il c.t.u..
F O R E N S E
MARZO • APRILE
Riferisce il C.T.U. che dall’analisi dei dati anamnestici e
dalla lettura dei documenti acquisiti si perviene all’identifica‑
zione del nesso di causalità delle lesioni e dei postumi riscon‑
trati con l’evento traumatico per cui è causa.
Tali lesioni, secondo il consulente di ufficio, hanno deter‑
minato uno stato di malattia della durata di centoventi giorni
così suddivisibili: l)una ITT al 100% di giorni settanta; 2) una
ITP al 50% di giorni settanta). Infine, il CTU ha valutato
postumi solo sotto il profilo del danno biologico, nella misu‑
ra del 13%.
Per il risarcimento di siffatto danno questo giudice farà
ricorso alle tabelle di liquidazione del danno biologico in uso
presso il Tribunale di Milano (rivalutate al giugno 2009).
Si richiama quanto detto in precedenza in ordine ai prin‑
cipi ispiratori della predetta tabella.
Tenuto conto dell’età della vittima al momento del sinistro
(anni 13) e del tasso di invalidità riconosciuto dal ctu (13%),
spetterà all’attrice la somma di euro 35.935,00.
La tabella riconosce la possibilità di un incremento nella
misura massima del 46% in caso di ricorrenza di specifiche e
concrete circostanze che inducano ad una diversa liquidazio‑
ne e atte a renderla più aderente al caso concreto.
La giovanissima età della vittima, la circostanza che sia
stata sottoposta ad intervento chirurgico (con conseguente
maggiore stress), il fatto che le lesioni abbiano interessato
altresì elementi dentari (con indubbia maggiore penosità per
una giovane persona di sesso femminile), sono tutte circostan‑
ze che inducono a ritenere equo un incremento nella fattispe‑
cie della misura del 15% (per un totale complessivo di euro
41.324,50).
A tale somma deve aggiungersi quanto dovuto per l’inva‑
lidità permanente, riconosciuta al ctu al 100% per giorni
settanta (pari ad euro 6.160,00) e al 50% per giorni settanta
(pari ad euro 3.080,00), per un totale complessivo, unitamen‑
te a quanto riconosciuto a titolo di danno biologico, pari ad
euro 50.564,50.
Inoltre, a titolo di danno emergente, spetta la somma di
euro 6.000,00 pari al costo delle spese odontoiatriche cui
sottoporsi nel corso di tutta la vita (cfr conclusioni ctu,
dott.).
Nulla spetta per la dedotta riduzione della capacità lavo‑
rativa specifica, espressamente esclusa dal ctu.
Essendo stata effettuata la liquidazione di cui sopra all’at‑
tualità, sulle somme anzidette, devalutate
alla data del sinistro e rivalutata anno per anno secondo
gli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di impie‑
gati ed operai, sono dovuti in adesione all’orientamento della
S.C. (S.U. n. 1712/1995) gli interessi nella misura legale a
partire dalla data del sinistro fino al saldo.
Spettano ovviamente gli interessi legali sulla suindicata
somma liquidata dalla pubblicazione della presente pronuncia
sino al soddisfo effettivo.
Infatti, per effetto della pubblicazione della sentenza che
provvede sulla liquidazione del danno, l’obbligazione risarci‑
toria, che è debito di valore, si trasforma in debito di valuta
(cfr. Cass. 10.10.1988 n. 5465).
Danni riflessi per lesioni riportate dalla madre Tizia
La Suprema Corte ammette oggi la risarcibilità del danno
da lesione della serenità familiare a seguito di un attentato
2 0 1 2
61
all’integrità fisica e morale di un congiunto.
Tale danno ha caratteristiche peculiari relativamente
all’oggetto giuridico protetto, che non è il bene salute (risar‑
cibile in termini di danno biologico in caso di lesione dell’in‑
tegrità biopsichica), né l’integrità morale (risarcibile come
danno morale soggettivo per l’ingiusta sofferenza contingen‑
te), ma un bene diverso e, precisamente, quello dell’ “intangi‑
bilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà
nell’ambito della famiglia” che trova tutela a livello costitu‑
zionale (artt. 2, 29 e 30).
“Il riconoscimento dei “diritti della famiglia” (art. 29,
comma, Cost.) va invero inteso non già, restrittivamente,
come tutela delle estrinsecazioni della persona nell’ambito
esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di carattere me‑
ramente interno, ma nel più ampio senso di modalità di rea‑
lizzazione della vita stessa dell’individuo alla stregua dei va‑
lori e dei sentimenti che il rapporto parentale ispira, generan‑
do bensì bisogni e doveri, ma dando anche luogo a gratifica‑
zioni, supporti, affrancazioni e significati” (così, Cass. 31
maggio 2003 n. 8827).
La Suprema Corte, peraltro, colloca tale interesse, di ri‑
lievo costituzionale, non avente natura economica, nell’area
dell’art. 2059 cod. civ., svincolandolo, però, dal limite ivi
previsto della correlazione all’art. 185 cod. pen., consentendo
cioè la risarcibilità di tale danno anche al di fuori dell’ipotesi
di reato in presenza, come si è detto, di una lesione di diritti
fondamentali della persona.
Ciò premesso, sotto il profilo del nesso di causalità, siffat‑
ta lesione deriva direttamente ed immediatamente dal mede‑
simo fatto illecito perpetrato contro la vittima diretta: l’ille‑
cito, cosiddetto “plurioffensivo”, è idoneo a ledere contempo‑
raneamente i diritti di soggetti diversi, quello all’integrità fi‑
sica e morale, proprio della vittima primaria, e quello all’in‑
tangibilità delle relazioni famigliari ed affettive, proprio dei
congiunti della vittima. Si tratta di lesione considerata preve‑
dibile, rientrando nella normalità che la vittima sia inserita in
un nucleo familiare.
Il danno è rappresentato dalla limitazione del godimento
del congiunto, privato della possibilità di esprimere appieno
le sue risorse umane, materiali ed affettive, secondo le varie
modalità con le quali le reciproche relazioni interpersonali
normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare: si
distingue, dunque, dal danno morale soggettivo, che è un
danno contingente, in quanto si proietta nel futuro e può es‑
sere risarcito unitamente a quest’ultimo senza che sia ravvisa‑
bile una duplicazione di risarcimento. Per quanto l’onere della
prova di tale disagio e turbamento, in termini di intensità e
persistenza, sia a carico della parte che lo allega, va conside‑
rato che, proprio per il fatto che il godimento del congiunto si
esplica nel tempo, la dimostrazione potrà essere data attraver‑
so l’impiego di valutazioni prognostiche e di presunzioni rica‑
vabili dalle circostanze dedotte e la liquidazione, di tipo evi‑
dentemente equitativo, terrà conto “dell’intensità del vincolo
famigliare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore
circostanza, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo
famigliare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli
superstiti” (così, Cass. 31 maggio 2003 n.8828).
La risarcibilità di tale danno (c.d. riflesso o di rimbalzo),
derivante dalla lesione di diritti di soggetti diversi dalla vitti‑
ma primaria dell’illecito, ma che hanno con quest’ultima una
civile
Gazzetta
62
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
significativa relazione affettiva, viene ritenuta ammissibile
non soltanto in caso di morte, ma anche in caso di sopravvi‑
venza alle lesioni del soggetto direttamente colpito, purché la
sofferenza si presenti come effetto normale dell’illecito secon‑
do un criterio di regolarità causale (Cass. S.U. 22 maggio 2002
n. 9556 e Cass. 23 aprile 1998 n. 4186).
Nella fattispecie, oltre al perturbamento generato in Caia
dall’apprendere che l’unico genitore esistente (è agevole pre‑
sumere che la parte, portando lo stesso cognome della madre,
non sia stata riconosciuta dal padre) fosse gravemente ferita,
va risarcito anche il danno non patrimoniale sopportato dal
fatto che, a causa delle lesioni riportate dalla madre, è stata
privata del necessario sostegno affettivo e morale che solo una
madre può dare ad una figlia di così tenera età, nel corso dei
ricoveri e della lunga convalescenza affrontata.
Per la liquidazione di tale danno nel suo complesso, si ri‑
tiene opportuno, in conformità con i più recenti orientamen‑
ti in materia volti a promuovere criteri tendenzialmente uni‑
formi di liquidazione del danno alla persona, svincolare la
quantificazione dal riferimento alla percentuale del danno
biologico subìto dalla vittima primaria a favore di una valu‑
tazione equitativa che privilegi essenzialmente il legame tra
vittima primaria e vittime secondarie e la concreta alterazio‑
ne della vita famigliare. In tale prospettiva, tenuto conto
dell’intensità dei legami familiari (Caia era ancora convivente
con la madre), della giovane età della stessa (13 anni), nonché
di quella della madre (32), si reputa equo liquidare l’importo
di Euro 15.000,00.
Essendo stata effettuata la liquidazione di cui sopra all’at‑
tualità, sulla somma anzidetta, devalutata
alla data del sinistro e rivalutata anno per anno secondo
gli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di impie‑
gati ed operai, sono dovuti in adesione all’orientamento della
S.C. (S.U. n. 1712/1995) gli interessi nella misura legale a
partire dalla data del sinistro fino al saldo.
Spettano ovviamente gli interessi legali sulla suindicata
somma liquidata dalla pubblicazione della presente pronuncia
sino al soddisfo effettivo.
Infatti, per effetto della pubblicazione della sentenza che
provvede sulla liquidazione del danno, l’obbligazione risarci‑
toria, che è debito di valore, si trasforma in debito di valuta
(cfr. Cass. 10.10.1988 n. 5465).
Danno derivante dalla morte del fratello
Parte attrice ha domandato il ristoro:
a) del “danno esistenziale”;
b) del danno morale.
Le richieste non fanno che attribuire nomi diversi alla
medesima realtà fenomenica: e cioè la sofferenza causata
dalla perdita di una persona cara.
È infatti convinzione di questo Tribunale che il danno non
patrimoniale derivante dalla morte di un congiunto costituisca
una categoria ampia ed omnicomprensiva, all’interno della
quale non sia possibile operare sottodistinzioni. È certamente
doveroso per il giudice tenere conto di tutte le ripercussioni
che – per quanto dedotto e provato – il lutto ha prodotto sul‑
la vita degli attori, ma ciò non vuol dire che ogni conseguenza
negativa costituisca di per sé una categoria di danno.
Non può che essere unico il pregiudizio non patrimoniale
che l’evento stressante può causare.
Per la nostra legge, la distinzione tra i vari tipi di danno si
c i v i l e
Gazzetta
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fonda sulla summa divisio tra i pregiudizi che attingono il pa‑
trimonio (art. 2043 c.c.), e quelli che vulnerano qualsiasi valo‑
re non suscettibile di valutazione patrimoniale (art. 2059 c.c.).
All’interno di questi ultimi, l’unica distinzione possibile alla
stregua dell’ordinamento positivo è quella tra i danni alla sa‑
lute (art. 138‑139 d. lg. 209/05) e gli altri pregiudizi non patri‑
moniali. Di conseguenza non è coerente col dettato normativo
qualsiasi ricostruzione dogmatica che pretenda di dividere il
danno non patrimoniale in ulteriori categorie autonome.
Il danno non patrimoniale da lutto è un genus senza spe‑
cies, i cui effetti concreti possono e debbono essere tenuti in
considerazione dal giudice per modulare il risarcimento che è
e deve restare unitario, e non già per duplicare o triplicare le
categorie di danno, aggravando inutilmente la posizione del
debitore.
La liquidazione del danno non patrimoniale derivanti
dalla morte di un congiunto, quale conseguenza di un fatto
illecito del terzo, sfugge per sua natura ad una valutazione
economica vera e propria, e può compiersi soltanto col ricor‑
so a criteri equitativi (art. 1226 c.c.), in relazione a conside‑
razioni soggettive quali l’età della vittima, il grado di paren‑
tela, le particolari condizioni della famiglia.
Questo Tribunale, ritiene di dover far ricorso, per l’indub‑
bia innovatività e specificità che le contraddistingue, alle
Tabelle di liquidazione predisposte specificamente per il risto‑
ro del danno da morte di un prossimo congiunto dal Tribu‑
nale di Roma.
Invero, il tribunale capitolino in passato, per liquidare il
danno in questione faceva ricorso ad un criterio equitativo
puro, rivelatosi però poco efficiente sul piano dell’equità di‑
stributiva, in quanto non consentiva di serbare nel tempo
memoria storica delle decisioni pregresse, e quindi di trattare
in modo uguale i casi uguali.
A partire dal 1995 si decise perciò di adottare una “tabel‑
la”, e cioè una indicazione di massima di valori monetari di‑
stinti per “fattispecie”, vale a dire variabili secondo le tipolo‑
gie di danni espressamente previste nella tabella stessa (ad es.,
perdita del coniuge, perdita del figlio, ecc.).
Questo sistema, pur avendo garantito una maggiore pari‑
tà di trattamento, ha tuttavia anch’esso palesato degli aspetti
critici. Per un verso, infatti, nelle tipologie di danni elencate
in tabella non comparivano tutte le possibili combinazioni;
per altro verso i fattori di correzione erano troppo pochi
(solo due: la convivenza col defunto e la presenza o meno di
altri congiunti conviventi col superstite). Ciò ha comportato
un frequente ricorso da parte del giudice alla “personalizza‑
zione” dei valori risultanti dalla Tabella, e di conseguenza un
ritorno per questa via al criterio dell’equità pura, con le già
ricordate conseguenze negative insite in tale sistema.
È per queste ragioni che dal gennaio del 2007 il Tribuna‑
le di Roma ha deciso di conservare una tabella di riferimento
stabilita ex ante in via equitativa per la liquidazione del dan‑
no non patrimoniale da morte, ma di abbandonare nel con‑
tempo l’impostazione “per fattispecie”, e di adottarne una del
tutto nuova, e cioè “a punti”.
L’idea che sta alla base della nuova tabella è che anche la
sofferenza causata dal lutto può graduarsi secondo una scala
di intensità, variabile in funzione di molteplici fattori desunti
da massime di esperienza e dall’ id quod plerumque accidit:
l’età della vittima (in quanto la sofferenza è tanto più alta
F O R E N S E
MARZO • APRILE
quanto minore è l’età della vittima); l’età del superstite (in
quanto la sofferenza dovrà essere sopportata per un periodo
di tempo tanto maggiore quanto più giovane è il superstite);
la convivenza col defunto.
Ciascuno di questi fattori, a sua volta, può essere gradua‑
to secondo una scala di intensità: il grado di parentela può
essere più o meno intenso, l’età della vittima o del superstite
possono essere più o meno avanzate, sia in assoluto che in
rapporto tra loro, e così via.
Sulla base di questa considerazione si è ritenuto di:
(a) attribuire un punteggio variabile secondo una scala di
intensità predeterminata a ciascuna delle circostanze di fatto
teoricamente rilevanti per la liquidazione del danno;
(b) stabilire un valore monetario di base per ogni singolo
punto di “sofferenza”, ricavato dalla media armonica delle
precedenti pronunce del Tribunale di Roma;
(c) ricavare il risarcimento moltiplicando il valore di base
del punto di “sofferenza” per il numero di punti totalizzati,
secondo le caratteristiche del caso concreto.
I vantaggi di questo sistema sono:
(a) in primo luogo, la sua maggiore aderenza alle circo‑
stanze del caso concreto, attraverso la previsione di un arti‑
colato numero di circostanze (prima fra tutte, l’età della vit‑
tima e del sopravvissuto, in passato non prese in considera‑
zione dalle tabelle, il che poteva comportare il rischio che ad
un bimbo di 6 anni che perdeva la madre di 30 si poteva in
astratto liquidare lo stesso importo rispetto ad un pensionato
di 70 anni che perdeva la madre novantenne);
(b) in secondo luogo, la sua modularità: il sistema a punti
consente di ampliare o restringere in qualsiasi momento le
circostanze di cui tenere conto nella liquidazione del danno,
aggiungendo alla tabella ulteriori voci – a seconda, ad es., del
mutare della coscienza sociale o della comune sensibilità ‑,
fermo restando il valore monetario di base del punto.
Il valore base del punto di “sofferenza” è stato stabilito in
via equitativa in 8.000 euro, ed è stato determinato sulla base
della media di un campione di 100 sentenze depositate dalla XIII
sezione civile del tribunale capitolino negli anni 2004‑2005.
Tale valore, è da ritenersi comprensivo degli effetti pregiu‑
dizievoli che normalmente il lutto produce sui congiunti della
vittima (mera tristezza, perdita dell’affectio familiaris, forzo‑
so mutamento delle abitudini di vita, ecc.). Ciò vuol dire che
la tabella, ed i valori in essa indicati, debbono tendenzialmen‑
te essere riguardati come parametri di riferimento omnicom‑
prensivi, nella determinazione dei quali si è già tenuto conto
di tutte le normali e ragionevolmente prevedibili conseguenze
di un lutto.
La tabella di cui si è detto è riassumibile nel seguente
quadro sinottico:
Liquidazione del danno non patrimoniale da morte
Tabella dei punti
(la liquidazione avviene moltiplicando il n. di punti per
8.000)
‑ Rapporto tra vittima e sopravvissuto: perdita del figlio (20)
‑ perdita del genitore(18;)
‑ perdita del coniuge o del convivente (18);
‑ perdita del fratello germano (7);
‑ perdita del fratello unilaterale (6);
‑ perdita dell’avo (6)
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63
‑ perdita del nipote ex filio (5);
‑ perdita del nipote ex fratre (2)
‑ perdita del cugino(2)
Età della vittima (0‑20:4); (21‑40:3) (41‑60:2) (61‑80:1)
(oltre 80:0,5)
Età del congiunto avente diritto al risarcimento: (0‑20:4)
(21‑40:3) (41‑60:2) (61‑80:1) (oltre 80:0,5)
Convivenza tra vittima e congiunto: (vittima e congiunto
convivevano:2); (vittima e congiunto non convivevano:0)
Composizione del nucleo familiare (assenza di altri con‑
giunti conviventi:2; presenza di altri conviventi: 0).
Nel caso di specie, Caia era sorella unilaterale di (punti 6),
la vittima aveva 2 anni al momento del decesso (punti 4), l’in‑
terventrice aveva 13 anni al momento della perdita (punti 4),
vittima e superstite convivevano (cfr stato di famiglia in atti:
punti 2), ed esistevano altri componenti del nucleo familiare.
Pertanto, a tale specifico titolo spetta all’interventrice la
somma di euro 128.00,00.
Essendo stata effettuata la liquidazione di cui sopra all’at‑
tualità, sulla somma anzidetta, devalutata
alla data del sinistro e rivalutata anno per anno secondo
gli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di impie‑
gati ed operai, sono dovuti in adesione all’orientamento della
S.C. (S.U. n. 1712/1995) gli interessi nella misura legale a
partire dalla data del sinistro fino al saldo.
Spettano ovviamente gli interessi legali sulla suindicata
somma liquidata dalla pubblicazione della presente pronuncia
sino al soddisfo effettivo.
Infatti, per effetto della pubblicazione della sentenza che
provvede sulla liquidazione del danno, l’obbligazione risarci‑
toria, che è debito di valore, si trasforma in debito di valuta
(cfr. Cass. 10.10.1988 n. 5465).
Null’altro spetta,a titolo di danno non patrimoniale, ri‑
chiamando anche quanto detto in precedenza circa il danno
esistenziale.
Danno patrimoniale subito per effetto del decesso del coniuge di
Tizia
Richiamato quanto detto in precedenza in ordine alle
modalità di computo e alle ragioni che inducono la scrivente
a ritenere la parte inclusa tra gli aventi diritto a tale specifico
titolo, a Caia spetterà la somma di euro 15.153,42, pari a ½
di 12/42 sulla somma di euro 106.074,00.
Essendo stata effettuata la liquidazione di cui sopra all’at‑
tualità, sulla somma anzidetta, devalutata
alla data del sinistro e rivalutata anno per anno secondo
gli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di impie‑
gati ed operai, sono dovuti in adesione all’orientamento della
S.C. (S.U. n. 1712/1995) gli interessi nella misura legale a
partire dalla data del sinistro fino al saldo.
Spettano ovviamente gli interessi legali sulla suindicata
somma liquidata dalla pubblicazione della presente pronuncia
sino al soddisfo effettivo.
Infatti, per effetto della pubblicazione della sentenza che
provvede sulla liquidazione del danno, l’obbligazione risarci‑
toria, che è debito di valore, si trasforma in debito di valuta
(cfr. Cass. 10.10.1988 n. 5465).
Posizione di Tizio
Dalla lettura degli atti di causa emerge che Tizio viaggia‑
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
va in qualità di trasportato sull’autovettura Fiat Bravo.
Per effetto del sinistro riportava svariate lesioni.
Deduceva, altresì, che per effetto della prolungata assenza
dal lavoro era stato licenziato.
Ha spiegato intervento, pertanto, nel presente giudizio
chiedendo la condanna di tutti i convenuti in solido per il ri‑
storo di tutti i danni patrimoniali e non patiti per effetto del
sinistro di cui è causa.
Danno non patrimoniale
Si condividono al riguardo le conclusioni rassegnate dal
ctu in ordine alla stima del danno biologico riportato dall’in‑
terventore, in quanto motivate e non oggetto di specifica
contestazione (tale non è la constatazione della mera diver‑
genza rispetto alle risultanze della c.t.p.).
Per la stima di tale danno si ricorrerà alle Tabelle di Mi‑
lano (del giugno 2009).
Orbene, rilevato che la parte non ha allegato alcuna circo‑
stanza specifica atta ad orientare una liquidazione personaliz‑
zata del danno, la stessa potrà avvenire in base ai valori stan‑
dard e pertanto, tenuto conto delle risultanze della ctu, del
punto di invalidità riconosciuto (12%), dell’età del danneggiato
all’epoca del sinistro (41 anni), spetta a Tizio, a titolo di ristoro
del danno non patrimoniale la somma di euro 26.879,00.
Nulla spetta per l’invalidità temporanea.
Difatti, è ben noto che: “Nulla compete a titolo di risar‑
cimento del danno da invalidità temporanea al lavoratore
che – rimasto infortunato per fatto illecito del terzo – abbia
continuato a percepire durante il periodo di invalidità la re‑
tribuzione dal proprio datore di lavoro, dato che, sotto
questo specifico profilo, nessuna diminuzione si è prodotta
nella sfera patrimoniale dell’infortunato, salva restando la
prova, a carico del lavoratore, di avere subito altri pregiudi‑
zi economici” (cfr Cassazione civile, sez. III, 28/06/2010,
n. 15385).
Nel caso di specie, dall’analisi delle buste paga prodotte
dalla difesa del datore di lavoro Aversana Gas s.r.l. (esamina‑
bili ai fini della domanda in virtù del principio dell’acquisi‑
zione secondo il quale le risultanze istruttore, comunque ot‑
tenute e quale che sia la parte a iniziativa o a istanza della
quale sono formulate concorrono tutte, indistintamente, alla
formazione del convincimento del giudice, senza che la diver‑
sa provenienza possa condizionare tale formazione in un
senso o nell’altro cfr Cassazione civile, sez. I, 12/08/2010,
n. 18647), risulta evidente che alcuna significativa variazione
di reddito è intervenuta tra il novembre 1999 (ultimo mese
interamente lavorativo) ed i successivi mesi fino al giugno
2000, allorquando riprendeva l’attività lavorativa (vedi de‑
nuncia all’INPS del datore di lavoro del 28 settembre 2000,
ultimo allegato della produzione di parte attrice).
Pertanto la domanda va reietta.
Altresì, infondata, è la domanda con la quale Tizio chiede
il ristoro del danno patrimoniale patito per effetto del licen‑
ziamento a lui intimato nel dicembre 2000.
Sarebbe stato preciso onere di parte attrice comprovare,
così come dedotto, che l’anticipata cessazione del rapporto di
lavoro fosse riconducibile alla prolungata e forzata assenza
dal lavoro.
Ma, come detto, la deduzione è rimasta allo stato di mera
allegazione, anzi forse sconfessata dalla stessa documentazio‑
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
ne acquisita in giudizio dalla quale si evince che egli tornò al
lavoro nel giugno 2000 (questa ultima circostanza, inoltre,
rende destituita di qualsiasi fondamento la richiesta di risar‑
cimento del danno da ridotta capacità lavorativa specifica)e
che il rapporto si risolveva solo sei mesi dopo.
Né la specifica causale addotta da Tizio emerge dal pre‑
avviso di licenziamento prodotto in atti in cui alcun riferi‑
mento si fa alla specifica causale di “eccessiva morbilità”,
legittimante, come noto, il licenziamento per giusta causa (per
superamento del cd periodo di comporto).
Spetta invece la somma di euro 311,00 quale danno emer‑
gente per le spese mediche direttamente correlabili al sinistro,
il cui esborso è stato documentalmente provato.
Quindi, in via definitiva, i convenuti andranno condan‑
nati in solido al pagamento in favore di Tizio della comples‑
siva somma di euro 27.190,00.
Essendo stata effettuata la liquidazione di cui sopra all’at‑
tualità, sulla somma anzidetta, devalutata alla data del sini‑
stro e rivalutata anno per anno secondo gli indici Istat dei
prezzi al consumo per le famiglie di impiegati ed operai, sono
dovuti in adesione all’orientamento della S.C. (S.U.
n. 1712/1995) gli interessi nella misura legale a partire dalla
data del sinistro fino al saldo.
Spettano ovviamente gli interessi legali sulla suindicata
somma liquidata dalla presente pronuncia sino al soddisfo
effettivo.
Infatti, per effetto della pubblicazione della sentenza che
provvede sulla liquidazione del danno, l’obbligazione risarci‑
toria, che è debito di valore, si trasforma in debito di valuta
(cfr. Cass. 10.10.1988 n. 5465).
Posizione di Sempronia
Come già detto nel principio della sentenza a parere della
scrivente appare necessario, per poter serenamente statuire
sulla domanda proposta dalla predetta interventrice, traspor‑
tata sul sedile posteriore della Fiat Bravo in occasione del si‑
nistro de quo, disporre la rinnovazione della ctu medica.
Invero, l’elaborato, nonostante i chiarimenti resi, appare
non adeguatamente motivato.
In particolare, l’ausiliario, in sede di chiarimenti, omette
di dar conto dell’iter logico seguito nella rideterminazione del
punto percentuale di danno biologico.
Riconosce un 5% per un presunto danno psichico, senza
dar conto delle eventuali modalità di accertamento di vera e
propria patologia pschiatrica.
Inoltre, non chiarisce la specifica natura delle lesioni den‑
tarie riportate d Sempronia, omettendo, altresì, di specificare
se per la cura delle medesime la paziente debba in futuro
sottoporsi a ciclici interventi odontoiatrici.
Infine, non ha in alcun modo verificato la congruità ri‑
spetto all’evento di cui è causa delle dedotte spese mediche.
Nell’eventualità che il nuovo ctu ritenesse sussistente, al‑
tresì, un danno alla capacità lavorativa specifica dell’interven‑
trice, si preferisce rimettere all’esito del supplemento d’istrut‑
toria la pronuncia anche sulla domanda per danno patrimo‑
niale.
Posizione di X s.r.l.
La X s.r.l,., in qualità comprovata di datore di lavoro di
Tizio, ha chiesto il risarcimento del danno sofferto per aver
F O R E N S E
MARZO • APRILE
dovuto versare al dipendente assente per malattia a causa
delle lesioni riprovate nell’incidente di cui è causa le relative
indennità prescritte ex lege.
La domanda è fondata.
“Gli esborsi a titolo di retribuzione, effettuati dal datore
di lavoro, in adempimento di un dovere fissato dalla legge o
dal contratto, in favore del dipendente per il periodo di ina‑
bilità temporanea conseguente ad infortunio, e, quindi, senza
ricevere il corrispettivo costituito dalle prestazioni lavorative,
integrano un danno che si ricollega con nesso di causalità a
detto infortunio e come tale deve essere risarcito dal terzo
responsabile del fatto medesimo. Costituiscono componente
di tale danno anche i contributi dovuti dal datore di lavoro
agli enti di assicurazione sociale (., sez. un., n 6132/88 e
Cass. n. 5373/89). Il datore di lavoro agisce dunque per il
risarcimento di un danno direttamente subito per fatto ille‑
cito del terzo” (cfr Cassazione civile, sezione III, sentenza
09/02/2010, n. 2844).
Nel caso in esame la parte ha espressamente limitato la
domanda alle indennità versate a titolo di malattia.
Dall’esame delle buste paga in atti emerge che la somma
versata a tale titolo per il periodo di riferimento è pari ad
euro 5.069,11.
Al pagamento di tale somma (oltre interessi al tasso lega‑
le con decorrenza dal sinistro e fino all’effettivo soddisfo),
sono tenuti i convenuti, in qualità di X in solido con la Assi‑
curazione (invero, la parte ha proposto domanda solo nei
loro confronti).
Domanda riconvenzionale di Mevio
Richiamato quanto detto in precedenza in ordine alla
tardività della costituzione del convenuto, va dichiarata inam‑
missibile in quanto tardiva la domanda riconvenzionale pro‑
posta con comparsa depositata in data 30 dicembre 2005.
Liquidazione definitiva
In via conclusiva, Anas s.p.a., Y Assicurazioni s.p.a., A,B.
C e Mevio, quali eredi di X, vanno condannati in solido al
pagamento delle seguenti somme:
- in favore di Tizia € 349.011,17, da cui detrarre l’importo
di euro 100.000,00 eventualmente già percepito a titolo
di provvisionale giusta ordinanza del 24 gennaio 2006,
oltre interessi e rivalutazione da calcolarsi come indicato
- in parte motiva;
- in favore di Caia la somma di € 214.717,92, oltre interes‑
2 0 1 2
65
si e rivalutazione da calcolarsi come indicato in parte
motiva;
- in favore di Tizio la somma di €27.190,00, oltre interessi e
rivalutazione da calcolarsi come indicato in parte motiva.
Inoltre Y Assicurazioni s.p.a. in solido con A, B., C e
Mevio, quali eredi di X, vanno condannati al pagamento in
favore di X s.r.l. della somma di €5.069,11, oltre interessi al
tasso legale dal sinistro fino all’effettivo soddisfo.
Appare evidente che alcun problema di superamento del
massimale si pone (in ordine al quale, contrariamente a
quanto dedotto da parte attrice: “in materia di assicurazio‑
ne della responsabilità civile derivante dalla circolazione
dei veicoli a motore e dei natanti, ove sorga controversia
circa l’ammontare del massimale assicurativo previsto dal‑
la legge per il veicolo condotto dal responsabile, è onere del
danneggiato, e non dell’assicuratore, dimostrare a quale
categoria appartenesse il veicolo suddetto, mentre – una
volta fornita tale prova – il massimale minimo deve presu‑
mersi noto al giudice in virtù del principio “iura novit cu‑
ria” cfr Cassazione civile, sez. III, 01/10/2009, n. 21057).
Va, altresì, specificato che alcuna prova ha fornito la
convenuta compagnia assicurativa in ordine alla deduzione
secondo la quale avrebbe già versato altre somme in favore di
altri soggetti coinvolti nel medesimo sinistro.
Regime delle spese
Va detto che in applicazione del combinato disposto dei
già menzionati artt. 104, comma secondo e 279, comma se‑
condo, n. 5 c.p.c., la sentenza emessa non è da qualificarsi
come sentenza non definitiva, posto che tutte le domande, ad
eccezione di quella proposta da Sempronia, sono definite, per
cui occorre provvedere sulle spese.
Esse seguono la soccombenza e, non potendosi tener
conto delle note spese depositate in atti in quanto calcolate
con riferimento a scaglione di valore erroneo (da determi‑
narsi ex art. 6 D.M. 127/2004 in base al decisum non al
petitum), si liquidano d’ufficio in dispositivo tenuto conto
del valore dell’attività prestata da ciascuno dei difensori, in
applicazione delle tariffe legai vigenti, con attribuzione ai
procuratori costituti che hanno dichiarato di aver anticipa‑
to le spese, e di non aver ricevuto gli onorari.
Le spese delle ctu espletate in corso di causa vanno poste
in via definitiva a carico dei convenuti in solido in virtù della
loro soccombenza.
(Omissis)
civile
Gazzetta
Diritto e procedura penale
Sequestro preventivo e confisca per equivalente nei reati tributari
69
Luca Semeraro
L’infiltrato: non impedire un evento equivale a cagionarlo?
74
Felice Carbone
Osservazioni in tema di iudex suspectus
79
Carmela Esposito
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
87
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
91
93
penale
Rassegna di legittimità [
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
●
Sequestro preventivo
e confisca per equivalente
nei reati tributari
● Luca Semeraro
Giudice per le indagini preliminari
presso il Tribunale di Perugia
2 0 1 2
69
Sommario: Premessa; 1. Confisca e sequestro preventivo nei
reati tributari; 2. Sulla confisca per equivalente nei reati tri‑
butari; 3. Confisca per equivalente e responsabilità degli enti;
4. Critiche all’orientamento espresso dalla Sentenza 7 giu‑
gno – 19 luglio 2011, n. 28731.
Premessa
Con ordinanza del 1° dicembre 2010, il Tribunale di Ge‑
nova respingeva la richiesta di riesame di un sequestro preven‑
tivo prodromico alla confisca per equivalente su beni intesta‑
ti a (…), indagato per il reato previsto dall'art. 10 d.lgs.
74/2000, e sui beni della società (…) legalmente dal primo
rappresentata e nell'interesse della quale era stato commesso
l'illecito.
Secondo il Tribunale del Riesame era sequestrabile il pa‑
trimonio dell'ente, che non poteva considerarsi terzo estraneo
al reato, in quanto gli era pervenuto il profitto dell’illecito
commesso dal suo legale rappresentante; inoltre, i beni della
società potevano essere colpiti perché l'indagato, per la sua
posizione, ne aveva la disponibilità.
Il ricorso per Cassazione proposto dal legale rappresentan‑
te della società era respinto dalla Corte di Cassazione (cfr.
sezione 3, sentenza 7 giugno – 19 luglio 2011, n. 28731) con
la seguente motivazione:
Risulta sequestrabile il patrimonio dell'ente, che non può
considerarsi terzo estraneo al reato, in quanto gli sia pervenu‑
to il profitto dell'illecito commesso dal suo legale rappresen‑
tante; inoltre, i beni della società possono essere colpiti perché
l'indagato, per la sua posizione, ne ha la disponibilità.
È ammesso di conseguenza il sequestro preventivo prodro‑
mico alla confisca per equivalente su beni intestati all’indaga‑
to per il reato di occultamento e distrazione di documenti
contabili, e sui beni della società da lui legalmente rappresen‑
tata e nell'interesse della quale è stato commesso l'illecito.
Quindi il reato è addebitabile alla persona fisica, ma le
conseguenze patrimoniali (confisca per equivalente) ricadono
sulla società a favore della quale ha agito, salvo che si dimostri
che vi è stata una rottura del rapporto organico; questo prin‑
cipio, pacificamente accolto dalla giurisprudenza di legittimi‑
tà, non richiede che l'ente sia responsabile ai sensi del d.lgs.
n. 231/2001.
La sentenza della Suprema Corte impone di ricostruire lo
stato attuale delle cose per poter procedere alla sua critica.
1. Confisca e sequestro preventivo nei reati tributari
Ai sensi del comma 143 dell’art. 1 della Legge 24 dicembre
2007, n. 244, “Nei casi di cui agli articoli 2, 3, 4, 5, 8, 10‑bis,
10‑ter, 10‑quater e 11 del decreto legislativo 10 marzo 2000,
n. 74, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui
all'articolo 322‑ter del codice penale”.
Se dunque per tutti i reati tributari è possibile – astratta‑
mente – la confisca ex art. 240 c.p., la norma sopra riportata
chiarisce in primo luogo che per i suindicati reati tributari è
obbligatoria la confisca dei beni che costituiscono il profitto
o il prezzo del reato, salvo che appartengano a persona estra‑
nea al reato.
Il profitto è l’utile ottenuto in seguito alla commissione del
reato, cioè quel vantaggio economico o il beneficio aggiunto
di tipo patrimoniale di diretta derivazione causale dall’attività
del reo.
penale
Gazzetta
70
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
Il prezzo del reato è il corrispettivo dell’esecuzione dell’il‑
lecito, pattuito e conseguito in ragione di essa.
La giurisprudenza di legittimità aveva inizialmente esclu‑
so la possibilità di procedere al sequestro preventivo delle
somme di denaro giacenti sui conti correnti, nell’ipotesi di
sussistenza del fumus dei reati di frode fiscale.
Tale orientamento fu espresso da Cass., sez. 3ª, senten‑
za n. 1343 del 20.3.1996 (Estensore Grassi A.):
“…In tema di frode fiscale non è assoggettabile a sequestro
preventivo nella prospettiva di una successiva confisca il saldo
liquido di conto corrente in misura corrispondente all'imposta
evasa non sussistendo il necessario rapporto di derivazione
diretta tra l'evasione dell'imposta e le disponibilità del conto
dal momento che non può affermarsi che la disponibilità li‑
quida sia frutto dell'indebito arricchimento per una somma
equivalente all'imposta evasa …”.
Analogo principio, su fattispecie parzialmente diversa, era
già stato espresso da Cass., sez. 3ª, sentenza n. 2206 del 07
12 1992 (Estensore Montoro L.):
“…In tema di frode fiscale, è illegittimo il sequestro pre‑
ventivo di un libretto di deposito bancario o di certificati di
credito, poiché non è ravvisabile il rapporto pertinenziale, non
trattandosi di prodotto o profitto del reato. Non si può infat‑
ti affermare che i valori depositati siano cose e utilità create,
trasformate o acquisite con la condotta criminosa ovvero
acquistate mediante la realizzazione della prima. Né i mede‑
simi sono frutto di indebito arricchimento per la somma
corrispondente all'imposta evasa, potendo tale collegamento
riferirsi a qualsiasi altro bene o utilità…”.
Successivamente, la Suprema Corte non ha escluso in
astratto la possibilità di procedere al sequestro preventivo dei
saldi dei conti correnti, ove sussista il fumus dei reati di frode
fiscale, ma ha ammesso il sequestro solo ove sussista il rap‑
porto di pertinenzialità tra res e reato: cfr. Cass., sez. 2ª,
sentenza n. 38600 del 20.09.2007 (Estensore Monastero F.):
“…In tema di frode fiscale, non può automaticamente
ritenersi la legittimità di un provvedimento di sequestro pre‑
ventivo di somme di denaro depositate presso istituti bancari,
poiché il necessario rapporto pertinenziale con il reato non è
ravvisabile "ictu oculi", ma va specificamente individuato e
chiarito nella motivazione del provvedimento ablativo, nel
senso che deve trattarsi di denaro che costituisca il prodotto,
il profitto o il prezzo del reato oppure che sia servito a com‑
metterlo o, comunque, concretamente destinato alla commis‑
sione del medesimo, non essendo sufficiente l'astratta possi‑
bilità di destinare il denaro a tal fine a farlo ritenere cosa
pertinente al reato…”.
Dalla lettura della motivazione della sentenza emerge una
necessità stringente di motivare e provare l’esistenza del rap‑
porto di pertinenza tra le somme di denaro depositate ed il
reato; è utile riportare il passo della motivazione della senten‑
za:
“…il provvedimento che dispone il sequestro deve pur
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
sempre riguardare cose che si trovino in rapporto di pertinen‑
za con i reati in ordine ai quali sono svolte le indagini: e
qualora oggetto del sequestro siano somme di denaro depo‑
sitate presso istituti di credito (e quindi beni che non sono
normalmente destinati alla commissione di reati), il rapporto
di pertinenza fra le cose ed i reati deve essere individuato e
chiarito nella motivazione del provvedimento, nel senso che
deve trattarsi di denaro che costituisca il prodotto, il profitto
o il prezzo del reato oppure che sia servito a commetterlo o,
comunque, concretamente destinato alla commissione del
medesimo: l'astratta possibilità di destinare il denaro a tale
fine non è sufficiente a farlo ritenere cosa pertinente al reato.
(Cass., sez. 1, sentenza n. 325 del 20.01.1994, Rp. 197134).
Tale motivazione si impone soprattutto ove venga prospetta‑
ta la commissione di reati fiscali, come nella specie, attesa la
pacifica giurisprudenza di questa Corte che ha sempre affer‑
mato che le provviste di denaro esistenti sui conti correnti non
costituiscono corpo di reato o cosa comunque ad esso perti‑
nente, giacché non possono essere considerate il quantum di
imposta non versata all'erario. E tale principio vale, ovvia‑
mente, anche nelle ipotesi, come nella specie, in cui venga
contestato anche il reato di fatturazione di operazioni inesi‑
stenti o di omessa dichiarazione dei redditi, giacché lo scopo
e l'esito di tali frodi fiscali è pur sempre quello di sottrarre al
fisco quanto gli è dovuto (cfr. Cass., sez. 1, sentenza n. 3272
del 1998).
In altri termini, in tema di frode fiscale, non può automa‑
ticamente ritenersi legittimo un provvedimento di sequestro
preventivo di somme di denaro depositate presso istituti ban‑
cari, poiché non è ravvisabile ictu oculi il rapporto pertinen‑
ziale con il reato, non trattandosi di prodotto o profitto del
medesimo e non potendosi affermare che i valori depositati
siano cose e utilità create, trasformate o acquisite con la con‑
dotta criminosa ovvero acquistate mediante la realizzazione
della prima (sez. 3, sentenza n. 2206 del 07.12.1992, Rp.
192669)…”.
Questo orientamento è stato poi ripreso più di recente da
Cass., sez. 2ª, sentenza n. 35968 del 2009 la quale, nell’af‑
frontare fra l’altro il rapporto tra confisca “ordinaria” e per
equivalente, ha affermato il seguente principio:
“…il profitto derivato dai delitti di cui al d.lgs. n. 74 del
2000, art. 10 quater commessi fino al 27 dicembre 2007 è
comunque soggetto alla confisca facoltativa di cui all'art. 240
c.p., comma 1, sempre che sia congruamente motivato il rap‑
porto intercorrente tra la cosa e il reato …”.
L’orientamento è stato ribadito poi da Cass., sez. 5ª, sen‑
tenza n. 11288 del 26.01.2010 (Estensore Savani P.):
“…Il sequestro preventivo di somme di denaro depositate
presso banche, ossia beni normalmente non destinati alla
commissione di reati, comporta la previa individuazione del
rapporto di pertinenza con i reati per i quali si procede, di cui
deve darsi atto nella motivazione del provvedimento, nel
senso che deve trattarsi di denaro che costituisca il prodotto,
il profitto o il prezzo del reato oppure che sia servito a com‑
metterlo o, comunque, concretamente destinato alla commis‑
sione del medesimo, sicché l'astratta possibilità di destinare il
denaro a tale fine non è sufficiente a farlo ritenere cosa perti‑
nente al reato. (Fattispecie relativa a sequestro preventivo
disposto in relazione a reati tributari) …”.
Pertanto, per poter procedere alla confisca delle somme
F O R E N S E
MARZO • APRILE
di denaro occorre che sua provato il rapporto di pertinenza
tra le somme depositate ed il reato contestato; è cioè necessa‑
rio provare che le somme depositate sui conti correnti (della
persona fisica) siano direttamente il frutto dell’attività illecita
(cioè dell’evasione) o ne siano l’immediato reimpiego.
Tale prova è in genere resa difficile da un lato dal tempo
decorso tra le condotte ed i saldi (potenzialmente) attuali,
dall’altro dall’ attività degli indagati, i quali ad es. possono
aver retro ceduto le somme relative alle sovraffatturazioni o
possono aver compiuti anche attività economiche lecite.
2. Sulla confisca per equivalente nei reati tributari
Va preliminarmente rilevato che la confisca per equivalen‑
te ex art. 322 ter c.p. è possibile solo per i reati tributari di
cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10‑bis, 10‑ter e 11 del d.lgs. n. 74
del 2000.
In secondo luogo, la confisca per equivalente ex art. 322
ter c.p. è possibile solo per i predetti reati tributari le cui
condotte sono iniziate successivamente al 1° gennaio 2008,
data di entrata in vigore del comma 143 dell'art. 1 della Leg‑
ge 24 dicembre 2007, n. 244.
Tale principio è stato affermato in primo luogo dalla Corte Costituzionale, con due diverse ordinanze (n. 97 del 2009
e n. 301 del 16 novembre 2009) tenuto conto della natura
giuridica di sanzione penale della confisca per equivalente.
Afferma la Corte Costituzionale che la confisca per equi‑
valente, “…in ragione della mancanza di pericolosità dei beni
che ne costituiscono oggetto, unitamente all’assenza di un
“rapporto di pertinenzialità” (inteso come nesso diretto, at‑
tuale e strumentale) tra il reato ed i beni …” ha una “…con‑
notazione prevalentemente afflittiva ed ha, dunque, una na‑
tura eminentemente sanzionatoria …”, tale da impedire
l’applicabilità a tale misura patrimoniale del principio gene‑
rale della retroattività delle misure di sicurezza, sancito
dall’art. 200 c.p.
Avendo quindi natura di sanzione penale (“…come deve
qualificarsi la confisca per equivalente …”, afferma la Corte
Costituzionale) per effetto del secondo comma dell'art. 25
Cost. non può avere applicazione retroattiva.
La Corte Costituzionale ha affermato tale principio tenen‑
do fra l’altro in considerazione la giurisprudenza della Corte
Europea dei diritti dell'uomo che ha ritenuto in contrasto con
i princípi sanciti dall'art. 7 della Convenzione l'applicazione
retroattiva della confisca di beni riconducibile proprio ad
un’ipotesi di confisca per equivalente (Corte europea dei di‑
ritti dell'uomo, sentenza n. 307A 1995, Welch v. Regno Uni‑
to).
Questo orientamento è tra l’altro del tutto pacifico nella
giurisprudenza di legittimità sia quanto alla irretroattività
della norma che quanto alla natura giuridica della confisca
per equivalente; cfr. fra tante Cass., sez. 2ª, sentenza n. 28685
del 5.6.2008:
“…Non può farsi applicazione retroattiva della disposi‑
zione che prevede la confisca, e conseguentemente il sequestro
preventivo, "per equivalente" in riferimento ai reati tributari,
in ragione della natura eminentemente sanzionatoria dell'in‑
dicata misura ablatoria …” (Nello stesso senso Cass., sez. 3ª,
sentenza n. 39172 del 24.09.2008).
Quanto al contenuto della confisca per equivalente, come
ha chiarito la Suprema Corte, l'integrale rinvio alle "disposi‑
2 0 1 2
71
zioni di cui all'articolo 322‑ter del codice penale", contenuto
nell'art. 1, comma 143, della legge n. 244 del 2007, fa si che
rispetto ai reati tributari si applichi sia il primo che il secondo
comma dell’art. 322 ter c.p. e di conseguenza per i reati indi‑
cati nel comma 143 il sequestro preventivo, funzionale alla
confisca "per equivalente", può essere disposto non soltanto
per il prezzo, ma anche per il profitto del reato (cfr. in tal
senso Cass., sez. 3ª, sentenza n. 35807 del 7.7.2010 Estensore
Marini L.)
Si è anche di recente affermato (cfr. Cass., sez. 3ª, senten‑
za n. 25890 del 26.5.2010 Estensore Gentile M.) che “È legit‑
timo il sequestro preventivo, funzionale alla confisca per
equivalente, di somme di denaro sottratte al pagamento
dell'IVA dovuta, in quanto, per i reati tributari, la confisca di
somme di denaro, beni o valori è consentita anche in relazio‑
ne al profitto del reato. (Nella specie, si trattava di frode fi‑
scale attuata mediante presentazione di una dichiarazione
annuale in cui erano stati indicati elementi passivi fittizi de‑
rivanti da annotazione in contabilità di operazioni oggettiva‑
mente inesistenti, con sottrazione al Fisco del pagamento
dell'IVA dovuta)”.
3. Confisca per equivalente e responsabilità degli enti
Cosa deve fare il Giudice ove il p.m. richieda il sequestro
preventivo dei beni societari, finalizzato alla confisca per
equivalente del valore equivalente alla somma evasa?
Va premesso che l’art. 1 comma 1 lett. e) del d.lgs. 74 del
2000 prevede che “riguardo ai fatti commessi da chi agisce in
qualità di amministratore, liquidatore, o rappresentante di
società, enti o persone fisiche, il “fine di evadere le imposte”
ed il “fine di sottrarsi al pagamento” si intendono riferiti alla
società, all’ente o alla persona fisica per conto della quale si
agisce.
La condotta, ove si tratti di enti, è posta in essere da chi
ha la qualità di rappresentante legale (cfr. la lett. c dell’art. 1
che fa esplicito riferimento alle dichiarazioni presentate da chi
ha la qualità di amministratore, liquidatore o rappresentante
di società, enti o persone fisiche).
La carica di legale rappresentante pone il soggetto in una
posizione di garanzia rispetto alla trasparenza ed alla corret‑
tezza contabile in funzione degli obblighi tributari contem‑
plati dalla legge e gli impone pure di impedire la commissione
dei reati ivi previsti attraverso un'attenta vigilanza.
Si vuol dire che se l’autore del reato è sempre la “persona
fisica”, ove i fatti concretizzanti i reati tributari riguardino
enti (società di persone o dotate di personalità giuridica, o
altre forme di soggettività giuridica) il vantaggio derivante
dall’evasione è ex lege attribuito all’ente stesso.
Dunque, il reato è commesso da chi ha le funzioni di rap‑
presentanza o di amministrazione ma a vantaggio della socie‑
tà o dell’ente.
Tale premessa è fondamentale per comprendere l’attuale
rapporto tra la confisca per equivalente prevista dal codice
penale e quella prevista per gli enti.
Con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 231 del 2001, l’ordi‑
namento giuridico italiano ha superato il tradizionale princi‑
pio societas delinquere non potest; ha infatti previsto la
sussistenza della responsabilità amministrativa degli enti
forniti di personalità giuridica e delle società e associazioni
anche prive di personalità giuridica (art. 1 comma 2; con
penale
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esclusione dello Stato, degli enti pubblici territoriali, degli
altri enti pubblici non economici e degli enti che svolgono
funzioni di rilievo costituzionale; cfr. art. 1 comma 3).
Come hanno affermato le Sezioni unite della Corte di
Cassazione, con il d.lgs. n. 231 del 2001 è avvenuta “…l'in‑
troduzione nel nostro ordinamento di uno specifico ed inno‑
vativo sistema punitivo per gli enti collettivi, dotato di appo‑
site regole quanto alla struttura dell'illecito, all'apparato
sanzionatorio, alla responsabilità patrimoniale, alle vicende
modificative dell'ente, al procedimento di cognizione e a
quello di esecuzione, il tutto finalizzato ad integrare un effi‑
cace strumento di controllo sociale …”(Cass., sez. un., sen‑
tenza 27 marzo 2008, n. 26654).
All’art. 2 del d.lgs. è stabilito il “Principio di legalità”, per
il quale l'ente non può essere ritenuto responsabile per un
fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa
in relazione a quel reato e le relative sanzioni non siano espres‑
samente previste da una legge entrata in vigore prima della
commissione del fatto.
L’art. 5 stabilisce che l'ente è responsabile per i reati com‑
messi nel suo interesse o a suo vantaggio:
a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di
amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità
organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale
nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione
e il controllo dello stesso;
b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di
uno dei soggetti di cui alla lettera a).
L'ente invece non è responsabile se le persone indicate nel
comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di
terzi (comma 2). Si veda anche l’art. 6 sulla cd. prova libera‑
toria.
Alla previsione dei casi di responsabilità dell’ente si accom‑
pagnano poi le sanzioni che possono essere inflitte all’ente.
Le sanzioni hanno natura pecuniaria e si sostanziano in
misure interdittive; in più, quali sanzioni sono previste la
confisca e la pubblicazione della sentenza (le sanzioni sono
elencate nell’art. 9).
Nel d.lgs. n. 231 del 2001 sono previsti diversi tipi di
confisca.
La sanzione della confisca prevista dall'art. 9, comma 1,
lett. c) è poi specificamente disciplinata dall'art. 19, comma 1:
tale forma di confisca obbligatoria ha ad oggetto il prezzo o
il profitto del reato “…salvo che per la parte che può essere
restituita al danneggiato…".
Il comma 2 dell’art. 19 consente poi la confisca per equi‑
valente, cioè avente ad oggetto somme di denaro, beni o altre
utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato,
“…Quando non è possibile eseguire la confisca a norma del
comma 1 …”.
Secondo le Sezioni unite (cfr. Cass., sez. un., sentenza 27
marzo 2008, n. 26654), la confisca prevista dagli artt. 9
comma 1 lett. c) e 19 del d.lgs. n. 231 del 2001 “…replicando
lo schema normativo di disposizioni già presenti nel codice
penale o in leggi penali speciali …” ha natura giuridica di “…
sanzione principale, obbligatoria e autonoma rispetto alle
altre pure previste nel decreto in esame …”.
Altra forma di confisca del profitto del reato è prevista
dall’art. 6, comma 5 del d.lgs. nell’ipotesi di reato commesso
da persone che rivestono funzioni apicali negli enti ma appli‑
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F O R E N S E
cabile solo quando l'ente vada esente da responsabilità, per
avere validamente adottato e attuato i modelli organizzativi
previsti e disciplinati dallo stesso art. 6.
Sempre secondo le Sezioni unite (cfr. la sentenza prima
richiamata) tale confisca, poiché prescinde dalla responsabi‑
lità dell'ente, non ha tanto natura sanzionatoria, ma assolve
alla funzione di “…ristabilire l'equilibrio economico alterato
dal reato – presupposto, i cui effetti, appunto economici, sono
comunque andati a vantaggio dell'ente collettivo, che finireb‑
be, in caso contrario, per conseguire (sia pure incolpevolmen‑
te) un profitto geneticamente illecito …”.
Rispetto alla confisca ex art. 6, a differenza di quella di
cui all'art. 19, non può però procedersi con sequestro preven‑
tivo, disciplinato dall'art. 53 del decreto legislativo, poiché
tale ultima norma richiama esclusivamente l'art. 19.
L'art. 15, comma 4 del d.lgs. n. 231 del 2001 prevede poi
un’altra forma di confisca obbligatoria del “…profitto deri‑
vante dalla prosecuzione dell'attività", in caso di commissa‑
riamento dell'ente, che ha natura di sanzione sostitutiva (cfr.
Cass., sez. un., sentenza 27 marzo 2008, n. 26654).
Altra forma di confisca, che ha natura di sanzione princi‑
pale, è prevista dall’art. 23, comma 2, per effetto della respon‑
sabilità dell'ente per il delitto di cui al comma 1, commesso
nell'interesse o a vantaggio del medesimo ente (il comma 1
punisce “Chiunque, nello svolgimento dell'attività dell'ente a
cui è stata applicata una sanzione o una misura cautelare
interdittiva trasgredisce agli obblighi o ai divieti inerenti a
tali sanzioni o misure, è punito con la reclusione da sei mesi
a tre anni”).
Può dunque affermarsi che con il d.lgs. del 2001 alla re‑
sponsabilità penale personale è stata affiancata la responsa‑
bilità amministrativa degli enti, che sussiste nelle ipotesi sopra
indicate.
Affermano le Sezioni unite con la citata sentenza che “…
La responsabilità della persona giuridica è aggiuntiva e non
sostitutiva di quella delle persone fisiche, che resta regolata
dal diritto penale comune.
Il criterio d'imputazione del fatto all'ente è la commissio‑
ne del reato "a vantaggio" o "nell'interesse" del medesimo
ente da parte di determinate categorie di soggetti.
V'è, quindi, una convergenza di responsabilità, nel senso
che il fatto della persona fisica, cui è riconnessa la responsa‑
bilità anche della persona giuridica, deve essere considerato
"fatto" di entrambe, per entrambe antigiuridico e colpevole,
con l'effetto che l'assoggettamento a sanzione sia della perso‑
na fisica che di quella giuridica s'inquadra nel paradigma
penalistico della responsabilità concorsuale.
Pur se la responsabilità dell'ente ha una sua autonomia,
tanto che sussiste anche quando l'autore del reato non è stato
identificato o non è imputabile (d.lgs. n. 231, art. 8), è imprescin‑
dibile il suo collegamento alla oggettiva realizzazione del reato,
integro in tutti gli elementi strutturali che ne fondano lo specifi‑
co disvalore, da parte di un soggetto fisico qualificato …”.
Ed alla confisca per equivalente, prevista nell’art. 322 ter
c.p., misura sanzionatoria ed ablativa che riguarda le persone
fisiche responsabili del reato, è stata affiancata la confisca per
equivalente quale sanzione nelle ipotesi di responsabilità degli
enti.
Tale conclusione si fonda anche su quanto già affermato
da Cass., Sezioni unite, sentenza 27 marzo 2008, n. 26654,
F O R E N S E
MARZO • APRILE
in motivazione, che ha esplicitamente riferito l’ambito appli‑
cativo dell’art. 322 ter c.p. alla sola responsabilità delle per‑
sone fisiche:
“Ed invero, si è precisato che la confisca per equivalente
del profitto di cui al d.lgs. n. 231 del 2001, art. 19 ha natura
di sanzione principale e autonoma.
Non v'è, peraltro, rapporto di sussidiarietà o di concorso
apparente tra la detta disposizione e le norme del codice pe‑
nale che prevedono la stessa misura ablativa a carico delle
persone fisiche responsabili del reato, fermo restando logica‑
mente che l'espropriazione non potrà, in ogni caso, eccedere
nel quantum l'entità complessiva del profitto …”.
Dunque, può affermarsi che il legislatore, per le ipotesi in
cui persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di am‑
ministrazione o di direzione dell'ente, commettono reati
nell’interesse o a vantaggio di un ente, ha scelto di affiancare
alla responsabilità personale quella dell’ente, prevedendo, fra
le altre sanzioni, una confisca del tutto identica a quella ex
art. 322 ter c.p.
Il legislatore però non ha esteso a tutti i reati la responsa‑
bilità dell’ente e la possibilità di applicare la sanzione della
confisca del profitto o del prezzo o per equivalente: ha infat‑
ti previsto, in aderenza al principio di legalità espresso dalla
legge, un “catalogo”, delle categorie di reati rispetto ai quali
è possibile procedere per la responsabilità dell’ente, coerente‑
mente con il principio di tipicità stabilito dalla legge.
L’autonomia tra la confisca per equivalente prevista per le
persone fisiche e per gli enti è altresì dimostrata dalla espres‑
sa previsione di un idoneo procedimento per l’applicazione
delle sanzioni (dall’inizio del procedimento, passando per la
sentenza ed il giudizio di esecuzione), delle misure cautelari,
del sequestro preventivo (art. 53) e conservativo; e ciò è con‑
fermato anche dalle incompatibilità tra autore del reato e
rappresentante legale.
Pertanto, sussiste una totale autonomia tra la confisca per
equivalente a carico delle persone fisiche rispetto a quella
degli enti, disciplinata dal d.lgs. n. 231.
Ne consegue che da un lato il sequestro preventivo fina‑
lizzato alla confisca per equivalente non è applicabile, in ra‑
gione della natura sanzionatoria di tale forma di confisca, nei
confronti delle persone giuridiche per fatti‑reato commessi in
data anteriore all'entrata in vigore della normativa sulla re‑
sponsabilità amministrativa da reato (principio costantemen‑
te affermato a partire dalla sentenza 12 dicembre 2006,
n. 3629 della sez. 2ª della Corte di Cassazione); dall’altro che
il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalen‑
te nei confronti di un ente è possibile solo ove siano commes‑
si quei reati, elencati nel d.lgs. n. 231 del 2001, che sono
presupposto della responsabilità dell’ente. Fra questi – nume‑
rosi – reati non sono ricompresi i reati tributari, e ciò nono‑
stante nel corso degli anni il catalogo dei reati per i quali è
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prevista la responsabilità amministrativa degli enti si è allar‑
gato significativamente, fino a coinvolgere anche i reati socie‑
tari.
Cfr. in tal senso Cass., sez. 2ª, sentenza 29 settembre 2009,
n. 41488:
“…Il tribunale ha dunque violato il principio di stretta
legalità, ritenendo applicabile all'ente una sanzione (quale
deve essere considerata la confisca per equivalente) in ordine
ad un'ipotesi criminosa (la contestata frode fiscale) che non
la contempla; e ciò ha compiuto sia mediante la descritta,
ardita in direzione – ai fini elusivi della legge – consistente nel
valorizzare esclusivamente gli elementi della truffa aggravata
contenuti nel delitto tributario del quale – è bene precisarlo – il
legislatore ha escluso finora la natura di reato presupposto
della responsabilità degli enti, non avendolo mai inserito nel
catalogo contenuto nella sezione 3^, capo I, d.lgs. n. 231 del
2001 …”
4. Critiche all’orientamento espresso dalla Sentenza 7 giugno – 19
luglio 2011, n. 28731
Alla luce di quanto ora richiamato, deve ritenersi che
l’orientamento espresso con la sentenza indicata non è condi‑
visibile.
Occorre in primo luogo e rispettosamente osservare che
la Suprema Corte ha ritenuto applicabile la confisca per equi‑
valente pur procedendosi per il reato ex art. 10 d.lgs. 74 2000
(o almeno così si comprende dalla lettura della sentenza):
orbene, l’art. 10 non rientra tra i reati indicati nel comma 143
dell’art. 1 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 e di conse‑
guenza in quel caso concreto non poteva in nessun modo
applicarsi la confisca per equivalente.
In secondo luogo, la sentenza citata fa riferimento (se ben
si è compreso) alla rottura del rapporto organico per giustifi‑
care la possibilità del sequestro per equivalente. Questo argo‑
mento però non è condivisibile, ove si consideri che la Corte
glissa sulla confisca ex art. 6 la quale, come si è prima indi‑
cato, prescinde dalla responsabilità dell’ente ma rispetto alla
quale non è possibile procedere a sequestro preventivo.
In terzo luogo, la possibilità di procedere al sequestro dei
beni societari per equivalente è ricollegato al fatto che l’inda‑
gato “aveva la libera disponibilità in quanto li gestiva”: deve
però osservarsi che tutti i rappresentanti legali, gli ammini‑
stratori, “gestiscono” i beni societari, senza che ciò possa
incidere sulla soggettività giuridica o la personalità giuridica
delle società.
Quanto poi all’affermazione che la società non poteva
considerarsi estranea al reato, deve osservarsi che in tal modo
la Suprema Corte ha riportato il fatto proprio nell’alveo della
fattispecie descritta dal d.lgs. del 2001 (condotta dell’indaga‑
to a vantaggio dell’ente), senza però trarne le dovute conse‑
guenze in tema di tipicità.
penale
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●
p r o c e d u r a
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S om m ar io : Premessa; 1. Profili sostanziali della figura
dell’agente provocatore; 2. Profili processuali della figura
dell’agente provocatore; 3. Lo Statuto dell’infiltrato alla luce
della giurisprudenza comunitaria
L’infiltrato:
non impedire un evento
equivale a cagionarlo?
● Felice Carbone
e
Avvocato
Premessa
La cronaca giudiziaria ha evidenziato, negli ultimi tempi,
l’uso sempre più frequente, soprattutto per indagini partico‑
lari, dell’agente provocatore1 ossia di chi fingendosi d’accordo
con i delinquenti, agisce al fine di farli scoprire mentre stanno
commettendo un reato.
Tale figura sorta in origine come ipotesi di concorso mo‑
rale di persone nel reato nel corso del tempo si è ampliata. Con
tale nozione oggi, infatti, s’indica la figura dell’infiltrato, vale
a dire di colui che si inserisce in una struttura criminale con
lo scopo di scoprirne i partecipanti, la struttura e le attività,
ma l’agente provocatore può anche rivestire la qualifica di
soggetto passivo del reato, quali ad esempio, il falsus emptor
nell’ambito dei reati – contratto (si pensi all’ipotesi della truf‑
fa) o il finto soggetto passivo operante in determinate catego‑
rie di reati, quali, ad esempio, quelli contro la P.A. (si pensi ad
esempio alla concussione).
A partire dai primi anni 90 il legislatore, spinto dall’esi‑
genza di contrastare il crimine nei settori più delicati, ha di‑
sciplinato la figura dell’agente provocatore.
Il primo intervento legislativo si è avuto in materia di con‑
trasto del traffico degli stupefacenti. La norma (art. 97 del
d.P.R. 309/1990)nel disciplinare l’acquisto simulato di droga
prevede, ai fini dell’applicazione della speciale causa di giusti‑
ficazione, che:
a. l’ufficiale di polizia giudiziaria appartenga alle apposite
unità antidroga 2 ed operi su disposizione dei propri supe‑
riori gerarchici (ossia alle dipendenze di una delle sezioni
indicate espressamente dalla norma);
b. la sua condotta sia immune da iniziative individuali;
c. fornisca dettagliate informazioni circa il proprio operato
alla direzione centrale antidroga e all’A.G.
Analoga causa speciale di giustificazione dell’agente pro‑
vocatore è stata introdotta dall’art. 12 quater3 d.l. n. 306/1992,
1 Con la nozione di agente provocatore s’intende l’ufficiale di P.G.o il privato
cittadino che fingendosi d’accordo con altra persona la induce a commettere un
reato allo scopo di fare scoprire il provocato da parte dell’Autorità giudiziaria.
Tale figura, storicamente sorta durante la rivoluzione francese, quando compito
precipuo del funzionario infiltrato era di acquisire prove a carico di soggetti che
cospirassero contro il nuovo ordine statale, è stata mutuata dall’esperienza in‑
vestigativa dei paesi anglosassoni.
2Secondo una parte della dottrina l’infiltrato agirebbe nell’ambito dell’adempi‑
mento del dovere di cui all’art. 51 c.p., ma il tenore letterale dell’ art. 97 induce
a ritenere che l’agente provocatore non è punibile ove abbia comunque limitato
la sua attività ad un mero controllo di osservazione e contenimento della con‑
dotta illecita altrui senza che la sua condotta abbia avuta una valenza causale
rispetto all’evento realizzato da provocato.
3 “Fermo quanto disposto dall’articolo 51 del codice penale, non sono punibili
gli ufficiali di polizia giudiziaria della Direzione investigativa antimafia o dei
servizi centrali e interprovinciali di cui all’articolo 12 del d.l. 13 maggio 1991,
n. 152, convertito, con modificazioni, dalla l. 12 luglio 1991, n. 203, i quali, al
solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti di cui agli artt. 648‑bis
e 648‑ter del codice penale, procedono alla sostituzione di denaro, beni o altre
utilità provenienti da taluno dei delitti indicati nei suddetti articoli, o altrimenti
procedono in modo da ostacolarne l’identificazione della provenienza ovvero in
modo da consentirne l’impiego.
Fermo quanto disposto dall’articolo 51 del codice penale, non sono altresì pu‑
nibili gli ufficiali di polizia giudiziaria della Direzione investigativa antimafia o
dei servizi centrali e interprovinciali di cui all’art. 12 del l. 13 maggio 1991
F O R E N S E
MARZO • APRILE
conv. nella l. 356/92, che ha previsto l’uso dell’infiltrato nei
delitti di riciclaggio di denaro sporco, impiego simulati, ricet‑
tazione di armi. La norma richiede che l’infiltrato:
• rivesta la qualifica di ufficiale di P.G. della DIA o dei
servizi centrali ed interprovinciali;
• finalizzi la propria condotta esclusivamente all’acquisizio‑
ne di elementi di prova in ordine ai delitti di riciclaggio
ovvero di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza
illecita e consiste nella ricezione, nell’occultamento o
nella sostituzione di denaro, beni o altre utilità dai delitti
predetti o in un’attività idonea ad ostacolarne l’identifica‑
zione della provenienza illecita ovvero a consentirne
l’impiego in attività economiche e finanziarie.
Altro intervento è stato in materia di sfruttamento della
prostituzione, della pornografia e del turismo sessuale in
danno di minori. Il legislatore, con l’art. 14 della legge
n. 269/98, ha previsto una nuova ipotesi di non punibilità
dell’agente provocatore che richiede:
• sul piano soggettivo che l’agente provocatore rivesta la
qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria dipendenti da
nuclei specializzati;
• sul piano oggettivo, che egli, previa autorizzazione
dell’A.G.4, ed al solo fine di acquisire elementi di prova in
ordine ai delitti di pornografia minorile ed iniziative turi‑
stiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile,
proceda all’acquisto simulato di materiale pornografico o
partecipi a viaggi organizzati finalizzati allo sfruttamento
dei minori.
1. Profili sostanziali della figura dell’agente provocatore
Non presentando una propria autonomia strutturale, in‑
torno alla tematica dell’agente provocatore si è aperto un
ampio dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza che si
svolge essenzialmente lungo tre direttrici.
Da un lato si ci è chiesti se ed in quali termini l’agente
provocatore possa essere chiamato a rispondere penalmente,
a titolo concorsuale, in caso di effettiva commissione o anche
solo di tentativo dei reati oggetto della sua istigazione;
da altro verso si è posto il problema della responsabilità
del provocato qualora il reato stimolato non si realizzi;
sotto il profilo processuale si discute in ordine ai limiti
n. 152, convertito, con modificazioni, dalla l. 12 Luglio 1991, n. 203, i quali,
al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine a delitti concernenti armi,
munizioni od esplosivi, acquistano o ricevono od occultano o comunque si
intromettono nel fare acquisire, ricevere od occultare le armi, le munizioni o gli
esplosivi medesimi.
Delle operazioni indicate nei commi 1 e 2 è data immediata notizia all’autorità
giudiziaria; questa, se richiesta dagli ufficiali di polizia giudiziaria procedenti,
può, con decreto motivato, differire il sequestro del denaro, dei beni o delle
altre utilità, ovvero delle armi, delle munizioni o degli esplosivi fino alla con‑
clusione delle indagini disponendo se necessario specifiche prescrizioni per la
conservazione.
L’esecuzione delle operazioni indicate nei commi 1 e 2 è disposta dal capo
della polizia‑direttore generale della pubblica sicurezza, dal comandante gene‑
rale dell’Arma dei carabinieri ovvero della Guardia di finanza a seconda che si
tratti di servizio appartenente all’una o all’altra forza di polizia; è disposta
dall’Alto commissario per il coordinamento della lotta alla delinquenza di tipo
mafioso quando ad essa procedono ufficiali di polizia giudiziaria della Direzio‑
ne investigativa antimafia”.
4In mancanza della quale tutta l’attività è inutilizzabile (così Cass., sez. III, 03
dicembre 2001 – 11 febbraio 2001, n. 5397, D.M.in Diritto Penale.it) “ai
sensi dell’art. 191 c.p.p. deriva la inutilizzabilità, rilevabile d’ufficio in ogni
stato e grado del procedimento, delle prove acquisite illegittimamente in viola‑
zione del divieto stabilito dall’art. 14 della l. 269/98”.
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della testimonianza resa dall’infiltrato.
In relazione alla questione della punibilità dell’agente
provocatore diverse sono le posizioni assunte dalla dottrina
ed attualmente sembra prevalere l’opinione dogmatica che
esclude la punibilità dell’agente per difetto di dolo in quanto
egli agirebbe con lo scopo di assicurare alla giustizia i respon‑
sabili comunque prima della consumazione del reato.
Né consegue che qualora la condotta antigiuridica posta
in essere dal provocato raggiunga la soglia minima del tenta‑
tivo punibile la responsabilità penale dell’agente vada esclusa
poichéil dolo caratterizzante il tentativo è un dolo di consuma‑
zione che difetterebbe nell’infiltrato. Nell’ipotesi invece in cui
il provocato realizza la condotta antigiuridica, la punibilità
dell’agente provocatore andrà escluso solo nell’ipotesi in cui la
sua condotta non si ponga in termini di efficienza causale di‑
retta rispetto all’evento delittuoso. Non meno proseliti riscuo‑
te l’opinione di coloro che ritengono scriminata la condotta
dall’adempimento di un di un dovere, fondando tale scrimi‑
nante sull’art. 55 c.p.p. tale causa di giustificazione potrà es‑
sere invocata esclusivamente dagli appartenenti alla P.G.
Sul punto la giurisprudenza è orientata ad escludere la
responsabilità penale dell’agente provocatore, funzionario di
polizia che agisce in adempimento del dovere di prendere
notizia dei reati o d’impedire che vengano portati a conse‑
guenze ulteriori, in presenza dell’esimenti di cui all’ art. 51
c.p. Qualora l’infiltrato sia un cittadino privato, per operare
la causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., occorre che il
suo intervento sia giustificato da un ordine legittimo della
Pubblica Autorità e che egli adempia fedelmente all’ordine
ricevuto per tutto il tempo in cui si protrae l’azione crimino‑
sa5al contrario, detta causa di giustificazione non può trovare
applicazione ove il proposito criminoso sia suscitato o deter‑
minato da provocatore al solo fine di vendetta o di lucro ov‑
vero nella prospettiva della fruizione di un bene6.
Data la particolarità di tale figura la giurisprudenza ha
statuito in maniera decisa che l’intervento indiretto e margi‑
nale dell’agente provocatore, funzionario di polizia o cittadi‑
no privato, deve consistere in un’attività di osservazione,
controllo e contenimento delle azioni illecite altrui7.
Per quanto attiene la responsabilità del provocato la soglia
minima di punibilità si configura in termini di atti idonei
diretti in modo non equivoco a commettere il delitto.
penale
Gazzetta
5Sul punto la Cortedi legittimità ha chiarito che “ in tema di adempimento di un
dovere il privato, il cui intervento come agente provocatore è giustificato da un
ordine della polizia, non è punibile ai sensi dell’art. 51 c.p” (Cass., sez. I, sen‑
tenza 19 maggio 1999, n. 6302).
6 è assolutamente pacifico che “l’attività dell’agente provocatore il quale, d’ac‑
cordo con la polizia giudiziaria, ricerca uno spacciatore e gli propone la com‑
pravendita di droga, ossia lo determina a commettere il reato di cessione di
droga, al fine di farlo arrestare, è del tutto fuori della sfera della sfera di opera‑
tività dell’art. 51 c.p., ossia dell’adempimento di un dovere di polizia giudizia‑
ria. Non può infatti farsi discendere dall’obbligo della polizia giudiziaria di ri‑
cercare le prove dei reati e di assicurare i colpevoli alla giustizia l’esclusione, ex
art. 51 c.p., della responsabilità del c.d. ‘agente provocatore’ di polizia giudi‑
ziaria, giacchéè adempimento di un dovere perseguire i reati commessi, non già
di suscitare azioni criminose al fine di arrestarne gli autori” (Cass., sez. IV, 17
aprile 1994, Curatola).
7 è opinione costante che l’infiltrato “non è punibile ex art. 51 c.p. quando il suo
intervento è indiretto e marginale nell’ideazione ed esecuzione del fatto e si
concretizza prevalentemente in un’attività di controllo, di osservazione e di
contenimento dell’altrui illecita condotta” (Cass., sez. IV, sentenza 30 ottobre
1999, n. 12347).
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D i r i t t o
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p r o c e d u r a
2. Profili processuali della figura dell’agente provocatore
Sotto il profilo processuale la testimonianza dell’agente
provocatore nell’ambito del processo è stata oggetto di un
vivo dibattito.
In ordine alla iscrizione dell’infiltrato nel registro degli
indagati diversi sono gli orientamenti:
l’agente sotto copertura deve essere iscritto, a sua garan‑
zia, nel registro degli indagati e una volta terminata l’opera‑
zione, se tutta l’ attività si è svolta secondo i criteri dettati dal
legislatore e il suo operato non è penalmente rilevante, la sua
posizione sarà archiviata;
l’agente provocatore deve essere iscritto nel registro degli
indagati solo nell’ipotesi in cui il suo operato supera i limiti
dell’azione preventivamente concordata con l’A.G.;
l’’agente provocatore non deve essere iscritto nel registro
degli indagati anche se questa consista soltanto in una iscri‑
zione di garanzia.
La giurisprudenza di legittimità ha anche affermato la
inutilizzabilità della testimonianza, resa dall’agente sotto
copertura sulle dichiarazioni dallo stesso “provocate”, in
virtù dei limiti stabiliti dall’art. 62 e dei divieti previsti
dall’art. 63 c.p.p.
Sul punto si rinvengono, in particolare, due pronunce.
Nella sentenza del 28 aprile 1997, sez. VI, n. 1732, Con‑
sole (in CP, 1998, 1628) viene affrontato il problema della
inutilizzabilità delle dichiarazioni rese all’agente provocatore
sia in relazione all’art. 63, secondo comma, c.p.p. che in rela‑
zione all’art. 62 c.p.p. Con riferimento al divieto previsto
dalla prima norma, la Corte ritiene che esso sia inapplicabile
perché le dichiarazioni all’agente provocatore non possono
considerarsi rese né in sede di assunzione di informazioni
(art. 362 c.p.p.) né in sede di sommarie informazioni (art. 351
c.p.p.), nel cui esclusivo ambito opera il limite previsto dal
secondo comma dell’art. 63 c.p.p.. Tali ambiti, ad avviso del‑
la Corte, vengono tuttavia superati dalla più ampia portata
del divieto previsto dall’art. 62 c.p.p. che “non fa riferimento
ad atti specifici del procedimento, dato che la norma prende
in considerazione le dichiarazioni ‘comunque rese’ e pertanto
è sufficiente che le dichiarazioni siano rese nel corso del pro‑
cedimento”. Una volta ritenuta sussistente tale condizione
nella fattispecie esaminata nella pronuncia in parola, la S.C.
ne fa scaturire l’applicazione del divieto “l’attività di acquisi‑
zione della notizia di reato e quelle successivamente svolte
dalla polizia giudiziaria ricadono nel procedimento con la
conseguenza che gli agenti provocatori non possono testimo‑
niare sulle dichiarazioni comunque rese da colui che, con
l’acquisizione della notizia di reato diviene indagato per fac‑
ta concludentia”. Tuttavia, ad avviso della Corte, “tale divie‑
to concerne soltanto le dichiarazioni rappresentative di pre‑
cedenti fatti e non anche le condotte e le dichiarazioni che
accompagnano tali condotte, chiarendone il significato, ov‑
vero le dichiarazioni programmatiche di future condotte”. In
altre parole, il divieto di testimonianza (e, se ricorrono i pre‑
supposti previsti dall’art. 362 e 350 c.p.p., anche le garanzie
previste dall’art. 63, c. II, c.p.p.) opera, nei confronti dell’agen‑
te provocatore, solo per quegli enunciati assertivi (narrativi o
informativi) dallo stesso captati, ma non per le condotte ver‑
bali che si inseriscono in un contesto commissivo.
Secondo il Tribunale, infatti, tutte le dichiarazioni appre‑
se dall’Ufficiale di P.G. e poi testimoniate in dibattimento non
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sarebbero rappresentative di precedenti fatti ma accompagne‑
rebbero le condotte o comunque conterrebbero solo la descri‑
zione programmatica di future condotte.
In effetti, il Tribunale non si è avveduto che la massima
della Cassazione non può attagliarsi alla figura del reato
permanente. Ne ha dato contezza proprio il Tribunale della
Libertà remittente che, nell’abbozzare l’indirizzo poi seguito
dalla S.C., aveva modificato la decisione con cui il G.i.p. di
Catanzaro aveva rigettato la richiesta custodialedel P.M. (sia
in relazione al reato di detenzione continuata di stupefacenti
ai fini dello spaccio sia in relazione all’ipotesi di associazione
per delinquere finalizzata allo spaccio) limitandosi ad acco‑
glierla in relazione al primo reato, proprio perché la prova del
delitto associativo risultava inutilizzabile essendosi esaurita
inevitabilmente nelle dichiarazioni, su fatti pregressi, rese,
dall’indagato, all’agente provocatore8.
In ogni caso, la S.C., successivamente alla pronuncia di
cui sopra, ha meglio specificato quali caratteristiche devono
rivestire le dichiarazioni per non essere rivelatrici di pregres‑
si accadimenti ma limitarsi ad accompagnare le condotte.
Secondo Cass., sez. II, ud. 31 marzo 1998, Parreca, in CP
2000, 602, “… non può viceversa invocarsi la sanzione di
inutilizzabilità con riferimento agli elementi che l’operatore
di polizia giudiziaria infiltrato abbia potuto osservare e co‑
noscere senza provocare le dichiarazioni di alcuno, senza cioè
svolgere, sotto mentite spoglie e senza garanzie difensive,
un’attività analoga a quella che, se palese, tali garanzie avreb‑
be richiesto. Nel caso di specie – continua la Corte – risulta
utilizzabile la dichiarazione dell’agente infiltrato laddove si
è limitato a riferire la presenza dell’esattore negli uffici
dell’azienda vittima dell’estorsione e della finalità di tale
presenza; mentre non è utilizzabile il colloquio intercorso tra
l’esattore e l’ufficiale di P.G.” 9 . In questo più recente solco
(più attento alle garanzie individuali) si pongono peraltro le
stesse Sezioni unite che con sentenza 20 dicembre 2001 (u.d.
19 dicembre 2001), n. 37, Ranieri, in DPP n. 2/2002, p. 196,
hanno ritenuto sussistente il divieto di testimonianza sulle
dichiarazioni rese dall’imputato perfino quando queste siano
state raccolte da un ispettore del lavoro nel corso di una in‑
dagine amministrativa in quanto “l’osservanza delle disposi‑
zioni del codice“‑ che l’art. 220 disp. att. c.p.p. riconosce
all’indagine amministrativa qualora emergano indizi di rea‑
to – scattano già in presenza di “semplici dati indicativi di un
fatto apprezzabile sotto il profilo penale” (dovendosi inten‑
8Volendo dunque mutuare l’indirizzo del Tribunale della Libertà di Catanzaro
(condiviso e fatto proprio dalla S.C.), dovremmo concludere che le dichiarazio‑
ni dell’agente provocatore sarebbero utilizzabili limitatamente al reato (qui
contestato) di tentata estorsione ma sarebbero inutilizzabili in relazione ai
(pure contestati) reati associativi.
9 Prima di ciò la sentenza recita: “non è consentito alla polizia giudiziaria, in un
sistema rigorosamente ispirato al principio di legalità, scostarsi dalle previsioni
legislative per compiere atti atipici i quali, permettendo di conseguire risultati
identici o analoghi a quelli conseguibili con gli atti tipici, eludano tuttavia le
garanzie difensive dettate dalla legge per questi ultimi. Siffatta elusione indub‑
biamente si verifica allorché l’operatore di polizia giudiziaria, non palesandosi
come tale, miri ad ottenere dalla persona già colpita da indizi di un reato di‑
chiarazioni che possano servire alla prova di questo e della relativa responsa‑
bilità; ne consegue che di tali dichiarazioni non può tenersi conto non solo nei
confronti di chi le ha rilasciate, ma anche nei confronti degli indagati per il
medesimo fatto ovvero per fatti connessi o collegati, secondo quanto dispone
l’art. 63, c. II, c.p.p. come interpretato da sez. un., 9 ottobre 1996, n. 206846,
Carpinelli, dalle cui conclusioni non vi è motivo per discostarsi”.
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dere in tale senso lato, e non in quello strettamente tecnico,
la nozione di indizio).
In ultima analisi comunque, non può sfuggire un ulterio‑
re profilo di operatività, rispettivamente, dei limiti previsti
dall’art. 63, comma II, c.p.p. e del divieto contenuto nell’art. 62
c.p.p.
Ed infatti, le garanzie previste dall’art. 63, c. II, c.p.p., – nel
caso in cui risultasse provato chel’agente provocatore ha esor‑
bitato dal proprio mandato, come sostiene la difesa, v. ultra
– sarebbero chiamate ad operare a tutela dell’Ufficiale sotto
copertura e, per tale via, si estenderebbero agli imputati10. I
divieti di cui all’art. 62 c.p.p., infine, operano senz’altro – co‑
me già detto – in virtù di quanto previsto dalla nuova dispo‑
sizione dettata dall’art. 195, comma quarto, c.p.p.
Il divieto di testimonianza indiretta – reintrodotto
dall’art. 4 della l. 63/2001 dopo la scelta ‘inquisitoria’ com‑
piuta dalla sentenza della Corte Cost., 31 gennaio 1992,
n. 24‑ opera, infatti, in relazione a tutti gli atti tipici (discipli‑
nati nelle forme di espletamento e documentazione) tra i
quali non può non rientrare l’attività effettuata dall’agente
provocatore finalizzata proprio a carpire, ai fini investigativi,
le dichiarazioni dei soggetti contattati. L’ufficiale sottocoper‑
tura, infatti, è obbligato a verbalizzare la propria attività con
conseguente divieto di testimonianza in merito alla stessa.
Né è consentibile che l’agente di P.G. (per non incorrere
nel divieto di testimonianza indiretta) ometta di documenta‑
re l’atto ricorrendo alla sua registrazione meccanica: in tal
caso la redazione del verbale non potrebbe ritenersi surrogato
dalla registrazione meccanica che, peraltro, assolvendo, per
tale via, ad una funzione documentativa di un atto anzicché
rappresentativa di un fatto, non sarebbe più qualificabile
quale prova documentale ex art. 234 c.p.p.11.
In conseguenza del divieto di testimonianza sulle conver‑
sazioni tenute con gli indagati non possono essere acquisite le
relative registrazioni di tali incontri. Diversamente si aggire‑
rebbe il divieto previsto dall’art. 62 c.p.p. che, per un verso,
intende salvaguardare la genuinità delle dichiarazioni prove‑
nienti dall’indagato (prescrivendo forme tassative per la loro
utilizzabilità)12, dall’altro, vuole affermare – in ultima anali‑
si – il principio secondo cui nemo tenetur se detegere. Ed in‑
fatti, con la norma in parola si “vuole evitare che, attraverso
il duplice meccanismo delle dichiarazioni spontanee e della
testimonianza de auditu, venga aggirato il diritto al silenzio
10Il caso è stato esaminato da Cass., sez. VI, sentenza 17 aprile 1994, Curatola
(in CP, 1995, 506) che – una volta ritenuto che l’attività dell’agente provocato‑
re si era posta “fuori dalla sfera di operatività dell’art. 51 c.p. ossia dell’adem‑
pimento di un dovere di polizia giudiziaria “ – ha ravvisato la necessità che le
dichiarazioni dallo stesso rese rispettassero le garanzie previste dall’art. 63,
comma secondo, c.p.p., la cui violazione rende quelle dichiarazioni inutilizza‑
bili tanto nei confronti del dichiarante (teste) quanto nei confronti di terzi (v.
sez. I, n. 620 del 1991, Bruno e Rel. Prel. c.p.p.). “Tale inutilizzabilità” – pro‑
segue la sentenza – “è rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del procedimen‑
to”.
11Sul punto v. commento a Cass. Pen., III, sentenza 13 giugno 2001, n. 28376,
Vanacore, in CP 2002, 810.
12La Relazione al progetto preliminare chiarisce che di ogni dichiarazione resa
dall’inquisito “faccia fede solo la documentazione scritta, da redigersi e da
utilizzarsi con le forme ed entro i limiti previsti per le varie fasi del procedimen‑
to” (pag. 32). Tale precisazione – secondo la dottrina – bandisce ogni forma di
documentazione delle dichiarazioni provenienti dall’inquisito diversa dalla
verbalizzazione degli atti tipici (sommarie informazioni ex art. 350 c.p.p., in‑
terrogatorio nelle indagini preliminari e nell’udienza preliminare, esame e
confronto nell’incidente probatorio e nel dibattimento).
2 0 1 2
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dell’ inquisito” (Rel. al Prog. Prel. c.p.p., p. 32). Ciò è pacifica‑
mente sostenuto sia dalla giurisprudenza che dalla dottrina13.
3. Lo Statuto dell’infiltrato alla luce della giurisprudenza comuni‑
taria
Il diffondersi di fenomeni di criminalità transfrontaliera
ha impegnato i legislatori comunitari nella individuazione di
un sistema normativo, anche minimo, che da un lato valoriz‑
zasse i flussi infoinvestigativie la cooperazione giudiziaria
dall’altro idoneo, comunque, a contenesse l’uso della figura
dell’agente infiltrato.
Alla figura delle operazioni undercover; infatti, hanno
dedicato ampio spazio sia la Convenzione O.N.U. di Palermo
sul crimine organizzato transnazionale, sia l’Accordo di mu‑
tua assistenza e cooperazione giudiziaria fra gli Stati membri
della Comunità europea.
In particolare la Convenzione di Palermo ha obbligato gli
Stati aderenti a varare una serie di misure dirette, da un lato,
a criminalizzare i delitti previsti dalla Convenzione stessa e
dai suoi protocolli, dall’altro, ad adottare adeguate strutture
di prevenzione e di investigazione14.
Il legislatore italiano ha recepito, in maniera parziale, i
principi generali, infatti l’art. 9 della legge 16 marzo 2006,
n. 146, ha effettuato la razionalizzazione delle scriminanti
speciali relative alle attività infiltrate15.
L’utilizzazione dell’azione sotto copertura per una serie di
reati qualificati, risponde alla tendenza dei legislatori europei
di vedere questo strumento investigativo comunque “sostan‑
zialmente insidioso, da utilizzare come estrema ratio e soltan‑
to in relazione a reati di una certa consistenza” L’apparato
13Cass., sez. VI, sentenza 8 febbraio 1996, n. 4136, P.M. in proc. Sindoni,
“Dall’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche consegue necessariamente
l’impossibilità di acquisire il contenuto delle stesse attraverso l’esame testimo‑
niale delle persone che hanno provveduto al loro ascolto”; Leonardo Filippi,
L’intercettazione di comunicazioni, Giuffrè 1997, “Non solo la testimonianza
dell’ufficiale di p.g. e dell’agente segreto sul contenuto del colloquio … è preclu‑
sa, ma anche la registrazione di tale dialogo è processualmente inutilizzabile”.
14Sotto quest’ultimo profilo, l’art. 20 del Trattato in esame afferma la necessità
per gli Stati contraenti di adottare, nel rispetto del diritto interno e in confor‑
mità con i principi sanciti dall’ordinamento nazionale, le misure necessarie a
consentire l’impiego di consegne controllate, di sorveglianze elettroniche e
delle operazioni sotto copertura, in merito alle quali i Paesi membri sono invi‑
tati a stipulare accordi bilaterali o multilaterali o, in mancanza di intese a livel‑
lo internazionale, decisioni ad hoc per il caso concreto.
15Le norme disciplinanti l’utilizzo di investigazione undercover erano tutte con‑
tenute in disposizioni extracodicistiche emanate per far fronte – secondo
un’oramai consolidata tradizione giuridica italiana – a situazioni emergenziali
causate dall’escalation di reati di particolare pericolosità e di grave allarme
sociale. Si tratta, nello specifico, degli artt. 97 e 98 TULS relativi al traffico di
stupefacenti, dell’art. 12‑ quater l. 356/92 in materia di ricettazione e riciclaggio,
dell’art. 14,l. 269/98 per reati aventi ad oggetto lo sfruttamento della prostitu‑
zione, della pedo‑pornografia ed il turismo sessuale a danno dei minori e
dell’art. 4, l. 438/01 concernente misure urgenti per contrastare il terrorismo
internazionale. Nonostante l’arco temporale relativamente breve in cui sono
state emanate, queste disposizioni non si sono limitate a introdurre la possibi‑
lità di ricorrere all’agente sotto copertura cosi come delineato in dottrina o in
numerose pronunce giurisprudenziali, ma sono volte, ciascuna con proprie
caratteristiche peculiari, a configurarne i limiti di esistenza nonché a discipli‑
narne l’utilizzo. Tutto ciò, se da un lato ha sciolto, sotto il profilo strettamente
normativo, alcuni dubbi sorti in merito alla legittimità del ricorso a tale stru‑
mento, dall’altro ha posto all’attenzione di studiosi e pratici il problema
dell’esistenza di una figura unitaria di agente sotto copertura.
A porre fine alla frammentarietà della disciplina e intervenuta recentemente la
legge 16 marzo 2006, n. 146 che, nel ratificare la Convenzione ed i protocolli
delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transazionale – tenutasi a
Palermo nel dicembre 2000 –, ha razionalizzato e coordinato la disciplina con
la normativa previgente mediante una reductio ad unum.
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normativo interno, a differenza dei corrispondenti modelli
stranieri, è ispirato essenzialmente alla finalità di stabilire
limiti e condizioni di non punibilità delle condotte dell’agente
provocatore ed è dunque tutto proiettata sul piano del diritto
sostanziale, laddove scarsa è l’attenzione verso le implicazio‑
ni di diritto processuale di quell’agire provocatorio
Diverso è stato l’atteggiamento di una certa giurispruden‑
za che nell’interpretazione della normativa interna, ha mutua‑
to alcuni principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’Uomo che – nel verificare la rispon‑
denza delle normative degli Stati aderenti ai principi della
Convenzione di Roma (CEDU) – ha fissato limiti invalicabili
per l’attività di provocazione al reato.
La Corte, chiamata a giudicare sull’equità processuale
delle sentenze di condanna che abbiano come proprio fonda‑
mento l’attività investigativa svolta da agenti di polizia sotto
copertura, ha statuito che un cittadino può essere condanna‑
to per un reato alla cui commissione sia stato indotto per il
surrettizio apporto istigatorio di agenti delle forze dell’ordine,
camuffatisi, alla sola condizione che l’attività degli infiltrati
si sia limitata ad una mera infiltrazione, e non si è spinta sino
p e n a l e
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ad indurlo “positivamente” alla commissione del delitto16 e
che tale attività sottocopertura deve essere coordinata dall’Au‑
torità Giudiziaria17.
16In base alla giurisprudenza della Corte, e agente infiltrato quel soggetto che,
appartenendo alle forze di polizia o collaborando formalmente con esse, agisce
nell’ambito di un indagine ufficiale posta sotto la direzione del pubblico mini‑
stero. Il suo intervento deve, inoltre, essere giustificato dall’esistenza di fondati
sospetti a carico di un soggetto, “in base ai quali sia plausibile ritenere che [lo
stesso] si stia preparando a commettere un reato”, e che la conformità delle
azioni dell’agente undercover alle regole del diritto interno e/o internazionale e
suscettibile di essere controllata da un giudice terzo ed imparziale.
In aderenza al principio comunitario, la giurisprudenza italiana sostiene “l’esclu‑
sione della punibilità stabilita nel capoverso dell’art. 49 c.p. presuppone neces‑
sariamente la derivazione assoluta ed esclusiva dell’azione delittuosa dalla
istigazione di tale soggetto, e non può conseguentemente configurarsi quando
l’azione dell’agente proviene anche, come nella specie, da soggetti diversi (Cass.,
sez. VI, 28 aprile 2008).
17Sul punto si veda Cass., 13 aprile 2005, Gallotti secondo cui la sanzione della
inutilizzabilità colpirebbe tutte le prove illegittimamente acquisite e tali debbo‑
no considerarsi sia quelle che riguardano reati per i quali non vi era stata spe‑
cifica autorizzazione ex ante sia nel caso della diversa qualificazione delle fat‑
tispecie all’esito del dibattimento con conseguente derubricazione, sia nel caso
ricorra un qualunque vizio che inficia l’iteracquisitivo del mezzo di prova.
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●
Osservazioni in tema
di iudex suspectus
● Carmela Esposito
Avvocato
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Sommario: Premessa; 1. Incompatibilità, astensione e ricusa‑
zione nella giurisprudenza della Corte Costituzionale; 2. I
contenuti del «vizio di legalità» delineato dagli artt. 36 e 37
c.p.p.; 3. I presupposti del “diverso” itinerario correttivo
della rimessione del processo.
Premessa
Muovendo da vicende giudiziarie che hanno interessato
personaggi ai vertici della scena politica nazionale, deve addi‑
venirsi ad una riflessione ponderata in ordine alle problema‑
tiche connesse alla figura del iudex suspectus.
Orbene, una disciplina del processo penale ispirata ai prin‑
cipi costituzionali deve avere come obiettivo principale quello
di assicurare l’uniformità di trattamento dei consociati.
Affinché tale obiettivo possa essere conseguito, è necessa‑
rio che il giudice non solo sia «credibile» ma appaia effettiva‑
mente tale nell’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali.
In questa prospettiva, il legislatore codicistico ha predispo‑
sto una serie di meccanismi1 che rendono l’attività di ius dice‑
re davvero priva di “condizionamenti”, assicurando al giudice
le prerogative di status che gli sono riconosciute a livello co‑
stituzionale2.
Ed invero, sebbene il giudicante – nel rispetto dei criteri
stabiliti dalla legge processuale e da quelle di ordinamento
giudiziario – sia “capace” di trattare la questione sottoposta al
suo esame, ciò non significa che lo stesso risulti pure oggettiva‑
mente credibile. Si possono verificare, infatti, situazioni concre‑
te, ma prevedibili, che rendono l’organo giurisdizionale “sospet‑
to di parzialità”, non sereno e, quindi, non meritevole di “fidu‑
cia” agli occhi della collettività, in nome della quale egli è
chiamato a giudicare. Si tratta, cioè, di quelle situazioni in cui
viene meno, o appare venir meno, anzitutto l’imparzialitàdi
colui che deve decidere, vale a dire la sua estraneità rispetto al
fatto da giudicare, ovvero la sua terzietà, intesa come “equidi‑
stanza” del giudice dalle parti processuali e dai loro interessi3.
Quanto all’imparzialità, le vicende potenzialmente in gra‑
do di comprometterla sono disciplinate sia dalle leggi di ordi‑
namento giudiziario sia dal codice di procedura penale e ven‑
gono tutte ricomprese, sotto il profilo linguistico, nel più ampio
genus e “incompatibilità” (in senso lato). Per cui, in linea di
massima, esse si distinguono in incompatibilità derivanti:
‑ dall’esercizio di attività non consentite dalla legge o dall’as‑
sunzione non autorizzata di funzioni od incarichi (l. ord.
giud.);
‑ da ragioni di parentela, di affinità o di coniugio (artt. 35
c.p.p. e 18 e 19 l. ord. giud.);
‑ da atti compiuti nel procedimento (art. 34, comma 3,
c.p.p.);
‑ da precedente decisione nel merito (art. 34, commi 1, 2 e 2
bis, c.p.p.).
1
2
Si fa riferimento agli istituti disciplinati dagli artt. 34 ss. c.p.p.
Sulle situazioni soggettive del giudice e sulla loro “naturale” combinazione, v.
Riccio, La Procedura Penale tra Storia e Politica, Napoli, 2010, 153 ss.
3 Come è stato autorevolmente affermato, «giudice “terzo” e giudice “imparziale”
è semantica […] che va oltre l’idea di chi valuta sovrabbondante l’endiadi; abi‑
tudine semplificatrice a cui si ricorre in ogni evenienza di doppia qualificazione
della situazione (cfr., anche, art. 25, comma 1 Cost.)», dal momento che «terzi‑
età è posizione “istituzionale” del giudice e imparzialità è connotazione
dell’esercizio delle funzioni processuali» (Riccio, La Procedura Penale, cit.,
162).
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Nonostante la configurazione autonoma, le cause di in‑
compatibilità sopra descritte sono sottoposte alla stessa disci‑
plina delle ipotesi di astensione e di ricusazione (art. 36,
comma 1, lett. g, c.p.p.)4.
Esiste un’ulteriore categoria di incompatibilità, c.d. “am‑
bientale”, che riguarda la perdita di credibilità del giudice nel
posto in cui opera o l’insorgere di gravi situazioni locali che
turbano il regolare svolgimento del processo, pregiudicando
l’incolumità pubblica o la libertà delle persone che partecipa‑
no al giudizio.
A differenza delle cause di incompatibilità, di astensione
o di ricusazione, la situazione in esame deve tuttavia riguar‑
dare il giudice come organo e non come persona fisica. Del
resto, è proprio per tale motivo che, per rimuovere il vizio da
una situazione di incompatibilità ambientale, il legislatore ha
previsto il diverso rimedio (rispetto a quelli dell’astensione e
della ricusazione) della c.d. “rimessione del processo”, che
comporta lo spostamento del processo stesso ad un’altra sede
giudiziaria.
1. Incompatibilità, astensione e ricusazione nella giurisprudenza
della Corte Costituzionale
Fatte queste premesse, un chiarimento semantico in ordi‑
4Secondo Alcuni Conso‑Grevi, Profili del nuovo codice di procedura penale,
Padova, 1996, 23, il “totale assorbimento” che il legislatore del 1988 «ha vo‑
luto attuare mediante il richiamo contenuto nella lett. g dell’art. 36 lascia tutta‑
via ancora qualche piccolo margine di dubbio sulla completa perdita di identità
della categoria dell’incompatibilità», soprattutto «in relazione alla disciplina dei
requisiti di capacità del giudice (art. 33), e quindi ai fini dell’applicazione della
sanzione di nullità assoluta (art. 178). Mentre, infatti, per le situazioni di incom‑
patibilità previste dal codice di rito non può dubitarsi della loro esclusione dal
novero dei requisiti di capacità del giudice, appunto per l’espresso riferimento
dell’art. 33 alle sole leggi di ordinamento giudiziario, per quelle previste da
queste ultime leggi la soluzione sembra invece diversa». Tale distinzione si basa
sul presupposto che le prime sono stabilite dall'ord. giud. e riguardano quindi
requisiti negativi della capacità poiché attengono solo alla costituzione dell'or‑
gano giudicante, mentre le seconde si riferiscono al rapporto tra giudice e situa‑
zioni collegate ad un singolo procedimento. Di conseguenza, le incompatibilità
previste dall'ord. giud. sono sottoposte sia alla disciplina della denuncia di
parte, come motivo di astensione o di ricusazione, sia alla rilevabilità d'ufficio,
come requisito di capacità del giudice, mentre le incompatibilità previste dal
codice di rito sono sottoposte soltanto ai rimedi di cui agli artt. 36 e 37 c.p.p.
Ad ogni modo, afferma icasticamente Riccio, La Procedura Penale, cit., 163,
che «la linea normativa che fa capo all’art. 111 comma 2 Cost. si infrange
nelle disposizioni codicistiche degli artt. 34; 36; 37, dissipando ogni confusione
con il regime delle nullità, pure affermato, e si rende indipendente ed autonoma
dalla linea normativa che fa capo all’art. 25 comma 1 Cost., pure considerata.
Questa, a sua volta, si riversa nelle disposizioni codicistiche degli artt. 4 ss.; 21
ss.; 28. ss., chiudendosi a qualsiasi interferenza dell’art. 178 lett. a), che appar‑
tiene, invece, esclusivamente, al capitolo della capacità del giudice». Secondo la
giurisprudenza dominante, l'esistenza di una causa d'incompatibilità non pro‑
voca una situazione d'incapacità del giudice sanzionabile ai sensi dell' art. 178,
c. 1, lett. a, poiché essa non configura un difetto di capacità generica del magi‑
strato, il quale conserva la capacità di organo giudiziario legalmente investito
della capacità di decidere. Conseguentemente, detta causa costituisce per il
giudice motivo di astensione e per la parte motivo di ricusazione del giudice non
astenutosi (Cass., sez. III, 14 novembre 2003, Jayasurya, CED 227588; Cass.,
sez. II, 26 giugno 2003, B., CED 226572; Cass., sez. II, 6 maggio 2003, M.,
CED 226248; Cass., sez. un., 8 maggio 1996, D'Avino, in GG 1996, IV, 53;
Cass., sez. I, 13 aprile 1996, Puca, CED 204388; Cass., sez. III, 28 marzo 1996,
Catani, CED 205044; Cass., sez. I, 6 dicembre 1995, Emmanuello, CED
204858; Cass., sez. VI, 4 maggio 1995, Spano, CED 202316; Cass., sez. I, 11
aprile 1995, Matrella, CED 201866; Cass., sez. I, 21 ottobre 1994, Di Giovan‑
ni, CED 199926; Cass., sez. I, 31 marzo 1994, Toso, CED 196990; Cass., sez. I,
9 settembre 1993, Santamaria, CED 195060; Cass., sez. VI, 31 maggio 1993,
La Penna, CED 194916; Cass., sez. IV, 20 aprile 1993, Mari, in CP 1994, 1555;
Cass., sez. I, 17 marzo 1993, Primerano, CED 193364; Cass., sez. V, 8 febbra‑
io 1993, Ruggiu, CED 193196; Cass., sez. I, 13 gennaio 1993, Andreotti, CED
192688; Cass., sez. II, 21 ottobre 1992, Rizzi, CED 193128; Cass., sez. I, 5
maggio 1992, Amenta, CED 190230; Cass., sez. I, 19 dicembre 1991, Perna,
CP 1993, 2038; Cass., sez. VI, 10 luglio 1990, Peterlini, in CP1991, II, 595).
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ne ai concetti di incompatibilità, astensione e ricusazione,
risulta tuttavia necessario, pure per puntualizzare i «generici
significati dei termini costituzionali5» di “terzietà” ed “im‑
parzialità”.
A tal fine, può risultare utile muovere dalle rispettive nozio‑
ni tracciate dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.
Imprescindibile punto di partenza dell’analisi dei principi
affermati dalla Consulta in tema di incompatibilità o, più in
generale, di iudex suspectus, è senz’altro la sentenza
n. 131/19966, nella quale il Giudice delle leggi ha sottolineato,
per la prima volta, il rilievo costituzionale del canone di im‑
parzialità, quale fondamento per la realizzazione del «giusto
processo»7. Nella medesima pronuncia, la Corte ha poi chia‑
rito che l’incompatibilità del giudice ex art. 34 c.p.p. può de‑
rivare soltanto da precedenti decisioni assunte nell’ambito del
medesimo procedimento penale in cui lo stesso è chiamato a
giudicare, individuando pure le situazioni in presenza delle
quali si può porre il problema in esame. Anzitutto, occor‑
re – secondo la Corte – che le precedenti valutazioni siano
cadute sulla medesima res iudicanda. In secondo luogo, ciò che
rileva ai fini della incompatibilità non è la semplice «conoscen‑
za» degli atti ma l’aver il giudice già compiuto una «valutazio‑
ne» al fine di una decisione. Tale valutazione deve essere avve‑
nuta sul «merito» dell’accusa, nel senso che non sono sufficien‑
ti a determinare il vizio in questione giudizi meramente forma‑
li in ordine allo svolgimento del processo. Infine, la preceden‑
te valutazione deve essere avvenuta in una fase diversa, non
potendosi determinare un’assurda frammentazione dell’iter
procedimentale pur nell’ambito della medesima fase.
Quindi, alla luce di tali principi, la Corte ha sancito l’in‑
compatibilità a giudicare del giudice che si sia già pronuncia‑
to, come componente del tribunale del riesame o dell’appello
de libertate, sull’ordinanza che dispone una misura cautelare
personale nei confronti dell’indagato o imputato8.
Il passo successivo nella direzione tracciata da quella
pronuncia è segnato dalla nota «trilogia» del 1997, ovvero
dalle pronunce nn. 306, 307 e 308/19979.
Con queste tre ordinanze, la Corte ha sostanzialmente
ribadito che la ratio ’istituto della incompatibilità va ravvi‑
sata nell’esigenza di garantire l’imparzialità dell’organo chia‑
5 Riccio, op. loc. citt.
6 Consultabile in Cass. pen., 1996, n. 1204, 2107.
7Vero è che all’imparzialità – prerogativa “minima” riconosciuta già dalla
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, con tutto il suo portato pro‑
grammatico di affermazione della dignità umana – è stato riconosciuto au‑
tonomo rilievo costituzionale con l’introduzione, nel 1999, dei primi cinque
commi dell’art. 111, che, nell’affermare le regole del «giusto processo»,
sancisce, tra l’altro, l’obbligo di imparzialità del giudice. Ciò non vuol dire,
però, che prima di quella data il valore sotteso all’esigenza di imparzialità
del giudice non ricevesse adeguata tutela nel tessuto costituzionale. Come
giustamente osservato da Riccio, La Procedura Penale, cit., 160, il testo
originario della Costituzione non menzionava per il giudice la qualifica di
imparzialità, «sul dichiarato presupposto che quella connotazione appartie‑
ne allo status, all’essenza della giurisdizione. Per i Costituenti dire “giudice”
equivaleva (=equivale) ad individuare un soggetto terzo ed imparziale; e
tutto ciò pure se l’esigenza di assicurare l’indipendenza del giudice in Assem‑
blea costituente fu vivamente sentita per reazione alla precedente esperienza
dittatoriale; furono questi, forse, i motivi della maggiore cura dei profili di
indipendenza esterna, non della imparzialità».
8 Con la precedente decisione 432/1995 la Consulta aveva già sancito l’incom‑
patibilità a decidere del G.i.p. che avesse adottato una misura cautelare
personale.
9V. Cass. pen., 1998, nn. 5, 6 e 7, 22 e ss.
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mato a decidere rispetto ad attività compiute in gradi e fasi
anteriori del medesimo procedimento. Pertanto, quando
l’«attività pregiudicante» (giudiziaria o meno) sia stata com‑
piuta al di fuori di tale procedimento, si verte nell’ambito di
applicazione degli istituti dell’astensione e della ricusazione.
Di conseguenza, pur essendo l’istituto dell’incompatibilità e
quelli dell’astensione/ricusazione volti a tutelare l’imparzialità
del giudice (tanto è vero che le cause di incompatibilità per
atti compiuti nel procedimento ex. 34 c.p.p. si risolvono in
ipotesi di astensione e ricusazione, ex. 36, comma 1, lett. g) e
37, comma 1, lett. a, c.p.p.), ciò che li distingue – secondo la
Consulta – è una sorta di «tutela preventiva» che il legislatore
introduce quando individua le cause di incompatibilità.
In effetti, le cause di incompatibilità sono tassative e pre‑
determinate in relazione all’avvenuto svolgimento di funzioni
nel medesimo procedimento, e, come tali, prevedibili e preve‑
nibili attraverso la preventiva organizzazione degli uffici
giudiziari. Viceversa, quando il pregiudizio alla imparzialità
derivi da attività compiute al di fuori del giudizio in cui il
giudice è chiamato a decidere, si verte nell’ambito applicativo
dell’istituto dell’astensione‑ricusazione, non potendosi preten‑
dere dal legislatore lo sforzo di una preventiva individuazione
di tutte le ipotesi di intervento del giudice al di fuori del pro‑
cesso che deve giudicare ed un connesso onere organizzativo
in relazione ad una casistica potenzialmente senza limiti.
Infine, ha specificato la Corte, che il pregiudizio
all’imparzialità può derivare da attività compiute in un di‑
verso procedimento, anche non penale; e che, pure in tal caso,
lo strumento di tutela dell’imparzialità è quello dell’astensione/
ricusazione.
Sulla scorta degli enunciati principi, la Consulta ha dichi‑
arato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 34 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva
l’incompatibilità:
‑ a partecipare al giudizio per l’applicazione di misure di
prevenzione per il giudice che avesse già fatto parte del
tribunale del riesame chiamato a decidere sulla scorta dei
medesimi presupposti (ord. 306/1997);
‑ alla funzione di giudizio per il giudice che avesse disposto
la custodia cautelare in carcere nei confronti di correi
dell’imputato sottoposto al suo giudizio, sulla base delle
dichiarazioni confessorie e accusatorie rese dal medesimo
imputato (ord. 307/1997);
‑ alla funzione di giudizio per il giudice che avesse pronun‑
ciato una precedente sentenza in un procedimento di op‑
posizione a sanzione amministrativa, valutando inciden‑
talmente la sussistenza del fatto‑reato (ord. 308/1997).
Su queste premesse fonda la sentenza interpretativa di
rigetto n. 113/200010.
La questione sollevata riguardava la pretesa incompatibil‑
ità del giudice che aveva pronunciato in precedenza sentenza
ex. 444 c.p.p. nei confronti di uno o più concorrenti nel reato.
In tale occasione, completando il percorso intrapreso nel 1996
e proseguito con la trilogia del 1997, la Consulta ha ricono‑
sciuto che quando il giudice abbia espresso una valutazione in
un altro procedimento nei confronti di altri soggetti, ma
valutando incidentalmente la posizione del primo, è tenuto ad
astenersi, ricorrendo una «grave ragione di convenienza»,
exart. 36, comma 1, lett. h), c.p.p. Quindi, nell’individuare in
quale delle ipotesi normative di astensione andasse ricom‑
presa la precedente valutazione in un diverso procedimento,
la Consulta ha, dunque, indicato la lett. h) dell’art. 36, clau‑
sola di chiusura delle cause di astensione, che obbliga il giudice
ad astenersi quando sussistano «altre gravi ragioni di conve‑
nienza». Tale ultima espressione, ha precisato la Corte, supe‑
rando l’impostazione tradizionale, non fa riferimento soltanto
alle situazioni che investono il giudice uti privatus, ma pure a
quelle situazioni legate allo svolgimento di attività giurisdiz‑
ionale in altro procedimento, da valutare caso per caso.
In definitiva, la Corte aveva, fino a quel momento, limi‑
tato le ipotesi di incompatibilità exart. 34 c.p.p. ai soli casi in
cui l’«attività pregiudicante» fosse stata compiuta nell’ambito
del medesimo procedimento penale, in modo tale da preve‑
dere, e, dunque, prevenire (con i meccanismi tabellari di as‑
segnazione dei magistrati) le possibili cause di incompatibilità.
Allorquando, invece, la precedente valutazione di merito fosse
intervenuta nell’ambito di un diverso procedimento, anche
non penale, non essendo possibile una preventiva individuazi‑
one di tutti i casi in cui ciò potesse accadere, l’esistenza di un
pregiudizio che vulnerasse l’imparzialità andava valutata caso
per caso, e, nell’ipotesi in cui sussistesse, il giudice era tenuto
ad astenersi, ricorrendo una «grave ragione di convenienza»
ex. 36, comma 1, lett. h), c.p.p.
Tuttavia, la soluzione adottata se, da un lato, consentiva
di evitare la dispersione delle cause di incompatibilità in una
casistica non preventivabile; dall’altro, creava una sorta di
“squilibrio” tra le ipotesi in cui il giudice aveva l’obbligo di
astenersi e quelle in cui erano, viceversa, le parti ad avere il
diritto di ricusarlo.
Infatti, l’art. 37, comma 1, lett. a), nell’indicare le ipotesi
di astensione di cui all’art. 36 come altrettante ipotesi di
ricusazione, esclude, tuttavia, la lett. h), che prevede, ap‑
punto, l’obbligo di astensione del giudice quando ricorrano
«altre gravi ragioni di convenienza».
Tale squilibrio è giunto all’esame della Consulta poco
dopo la sentenza 113/2000, determinando il primo inter‑
vento additivo sull’art. 37, comma 1, c.p.p.
La questione sottoposta alla Corte riguardava l’ipotesi di
un giudice chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità di un
imputato dopo aver già manifestato il proprio parere sullo
stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto in un pro‑
cesso per l’applicazione di misure di prevenzione. Secondo la
giurisprudenza precedente, tale ipotesi, essendo stata l’«attività
pregiudicata» compiuta in un procedimento diverso da quello
in cui il giudice era chiamato a giudicare, avrebbe dovuto
determinare un obbligo di astensione, sussistendo una «grave
ragione di convenienza».
Sennonché, accanto al dovere di astensione, non era pre‑
visto un analogo diritto delle parti alla ricusazione, pur es‑
sendo l’imparzialità del giudice un vero e proprio diritto delle
parti stesse, nell’ottica di un diritto complessivo al «giusto
processo».
Per tali ragioni, la Corte, accogliendo la questione sotto‑
posta al vaglio di costituzionalità, con la sentenza n. 283/200011
10In Cass. pen., 2000, n. 1233, 2214.
11In Cass. pen., 2000, n. 1606, 2959.
penale
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D i r i t t o
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p r o c e d u r a
ha completato il ragionamento avviato con la sentenza
113/2000, riconoscendo alle parti la facoltà di ricusare il
giudice che avesse espresso una valutazione di merito sullo
stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto in un diverso
procedimento, anche non penale.
Con tale decisione, la Corte non ha inteso tuttavia elimi‑
nare completamente la differenza di presupposti per l’opera‑
tività degli istituti dell’astensione e della ricusazione, ma ha
comunque aperto la strada a probabili, futuri passaggi inter‑
pretativi.
È lecito attendersi, invero, che la Corte riconosca che,
quando le «altre gravi ragioni di convenienza» di cui all’art. 36,
comma 1, lett. h), c.p.p. riguardano pregiudizi di carattere
non squisitamente “personale” del giudice, al dovere di asten‑
sione di questi corrisponda un analogo diritto delle parti alla
sua ricusazione.
Sulla scorta del portato giurisprudenziale della Consulta12,
si può dunque affermare che si realizza una situazione di in‑
compatibilità “in senso stretto”, ex art. 34 c.p.p., quando
l’«attività pregiudicante» è compiuta all’interno del medesimo
procedimento penale, ma in una fase differente da quella nel‑
la quale dovrebbe essere compiuta l’«attività pregiudicata».
Viceversa, si è in presenza di una causa di astensione o di
ricusazione quando la situazione pregiudizievole o preesiste
al procedimento penale [incompatibilità per ragioni di affini‑
tà o coniugio ex. 35 c.p.p.; art. 36, comma 1, lett. a), b), d),
e), f), c.p.p.], o si realizza al di fuori del procedimento mede‑
simo [art. 36, comma 1, lett. c) e 37, comma 1, lett. b),
c.p.p.].
In tale sistematica trova posto pure l’ipotesi delle “gravi
ragioni di convenienza” di cui all’art. 36, comma 1, lett h),
c.p.p., la quale può consistere o in vicende che riguardano il
giudice uti privatus (e che, pertanto, di regola preesistono al
procedimento penale) o in precedenti valutazioni di merito ef‑
fettuate in un diverso procedimento (e, dunque, “esterne” a
quello pregiudicando)13. È chiaro poi che, prendendo come
punto di riferimento l’art. 36 c.p.p., le situazioni di incompati‑
bilità che compromettono il valore dell’imparzialità sono quel‑
12Va precisato che i principi indicati dalla Consulta sono stati più volte riba‑
diti in numerose altre decisioni che hanno in gran parte ripercorso l’iter ar‑
gomentativo della trilogia del 1997: tra queste possono essere segnalate la
sent. 331/1997 in Cass. pen., 1998, n. 203, 394 e l’ord. 178/1999 in
Cass. pen. 1999, n. 1368, 2793.
13 Per dovere di completezza, vanno menzionate anche due decisioni nelle quali la
Corte si è discostata dalla rigida schematizzazione operata con le pronunce sopra
esaminate. Si tratta delle sentenze n. 371/1996 (in Cass. pen., 1997, n. 384, p.
660) e 241/1999 (in Cass. pen., 1999, n. 1545, p. 3075), con le quali la Consulta
ha superato il principio di corrispondenza tra incompatibilità e precedente valu‑
tazione espressa nell’ambito dello stesso procedimento, affermando, con la prima
(sent. 371/1996), che l’incompatibilità a partecipare al giudizio può sussistere
anche quando il giudice abbia pronunciato una precedente sentenza nei confron‑
ti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla
sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata; e, con la seconda (sent.
n. 241/1999), l’incompatibilità a giudicare del giudice che avesse pronunciato
sentenza nei confronti del medesimo soggetto per lo stesso fatto (ipotesi di con‑
corso formale di reati) in un diverso procedimento. In altri termini, tali pronunce
sovvertivano il sistema delle incompatibilità ex art. 34 c.p.p. che, fino ad allora,
era consistito in un catalogo tassativo di casi ed aprivano la strada ad indetermi‑
nate valutazioni da effettuarsi «caso per caso». Tuttavia, la Corte, avvedutasi
della disomogeneità di quelle decisioni rispetto ai principi affermati nelle altre, ha
ripetutamente tentato di giustificarle, definendole «casi estremi», nei quali la va‑
lutazione «pregiudicante», benché espressa in un procedimento formalmente di‑
verso, riguardava vicende processuali «sostanzialmente unitarie» che di regola
avrebbero dovuto essere giudicate nell’ambito del medesimo procedimento.
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le legate a precedenti valutazioni operate dal giudice e richia‑
mate nella prima parte della lett. g della norma citata; mentre
tutte le vicende indicate nelle altre lettere dell’art. 36 (e quelle
di cui all’art. 35 c.p.p. ed alle leggi di ordinamento giudiziario),
che scaturiscono da specifici interessi (diretti o indiretti) nel
procedimento, ne mettono invece in pericolo la terzietà.
Un discorso a parte merita la statuizione di cui all’art. 45
c.p.p., poiché essa, trovando, come vedremo, soluzione sul
terreno dello spostamento della competenza (artt. 46 ss.
c.p.p.), involge (anche) il canone costituzionale della precosti‑
tuzione giudice14.
2. I contenuti del «vizio di legalità15» delineato dagli artt. 36 e 37
c.p.p.16
Vediamo, a questo punto, in che modo la giurisprudenza
ha riempito di contenuti le ipotesi di astensione indicate
nell’art. 36 c.p.p. e, in particolare, quelle di cui alla lett. a (in‑
teresse nel procedimento); alla lett. c (manifestazione di pareri
o consigli sull’oggetto del procedimento fuori dell’esercizio
delle funzioni giudiziarie); alla lett. d (inimicizia grave); e alla
lett. h (gravi ragioni di convenienza) della norma citata.
Il giudice ha l’obbligo di astenersi, ex. 36 c.p.p.:
a) se ha interesse nel procedimento o se alcuna delle parti
private o un difensore è debitore o creditore di lui, del
coniuge o dei figli;
b) se è tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una
delle parti private ovvero se il difensore, procuratore o
curatore di una di dette parti è prossimo congiunto di lui
o del coniuge;
c) se ha dato consigli o manifestato il suo parere sull’oggetto
del procedimento fuori dall’esercizio delle funzioni giudi‑
ziarie;
d) se vi è inimicizia grave fra lui o un suo prossimo congi‑
unto e una delle parti private;
e) se alcuno dei prossimi congiunti di lui o del coniuge è of‑
feso o danneggiato dal reato o parte privata;
f) se un prossimo congiunto di lui o del coniuge svolge o ha
svolto funzioni di pubblico ministero;
g) se si trova in taluna delle situazioni di incompatibilità
stabilite dagli articoli 34 e 35 e dalle leggi di ordinamento
giudiziario;
h) se sussistono altre gravi ragioni di convenienza.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione si è pronun‑
ciata più volte su questioni inerenti le predette cause di asten‑
sione, precisando, con le proprie massime, la rilevanza ed i
contenuti di alcune di esse.
In particolare, con riferimento al motivo di cui alla lettera
a) dell’art. 36 c.p.p., la Suprema Corte ha ripetutamente af‑
fermato che l’interesse nel procedimento deve circoscriversi
all’influenza che per la sfera patrimoniale del magistrato
(intesa in senso lato) possa avere la soluzione in un certo
senso della controversia, specificando che la nozione di “in‑
teresse” è quella per la quale «il giudice ha la possibilità di
14 Cfr. Riccio, La Procedura Penale, cit., 163.
15 Così lo definisce Riccio, op. loc. ultt. citt.
16È chiaro che molti dei principi fissati dalla Suprema Corte in tema di astensio‑
ne, riguardano pure l’art. 37 c.p.p. in tema di ricusazione, in quanto – a parte
l’eccezione di cui all’art. 37, comma 1, lett b), c.p.p. – i motivi di ricusazione
costituiscono, com’è noto, altrettante cause di astensione.
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rivolgere a proprio vantaggio economico o morale l’attività
giurisdizionale che è stato chiamato a svolgere nel processo
oppure che si è venuta a creare sulla base di rapporti person‑
ali svoltisi al di fuori del processo»17.
Su tale premessa, si è affermato che l’interesse in esame
«deve essere giuridicamente rilevante mentre non rilevano
semplici presunte irregolarità nella conduzione del procedi‑
mento che non sono indicative di procurare un vantaggio
economico»18 o errati apprezzamenti sulla valenza indiziaria
di determinate acquisizioni19. Tuttavia, l’esistenza di un pro‑
cedimento disciplinare per comportamenti attinenti ad attivi‑
tà e provvedimenti giurisdizionali in precedenza adottati può
costituire «interesse» quando il giudice debba pronunciarsi
sui medesimi fatti nel medesimo procedimento penale20.
A conferma della necessità che l’interesse richiesto dalla
norma deve avere una consistenza di natura patrimoniale o
morale si è affermato che la nozione normativa «non include
i casi in cui esso ha natura, anche lato sensu, politica, non
riguardando comunque un siffatto generico interesse ideolo‑
gico l’oggetto del procedimento, dal quale può sorgere quello
pregiudizievole per l’imparzialità del giudice»21. Il concetto in
esame non ricomprende, invero, i casi di appartenenza del
giudice ad una compagine politica comune o contraria a
quella di una delle parti. E ciò, per la evidente necessità sia di
garantire pure al magistrato il godimento di diritti fondamen‑
tali come la libertà di manifestazione del pensiero e di asso‑
ciazione sia di non indebolire il principio del giudice naturale,
considerata pure la difficoltà di accertamento dell’interesse
politico pregiudizievole22.
In riferimento alla lettera c) della norma in esame, non si
è in presenza di analoga uniformità di indirizzo.
Ed invero, da un lato, è stato affermato che tale causa di
astensione «implica che in quel parere sia riconoscibile l’espres‑
sione di un vero e proprio convincimento nutrito dal giudice
in ordine a quello che egli ritiene essere lo sbocco giuridica‑
mente necessario del procedimento de quo, rimanendo quindi
estranea la diversa eventualità che il giudice si sia limitato ad
esprimere una generica valutazione meramente probabilistica
circa il presumibile esito del medesimo procedimento»23, spe‑
cificandosi che tale ipotesi si verifica «quando il parere sull’og‑
getto del procedimento sia stato manifestato fuori dall’eserci‑
zio delle funzioni giudiziarie»24 e non quando «la prospetta‑
17 Cass., sez. VI, 5 marzo 1998, Strazzullo, C.E.D. 210839.
18 Cass., sez. VI, 18 giugno 1998, Cuccurullo, C.E.D. 211132.
19 Cass., sez. IV, 19 gennaio 2000, Previti, in ANPP, 2000, 277.
20 Cass., sez. II, 21 giugno 1999, Cuzzocrea, C.E.D. 213850.
21 Cass., sez. I, 12 agosto 1996, C.E.D. 205633.
22 Cfr. Cass., sez. VI, 7 aprile 1999, Craxi, CED 213668, in cui la Cassazione ha
precisato che l’interesse di cui alla lett. a) «deve circoscriversi all’influenza che
per la sfera patrimoniale del magistrato possa avere la soluzione in un certo
senso della controversia. Escludendosi quindi da tale nozione l’interesse politi‑
co o ideologico, peraltro introdotto dal ricorrente Craxi con la generica dizione
lessicale di «accanimento giudiziario». Nello stesso senso, Cass., sez. I, 12
agosto 1996, Vitalone, in ANPP 1997, 219; Cass., sez. V, 6 maggio 1982, De
Laurentis, in CP 1983, 1166; Cass., sez. I, 9 aprile 1981, Bernardelli, in GP
1982, III, 202; Cass., sez. I, 6 luglio 1976, Sogno, in CP 1978, 111; Cass., sez. I,
5 novembre 1971, Canale, in CP 1972, 1742. Al contrario, secondo Cass.,
sez. V, 15 ottobre 1997, Di Bari, in Cass. pen. 1998, n. 1584, l’appartenenza
del giudice ad un ordine massonico costituisce un valido e concreto motivo di
ricusazione per la sussistenza di un interesse nel procedimento.
23 Cass., sez. I, 18 luglio 1996, C.E.D. 205322.
24 Cass., sez. I, 6 novembre 1996, C.E.D. 205843.
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zione del giudice si collochi nell’ambito delle sue funzioni e ne
costituisca legittima espressione. Caso in cui un presidente di
un collegio giudicante aveva invitato una parte a precisare le
circostanze sulle quali doveva vertere l’esame di un testimone,
rientrando tale iniziativa nelle funzioni presidenziali»25.
Dall’altro lato, si è anche ritenuta «manifestazione di parere»,
rilevante ex lett. c) dell’art. 36 c.p.p., l’aver rilasciato dichia‑
razioni ad un organo di stampa su questioni attinenti alla
competenza per connessione26. Quanto all’espressione «fuori
dell’esercizio delle funzioni giudiziarie», si è poi specificato
che non rilevano né il momento, né il luogo, né il destinatario
né la qualità del parere espresso, né che il procedimento sia in
corso o ancora non si sia iniziato27.
In merito alla lettera d) dell’art. 36 c.p.p., la Cassazione si
è più volte soffermata sul concetto di inimicizia ravvisando
che esso si sostanzia «nell’ipotesi in cui vi siano tra giudice e
imputato rapporti personali estranei al processo, che però
nono possono essere rappresentati dall’animosità dimostrata
dal primo nel corso del procedimento e, in genere, dal tratta‑
mento riservato all’imputato»28.
Diversamente dall’ipotesi di grave inimicizia tra il giudice
e una parte privata, la giurisprudenza non ravvisa la sussi‑
stenza del motivo di cui alla lettera d) nel caso “di grave ini‑
micizia tra giudice e difensore”29. Inoltre, la Suprema Corte
ha pure affermato che l’inimicizia «non rileva nel caso di in‑
solito attivismo da parte del giudice nella rapida fissazione
della trattazione di un processo, specialmente se la rapidità
non abbia influito sulla assegnazione a giudice tabellarmente
previsto e sia stata motivata dalla prossimità della prescrizio‑
ne del reato, né rileva nella intemperanza verbale usata dal
giudice nei confronti dell’imputato rilevabile in alcuni docu‑
menti giudiziari»30. Esso, invece, è stato ravvisato quando «la
condotta endoprocessuale del giudice sia indice di malafede,
di dolosa scorrettezza, di vero e proprio abuso della funzione
da parte del giudice stesso, che finisce così per abdicare al
proprio ruolo di giudice terzo ed imparziale. Deve trattarsi
quindi, di un comportamento che presenti aspetti talmente
anomali e settari da doverlo considerare necessariamente sul
piano logico manifestazione di grave inimicizia»31.
Quanto alle cause di incompatibilità richiamate dalla
25 Cass., sez. VI, 16 marzo 1998, C.E.D. 210825.
26 C. App. Napoli, 16 dicembre 1995, Alfieri, in DPP 1996, 467.
27 Cass., sez. I, 15 ottobre 1996, Priebke, in Cass. pen., 1997, n. 665, 1058.
28 Cass., sez. I, 28 aprile 1992, Neri, C.E.D. 189951, in Cass. pen., 1993, 1487;
Cass., sez. I, 27 novembre 1996, C.E.D. 206065 e Cass., sez. V, 1 aprile 1999,
Arnesano, C.E.D. 212923. Invece, Cass., sez. VI, 24 agosto 1995, Miglio,
C.E.D. 202324, ha specificato che «non può confondersi l’inimicizia fra magi‑
strato e parte con le iniziative di quest’ultima tesa a sottrarsi al proprio giudice
naturale». Sul punto cfr. anche Cass., sez. I, 12 luglio 1996, C.E.D. 205315;
Cass., sez. I, 12 agosto 1996, C.E.D. 205632; Cass., sez. I, 29 aprile 1999,
Proni, C.E.D. 213282.
29 Cass., sez. I, 13 aprile 1996, Saraca, C.E.D. 204337, in Cass. pen., 1997,
1771.
30 Cass., sez. VI, 7 aprile 1999, Craxi, cit.
31 Cass., sez. VI, 5 aprile 2000, Galgano, C.E.D. 215740. Sul tema, v. pure Cass.,
sez. VI, 27 febbraio 2002, Previti, C.E.D. 220947, secondo cui «l’adozione di
un’ordinanza con cui il giudice esercita il potere di verificare l’impedimento
dell’imputato – partecipazione ad una seduta della Camera di appartenenza – a
comparire in udienza, adotto con riferimento all’attività di parlamentare e non
provato in modo idoneo dall’imputato medesimo, non rappresenta comporta‑
mento macroscopicamente anomalo e settario, valutabile come sintomatico di
grave inimicizia, idonea a fondare un’istanza di ricusazione del giudice». Nello
stesso senso, da ultimo, pure Cass., sez. V, 16 dicembre 2004, Querci, C.E.D.
233199.
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lettera g) dell’art. 36 c.p.p., la Suprema Corte ha specificato
che «non si trova in una situazione di incompatibilità il
G.i.p.che, dopo aver emesso nei confronti dell’imputato decre‑
to di giudizio immediato, a seguito della dichiarazione di
nullità della richiesta di tale giudizio e del procedimento re‑
lativo, fissa innanzi a sé l’udienza preliminare per decidere
sulla successiva richiesta di rinvio a giudizio del medesimo
imputato, in quanto la già effettuata valutazione sull’eviden‑
za della prova non è suscettibile di precludere allo stesso
giudice la celebrazione di un’udienza destinata unicamente a
vagliare la necessità del giudizio dibattimentale. Non vi è
all’esito della stessa alcune decisione sul merito della res iudi‑
canda, ma unicamente una valutazione finalizzata ad accer‑
tare la legittimità della richiesta di rinvio a giudizio»32.
È chiaro che non si tratta dell’unica pronuncia sul tema.
La lettera in esame, infatti, è strettamente collegata a quella
di cui all’art. 34 c.p.p., la quale è stata oggetto di numerosi
interventi della giurisprudenza, soprattutto costituzionale,
che per evidenti ragioni pratiche non sono riportabili in que‑
sta sede. Ad ogni modo, si ricordi che a seguito delle varie
decisioni della Consulta sull’art. 34 c.p.p. è sorta l’opportu‑
nità di una novella legislativa che rendesse tale disposizione
di più facile lettura. Sicché, si è assistito ad una vera e propria
successione di leggi tra la norma così come risultava dagli
interventi additivi ed interpretativi della Corte e la nuova
formulazione di volta in volta adottata dal legislatore33. Il
tutto, sempre nel rispetto del criterio fondamentale di “con‑
servazione” del “giudicato costituzionale”34.
Infine, la Cassazione, con specifico riferimento alla lette‑
ra h) dell’art. 36, comma 1, c.p.p., si è limitata soprattutto a
sottolineare che «i casi di ricusazione sono tassativamente
indicati nell’art. 37 comma primo c.p.p.: tra questi non rientra
l’ipotesi delle altre gravi ragioni di convenienza previste
dall’art. 36 c.p.p. in materia di astensione»35.
3. I presupposti del “diverso” itinerario correttivo della rimessio‑
ne del processo
L’esigenza di assicurare un sereno svolgimento del proces‑
so, quale ineliminabile condizione per l’affidabilità del suo
esito, è tutelata dal meccanismo – come detto, derogatorio ai
criteri di competenza territoriale – delineato dagli artt. 45 e
46 del codice di rito.
L’ art. 45c.p.p. e, più in generale, ‘istituto della rimessione
del processo è stato oggetto della riforma dalla l. 7 novembre
2002 n. 248, la quale ha modificato significativamente le
32 Cass., sez. IV, 20 aprile 1993, C.E.D. 1939905. In senso conforme, Cass.,
sez. VI, 9 maggio 1998, C.E.D. 210663; Cass., sez. VI, 9 maggio 1998, C.E.D.
210662. Sul punto, v. pure Cass., sez. VI, 6 maggio 1994, C.E.D. 198490; Cass.,
sez. I, 17 febbraio 1996, C.E.D. 203800, in cui viene spiegato che «l’incompa‑
tibilità a far parte del collegio giudicante non configura un difetto di capacità
del giudice, ma costituisce solo motivo di ricusazione da far valere con la pro‑
cedura prevista dal codice di rito»; Cass., sez. III, 30 gennaio 1999, C.E.D.
212385; Cass., sez. V, 15 luglio 1999, C.E.D. 214292; Cass., sez. IV, 13 ottobre
1999, C.E.D. 214771 in relazione alla causa generale di incompatibilità previ‑
sta dal legislatore con l’art. 171 della legge 19 febbraio 1998, nr. 51.
33Si tratta, in particolare, del d lgs. n. 51/1998; della l. 479/1999; del d.l.
n. 82/2000 conv. dalla l. 144/2000 e della l. n. 95/2004.
34 Per un’analisi esaustiva delle vicende normative e giurisprudenziali dell’art. 34
c.p.p., v. APRATI, Commento all’art. 34, in GIARDA‑SPANGHER (a cura di),
Codice di procedura penale commentato, 2010, 472 ss.
35 Cass., sez. VI, 24 agosto 1995, Capponi, C.E.D. 202329. Da ultimo, cfr. pure
Cass., sez. I, 11 marzo 2009, Cariolo, C.E.D. 243562.
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disposizioni introdotte dal legislatore del 1988. In particola‑
re, la novella ha inserito, accanto ai casi già previsti dall’ori‑
ginaria stesura, la nuova ipotesi di trasferimento del processo
per “legittimo sospetto”.
L’intervento normativo in esame muove, come è noto,
dalle istanze di rimessione che, nel corso di alcuni processi
milanesi, furono sottoposte alle Sezioni unite della Cassazio‑
ne, le quali, accogliendo l’eccezione di illegittimità costituzio‑
nale dell’art. 45 per difetto di delega con riferimento alla di‑
rettiva n. 17, relazione al criterio della legittima suspicione,
trasmettevano gli atti alla Corte costituzionale36. Sennonché,
nelle more dell’intervento della Consulta, si procedeva ad
accelerare l’approvazione della legge cd. “Cirami”, con la
quale si ripristinava, in attuazione dell’art. 111, comma 2,
Cost. (e del riferimento, ivi contenuto, all’imparzialità del
giudice), il legittimo sospetto quale causa di rimessione del
processo37.
Nell’attuale versione dell’art. 45 c.p.p. la situazione su cui
fonda il “disagio ambientale” è dunque costituita da “gravi
situazioni locali”, le quali si possono, a loro volta, manifesta‑
re su tre livelli alternativi di pregiudizio:
‑ per la libera determinazione delle persone che partecipano
al processo;
‑ per la sicurezza o l’incolumità pubblica;
‑ per motivi di legittimo sospetto.
Considerate pure le altre novità introdotte con la riforma
del 2002 (diversa determinazione dei motivi legittimanti la
richiesta; ampliamento delle facoltà di iniziativa dell’imputato;
criterio automatico di individuazione del giudice cui il proces‑
so va rimesso; conservazione da parte dell’imputato dei dirit‑
ti e delle facoltà; decisione del giudice cui il processo è rimes‑
so sulla validità degli atti, anche su sollecitazione delle parti,
quando possibile) si è detto giustamente che la disciplina del‑
la rimessione conserva, tutto sommato, una sua «stabilità»38.
Epperò, superati i problemi di legittimità costituzionale con‑
nessi alla discrezionalità nell’individuazione del giudice cui
rimettere il processo – ora individuato attraverso il meccani‑
smo gabellare di cui all’art. 1 disp. att. e coord. – restano
tuttora aperte le questioni legate al rispetto della riserva di
legge nella determinazione delle condizioni che consentono di
sottrarre il processo al suo giudice naturale, senz’altro acuite
dalla reintroduzione dell’ipotesi di legittima suspicione.
In proposito, appare utile ricordare che nella disciplina del
1930 (art. 55 cod. abr.) già si ammetteva il ricorso alla rimes‑
sione del processo in presenza di “gravi motivi di ordine
pubblico” e di “legittimo sospetto”; e che già allora la Corte
costituzionale aveva affermato categoricamente che il princi‑
pio della naturalità e precostituzione del giudice poteva dirsi
rispettato solo allorquando sussistesse «l’opportunità» ma
soprattutto «la necessità» che del processo conoscesse un
giudice diverso. In particolare, secondo la Consulta, ciò si
verificava, con riferimento all’ordine pubblico, «qualora si
manifestino o siano sicuramente prevedibili gravi perturba‑
36 Cass., sez. un., 29 maggio 2002, Berlusconi, in CP 2002, 3007.
37La Corte costituzionale, come si ricorderà, ha poi dichiarato la inammissibilità,
per carenza di motivazione, dell'ordinanza del giudice a quo in punto di rile‑
vanza (cfr. C. Cost. 465/2002, in GCost 2002, 3845).
38 Marandola, Commento all’art. 45 c.p.p., in GIARDA‑SPANGHER (a cura
di), Codice di procedura penale commentato, 636.
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menti della pubblica tranquillità e della pacifica convivenza
dei cittadini, con pericolo anche per la sicurezza delle perso‑
ne»; e, con riguardo al legittimo sospetto, «quando, con
mezzi diretti o indiretti, non esclusa la violenza nei riguardi
delle persone che partecipano al processo, si tenta di influire
sullo svolgimento o sulla definizione di esso»39. In altri termi‑
ni, la Corte aveva affermato la conformità all’art. 25, com‑
ma 1, Cost. dell’art. 55 cod. abr. solo laddove si fosse adotta‑
ta una interpretazione estremamente rigorosa delle situazioni
idonee a giustificare la translatio iudicii.
A fronte delle rigide indicazioni del Giudice delle leggi, la
giurisprudenza di legittimità ha continuato, sotto la vigenza
e dopo l’abrogazione del codice Rocco, a valutare in modo più
o meno restrittivo le circostanze idonee a giustificare la rimes‑
sione.
In particolare, fatte salve isolate pronunce in cui la rimet‑
tibilitàdel processo è stata ancorata «a fatti concreti che faccia‑
no presumere la coartazione psichica o fisica di tutti coloro che
intevengono nel processo»40, nella maggior parte delle decisio‑
ni assunte dal 1988 agli inizi degli anni ’90, la Cassazione ha
concentrato l’attenzione, in via esclusiva, sull’organo giudican‑
te, quale possibile vittima delle situazioni ambientali41.
La copiosa attenzione dedicata alla “serenità” ed alla
“imparzialità” dell’organo giudicante imponeva, tuttavia, un
intervento chiarificatore del rapporto sussistente tra “libertà
di determinazione” del giudice quale soggetto che interviene
nella vicenda processuale ed il “timore di parzialità”. E al‑
lora, con sentenza pronunciata del 22 giugno 1992, la
39 C. cost., sent. n. 50/1963, in Giur. cost, 1963, 471 ss.
40Si v., ad esempio, Cass., sez. I, 12 maezo 1992, Pres. Vitale, Di Muro, secon‑
do cui «l’istituto della rimessione per quello che viene tradizionalmente de‑
finito “legittimo sospetto” e che trova oggi la sua disciplina nell’art. 45 c.p.p.,
pur non comportando deroga al principio costituzionale del giudice natura‑
le, ha nondimeno un carattere eccezionale, per cui può trovare applicazione
solo in presenza di situazioni di tale natura e gravità da rendere pressoché
inevitabile la loro negativa incidenza sul sereno e corretto svolgimento del
processo. Non può quindi dar luogo alla configurabilità di siffatte situazio‑
ni l’esistenza di sospetti, congetture, illazioni, ancorchégli stessi abbiano
trovato espressione in interrogazioni parlamentari e in pubblici discorsi te‑
nuti in loco da esponenti politici». Allo stesso modo, in Cass., sez. I, 8 otto‑
bre 1993, Pres. Sibilia, Bruno, si affermava che «L’istituto della rimessione
dei procedimenti, in quanto comporta un’evidente deroga al principio costi‑
tuzionale del giudice naturale precostituito per legge, giustificata dall’esigen‑
za di salvaguardare l’altro principio, del pari garantito costituzionalmente,
dell’indipendenza e obiettività del giudizio, deve trovare applicazione soltan‑
to in presenza di concrete e dimostrate situazioni di fatto, capaci di meno‑
mare oggettivamente l’imparzialità dell’amministrazione della giustizia.
(Nella specie, e’ stata esclusa l’ipotizzabilità di una situazione di soggezione
di tutti i giudici di un tribunale ai magistrati della Procura della Repubblica
insediata presso di esso per il solo fatto che il tribunale aveva disposto solo
l’acquisizione parziale di una lettera di ritrattazione di accuse rivolte da un
“pentito” che affermava di essere stato oggetto di indebite pressioni da
parte del P.M.» (Sul tema, v. pure Cass., sez. I, 13 giugno 1990, Pres. Car‑
nevale, Cerbone; Cass., sez. I, 27 settembre 1993, Pres. Sibilia, Baietta).
41 Cfr. Cass., sez. I, 2 aprile 1991, Pres. Molinari, Imp. Bruglia; Cass., sez. I, 14
maggio 1991, Pres. Carnevale, Imp. Astarita. In particolare, si sosteneva che
«La rimessione di un procedimento ai sensi dell’art. 45 c.p.p. può adottarsi
soltanto quando, in presenza di gravi condizioni ambientali, si presenti come
probabile la eventualità di un turbamento della libertà e dell’indipendenza dei
giudici che partecipano al procedimento stesso. Pertanto per la rimessione di
un procedimento a giudice diverso da quello naturale, è necessario, a differen‑
za della ricusazione, prendere in considerazione non un rapporto tra il giudice
ed uno dei soggetti del processo, ma il nesso tra l’ambiente giudiziario e quel‑
lo generale creatosi in relazione ad una determinata vicenda giudiziaria» (Cass.,
sez. I, 12 marzo 1993, Pres. Buogo, Imp. Pandolfo; conf. Cass., sez. I, 27 luglio
1992, Pres. Sibilia, Imp. Romanelli; Cass., sez. I, 14 aprile 1993, Pres De
Lillo, Imp. Goddi ed altro; Cass., sez. I, 3 dicembre 1993, Pres. Sibilia, Imp.
Fabbri; Cass., sez. I, 29 marzo 1994, Pres. Valente, Imp. PM in proc. Nappini
ed altro).
2 0 1 2
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Corte – peraltro segnando il passaggio dal vecchio art. 55
all’art. 45 c.p.p. (nella formulazione ante “Cirami”) – fugava
qualsiasi dubbio in ordine alla impossibilità di ricondurre il
“legittimo sospetto”, di cui all’art. 55 c.p.p. 1930, tra le ipo‑
tesi richiamate dal legislatore nella formula di cui all’art. 45
c.p.p.42.
Inoltre, col provvedimento di rimessione del processo cd.
“Cerciello” (pronuncia unica nel suo genere e primo caso di
rimessione dal 1988 – unico, insieme al caso Baietta), la Su‑
prema Corte, spostando l’ottica sulla libertà di determinazio‑
ne di tutti gli intervenienti al processo, e non soltanto del
giudice, afferma il principio secondo cui «la causa di rimes‑
sione del processo consiste nel pregiudizio alla libertà di de‑
terminazione delle persone che vi partecipano»43.
La Suprema Corte, invece, ha sempre escluso che una
campagna di stampa sul processo, pur se aspra, continua ed
astiosa, possa essere significativa del venire meno dell’impar‑
zialità del giudice locale44.
Ebbene, se si continua nell’analisi della giurisprudenza di
legittimità in tema di incompatibilità ambientale, emerge
evidente la preoccupazione mantenuta nel corso degli anni
dalla Cassazione di limitare al massimo la rilevanza delle
situazioni che giustificano la translatio iudicii.
Epperò, tale opzione ermeneutica, se, da un lato, appare
correttamente rispettosa della necessità di evitare deroghe “non
necessarie” al principio costituzionale di cui all’art. 25, com‑
ma 1, Cost.; dall’altro, finisce per sacrificare il valore, di pari
dignità costituzionale, dell’imparzialità della giurisdizione.
Ad ogni modo, pur nell’ambito del mutato quadro legisla‑
tivo, la giurisprudenza di legittimità ha mantenuto fermo il
tradizionale indirizzo secondo cui «per ravvisare gli estremi
per il trasferimento del processo non è sufficiente la presenza
di uno stato di tensione e di un turbamento meramente pos‑
sibili, dovendo di questi darsi carico le forze di polizia,
nell’ambito dei loro compiti preventivi, essendo invece neces‑
sario che la situazione paventata ed addotta a sostegno della
richiesta di rimessione emerga in modo ragionevolmente
certo e non costituisca invece la proiezione di preoccupazioni
e di timori che, pur essendo ancorati a dati di fatto, non con‑
sentono di prevedere reali ostacoli ad un corretto svolgi‑
mento del giudizio»; e, per quanto attiene all’ipotesi del “legit‑
42Nella citata pronuncia la Suprema Corte afferma la regola di diritto secondo
cui «L’art. 45 c.p.p. impone la rimessione del processo ad altro giudice, tra
l’altro, quando la libertà di determinazione delle persone che partecipano al
processo sono pregiudicate da gravi situazioni locali tali da turbare lo svolgi‑
mento del processo. Tale norma ha inteso tutelare il cosiddetto ordine proces‑
suale, inteso quale sottospecie dell’ordine pubblico e, più particolarmente,
quale complesso di mezzi strumentali approntati dallo Stato per l’attuazione
delle proprie finalità nell’esercizio della giurisdizione e, comunque, come insie‑
me di mezzi predisposti per garantire la genuinità e l’attendibilità dei risultati
del giudizio. La libertà di determinazione del giudice, però, non deve essere
confusa con la imparzialitào serenitàdello stesso e, pertanto, non possono
prendersi in considerazione paventati timori di condizionamento di natura
psicologica, tanto nell’ipotesi in cui venga ventilato un diffuso clima di solida‑
rietà o risentimento verso l’imputato ovvero venga evidenziata una insistente
campagna di stampa che, normalmente, è giustificata dall’interesse che la
pubblica opinione manifesta per determinati processi ma che, anche se aspra e
persistente, non incide sulla autonomia e libera determinazione del giudice,
estrinsecandosi, siffatta attività, nel diritto di cronaca e di opinione» (Cass.,
sez. I, 22 giugno 1992, Pres. Valente, Imp. Caroccio).
43 Cass., sez. I, 7 dicembre 1994, Pres. Valente, Imp. Cerciello. In tema, v. pure
Cass., sez. I, 4 marzo 1998, Pres. Teresi, Imp. Berlusconi ed altri.
44E ciò, già a partire da Cass., sez. I, 3 maggio 1990, Pres. Carnevale, Imp. Di
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timo sospetto”, che «in tanto può sottrarsi il processo al
giudice naturalmente competente, in quanto sussistano dubbi
sulla imparzialità dello stesso giudice che derivino da una
obiettiva situazione di fatto che lasci fondatamente presagire
un esito non imparziale e sereno del giudizio»45.
Così, ad esempio, si è sostenuto che la gravità della situa‑
zione locale che può arrecare pregiudizio alla “serenità” del
giudice e delle parti va valutata con riferimento al contesto
ambientale extragiudiziario, coevo al processo, la cui esistenza
va accertata prescindendo da ciò che accade nel processo, in
quanto i comportamenti endo‑processuali possono assumere
rilevanza soltanto una volta autonomamenteverificata l’della
grave situazione locale46. Quindi, Secondo la Corte, in seno
alla prima categoria «vanno ricondotte le attività e quelle si‑
tuazioni “fisiologiche” al ruolo ed il compito che l’ufficio è
chiamato a svolgere processualmente: trattandosi, di un’attivi‑
tà interna al processo e propria delle funzioni che i pubblici
ministeri sono chiamati a condurre istituzionalmente, essa può
al massimo originare delle sanzioni disciplinari o essere rimos‑
sa impiegando strumenti diversi da quello in esame, senza,
peraltro, che essa risulti capace d’integrare quelle “gravi situa‑
zioni locali”, estranee al processo, che rappresentano la linea
di confine per rigettare le domande puramente strumentali. Ne
deriva che, segnatamente, per grave situazione locale deve in‑
tendersi un fenomeno esterno alla dialettica processuale, ri‑
guardante l’ambiente territoriale nel quale il processo si svolge
e connotato da tale abnormità e consistenza da non poter es‑
sere interpretato se non nel senso di un pericolo concreto per
la non imparzialità del giudice (inteso come l’ufficio giudiziario
della sede in cui si svolge il processo di merito) o di un pregiu‑
45 Cass., sez. I, 4 marzo 1998, Berlusconi, CED 210010; Cass., sez I, 6 novembre
1997, Manganaro, CED 208731; Cass., sez. I, 15 aprile 1991, Astarita, CED
187507; nonché C I 14.4.1993, Goddi, CED 193663.
46 Cfr. Cass., sez. I, 26 maggio 2004, B., in C.E.D. 229795.
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dizio alla libertà di determinazione delle persone che parteci‑
pano al processo medesimo e, dall’altro, che i motivi di legitti‑
mo sospetto possono configurarsi solo in presenza di questa
grave situazione locale e come conseguenza di essa» 47.
È evidente, allora, che l’attenzione della Corte continua
ad essere rivolta ad arginare il rischio connesso, nella materia
de qua, alla “genericità delle formule”.
Per la verità, la stessa Corte Costituzionale, chiamata a
pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’ art. 45 (in
riferimento agli artt. 3, 25, 97, 111e 112Cost.) per quanto
attiene al vago, generico e indeterminato di nozioniquali
quelle di “legittimo sospetto”, di turbamento della “libertà di
determinazione delle persone”, di pregiudizio della “sicurez‑
za” o della “incolumità pubblica”, ha dichiarato la inammis‑
sibilità della questione, precisando che unicamente alla Corte
di cassazione fare applicazione della norma censurata48.
Sarebbe tuttavia auspicabile che, nell’espletamento di tale
compito, la Suprema Corte, abbandonando l’annoso e impos‑
sibile sforzo di “tipizzazione” delle predette formule legisla‑
tive, si spingesse piuttosto a specificare i confini di operativi‑
tà dell’istituto della rimessione e, per questa via, a rivalutarne
il connotato di strumentalità rispetto al valore dell’imparzia‑
lità della giurisdizione.
47 Cass., sez. II, 3 dicembre 2004, G., CED 230697.
48 C. Cost., 23 luglio 2004, n. 268, in GCost 2004, 2727.
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●
A cura di
Angelo Pignatelli
Avvocato
Le Sezioni unite sulla confisca dell’autovettura condotta in stato
di ebbrezza utilizzata in forza di un contratto di leasing
***
La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimes‑
so alle Sezioni unite può così essere enunciato «se l’autovettu‑
ra condotta in stato di ebbrezza dall’indagato e da questo
utilizzata in forza di un contratto di leasing sia da ritenere
cosa appartenente a persona estranea ai reato e se, pertanto,
la società di leasing concedente abbia titolo a chiedere la re‑
stituzione dell’autovettura sottoposta a sequestro in vista
della confisca».
Un primo orientamento (sez. IV, sentenza 11 febbraio
2010, n. 10688, Di Giovanni, Rv. 246505) aveva affermato
che era legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla con‑
fisca di un veicolo il cui conducente, sorpreso alla guida in
stato di ebbrezza, ne aveva la disponibilità in forza di un con‑
tratto di leasing. Aveva aggiunto la Corte in detta pronuncia
che la società di leasing, per riottenere la materiale disponibi‑
lità del veicolo, doveva dimostrare la cessazione del contratto
con la configurazione del suo diritto alla restituzione del bene.
(in tal senso anche sez. III, sentenza 12 dicembre 2007,
n. 4746, dep. 2008, Rocco, Rv. 238786).
Secondo altro orientamento della medesima sez. III, sen‑
tenza 03 febbraio 2011, n. 13118, Mastroieni, Rv. 249928,
aveva ritenuto che la legittimazione a richiedere la restituzione
di un bene, sottoposto a sequestro preventivo e oggetto di un
contratto di leasing, spettava, oltre che al proprietario conce‑
dente, all’utilizzatore quale soggetto obbligato a corrisponde‑
re il canone mensile per il suo utilizzo. Del resto, questa im‑
postazione trovava conferma nella giurisprudenza delle Sezio‑
ni Civili (sez. I civ., sentenza 14 giugno 1989, n. 11792), che
aveva formulato l’avviso secondo cui il contratto di leasing di
per sénon trasferisce immediatamente il diritto di proprietà,
costituendo solo il meccanismo negoziale che autorizza l’uti‑
lizzatore ad acquistare il bene ricevuto in godimento, all’atto
del pagamento dell’ultimo canone (patto d’opzione).
La soluzione della problematica posta dalla Sezione Quar‑
ta impone l’individuazione delle caratteristiche del contratto
atipico di leasing.
In materia, si distingue il “leasing finanziario” (anche
detto di godimento) con precipua funzione di finanziamento
dell’utilizzatore del bene mediante la messa a disposizione in
favore di questo di una cosa senza erogazione del prezzo in
un’unica soluzione. In detto rapporto negoziale, il canone
costituisce il corrispettivo del godimento e dell’uso dei beni in
relazione alla loro durata tecnologica; la manutenzione ordi‑
naria e straordinaria del bene ed i rischi di distruzione e dete‑
rioramento della cosa sono a carico dell’utilizzatore, il quale
è tenuto a versare i canoni pattuiti anche se la cosa perisce. Al
concedente rimane solo il rischio del pagamento del canone da
parte dell’utilizzatore.
Invece, il c.d. “leasing traslativo” è caratterizzato dal fatto
che i beni conservano alla scadenza un valore residuo superio‑
re rispetto al prezzo di opzione concordato per l’acquisto, e
l’esercizio dell’opzione non e dubbio nelle intese tra le parti.
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CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni unite penali
sentenza 17 aprile 2012, (ud. 19 gennaio 2012), n. 14484
I contrasti risolti
dalle Sezioni unite penali
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Per cui, il canone si configura come un’anticipata correspon‑
sione di una parte del prezzo per l’acquisto della proprietà del
bene alla scadenza del contratto: le rate pattuite hanno la
consistenza di corrispettivo del trasferimento. In entrambe le
tipologie principali del contratto di leasing, il trasferimento
della proprietà del bene dal concedente all’utilizzatore ha
luogo con il pagamento dell’ultima rata e del residuo prezzo
di acquisto.
La nozione di appartenenza, che presenta un significato
generico proprio nella pratica comune, assume nella legisla‑
zione civile vigente un significato tecnico più specifico che a
sua volta si riverbera in modo essenzialmente ricognitivo in
materia penale (la norma, presentante maggiore analogia di
contenuto rispetto a quella in esame, è il disposto generale
sulla confisca ex art. 240 c.p.).
Segnalava il Supremo Consesso che non è dubbio che il
leasing presenta delle notevoli peculiarità in ordine alla ripar‑
tizione dei rischi connessi alla circolazione stradale del veico‑
lo ed all’individuazione del soggetto che ha concrete possibi‑
lità di regolamentare la circolazione stessa.
In particolare, in materia di responsabilità civile ex
art. 2054 c.c., comma 3, il locatario del contratto di leasing
(l’utilizzatore), e non il concedente, risponde dei danni provo‑
cati dalla circolazione del mezzo in solido con il conducente
(v. art. 91 c.d.s., comma 2); così come già disposto in detto
articolo del codice civile per l’acquirente nella vendita con
patto di riservato dominio. Egualmente, l’art. 196 c.d.s.,
prescrive l’obbligazione solidale dell’utilizzatore a titolo di
locazione, e non del concedente, con l’autore della violazione
per il pagamento di sanzioni amministrative pecuniarie con‑
nesse alla circolazione.
In tema la giurisprudenza della Corte Europea dei Dirit‑
ti dell’Uomo all’art. 7 esige, per punire e cioè per l’irrogazio‑
ne di una pena e quindi anche della misura della confisca, la
ricorrenza di un legame di natura intellettuale (coscienza e
volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabi‑
lità nella condotta del soggetto cui viene applicata una san‑
zione sostanzialmente penale (v. Corte EDU, 09 febbraio
1995, Welch e. Regno Unito; Corte EDU, 30 agosto 2007,
Sud Fondi srl e. Italia; Corte EDU, 20 gennaio 2009, sud
Fondi c. Italia; Corte EDU, 17 dicembre 2009, M. c. Ger‑
mania).
La Corte EDU, sempre in materia di applicazione della
confisca, ha evidenziato che il disposto ex art. 1 del Protocol‑
lo n. 1 della Convenzione (Protezione della proprietà) consen‑
te una diminuzione patrimoniale del soggetto solo nelle
condizioni previste dalla legge, per cui anche l’applicazione di
una misura comportante un pregiudizio patrimoniale, al di
fuori delle previsioni normative, configura un’illecita ingeren‑
za nella sfera giuridica ed economica del singolo.
Detto inquadramento degli istituti in esame, nell’interpre‑
tazione della Convenzione proveniente dalla Corte di Stra‑
sburgo, esclude la legittimità della confisca dell’autovettura
condotta da soggetto in stato di ebbrezza per uso di alcool se
la stessa risulta concessa in leasing e quindi di proprietà del
concedente nel corso del contratto stesso, qualora il conce‑
dente sia pure estraneo al reato.
In conclusione, le Sezioni unite hanno il seguente principio
di diritto: «non è confiscabile fa vettura condotta in stato di
ebbrezza dall’autore dei reato, utilizzatore del veicolo in re‑
Gazzetta
p e n a l e
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lazione a contratto di leasing, se il concedente, proprietario
del mezzo, sia estraneo al reato».
CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni unite penali
sentenza 23 marzo 2012, (ud. 15 dicembre 2011), n. 11545
Le Sezioni unite sul delitto di esercizio abusivo della professione
di esperto contabile
***
La questione di diritto per la quale il ricorso è stato ri‑
messo alle Sezioni unite può così essere enunciato: «Se le
condotte di tenuta della contabilità aziendale, redazione
delle dichiarazioni fiscali ed effettuazione dei relativi paga‑
menti integrino il reato di esercizio abusivo della professione
di ragioniere, perito commerciale o dottore commercialista,
se svolte – da chi non sia iscritto al relativo albo professiona‑
le – in modo continuativo, organizzato e retribuito».
La Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione, con
ordinanza del 13 ottobre 2011, depositata in pari data, ha
rimesso la trattazione del ricorso alle Sezioni unite, rilevando
l’esistenza di un irrisolto contrasto giurisprudenziale (già in
precedenza segnalato dall’Ufficio del Massimario, con Rela‑
zione n. 1016/2003 del 20 febbraio 2002) sulla determina‑
zione dell’ambito applicativo del reato di cui all’art. 348 c.p.,
fra un primo orientamento (a cui si è richiamata la difesa) che
lo circoscrive allo svolgimento delle attività specificamente
riservate da un’apposita norma a una determinata professio‑
ne, e un secondo filone (inaugurato da sez. VI, sentenza 08
ottobre 2002, n. 49, dep. 2003, Notaristefano, Rv. 223215)
che, nel distinguere tra atti “tipici” della professione ed atti
“caratteristici”, strumentalmente connessi ai primi, precisa
che questi ultimi rilevano solo se vengano compiuti in modo
continuativo e professionale “in quanto, anche in questa se‑
conda ipotesi, si ha esercizio della professione per il quale è
richiesta l’iscrizione nel relativo albo”.
La risoluzione del contrasto, sottende un’altra questione,
di carattere più generale, che attiene all’ambito applicativo
della norma dell’art. 348 c.p., in riferimento in particolare al
contrasto sulla delimitazione o meno di esso ai soli “atti”
attribuiti in via esclusiva a una data professione.
L’indirizzo tradizionale seguito in dottrina e giurispru‑
denza, ritiene che gli atti inclusi nella «protezione» penale
accordata dall’ordinamento siano solo quelli attribuiti in via
esclusiva a una determinata professione. In mancanza di tale
presupposto si determinerebbe una indebita compressione dei
diritti di libertà e di iniziativa economica spettanti a ciascun
individuo (sez. VI, sentenza 20 giugno 2007, n. 34200, Mo‑
sconi, Rv. 237170; sez. VI, sentenza 27 marzo 2003, n. 22528,
Carrabba, Rv. 226199; sez. VI, sentenza 10 aprile 2003,
n. 30590, Bennati, Rv. 225685).
Altro indirizzo ritiene che, ai fini della norma incrimina‑
trice in esame, assumono rilevanza tutti gli atti comunque
«caratteristici» di una data professione, ricomprendendosi fra
gli stessi, oltre agli atti ad essa attribuiti in via esclusiva,
anche quelli relativamente liberi, nel senso che chiunque può
compierli a titolo occasionale e gratuito, ma il cui compimen‑
to, resta invece «riservato» se avvenga in modo continuativo,
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organizzato e remunerato (sez. VI, sentenza 08 ottobre 2002,
n. 49, Notaristefano, Rv. 223215; sez. VI, sentenza 5 luglio
2006, n. 26829, Russo, Rv. 234420).
Il contrasto innescato dalla sentenza Notaristefano va
risolto, ad avviso delle sez. un., attraverso una interpretazio‑
ne estensiva della norma dell’art. 348 c.p., che superi i limiti
dell’orientamento tradizionale, recuperando le ragioni sostan‑
ziali della detta sentenza, in un’ottica che tenga nel giusto
conto la ratio della norma incriminatrice e il contesto norma‑
tivo in cui è destinata a operare, ma sia nel contempo rispet‑
tosa del principio di tassatività.
Il Supremo Consesso, ha diradato il conflitto affermando
il seguente principio di diritto: «Concreta esercizio abusivo
di una professione, punibile a norma dell’art. 348 c. p., non
solo il compimento senza titolo, anche se posto in essere
occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribu‑
iti in via esclusiva a una determinata professione, ma anche
il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti
singolarmente in via esclusiva, siano univocamente indivi‑
duati come di competenza specifica di una data professione,
allorché lo stesso compimento venga realizzato con modali‑
tà tali, per continuatività, onerosità e (almeno minimale)
organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni
diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale
svolta da soggetto regolarmente abilitato».
CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni unite penali
sentenza 24 aprile 2012, (ud. 24 novembre 2011), n. 15933
Le Sezioni unite sull’applicazione retroattiva della disciplina più
favorevole in materia di prescrizione
***
La questione controversa rimessa all’esame delle Sezioni
unite concerne: «l’individuazione del limite posto dal legisla‑
tore alla retroattività della nuova disciplina della prescrizio‑
ne, là dove più favorevole rispetto a quella previgente, intro‑
dotta dalla l. 5 dicembre 2005, n. 251, art.6, nell’ipotesi in
cui il procedimento di primo grado si sia concluso con sen‑
tenza di assoluzione».
Un primo orientamento (sez. III, sentenza 06 marzo 2008,
n. 18765, Brignoli, Rv. 239868) si è espresso nel dichiarare
manifestamente infondata l’eccezione d’illegittimità relativa
a procedimento in cui il primo grado di giudizio si era per
l’appunto concluso con sentenza di proscioglimento, poi ri‑
formata nel grado successivo, ha attribuito al criterio norma‑
tivo di discrimine della retroattività della lex mitior una va‑
lenza omnicomprensiva, affermando che il criterio giustifica‑
tivo della deroga al principio di retroattività della legge più
favorevole non va individuato nell’idoneità o meno della
sentenza di primo grado a interrompere la prescrizione, ben‑
sì nella ragionevole esigenza di tutelare il valore, di rango
costituzionale, dell’efficienza della giurisdizione e del proces‑
so, esigenza comune anche ai procedimenti definiti in primo
grado con sentenza di proscioglimento. Pur ribadendo, nella
scia dell’orientamento maggioritario, che la pendenza in
grado d’appello coincide con la pronunzia di primo grado, la
predetta sentenza svaluta l’argomento legato all’efficacia in‑
2 0 1 2
89
terruttiva della prescrizione dell’incombente processuale che
sarebbe preso in considerazione dalla norma transitoria,
esaltando per converso il valore costituzionale tutelato attra‑
verso la scansione introdotta da quest’ultima (l’efficienza del
processo), radicato in maniera ragionevole nella cesura tra i
due gradi di giudizio, senza che assuma una rilevanza decisi‑
va l’inclusione nell’elenco contenuto nell’art. 160 c.p., dell’at‑
to che tale cesura determina. Pertanto, secondo il ragiona‑
mento del Collegio, è la sentenza che conclude il grado di
giudizio, in quanto tale, a condizionare la retroattività delle
norme sulla prescrizione, a prescindere dal fatto che sia di
condanna o di assoluzione.
Il contrapposto orientamento ritiene che la soluzione
maggioritaria sia inapplicabile quando il giudizio di primo
grado si sia concluso con una sentenza di assoluzione, inido‑
nea a determinare l’interruzione del corso della prescrizione
ed afferma che, nell’ipotesi in cui il giudizio di primo grado
abbia avuto un esito diverso dalla sentenza di condanna,
inevitabilmente deve farsi riferimento al decreto di citazione
per il giudizio d’appello di cui all’art. 601 c.p.p., che rappre‑
senta il primo atto in sequenza procedimentale che riveste
carattere di atto interruttivo della prescrizione ed è espressa‑
mente annoverato tra tali atti dall’art. 160 c.p. (sez. VI, sen‑
tenza 25 novembre 2008, n. 7112, dep. 2009, Perrone, Rv.
242421).
Sulla questione è stata prospettata anche una terza solu‑
zione, espressa da una pronunzia rimasta isolata (sez. III,
sentenza 15 aprile 2008, n. 24330, Muscariello, Rv. 240342),
che individua il momento della pendenza del giudizio d’ap‑
pello nella ricezione del fascicolo da parte della Corte d’ap‑
pello e, precisamente, nell’atto d’iscrizione nell’apposito regi‑
stro.
Per le Sezioni unite, ai fini della questione in esame, la
pendenza in grado di appello del procedimento è determina‑
ta dalla pronunzia della sentenza di primo grado, che chiude
un grado di giudizio e da avvio a quello successivo, al di là
della presentazione o meno dell’atto di impulso processuale,
che ha l’effetto della prosecuzione del giudizio nel grado
corrispondente. In tal senso la sentenza di primo grado risul‑
ta idonea a costituire lo spartiacque nell’applicazione delle
due discipline considerate dalla norma transitoria, indipen‑
dentemente dal “fatto processuale” che interrompe la prescri‑
zione.
Il problema dell’individuazione di un “ragionevole even‑
to processuale”, a cui ancorare il discrimine, per le sez. un. non
si pone per il giudizio d’appello o di cassazione.
Una volta stabilito che la lex mitior si applica retroattiva‑
mente sino ai processi di primo grado e si escludono i proces‑
si pendenti nei gradi successivi, ciò che conta è se sia conclu‑
so o non il processo di primo grado.
Per le sez. un. occorre dunque privilegiare una risposta
sul piano interpretativo in grado di garantire l’uniformità
applicativa della norma transitoria quale che siano i diversi
esiti (condanna o assoluzione) del procedimento di primo
grado.
Conclusivamente, le Sezioni unite affermano il seguente
principio di diritto: «ai fini dell’operatività delle disposizioni
transitorie della nuova disciplina della prescrizione, la pro‑
nuncia della sentenza di primo grado, indipendentemente
dall’esito di condanna o di assoluzione, determina la pen‑
penale
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denza in grado d’appello del procedimento, ostativa all’ap‑
plica‑ zione retroattiva delle norme più favorevoli».
CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni unite penali
sentenza 30 marzo 2012, (ud. 15 dicembre 2011), n. 12164
Le Sezioni unite sugli effetti della nomina di un terzo difensore in
assenza di revoca espressa delle nomine precedenti
***
La questione di diritto per la quale il ricorso è stato ri‑
messo alle Sezioni unite può così essere enunciato: «Se la
nomina di un terzo difensore di fiducia dell’imputato, in
assenza di revoca espressa di almeno uno dei due già incari‑
cati, possa dare luogo ad una revoca implicita di uno dei due
precedenti difensori nominati».
Un primo orientamento afferma che può presupporsi una
revoca tacita del mandato defensionale per fatti concludenti
nel caso in cui un imputato, senza dismettere l’incarico al
precedente legale, ne abbia nominato un altro e in concreto
solo di questi si sia avvalso nel proseguimento del processo,
nel quale unicamente il secondo professionista abbia eserci‑
tato la difesa in modo autonomo e personale; quando ciò si
verifica, il legale inattivo non avrebbe diritto alla notifica di
un atto destinato alla difesa (sez. V, sentenza 09 luglio 1998,
n. 9478, Petronelli, Rv. 211451; sez. V, sentenza 03 ottobre
2002, n. 36341, Zulianello, Rv. 222678).
Un secondo orientamento, totalmente opposto, ritiene che,
la revoca tacita del difensore che non ha svolto attività non è
prevista da alcuna norma processuale; le formalità attinenti
la nomina e il numero dei difensori sono funzionali alla sal‑
vaguardia dell’ordine processuale e la revoca per fatti conclu‑
denti, in occasione dell’incarico al terzo difensore, non ha
base normativa; non è possibile rimettere al giudice l’indivi‑
duazione di quale nomina, tra le varie effettuate, debba rite‑
nersi efficace in base all’attività in concreto svolta dal profes‑
sionista. (sez. V, sentenza 17 giugno 1999, n. 8757, Bergama‑
schi, Rv. 214888; sez. II, sentenza 07 giugno 2006, n. 21416,
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Acri, Rv. 234661; sez. III, sentenza 19 gennaio 2007, n. 8057,
Cambise, Rv. 236118; sez. III, 11 novembre 2010, Cavallo,
Rv. 248671). Tale indirizzo fa leva sulle seguenti considera‑
zioni: la revoca tacita del difensore che non ha svolto attività
non è prevista da alcuna norma processuale; le formalità at‑
tinenti la nomina e il numero dei difensori sono funzionali
alla salvaguardia dell’ordine processuale e la revoca per fatti
concludenti, in occasione dell’incarico al terzo difensore, non
ha base normativa; non è possibile rimettere al giudice l’indi‑
viduazione di quale nomina, tra le varie effettuate, debba ri‑
tenersi efficace in base alla attività in concreto svolta dal
professionista; il mancato rispetto dell’art. 24 disp. att. c.p.p.
provocherebbe incertezza in merito alla titolarità dell’ufficio
di difesa, la cui tendenziale immodificabilità è acquisizione
garantistica del codice di rito.
Ritengono le Sezioni unite che il quesito deve essere in‑
quadrato nella particolare disposizione dell’art. 571 c.p.p.,
comma 3, secondo cui può «proporre impugnazione il difen‑
sore dell’imputato al momento del deposito del provvedimen‑
to ovvero il difensore nominato a tal fine», che è regola spe‑
ciale rispetto al ricordato art. 24, in quanto peculiarmente
riferita alla legittimazione a proporre impugnazione.
La congiunzione alternativa “ovvero” che separa le due
situazioni rende chiaro che la seconda sia in contrapposizio‑
ne alla prima. Ciò del resto è logicamente ricavabile dalla
considerazione che, una volta ammessa la facoltà di impugna‑
zione in capo al difensore per conto dell’imputato, non sareb‑
be stato necessario specificare che l’atto di impugnazione
possa essere effettuato dal patrono a tal fine nominato; la
puntualizzazione esprime la intenzione del legislatore di at‑
tribuzione prioritaria, al legale nominato per la proposizione
della impugnazione, dell’ufficio difensivo, pur nella ipotesi in
cui l’imputato sia già assistito da due difensori.
Le Sezioni unite, hanno affermato il seguente principio di
diritto: «la nomina del terzo difensore di fiducia dell’impu‑
tato, in assenza di revoca espressa di almeno uno dei due già
nominati, resta priva di efficacia salvo che si tratti di nomina
per la proposizione dell’atto di impugnazione, la quale, in
mancanza di contraria indicazione dell’imputato, comporta
la revoca dei precedenti difensori».
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●
Rassegna di legittimità
●
A cura di
Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
e Andrea Alberico
Dottore di Ricerca in Diritto Penale
Avvocato
MARZO
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Istituti di prevenzione e di pena (Ordinamento penitenziario) – Af‑
fidamento in prova – Esito positivo – Rilevanza ai fini della recidi‑
va – Sussistenza.
L’estinzione di ogni effetto penale determinata dall’esito
positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale compor‑
ta che delle relative condanne non possa tenersi conto agli
effetti della recidiva.
Cass., sez.un., sentenza 27 ottobre 2011, n. 5859
(dep. 15 febbraio 2012) Rv. 251688
Pres. Lupo, Est. Conti, Imp. Marcianò, P.M. Ciani (Conf.)
(Annulla con rinvio, App. Catania, 14 ottobre 2010)
Persona giuridica – Società – Reati societari – False comunicazioni
sociali dannose – Reato – Sussistenza – Fattispecie.
Integra il delitto di false comunicazioni sociali in danno dei
soci l’amministratore che apposta artificiosamente nel bilancio
come anticipazioni in conto capitale somme versate dai soci
medesimi a diverso titolo, determinandone successivamente
l’indebito assorbimento una volta deliberato, peraltro con mo‑
dalità illegittime, l’azzeramento del suddetto capitale.
Cass., sez. V, sentenza 18 ottobre 2011, n. 7787
(dep. 28 febbraio 2012) Rv. 251729
Pres. Scalera, Est. Bruno, Imp. Lamberti e altri, P.M. Spinaci
(Conf.)
(Dichiara inammissibile, App. Salerno, 04 ottobre 2010)
Prove – Mezzi di ricerca della prova – Intercettazioni di conversazio‑
ni o comunicazioni – Utilizzazione – In genere – Procedimento di
riesame – Richiesta di copia delle registrazioni – Autorizzazione del
pubblico ministero – Mancata tempestiva consegna addebitabile
alla segreteria – Conferma dell’ordinanza cautelare – Illegittimità.
È illegittimo il provvedimento del Tribunale del riesame che
abbia confermato l’ordinanza cautelare utilizzando gli esiti
delle operazioni di intercettazione, qualora la difesa non abbia
previamente ottenuto la copia delle registrazioni tempestiva‑
mente richiesta ed autorizzata dal pubblico ministero a causa
di ritardi imputabili alla segreteria di quest’ultimo.
Cass., sez. V, sentenza 24 febbraio 2012, n. 8921
(dep. 06 marzo 2012) Rv. 251733
Pres. Scalera, Est. Fumo, Imp. Andrisano e altri, P.M. Spinaci
(Diff.)
(Annulla senza rinvio, Trib. lib. Taranto, 23 settembre 2011)
Reati contro il patrimonio – Delitti – Danneggiamento – Elemento
oggettivo (materiale) – Danneggiamento di dati informatici – Ele‑
mento materiale – Cancellazione di dati – Recuperabilità – Rea‑
to – Sussistenza – Fattispecie.
Il reato di danneggiamento di dati informatici previsto
dall’art. 635 bis c.p. deve ritenersi integrato anche quando la
manomissione ed alterazione dello stato di un computer sono
rimediabili soltanto attraverso un intervento recuperatorio
postumo comunque non reintegrativo dell’originaria configu‑
razione dell’ambiente di lavoro. (Fattispecie in cui la Corte ha
ritenuto la sussistenza del reato in un caso in cui era stato can‑
cellato, mediante l’apposito comando e dunque senza determi‑
nare la definitiva rimozione dei dati, un rilevante numero di
file, poi recuperati grazie all’intervento di un tecnico informa‑
tico specializzato).
Cass., sez. V, sentenza 18 novembre 2011, n. 8555
(dep. 05 marzo 2012) Rv. 251731
penale
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Pres. Grassi, Est. Bruno, Imp. Spina, P.M. Fodaroni (Diff.)
(Rigetta, App. Catania, 16 febbraio 2011)
Reati contro il patrimonio – Delitti – Invasione di terreni o edifi‑
ci – In genere – Iniziale legittima occupazione del bene – Successi‑
va contraria volontà del titolare – Prosecuzione nell’occupazio‑
ne – Reato – Configurabilità – Esclusione – Fattispecie.
Il reato di invasione di terreni o edifici non è configurabi‑
le laddove il soggetto, entrato legittimamente in possesso del
bene occupato, prosegua nell’occupazione contro la soprag‑
giunta volontà dell’avente diritto.(La S.C. ha escluso che
detto principio si applichi a chi occupi un bene immobile di‑
cendosi ospite del precedente detentore “sine titulo”).
Cass., sez. II, sentenza 01 dicembre 2011, n. 5585
(dep. 14 febbraio 2012) Rv. 251804
Pres. Carmenini, Est. Gentile, Imp. Pg in proc. A.L.E.R. e
altri, P.M. Spinaci (Conf.)
(Annulla con rinvio, App. Milano, 03 maggio 2011)
Reati contro la personalità dello Stato – Delitti – Contro la perso‑
nalità internazionale dello Stato – Associazioni sovversive – Rap‑
porto con il reato di associazione eversiva con finalità di terrori‑
smo – Specialità della fattispecie prevista dall’art. 270 bis c.p. – Sus‑
sistenza.
La fattispecie di associazione eversiva di cui all’art. 270 bis
c.p. è speciale rispetto a quella di associazione sovversiva di cui
all’art. 270 dello stesso codice, in quanto la natura della vio‑
lenza che il sodalizio si propone di esercitare assume connota‑
zione terroristica. (In motivazione la Corte ha precisato che
quella del terrorismo, nonostante la formulazione letterale
dell’art. 270 bis citato, non è lo scopo che caratterizza l’asso‑
ciazione, bensì la modalità adottata per realizzare la finalità
eversiva che la stessa si prefigge).
Cass., sez. V, sentenza 23 febbraio 2012, n. 12252
(dep. 02 aprile 2012) Rv. 251919
Pres. Ferrua, Est. Fumo, Imp. Bortolato e altri, P.M. Geraci
(Diff.)
(Annulla con rinvio, Ass.App. Milano, 24 giugno 2010)
Reati contro la personalità dello Stato – Delitti – Contro la persona‑
lità internazionale dello Stato – Associazioni sovversive – Associa‑
zione eversiva con finalità di terrorismo – Bene giuridico tutelato.
Il reato di associazione eversiva con finalità di terrorismo
non ha natura plurioffensiva atteso che il bene giuridico tute‑
lato dall’art. 270 bis c.p. è esclusivamente la personalità inter‑
nazionale dello Stato.
Cass., sez. V, sentenza 23 febbraio 2012, n. 12252
(dep. 02 aprile 2012) Rv. 251920
Pres. Ferrua, Est. Fumo, Imp. Bortolato e altri, P.M. Geraci
(Diff.)
(Annulla con rinvio, Ass.App. Milano, 24 giugno 2010)
Reati fallimentari – Bancarotta semplice – In genere – Bancarotta
documentale – Omessa tenuta dei libri e delle scritture contabili
nei tre anni precedenti alla dichiarazione di fallimento – Omissione
consumata per un periodo inferiore – Reato – Sussistenza.
Nel reato di bancarotta semplice documentale, la mancata
o irregolare tenuta delle scritture contabili non deve protrarsi
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per l’intero triennio precedente alla dichiarazione di fallimen‑
to, sussistendo il reato anche se tale condotta venga tenuta,
durante il periodo di tempo indicato, per un arco temporale
inferiore ai tre anni. (Fattispecie in cui i libri erano stati rego‑
larmente istituiti, ma mai compilati).
Cass., sez. V, sentenza 20 dicembre 2011, n. 8610
(dep. 05 marzo 2012) Rv. 251732
Pres. Oldi, Est. Palla, Imp. Cruciani, P.M. Fraticelli (Conf.)
(Rigetta, App. Ancona, 10 marzo 2011)
Reato – Circostanze – Aggravanti in genere – Aggravante dell’uti‑
lizzo del metodo mafioso – Contestazione o dimostrazione dell’esi‑
stenza di un’associazione a delinquere – Necessità – Esclusione.
Per la configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del
“metodo mafioso”, prevista dall’art. 7 d.l. 13 maggio 1991,
n. 152 (conv. in l. 12 luglio 1991, n. 203), non è necessario
che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di un’associa‑
zione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la
minaccia assumano veste tipicamente mafiosa.
Cass., sez. I, sentenza 04 novembre 2011, n. 5881
(dep. 15 febbraio 2012) Rv. 251830
Pres. Chieffi, Est. Caiazzo, Imp. Giampà, P.M. Cesqui
(Conf.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Catanzaro 31 maggio
2010)
Sentenza – Correlazione tra accusa e sentenza – In genere – Giudi‑
zio d’appello – Attribuzione al fatto contestato di una diversa
qualificazione giuridica – Mancata interlocuzione dell’imputato
sul punto – Violazione del diritto di difesa – Sussistenza – Nullità
della sentenza – Sussistenza.
È nulla la sentenza d’appello con la quale sia stata attri‑
buita al fatto contestato una diversa qualificazione giuridica
senza che l’imputato abbia preventivamente avuto modo di
interloquire sul punto.
Cass., sez. V, sentenza 28 ottobre 2011, n. 6487
(dep. 17 febbraio 2012) Rv. 251730
Pres. Grassi, Est. Oldi, Imp. Finocchiaro, P.M. Fodaroni
(Diff.)
(Annulla con rinvio, App. Catania, 29 ottobre 2010)
Sicurezza pubblica – Misure di prevenzione – In genere – Procedi‑
mento di applicazione – Udienza in camera di consiglio – Richiesta
di procedere in udienza pubblica – Obbligo di rinnovare la citazio‑
ne con le modalità del rito dibattimentale – Esclusione.
In tema di misure di prevenzione, l’esercizio da parte del
proposto del diritto allo svolgimento del procedimento appli‑
cativo in udienza pubblica, così come riconosciuto dalla
Corte Costituzionale con sentenza n. 93 del 2010, non com‑
porta, qualora la relativa richiesta sia stata proposta dopo la
fissazione dell’udienza camerale, l’obbligo di rinnovare la ci‑
tazione con le modalità del rito dibattimentale, ma soltanto
quello di rendere pubblica l’udienza già fissata.
Cass., sez. 5, sentenza 17 novembre 2011, n. 7800
(dep. 28 febbraio 2012) Rv. 251716
Pres. Ferrua, Est. Savani, Imp. Casucci e altri, P.M. Izzo
(Conf.)
(Rigetta, App. Lecce sez. dist. Taranto, 18 giugno 2009)
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A cura di
Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
e Giuseppina Marotta
Avvocato
Abuso di ufficio: condotta omissiva – Configurabilità del reato
(art. 323 c.p.)
Il delitto di abuso di atti di ufficio può essere integrato
anche attraverso una condotta meramente omissiva, rima‑
nendo in tal caso assorbito il concorrente reato di omissione
d’atti di ufficio in forza della clausola di consunzione conte‑
nuta nell’art. 323, comma primo, cod. pen. (fattispecie in cui
è stata ritenuto configurabile il reato di abuso d’atti d’ufficio
in relazione alla condotta del sindaco e di alcuni funzionari
comunali che avevano deliberatamente omesso di dare ese‑
cuzione all’ordinanza di demolizione di un immobile al fine
di procurare un indebito vantaggio ai proprietari, Cassazione
penale, sez. VI, 22 gennaio 2010, n. 10009; Vedi anche:
Cass. pen., n. 10390 del 2008, Cass. pen., sez. VI, 16 febbra‑
io 1996 n. 4402, Cass. pen., n. 2733 del 1994; in senso
conforme: Cass. pen., sez. VI, 24 febbraio 2003 n. 18360).
Infatti, nella formulazione dell’art. 323 c.p. introdotta dalla
l. 16 luglio 1997 n. 234, il legislatore ha configurato il reato
di abuso d’ufficio come reato di danno, richiedendo che
venga procurato a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patri‑
moniale ovvero arrecato un danno ingiusto, così da spostare
in avanti la realizzazione della fattispecie; ne consegue che,
essendosi arricchita la fattispecie di un elemento ulteriore,
costituito dall’effettiva realizzazione di un vantaggio patri‑
moniale per il pubblico ufficiale ovvero per altri o di un
danno altrui, entrambi “contra ius”, la necessaria presenza
dell’evento rende ancor più pertinente il richiamo all’abuso
mediante omissione.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 15 dicembre 2011, n. 654
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Abuso di ufficio: elementi costitutivi – Accertamento – Modalità
(art. 323 c.p.)
Nel 1997 il legislatore della riforma del reato di abuso di
ufficio ex art. 323 c.p., nell’intento apprezzabile di modella‑
re una fattispecie connotata da maggiore tassatività e deter‑
minatezza e, quindi, da una componente oggettiva di disva‑
lore molto più pregnante che in passato, da un lato ha costru‑
ito l’abuso come reato di danno, la cui struttura si incentra
sulla produzione di un evento, individuato alternativamente
nel vantaggio patrimoniale – per sé o altri – o nell’altrui dan‑
no; dall’altro ha spostato il baricentro offensivo del fatto ti‑
pico decisamente su di uno specifico profilo di antigiuridici‑
tà del provvedimento amministrativo incriminato, richieden‑
dosi una formale “violazione di legge e di regolamento” da
parte dello stesso.
In sostanza, si è inteso circoscrivere le forme di abuso che
assumono rilevanza penale e si è individuato il fulcro della
tipicità nell’elemento normativo della violazione di legge o di
regolamento (o dell’obbligo di astensione in presenza di un
conflitto di interessi, rectius di un interesse proprio o altrui
o negli altri casi prescritti ex lege) nonché nel conseguente
ingiusto danno o vantaggio. Tali requisiti, pertanto, sono
divenuti ormai presupposto indispensabile, sul piano ogget‑
tivo, perché ogni atto amministrativo possa integrare il reato
de quo. Va da sé che una prima verifica di fondatezza di ogni
ipotesi di reità ex art. 323 c.p. non può che prendere le mos‑
penale
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DIRITTO PENALE
Rassegna di merito
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se dall’accertamento di tali requisiti oggettivi.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 15 dicembre 2011, n. 654
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Abuso di ufficio: rilascio di permesso di costruire contrario agli
strumenti urbanistici – Configurabilità del reato
(art. 323 c.p.)
Èconfigurabileil reato di abuso di ufficio, nell’ipotesi di
rilascio di permesso edilizio in contrasto con gli strumenti
urbanistici generali, stante la loro natura di atti da ritenersi
equiparati alle norme regolamentari, la cui violazione è ri‑
chiesta ai fini della configurabilità dell’art. 323 c.p.. In par‑
ticolare, il rilascio di titolo abilitativo illegittimo costituisce
il presupposto di fatto della violazione della normativa pri‑
maria in materia edilizia, alla quale deve comunque farsi ri‑
ferimento quale dato strutturale della fattispecie criminosa
(Cass. pen., sez. III, 09 aprile 2008, n. 22134; sez. VI,
200116241, Ruggeri, RV 218516; conf. sez. VI, 200320475,
Casagrande ed altri, RV 225185). E quand’anche il piano
regolatore non possa equipararsi al “regolamento” richiama‑
to dallo stesso art. 323 c.p., la condotta violerebbe diretta‑
mente la legge, e precisamente le norme della l. n. 1150 del
1942 e s.m.i., della l. n. 10/1977 e – da ultimo – dell’art. 12
d.P.R. 380/2001, secondo cui gli atti dei p.u. in relazione a
domande di concessione edilizia devono essere conformi a
quanto previsto dai piani regolatori e dai regolamenti edilizi;
laddove il provvedimento amministrativo svolge una funzio‑
ne integrativa rispetto agli elementi normativi del fatto.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 15 dicembre 2011, n. 654
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Appropriazione indebita: consumazione
(art. 646 c.p.)
Quanto alla consumazione del reato, essa è correlata al
momento in cui è accertata la inequivoca inversione del pos‑
sesso in dominio (interversio possessionis) che si verifica
laddove il soggetto detentore inizi a disporre del bene come
se fosse proprio manifestando così la chiara intenzione di
annetterlo al suo patrimonio e di adoperarlo uti dominus.
Pertanto, integra il delitto di appropriazione indebita l’omes‑
sa restituzione della cosa da parte del detentore al legittimo
proprietario, se dal comportamento tenuto dal detentore si
rilevi, per le modalità del rapporto con la cosa, un’oggettiva
interversione del possesso. Il momento consumativodel reato
non coincide tuttavia necessariamente con la scadenza del
termine stabilito per la restituzione della res che può configu‑
rare un mero illecito civile ma va ravvisato nel momento in
cui il detentore manifesti l’esplicito ed ingiustificato rifiuto
alla consegna del bene pur in presenza della volontà contraria
espressa in modo formale dal legittimo proprietario di ingiun‑
zione alla restituzione.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 12 marzo 2012, n. 3829
Appropriazione indebita: elementi costitutivi del reato
(art. 646 c.p.)
Il delitto di cui all’art. 646 c.p. richiede, per la sua confi‑
gurabilità, che l’agente abbia il preesistente possesso di un
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bene mobile altrui nel senso della disponibilità giuridica
dello stesso da intendersi – con un concetto più ampio della
nozione civilistica‑ quale potere decisionale di fatto autono‑
mo sulla cosa esercitato al di fuori della sfera di vigilanza e di
custodia del titolare.In altri termini, il possesso agli effetti
penali è integrato anche da una mera detenzione qualificata
consistente nell’esercizio sulla cosa di un potere di fatto eser‑
citato al di fuori della sfera di sorveglianza del titolare. E
tale effettivo potere di autonoma disponibilità del bene è il
presupposto indefettibile dell’appropriazione indebita, con‑
figurandosi, di contro, il reato di furto laddove il soggetto
sottragga beni a lui affidati senza disporre di un potere auto‑
nomo sugli stessi. L’ingiusto profitto, per conseguire il quale
è posta in essere la condotta di appropriazione indebita, non
deve connotarsi necessariamente in senso patrimoniale, ben
potendo essere di diversa natura.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 12 marzo 2012, n. 3829
Appropriazione indebita: ritenzione – Presupposti e conseguenze
(art. 646 c.p.)
L’omessa restituzione della cosa, infatti, non realizza
l’ipotesi del reato di cui all’art. 646 c.p. se non quando si ri‑
collega oggettivamente ad un atto di disposizione uti dominus
e soggettivamente all’intenzione di convertire il possesso in
proprietà. Ne deriva che la semplice ritenzione precaria, at‑
tuata a garanzia di un preteso diritto di credito, conservando
la cosa a disposizione del proprietario e condizionando la
restituzione all’adempimento della prestazione cui lo si ritie‑
ne obbligato, non costituisce appropriazione perché non
modifica la natura del rapporto giuridico fra il detentore e la
cosa.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 12 marzo 2012, n. 3829
Atti sessuali con minorenne: presupposti
(art. 609 quater c.p.)
La fattispecie di cui all’art. 609 quater c.p., che incrimina
gli atti sessuali con minorenne, tutela il corretto sviluppo
della personalità sessuale del minore stabilendo l’intangibili‑
tà sessuale assoluta (per il minore di quattordici anni) o rela‑
tiva (in particolari situazioni, per il minore di anni sedici, nei
confronti del soggetto attivo in relazione di parentela, cura o
vigilanza con il minore stesso), è configurabile in assenza di
ogni pressione coercitiva. Essa si connota come reato a forma
libera, comprensivo di tutte le possibili forme di aggressione
al minore, con esclusione dei fatti tipici di costrizione indica‑
ti dall’art. 609 bis c.p.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 27 maggio 2011, n. 1349
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Calunnia: falsa accusa di un reato diverso – Sussistenza
(art. 368 c.p.)
Commette il delitto di calunnia anche colui che formuli
consapevolmente la falsa accusa di un reato nei confronti di
persona che si conosce come colpevole di un reato diverso (in
applicazione di tale principio, la Corteha già ravvisato il sud‑
detto delitto nella condotta di colui che, per bloccare il paga‑
mento di assegni bancari consegnati in pagamento di un rappor‑
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to usurario, ne aveva denunciato lo smarrimento, così da far
iniziare nei confronti del loro prenditore un’indagine per ricet‑
tazione, cfr. Cassazione penale, sez. VI, 19/10/2004, n. 2594,
Cass. pen., 2006, 7‑8, 2479, in senso conforme, v. sez. VI, 25
gennaio 1995, Mendola sez. VI, 17 giugno 1992, Mussi).
Tribunale di Nola coll. B)
sentenza 1 marzo 2012, n. 652
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Calunnia: falsa denuncia smarrimento assegno – Configurabilità
(art. 368 c.p.)
Ai fini della consumazione del reato ex art. 368 c.p., è
irrilevante la circostanza che nella denuncia non sia stato
accusato alcun soggetto determinato, quando il destinatario
dell’accusa sia implicitamente, ma agevolmente individuabi‑
le; onde, integra il delitto ex art. 368 c.p. una falsa denuncia
di smarrimento di un assegno la quale, sebbene non contenga
una notizia di reato, preavverte l’autorità che la riceve su
possibili reati commessi da chi verrà scoperto a detenerlo. In
tal caso, nonostante che la falsa denuncia possa costituire
l’espediente per bloccare la circolazione del titolo, il deman‑
dante è consapevole di simulare una circostanza idonea a far
sì che il soggetto, al quale ha trasmesso l’assegno e che in
buona fede lo girerà o lo porrà all’incasso, potrà essere perse‑
guito d’ufficio per furto aggravato o per ricettazione.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 1 marzo 2012, n. 652
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Estorsione: cavallo di ritorno – Configurabilità del reato
(art. 629 c.p.)
In tema di estorsione, la Suprema Corte di legittimità ha
più volte ribadito la sussistenza del reato nelle ipotesi del
soggetto che pretenda dalla vittima la corresponsione di de‑
naro per la restituzione della refurtiva sottratta alla vittima
(condotta convenzionalmente definita cavallo di ritorno) e
ciò anche laddove sia stato il derubato ad offrire di sua ini‑
ziativa la somma stessa, attesa la minaccia implicita da indi‑
viduarsi nella consapevolezza della perdita definitiva della
cosa nell’ipotesi di omesso pagamento.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 10 aprile 2012, n. 4920
Estorsione: differenze con il reato di ragion fattasi
(art. 629, 393 c.p.)
Il reato di estorsione(art. 629 c.p.) si differenzia da quello
di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia alla
persona (art. 393 c.p.) non tanto per la materialità del fatto –
che può essere identica ‑, quanto per l’elemento intenzionale,
atteso che nell’estorsione l’agente mira a conseguire un ingiu‑
sto profitto con la coscienza che quanto pretende non gli è
dovuto, mentre nell’esercizio arbitrario egli agisce al fine di
esercitare un suo preteso diritto con la convinzione che quan‑
to vuole gli compete Sotto altro profilo, il delitto di ragion
fattasi, in quanto delitto ad evento, la cui realizzazione pre‑
suppone il raggiungimento dello scopo perseguito dall’agente,
ammette la configurabilità del tentativo.
Tribunale di Nola coll. B)
sentenza 1 marzo 2012, n. 652
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Estorsione: elementi costitutivi
(art. 629 c.p.)
Il delitto di estorsione, quanto alla struttura del reato,
richiede la coartazione della vittima a fare od omettere qual‑
cosa mediante violenza o minaccia esercitate dall’agente al
fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. La mi‑
naccia idonea ad integrare il reato non necessariamente deve
essere esplicita ben potendo manifestarsi in modi e forme
differenti, ovvero in maniera implicita, larvata, indiretta ed
indeterminata, essendo solo necessario che sia idonea ad in‑
cutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo, in
relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell’agen‑
te, alle condizioni soggettive della vittima e alle condizioni
ambientali, in cui questa opera.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 10 aprile 2012, n. 4920
Estorsione: ruolo di intermediazione –Concorso nel reato – Sussi‑
stenza
(art. 629 c.p.)
Si configura il delitto di estorsione laddove l’agente chieda
ed ottenga dal derubato il pagamento di una somma di dena‑
ro come corrispettivo dell’attività di intermediazione posta
in essere per la restituzione del bene sottratto “in quanto la
vittima subisce gli effetti di una minaccia implicita, e cioè
quella della mancata restituzione del bene, in mancanza del
versamento della richiesta di denaro a compenso dell’attività
di intermediazione svolta”. Del pari, concorre nel delitto di
estorsione l’intermediario che agisca per la restituzione della
refurtiva mettendosi in contatto con gli autori del furto e
determinandoli, in virtù del proprio carisma mafioso, a fis‑
sare il prezzo del riscatto, in modo da ricordare loro le regole
vigenti in quel determinato territorio.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 10 aprile 2012, n. 4920
Estorsione: ruolo di intermediazione – Mancata percezione di de‑
naro per la restituzione del bene – Esclusione del reato
(art. 629 c.p.)
Il concorso in estorsione va escluso solo laddove il sogget‑
to agisca per incarico della vittima di un furto e nell’esclusivo
interesse di quest’ultima, mettendosi in contatto con gli au‑
tori del reato al fine di ottenere la restituzione della refurtiva
mediante esborso di denaro, ma senza conseguire alcuna
parte del prezzo.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 10 aprile 2012, n. 4920
Falsità: falsa attestazione nel corpo di una concessione edili‑
zia – Configurabilità del reato di cui all’art. 480 c.p.
(art. 480 c.p.)
un delitto di falsità ideologica asseritamente commesso
nel corpo di una concessione edilizia rilasciata ex l. n. 10/1977,
andava rimarcato come una falsa attestazione di tal fatta
potesse integrare non tanto la figura di reato di cui all’art. 479
c.p., quanto quella di cui all’art. 480 c.p., in quanto la con‑
cessione edilizia costituiva una “autorizzazione amministra‑
tiva”, come tale soggetta, sotto il profilo penalistico, al regime
sanzionatorio meno rigoroso delle norme di cui agli artt. 477
e 480 c.p.p. sfuggendo dalla nozione generale di “atto pubbli‑
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co” ex artt. 476 e 479 c.p. (sulla scia della Corte Costituzio‑
nale sentenza 25 gennaio 1980 n. 5, si veda Cass. sez.un., 29
gennaio 1997, n. 673; cfr, Cass. pen. sez. V, sentenza 30 set‑
tembre 2002, n. 38827). In pratica, è stato già affermato
come la falsa rappresentazione da parte del proprieta‑
rio – committente dell’esistenza di fabbricati – in realtà in
tutto o in parte demoliti – diretta agli organi competenti al
fine di ottenere il rilascio di concessione edilizia è punibile ai
sensi degli artt. 48 – 480 c.p., e non degli artt. 48 – 479 c.p.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 15 dicembre 2011, n. 654
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Falsità: false attestazione su schede catastali – Configurabilità del
falso ideologico in atto pubblico
(art. 476 co. 2 c.p.)
L’attestazione del pubblico ufficiale sulle schede catastali
presentate dal privato in relazione alla data dell’avvenuto
deposito e al loro contenuto costituisce atto pubblico facente
fede fino a querela di falso, per cui integra gli estremi del re‑
ato di cui all’art. 476 comma 2 c.p. l’alterazione della data di
deposito della scheda ovvero la sua sostituzione con altra di
contenuto diverso”. E nell’affermare tale principio la Corte
ha precisato che le schede catastali, che nascono notoriamen‑
te come scritture private redatte dall’interessato, acquistano
natura di atto pubblico nel momento in cui vengono conse‑
gnate alla p.a. che ne attesta l’avvenuto deposito e che ha il
potere di controllarne la veridicità del contenuto attraverso
idonei accertamenti (Cass. pen., sez. VI, 23 gennaio 2003,
n. 9955; Cass. pen., sez. V, 23 gennaio 2004, n. 8684).
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 15 dicembre 2011, n. 654
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Falsità: falso certificato del medico di struttura ospedaliera – Sus‑
sistenza del reato.
(art. 476, 479 c.p.)
Integra il delitto di falsità exartt. 476 e 479 c.p. commes‑
so dal pubblico ufficiale in atto pubblico fidefacientela con‑
dotta del medico di struttura pubblica che rediga un certifi‑
cato con false attestazioni, in quanto ciò che caratterizza
l’atto pubblico fidefaciente, anche in virtù del disposto di cui
all’art. 2699 c.c., è – oltre all’attestazione di fatti appartenen‑
ti all’attività del pubblico ufficiale o caduti sotto la sua per‑
cezione – la circostanza che esso sia destinato “ab initio” alla
prova e cioè precostituito a garanzia della pubblica fede e
redatto da un pubblico ufficiale autorizzato, nell’esercizio di
una speciale funzione certificatrice.
Tribunale di Nola, G.M. Scermino
sentenza 1 febbraio 2012, n. 310
Falsità: falso certificato del medico privato
(art. 481 c.p.)
La falsità ideologica del certificato rilasciato da medico
nell’esercizio di attività privatistica, nell’immediatezza
dell’evento, deve essere ritenuta punibile a norma dell’art. 481
c.p., perché la certificazione viene rilasciata dal medico nella
sua qualità di esercente la professione sanitaria.
Tribunale di Nola, G.M. Scermino
sentenza 1 febbraio 2012, n. 310
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Falsità: qualità di pubblico ufficiale – Concorso di persone – Con‑
figurabilità
(art. 476 c.p.)
Peraltro, in ordine alla qualità di pubblico ufficiale, ri‑
chiesta per la configurabilità del reato ascritto, occorreva
osservare che, alla stregua dei principi che regolano il con‑
corso di persone nel reato proprio, per la punibilità di ambe‑
due gli imputati era sufficiente che uno solo di essi assumes‑
se la qualità di concorrente qualificato, atteso l’accertato
contributo di entrambi alla consumazione della falsità (a
nulla rilevando che l’alterazione dell’atto sia stata material‑
mente eseguita da uno solo, Cass. pen., sez. V 17 febbraio
2010, n. 19557 (data dep. 24 maggio 2010).
Tribunale di Nola, G.M. Scermino
sentenza 1 febbraio 2012, n. 310
Falsità: registro di protocollo – Natura di atto di fede privilegia‑
ta – Sussistenza del reato
(art. 476 c.p.)
In tema di falso documentale, il registro di protocollo è
atto di fede privilegiata, in quanto in esso il pubblico ufficia‑
le attesta l’avvenuta ricezione di un documento dall’esterno,
la data della ricezione e la numerazione progressiva che gli
viene attribuita, sicché la materiale apposizione sul documen‑
to del timbro riproducente la data di ricezione ed il numero
attribuitogli non costituisce altro che una prosecuzione di
tale attività certificativa, onde la registrazione e la riprodu‑
zione della stessa sul documento costituiscono un’operazione
unica e contestuale, avente la stessa natura di atto pubblico.
Ne deriva che costituisce falsità punibile, ai sensi dell’art. 476
c.p., l’apposizione di una falsa data di ricezione col timbro di
protocollo, destinato a fare fede del ricevimento o della spe‑
dizione da parte dell’ufficio pubblico; né rileva che alla falsi‑
tà della data apposta con il detto timbro non corrisponda
uguale annotazione nell’apposito registro, in quanto il timbro
di protocollo è lo strumento che proietta sull’atto che provie‑
ne “ab externo” il crisma dell’attestazione della data di rice‑
zione, facendo fede della stessa.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 15 dicembre 2011, n. 654
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Furto: consumazione di bevande all’interno di supermerca‑
to – Configurabilità del delitto consumato
(art. 56, 625 c.p.)
Configura il delitto di furto consumato la condotta con‑
sistente nell’apertura e contestuale consumazione delle be‑
vande all’interno di un supermercato, integrandosi la piena
integrazione dei due profili della sottrazione e dello sposses‑
samento. Ciò in quanto in un supermercato il cliente è auto‑
rizzato a portare con sé l’oggetto prelevato e, nel caso di al‑
cuni articoli alimentari, nulla vieta al medesimo di aprire la
confezione e di consumarne il contenuto, mostrando alla
cassa la prima per il pagamento del prezzo. In tale ipotesi,
l’addetto alla sorveglianza non ha titolo ad intervenire e,
quando come nel caso di specie, la condotta criminosa è
pienamente configurabile, avendo il cliente abbandonato
l’involucro dell’alimento consumato, con ciò palesando ine‑
quivocabilmente la sua volontà di sottrarsi al pagamento del
prezzo, il furto non può che ritenersi consumato, essendosi
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verificato il definitivo spossessamento dell’avente diritto.
Corte Appello Napoli, sez. I
sentenza 12 marzo 2012, n. 1286
Pres. Marotta, Est. Saraceno
Maltrattamenti in famiglia: lesioni – Concorso di reato
(art. 582, 572 c.p.)
Nell’ipotesi in cui alcuni o tutti i fatti di maltrattamento
costituiscano per sé stessi reati (percosse, lesioni, minacce, vio‑
lenze sessuali, ingiurie, sequestro di persona e violenza privata)
l’agente risponde in concorso anche di tali reati, ad eccezione di
quelli, quali le percosse e le minacce, che presentandosi non
fini a sé stessi, ma strettamente connessi alla condotta dell’agen‑
te, devono ritenersi elementi costitutivi della violenza fisica o
morale propria del delitto di maltrattamenti.
Corte Appello Napoli, sez. VII
sentenza 7 marzo 2012, n. 1221
Pres. Di Mauro, Est. Salzano
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È applicabile ai maltrattamenti in famiglia, il principio
per cui quando i soggetti passivi del reato siano più persone
sono configurabili più fattispecie di reato ex art. 572 c.p. per
quante sono le vittime della condotta illecita, visto che l’in‑
teresse protetto dal reato è la personalità del singolo in rela‑
zione al rapporto che lo unisce al soggetto attivo.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 27 maggio 2011, n. 1349
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Maltrattamenti in famiglia: reciproche violenze, offese ed umilia‑
zioni – Posizione di abituale prevaricazione – Esclusione – insus‑
sistenza del reato
(art. 572 c.p.)
Perché sussista il reato di maltrattamenti in famiglia,
deve essere accertata una condotta (consistente in aggres‑
sioni fisiche o vessazioni o manifestazioni di disprezzo)
abitualmente lesiva della integrità fisica e del patrimonio
morale della persona offesa unitamente ad una specifica
condizione di sofferenza di quest’ultima, siccome determi‑
nata dalla angherie subite. Così, se esiste una situazione di
dissidio coniugale alla quale sia il marito che la moglie par‑
tecipano con reciproche offese e aggressioni fisiche, deve
escludersi la configurabilità del reato di maltrattamenti. La
condotta di cui all’art. 572 c.p., per essere integrata, richie‑
de l’attribuibilità al suo autore di una posizione di abituale
prevaricante supremazia alla quale la vittima soggiace. Di
conseguenza, se le violenze, le offese e le umiliazioni sono
reciproche – anche se di diverso peso e gravità – non può
dirsi che c’è un soggetto che maltratta ed uno che è maltrat‑
tato, ma singoli episodi di prevaricazione eventualmente
punibili autonomamente.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 9 giugno 2011, n. 1468
Pres. Napolitano, Est. Scermino
Maltrattamenti in famiglia: natura del reato abituale – Presupposti
(art. 572 c.p.)
La fattispecie criminale ex art. 572 c.p. costituisce un’ipo‑
tesi di reato abituale e necessita per la sua configurabilità
della reiterazione della condotta. Tale aspetto, che rappresen‑
ta il nucleo centrale delle argomentazioni della Suprema
Corte sul tema, è stato oggetto di diverse disamine e appro‑
fondimenti da parte della dottrina e della giurisprudenza. È
pacifico che il delitto de quo consiste in una serie di atti lesivi
dell’integrità fisica o morale, della libertà o del decoro delle
persone di famiglia, idonea a rendere abitualmente dolorose
e mortificanti le relazioni tra il soggetto attivo e le vittime.
L’insé della condotta consiste nella riconducibilità degli epi‑
sodi, siccome succedutisi con costante regolarità nel corso del
tempo, in un’unica situazione esistenziale di complessiva e
continua intollerabilità nonché di gravi sofferenze psicofisiche
a carico delle persone offese, sì da apparire i medesimi intima‑
mente collegati sul piano oggettivo ed avvinti unitariamente
sul piano soggettivo da una sola pervicace intenzione crimi‑
nosa di prevaricazione. L’elemento della abitualità, per l’ef‑
fetto, si concretizza nella persistente frequenza degli episodi
vessatori. La struttura abituale della figura si fonda su uno
sviluppo simbiotico dell’elemento oggettivo e soggettivo, in
cui il disvalore proprio di ogni episodio offensivo successivo
al primo mutua un quid pluris di antisocialitàdalla reiterazio‑
ne nonché della consapevolezza delle pregresse vessazioni:
ogni ingiuria, ogni percossa successiva alla prima non offen‑
dono solo l’integrità psichica e l’incolumità fisica del soggetto
passivo, ma costituiscono momenti di una progressiva sopraf‑
fazione via via crescente. In sostanza, se gli atti vessatori
isolatamente considerati rinvengono la ratio dell’anti‑ giuri‑
dicità penale ex art. 572 c.p. nella reiterazione e nella persi‑
stenza dell’elemento intenzionale, per integrare il reato sono
da escludere sporadici episodi di violenza.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 9 giugno 2011, n. 1468
Pres. Napolitano, Est. Scermino
Minaccia: elementi oggettivi e soggettivi – Configurabilità
(art. 612 c.p.)
Il reato di minaccia è un reato formale di pericolo, per
la cui integrazione non è richiesto che il bene tutelato sia
realmente leso, bastando che il male prospettato possa in‑
cutere timore nel soggetto passivo, menomandone la sfera
della libertà morale. La valutazione dell’idoneità della mi‑
naccia a realizzare tale finalità va fatta avendo di mira un
criterio di medialità che rispecchi le reazioni dell’uomo co‑
mune. Per l’effetto, una esplicita minaccia di morte posta in
essere, in termini insistiti, presentava per tabulas gli estremi
oggettivi e soggettivi della condotta incriminata dall’art. 612
cit.. Così come ricorreva la circostanza aggravante della
“gravità” della minaccia, tenuto conto delle modalità par‑
ticolarmente aggressive con le quali essa veniva indirizzata
nonché del suo contenuto (morte, cfr. Cassazione penale,
sez. VI, 18/10/1999, n. 14628).
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 9 giugno 2011, n. 1468
Pres. Napolitano, Est. Scermino
Maltrattamenti in famiglia: pluralità di soggetti passivi – Plurali‑
tà di reati
(art. 572 c.p.)
Percosse – Lesioni: differenze e caratteristiche
(art. 581 – 582 c.p.)
La differenza fra il reato di percosse e quello di lesioni
penale
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personali va ravvisato nel fatto che, nella prima ipotesi, dal‑
la condotta posta in essere deriva al soggetto passivo soltan‑
to una sensazione fisica di dolore, mentre nella seconda
ipotesi, deriva una malattia, ossia una alterazione, anche
solo funzionale, che comporta un processo di reintegrazione
sia pure di breve durata. L’’ecchimosi, consistente in una
infiltrazione di sangue nel tessuto sottocutaneo, ed il trauma
contusivo, che determina una, sia pur limitata, alterazione
funzionale dell’organismo, sono riconducibili alla nozione di
malattia ed integrano pertanto il reato di lesione personale
(Cassazione penale, sez. VI, 13/01/2010, n. 10986).
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 9 giugno 2011, n. 1468
Pres. Napolitano, Est. Scermino
Pubblico ufficiale: medico privato – Esclusione
(art. 357 c.p.)
Il medico che non opera all’interno di una struttura pub‑
blica, spendendo la sua qualità pubblicistica, non è un pubbli‑
co ufficiale, bensì un incaricato di servizio di pubblica neces‑
sità. Né può dirsi che egli, incardinato nel Servizio sanitario
nazionale, operi in ogni caso come pubblico ufficiale, perché‑
secondo la giurisprudenza della Suprema Corte questi medici
esercitano una funzione pubblica solo quando concorrano a
formare la volontà della P.A. in materia di assistenza sanitaria
ed esercitino in sua vece poteri autoritativi e certificativi.
Tribunale di Nola, G.M. Scermino
sentenza 1 febbraio 2012, n. 310
Ricettazione: elementi costitutivi
(art. 648 c.p.)
Quanto al delitto di ricettazione, esso richiede che l’agen‑
te acquisti o comunque riceva cose di provenienza delittuosa
al fine di trarne profitto. Pertanto, elemento essenziale per la
configurabilità del reato sotto il profilo materiale è l’acquisto
del possesso di cose di illecita provenienza (delitto presuppo‑
sto), mentre, sotto il profilo dell’elemento psicologico, è ne‑
cessario che l’imputato sia pienamente consapevole della
provenienza delittuosa del bene in suo possesso.
Tribunale di Napoli, G.M. Bottillo
sentenza 10 aprile 2012, n. 4920
Usura: estorsione – Presupposti e caratteristiche
(art. 644, 629 c.p.)
A fronte di un delitto di usura, non vi è dubbio che emer‑
ga l’ulteriore delitto di estorsione allorquando la violenza o
la minaccia, assenti al momento della stipulazione del patto
usurario, siano impiegate in un momento successivo, al fine
di ottenere la realizzazione dei pattuiti “interessi o altri van‑
taggi usurari” che il soggetto passivo non possa o non voglia
più corrispondere.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 1 marzo 2012, n. 652
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Violenza sessuale: circostanza attenuante – Presupposti
(art. 609 bis co. 3 c.p.)
In tema di reati sessuali, non ricorre l’attenuante della mi‑
nore gravità del fatto (art. 609 bis, comma terzo, c.p..) nel caso
in cui la violenza sessuale sia perpetrata dal genitore ai danni
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del proprio figlio, in quanto, ponendo in essere tale condotta,
il genitore lede la libertà di autodeterminazione sessuale di
quest’ultimo, così determinando uno sviamento dalla funzione
di accudimento e protezione, tipica della figura genitoriale.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 27 maggio 2011, n. 1349
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Violenza sessuale: nozione – Elementi costitutivi e condotta pu‑
nibile
(art. 609 bis c.p.)
L’individuazione del reato di violenza sessuale (art. 609–
bis c.p.), si riconnette alla definizione della nozione, del
contenuto e dei limiti della locuzione «atti sessuali», di cui
alla l. n. 66 del 1996, in quanto l’art. 609–bis c.p. (introdotto
dalla predetta legge) ha concentrato in una fattispecie unitaria
le previgenti ipotesi criminose previste dagli artt. 519 e 521
c.p., individuando quale unica condotta composita, idonea a
ledere il bene giuridico della libertà sessuale, in luogo della
«congiunzione carnale» e degli «atti di libidine violenti», il
fatto di chi con violenza o minaccia o mediante abuso di au‑
torità «costringe» taluno a compiere o a subire «atti sessuali».
Punto focale è la disponibilità della sfera sessuale da parte
della persona che ne è titolare. La condotta vietata dagli
artt. 609 bise ss. c.p. ricomprende qualsiasi atto che, risolven‑
dosi in un contatto corporeo tra soggetto attivo e soggetto
passivo, ancorché fugace ed estemporaneo, o comunque coin‑
volgendo la corporeità sessuale di quest’ultimo, sia finalizza‑
to e normalmente idoneo a porre in pericolo la libertà di au‑
todeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessua‑
le. Le finalità dell’agente e l’eventuale soddisfacimento del
proprio piacere sessuale non assumono un rilievo decisivo ai
fini del perfezionamento del reato, che è caratterizzato dal
dolo generico e richiede semplicemente la coscienza e volontà
di compiere atti pervasivi della sfera sessuale altrui.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 27 maggio 2011, n. 1349
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Violenza sessuale: palpeggiamenti – Sussistenza del reato
(art. 609 bis c.p.)
Anche i palpeggiamenti ed i toccamenti possono costitu‑
ire una indebita intrusione nella sfera sessuale, laddove il
riferimento al sesso non deve limitarsi alle zone genitali,
comprendendo pure quelle ritenute «erogene» (stimolanti
dell’istinto sessuale) dalla scienza medica, psicologica ed
antropologico‑sociologica, siccome parimenti suscettibili di
eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non com‑
pleto e/o di breve durata.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 27 maggio 2011, n. 1349
Pres. Napoletano, Est. Scermino
PROCEDURA PENALE
Dibattimento: mutamento della persona fisica del Giudice – Prin‑
cipio di immutabilità – Violazione – Esclusione
(art. 521 c.p.p.)
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In sede di rinnovazione di giudizio dibattimentale all’esito
di modificazione del Giudice /persona fisica, il nuovo Giudice
del Dibattimento può pronunciarsi sull’ammissione delle nuo‑
ve richieste di prova avanzate dalla parti sulla scorta del ma‑
teriale probatorio già legittimamente acquisito nel fascicolo
dibattimentale e pur sempre secondo i canoni di non manifesta
superfluità e irrilevanza dettati dagli artt. 190 e 495 c.p.p.; ove,
all’esito, egli rigetti le nuove istanze di prova per manifesta
inutilità, ben potrà dare lettura dei verbali di prova preceden‑
temente acquisiti exart. 511 c.p.p., con conseguente piena
utilizzabilità dell’attività istruttoria già espletata. Ciò in quan‑
to, dove non volesse accedersi a tale postulato., rimarrebbero
irrisolte diverse questioni interpretative, cioè a dire: non si
comprenderebbe sulla base di quale norma o principio proces‑
sual‑penalistico una “attività probatoria legittimamente com‑
piuta” resterebbe recuperabile dal nuovo Giudice del dibatti‑
mento solo mediante un “obbligato” provvedimento di (nuova)
ammissione della precedente prova; non si comprenderebbe
per quale ragione solo in questo caso al Giudice verrebbe sot‑
tratto ogni potere di valutazione di superfluità della ripetizio‑
ne dell’esame, quando in altri casi analoghi (art. 238 – inciden‑
te probatorio) è invece rimesso al Tribunale di verificare la non
manifesta inutilità della nuova audizione; non si comprende‑
rebbe come una “forzata ripetizione delle prove” sia compati‑
bile con le pronunce della Corte Costituzionale che hanno
chiarito la necessità di non sovrapporre i momenti dell’ammis‑
sione (libera ed expressis verbis assoggettata ai parametri
dell’art. 190 c.p.p.) e dell’assunzione (vincolata e regolata
dall’art. 511 c.p.p.); non si comprenderebbe come, da ultimo,
la medesima prassi sia oggi compatibile con il principio costi‑
tuzionale della ragionevole durata del processo, il quale, si
badi bene, è stato costituzionalizzato (novembre 1999) solo
dopo la sentenza Iannasso (gennaio 1999).
Tribunale di Nola, G.M. Scermino
sentenza 1 febbraio 2012, n. 310
Nel caso in cui sia intervenuta la causa estintiva del reato
di cui all’imputazione, il giudice non potrà, all’esito dell’istrut‑
toria dibattimentale ed in presenza di un compendio proba‑
torio insufficiente o contraddittorio, esercitare i poteri di
ufficio ex art. 507 c.p.p. (possibilità ammessa anche per il
giudice ritiratosi in camera di consiglio per la deliberazione
della sentenza, ma dovrà dichiarare l’estinzione del reato
enunciandone la causa nel dispositivo.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 15 dicembre 2011, n. 654
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Dibattimento: mutamento della persona fisica del Giudice – Rinno‑
vazione – Lettura – Previsione
(art. 511 c.p.p.)
In caso di mutamento della persona fisica del Giudice, le
precedenti dichiarazioni testimonialipossano essere ritenute
pienamente utilizzabili, previo regime delle letture ex art. 511
c.p.p in quanto il materiale de quo possiede il valore di “atti‑
vità probatoria legittimamente acquisita” al fascicolo del di‑
battimento. E ciò non può che valere a prescindere da quale
sia la determinazione del (nuovo) Giudice in ordine ad una
nuova ammissione della stessa prova. Peraltro, non si compren‑
derebbe per quale ragione, quando si verifichi un diniego di
rinnovazione dell’esame ex artt. 190 e 495 c.p.p., i precedenti
verbali dovrebbero perdere la loro fisiologica attitudine pro‑
batoria, nel momento in cui, di contro, una tale valenza deriva
loro non solo dall’essere stati legittimamente formati nel pieno
contraddittorio della parti e davanti ad un Giudice terzo, ma
anche dal potere legittimamente permanere nel fascicolo dibat‑
timentale (ex Corte Cost. supra).
Tribunale di Nola, G.M. Scermino
sentenza 1 febbraio 2012, n. 310
Persone imputate in procedimento connesse – Criteri di valuta‑
zione
(art. 197 bis c.p.p.)
La norma, come noto, rinvia all’art. 192 comma 3 c.p.p.
ai fini della relativa valutazione, imponendo il rinvenimento
di “altri elementi di prova” a conferma dell’attendibilità
della dichiarazione testimoniale. La disposizione de qua,
tuttavia, non consente di sostenere la esistenza di una presun‑
zione di inattendibilità delle persone ivi indicate. Invero, se
agli altri elementi di prova è affidata solo la funzione di con‑
fermare l’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie, vuol
dire che tale attendibilità non è negata a priori, ma che è in‑
sufficiente e che spetta ai riscontri probatori esterni renderla
piena. Di più, non solo dalla collocazione sistematica della
norma, ma soprattutto dalla lettera stessa del testo legislativo,
in particolare dalla diversità con la norma dedicata agli indi‑
zi (rispetto ai quali si prescrive che solo la loro pluralità orga‑
nizzata in un quadro coerente fornisce una ricostruzione si‑
cura del fatto, nel mentre per l’istituto qui esaminato l’esten‑
sione dell’analisi agli “altri elementi di prova” serve solo a
confermare “l’attendibilità” delle affermazioni), discende che
la dichiarazione exart. 192 comma 3 c.p.p. è una prova, e non
un mero indizio (e tanto meno un elemento probatoriamente
inutilizzabile), e che pertanto essa costituisce una fonte privi‑
Dibattimento: poteri di ufficio del Giudice – Limiti e modalità
(art. 507 c.p.p.)
Dichiarazioni indizianti: utilizzabilità – Limiti e criteri
(art. 63 c.p.p.)
Spetta al giudice il potere di verificare nella sostanza – al
di là del riscontro di indici formali, quali la già intervenuta
o meno iscrizione nominativa nel registro delle notizie di
reato – l’attribuibilità, al dichiarante, della qualità di inda‑
gato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengono rese.
Ove si subordinasse, infatti, l’applicazione della disposizione
di cui all’art. 63 c.p.p., comma 2, alla iniziativa del pubblico
ministero di iscrizione del dichiarante nel registro ex art. 335
c.p.p., si finirebbe col fare assurgere la condotta del pubblico
ministero a requisito positivo di operatività della disposizio‑
ne, quando sarebbe invece proprio la omissione antidovero‑
sa di quest’ultimo ad essere oggetto del sindacato in vista
della dichiarazione di inutilizzabilità. Quanto poi al tipo e
alla consistenza degli elementi apprezzabili dal giudice al
fine di verificare l’effettivo status del dichiarante, devono
ritenersi rilevanti i soli indizi non equivoci di reità, sussisten‑
ti già prima dell’escussione del soggetto e conosciuti dall’au‑
torità procedente.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 1 marzo 2012, n. 652
Pres. Napoletano, Est. Scermino
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legiata, sul piano della valenza dimostrativa, rispetto all’in‑
dizio in senso tecnico, potendo formare oggettivo e legittimo
supporto del libero convincimento del giudice quanto alla
colpevolezza del chiamato. Tale conclusione è peraltro con‑
forme al dato interpretativo ormai affermatosi nella giuri‑
sprudenza di legittimità (Cfr., tra le altre, Cass., sez. un., 6
dicembre 1991, Scala; Cass., sez. un., 3 febbraio 1990, Belli;
Cass. 25 febbraio 1997, n. 1801, Bompressi ed altri; Cass. pen.,
sez. II, 18 marzo 1993, n. 2583, Di Salvo ed altro; id. 26
aprile 1993, n. 4000).
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 1 marzo 2012, n. 652
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Sentenza: principio di correlazione – Omessa contestazione ag‑
gravante – Violazione – Esclusione
(art. 521 c.p.p.)
L’omissione della specifica indicazione della norma ripor‑
tante l’aggravante costituisce una mera irregolarità e non
integra alcuna nullità contestabile ex art. 521 c.p.p. Peraltro,
non sussiste violazione del principio di correlazione tra ac‑
cusa e sentenza (art. 521 c.p.p.), e deve pertanto ritenersi
consentito al giudice di dare al fatto la qualificazione giuri‑
dica da lui ritenuta più appropriata, quando l’imputato abbia
comunque avuto possibilità di difendersi in rapporto a tutte
le circostanze rilevanti del fatto medesimo.
Tribunale di Nola, G.M. Scermino
sentenza 1 febbraio 2012, n. 310
Sentenza: statuizioni civili – Frazionabilità della domanda risar‑
citoria – Inammissibilità
(art. 538‑539c.p.p.)
il carattere strutturalmente unitario del diritto al risarci‑
mento del danno si riflette, sul piano processuale, nel prin‑
cipio della ordinaria infrazionabilitàdel procedimento di li‑
quidazione. Deriva da quanto precede, pertanto, che la do‑
manda risarcitoria, fondata sul presunto illecito del conve‑
nuto, deve – di regola – contenere tutte le possibili voci di
danno da esso originato e non solo alcune di esse. Ove questo
non si verifichi nel procedimento nel quale è accertata la
responsabilità del danneggiante, è dato tutt’al più al danneg‑
giato di fare riserva di agire separatamente per il ristoro di
quanto a lui spettante, posto che le singole poste di danno si
riferiscono a una situazione unitaria.
Nel caso in cui questo non accada – come emerge nella
specie – l’ulteriore azione non può avere corso). Tale impo‑
stazione, peraltro, ha ricevuto nuova linfa da recenti e ben
più rigorosi arresti giurisprudenziali sul tema. Invero,
quand’anche si fosse dato seguito ad una precisa volontà di
frazionamento della tutela giudiziaria della pretesa, si sareb‑
be proposta in ogni caso una domanda inammissibile.
Tribunale di Nola, G.M. Scermino
sentenza 1 febbraio 2012, n. 310
Valutazione della prova: abusi sessuali – Deposizione di mino‑
ri – Credibilità
(art. 192 c.p.p.)
La circostanza che i minori manifestino conoscenze e
atteggiamenti erotici non consoni alla loro età anagrafica”
deve fare ritenere che essi abbiano avuto esperienze di abuso
p e n a l e
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sessuale quando ciò “sia incompatibile con l’età infantile” e
tali conoscenza non siano potute derivare “da filmati o da
scene viste in televisione”.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 27 maggio 2011, n. 1349
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Valutazione della prova: deposizione di persona offesa minoren‑
ne – Criteri
(art. 192 c.p.p.)
Costituisce generale e consolidato principio quello secon‑
do il quale, in tema di reati contro la libertà sessuale, la va‑
lutazione del contenuto delle dichiarazioni della persona
offesa minorenne, oltre a non sfuggire alle regole generali in
materia di testimonianza, in relazione alla attenta verifica
della natura disinteressata e della coerenza intrinseca del
narrato, richiede la necessità di accertare, da un lato, la co‑
siddetta capacità a deporre, ovvero l’attitudine psichica,
rapportata all’età, a memorizzare gli avvenimenti e a riferir‑
ne la verificazione in modo coerente e compiuto, e, dall’altro,
il complesso delle situazioni che attingono la sfera interiore
del minore, il contesto delle relazioni con l’ambito familiare
ed extrafamiliare e i processi di rielaborazione delle vicende
vissute (Cass. pen., sez. III, sent. 26 settembre 2007, n. 39994,
RV. 237952). Più in particolare, si rileva che – con il neces‑
sario uso dell’indagine psicologica, condotta da un consulen‑
te o da un perito – due aspetti preliminari debbono essere
vagliati dal Giudicante: l’attitudine del minore a testimonia‑
re, sotto il profilo intellettivo ed affettivo, e la sua credibilità
(Cass. sez. III, sent. 5 ottobre 2006, n. 41282, RV. 235578).
Il primo consiste nell’accertamento della capacità del mino‑
re di recepire le informazioni, di raccordarle con altre, di ri‑
cordarle e di esprimerle in una visione complessa, da consi‑
derare in relazione all’età, alle condizioni emozionali, che
regolano le sue relazioni con il mondo esterno, alla qualità e
natura dei rapporti familiari.
Il secondo è diretto ad esaminare il modo in cui la giova‑
ne persona offesa ha vissuto ed ha rielaborato la vicenda, in
maniera da selezionare sincerità, travisamento dei fatti e
menzogna: sebbene, questo ulteriore accertamento è stato
talvolta inserito nella diversa tematica della valutazione
della generale attendibilità del mezzo di prova, venendo a
coincidere con essa (in tal senso, Cass., sez. III, sent. 20
giugno 2007, n. 35397, RV. 237539 e Cass., sez. III, sent. 6
aprile 2009, n. 14832).
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 27 maggio 2011, n. 1349
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Valutazione della prova: dichiarazioni accusatorie – Necessità di
riscontri – Limiti
(art. 192 co. 3 c.p.p.)
Una volta che le dichiarazioni accusatorie siano norma‑
tivamente assoggettate alla disciplina dell’art. 192 comma 3
c.p.p. (dall’art. 197 biscomma 6 c.p.p.), sarebbe non soltanto
arbitrario fissare in termini astratti il “quantum” di riscontri,
necessario per confermare l’attendibilità, in ragione del ruo‑
lo “formale “attribuito al dichiarante (in forza del brocardo
“ubi lex non distinguat nec nos distinguere debemus”), ma
anche privo di qualsiasi logica e coerenza sistematica, posto
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che lo scrutinio di attendibilità è scrutinio di “relazione”, il
quale a sua volta presuppone verifiche variabili che non pos‑
sono porsi in rapporto esclusivo con le qualità “processuali
“del dichiarante, ma che devono tener conto di tutta l’ampia
ed innominata gamma dei parametri (anche di ordine logico)
che possono fungere da criteri di apprezzamento dei riscontri
“ab extrinseco” del narrato.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 1 marzo 2012, n. 652
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Valutazione della prova: dichiarazioni di imputati in procedimen‑
ti connessi – Riscontri necessità
(art. 192 co. 3 c.p.p.)
Così come “non è sufficiente la sola chiamata di correo
da parte di un soggetto per pervenire ad un giudizio di col‑
pevolezza” (Cfr. Cass., 24 luglio 1992, Procopio), allo stesso
modo il riscontro probatorio estrinseco, richiesto dal com‑
ma dell’articolo 192 c.p.p., non deve avere la consistenza di
una prova autosufficiente di colpevolezza (perché ciò rende‑
rebbe inutile e superflua la chiamata in correità di cui do‑
vrebbe, invece, solo confortare la “attendibilità”, dovendo la
dichiarazione ex art. 192 comma 3 c.p.p. ed il riscontro
estrinseco “integrarsi reciprocamente e soprattutto formare
oggetto di un giudizio complessivo”. Per cui, se il c.d. “ri‑
scontro esterno” alla attendibilità delle dichiarazioni in
questione deve certamente consistere in un dato autonomo
rispetto alla chiamata (“esterno” appunto), è pacifico in
giurisprudenza che l’articolo 192 comma c.p.p., quando si
riferisce agli “altri elementi probatori”, non distingue tra i
vari tipi di prova e non stabilisce graduatorie nella valenza
probatoria degli stessi. Di guisa che i riscontri possono esse‑
re di qualsiasi tipo e natura (cfr. Cass. sez.un. sopra richia‑
mate; Cass. 29 dicembre 1997, Abd El Gawad ed altri; id.
25.2.1997, sopra citata; Cass., 17 ottobre 1990, Caniggia) e,
quindi, possono essere tratti sia da dati oggettivi, quali fatti
e documenti, sia da rilievi di ordine logico. In altre parole,
alla stregua dei principi autorevolmente espressi dalla Supre‑
ma Corte, ed anche allo stato attuale della legislazione, re‑
puta il Collegio che, in forza del principio del libero convin‑
cimento, il giudice ha il potere di conoscere di qualsiasi ri‑
scontro e di apprezzare come tale ogni elemento in grado di
conferire attendibilità alla dichiarazione del propalante, va‑
lutandone liberamente il significato e la portata, sia pure nei
binari tracciati dai tradizionali criteri di razionalità e plausi‑
bilità, non esclusi l’uso di consolidate massime d’esperienza
od il ricorso a criteri di logica indiziaria.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 1 marzo 2012, n. 652
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Valutazione della prova: dichiarazioni di persone imputate in
procedimento connesso – Modalità e criteri
(art. 192 c.p.p.)
La deposizione testimoniale resa dal dichiarante (nel
processo nel quale egli è sentito ex art. 197 bis c.p.p) equiva‑
le ad una dichiarazione di colpevolezza nel processo per cui
lo stesso teste è imputato (o indagato).
La dichiarazione accusatoria (riferita in sede testimonia‑
le) implica la sostanziale confessione del diverso reato, in
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modo che sostenere l’accusa da parte del teste nel processo
in corso ha il significato di andare incontro a condanna cer‑
ta nel procedimento collegato. Orbene, in ipotesi di tal fatta,
certamente diverso deve essere l’approccio valutativo in tema
di riscontro ex art. 192 comma 3 c.p.p. La condizione di
“contro interesse” in cui versa il dichiarante ex art. 197
bisc.p.p., allorquando egli confessi la sua responsabilità con
riguardo al reato collegato, costituisca di per sé un sufficien‑
te argomento logico capace di riscontrare ex art. 192 com‑
ma 3 c.p.p. la attendibilità della relativa deposizione. Invero,
la ragione per la quale il legislatore chiede i “riscontri” ex
art. 197 bis ult. comma c.p.p. è data solo da una “sospetta
contiguità” tra il reato connesso o collegato ed il reato da
accertare. Tale rischio, a ben vedere, è sostanzialmente eluso
allorquando il dichiarante confessa apertamente la sua respon‑
sabilità rispetto al reato di cui al procedimento connesso o
collegato. In tal caso non residua alcun particolare pericolo
di falsità o compiacenza della fonte testimoniale, venendo
meno ogni ragione per addivenire ad una narrazione bugiarda.
Il fondamento della diffidenza normativa, in sostanza, svani‑
sce del tutto per effetto della condotta ammissiva del teste.
In definitiva, una volta che una persona offesa di un rea‑
to confessi la sua responsabilità con riguardo al reato con‑
nesso o collegato per cui è imputata o indagata, la dichiara‑
zione ex art. 197 bisc.p.p. può anche non abbisognare di
ulteriori riscontri (salvo, evidentemente, una sua specifica
valutazione intrinseca e estrinseca con riguardo agli altri
elementi di prova assunti nel processo).
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 1 marzo 2012, n. 652
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Valutazione della prova: indagato di reato connesso anche perso‑
na offesa – Criteri
(art. 192 c.p.p.)
Il soggetto che riveste la qualità di imputato in procedi‑
mento connesso ai sensi dell’art. 12, comma 1 lett. c), c.p.p.
o collegato probatoriamente, anche se persona offesa dal
reato, deve essere assunto nel procedimento relativo al reato
connesso o collegato con le forme previste per la testimonian‑
za cosiddetta “assistita”.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 1 marzo 2012, n. 652
Pres. Napoletano, Est. Scermino
Valutazione della prova: testimonianza della persona offesa – Va‑
lutazione frazionata
(art. 192 c.p.p.)
È noto, infatti, che è legittima una valutazione frazionata
delle dichiarazioni della parte offesa. L’eventuale giudizio di
inattendibilità, riferito ad alcune circostanze, non inficia la
credibilità delle altre parti del racconto, sempre che non esista
un’interferenza fattuale e logica tra le parti non veridiche e le
altre, tale per cui, visto il rapporto di causalità necessaria o
antecedenza logica esistente tra di esse, l’inattendibilità delle
prime travolge necessariamente anche le seconde (Cassazio‑
ne penale, sez. III, 26/09/2006, n. 40170): laddove nella
specie tale rapporto “qualificato” non era rinvenibile, ben
potendo essere che una coniuge avesse malamente ricostrui‑
to episodi della sua vita sessuale di coppia, rimanendo cre‑
penale
Gazzetta
102
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
dibile quando riferiva di vessazioni familiari subite a causa
di un medesimo congiunto, generalmente violento.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 9 giugno 2011, n. 1468
Pres. Napolitano, Est. Scermino
Valutazione della prova: testimonianza della p.o. – Criteri
L’art. 197 c.p.p. non prevede alcuna incompatibilità a
testimoniare per la parte civile o per la persona offesa, di‑
versamente da quanto stabilisce per il responsabile civile e
per il civilmente obbligato per la pena pecuniaria. Ne discen‑
de logicamente che anche per la deposizione testimoniale
della persona offesa vale il principio della presunzione di
attendibilità (soprattutto in comparazione con le dichiara‑
zioni difensive dell’imputato) costantemente affermato, in
tema di valutazione di prova testimoniale, dalla giurispru‑
denza di legittimità. Sul punto innumerevoli pronunce della
Suprema Corte hanno chiaramente statuito che “il giudice
deve presumere che il teste, fino a prova contraria, riferisca
correttamente quanto a sua effettiva conoscenza e deve
perciò limitarsi a verificare se sussista o meno incompatibi‑
lità tra quello che il teste riporta come vero, per sua diretta
conoscenza, e quello che emerge da altre fonti di prova di
eguale valenza”. Ciò non esclude, tuttavia, che la persona
offesa, tanto più se costituita parte civile, sia portatrice nel
processo penale di un interesse personale, che confligge
naturalmente con quello dell’imputato. Il che impone al
giudice di procedere con cautela e rigore particolari nella
valutazione della sua testimonianza, tanto più in una mate‑
ria come la violenza sessuale nella quale è sempre possibile
un uso ricattatorio della denuncia penale. Ne deriva che
dichiarazione testimoniale della persona offesa, pur potendo
essere assunta da sola come fonte di prova, presentandosi
come non perfettamente equiparabile a quella di un testimo‑
nio estraneo al merito del processo va sottoposta a una ri‑
gorosa analisi positiva sulla credibilità soggettiva del dichia‑
rante e sulla attendibilità oggettiva della testimonianza.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 9 giugno 2011, n. 1468
Pres. Napolitano, Est. Scermino
Valutazione della prova: testimonianza indiretta: contrasto tra di‑
chiarazioni de relato e quelle rese dal teste – Criteri di valutazione
(art. 192 c.p.p.)
In tema di testimonianza indiretta, in caso di contrasto
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
tra le dichiarazioni rese dal teste de relato e quelle rese dal
teste di riferimento, il giudice ben può ritenere attendibili le
prime anziché le seconde, in quanto, da un lato, l’art. 195
c.p.p. non prevede alcuna gerarchia tra le dichiarazioni e,
dall’altro, una diversa soluzione contrasterebbe con il prin‑
cipio del libero convincimento del giudice, cui compete in via
esclusiva la scelta critica e motivata della versione dei fatti
da privilegiare.
Tribunale di Nola, coll. B)
sentenza 27 maggio 2011, n. 1349
Pres. Napoletano, Est. Scermino
LEGGI PENALI SPECIALI
Armi: illegale detenzione – Omessa denuncia – Acquisizione ere‑
ditaria – Sussistenza del reato
(artt.10 e 14 l. 497/74)
Sussiste il delitto di illegale detenzione di armaanche in
caso di acquisizione a titolo ereditario, laddove si impone la
denuncia di detenzione da parte dell’avente causa.
Tribunale di Nola, coll. A)
sentenza 11 gennaio 2012, n. 68
Pres. Est. Aschettino
Rifiuti: deposito incontrollato – Differenze con la discarica abusiva
(d.l. 172/08)
Gli elementi differenziali tra il reato di discarica non
autorizzata e quello di deposito incontrollato dei rifiuti sono
costituiti dalle caratteristiche quantitative dei rifiuti accumu‑
lati e dalla sistematicità dell’accumulo di essi. Cosicché
quando l’abbandono dei rifiuti è effettuato occasionalmente
ed in misura limitata si configura il reato di deposito incon‑
trollato di rifiuti, disciplinato dall’art. 6 lett. a) d.l. 172/08
convertito in l. 210/08. Il reato di realizzazione o gestione di
discarica non autorizzata ora disciplinato dall’art. 6 lett. e)
d.l. citato, presuppone, invece, per la sua configurabilità
l’accumulo, più o meno sistematico ma comunque ripetuto e
non occasionale di rifiuti in un’area determinata, la eteroge‑
neità dell’ammasso dei materiali, la definitività del loro ab‑
bandono, ed il degrado anche solo tendenziale dello stato dei
luoghi per effetto della presenza dei materiali in questione.
Tribunale di Nola, G.M. Di Iorio
sentenza 24 gennaio 2012, n. 198.
Diritto amministrativo
Accordi procedimentali e strumenti di programmazione negoziata
105
Pier Giorgio de Geronimo
I servizi pubblici locali dopo il d.l. n. 1/2012
109
Pierangelo Bonanno
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture 113
(d.lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.)
amministrativo
A cura di Almerina Bove
Gazzetta
F O R E N S E
●
2 0 1 2
105
● Pier Giorgio de Geronimo
Avvocato e dottore di ricerca in diritto amministrativo
Università “Federico II” di Napoli
1. Gli istituti della programmazione negoziata e l’art.11 l.241/90
L’inquadramento sistematico degli istituti della program‑
mazione negoziata1 è stato, sin dalla sua origine, oggetto di
discussione che ancora oggi non sembra giunto ad una con‑
clusione definitiva2.
Infatti, già le prime forme rudimentali di contrattazione
programmata3, nate nell’ambito dell’intervento straordinario
per il Mezzogiorno 4, avevano acceso un dibattito sulla loro
natura e sulla disciplina giuridica5 che aveva portato a quali‑
ficarle come accordi, sebbene non gli fosse riconosciuto un
reale valore giuridico, anche a causa di un procedimento che
si caratterizzava per la sua informalità6.
L’inclusione degli istituti della programmazione negozia‑
ta nell’ambito degli accordi procedimentali previsti dalla
l.241/907 rende, dunque, necessaria una definizione dell’am‑
bito di competenza e di azione di tali strumenti.
Infatti, è questione di rilievo preliminare stabilire se gli
strumenti di programmazione negoziata sono degli accordi che
nascono all’interno di un procedimento amministrativo in
senso tecnico, oppure, come è stato anche sostenuto, siano co‑
stituiti in un procedimento misto, composto da un insieme ar‑
ticolato di azioni giuridicamente rilevanti delle quali alcune di
natura privatistica ed altre a carattere pubblicistico che occorre
porre in essere per concludere dei veri e propri contratti8.
Una volta chiarito l’iter e la natura del percorso che porta
alla formazione dell’accordo sarà più agevole definire la loro
natura giuridica ed il regime di validità e di efficacia a cui
sono sottoposti, nonché la posizione giuridica soggettiva
delle parti che lo concludono.
Innanzitutto, bisogna distinguere immediatamente gli
1 In generale sul tema della programmazione negoziata cfr. A. Contieri, La
programmazione negoziata, Napoli, 2000; G.. M. Esposito, Amministrazione
per accordi e programmazione negoziata, Napoli, 1999; R. Ferrara, La pro‑
grammazione “Negoziata” fra pubblico e privato, in Dir. Amm., 1996.
2 F. Falconi, Contrattazione, impresa privata e programmazione economica,
Padova, 1978; G.. Sanviti, Gli accordi fra lo Stato e le imprese nel quadro
della contrattazione programmata, Milano, 1974.
3 R. Gallia, Dalla contrattazione programmata alla programmazione negoziata:
l’evoluzione normativa degli aiuti di stato dall’intervento straordinario nel
Mezzogiorno all’intervento ordinario nelle aree depresse, in Riv. Giur. Mezz.,
1996.
4 Delibere CIPE 18‑1‑1968 e n. 36 del 1969
5 F. Merusi, Disciplina e organizzazione dei finanziamenti pubblici nelle leggi per
il Mezzogiorno, Roma, Svimez, 1968; M. Annesi, Nuove tendenze dell’inter‑
vento pubblico nel Mezzogiorno, Roma, Svimez, 1973; A. Massera, la nuova
legge per il Mezzogiorno e le norme sull’autorizzazione ai nuovi impianti,
Roma, Svimez, 1973.
6 M. Annesi, Nuove tendenze dell’intervento pubblico nel Mezzogiorno, cit., p.
147 e ss; F. Pugliese, Il procedimento amministrativo tra autorità e contratta‑
zione, in Riv. trim. dir. Pubbl.,1971, p.1471.
7 Sul tema degli accordi tra gli altri: A.A.V.V. L’accordo nell’azione amministra‑
tiva, Formez, 1988; G.. Manfredi, Accordi e azione amministrativa, Torino,
2001; R. Ferrara, Gli accordi tra privati e la pubblica Amministrazione, Mi‑
lano, 1985; G.. Greco, Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto,
Torino, 2003; F. Fracchia., L’accordo sostitutivo, Padova, 1998; G.. Falcon,
Gli accordi tra amministrazioni e tra amministrazioni e privato, in La sempli‑
ficazione amministrativa, Vandelli e Gardini (a cura di), Quaderni della Spisa,
Rimini, 1999, p.1.
8 G.M. Esposito, La nuova organizzazione amministrativa dell’intervento pub‑
blico. Procedura della programmazione economica, Torino, 2001, p.130 e ss.
In generale sul principio contrattuale cfr. Civitarese Matteucci, Contributo
allo studio del principio contrattuale, Torino, 1997.
amministrativo
Sommario: 1. Gli istituti della programmazione negoziata e
l’art.11 l.241/90; 2. Il protocollo aggiuntivo: un accordo ex
art. 11 l. 241/90
Accordi procedimentali
e strumenti
di programmazione
negoziata
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d i r i t t o
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strumenti di programmazione negoziata orizzontali da quelli
di natura verticale.
Infatti, l’intesa istituzionale di programma costituisce lo
strumento con il quale sono stabiliti congiuntamente tra Go‑
verno, Giunta regionale o Provincia autonoma, le scelte degli
obbiettivi da conseguire, ed i settori nei quali risulta indispen‑
sabile la collaborazione per la realizzazione di un piano plu‑
riennale di interventi di interesse comune, funzionalmente
collegati tra loro.
L’intesa, rappresenta, dunque, il momento più alto di
programmazione9 tra soggetti pubblici, dove il soggetto e
l’interesse privato vengono ricompresi esclusivamente nelle
forme di partecipazione previste nei procedimenti che prece‑
dono l’intesa. Tale strumento, dunque, deve essere incluso
nell’art.15 della l.241/90, e quindi negli accordi (di organiz‑
zazione) tra le pubbliche amministrazioni10 che hanno come
finalità il coordinamento oltre che la codeterminazione delle
scelte programmatiche da realizzarsi nel territorio della sin‑
gola Regione o Provincia, nel quadro della programmazione
statale e regionale.
Più complessi e differenziati si presentano, invece, gli
strumenti negoziali di natura verticale, che prevedono la
partecipazione al momento programmatorio dei soggetti
privati interessati all’attuazione delle linee guida e degli ob‑
biettivi stabiliti precedentemente nell’intesa istituzionale di
programma, ed a cui si trovano a dare seguito.
Nonostante le differenze di carattere procedimentale tra
i vari strumenti previsti nella l.662/96, e disciplinati con la
delibera Cipe 21 Marzo 1997 e successive modifiche, è possi‑
bile identificare alcune fasi comuni su cui è necessario intra‑
prendere l’analisi.
Infatti, nei procedimenti relativi agli accordi di program‑
ma quadro, ai contratti di programma, patti territoriali e
contratti d’area, vi è una fase d’iniziativa, una fase istruttoria,
una fase decisoria ed eventualmente anche una fase integra‑
tiva dell’efficacia.
La fase dell’iniziativa si realizza attraverso un atto d’im‑
pulso che può provenire tanto dal soggetto pubblico, come
previsto espressamente nel caso dell’accordo di programma
quadro in via esclusiva (Amministrazione centrale, regionale,
Province autonome) o per il patto territoriale (enti locali),
tanto da soggetti privati come nel caso del contratto di pro‑
gramma (grandi imprese, medie e piccole imprese, rappresen‑
tanze di distretti industriali), nel contratto d’area (rappresen‑
tanti dei lavoratori d’intesa con i datori di lavoro) e nel patto
territoriale stesso (rappresentanze locali delle categorie impren‑
ditoriali e dei lavoratori, soggetti privati più in generale).
Dal momento della domanda o dal momento in cui inizia
d’ufficio il procedimento, dovrebbero iniziare a decorrere i
termini per la conclusione del procedimento.
La disciplina dei modelli negoziali prevede, poi, diretta‑
mente la determinazione del contenuto dell’accordo dei singo‑
li strumenti che lascia trasparire, quindi, anche l’oggetto
delle trattative durante la fase istruttoria, di cui l’accordo è la
parte in alcuni casi conclusiva dell’intero procedimento.
9 A. Contieri, La programmazione negoziata, cit, p. 141.
10 G. Pastori, Accordo e organizzazione amministrativa, in A.A.V.V. cit,
p. 46.
Gazzetta
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La fase istruttoria ruota attorno alle trattative che hanno
ad oggetto un momento importante nello scambio delle infor‑
mazioni reciproche, e nella valutazione dei progetti e delle
attività che devono essere realizzate, e per le quali le parti
sono disposte ad assumere gli impegni necessari per portarle
a compimento.
Ciò che accomuna tutti i modelli di programmazione ne‑
goziata è la finalità per la quale possono essere conclusi ac‑
cordi che viene identificata con il termine “sviluppo” al
quale accedono significati diversi a seconda del modello im‑
pegnato11.
Nel caso dei patti territoriali, infatti, la finalità sarà quel‑
la dello sviluppo locale; nel caso del contratto di programma
sembra, invece, che lo sviluppo sia quello squisitamente eco‑
nomico nei settori specificati dalle norme vigenti in materia;
per il contratto d’area lo sviluppo viene inteso principalmen‑
te come creazione di nuova occupazione.
Diverso appare il discorso per gli accordi di programma
quadro che rappresentano un momento di definizione di un
programma esecutivo di interventi in attuazione di una intesa
istituzionale di programma, con caratteristiche, dunque, più
generali ed in ogni caso maggiormente programmatorie.
In particolare, la normativa prevede la possibilità per
l’Amministrazione di impegnarsi, e dunque di vincolare i suoi
comportamenti, soltanto qualora risulti più idonea la soddi‑
sfazione dell’interesse pubblico, e quindi la finalità di svilup‑
po, attraverso l’utilizzo dello strumento consensuale all’inter‑
no del quale si definisce il potere discrezionale dell’ammini‑
strazione, e con esso gli obblighi che il soggetto privato deci‑
de di assumere.
Per ogni strumento negoziale sono stabiliti espressamente
i contenuti che devono essere presenti nell’accordo, che a
parte la specificità del contratto di programma, ed in genera‑
le dei singoli modelli, sembrano essere molto simili per tutti
gli strumenti così come si è visto in precedenza.
Successivamente è prevista una fase di sottoscrizione
dell’accordo che vincola i soggetti sottoscrittori al rispetto
degli specifici impegni e degli obblighi assunti per la realiz‑
zazione degli interventi di rispettiva competenza, che viene
preceduta o seguita dall’approvazione del soggetto pubblico
competente.
Il contratto di programma, infatti, veniva con la vecchia di‑
sciplina approvato a seguito della sua sottoscrizione da parte del
Cipe12, mentre oggi al pari del patto territoriale è prevista l’ap‑
provazione preventiva dell’amministrazione competente, così
come previsto anche per l’accordo di programma quadro. Invece,
per i contratti d’area è stabilito che il momento dell’approvazione
si realizza attraverso la sottoscrizione dell’accordo stesso.
11 Viene specificato nel preambolo della Delibera Cipe 21 Marzo 1997, che l’ob‑
biettivo della “accelerazione del processo di sviluppo territoriale che deve esse‑
re perseguito attraverso una più stretta cooperazione tra Governo, Regioni,
Province autonome, tale da consentire che le politiche d’intervento dirette di
tali soggetti e quelle autonomamente decise da altri soggetti pubblici o privati
siano orientate verso una efficace realizzazione di interventi complessi da at‑
tuarsi mediante tipologie negoziali che, pur distinguendosi per le diverse rica‑
dute territoriali e per i differenti soggetti intervenienti, siano considerate come
un complesso unitario che concorre alla creazione di condizioni favorevoli ad
una nuova crescita economica e occupazionale”.
12 Delibera Cipe 25 Febbraio 1994, n.10 oggi sostituita dalla delibera Cipe 25
luglio 2003, n.26 e dal decreto 12 Novembre 2003 del MAP.
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La disciplina procedimentale in esame stabilisce espressa‑
mente l’impegno dei soggetti sottoscrittori dell’accordo di dare
piena attuazione alla l. 7 agosto 1990 n.241 e successive modifi‑
che ed integrazioni, ed alle altre norme di semplificazione ed
accelerazione procedimentale. A tal fine è prevista la figura del
responsabile per l’attuazione degli interventi che assume caratte‑
ristiche diverse a seconda del modello negoziale di riferimento.
È previsto un responsabile per la gestione degli interventi
e di tutte le attività stabilite nell’accordo di programma qua‑
dro, mentre per il patto territoriale e per il contratto d’area vi
è la previsione dell’individuazione tra i soggetti sottoscrittori
pubblici, del responsabile dell’attuazione per finalità innan‑
zitutto di coordinamento. Infine, è anche previsto un control‑
lo da parte delle Amministrazioni statali e regionali sulla
coerenza dell’accordo con gli strumenti di programmazione e
con le disponibilità di risorse statali e regionali.
A conclusione dell’analisi dei procedimenti di ciascuno
degli strumenti di programmazione negoziata, sembra diffi‑
cilmente discutibile che si è in presenza di procedimenti am‑
ministrativi in senso tecnico, a differenza di quanto è stato
sostenuto da una parte della dottrina13. Basta analizzare, in‑
fatti, una serie di elementi procedimentali per comprendere
che i modelli negoziali, altro non sono che istituti che fanno
del procedimento la sede per la formazione della volontà
amministrativa finalizzata esclusivamente al perseguimento
dell’interesse pubblico, il cui contenuto discrezionale viene
definito nell’ambito di un accordo con il soggetto privato.
Innanzitutto, la fase dell’iniziativa, sia che il procedimen‑
to abbia inizio su istanza di un soggetto privato, sia che il
procedimento sia conseguente ad un atto d’impulso dell’Am‑
ministrazione, ha ragione d’essere sul presupposto che i mo‑
delli di programmazione sono finalizzati al perseguimento
dell’interesse pubblico primario dello sviluppo economico
sociale stabilito dalla legge nella sua identità formale, e pre‑
sente nei singoli modelli di programmazione negoziata. Tali
strumenti sono definiti nelle loro linee guida da un atto pro‑
grammatorio di natura negoziale, l’intesa istituzionale di
programma, la quale rappresenta una piattaforma strategica
sulla quale si modellano i singoli strumenti negoziali, e che
non contempla, né tra i soggetti proponenti né tra quelli par‑
tecipanti all’accordo, il soggetto privato.
Una volta attivato l’esercizio del potere pubblico, la fase
procedimentale si caratterizza ontologicamente per la nego‑
ziazione tra la Pubblica Amministrazione ed i soggetti che
manifestano interesse o che sono direttamente interessati dai
programmi di sviluppo che l’amministrazione o il soggetto
privato predispone, a seconda del modello e del soggetto che
ha determinato l’iniziativa.
La negoziazione avviene con la piena consapevolezza,
offerta dallo schema della programmazione negoziata, che
oggetto dell’accordo è la regolamentazione concordata per
l’attuazione di interventi diversi riferiti ad un’unica finalità,
quella dello sviluppo, che devono essere conformi ai piani
precedentemente definiti dai poteri pubblici nell’intesa istitu‑
zionale di programma.
L’accordo, dunque, può essere concluso esclusivamente a
13 G.M. Esposito, La nuova organizzazione amministrativa dell’intervento pub‑
blico. Procedura della programmazione economica, cit, p. 130 e ss.
2 0 1 2
107
patto che il privato decida di collaborare e di partecipare alla
realizzazione dell’interesse pubblico stabilito a monte dal
piano (intesa istituzionale di programma) che rappresenta
anche il parametro di legittimità del potere amministrativo.
Il privato, contribuisce in maniera determinante a stabili‑
re il contenuto discrezionale dell’accordo14, concordando in‑
sieme al soggetto pubblico le attività e gli interventi da realiz‑
zare, gli impegni e gli obblighi per l’attuazione dell’accordo,
ed il piano finanziario ed i piani temporali di spesa relativi a
ciascun intervento.
L’accordo nasce nell’ambito dell’esercizio del potere am‑
ministrativo procedimentalizzato, ed oggetto dell’accordo è il
contenuto discrezionale del provvedimento15, oppure, come
nel caso degli accordi sostitutivi, il provvedimento stesso che
assume connotazioni particolari e diverse rispetto al provve‑
dimento sostituito16.
L’accordo, dunque, è il risultato della composizione degli
interessi realizzato con l’apporto dei soggetti privati da parte
del potere amministrativo che effettua la scelta di regolare in
un determinato modo l’assetto di interessi che è emerso nel
procedimento, e quindi di vincolare i comportamenti di en‑
trambe le parti sebbene con un grado di intensità diverso17,
essendo prevista la possibilità soltanto in capo all’amministra‑
zione di recedere unilateralmente dall’accordo, anche se esclu‑
sivamente per sopravvenute ragioni d’interesse pubblico.
Il rapporto che si instaura a seguito dell’accordo, infatti,
mette in evidenza una posizione differenziata dell’ammini‑
strazione rispetto a quella dei soggetti privati contraenti, in
relazione alla natura del potere funzionalizzato, che determi‑
na conseguentemente l’applicazione del regime giuridico di
stampo pubblicistico previsto dall’art. 11.
Pertanto, sia nel caso in cui i modelli negoziali si presen‑
tino come degli accordi integrativi che nel caso in cui si con‑
figurino come accordi sostitutivi del provvedimento18, si ap‑
plicheranno i principi previsti dal codice civile in materia di
obbligazioni e contratti in quanto compatibili con questi
modelli di regime marcatamente pubblicistico19. Inoltre, la
stessa previsione legislativa che disciplina i procedimenti di
formazione ed i contenuti degli strumenti negoziali sembra
sgomberare il campo da ogni dubbio in merito alla loro inclu‑
sione negli accordi ex art. 1120.
14 In generale sul possibile contenuto di un accordo e sui suoi limiti cfr. M. Duga‑
to, L’oggetto dell’accordo amministrativo e i vincoli per le parti nella sua defi‑
nizione, in Dir. proc. amm., 2008.
15 M. Nigro, Conclusioni, in A.A.V.V. L’accordo nell’azione amministrativa, cit,
p. 87. Sull’accordo tra una Pubblica amministrazione ed il privato e l’autorita‑
tività del potere pubblico cfr. G. Palma, Itinerari di diritto amministrativo,
Padova 1996, p. 312 e ss.
16 Cfr. F. Fracchia, L’accordo sostitutivo, cit, p. 161 e ss, il quale distingue tra
accordo sostitutivo e provvedimento sostituito, ritenendo che una prima rile‑
vante distinzione tra accordo sostitutivo di provvedimento e provvedimento
sostituito emerge sul piano della vincolatività dell’assetto d’interessi determina‑
to, in quanto l’accordo impegna anche l’amministrazione, laddove l’atto unila‑
terale, che non sia fonte di obbligazione, al più genera un affidamento in capo
al cittadino.
17 M. Immordino, Legge sul procedimento amministrativo, accordi e contratti di
diritto pubblico, in Dir. Amm. 1997, p. 110.
18 Sul rapporto tra accordi integrativi e sostitutivi v. F. Castiello, Gli accordi
integrativi e sostitutivi di Provvedimenti amministrativi, Dir. proc. amm.
1993, p. 124.
19 Cfr. M. Nigro, Conclusioni, in A.A.V.V. L’accordo nell’azione amministra‑
tiva cit.
20 Tar Toscana, sez. I, 3 marzo 2009 n. 383, si è espresso sul punto anche se in
amministrativo
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108
d i r i t t o
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Gazzetta
F O R E N S E
La posizione giuridica dei soggetti privati, in particolare,
deve essere inclusa in linea generale nella categoria degli inte‑
ressi legittimi, pertanto soggetta alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo.
Più specificamente, gli accordi di programmazione nego‑
ziata rientrano certamente nella categoria degli accordi di cui
all’art. 11 l. 241/9021, e come tali tutelabili davanti al giudice
amministrativo, per tutto ciò che attiene alla loro formazione,
conclusione ed esecuzione 22.
In realtà, il privato vanta una posizione d’interesse legit‑
timo nella fase procedimentale anteriore all’emanazione del
provvedimento costitutivo degli effetti, oppure nel caso che
tale provvedimento venga annullato in via di autotutela per
vizi di legittimità o per il suo contrasto originario con il pub‑
blico interesse, mentre si assume di diritto soggettivo perfetto,
come tale tutelabile dinanzi al giudice ordinario nella fase di
attuazione del rapporto che non contempla una valutazione o
un’azione a tutela dell’interesse pubblico, o in ogni caso che
non trova fondamento in una ponderazione tra l’interesse
pubblico e quello privato23.
Ciò che, dunque, risulta di fondamentale importanza è
comprendere quando e come l’accordo vincola l’amministra‑
zione ed il soggetto privato, e quindi, quale tra gli strumenti
di programmazione negoziata rientri nella categoria degli
accordi integrativi, e quale tra gli accordi sostitutivi del prov‑
vedimento, al fine di chiarire gli effetti in termini di validità
e di efficacia.
In particolare, bisogna avvertire che non è sempre possi‑
bile stabilire a priori una perfetta corrispondenza di una
fattispecie negoziale con uno dei due modelli di accordo pre‑
visti dall’art.11, in conseguenza del fatto che proprio le pat‑
tuizioni interne all’accordo potrebbero rinviare o condiziona‑
re il momento del perfezionamento della volontà, con precise
ripercussioni sulla validità e sull’efficacia del vincolo24.
Inoltre, la stessa possibile applicazione degli strumenti
nelle aree depresse, e l’applicazione di norme comunitarie che
in vario modo incidono sulla formazione della volontà nel
momento procedimentale o sul provvedimento finale25, po‑
trebbero comportare uno spostamento del momento conclu‑
sivo del procedimento26. Infine, data la natura aperta dei
procedimenti relativi agli strumenti negoziali, bisognerà anche
considerare il caso in cui accedano a questi ulteriori protocol‑
li aggiuntivi, definendo la natura dei protocolli medesimi ed
il loro regime giuridico.
2. Il protocollo aggiuntivo: un accordo ex art. 11 l. 241/90
Abbiamo visto che gli strumenti di programmazione ne‑
goziata vengono inquadrati nell’amministrazione che agisce
per accordi, il cui regime giuridico è quello fissato nell’art. 11
della l. 241/90.
La disciplina degli strumenti di programmazione negozia‑
ta, oltre a prevedere all’interno dei singoli modelli convenzio‑
nali accordi di programma 27 e conferenze di servizi 28, indivi‑
duati come strumenti necessari per un’azione più efficace e
nello stesso tempo più snella e rapida, individua la possibilità
che successivamente alla stipula degli accordi programmato‑
ri, si aggiungano ulteriori momenti convenzionali, contenen‑
ti altri progetti d’investimento collegati funzionalmente, ma
anche strutturalmente, all’accordo originario.
I Protocolli d’intesa previsti dalla disciplina degli strumen‑
ti negoziali, appunto, rientrano nel genus degli accordi di cui
all’art. 11 della l. 241/90, e sono sottoposti anch’essi al regime
dei principi del codice civile in materia di obbligazioni e con‑
tratti in quanto compatibili 29 con un modulo convenzionale
di stampo pubblicistico30, ed alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo.
Tali protocolli d’intesa, quindi, trovano la loro fonte di
legittimazione nell’ambito dello strumento di programmazio‑
ne negoziata al quale accedono, integrandone il contenuto,
pur essendo formati nell’ambito di un altro procedimento
amministrativo.
Pertanto, i protocolli aggiuntivi relativi ad ulteriori inizia‑
tive d’investimento, devono essere assoggettati agli stessi ac‑
certamenti previsti per gli accordi negoziali che vanno ad
integrare, ed in particolare ai requisiti di attivazione espres‑
samente previsti dalla disciplina di ciascuno strumento nego‑
ziale, ed alla coerenza con gli obbiettivi e le risorse statali e
regionali disponibili.1
materia urbanistica, sull’art. 13 della l. 7 agosto 1990 n.241. In particolare,
nello stabilire che «le disposizioni contenute nel presente capo non si applicano
nei confronti dell’attività della pubblica amministrazione diretta alla emanazio‑
ne di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programma‑
zione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la forma‑
zione», il G.A. esclude che la disciplina degli accordi integrativi di provvedimen‑
to dell’art. 11 si applichi agli atti di pianificazione e di programmazione e,
quindi, agli atti propri della pianificazione urbanistica anche se possono essere
le singole leggi di settore, cui lo stesso art. 13 rinvia, a prevedere accordi come
avviene per le convenzioni di lottizzazione, e a questi accordi previsti da dispo‑
sizioni espresse si estendono le disposizioni dettate in via generale dall’art. 11.
21 Cass. Civ., S.S.U.U., 8 Luglio 2008, n.18630; Tar Sicilia, Sez II, 13 Maggio,
2003, n. 8080; Tar Liguria, sez. II, 11 Aprile, 2008, n.528; Cons. Stato, Sez IV,
5 Novembre 2004, n.710. In senso contrario cfr. A. Contieri, La programma‑
zione negoziata, cit, p. 149. L’A. ritiene che questi strumenti in quanto discipli‑
nati sulla scia dell’accordo di programma, debbano rientrare negli «accordi di
programma a partecipazione privata necessaria». Sui rapporti a collaborazione
necessaria cfr. P.L. Portaluri, Potere amministrativo e procedimenti consensua‑
li. Studi sui rapporti a collaborazione necessaria, Milano, 1998.
22 Cass. Civ., S.S.U.U., 8 Luglio 2008 n. 18630.
23 Tar Sicilia, Sez II, 13 Maggio, 2003, n. 8080.
24 Idem.
25 Cfr. Tar Liguria, sez. II, 11 Aprile, 2008, n. 528.
26 Si veda il caso dei contributi e delle sovvenzioni pubbliche, presenti nelle sen‑
tenze precedentemente indicate.
27 Tra gli altri v. G. Corso, Gli accordi di programma, in A.A.V.V., L’accordo
nell’azione amministrativa, cit.
28 Sull’istituto della conferenza di servizi tra gli altri cfr. P. Forte, La conferenza
di servizi, Padova, 2000; F. G.. Scoca, Analisi giuridica della conferenza di
servizi, in Dir. Amm. 1999, p.255; P. Bertini, La conferenza di servizi, in Dir.
Amm. 1997, p. 293; G. Gardini, La Conferenza di servizi: natura e scopi.
L’evoluzione dell’istituto dalla legge 241/90 al regolamento sullo Sportello
Unico, in Le istituzioni del federalismo, n.6/1999, p.1275; mi si consenta il
rinvio a P.G.. De Geronimo, La conferenza di servizi: innovazioni, cambiamen‑
ti e conferme nella l.15/2005, in La nuova disciplina dell’attività amministrati‑
va dopo la riforma della legge sul procedimento, a cura di (G. Clemente di San
Luca), Torino, 2005.
29 Cons. Stato, sez. IV, 5 Novembre 2004, n.7180.
30 Cfr più in generale, A. Masucci, Trasformazione dell’amministrazione e modu‑
li convenzionali. Il contratto di diritto pubblico, Napoli, 1988.
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●
Sommario: 1. Condizioni prodromiche al d.l. n.1/2012 – 2.
Il nuovo quadro normativo – 3. Impianto ordinamentale
transitorio – 4. Pesi e contrappesi del d.l. 1/2012 a tutela del
cittadino.
I servizi pubblici locali
dopo il d.l. n. 1/2012
1. Condizioni prodromiche al d.l. n.1/2012
Il TUEL attribuiva al Comune il ruolo di interprete pri‑
mario dei bisogni della collettività locale, di cui cura gli in‑
teressi e promuove lo sviluppo. A questo scopo, si presenta
come un ente a fini generali, cui competono tutte le funzioni
amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio
comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla
persona e alla comunità, nonché dell’assetto ed utilizzazione
del territorio e dello sviluppo economico.
In questo particolare contesto, si collocano i servizi pub‑
blici locali che hanno per oggetto la produzione di beni ed
attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo svi‑
luppo economico e civile delle comunità locali. Nel discipli‑
nare i servizi pubblici locali, il TUEL superava i tradizionali
schemi della concezione soggettiva, ritenendo non più rile‑
vante il momento dell’assunzione e della gestione, da parte di
un soggetto pubblico, di una determinata attività di interesse
pubblico, bensì l’attitudine da parte di attività lato sensu
economiche a soddisfare interessi di natura generale, rispon‑
denti a esigenze di pubblica utilità, indipendentemente dalla
natura pubblica o meno del soggetto titolare delle stesse. In
tale ottica, il servizio pubblico viene assunto e gestito dall’en‑
te locale nell’ambito dei propri compiti istituzionali, in quan‑
to Propedeutico all’esigenza di benessere e sviluppo della
collettività, e che, però, può essere gestito da un soggetto
terzo sulla base di un apposito titolo giuridico di conferimen‑
to da parte dell’amministrazione. Il tema dell’affidamento e
gestione dei servizi pubblici locali è stato innovato con la
legge n. 27 del 24 marzo 2012, che ha convertito il d. l.
n.1/2012 con oggetto“Disposizioni urgenti per la concorren‑
za, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”. Appa‑
re opportuno ricordare che a seguito del referendum del 13
giugno 2011 è stata sancita l’abrogazione dell’art. 23‑bis del
decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, recante «Disposizioni
urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la
perequazione tributaria», convertito, con modificazioni,
dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’arti‑
colo 30, comma 26, della legge 23 luglio 2009, n. 99, con
oggetto «Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizza‑
zione delle imprese, nonché in materia di energia», e dall’ar‑
ticolo 15 del decreto‑legge 25 settembre 2009, n. 135, recan‑
te «Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comuni‑
tari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia
delle Comunità europee» convertito, con modificazioni, dal‑
la legge 20 novembre 2009, n. 166, nel testo risultante a se‑
guito della sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzio‑
nale. Appare opportuno sottolineare come la giurisprudenza
della Corte Costituzionale1 abbia sancito il principio secondo
cui non avrebbe potuto conseguire alcun ritorno al quadro
normativo precedente dall’altro, conseguirebbe l’applicazione
● Pierangelo Bonanno
Difensore civico comunale
1 Corte cost., 26 gennaio 2011, n. 24, in Juris data.
amministrativo
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immediata nell’ordinamento italiano della normativa comu‑
nitaria, relativa alle regole concorrenziali minime in tema di
gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di
servizi pubblici di rilevanza economica. Tutto ciò premesso,
dal 21 luglio 2011 risulta eliminata l’intera disciplina nazio‑
nale in materia di gestione dei servizi pubblici locali, che ri‑
sulta regolamentata dalle disposizioni di matrice comunitaria.
L’abrogazione dell’art. 23‑bis ha determinato altresì l’abroga‑
zione del Regolamento attuativo approvato, in attuazione
della delega contenuta nell’art. 23 bis, comma 10, dal Consi‑
glio dei Ministri 2.
2. Il nuovo quadro normativo
La Legge 138/2011 “Adeguamento della disciplina dei
servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normati‑
va dell’unione europea”, ha colmato il vuoto normativo ed ha
così ripristinato nel nostro ordinamento nazionale una disci‑
plina organica in materia. La legge 12 novembre 2011 n. 183,
c.d. legge di stabilità 20123, all’articolo 9 comma 2, modifica
ulteriormente l’articolo 4 del dl 138/2011 relativo all’affida‑
mento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.
L’art. 25 della legge 24 marzo 2012 n. 27, di conversione del
decreto legge 24 gennaio 2012 n. 1 “Disposizioni urgenti per
la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competi‑
tività” interviene ancora una volta sulle previsioni dell’art. 4,
con norme particolarmente incisive. Le disposizioni si appli‑
cano a tutti i servizi pubblici locali e prevalgono sulle relative
discipline di settore con esse incompatibili. Sono esclusi il
servizio idrico integrato, ad eccezione delle norme sulle in‑
compatibilità degli amministratori, il servizio di distribuzione
di gas naturale, il servizio di distribuzione di energia elettrica
e la gestione delle farmacie comunali. Gli enti locali, nel ri‑
spetto dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento
e di libera prestazione dei servizi, verificano la realizzabilità
di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica, di seguito “servizi pubblici locali”, libe‑
ralizzando tutte le attività economiche compatibilmente con
le caratteristiche di universalità e accessibilità del servizio4.
L’attribuzione di diritti di esclusiva è limitata alle ipotesi in
cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa
economica privata non risulti idonea a garantire un servizio
rispondente ai bisogni della comunità. È anzitutto previsto
che, nei prossimi 12 mesi, gli enti locali debbano attuare tale
verifica finalizzata ad appurare la realizzabilità di una gestio‑
ne liberalizzata e concorrenziale dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica. La verifica dovrà culminare nell’adozio‑
ne di una delibera “quadro” che illustri l’istruttoria compiuta
ed evidenzi, per i settori sottratti alla liberalizzazione, i falli‑
menti del sistema concorrenziale e, viceversa, i benefici per la
stabilizzazione, lo sviluppo e l’equità all’interno della comu‑
nità locale derivanti dal mantenimento di un regime di esclu‑
siva del servizio. Nella nuova intelaiatura normativa i conces‑
sionari e gli affidatari di servizi pubblici locali, a seguito di
specifica richiesta, sono tenuti a fornire agli enti locali che
decidono di bandire la gara per l’affidamento del relativo
2 G.U.R.I., 12 ottobre 2010, n. 239.
3 G.U.R.I., 14 novembre 2011, n. 265.
4 Rapicavoli, Servizi pubblici locali e liberalizzazioni, Treviso, 2012, p.2.
Gazzetta
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servizio i dati concernenti le caratteristiche tecniche degli
impianti e delle infrastrutture, il loro valore contabile di inizio
esercizio, secondo parametri di mercato, le rivalutazioni e gli
ammortamenti e ogni altra informazione necessaria per defi‑
nire i bandi. Inoltre, per gli enti territoriali con popolazione
superiore a 10.000 abitanti, la delibera è adottata previo pa‑
rere obbligatorio dell’Autorità garante della concorrenza e del
mercato, che si pronuncia entro sessanta giorni, sulla base
dell’istruttoria svolta dall’ente di governo locale dell’ambito o
del bacino o in sua assenza dall’ente locale, in merito all’esi‑
stenza di ragioni idonee e sufficienti all’attribuzione di diritti
di esclusiva e alla correttezza della scelta eventuale di proce‑
dere all’affidamento simultaneo con gara di una pluralità di
servizi pubblici locali. La delibera e il parere sono resi pubbli‑
ci sul sito internet, ove presente, e con ulteriori modalità
idonee. L’invio all’Autorità garante della concorrenza e del
mercato, per il parere obbligatorio è effettuato entro dodici
mesi dall’entrata in vigore del decreto e poi periodicamente
secondo i rispettivi ordinamenti degli enti locali. La delibera
quadro va comunque adottata prima di procedere al conferi‑
mento e al rinnovo della gestione dei servizi, entro trenta
giorni dal parere dell’Autorità garante della concorrenza e del
mercato. In assenza della delibera, gli enti locali non possono
procedere all’attribuzione di diritti di esclusiva. Un decreto
del ministro per gli Affari regionali, il turismo e lo sport, di
concerto con i Ministri dell’economia e delle finanze e dell’in‑
terno, sentita la Conferenza unificata, da emanarsi entro il 31
marzo 2012, dovrà definire i criteri per la verifica della pre‑
ventiva analisi di mercato e per l’adozione della delibera
quadro da parte delle amministrazioni, disporre le modalità
attuative rispetto alla prevista pubblicazione dei dati sui ser‑
vizi resi e prevedere le ulteriori misure utili per l’attuazione
della norma.
3. Impianto ordinamentale transitorio
La scelta tra il sistema dell’affidamento della prestazione
mediante gara pubblica e l’opposto modello dell’affidamento
in house è preceduto dalla comparazione degli obiettivi pub‑
blici che si intendono perseguire e delle modalità realizzative
avuto riguardo ai tempi necessari, alle risorse umane e finan‑
ziarie da impiegare ed al livello qualitativo delle prestazioni
in base ai principi di economicità ed massimizzazione dell’uti‑
lità per l’Amministrazione. Nel caso in cui il valore economi‑
co del servizio oggetto dell’affidamento è pari o inferiore alla
somma complessiva di 200.000 euro annui, l’affidamento può
avvenire a favore di società a capitale interamente pubblico
che abbia i requisiti richiesti dall’ordinamento europeo per la
gestione cosiddetta “in house”. Anche se la proprietà pubbli‑
ca delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti
privati. Alla scadenza della gestione del servizio pubblico
locale o in caso di sua cessazione anticipata, il precedente
gestore cede al gestore subentrante i beni strumentali e le loro
pertinenze necessari, in quanto non duplicabili a costi social‑
mente sostenibili, per la prosecuzione del servizio, come indi‑
viduati dall’ente affidante, a titolo gratuito e liberi da pesi e
gravami. Se, al momento della cessazione della gestione, i
beni strumentali non sono stati interamente ammortizzati, il
gestore subentrante corrisponde al precedente gestore un
importo pari al valore contabile originario non ancora am‑
mortizzato, al netto di eventuali contributi pubblici diretta‑
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mente riferibili ai beni stessi. Il regime transitorio degli affi‑
damenti non conformi a quanto stabilito dal decreto legge è
il seguente: gli affidamenti diretti relativi a servizi il cui valo‑
re economico sia superiore alla somma di 200.000,00 Euro
annui, nonché gli affidamenti diretti che non rientrano nei
casi di cui alle successive lettere da b) a d) cessano, improro‑
gabilmente e senza necessità di apposita deliberazione dell’en‑
te affidante, alla data del 31 dicembre 2012; in deroga, l’affi‑
damento per la gestione può avvenire a favore di un’unica
società in house risultante dalla integrazione operativa di
preesistenti gestioni in affidamento diretto e gestioni in eco‑
nomia, tale da configurare un unico gestore del servizio a li‑
vello di ambito o di bacino territoriale ottimale. La soppres‑
sione delle preesistenti gestioni e la costituzione dell’unica
azienda in capo alla società in house devono essere perfezio‑
nati entro il termine del 31 dicembre 2012. In tal caso il
contratto di servizio dovrà prevedere indicazioni puntuali
riguardanti il livello di qualità del servizio reso, il prezzo
medio per utente, il livello di investimenti programmati ed
effettuati e obbiettivi di performance, redditività – quali‑
tà – efficienza. La valutazione dell’efficacia e dell’efficienza
della gestione e il rispetto delle condizioni previste nel con‑
tratto di servizio sono sottoposti a verifica annuale da parte
dell’Autorità di regolazione di settore. La durata dell’affida‑
mento in house all’azienda risultante dall’integrazione non
può essere in ogni caso superiore a tre anni a decorrere dal
gennaio 2013. Questa deroga non si applica ai processi di
aggregazione a livello di ambito o di bacino territoriale che
già prevedano procedure di affidamento ad evidenza pubblica;
le gestioni affidate direttamente a società a partecipazione
mista pubblica e privata, qualora la selezione del socio sia
avvenuta mediante procedure competitive ad evidenza pub‑
blica, le quali non abbiano avuto ad oggetto, al tempo stesso,
la qualità di socio e l’attribuzione dei compiti operativi con‑
nessi alla gestione del servizio, cessano, improrogabilmente e
senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante,
alla data del 31 marzo 2013; le gestioni affidate direttamente
a società a partecipazione mista pubblica e privata, qualora
la selezione del socio sia avvenuta mediante procedure com‑
petitive ad evidenza pubblica, le quali abbiano avuto ad og‑
getto, al tempo stesso, la qualità di socio e l’attribuzione dei
compiti operativi connessi alla gestione del servizio, cessano
alla scadenza prevista nel contratto di servizio; gli affidamen‑
ti diretti assentiti alla data del ottobre 2003 a società a par‑
tecipazione pubblica già quotate in borsa a tale data e a
quelle da esse controllate ai sensi dell’articolo 2359 del codice
civile, cessano alla scadenza prevista nel contratto di servizio,
a condizione che la partecipazione pubblica si riduca anche
progressivamente, attraverso procedure ad evidenza pubblica
ovvero forme di collocamento privato presso investitori qua‑
lificati e operatori industriali, ad una quota non superiore al
40 per cento entro il 30 giugno 2013 e non superiore al 30 per
cento entro il 31 dicembre 2015; ove siffatte condizioni non
si verifichino, gli affidamenti cessano, improrogabilmente e
senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante,
rispettivamente, alla data del 30 giugno 2013 o del 31 dicem‑
bre 2015; al fine di non pregiudicare la necessaria continuità
nell’erogazione dei servizi pubblici locali di rilevanza econo‑
mica, i soggetti pubblici e privati esercenti a qualsiasi titolo
attività di gestione dei servizi pubblici locali assicurano l’in‑
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111
tegrale e regolare prosecuzione delle attività medesime anche
oltre le scadenze sopra indicate, e in particolare il rispetto
degli obblighi di servizio pubblico e degli standard minimi del
servizio pubblico locale, alle condizioni di cui ai rispettivi
contratti di servizio e dagli altri atti che regolano il rapporto,
fino al subentro del nuovo gestore e comunque, in caso di li‑
beralizzazione del settore, fino all’apertura del mercato alla
concorrenza. Nessun indennizzo o compenso aggiuntivo può
essere ad alcun titolo preteso in relazione a quanto previsto
nel presente articolo. Le società, le loro controllate, control‑
lanti e controllate da una medesima controllante, anche non
appartenenti a Stati membri dell’Unione europea, che, in
Italia o all’estero, gestiscono di fatto o per disposizioni di
legge, di atto amministrativo o per contratto servizi pubblici
locali in virtù di affidamento diretto, di una procedura non
ad evidenza pubblica, nonché i soggetti cui è affidata la ge‑
stione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patri‑
moniali degli enti locali, qualora separata dall’attività di
erogazione dei servizi, non possono acquisire la gestione di
servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi, né svol‑
gere servizi o attività per altri enti pubblici o privati, né diret‑
tamente, né tramite loro controllanti o altre società che siano
da essi controllate o partecipate, né partecipando a gare. Il
divieto opera per tutta la durata della gestione e non si appli‑
ca alle società quotate in mercati regolamentati e alle società
da queste direttamente o indirettamente controllate ai sensi
dell’articolo 2359 c.c., nonché al socio selezionato con gara a
doppio oggetto. I soggetti affidatari diretti di servizi pubblici
locali possono comunque concorrere su tutto il territorio
nazionale alla prima gara successiva alla cessazione del servi‑
zio, svolta mediante procedura competitiva ad evidenza pub‑
blica, avente ad oggetto i servizi da essi forniti. Restano salve
le procedure di affidamento già avviate all’entrata in vigore
del decreto legge. Rispetto al periodo transitorio, per le socie‑
tà quotate nei mercati regolamentati, gli affidamenti cessano
nei termini indicati dal contratto di servizio se la “partecipa‑
zione in capo a soci pubblici detentori di azioni alla data del
13 agosto 2011, ovvero quella sindacata”, si riduce anche
progressivamente ad una quota non superiore al 40% al
30.6.2013 e non superiore al 30% al 31.12.2015; in caso
contrario gli affidamenti decadono alle date indicate. Gli af‑
fidamenti diretti, in materia di trasporto pubblico locale su
gomma5 cessano alla scadenza prevista nel contratto di affi‑
damento. L’art. 25 del d.l. n. 1/2012 interviene specificamen‑
te sulle norme che regolano l’affidamento del servizio di ge‑
stione dei rifiuti urbani. Nell’affidamento del servizio viene
specificato che la realizzazione degli impianti, prima conte‑
nuto obbligatorio dell’affidamento, diventa solo eventuale. Il
contenuto obbligatorio del servizio da affidare concerne la
raccolta, la raccolta differenziata, la commercializzazione e
l’avvio a smaltimento e recupero dei rifiuti. Nel caso l’affida‑
mento sia comprensivo anche dell’attività di realizzazione e/o
gestione degli impianti, allora dovrà comprendere lo smalti‑
mento completo di tutti i rifiuti urbani e assimilati prodotti
all’interno dell’ambito territoriale ottimale che deve avere
dimensioni comunque non inferiori alla dimensione del terri‑
5
L., 23 luglio 2009, n. 99, da Juris data.
amministrativo
Gazzetta
112
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
torio provinciale e tali da consentire economie di scala e di
differenziazione idonee a massimizzare l’efficienza del servi‑
zio. Ed inoltre nel caso in cui gli impianti siano di titolarità
di soggetti diversi dagli enti locali di riferimento, all’affidata‑
rio del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani devono
essere garantiti l’accesso agli impianti a tariffe regolate e
predeterminate e la disponibilità delle potenzialità e capacità
necessarie a soddisfare le esigenze di conferimento indicate
nel Piano d’ambito.
4. Pesi e contrappesi del d.l. 1/2012 a tutela del cittadino
Per gli affidamenti in essere, il Prefetto accerta il rispetto
degli adempimenti e delle scadenze previste dal periodo tran‑
sitorio, ivi incluso le cessioni azionarie detenute dagli Enti
Locali in società quotate. Il Prefetto potrà quindi definire un
termine perentorio entro il quale l’Ente Locale dovrà provve‑
dere alle dismissioni; trascorso inutilmente tale periodo sarà
possibile per il Governo esercitare il potere sostitutivo con
possibile commissariamento. I concessionari e gli affidatari
di servizi pubblici locali, a seguito di specifica richiesta, sono
tenuti a fornire agli enti locali che decidono di bandire la
gara per l’affidamento del relativo servizio i dati concernenti
le caratteristiche tecniche degli impianti e delle infrastrutture,
il loro valore contabile iniziale, le rivalutazioni e gli ammor‑
tamenti e ogni altra informazione necessaria per definire i
Gazzetta
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bandi. Il ritardo nella comunicazione oltre il termine di gior‑
ni sessanta dall’apposita richiesta e la comunicazione di in‑
formazioni false integrano illecito che il prefetto, su richiesta
del l’ente locale, irroga una sanzione amministrativa pecunia‑
ria da un minimo di euro 5.000 a un massimo di euro
500.0006. Gli enti locali, per assicurare agli utenti l’erogazio‑
ne di servizi pubblici che abbiano ad oggetto la produzione di
beni e attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere
lo sviluppo economico e civile delle comunità locali, defini‑
scono preliminarmente gli obblighi di servizio pubblico. I
gestori sono obbligati a rendere pubblici i livelli dei servizi
resi, il prezzo medio per utente e gli investimenti medi, in
maniera tale da renderne possibile, agli utenti, il confronto.
Le carte di servizio, nel definire gli obblighi cui sono tenuti i
gestori dei servizi pubblici, anche locali, o di un’infrastruttu‑
ra necessaria per l’esercizio di attività di impresa o per l’eser‑
cizio di un diritto della persona costituzionalmente garantito,
indicano in modo specifico i diritti, anche di natura risarci‑
toria, che gli utenti possono esigere nei confronti dei gestori
del servizio e dell’infrastruttura.
6
L., 24 novembre 1981, n. 689, da Juris data.
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●
Rassegna
di giurisprudenza
sul Codice
dei contratti pubblici
di lavori, servizi
e forniture
(d.lgs. 12 Aprile 2006,
n. 163 e ss. mm.)
●
A cura di Almerina Bove
Avvocato‑Dirigente presso la Regione Campania
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113
Cautele a tutela dell’integrità dei plichi – assenza di prescrizioni
specifiche nella lex specialis – non è circostanza idonea a supe‑
rare la censura di omessa custodia, posto che gli obblighi in
parola discendono da principi generali, afferenti all’esigenza di
tutela della segretezza delle offerte e della par condicio dei
concorrenti
La commissione di gara deve predisporre specifiche
cautele a tutela dell’integrità e della conservazione delle
buste contenenti le offerte, di cui deve farsi menzione nel
verbale di gara.
Tale tutela‑ oltre a dover essere assicurata in astratto, e
cioè a prescindere dalla circostanza che sia stata poi dimo‑
strata una effettiva manomissione dei plichi‑ si impone
anche in mancanza di apposita previsione da parte del le‑
gislatore, discendendo necessariamente dalla stessa ratio
che sorregge e giustifica il ricorso alla gara pubblica per
l’individuazione del contraente nei contratti delle Pubbliche
amministrazioni, in quanto l’integrità dei plichi contenen‑
ti le offerte dei partecipanti all’incanto è uno degli elemen‑
ti sintomatici della segretezza delle offerte e della par
condicio di tutti i concorrenti.
Consiglio di Stato, sez. V, 28.03.2012, n.1862
Pres. Calogero Piscitiello; Est. Nicola Gaviano
Cautele a tutela dell’integrità dei plichi – omissione – illegitti‑
mità, insuscettibile di sanatoria ex post
Il vizio di omessa custodia non può essere sanato dalla
dichiarazione postuma del presidente e del segretario della
commissione sull’avvenuta conservazione della documen‑
tazione in cassaforte, atteso che tale dichiarazione non
varrebbe a sostituire le funzioni del verbale di gara, che è
sottoscritto dai componenti della commissione.
Consiglio di Stato, sez. V, 28.03.2012, n.1862
Pres. Calogero Piscitiello; Est. Nicola Gaviano
Cottimo fiduciario – aggiudicazione secondo il criterio dell’of‑
ferta economicamente più vantaggiosa – mancata indicazione,
nella lex specialis, dei sub‑criteri e dei sub‑punteggi – illegitti‑
mità ‑sussiste (art. 83, comma 4)
Qualora il bando di gara, nell’enunciare il sistema di
aggiudicazione, rinvia all’applicazione dell’art. 83 d.lgs.
163/06‑ pur trattandosi dell’affidamento di un servizio in
economia, aggiudicabile in base alle regole di cui all’art. 125
del codice dei contratti pubblici‑ si costituisce comunque
un vincolo per la P.A. ad uniformarsi ai contenuti dell’art. 83
medesimo; e ciò anche perché l’applicabilità del cottimo
fiduciario non può privare le amministrazioni di ricorrere
al sistema delle procedure aperte (Cons. Stato, V, 21 feb‑
braio 2011 n. 1082).
Ne deriva che, in presenza di clausole (del bando) gene‑
riche quanto alle modalità di calcolo del punteggio in rela‑
zione all’offerta tecnica, il richiamo all’art. 83 impone
come necessaria la specificazione dei sub – criteri e dei
sub – punteggi, al fine di garantire l’imparzialità e la tra‑
sparenza delle operazioni concorsuali, considerato‑ altresì‑
che l’indeterminatezza derivata dall’attribuzione del pun‑
teggio potrebbe pregiudicare la comprensione della logica
seguita dalla commissione giudicatrice.
Consiglio di Stato, sez. V, 29.02.2012, n.1189
Pres. Calogero Piscitiello; Est. Raffaele Prosperi
amministrativo
Gazzetta
114
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
Dichiarazione concernente i tempi di esecuzione dei lavori ogget‑
to di appalto – inserimento nella busta contenente l’offerta eco‑
nomica, in luogo di quella relativa all’offerta tecnica – esclusione
dalla gara – legittimità, anche in assenza di una comminatoria
espressa nella lex specialis
La separazione tra le fasi di valutazione dell’offerta tecni‑
ca e di quella economica, propria delle procedure di affida‑
mento da aggiudicare con il criterio dell’offerta economica‑
mente più vantaggiosa, è finalizzata ad evitare che la commis‑
sione di gara sia influenzata nella valutazione dell’offerta
tecnica dalla conoscenza di elementi dell’offerta economica.
L’inevitabile perturbamento del processo valutativo che
deriverebbe da tale sovrapposizione impone necessariamente,
a tutela dei principi di parità di trattamento e trasparenza,
l’esclusione dalla gara del concorrente che abbia inserito, nella
busta contenente l’offerta economica, elementi idonei a for‑
mare oggetto di valutazione dell’offerta tecnica, anche in as‑
senza di espresse comminatorie espulsive della legge di gara.
Consiglio di Stato, sez. V, 1.03.2012, n.1196
Pres. Luciano Barra Caracciolo; Est. Fabio Franconiero
Dichiarazioni ex art. 38 – soggetti obbligati‑ vi rientra anche il
Vice Presidente del Consiglio di Amministrazione ‑ratio – criterio
formale (art.38, comma 1, lett. c)
Il Vice Presidente del Consiglio di Amministrazione‑ sog‑
getto titolare, a norma di statuto, degli stessi poteri di ammi‑
nistrazione e di rappresentanza spettanti al Presidente in
caso di assenza o di impedimento dello stesso‑ è tenuto a
rendere le dichiarazioni di cui all’art. 38, non assumendo
rilievo‑ al fine di escludere l’operatività dell’obbligo dichia‑
rativo‑ la circostanza che i suddetti poteri siano esercitabili
solo in funzione vicaria; ed invero, secondo la lettera e la ra‑
tio della norma, ciò che rileva ai fini della configurazione
dell’obbligo di dichiarazione è la titolarità del potere e non il
suo concreto esercizio.
Consiglio di Stato, sez. V, 29.02.2012, n.1186
Pres. Stefano Baccarini; Est. Francesco Caringella
Raggruppamento temporaneo di imprese – fusione per incorpo‑
razione della mandante in una nuova società, intervenuta prima
dell’aggiudicazione definitiva – omessa produzione della polizza
fideiussoria da parte della nuova società – illegittimità – sussiste,
stante il principio di immodificabilità della compagine soggettiva
Gazzetta
F O R E N S E
degli organismi che partecipano a procedure di evidenza pubbli‑
ca (art. 37, commi 9 e 10)
Nel caso di partecipazione alla gara di appalto di un co‑
stituendo r.t.i., la cauzione provvisoria deve essere inderoga‑
bilmente intestata non solo alla società capogruppo ma anche
alle singole mandanti: ciò onde evitare il configurarsi di una
carenza di garanzia per la stazione appaltante con riferimen‑
to a quei casi in cui l’inadempimento non dipenda dalla ca‑
pogruppo designata ma dalle future mandanti (cfr. Cons. St.,
ad. plen., 4 ottobre 2005, n. 8).
Tale scopo sarebbe frustrato ove si consentisse la modifi‑
cazione soggettiva della compagine di un r.t.i. come effetto
della fusione per incorporazione di una delle mandanti in una
nuova società.
Consiglio di Stato, sez. V, 26.03.2012, n.1732
Pres. Stefano Baccarini; Est. Vito Poli
Raggruppamento temporaneo di imprese – informativa interdit‑
tiva nei confronti di una delle mandanti – revoca dell’aggiudica‑
zione – illegittimità, stante il disposto di cui all’art. 37, comma 9
del Codice dei Contratti, che opera quale eccezione al principio di
immodificabilità della composizione dei raggruppamenti tempo‑
ranei nel corso dell’espletamento della gara (art. 37, comma 9)
Nell’ipotesi in cui, in seno ad un r.t.i., una delle mandan‑
ti sia destinataria di informativa interdittiva, la stazione
appaltante, prima di procedere alla revoca dell’aggiudicazio‑
ne, è tenuta a consentire all’impresa mandataria di prosegui‑
re nell’affidamento direttamente o mediante indicazione di
altro operatore economico, previa verifica, in entrambi i
casi, dei prescritti requisiti di qualificazione.
Tale meccanismo sostitutivo si applica indistintamente
alle procedure di affidamento dei lavori e quelle di affidamen‑
to di servizi e forniture, avendo il codice dei contratti pubbli‑
ci superato l’eterogeneità delle discipline pregresse. L’esercizio
di tale facoltà deve essere assicurato anche nella fase proce‑
durale dell’affidamento, oltre che in sede di esecuzione dello
stesso, dovendosi intendere l’ipotesi normativa sopra eviden‑
ziata (anche) come eccezione al principio di immodificabilità
della composizione dei raggruppamenti temporanei nel corso
dell’espletamento della gara, conformemente a quanto previ‑
sto dall’art. 37, comma 9, del d.lgs. n. 163/2006.
Tar Campania, Napoli, sez. I, 21.03.2012, n.1407
Pres. Antonio Guida; Est. Michele Buonauro
Diritto tributario
La Circolare n. 9/E del 19 marzo 2012: l’Agenzia delle Entrate detta
le istruzioni operative per la mediazione tributaria
117
tributario
Clelia Buccico
F O R E N S E
●
La Circolare n. 9/E
del 19 marzo 2012:
l’Agenzia
●
Clelia Buccico delle Entrate
Professore aggregato di Diritto tributario
istruzioni
detta
presso lale
Seconda
Università degli Studi di Napoli
operative per la
mediazione tributaria
● Clelia Buccico
Professore Associato di Diritto tributario,
Seconda Università degli Studi di Napoli
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Sommario: 1. L'ambito applicativo del reclamo e della media‑
zione - 1.1. La tipologia di atto impugnato - 1.2. L'istanza
della mediazione - 1.2.1. Il contenuto formale dell'istanza - 2.
Gli effetti della presentazione dell'istanza - 3. La disciplina
delle spese di giudizio - 4. Conclusioni.
1. L’ambito applicativo del reclamo e della mediazione
In data 19 marzo 2012 è stata emanata la Circolare n. 9/E
dell’Agenzia delle Entrate – Dir. Centrale Affari Legali e Con‑
tenzioso e delle Finanze che spiega e analizza l’articolo 39,
comma 9, del D.l. 6 luglio 2011 n. 98, che ha inserito nel cor‑
po normativo del D.lgs. 546/1992, riguardante il contenzioso
tributario, il nuovo articolo 17‑bis, rubricato «Il reclamo e la
mediazione» con il quale viene disciplinata la speciale proce‑
dura di reclamo e mediazione avente ad oggetto le controver‑
sie relative ad atti emessi dall’Agenzia delle entrate di valore
non superiore a ventimila euro1 notificati a decorrere dal primo
aprile.
A tal fine, il lavoro riprende quanto già scritto nella pre‑
sente rivista alla luce delle interpretazioni ministeriali.
Come noto, la norma sancisce che per gli atti notificati a
decorrere al aprile 2012, per le controversie, come detto, di
valore inferiore a ventimila euro, calcolato sulla base del va‑
lore del tributo e al netto di sanzioni e interessi 2 , e relative ad
atti emessi dall’Agenzia delle Entrate3 , il contribuente che in‑
tende opporsi al provvedimento dovrà preventivamente pre‑
sentare un apposito “reclamo” (avente peraltro ad oggetto il
contenuto “minimo” del ricorso).
Per le controversie di valore non superiore a ventimila
euro, così come disciplinato, il nuovo istituto è alternativo
alla conciliazione giudiziale prevista dall’articolo 48 del D.lgs.
n.546 del 1992. In base al comma 1 dell’articolo 17‑bis, infat‑
ti, nelle controversie instaurate a seguito di rigetto dell’istanza
ovvero di mancata conclusione della mediazione, “è esclusa la
conciliazione giudiziale di cui all’articolo 48”. Pertanto, la
mediazione, sebbene riferita alla fase amministrativa, sostitu‑
isce la conciliazione, assorbendone la funzione.
La nuova procedura non trova inoltre applicazione con
riferimento alle controversie relative ad atti volti al recupero
di aiuti di Stato di cui all’articolo 47‑bis del predetto decreto
legislativo n. 546.
1Secondo quanto emerge dalla relazione illustrativa (A.S. 2814), tali controversie
costituiscono oltre la metà (105.000 controversie) di quelle instaurate presso le
commissioni tributarie.
2 Relazione illustrativa del decreto‑legge (D.l. 6 luglio 2011, n. 98) recante: «Di‑
sposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria». Si sottolinea che ai sensi
del comma 3 dell’articolo 17bis del D.lgs. n. 546 del 1992, il valore della con‑
troversia “è determinato secondo le disposizioni di cui al comma 5 dell’articolo
12”. Nella specie, il secondo periodo del predetto articolo 12, comma 5, del
D.lgs. n. 546 del 1992 dispone che “Per valore della lite si intende l’importo del
tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l’atto im‑
pugnato; in caso di controversie relative esclusivamente alle irrogazioni di san‑
zioni, il valore è costituito dalla somma di queste”.
Pertanto, il valore della controversia va determinato con riferimento a ciascun
atto impugnato ed è dato dall’importo del tributo contestato dal contribuente
con il ricorso, al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate. In caso
di atto di irrogazione delle sanzioni ovvero di impugnazione delle sole sanzioni,
il valore della controversia è invece costituito dalla somma delle sanzioni conte‑
state.
3 Di conseguenza, tra i requisiti posti dalla norma in commento vi è la legittima‑
zione processuale passiva dell’Agenzia delle entrate nell’eventuale, successivo
processo. Cfr Circ. n. 9/E del 19 marzo 2012 Agenzia delle Entrate – Dir. Cen‑
trale Affari Legali e Contenzioso.
tributario
Gazzetta
118
d i r i t t o
Il legislatore ha, quindi, escluso espressamente dalla me‑
diazione le controversie concernenti il recupero di aiuti di
Stato dichiarati incompatibili, in esecuzione di una decisione
adottata dalla Commissione europea, ai sensi dell’articolo 14
del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio del 22 marzo
1999.
Pertanto, sono escluse dalla mediazione tutte le controversie
aventi ad oggetto il recupero degli aiuti di Stato illegittimi, indi‑
pendentemente dalla tipologia di atto inerente al caso di specie
(ad esempio, atto di recupero, avviso di accertamento, cartella
di pagamento), nonché i relativi interessi e sanzioni4.
Il reclamo segue inoltre alcune disposizioni del D.lgs. 546/92,
in quanto compatibili, che disciplinano la forma e il contenuto
del ricorso.
In particolare il riferimento è agli articoli 12,18,19,20,21 e
al comma 4 dell’art.22.
Ne consegue che ai sensi dell’art. 12 del D.lgs. n. 546/1992,
per proporre reclamo contro atti dell’Agenzia di valore superio‑
re a 2.582,28 euro, il reclamante deve essere assistito da un di‑
fensore; possono formare oggetto di reclamo solo gli atti impu‑
gnabili ex art. 195; il reclamo deve contenere tutti gli elementi di cui
all’art. 18, dovendo individuare, attraverso i motivi, la causa petendi
e il petitum dell’azione amministrativa; il reclamo deve essere notificato in una delle tre modalità previste dall’art. 16 e va depositato
presso l’ufficio6 che ha emesso l’atto impugnato, competente ex art. 22
(che riguarda, peraltro, la costituzione in giudizio). Infine, il termine
è quello stesso previsto dall’art. 21, per cui il reclamo deve essere
proposto entro 60 giorni dalla notifica dell’atto impositivo.
1.1. La tipologia di atto impugnato
Dal combinato disposto delle norme sopra citate emerge che
il contribuente deve esperire la fase amministrativa ogni qual
volta intenda impugnare uno degli atti individuati dall’articolo
19 del D.lgs. n. 546 del 1992, emesso dall’Agenzia delle Entrate,
e il valore della controversia non sia superiore a ventimila euro.
4
5
Cfr Circ. n. 9/E /2012 cit.
Attualmente, però, sono molto più numerosi i casi in cui, o per modifiche
normative, ovvero per ampliamenti giurisprudenziali, risultano impugnabili
atti dell’Agenzia delle Entrate che sono di valore indeterminabile: si pensi alle
controversie su agevolazioni non quantificabili, su provvedimenti autorizzato‑
ri come quelli che riguardano la attribuzione o la cancellazione della partita
IVA, sugli interpelli disapplicativi: il valore indeterminabile della «pretesa», in
questi casi, dovrebbe comportare l’esclusione dalla procedura di reclamo.
Non vi è un’incompatibilità assoluta tra reclamo e processi su dinieghi di rim‑
borsi, e, più in generale, su liti pretensive: come spesso accade, la norma è
stata evidentemente pensata avendo riguardo agli atti impositivi e soprattutto
agli atti di accertamento, ma il generico riferimento all’art. 19 rende arbitrario
escludere a priori le controversie di rimborso, se di valore non superiore a 20.000
euro. Non è però agevole stabilire se il reclamo vada presentato anche in caso
di silenzio dell’Amministrazione, là dove un atto, in senso formale e probabil‑
mente anche in senso sostanziale, manca.
6 Come sottolineato dall’Amministrazione finanziaria che, “dato il nesso che
sussiste tra l’articolo 17‑bis e il ricorso giurisdizionale, deve ritenersi che trova
applicazione nel procedimento in esame l’articolo 10 del D.lgs. n. 546 del 1992,
sebbene non espressamente richiamato. Tale norma dispone che è parte nel
processo tributario (e quindi competente a ricevere l’istanza di mediazione)
l’Ufficio che ha emanato l’atto impugnato o non ha emanato l’atto richiesto
“ovvero, se l’ufficio è un centro di servizio o altre articolazioni dell’Agenzia
delle entrate, con competenza su tutto o parte del territorio nazionale, indivi‑
duate con il regolamento di Amministrazione di cui all’articolo 71 del decreto
legislativo 30 luglio 1999, n. 300, nell’ambito della dotazione organica prevista
a legislazione vigente e anche mediante riorganizzazione, senza oneri aggiunti‑
vi, degli Uffici dell’Agenzia”, l’Ufficio al quale spettano le attribuzioni sul
rapporto controverso. Dal combinato disposto delle norme sopra richiamate
consegue che l’istanza di mediazione va presentata alla Direzione che ha ema‑
nato l’atto impugnato o non ha emanato l’atto richiesto”
t r i b u ta r i o
Gazzetta
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Secondo quanto chiarito dall’Agenzia delle Entrate con Circ.
n. 9/E del 19 marzo 2012, ne deriva che sono oggetto di media‑
zione le controversie relative a:
• avviso di accertamento;
• avviso di liquidazione;
• provvedimento che irroga le sanzioni;
• ruolo;
• rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni
pecuniarie e interessi o altri accessori non dovuti;
• diniego o revoca di agevolazioni o rigetto di domande di
definizione agevolata di rapporti tributari;
• ogni altro atto emanato dall’Agenzia delle Entrate, per il
quale la legge preveda l’autonoma impugnabilità innanzi
alle Commissioni tributarie.
Sempre l’Agenzia sottolinea che debba ritenersi oggetto di
mediazione anche il rifiuto tacito della restituzione di tributi,
sanzioni pecuniarie e interessi o altri accessori non dovuti, sulla
base delle seguenti considerazioni.
Come sopra ricordato, ai sensi del comma 6 dell’articolo
17‑bis del D.lgs. n. 546 del 1992, al “procedimento si applicano
le disposizioni di cui agli articoli 12, 18, 19, 20, 21 e al comma 4
dell’articolo 22, in quanto compatibili”.
Tra gli atti impugnabili, l’articolo 19, comma 1, lett. g), del
D.lgs. n. 546 del 1992 espressamente include il rifiuto tacito
alla restituzione di tributi, sanzioni, interessi o altri accessori.
Pertanto, in applicazione del combinato disposto dei commi 1 e
6 dell’articolo 17‑bis, la fase della mediazione va esperita anche
in relazione al rifiuto tacito di rimborso.
L’Amministrazione finanziaria, inoltre, ritiene che una di‑
versa interpretazione non risulti giustificabile tenuto conto che
tra le ipotesi di diniego espresso e tacito di rimborso si determi‑
nerebbe una disparità di trattamento, tanto più evidente laddo‑
ve si consideri che le modalità di esercizio dell’azione giudiziaria
da parte del contribuente verrebbero a essere “decise”, di fatto,
dall’Agenzia delle Entrate, a seconda che quest’ultima si deter‑
mini, o meno, a denegare il rimborso con un provvedimento
espresso.
Aggiungendo, inoltre, che la previsione della possibilità di
impugnazione anche in presenza di diniego tacito alla restitu‑
zione è ricollegabile alla volontà del legislatore di garantire al
contribuente la tutela giurisdizionale dei suoi diritti anche in
caso di inerzia da parte dell’Amministrazione.
Ulteriore applicazione al procedimento di mediazione è
previsto anche per il disposto dell’articolo 19, comma 3 del D.
lgs. n. 546 del 1992, in base al quale “La mancata notificazione
di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente
all’atto notificato, ne consente l’impugnazione unitamente a
quest’ultimo”.
Ciò comporta che il contribuente, qualora intenda impugna‑
re, con il ricorso, anche un atto presupposto adottato dall’Agen‑
zia delle Entrate, del quale affermi la mancata precedente noti‑
ficazione, è tenuto ad osservare preliminarmente la disciplina
introdotta dall’articolo 17‑bis del D.lgs. n. 546 del 1992 e, quin‑
di, a presentare l’istanza di mediazione.
Sempre secondo la prassi, non sono, invece, oggetto di me‑
diazione le controversie concernenti gli altri atti elencati dall’ar‑
ticolo 19 del D.lgs. n. 546 del 1992, i quali, pur essendo impu‑
gnabili innanzi alle Commissioni tributarie, non sono emessi
dall’Agenzia delle Entrate e, di norma, non sono riconducibili
all’attività della stessa.
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Si tratta, più precisamente, dei seguenti atti:
• cartella di pagamento;
• avviso di mora di cui alla lett. e) dell’articolo 19, comma 1
del D.lgs. n. 546 del 1992; peraltro, tale atto è stato soppres‑
so e sostituito dall’avviso di intimazione di cui all’articolo
50, comma 2, del D.p.r. 602/1973;
• iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all’articolo 77 del
D.p.r. n. 602 del 1973, prevista dalla lett. e‑bis) del mede‑
simo articolo 19, comma 1, del D.lgs. n. 546 del 1992;
• fermo di beni mobili registrati, di cui all’articolo 86 del
D.p.r. n. 602 del 1973, elencato sub lett. e‑ter) dell’artico‑
lo 19, comma 1;
• atti relativi alle operazioni catastali, indicate nell’articolo
2, comma 3, del D.lgs. n. 546 del 1992.
Resta inteso, tuttavia, che, nel caso in cui eccepisca la man‑
cata notifica di un atto presupposto riconducibile all’attività
dell’Agenzia delle Entrate, il contribuente è comunque obbliga‑
to a presentare preliminarmente l’istanza di mediazione.
1.2. L’istanza di mediazione
Il reclamo, che può anche contenere una proposta motiva‑
ta di mediazione7, completa della rideterminazione dell’am‑
montare della pretesa impositiva, va presentato8 entro sessan‑
ta giorni, dalla data di notificazione dell’atto impugnato alla
Direzione provinciale o regionale dell’Agenzia delle Entrate
competente e verrà esaminato da un ufficio differente rispetto
a quello che ha emanato l’atto. In particolare la norma parla
di “apposite strutture diverse ed autonome “da quelle che
curano l’istruttoria degli atti reclamabili. Ci si chiede perché
mai un’“apposita struttura” diversa ed autonoma debba e
possa agire, modificando, annullando in toto o parzialmente
o mediare sul contenuto dell’accertamento emanato dal sog‑
getto che ha curato l’istruttoria dello stesso atto, se entrambi
appartengono alla stessa Direzione Provinciale o Regionale.
A tal punto si evidenzia che l’esame del reclamo viene ana‑
lizzato comunque dal personale dell’agenzia anche se apparte‑
nente a strutture diverse che difficilmente avranno difficoltà a
valutare negativamente l’operato di chi ha istruito la pratica9.
Anche se l’Agenzia delle Entrate ha specificato che al riguar‑
do, le “strutture diverse ed autonome da quelle che curano
7Il reclamo può contenere una proposta di mediazione completa della rideter‑
minazione dell’ammontare della pretesa. In proposito, si pone l’accento sul
fatto che la norma contempla una facoltà (può) e non un obbligo. Contra V.
Busa, Le nuove prospettive della mediazione tributaria, Corr. Trib., n.11/2012,
pag. 767.
8La Circ. 9/E/2012 sottolinea che “sebbene non espressamente richiamate dalla
norma in commento, si ritengono applicabili al nuovo istituto le disposizioni
di cui agli articoli 10 e 11 del D.lgs. n. 546 del 1992, per quanto concerne, in
particolare, l’individuazione della legitimatio ad causam, vale a dire della capa‑
cità di essere parte nel processo tributario, e della legitimatio ad processum, che
consiste nell’attitudine del soggetto che ha la titolarità dell’azione a proporre la
domanda e a compiere validamente gli atti processuali. Ciò comporta che
l’istanza può essere alternativamente presentata:
‑ dal contribuente che ha la capacità di stare in giudizio, sia direttamente sia a
mezzo di procuratore generale o speciale; la procura va conferita con atto
pubblico o per scrittura privata autenticata;
‑ dal rappresentante legale del contribuente che non ha la capacità di stare in
giudizio.
‑ dal difensore, nelle controversie di valore pari o superiore a 2.582,28 euro”.
9F. Barone, Mediazione e reclamo nel contenzioso fiscale, Guida al Diritto, Sole
24 ore, pag. 95 “Forse una struttura super partes sarebbe stata idonea per la
gestione delle liti in parola, visto anche l’inserimento delle nuove disposizioni
nell’ambito delle regole sul contenzioso tributario, dove vige l’indipendenza dei
giudici, i quali giudicano in piena autonomia dalle parti in causa”.
2 0 1 2
119
l’istruttoria degli atti reclamabili” sono gli Uffici legali delle
Direzioni provinciali, nonché le analoghe strutture delle Direzio‑
ni regionali e del Centro operativo di Pescara per i procedimen‑
ti di competenza di quest’ultimo, le perplessità non svaniscono.
Ciò però detta la legge. Si spera almeno che effettivamen‑
te tale attività sia svolta con trasparenza ed equità di tratta‑
mento e, per fortuna la lacuna della norma che non prevede‑
va un contraddittorio tra il contribuente e l’Organo che va‑
glierà il reclamo e deciderà sulla mediazione, potendosi meglio
chiarire i motivi alla base degli stessi è stata colmata dalla
Circolare dell’Agenzia delle Entrate10 .
Ci si sofferma ora su quali debbano essere i possibili con‑
tenuti del reclamo o meglio se al contribuente converrà fare
proposta di mediazione.
A tal fine è utile anticipare che, il reclamo in caso di esito
negativo della procedura, produce gli effetti del ricorso. Ciò
significa che il momento al di là del quale non è più possibile
eccepire vizi dell’atto che si contesta (sia di diritto sia di me‑
rito) deve essere riferito già ad un momento pre‑processuale,
cioè alla presentazione del reclamo non già al momento della
commutazione del reclamo in ricorso11. Ne discende così che
il reclamo dovrà contenere non soltanto tutte le eccezioni, il
quale quindi si configura come un vero e proprio “ricorso”,
ma anche il petitum dovrà essere cristallizzato nel reclamo,
non potendo essere modificato in sede processuale12 .
In altre parole, se il contribuente attraverso il reclamo
chiede esclusivamente l’annullamento parziale dell’atto impo‑
sitivo, non potrà poi, una volta rigettato il reclamo, chiedere
al giudice l’annullamento totale dello stesso atto.
Per quel che riguarda invece la proposta di mediazione si
dovrà valutare con attenzione cosa e come inserire al fine di
non farla divenire un elemento negativo nell’eventuale fase
contenziosa. Come detto il contribuente non ha la certezza
che la sua proposta di mediazione sia accolta, allora conver‑
rebbe indicare nel reclamo solo le eccezioni del caso richie‑
dendo l’annullamento parziale o totale della pretesa e atten‑
dere la proposta di mediazione dell’Amministrazione13 .
La norma prevede, infatti, espressamente che quando
l’ufficio non accoglie il reclamo volto all’annullamento totale
o parziale dell’atto, formula una proposta di mediazione
avendo riguardo all’eventuale incertezza delle questioni con‑
10 Cfr. Circ. 9/E/2012, cit.
11 La necessità che il reclamo contenga tutti i motivi, atteso che per fictio iuris, è
suscettibile di trasformarsi in ricorso, emerge dalla recente sentenza della Cor‑
te di Cassazione n. 12442 dell’8 giugno 2011 la quale ha stabilito che non si
può contestare attraverso motivi aggiunti la decadenza dell’Amministrazione
finanziaria dal potere di accertamento dovendo necessariamente tale vizio es‑
sere evidenziato in sede di ricorso.
12Tutto ciò è stato ribadito nella Circ. 9/E/2012 secondo la quale “i motivi espo‑
sti nell’istanza devono coincidere integralmente con quelli del ricorso, a pena
di inammissibilità; sotto tale profilo va ribadito che, in applicazione del com‑
ma 2 dell’articolo 17‑bis, è inammissibile il motivo di ricorso, proposto innan‑
zi alla Commissione tributaria provinciale, per il quale non sia stata preventi‑
vamente esperita la procedura di mediazione. Né è consentito integrare (suc‑
cessivamente all’introduzione del giudizio) i motivi del ricorso. Invero, ai sensi
del comma 2 dell’articolo 24 del D.lgs. n. 546 del 1992, l’integrazione dei
motivi di ricorso è ammessa esclusivamente quando “resa necessaria dal depo‑
sito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della
commissione”;‑ il ricorso depositato nella segreteria della Commissione tribu‑
taria provinciale deve essere conforme a quello consegnato o spedito alla Dire‑
zione con l’istanza di mediazione, a pena di inammissibilità dello stesso.
13In tal senso amplius G. Sepio, La proposta di mediazione da parte del contri‑
buente e i limiti del reclamo, pag.772 ss.
tributario
Gazzetta
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d i r i t t o
troverse, del grado di sostenibilità della pretesa e del principio
di economicità dell’azione amministrativa. La mediazione si
perfeziona nei modi previsti per la conciliazione giudiziale, le
cui disposizioni, in quanto compatibili, sono espressamente
richiamate.
1.2.1. Il contenuto formale dell’istanza
Per effetto delle norme sopra richiamate, nell’istanza
vanno indicati:
1) la Direzione nei cui confronti è avviato il procedimento
amministrativo in esame, cui spetta la legittimazione in
giudizio ai sensi dell’articolo 10 del D.lgs. n. 546 del 1992,
ossia alla struttura “che ha emanato l’atto impugnato o
non ha emanato l’atto richiesto”;
2) il contribuente e il suo legale rappresentante, la relativa
residenza o sede legale o il domicilio eventualmente eletto
nel territorio dello Stato, nonché il codice fiscale e l’even‑
tuale indirizzo di posta elettronica certificata (PEC);
3) l’atto impugnato e l’oggetto dell’istanza;
4) i motivi.
Nell’istanza può essere formulata, come detto, una moti‑
vata proposta di mediazione, completa della rideterminazione
dell’ammontare della pretesa.
Nell’istanza va indicato anche il domicilio presso il quale
il contribuente intende ricevere le comunicazioni relative al
procedimento, quali, ad esempio, l’accoglimento dell’istanza
o il diniego. In assenza di elezione di domicilio, le comunica‑
zioni sono effettuate presso la residenza o la sede legale del
contribuente.
Nell’istanza il contribuente dovrà indicare, altresì, il va‑
lore della controversia che – come è noto – va determinato al
fine di stabilire l’obbligatorietà della fase di mediazione.
L’Agenzia delle Entrate reputa, inoltre, ammissibile la
redazione di un’unica istanza allo scopo di avviare il proce‑
dimento di mediazione con riguardo a più atti impugnabili,
in modo speculare alla redazione di un ricorso cumulativo.
In tal caso, tuttavia, si instaurano – per ciascuno degli
atti impugnati – separati procedimenti, non trovando appli‑
cazione l’articolo 29 del D.lgs. n. 546 del 1992, che disciplina
la riunione dei giudizi.
Infine, in calce all’istanza potrà infine essere richiesta la
sospensione della riscossione.
Abbiamo precedentemente detto che in base al comma 6
dell’articolo 17‑bis del D.lgs. n. 546 del 1992, trova applica‑
zione l’articolo 22, comma 414, del medesimo decreto, secondo
cui “Unitamente al ricorso ed ai documenti previsti al com‑
ma 1, il ricorrente deposita il proprio fascicolo, con l’origina‑
le o la fotocopia dell’atto impugnato, se notificato, ed i docu‑
menti che produce, in originale o fotocopia”.
In base al combinato disposto delle norme sopra richia‑
mate, all’istanza predisposta il contribuente dovrà allegare:
‑ copia dell’atto impugnato;
‑ copia di tutti i documenti che, in caso di esito negativo
14È evidente come il testuale richiamo all’applicabilità del comma 4 dell’articolo
22 del D.lgs. n. 546 del 1992 realizza le condizioni necessarie a ché il nuovo
istituto, attraverso la disamina delle medesime eccezioni e dei medesimi atti che
si intende sottoporre al Giudice, possa risultare funzionale all’obiettivo di an‑
ticipare l’esito del giudizio in sede amministrativa e di evitare il ricorso alla
fase giurisdizionale.
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del procedimento di mediazione e di eventuale costituzione in
giudizio, il contribuente intenderebbe allegare al ricorso e
depositare presso la segreteria della Commissione tributaria
provinciale, con il proprio fascicolo di causa, per provare in
giudizio la fondatezza delle eccezioni sollevate avverso l’atto
impugnato.
La mancata allegazione di atti o documenti già in posses‑
so dell’Ufficio non costituisca motivo di rigetto dell’istanza.
Di contro, la mancata allegazione di atti o documenti non
in possesso dell’Ufficio potrebbe rendere l’istanza incompleta
(e non conforme quindi al ricorso, completo di allegati, even‑
tualmente depositato in Commissione al termine del procedi‑
mento), allorché tali atti o documenti siano dimostrativi di
fatti rilevanti ai fini della compiuta e corretta disamina delle
ragioni addotte dal contribuente.
Potendo quindi l’obbligatorio procedimento di mediazio‑
ne estinguere la controversia, non si può fare a meno di pro‑
durre già in tale fase i documenti indicati nell’istanza, proprio
perché il deposito del fascicolo completo nella segreteria del‑
la Commissione tributaria provinciale può avvenire solo se
fallisce il tentativo di mediazione.
2. Gli effetti della presentazione dell’istanza
La notifica dell’istanza di mediazione alla Direzione pro‑
duce innanzitutto l’effetto di interrompere il decorso del ter‑
mine di decadenza per l’impugnazione dell’atto.
L’Ufficio potrebbe non pervenire all’annullamento totale
o parziale dell’atto, o non accettare la proposta del contri‑
buente, in tal caso sarà tenuto a formulare una propria pro‑
posta di mediazione tenendo in considerazione:
• le questione potenzialmente controversie della pretesa,
• la sostenibilità della stessa
• il grado di economicità dell’azione amministrativa15.
A tal punto dell’analisi si può affermare che la natura del
reclamo è assimilabile a quella di un’istanza obbligatoria di
autotutela, dato che l’art. 17 bis la definisce in termini di
annullamento totale o parziale dell’atto contro cui il reclamo
è presentato. Per annullamento parziale sembra doversi inten‑
dere che l’Agenzia delle Entrate può ridurre in parte la propria
pretesa, non solo incidendo sull’aspetto meramente quantita‑
tivo, ma anche modificando i contenuti e le motivazioni
dell’atto. Questo però fa emergere un dubbio, perché, se si
forma un consenso sull’annullamento parziale, non vi sono
problemi, ma se invece sulla pretesa ridotta il contribuente
decide comunque di andare in giudizio, potrebbe non esservi
più corrispondenza tra i contenuti del ricorso e quelli dell’at‑
to impugnato, parzialmente modificato. Dovrà allora o am‑
mettersi una proposizione di motivi aggiunti, o ipotizzare che
l’annullamento parziale «modificativo» possa essere disposto
solo quando sull’atto residuo il contribuente sia disposto a
fare acquiescenza16. Tra queste due alternative, si pone forse
15In questa fase si applicano, in quanto compatibili, le regole sulla conciliazione
giudiziale. Si tratta di una conciliazione “fuori udienza”, visto che ancora non
si è incardinato il processo tributario, e si applica pervenendo a un accordo tra
il contribuente e l’Ente impositore attraverso intese extraprocessuali. Per
un’analisi di tali punti vedasi Circ. 9/E/2012, par. 5.4.1, 5.4.2 e 5.4.3.
16 Cfr M. Basilavecchia, Reclamo, mediazione fiscale e definizione delle liti pen‑
denti “Tra queste due alternative, si pone forse come ipotesi più razionale che
in realtà di annullamento parziale si parli nel nuovo art. 17‑bis ai soli fini di
una riduzione quantitativa della pretesa, mentre una riconsiderazione dei con‑
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come ipotesi più razionale che in realtà di annullamento par‑
ziale si parli nel nuovo art. 17bis ai soli fini di una riduzione
quantitativa della pretesa, mentre una riconsiderazione dei
contenuti dell’atto impugnabile, in chiave modificativa, sia
propria piuttosto della mediazione, che è una vicenda nella
quale appunto si crea un consenso tra Amministrazione e
contribuente.
Su tale punto l’Amministrazione finanziaria ha chiarito
che stante la marcata finalità deflativa dell’istituto in esame,
si ritiene che la conclusione di una mediazione parziale possa
intervenire esclusivamente in casi eccezionali, in presenza di
specifiche e motivate ragioni.
L’elemento innovativo della fase amministrativa è così
l’obbligo delle parti di tentare una mediazione. Mentre, infat‑
ti, in capo al contribuente è prevista la mera facoltà – e non
l’obbligo – di formulare con il reclamo “una motivata propo‑
sta di mediazione, completa della rideterminazione dell’am‑
montare della pretesa” scaturente dall’atto impositivo, nei
confronti dell’Agenzia delle Entrate, invece, nel caso in cui
quest’ultima non accolga le richieste del contribuente o l’even‑
tuale sua proposta di mediazione, quella facoltà diventa un
obbligo, visto che, come sancisce la legge, essa è tenuta a
formulare una proposta di mediazione. Come risulta, quindi,
dall’enunciato del comma 8 del nuovo art. 17‑bis, ove si per‑
venga all’esame del merito del reclamo, la presentazione di
una proposta di mediazione, necessariamente concernente
l’ammontare della pretesa (comprensiva del tributo, delle
sanzioni e degli interessi) è di fatto obbligatoria, dovendo
essere formulata facoltativamente dal contribuente o, in man‑
canza, obbligatoriamente dall’Amministrazione.
Salvo che la giurisprudenza non ritenga che tale obbligo
sussista solo in “risposta” alla mozione di mediazione del con‑
tribuente, ne deriva che il soggetto che ha emesso l’atto ogget‑
to di lite sarà obbligatoriamente costretto a metterlo poi – al‑
meno residualmente – in discussione pur in via potenziale e per
mezzo di una proposta in qualche modo transattiva.
Da quanto brevemente detto sembra evidente la violazio‑
ne dei precetti costituzionali del diritto di difesa ex art. 24
della Costituzione e della imparzialità della Pubblica Ammi‑
nistrazione ex art. 97 della Costituzione.
Da un lato l’Amministrazione finanziaria è obbligata ad
avanzare una proposta di mediazione anche quando sia convin‑
ta che non sussistano i presupposti, dall’altro la domanda di
mediazione potrebbe ledere la difesa del contribuente, in quan‑
to egli manifesterebbe, in anticipo, la volontà di pervenire ad
una soluzione stragiudiziale della controversia. Infatti, “appare
davvero difficile escludere che il giudice non possa essere con‑
dizionato dalla presenza di un documento proveniente dal
contribuente in cui si dichiara disposto, sia pure in parte, ad
accettare il pagamento di quanto richiesto o, entro certi limiti,
anche il metodo accertativo scelto dall’Amministrazione”17.
Per questo motivo, come messo in evidenza da parte della
dottrina18, è opportuno, nel reclamo, chiedere la mediazione
tenuti dell’atto impugnabile, in chiave modificativa, sia propria piuttosto della
mediazione, che è una vicenda nella quale appunto si crea un consenso tra
Amministrazione e contribuente”, in Corr. Trib, n.31/2001.
17 Cfr G. Sepio, La proposta, cit.
18 M. Bruzzone, L’anticipazione dei motivi dal ricorso al reclamo, in “Corriere
tributario” n. 10/2012, pag. 709.
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“in via subordinata” rispetto alla domanda di annullamento
totale/parziale dell’atto.
La norma, poi, sancisce che la proposizione del reclamo è
nel contempo condizione sospensiva della definitività della
pretesa tributaria, fino al termine di costituzione in giudizio
del ricorrente, cioè entro trenta giorni dalla notifica del riget‑
to totale o parziale del reclamo o dalla decorrenza dei novan‑
ta giorni dalla sua proposizione senza che la Direzione com‑
petente si sia formalmente pronunciata, e condizione di am‑
missibilità del ricorso.
Per quanto riguarda la sospensione della riscossione la
presentazione dell’istanza, così come la proposizione del ri‑
corso giurisdizionale, non comporta la sospensione automa‑
tica dell’esecuzione dell’atto impugnato.
Si evidenzia, inoltre, che la sospensione giudiziale dell’ese‑
cuzione ai sensi dell’articolo 47 del D.lgs. n. 546 del 1992 può
essere richiesta alla Commissione tributaria provinciale solo
in pendenza di controversia giurisdizionale e che, quindi,
l’istanza di sospensione giudiziale non può essere proposta
prima della conclusione della fase di mediazione.
In ogni caso, ai sensi dell’articolo 2‑quater, comma 1bis
del decreto‑legge 30 settembre 1994, n. 564, convertito con
modificazioni dalla legge 30 novembre 1994, n. 656, “Nel
potere di annullamento o di revoca di cui al comma 1 deve
intendersi compreso anche il potere di disporre la sospensione
degli effetti dell’atto che appaia illegittimo o infondato”.
Stante la funzione cui è preordinato il procedimento di
mediazione, si ritiene possibile e opportuno, al fine di garan‑
tire un’adeguata tutela del contribuente, estendere l’applica‑
bilità del citato articolo 2‑quater, comma 1‑bis del D.l. n. 564
del 1994 alle fattispecie in esame.
In altri termini, anche nell’ambito del procedimento am‑
ministrativo disciplinato dall’articolo 17bis del D.lgs. n. 546
del 1992, per sua natura funzionale al riesame ed eventuale
rideterminazione della pretesa, il contribuente può chiedere
la sospensione degli effetti dell’atto.
Quando le eccezioni sollevate nell’istanza non appaiono
infondate, la Direzione può dunque concedere, su istanza
formulata contestualmente all’atto introduttivo del procedi‑
mento di mediazione, ovvero separatamente, la formale so‑
spensione, in tutto o in parte, dell’esecuzione dell’atto in
presenza del richiamato presupposto.
Si precisa che il periodo di sospensione degli effetti dell’at‑
to non può comunque protrarsi oltre il tempo necessario alla
conclusione della fase di mediazione.
All’eventuale esito negativo del procedimento di media‑
zione consegue ovviamente l’iscrizione a ruolo o l’affidamen‑
to del carico all’Agente della riscossione e l’immediata revoca
della sospensione precedentemente concessa.
Resta ferma la possibilità di avvalersi delle norme in ma‑
teria di riscossione straordinaria19.
L’istanza, poi, abbiamo visto che è condizione di ammis‑
sibilità del ricorso.
Decorsi novanta giorni senza che sia stato “notificato”
l’accoglimento del reclamo o senza che sia stata “conclusa la
19In particolare, articoli 29, comma 1, lettera c), del decreto‑legge 31 maggio
2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122,
e 15bis del D.p.r. n. 602 del 1973.
tributario
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d i r i t t o
mediazione” il reclamo medesimo “produce gli effetti del ri‑
corso”, da tale momento, altresì, decorrono i termini per il
compimento delle attività relative alla costituzione in giudizio
delle parti, di cui agli artt. 22 e 23 del D.lgs. n. 546/1992.
Ne consegue che il ricorso del contribuente potrà ritual‑
mente essere presentato e depositato, nei successivi trenta
giorni, presso la segreteria della Commissione tributaria pro‑
vinciale. Entro lo stesso termine, l’Agenzia delle Entrate, si
deve costituire in giudizio, depositando nella menzionata se‑
greteria il proprio fascicolo
Se, invece, prima del decorso dei 90 gg. viene notificato
un provvedimento di diniego ovvero un atto di accoglimento
parziale, i predetti 30 gg. decorreranno dalla notifica di que‑
sto atto.
Nel caso in cui il contribuente riceva comunicazione del
provvedimento dopo la scadenza del novantesimo giorno, il
termine di trenta giorni per la costituzione in giudizio decor‑
re comunque dal giorno successivo a quello di compimento
dei novanta giorni.
3. La disciplina delle spese di giudizio
Il comma 10 dell’art. 17‑bis, poi, disciplina con regole
singolari le spese di giudizio.
In particolare stabilisce che la parte soccombente è tenuta
a rimborsare, in aggiunta alle spese di giudizio, una somma
pari al cinquanta per cento delle spese di giudizio a titolo di
rimborso. Si sottolinea come il riferimento e alle sole ipotesi
nelle quali non si raggiunga la mediazione, il reclamo si è
trasformato in ricorso e il giudizio si conclude con sentenza.
Fuori dei casi della soccombenza reciproca, i giudici di
primo grado possono decidere di compensare, tra le parti, le
spese parzialmente o per intero solo se ricorrono giusti moti‑
vi, esplicitamente indicati nella motivazione, che hanno in‑
dotto la parte soccombente a disattendere la proposta di
mediazione.
Ne consegue che, in sede di pronuncia della sentenza con‑
clusiva del giudizio, la Commissione tributaria provinciale:
‑ condanna la parte soccombente a versare all’altra parte
una somma a titolo di rimborso delle spese del procedi‑
mento di mediazione, normativamente fissata nel cinquan‑
ta per cento delle spese di giudizio20 ;
‑ fuori dei casi di soccombenza reciproca, i Giudici possono
compensare, parzialmente o per intero, le spese di lite
solo se ricorrono giusti motivi, da indicare esplicitamente
nella motivazione della sentenza.
Questa previsione riveste dunque una chiara finalità afflit‑
tiva, che non si ridimensiona per effetto della possibile com‑
pensazione delle spese, disposta dal secondo capoverso, sem‑
pre ammissibile nel processo tributario, e che mal si concilia
con le regole ordinariamente dettate per le spese di giustizia.
Analogamente a quanto disposto in materia di accerta‑
mento con adesione e di conciliazione giudiziale dall’articolo
29, comma 7, del D.l. 31 maggio 2010, n. 78, il comma 10 del
D.l. n.98/2011 prevede che i rappresentanti dell’ente che con‑
cludono la mediazione o accolgono il reclamo rispondono ai
20La Circ.9/E/2012 chiarisce che “Dal momento che il comma 10 dell’articolo 17
bis precisa che tale somma è “in aggiunta alle spese di giudizio”, la condanna al
rimborso non trova applicazione nei casi di compensazione delle spese di lite”.
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sensi dell’articolo 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994,
n. 20, solo in caso di dolo.
4. Conclusioni
Il reclamo e la mediazione di cui al nuovo art. 17‑bis del
D.lgs. n. 546/1992 presentano aspetti sicuramente singolari,
molti dei quali criticabili sia sotto un profilo giuridico che
operativo. La norma, nel suo complesso, sviluppa effetti pre‑
liminarmente amministrativi e solo, in un eventuale e succes‑
sivo momento, processuali.
L’effetto propriamente processuale è eventuale e successi‑
vo in quanto si produce ben oltre il momento della notifica
del reclamo al competente destinatario e questa circostanza
induce a più di una riflessione sulla carenza – in capo al re‑
clamo – di una valenza esclusivamente giurisdizionale. La
collocazione del nuovo istituto nell’ambito del corpo del D.lgs.
n. 546/1992, può risultare ingannevole: infatti, analizzando
le norme dell’art. 17‑bis, è evidente come essa sia chiaramen‑
te orientata a rimarcare la produzione degli effetti del ricor‑
so – da parte del reclamo – solo dopo il rigetto (totale o par‑
ziale) da parte dell’ufficio impositore delle istanze sollevate o
comunque, in caso di silenzio, decorsi i novanta giorni dalla
proposizione del reclamo stesso. Ne consegue che ci troviamo
con due fasi, una meramente amministrativa, propriamente
introdotta dal reclamo, e un’altra pienamente processuale che
si radica in un momento successivo a questo atto21.
Si aggiunga poi l’evidente dubbio su quale potrà essere il
ruolo che l’istituto della mediazione tributaria all’interno dei
sistemi deflattivi del contenzioso, rivelandosi quasi un dop‑
pione di istituti già esistenti 22 , e, soprattutto, considerando la
sostanziale inesistenza di un reale mediatore, posto che, come
21 Secondo l’Agenzia delle Entrate, Circ 9/E/2012 cit., in considerazione della
funzione pre‑processuale del nuovo istituto, si giustifica l’applicabilità delle
norme del decreto legislativo sul processo tributario disciplinanti la proposizio‑
ne del ricorso, stante la tendenziale identità di funzioni tra istanza di mediazio‑
ne e ricorso. Si legge, infatti, che “Il nuovo istituto produce, … due effetti:
‑ da una parte, svolge una funzione pre‑processuale di “chiamata in giudizio
dell’Agenzia”;
‑ dall’altra, avvia una fase amministrativa nel corso della quale il contribuente
e la stessa Agenzia delle Entrate possono giungere a una rideterminazione
della pretesa tributaria ovvero dell’importo chiesto a rimborso.
Va, infatti, osservato che la notifica dell’istanza determina la data a partire
dalla quale decorre un termine dilatorio per l’instaurazione della controversia.
Durante il decorso di tale termine – individuato in novanta giorni dal primo
periodo del comma 9 dell’articolo 17‑bis – si svolge una fase amministrativa di
esame preliminare della controversia il cui scopo è quello di consentire, all’Agen‑
zia delle Entrate e al contribuente, di verificare se sussistono i presupposti per
una risoluzione stragiudiziale della lite.
In considerazione della funzione pre‑processuale del nuovo istituto, si giustifica
l’applicabilità delle norme del decreto legislativo sul processo tributario disci‑
plinanti la proposizione del ricorso, stante la tendenziale identità di funzioni tra
istanza di mediazione e ricorso.
22Tesi contraria è espressa dall’Agenzia delle Entrate che, con la più volte citata
Circ. 9/E/2012 ha affermato che “Circa i tratti distintivi che caratterizzano la
mediazione rispetto agli altri istituti deflativi del contenzioso, tra i quali l’auto‑
tutela e l’accertamento con adesione, si pone in rilievo il carattere obbligatorio
del nuovo istituto per gli atti di valore non superiore a ventimila euro, che, da
un lato, fa obbligo al contribuente che intenda adire il Giudice di presentare
preventivamente l’istanza all’Ufficio e, dall’altro lato, impone all’Ufficio di
esaminare sistematicamente l’istanza del contribuente e di riscontrarla in ma‑
niera espressa… Non è prospettabile…, una sovrapposizione tra i predetti
istituti deflativi, atteso che il procedimento di cui all’articolo 17‑bis del D.lgs.
n. 546 del 1992 è “proiettato” sul processo tributario e induce il contribuente
e l’Ufficio – anche attraverso il rilevato carattere di obbligatorietà – ad antici‑
pare l’esito dell’eventuale giudizio e, quindi, a porre in essere ogni determina‑
zione idonea ad evitare l’instaurazione di un processo dall’esito negativo e,
comunque, incerto.
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si è detto, non è possibile attribuire tale ruolo a strutture or‑
ganicamente interne all’Agenzia delle Entrate.
Dall’analisi fatta, poi, abbiamo evidenziato che il nuovo
istituto per le controversie di valore non superiore a ventimi‑
la euro, visto il tenore letterale della norma e l’interpretazione
ministeriale23 , è alternativo alla conciliazione giudiziale e di
conseguenza sembrerebbe avere la stessa natura. Allora qual’è
la natura giuridica della mediazione tributaria?
Come noto, diverse opinioni si sono manifestate in dottri‑
na, in giurisprudenza e nella prassi.
Secondo una della parte dottrina24 , sostenuta anche dalla
giurisprudenza e dalla prassi, la conciliazione giudiziale è ma‑
nifestazione del contratto di transazione disciplinato dal vigen‑
te codice civile agli artt. 1965 e seguenti, ove viene definito
come “il contratto col quale le parti, facendosi reciproche
concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o preven‑
gono una lite che può sorgere fra loro”25. Contratto per addi‑
venire alla cui valida stipulazione le parti “devono avere la
capacità di disporre dei diritti che formano oggetto della lite”
perché in caso contrario, quando cioè “tali diritti, per loro
natura o per espressa disposizione di legge, sono sottratti alla
disponibilità delle parti”, la transazione è ope legis nulla, ergo
non può produrre effetti. Ne consegue che le parti, allorquan‑
do – in udienza o fuori udienza – prospettano la loro intenzio‑
ne di risolvere la lite attraverso la conciliazione di cui all’art. 48,
proprio quel preciso e puntuale obiettivo si ripromettono di
raggiungere: la formalizzazione delle reciproche concessioni,
consolidata in un documento (il verbale redatto da un pubblico
ufficiale neutrale e indifferente agli interessi contrapposti) de‑
stinato ad acquisire valenza di titolo esecutivo26 .
Secondo un contrario filone dottrinale27, invece, la conci‑
liazione (e nel nostro caso la mediazione) non è una definizio‑
ne transattiva, ma un’attività di accertamento dell’Ente impo‑
sitore e del contribuente che porta ad individuare la natura e
l’entità della controversia tributaria. Si è in presenza, cioè, di
una composizione il cui contenuto non è effettivamente tran‑
sattivo. La conciliazione è un “autonomo istituto di diritto
pubblico, funzionale allo scopo di porre termine alla contro‑
versia nel modo più conveniente per realizzare la giusta im‑
posizione nel caso singolo”28 .
A tal punto potremmo optare per l’una o l’altra tesi è
considerare l’istituto della mediazione fiscale come transatti‑
vo o meno a secondo del filone interpretativo che andremmo
a scegliere. Ma il problema non si pone.
23 Cfr Premessa Circ. n. 9/E /2012 cit
24 Cfr. P. Russo, Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano,
2005.
25 Cfr. Cass., sez. II, 17 agosto 1990, n. 8330; Cass., sez. trib., 6 ottobre 2001,
n. 12314 secondo la quale la conciliazione giudiziale “è configurata come una
forma di composizione convenzionale della lite tributaria nella sede del proces‑
so e si pone in deroga al principio più generale della normale indisponibilità per
l’Erario del credito di imposta”; Cass., sez. trib., 22 aprile 2005, n. 8455;
26V. Azzoni, Processo tributario. Appunti sulla natura giuridica della concilia‑
zione giudiziale, in Il Fisco, n. 5/ 2007
27Vedasi tra gli altri, M. Miccinesi, Accertamento con adesione e conciliazione
giudiziale, in AA.VV., Commento agli interventi di riforma tributaria. I decre‑
ti legislativi di attuazione delle deleghe contenute nell’art.3 della legge
26.12.1996, n.662, a cura di M. Miccinesi, Padova, 1999; F. Pistolesi, Il recla‑
mo e la mediazione nel processo tributario, in Rass. Trib., n.1/2012.
28 Cfr. Cantillo, voce Conciliazione: III) Processo tributario, Capitolo 5 (“Natu‑
ra giuridica della conciliazione”), in Enciclopedia giuridica Treccani, Roma,
2002.
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123
Infatti, se andiamo ad analizzare il comma 8 dell’art.17‑bis,
in base al quale, come visto, l’Agenzia delle Entrate se non
perviene all’annullamento totale o parziale dell’atto, o non
accetta la proposta del contribuente, sarà tenuta a formulare
una propria proposta di mediazione tenendo in considerazio‑
ne le questione potenzialmente controversie della pretesa, la
sostenibilità della stessa e il grado di economicità dell’azione
amministrativa, si rileva un carattere eminentemente transat‑
tivo. L’eventuale definizione della potenziale lite che ne po‑
trebbe conseguire, non potrà così che connotarsi negli stessi
termini. Non può che affermarsi che la mediazione è una
transazione fiscale che consente all’Agenzia delle Entrate di
accettare una riduzione della sua pretesa.
Tale istituto si presenta quindi come un tentativo obbliga‑
torio di transazione (e non di mediazione) extragiudiziale che,
rispetto alla mediazione del processo civile, non obbliga i
difensori ad informare per iscritto il contribuente della possi‑
bilità di avvalersi del procedimento di mediazione, laddove
tale obbligo – ex art. 4, comma 3, del D.lgs. n. 28/2010 – nel
giudizio civile è stato previsto come norma di protezione
dell’assistito ed è stato “radicato” nel rapporto attraverso la
prescrizione del rilascio dell’informativa al momento del con‑
ferimento dell’incarico, da allegarsi all’atto introduttivo
dell’eventuale giudizio.
Per concludere si sottolinea come, inoltre, il reclamo e la
mediazione tributaria dilatino i tempi di instaurazione della lite.
A fronte della notificazione dell’atto impositivo, l’avvio
della nuova procedura comporta che tra la data di proposi‑
zione del reclamo e quella ultima per l’instaurazione del
contraddittorio intercorrano circa 150 giorni (un massimo di
90 giorni per il riscontro, positivo o negativo dell’ufficio, più
altri 60 per la costituzione di quest’ultimo ex art. 23 del D.
lgs. n. 546/1992). Considerato poi che l’art. 17‑bis implicita‑
mente consente l’inoltro del reclamo entro il sessantesimo
giorno dalla notificazione dell’atto impositivo, per individua‑
re il giorno in cui può avviarsi l’azione giudiziale vanno
computati – ai precedenti – altri 60 giorni, per un totale di
210 giorni a far data dalla notifica della pretesa fiscale.
Si aggiunga che il termine di avvio dell’azione giudiziale
può “lievitare” di ulteriori 90 giorni se si tiene conto di un
altro fatto, eventuale e precedente al reclamo. Ci si riferisce
alla sospensione dei termini – ex artt. 6, comma 24, e 12,
comma 3, del D.lgs. n. 218/1997 – per proporre ricorso, con‑
seguente alla richiesta del contribuente per il tentativo di ac‑
certamento con adesione.
Considerando anche l’incidenza della sospensione feriale
dei termini processuali nella tempistica dianzi descritta non‑
ché il rispetto dei 30 giorni che devono intercorrere tra decre‑
to di fissazione di udienza e discussione della causa, si può
ipotizzare che, secondo le stime appena prospettate – la trat‑
tazione della controversia potrebbe svolgersi – finanche in‑
nanzi le commissioni tributarie non particolarmente oberate
da grandi carichi di lavoro – ben oltre un anno dalla notifi‑
cazione dell’atto impositivo.
Quest’ultima circostanza pone seri dubbi sul rispetto del
diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione nonché
sulla “ragionevole durata del processo” ex art. 111, comma 2,
della Costituzione.
Da ultimo, valga sottolineare i dubbi sollevati in relazione
all’ammissibilità, nelle more del reclamo, dell’iscrizione a
tributario
Gazzetta
124
d i r i t t o
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
ruolo. Problema risolto evidenziando come l’ammettere l’av‑
vio di una procedura esecutiva nelle more di un tentativo di
mediazione vanificherebbe i tentativi di mediazione oltre al
fatto che l’azione esecutiva verrebbe a fondarsi su un titolo di
iscrizione a ruolo caratterizzato da precarietà. Ne consegue
che l’iscrizione a ruolo è legittima solo a seguito del decorso
dei novanta giorni, ovvero degli ulteriori venti giorni conces‑
si al contribuente per aderire29.
Se da un lato si può condividere l’intento del legislatore di
proseguire nell’intervento volto a ridurre il contenzioso tribu‑
tario, dall’altro non si può ritenere che lo strumento introdot‑
to dalla norma di stabilizzazione finanziaria, almeno nella
sua attuale versione, sia pienamente legittimo ed effettivamen‑
te rispondente al fine per cui è stato emanato.
29 A. Renda, Il reclamo per dinieghi di rimborso, atti sanzionatori e atti impoe‑
sattivi, in Corr. Trib.n.10/2012. Diffusamente vedasi anche A. Carinci, La ri‑
scossione provvisoria e l’acquiescenza dopo l’introduzione del reclamo, in Corr.
Trib., n.11/2012; L’autore evidenzia anche come l’obbligo del reclamo quale
condizione di ammissibilità del ricorso si traduce come un ritardo di tutela
cautelare per gli atti ipoesattivi idonei a legittimare atti espropriativi e misure
cautelari o conservative. Anche in tal caso si esclude che gli Uffici possano
procedere all’affidamento all’agente della riscossione prima della fine del ten‑
tativo di mediazione non andato a buon fine, cioè prima del momento da cui
decorrono i termini per la costituzione dinanzi al giudice.
Diritto internazionale
[ A cura di Francesco Romanelli ]
Rassegna di diritto comunitario 127
internazionale
A cura di Francesco Romanelli
F O R E N S E
●
Rassegna di diritto
comunitario
●
A cura di Francesco Romanelli
Avvocato e Specialista
di diritto ed economia delle Comunità europee
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 2
127
Direttiva 2008/7/CE – Imposte indirette sulla raccolta di capita‑
li – Articoli 5, paragrafo 1, lettera c), e 6, paragrafo 1, lettera
e) – Ambito di applicazione – Diritto annuale versato alle camere
di commercio, industria, artigianato e agricoltura locali
L’articolo 5, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2008/7/
CE del Consiglio, del 12 febbraio 2008, concernente le impo‑
ste indirette sulla raccolta di capitali, deve essere interpretato
nel senso che esso non osta a un diritto, come quello contro‑
verso nel procedimento principale, dovuto annualmente da
ogni impresa per l’iscrizione nel registro delle imprese, anche
se siffatta iscrizione ha un effetto costitutivo per le società di
capitali e tale diritto è dovuto dalle società in parola anche
relativamente al periodo di tempo in cui svolgono unicamen‑
te attività preparatorie alla gestione di un’impresa.
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sez.III, sentenza 19
aprile 2012, Causa C–443/09
Il Tribunale ordinario di Cosenza ha chiesto con domanda
pregiudiziale alla Corte del Lussemburgo se fosse compatibile
con il diritto comunitario ed in specie con gli articoli 5, para‑
grafo 1, lettera c), e 6, paragrafo 1, lettera e), della direttiva
2008/7/CE del Consiglio, del 12 febbraio 2008, concernente
le imposte indirette sulla raccolta di capitali il diritto annuale
dovuto da ogni impresa iscritta o annotata nel registro delle
imprese e dunque se fosse ammissibile al passivo del fallimen‑
to il credito vantato da una Camera di Commercio, Industria,
Artigianato e Agricoltura relativamente al mancato pagamen‑
to da parte della fallita in bonis di tale diritto.
Il giudice nazionale dubitava che il diritto annuale dovuto
alla CCIAA dalle società di capitali per l’iscrizione al Registro
delle Imprese violasse il divieto di istituire imposte indirette
che, sotto qualsiasi forma, siano dovute per la registrazione o
per ogni altra formalità preliminare all’esercizio di un’attività
alla quale una società di capitali possa essere sottoposta in
ragione della sua forma giuridica.
La Corte, ritenuto che il diritto annuale non sia dovuto per
l’iscrizione della società o comunque della persona giuridica
nel Registro delle Imprese bensì per l’iscrizione dell’impresa
nel Registro stesso, ha affermato la compatibilità di tale con
la normativa comunitaria.
Diritto d’autore e diritti connessi – Trattamento di dati via Inter‑
net – Lesione di un diritto esclusivo – Audiolibri resi accessibili per
mezzo di un server FTP via Internet tramite un recapito IP fornito
dall’operatore Internet – Ingiunzione rivolta all’operatore Internet di
fornire il nominativo ed il recapito dell’utilizzatore dell’indirizzo IP
1. La direttiva 2006/24/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 15 marzo 2006, riguardante la conservazione
di dati generati o trattati nell’ambito della fornitura di servizi
di comunicazione elettronica accessibili al pubblico o di reti
pubbliche di comunicazione e che modifica la direttiva
2002/58/CE, deve essere interpretata nel senso che non osta
all’applicazione di una normativa nazionale, istituita sulla
base dell’articolo 8 della direttiva 2004/48/CE del Parlamen‑
to europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, sul rispetto dei
diritti di proprietà intellettuale, la quale, ai fini dell’identifi‑
cazione di un abbonato a Internet o di un utente Internet,
consenta di ingiungere ad un operatore Internet di comunica‑
re al titolare di un diritto di autore ovvero al suo avente
causa l’identità dell’abbonato al quale sia stato attribuito un
internazionale
Gazzetta
128
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
indirizzo IP (protocollo Internet) che sia servito ai fini della
violazione di tale diritto, atteso che tale normativa non rica‑
de nella sfera di applicazione ratione materiae della direttiva
2006/24.
2. Le direttive 2002/58/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei
dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle
comunicazioni elettroniche (direttiva relativa alla vita priva‑
ta e alle comunicazioni elettroniche), e 2004/48 devono es‑
sere interpretate nel senso che non ostano ad una normativa
nazionale, come quella oggetto della causa principale, nella
parte in cui tale normativa consente al giudice nazionale,
dinanzi al quale sia stata proposta, da parte di un soggetto
legittimato ad agire, domanda di ingiunzione di comunicare
dati di carattere personale, di ponderare, in funzione delle
circostanze della specie e tenuto debitamente conto delle
esigenze risultanti dal principio di proporzionalità, i contrap‑
posti interessi in gioco.
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sez. III, sentenza 19
aprile 2012, Causa C–461/10
Le ricorrenti sono case editrici, titolari, segnatamente, di
diritti esclusivi di riproduzione, di edizione e di messa a di‑
sposizione del pubblico di opere presentate in forma di au‑
diolibro.
Le ricorrenti si dolgono che i diritti esclusivi di cui essi
sono titolari sarebbero stati violati a causa della diffusione al
pubblico delle ventisette opere senza il loro consenso a mezzo
di un server FTP («file transfer protocol»), che consente la
condivisione di file e il trasferimento di dati tra computer
connessi a Internet.
Le ricorrenti hanno proposto dinanzi al Solna tingsrätt
(Tribunale di primo grado di Solna) domanda di ingiunzione
al fine di ottenere la comunicazione del nome e del recapito
della persona facente uso dell’indirizzo IP dal quale si presu‑
me siano stati trasmessi i file in questione. Il provider si è
opposto a tale domanda sostenendo, segnatamente, che l’in‑
giunzione richiesta risulterebbe contraria alla direttiva
2006/24. In primo grado, il Solna tingsrätt ha accolto la do‑
manda di ingiunzione ai fini della comunicazione dei dati. La
resistente ha proposto appello dinanzi allo Svea hovrätt (Cor‑
te d’appello di Svea), chiedendo il rigetto della domanda di
ingiunzione. L’internet provider ha parimenti chiesto di adire
in via pregiudiziale la Corte affinché venga precisato se la
direttiva 2006/24 osti alla comunicazione di informazioni
relative ad un abbonato, al quale sia stato assegnato un indi‑
rizzo IP, a soggetti diversi dalle autorità indicate nella diret‑
tiva medesima.
Lo Svea hovrätt ha ritenuto che nessuna disposizione del‑
la direttiva 2006/24 esclude che venga ingiunto ad una parte
in un procedimento civile di comunicare, a soggetti diversi da
una pubblica autorità, dati relativi ad un determinato abbo‑
nato. Il giudice medesimo ha inoltre respinto la domanda di
rinvio pregiudiziale alla Corte. Lo Svea hovrätt ha parimenti
rilevato che le case editrici di audiolibri non avevano dimo‑
strato l’esistenza di indizi effettivi dell’avvenuta violazione del
diritto di proprietà intellettuale e ha quindi deciso di annul‑
lare l’ingiunzione di fornire informazioni disposta dal Solna
tingsrätt. Le ricorrenti hanno quindi proposto ricorso per
cassazione dinanzi allo Högsta domstolen, il quale ha ritenu‑
Gazzetta
F O R E N S E
to che sussistessero dubbi sulla questione se il diritto dell’Unio‑
ne osti all’applicazione dell’articolo 53 quater della legge sul
diritto d’autore, considerato che né tale sentenza né tale ordi‑
nanza fanno riferimento alla direttiva 2006/24.
La Corte ha rilevato che la comunicazione richiesta dalle
ricorrenti costituisse un trattamento di dati di carattere perso‑
nale ai sensi dell’articolo 2, primo comma, della direttiva
2002/58, in combinato disposto con l’articolo 2, lettera b),
della direttiva 95/46, ricadendo così nella sfera di applicazione
della direttiva 2002/58, ma che la richiesta dei dati fosse avan‑
zata da un privato cittadino e non da un’autorità nazionale.
Il ragionamento della Corte parte dal presupposto che la
richiesta di comunicazione di dati di carattere personale, al
fine di garantire la tutela effettiva del diritto d’autore, rientra,
in considerazione del suo oggetto, nella sfera di applicazione
della direttiva 2004/48. Ricordato che l’art. 8.3, della diret‑
tiva 2004/48, in combinato disposto con l’art. 15.1 della di‑
rettiva 2002/58, non osta a che gli Stati membri prevedano
l’obbligo di trasmissione a soggetti privati di dati di carattere
personale per consentire l’avvio, dinanzi ai giudici nazionali,
di procedimenti nei confronti delle violazioni del diritto d’au‑
tore, senza peraltro obbligare gli Stati medesimi a disporre
tale obbligo1, la Corte ha tuttavia aggiunto che, nella traspo‑
sizione delle citate direttive 2002/58 e 2004/48, gli Stati
membri devono avere cura di fondarsi su un’interpretazione
delle direttive medesime tale da garantire un giusto equilibrio
tra i diversi diritti fondamentali tutelati dall’ordinamento
giuridico dell’Unione. Inoltre, in sede di attuazione delle mi‑
sure di recepimento di tali direttive, le autorità e i giudici
degli Stati membri devono non solo interpretare il loro diritto
nazionale in modo conforme a dette direttive, bensì anche
provvedere a non fondarsi su un’interpretazione di esse che
entri in conflitto con i summenzionati diritti fondamentali o
con gli altri principi generali del diritto dell’Unione, quale, ad
esempio, il principio di proporzionalità.
Nel caso di specie, la Corte ha precisato che la normativa
nazionale in esame esige, segnatamente, che, affinché possa
essere disposta l’ingiunzione di comunicazione dei dati in
questione, sussistano indizi reali di violazione di un diritto di
proprietà intellettuale su un’opera, che le informazioni richie‑
ste siano tali da facilitare le indagini sulla violazione o sulla
minaccia di violazione del diritto d’autore e che i motivi alla
base di tale ingiunzione si ricolleghino ad un interesse supe‑
riore agli inconvenienti o agli altri pregiudizi che ne possano
derivare per il destinatario o a qualsivoglia altro contrapposto
interesse.
Tale normativa consente così al giudice nazionale al qua‑
le sia stata proposta la domanda di ingiunzione di comunica‑
zione dei dati di carattere personale, da parte di un soggetto
legittimato ad agire, di ponderare, in funzione delle circostan‑
ze della specie e tenendo in debita considerazione le esigenze
risultanti dal principio di proporzionalità, gli opposti interes‑
si in gioco.
Sulla base di tali motivazioni la Corte ha pronunciato la
massima in commento.
1 CGUE 29 gennaio 2008, Promusicae (C–275/06, Racc. pag. I–271, p. 54 e 55),
nonché ordinanza del 19 febbraio 2009, LSG‑Gesellschaft zur Wahrnehmung
von Leistungsschutzrechten (C–557/07, Racc. pag. I–1227, p. 29)
F O R E N S E
m a r z o • a p r i l e
Regolamento (CE) n. 44/2001 – Competenza giurisdizionale ed
esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale – Com‑
petenza “in materia di illeciti civili dolosi o colposi”– Determina‑
zione del luogo in cui è avvenuto o può avvenire l’evento danno‑
so – Sito Internet di un prestatore di servizi di posizionamento
operante con un nome di dominio nazionale di primo livello di uno
Stato membro – Utilizzo, da parte di un inserzionista, di una pa‑
rola chiave identica a un marchio registrato in un altro Stato
membro»
L’articolo 5, punto 3, del Regolamento (CE) n. 44/2001
del Consiglio, del 22 dicembre 2000, concernente la compe‑
tenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle
decisioni in materia civile e commerciale, deve essere inter‑
pretato nel senso che di una controversia relativa alla viola‑
zione di un marchio registrato in uno Stato membro a causa
dell’uso, da parte di un inserzionista, di una parola chiave
identica a detto marchio sul sito Internet di un motore di
ricerca operante con un dominio nazionale di primo livello
di un altro Stato membro possono essere investiti sia i giudi‑
ci dello Stato membro in cui tale marchio è registrato, sia i
giudici dello Stato membro del luogo di stabilimento dell’in‑
serzionista.
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sez. I, sentenza 19
aprile 2012, Causa C–523/10
Una società di diritto austriaco, proprietaria del marchio
costituito dalla propria ragione sociale, opera nel settore
dell’attrezzatura per lo sci. Una società di diritto tedesco,
attiva nell’e.commerce, ha acquistato su Google.de©, la paro‑
la chiave costituita proprio dal nome della compagnia austria‑
ca, così che digitando sul motore di ricerca quel nome si è
indirizzati al sito dell’azienda tedesca.
L’Oberster Gerichtshof, giudice di legittimità di Vienna,
ha disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte del Lussemburgo,
per conoscere se competente a giudicare sulla domanda inibi‑
toria proposta dall’azienda austriaca fossero i giudici austria‑
ci o quelli tedeschi.
La Corte è stata quindi chiamata a decidere circa la deter‑
minazione del luogo o i luoghi in cui l’evento dannoso è av‑
venuto o poteva avvenire ai sensi del citato articolo 5, punto
3, e ciò in un contesto in cui l’attività asseritamente lesiva di
un marchio nazionale viene esercitata attraverso un mezzo
come Internet.
La Corte già si è espressa sul punto in tema di violazione
dei diritti della personalità.
Costituisce jus receptum che, quando esiste un’unità di
fatto ma l’origine del danno ed il luogo dove il danno si ma‑
terializza sono diversi, l’articolo 5, punto 3, del regolamento
n. 44/2001, come è stato interpretato dalla Corte di giustizia
a partire dalla sentenza Handelskwekerij Bies2 deve essere
inteso nel senso che avalla la competenza di due diverse giu‑
risdizioni: quella del luogo in cui si produce effettivamente il
danno e quella del luogo in cui avviene l’evento causale, la‑
2Sentenze del 30 novembre 1976, Handelskwekerij Bies, «Mines de potasse
d’Alsace» (21/76, pag. 1735, punti 24 e 25); 1º ottobre 2002, Henkel (C–
167/00, Racc. pag. I–8111, punto 44); 5 febbraio 2004, DFDS, Torline
(Racc. pag. I–1417, punto 40), e del 16 luglio 2009, Zuid–Chemie (C–189/08,
punto 24).
2 0 1 2
129
sciando al ricorrente la scelta del foro più conveniente per i
suoi interessi. Tale soluzione salvaguarda l’efficacia nella
pratica della norma enunciata nella menzionata disposizione
e, al contempo, conferisce alla vittima del danno un potere
decisionale che, in tal modo, assicura la connessione tra il
foro ed i fatti rilevanti della controversia. La questione fon‑
damentale che dobbiamo esaminare nel caso presente consiste,
in definitiva, nel proiettare tale dottrina in situazioni in cui il
fatto generatore dell’asserito danno è realizzato per mezzo di
Internet. A tal fine si devono tuttavia aggiungere alcune ulte‑
riori considerazioni. Nell’ipotesi in cui il danneggiato subisce
la lesione al proprio patrimonio giuridico ed in particolare ai
propri diritti della personalità, in Stati diversi, la Corte di
giustizia ha introdotto un limite alla portata della competen‑
za del giudice adito3 . Con tale sentenza è stata introdotta la
cosiddetta regola del «principio del mosaico», secondo cui il
ricorrente può adire i giudici dello Stato di origine del danno
per far valere quest’ultimo interamente, oppure i giudici degli
Stati dove effettivamente si produce il danno, ma solo al fine
di far valere i danni sofferti sul territorio di questi ultimi.
La Corte del Lussemburgo si è pronunciata anche in tema
di danni prodotti attraverso l’utilizzo di internet. Nella causa
eDate Advertising y Martinez 4 , la Corte di giustizia ha statu‑
ito che, quando si ledono diritti della personalità su Internet,
la lesione presenta un carattere particolarmente grave a causa
dell’impatto geografico dell’informazione dannosa. Di conse‑
guenza, i criteri di collegamento enunciati nella sentenza
Shevill sono stati ampliati, sebbene limitatamente ai casi ri‑
guardanti le lesioni dei diritti della personalità. La sentenza
eDate e Martinez consente alla presunta vittima di far valere
la totalità dei danni subiti dinanzi ai giudici dello Stato in cui
essa possiede il proprio «centro di interessi».
Deve rilevarsi la Corte ha già precisato che il luogo in cui
il danno si concreta (locus commissi delicti) è quello in cui il
fatto implicante un’eventuale responsabilità da delitto o qua‑
si delitto ha causato un danno5.
3 CGCE 7 marzo 1995 Shevill (C–68/93, Racc. pag. I–415)
4 CGUE 25 ottobre 2011 (C–509/09 e C–161/10, non ancora pubblicata nella
Raccolta).
5 CGUE 16 luglio 2009, Zuid‑Chemie, C–189/08, Racc. pag. I–6917, punto 26, cit.
internazionale
Gazzetta
Questioni
[ A cura di Mariano Valente / Procuratore dello Stato ]
Costituisce ipotesi di “abuso del diritto” il ricorso a più precetti in caso di titolo esecutivo
rappresentato da un’unica sentenza di condanna a favore di più creditori rappresentati dal133
lo stesso difensore? / Anna Laura Magliulo e Mary Musto Può il pagamento con assegno postdatato rilevatosi sprovvisto di copertura finanziaria confi135
gurare il delitto di truffa? / Alfredo Capuano Quali poteri spettano al giudice nella valutazione dei fatti determinanti l’apertura del procedimento ex art 143, co.11, d. lgs. 267/2000? È procedibile l’azione di incandidabilità cui all’art 143,
comma 11, d. lgs. 267/2000, nell’ipotesi in cui, nelle more del procedimento, si siano già svolti
137
due turni elettorali? / Ida Sorrentino e Giuseppina Speranzini 139
questioni
Il ruolo dell’avvocato nel procedimento di mediazione / M. Michela Fusco F O R E N S E
●
DIRITTO processuale CIVILE
Costituisce ipotesi di “abuso
del diritto” il ricorso a più
precetti in caso di titolo
esecutivo rappresentato
da un’unica sentenza
di condanna a favore di
più creditori rappresentati
dallo stesso difensore?
● Anna Laura Magliulo
e Mary Musto
Dottoresse in Giurisprudenza
Il Tribunale di Napoli, sez. V bis, in
persona del giudice dott.ssa Cacace, con
la sentenza n. 678/20121, ha affrontato
la delicata e spinosa tematica concer‑
nente l’abuso del diritto pervenendo ad
una tanto innovativa quanto interessan‑
te conclusione.
Nel caso di specie, detto Tribunale
veniva adito per pronunciarsi su ventitre
atti di precetto, notificati ad un unico
debitore, sulla base di un medesimo tito‑
lo esecutivo (la sentenza resa dal Tribu‑
nale di Napoli, sez. lavoro, n. 25231 del
21.10.2009). Tali atti di precetto, inoltre,
facevano capo a distinti soggetti, tuttavia
patrocinati dallo stesso legale.
Il giudicante ha ritenuto che i precet‑
ti hanno avuto “il solo effetto di aggrava‑
re la posizione debitoria con una molti‑
plicazione delle spese e non hanno pro‑
dotto alcun effetto migliorativo in termi‑
ni di tutela delle ragioni della parte assi‑
stita”. Quest’ultima, infatti, avrebbe po‑
tuto ottenere il medesimo risultato, ossia
intimare la parte debitrice, con un unico
atto di precetto contenente la richiesta di
pagamento per ciascun istante.
Nella fattispecie in esame, pur non
trattandosi di “un unico credito” (ipo‑
tesi, quest’ultima nella quale non è
consentita la parcellizzazione in pluri‑
me domande, Cass. civile, sez. III, sen‑
1La massima della suddetta sentenza è pubblicata
nel presente numero all’interno della rassegna di
merito della sezione Diritto e procedura civile.
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 2
tenza 20.11.2009, n. 24539), la condot‑
ta posta in essere dal difensore istante è
stata comunque considerata scorretta.
In particolare, il Giudice ha ritenu‑
to, nel caso de quo, non dovute le som‑
me richieste dal difensore che ha notifi‑
cato più precetti (uno per ciascun assi‑
stito, anziché notificarne uno solo com‑
prensivo della somma dei crediti di
ciascuno di essi) aventi quale fonte un
unico titolo esecutivo che costituisce
condizione per l’intimazione di un unico
precetto. L’argomentazione seguita si
basa sulla considerazione che la richie‑
sta di frazionare una prestazione fonda‑
ta su un unico titolo provoca una “scis‑
sione del contenuto dell’obbligazione”,
che, realizzata dal creditore per sua
esclusiva utilità, conduce, unilateral‑
mente, ad una “modificazione peggio‑
rativa della posizione del debitore”.
Pertanto il Giudicante ha valutato la
condotta del difensore alla stregua dei
nuovi orientamenti legislativi e giurispru‑
denziali, fondati sulla centralità del prin‑
cipio del corretto uso del processo, il
quale mira a garantire il diritto di difesa
del cittadino, nonché le esigenze di eco‑
nomia processuale, in modo tale da non
adire inutilmente l’organizzazione della
giustizia con una moltiplicazione di pro‑
cedure che possono e devono essere
trattate simultaneamente.
In questi termini vanno, senza dub‑
bio, lette le disposizioni di cui all’art. 88
c.p.c., 111 Cost. e 151 disp. att. c.p.c.,
incentrate sul duplice obiettivo della
“ragionevolezza della durata e “giustez‑
za” del procedimento e menzionate dal
medesimo in sentenza.
Qualora, invece, l’azione venisse
esercitata in forme eccedenti o devianti
rispetto alla tutela dell’interesse sostan‑
ziale attribuito, si perverrebbe ad un’ipo‑
tesi di abuso da parte del titolare della
potestas agendi.
Aggiungasi che, ad avviso del Giudi‑
ce, il difensore istante è incorso, altresì,
nella violazione dell’art. 49 del Codice
Deontologico Forense, secondo il quale:
“L’avvocato non deve aggravare con
onerose e plurime iniziative giudiziali la
situazione debitoria della controparte
quando ciò non corrisponda ad una ef‑
fettiva ragione di tutela della parte assi‑
stita”, nonché dei principi cardine del
nostro ordinamento giuridico, quali
quelli di buona fede e correttezza, rispet‑
tivamente disciplinati dagli artt. 1375 e
1175 c.c.
133
Infatti, la giurisprudenza ha eviden‑
ziato come la condotta del creditore
volta ad una utilità esclusivamente uni‑
laterale, aggravante la posizione debito‑
ria, si ponga certamente in contrasto sia
con il principio di correttezza e buona
fede (che deve improntare il rapporto tra
le parti non solo durante l’esecuzione del
contratto ma anche nell’eventuale fase
dell’azione giudiziale per ottenere l’adem‑
pimento), sia con il principio costituzio‑
nale del giusto processo di cui al citato
art. 111 Cost. Da qui emerge che la pro‑
posizione di plurime domande giudiziali,
dirette alla soddisfazione della pretesa
creditoria (come nell’ipotesi in esame), si
traduce in un abuso degli strumenti pro‑
cessuali che l’ordinamento offre alla
parte, nei limiti di una corretta tutela del
suo interesse sostanziale.
In particolare, nella fattispecie si è
configurato un comportamento illegit‑
timo e contrario ai suindicati principi.
Aggiungasi, rispetto a quanto dedotto
dall’Organo giudicante, che nella specie
è ravvisabile certamente anche un ingiu‑
stificato arricchimento nei confronti
della parte debitoria. Infatti, a fronte
della moltiplicazione di precetti, deri‑
vanti da un unico titolo esecutivo, il
creditore procedente ha moltiplicato per
ben ventitre volte le voci tariffarie che
avrebbero dovuto essere contenute in un
unico atto.
L’abuso del diritto viene tradizional‑
mente definito come un’utilizzazione
alterata dello schema del diritto, volta al
perseguimento di obiettivi ulteriori e
diversi rispetto a quelli previsti dal legi‑
slatore.
L’accostamento del termine “abuso”
a quello di “diritto” appare un ossimoro:
ci si potrebbe chiedere come possa com‑
piersi un illecito se si esercita un proprio
diritto? Per meglio comprendere questa
(solo) apparente contraddittorietà, è op‑
portuno, preliminarmente, delineare le
origini del principio di abuso del diritto,
in modo tale da contestualizzarne la re‑
lativa portata applicativa.
L’istituto in questione nasce paralle‑
lamente all’affermarsi della cultura giu‑
snaturalistica ed illuministica, volta a
rivendicare i diritti soggettivi del singolo,
in modo coerente con quanto previsto
dall’antico brocardo latino “qui iure suo
utitur neminem laedit”. Ben presto,
tuttavia, si ravvisò che l’attribuzione
piena ed assoluta dei diritti potesse sfo‑
ciare in possibili abusi degli stessi: l’eser‑
questioni
Gazzetta
134
cizio di diritti individuali, integranti
prerogative private, poteva comportare,
allo stesso tempo, la commissione di atti
illeciti. Pertanto, per fronteggiare tale
evenienza ci si rese conto della necessità
di porre un limite all’indiscriminato
esercizio dei diritti.
I primi dibattiti sulla categoria
dell’abuso del diritto si sono avuti nell’800,
in Francia, a seguito dell’emanazione del
Code Napoleon che aveva esaltato il di‑
ritto di proprietà, e in Germania, ove il §
226 BGB stabiliva che l’esercizio di un
diritto fosse inammissibile se avesse, qua‑
le unico scopo, quello di arrecare danno
ad un altro soggetto (Bocchini F.,
“L’abuso del Diritto”, in Gazzetta Fo‑
rense, Luglio‑Agosto 2008, p. 13). Per
quanto concerne l’esperienza codicistica
italiana, invece, né il Codice del 1865, né
quello entrato in vigore nel 1942, hanno
previsto una disposizione generale relati‑
va all’abuso, sebbene un’ipotesi di tal
fatta fosse stata prospettata nel progetto
del Codice italo‑francese sulle obbligazio‑
ni e nello stesso progetto del Codice at‑
tualmente in vigore. In particolare,
quest’ultimo all’art. 7, enfaticamente pro‑
clamava che “nessuno può esercitare il
proprio diritto in contrasto con lo scopo
per il quale il diritto medesimo gli è stato
riconosciuto” (Romano S., Abuso del
diritto, Milano 1958, p. 166 ss.).
Pur non essendo rintracciabile alcuno
standard che riconosca esplicitamente
diritto di cittadinanza ad un criterio ge‑
nerale di repressione dei comportamenti
fraudolenti o scorretti, tuttavia sono nu‑
merosissimi gli istituti dell’attuale sistema
codicistico che condividono la logica
ispiratrice dell’istituto in esame.
Tra le norme in cui si ravvisa, seppure
implicitamente, un richiamo al principio
generale dell’abuso del diritto, si annove‑
rano: l’art. 1059, comma 2, c.c., il quale
impone al comproprietario, che indivi‑
dualmente abbia concesso una servitù, di
non impedire l’esercizio della stessa;
l’art. 330 c.c., che prevede la decadenza
della potestà genitoriale quando il genito‑
re abusa dei relativi poteri, con pregiudi‑
zio dei figli; l’art. 1015 c.c., in base al
quale l’usufrutto può cessare per l’abuso
che ne faccia l’usufruttuario alienando i
beni o deteriorandoli o lasciandoli andare
in perimento per mancanza di ordinarie
riparazioni, danneggiando così il proprie‑
tario; l’art. 2793 c.c., in base al quale se il
creditore abusa della cosa ricevuta in pe‑
gno può domandarne il sequestro;
q u e s t i o n i
l’art. 840, che prevede il divieto del pro‑
prietario del suolo di opporsi ad attività
di terzi che si svolgano a tale profondità
nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio
sovrastante che egli non abbia interesse
ad escludere.
Merita particolare attenzione, tutta‑
via, l’analisi dei rapporti intercorrenti tra
l’abuso del diritto e le disposizioni sancite
dall’art. 833 c.c., che vieta gli atti emula‑
tivi, e dagli artt. 1175 e 1375 c.c., relativi
alla clausola generale di buona fede e
correttezza.
L’art. 833 c.c., prevede che “il proprie‑
tario non può fare atti i quali non abbia‑
no altro scopo che quello di nuocere o
recare molestia ad altri”. La ratio della
norma deve individuarsi nella convinzio‑
ne che l’ordinamento giuridico accorda la
sua protezione soltanto agli atti finalizza‑
ti al raggiungimento di una precisa utilità
e non puramente motivati dal capriccio
del singolo.
Ai fini della integrazione della fatti‑
specie suindicata rilevano, sotto il profilo
soggettivo, la qualità di proprietario (seb‑
bene pacificamente si ritenga possibile
estendere l’ambito applicativo anche al
comproprietario, all’enfiteuta, al superfi‑
ciario, all’usufruttuario, all’usuario e al
titolare di una servitù) e la riconducibilità
dell’atto emulativo al dolo specifico del
responsabile, il quale agisce nell’esclusivo
scopo di nuocere o molestare i terzi, senza
un proprio reale vantaggio; sotto il profi‑
lo oggettivo, invece, la mancanza di
un’utilità di tipo economico o anche mo‑
rale per l’autore.
Dalla disamina della disposizione
appena menzionata si evince che, sia
nell’ipotesi dell’abuso del diritto, che in
quella contemplata dall’art. 833 c.c., vi è
da parte dell’avente diritto l’utilizzo dei
poteri e delle facoltà ad esso attribuite per
il perseguimento di un interesse differente
rispetto a quello per il quale gli sono stati
conferiti. A tal proposito, parte della
dottrina ha ritenuto che “l’abuso vive
dello scarto tra fattispecie normativa e
fatto concreto” (Così come sostenuto da
parte della dottrina, v. C. Restivo, Con‑
tributo ad una teoria dell’abuso del dirit‑
to, Milano, 2007, p. 83).
Altro ambito di operatività della cate‑
goria dell’abuso del diritto riscontrabile
nel Codice civile si ha in merito all’eserci‑
zio e alla gestione del credito, nonché
all’attuazione dei contratti. Va rilevato,
infatti, che tanto il creditore, quanto il
debitore, devono comportarsi secondo
Gazzetta
F O R E N S E
correttezza (art. 1175 c.c.), e che il con‑
tratto deve essere eseguito secondo buona
fede (art. 1375 c.c.).
L’obbligo di buona fede oggettiva o
correttezza costituisce un autonomo do‑
vere giuridico, espressione di un generale
principio di solidarietà sociale, la cui
costituzionalizzazione è ormai pacifica.
Il principio, infatti, deve essere inteso
come una specificazione degli “inderoga‑
bili doveri di solidarietà sociale” imposti
dall’art. 2 della Costituzione. Aggiungasi
che la sua rilevanza si esplica nell’impor‑
re, a ciascuna delle parti del rapporto
obbligatorio, il dovere di agire in modo
da preservare gli interessi dell’altra, a
prescindere dall’esistenza di specifici ob‑
blighi contrattuali o di quanto espressa‑
mente stabilito da singole norme di legge.
Pertanto, disporre di un potere non è
condizione sufficiente di un suo legittimo
esercizio se, nella situazione data, la pa‑
tologia del rapporto può essere superata
facendo ricorso a rimedi che incidono
sugli interessi contrapposti in modo più
proporzionato (Ex multis, Cass. civ.,
15.02.2007, n. 3462).
Sulla base di quanto sinora esposto,
ne deriva che il criterio in base al quale è
possibile riscontrare la violazione dell’ob‑
bligo di buona fede oggettiva è quello
dell’abuso del diritto. In questa prospetti‑
va, i due principi si integrano a vicenda,
costituendo la buona fede un canone ge‑
nerale cui ancorare la condotta delle
parti, e l’abuso, uno strumento che con‑
senta di misurare l’eventuale travalica‑
mento dei confini del diritto.
Dottrina e giurisprudenza sono una‑
nime nell’individuare quali elementi costi‑
tutivi dell’abuso i seguenti requisiti: tito‑
larità di un diritto soggettivo; plurime
modalità di esercizio concreto del diritto;
travalicamento della cornice attributiva
del diritto; sproporzione ingiustificata tra
il beneficio del titolare del diritto e il sa‑
crificio cui è soggetta la controparte.
Pertanto, ogni qual volta la concreta
attuazione del potere conferito non risul‑
ta rispondente alla portata del medesimo,
vi sarà abuso.
A completamento di quanto ora espo‑
sto, giova osservare che con una recente
sentenza (n. 20106/2009), la Cassazione
civile, ha statuito che: “È consentito al
Giudice di merito sindacare e dichiarare
inefficaci gli atti compiuti in violazione
del divieto di abuso del diritto, oppure
condannare colui il quale ha abusato del
proprio diritto al risarcimento del danno
F O R E N S E
in favore della controparte contrattuale,
a prescindere dall’esistenza di una spe‑
cifica volontà di nuocere, senza che ciò
costituisca una ingerenza nelle scelte
economiche dell’individuo, giacché ciò
che è censurato in tal caso non è l’atto
di autonomia negoziale, ma l’abuso di
esso”.
Il breve excursus esemplificativo
mette in luce come il principio dell’abuso
del diritto rappresenti, ormai, un ulterio‑
re criterio di valutazione dei rapporti
negoziali e delle condotte che, nell’ambi‑
to della formazione ed esecuzione degli
stessi, le parti contrattuali devono adot‑
tare.
Sulla base di quanto sin qui argo‑
mentato si evince che nel nostro ordina‑
mento giuridico, caratterizzato dall’as‑
senza di una norma ad hoc in materia di
abuso del diritto, si tende a colmare tale
lacuna mediante il richiamo a fattispecie
che, solo implicitamente, riprendono
detto principio.
A ben vedere, una simile soluzione
non risulta del tutto appropriata a supe‑
rare l’inevitabile vuoto legislativo che
deriva dalla mancata positivizzazione di
un principio cardine, quale quello in
esame. Quest’ultimo, a causa del silenzio
del legislatore, può prestarsi indubbia‑
mente ad applicazioni incerte.
In realtà, l’inerzia sul punto risulta
motivata sul principio della certezza del
diritto ispiratore del Codice civile del
1942. Infatti, secondo l’impostazione
codicistica del tempo, l’introduzione di
una specifica norma avrebbe, indubbia‑
mente, comportato una incrinatura del
principio della certezza del diritto data
la grande latitudine di potere che una
clausola generale, come quella dell’abuso
del diritto, potrebbe attribuire al giudice
(Giorgianni M., L’abuso del diritto
nella teoria della norma giuridica, Mi‑
lano 1963, p. 5 ss.). Quest’ultimo, inevi‑
tabilmente, si troverebbe ad adottare
decisioni giudiziali variabili caso per
caso, e tendenzialmente soggettive.
Consentire l’ingresso nell’ordina‑
mento giuridico di un principio che at‑
tualmente si atteggia come valore mera‑
mente etico‑morale, fornirebbe, invece,
un valido deterrente per tutte quelle
condotte che si traducono in un abuso
del diritto. In altri termini, la cristalliz‑
zazione della figura de quo recherebbe
con sé il pericolo di conferire al giudice
un ampio potere discrezionale nell’indi‑
viduazione dell’area dell’esercizio nor‑
m a r z o • a p r i l e
135
2 0 1 2
male dei diritti e delle posizioni giuridi‑
camente rilevanti.
Al contrario, la mancata statuizione
della stessa, comporterebbe in capo al
giudicante l’oneroso compito di effettua‑
re, di volta in volta, un bilanciamento tra
due valori fondamentali: da un lato, l’uso
corretto delle situazioni giuridiche secon‑
do la funzione alle stesse assegnate
dall’ordinamento; dall’altro, la certezza
del diritto con il connesso corollario
della prevedibilità degli atteggiamenti
giudiziari (Patti S., Abuso del diritto, p.
2; Sacco R., L’esercizio e l’abuso del
diritto, p. 319; Pannarale L., L’abuso
del diritto visto dai giudici, in «Sociolo‑
gia del diritto», 2001.).
È chiaro che si perviene a soluzioni
opposte a seconda che si privilegi l’esi‑
genza di certezza del diritto, ovvero la
necessità di adeguare il dato positivo ai
nuovi valori emergenti nella coscienza
collettiva (e, tra questi, al principio di
solidarietà sociale – art. 2 Cost. – e della
funzione sociale della proprietà – art. 41
Cost. ‑) volti ad assicurare una idonea
riparazione ai danni sofferti dalla vitti‑
ma di un uso abusivo del diritto.
Infatti, se si ritiene che il compito
dell’ordinamento giuridico debba essere,
esclusivamente, quello di assicurare il libe‑
ro godimento dei diritti individuali, è in‑
dubbio che l’eventuale stigmatizzazione
della figura potrebbe essere considerata
come una pericolosa intrusione nell’ambi‑
to delle libertà che l’ordinamento garanti‑
sce ai singoli tramite la legge generale e
astratta. Invece, ampliando la portata di
tale compito, si perviene all’osservazione
secondo cui l’esercizio dei diritti soggettivi
non può risolversi nella sfera egoistica del
titolare, ma deve inserirsi armoniosamen‑
te nella rete degli interessi perseguiti dalla
comunità nel suo complesso, ed emergen‑
ti dalla “coscienza sociale”.
A ben vedere, il timore di sfociare in
una discrezionalità incontrollabile del
Giudicante appare ingiustificato se si
tiene conto che già sussistono nel nostro
ordinamento altre forme di discreziona‑
lità giudiziale comunemente tollerate
dallo stesso. Pertanto, la positivizzazio‑
ne dell’abuso del diritto può rappresen‑
tare null’altro che un’ulteriore opportu‑
nità conferita ai giuristi al fine di esple‑
tare le proprie funzioni.
Per tali ragioni, sarebbe auspicabile
un intervento del legislatore volto a sup‑
plire al vuoto normativo riscontrabile in
tale ambito.
●
DIRITTO PROCESSUALE penale
Può il pagamento con assegno
postdatato rilevatosi sprovvisto
di copertura finanziaria
configurare il delitto di truffa?
● Alfredo Capuano
Dottore in Giurisprudenza
L’art. 640 c.p. punisce chiunque,
mediante artifizi e raggiri, inducendo
taluno in errore, procura a sé o ad altri
un ingiusto profitto con l’altrui danno.
Ma è configurabile il delitto di truffa
allorquando sia emesso un assegno
postdatato rilevatosi successivamente
privo di provvista finanziaria?
Il bene giuridico tutelato dalla nor‑
ma di cui all’art. 640 c.p. è individuato
dalla dottrina e dalla giurisprudenza
prevalente nella tutela della persona
umana sotto il duplice profilo dell’ar‑
monica combinazione tra la libera for‑
mazione del consenso e l’interesse all’in‑
tegrità del patrimonio (Angelotti,
Delitti contro il patrimonio, in Trattato
dir. pen. E. Florian, Milano, 1936, 393;
Antolisei, Manuale di diritto penale,
Parte. spec., I, Milano, 2002, p. 355; La
Cute, Truffa (dir. vigente), in EdD.
XLV, Milano, 1992, p. 249; Marini,
Truffa (dir.pen.). NsD, XIX, 1973, p.
867; Mantovani, Diritto Penale, Par‑
te spec., Delitti contro il patrimonio,
Padova, 2002, 190. Di diverso segno
Pagliaro, Principi di diritto penale,
Parte spec., III, Delitti contro il patri‑
monio, Milano, 2003, p. 323 ss., secon‑
do il quale la norma de quo tutelerebbe
sia il patrimonio che la buona fede del‑
la vittima e la sua libertà di scegliere la
sua condotta secondo i motivi raziona‑
li. Di diverso segno Manzini, Trattato
di diritto penale italiano, IX, V ed.,
Torino, 1984, p. 166; Pedrazzi, In‑
ganno ed errore nei delitti contro il
patrimonio, Milano, 1955, p. 34 ss.;
questioni
Gazzetta
136
Cass. Pen., sez. V, 28 febbraio 1995,
n. 610, in Giust. pen. 1995, II, 661, i
quali propendono per la unicità del
bene tutelato che sarebbe individuabile
nel solo patrimonio. Di diverso segno,
ancora, De Marsico, Delitti contro il
patrimonio, Napoli, 1951, p. 133;
Manzini, Trattato di diritto penale
italiano, IX, Torino, 1984, p. 667;
Cass. Pen., sez. VI, 21 aprile 1978, Se‑
rafini, in Cass. pen. 1980, 1330; Id., 20
aprile 1983, Bruno, in Cass. pen. 1985,
394; Id., 27 ottobre 1986, Grimaldi, in
Cass. pen. 1988, 872, secondo i quali
la unicità del bene tutelato sarebbe da
individuare nella libertà del consenso e
di tutela dell’interesse collettivo al libe‑
ro svolgersi delle contrattazioni, attri‑
buendogli in questo modo una rilevanza
pubblicistica. Secondo una pronuncia
isolata (Cass. Pen., sez. VI, 15 giugno
1982 , Cattano, in Giust.
pen. 1983, II,653), al contrario, nel
delitto di truffa il danno penale non
andrebbe identificato con quello civile
risarcibile e non costituirebbe una con‑
seguenza del reato, ma sarebbe insito
nel reato medesimo e, pertanto, ogni
qual volta viene colpito o menomato
il bene giuridico tutelato, ipso facto
viene leso anche l’interesse del soggetto
al godimento ed alla conservazione di
quel bene).
Fatta questa breve ricostruzione
necessaria in ordine al bene tutelato
dall’art. 640 c.p. preme affrontare nel
merito la questione al fine di delimitare
i limiti e confini della configurabilità
della ipotesi delittuosa nel caso di emis‑
sione di un assegno postdatato rilevato‑
si successivamente privo di provvista
finanziaria.
La Suprema Corte ha da sempre ri‑
tenuto non configurabile il delitto di
truffa allorquando l’elemento di artifi‑
zio o raggiro sia consistito nella mera
dazione di un assegno postdatato rile‑
vatosi successivamente privo di coper‑
tura finanziaria. Il pagamento con as‑
segno postdatato, ritiene la Suprema
Corte, non è elemento sufficiente a
trarre in inganno perché la postdatazio‑
ne è già di per sé indice di una mancan‑
za di copertura finanziaria del titolo
(Cass. Pen., sez. II, 10 dicembre 1986,
Bianco, in Giust. Pen. 1988, II, 57).
La questione non può però essere
liquidata così frettolosamente anche
considerando che l’assegno postdatato
non è già di per sé (sempre e comunque)
q u e s t i o n i
indice di una mancanza di copertura
finanziaria.
Nella prassi commerciale è frequen‑
te, per esempio, che un soggetto (garan‑
te) rilasci a garanzia di debiti di un
terzo propri assegni postdatati (con
data coincidente con quella del debito
garantito); in questi casi la postdatazio‑
ne non è affatto sintomo di mancanza
di copertura finanziaria del titolo rila‑
sciato ma, al contrario, è mezzo di ga‑
ranzia che il creditore potrà far valere
solo a quella scadenza ed a condizione
che il debitore originario (il garantito)
sia inadempiente. La postdatazio‑
ne dell’assegno, inoltre, non comporta
la nullità del titolo, ma solo del relativo
patto per contrarietà a norme imperati‑
ve, poste a tutela della buona fede e
della regolare circolazione dei titoli di
credito, consentendo al creditore di
esigere immediatamente il pagamento,
anche se l’assegno non può, tuttavia,
valere come titolo esecutivo, dovendosi
considerare con bollo irregolare, senza
che abbia, a tal fine, rilievo la successi‑
va eventuale regolarizzazione fiscale
(C as s . C iv., s ez . III , 03 m a r zo
2010, n. 5069, Mattioli C. Mattioli, in
Red. Giust. civ. Mass. 2010, 3. In senso
contrario Cass. Civ., 31 gennaio 2006,
n. 2160; Id., 25 maggio 2001, n. 7135).
Di certo, quindi, la postdatazione non
è elemento sufficiente ma, unitamente
ad altri elementi, può certamente con‑
correre ad integrare la materialità del
delitto di truffa.
Ai fini della configurabilità del de‑
litto occorre perciò un’ulteriore com‑
portamento idoneo a far sorgere un ra‑
gionevole affidamento sul pagamento
dell’assegno dunque idoneo ad indurre
la vittima in errore circa la volontà del
traente ad adempiere alla sua obbliga‑
zione e della futura copertura dell’asse‑
gno. Al riguardo, di recente, la Suprema
Corte ha avuto modo di affrontare nuo‑
vamente il tema ed ha ribadito il princi‑
pio di diritto secondo il quale configura
il delitto di truffa la condotta di conse‑
gnare in pagamento, all’esito di una
transazione commerciale, un assegno di
conto corrente bancario postdatato
contestualmente fornendo al prenditore
rassicurazioni circa la disponibilità fu‑
tura della necessaria provvista finanzia‑
ria (Cass. Pen., sez. II, 18 giugno 2010,
n. 28752; Id., n. 6256 del 1987).
La truffa, infatti, è una fattispecie a
cooperazione artificiosa in quanto è la
Gazzetta
F O R E N S E
stessa vittima del reato a porre in essere
l’azione dispositiva dannosa per il patri‑
monio a seguito dell’errore provocato
dalla condotta ingannatoria del sogget‑
to attivo (in tal senso vedi E. Dolic‑
ni – G. Marinucci, Codice Penale
Commentato, II, sub. art. 640 c.p., p.
4603). Gli artifizi ed i raggiri, lo stato
di errore, l’atto di disposizione patrimo‑
niale, il danno ed il profitto costituisco‑
no una complessiva serie causale che
necessita di accertamento (Pedrazzi,
Inganno ed errore nei delitti contro il
patrimonio, 1955, p. 63; Zannotti, La
truffa, 1993, p. 10). La giurisprudenza
di legittimità evidenzia che l’idoneità
dell’artificio e del raggiro deve essere
valutata in concreto, ossia con riferi‑
mento diretto alla particolare situazio‑
ne in cui è avvenuto il fatto ed alle
modalità esecutive dello stesso e che
l’emissione di un assegno a vuoto in
pagamento di merce costituisce raggiro
idoneo ai fini della truffa allorché la
consegna in pagamento dell’assegno sia
fatta assicurandone esplicitamente la
copertura (Cass. Pen., sez. II, 26 febbra‑
io 1975, n. 6662; Id., sez. II, 17 novem‑
bre 1972, n. 4592).
Ma a questo punto, vista la natura
della fattispecie a cooperazione artifi‑
ciosa ed il bene giuridico tutelato
dall’art. 640 c.p., occorre chiedersi
quale rilievo assume una eventuale
mancanza di diligenza in capo al pren‑
ditore del titolo postdatato? Al riguar‑
do, può considerarsi l’ipotesi in cui il
prenditore, con la necessaria diligenza,
avrebbero potuto accorgersi dell’artifi‑
zio o del raggiro.
Secondo un orientamento dottrina‑
le minoritario, che non ha avuto ad
oggi seguito nella giurisprudenza di le‑
gittimità, il difetto di diligenza in capo
alla persona offesa assume valore pri‑
mario nella struttura dell’art. 640 cit.
al tal punto da rendere necessaria una
verifica della stessa in mancanza della
quale si dovrebbe parlare di “autore‑
sponsabilità” (Fiandaca‑Musco, Par‑
te Speciale, II, p. 169; Corte di Appello
di Milano, 24 marzo 1995, Magoni, in
Giust. Pen., 1995, 3836).
L’orientamento prevalente, al con‑
trario, ritiene del tutto irrilevante l’even‑
tuale negligenza del soggetto passivo
nell’accertare circostanze, che se cono‑
sciute impiegando la dovuta diligenza,
avrebbero potuto svelare l’artifizio od il
raggiro (Cass. Pen., 26 aprile 1993,
F O R E N S E
n. 40011; Id., 11 luglio 1990, Ricci, in
Rivista Pen. 1991, 383. In dottrina ex
multis Manzini, Trattato di diritto
penale, IX, 708). D’altronde, è costante
il principio di legittimità secondo il
quale, qualora sia stato accertato il
nesso di causalità tra l’artificio ed il
raggiro e l’altrui induzione in errore,
non è necessario verificare l’idoneità in
astratto dei mezzi usati quando in con‑
creto questi si sono rivelati idonei a
trarre in errore (Cass. Pen., sez. V, 7
ottobre 1999, n. 11441; Id., sez. I, 7
dicembre 1990, n. 16264; Id., sez. II, 27
febbraio 1990, Casella, in Giust.
pen. 1991, II, 239; Id., sez. II, 26 agosto
1974, n. 5673).
●
DIRITTO AMMINISTRATIVO
Quali poteri spettano al giudice
nella valutazione dei fatti
determinanti l’apertura del
procedimento ex art 143, co.11,
d. lgs. 267/2000? È procedibile
l’azione di incandidabilità cui
all’art 143, comma 11, d. lgs.
267/2000, nell’ipotesi in cui,
nelle more del procedimento,
si siano già svolti due turni
elettorali?
● Ida Sorrentino e
Giuseppina Speranzini
Dottoresse in Giurisprudenza
La sentenza n. 2 del 26.02.2012 del
Tribunale di Nola, sez. civ. I, rappresenta
un utile spunto giurisprudenziale dal qua‑
le muovere per interrogarsi sui poteri
spettanti al giudice nella valutazione dei
fatti rilevanti per la dichiarazione di incan‑
didabilità ex art. 143, comma11, D.lgs.
267/2000 (c.d. T.U.E.L., così come rifor‑
mulato dall’art. 2, comma 30, L.
15.07.2009 n. 94) e sull’operatività del
medesimo comma dell’articolo cit. nell’ipo‑
tesi in cui, nelle more dei gradi di giudizio,
si siano già svolti diversi turni elettorali.
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 2
Come è noto, l’art. 143, comma 11,
D.lgs. 267/2000 disciplina la misura
preventiva dell’incandidabilità, per il
primo turno successivo allo scioglimento
del consiglio comunale, nei confronti
degli amministratori locali che con le
loro condotte abbiano determinato lo
scioglimento del consiglio dell’ente loca‑
le, prevedendo all’uopo che tali soggetti
non possano essere candidati nel primo
turno elettorale successivo allo sciogli‑
mento, nelle elezioni per il rinnovo dei
consigli regionali, provinciali, comunali
e circoscrizionali che si svolgono nella
regione in cui si trova l’ente in cui il con‑
siglio sia stato sciolto.
Si legge al comma 11 della norma
citata: “Fatta salva ogni altra misura
interdittiva ed accessoria eventualmente
prevista, gli amministratori responsabi‑
li delle condotte che hanno dato causa
allo scioglimento di cui al presente arti‑
colo non possono essere candidati alle
elezioni regionali, provinciali, comunali
e circoscrizionali, che si svolgono nella
regione nel cui territorio si trova l’ente
interessato dallo scioglimento, limitata‑
mente al primo turno elettorale succes‑
sivo allo scioglimento stesso, qualora la
loro incandidabilità sia dichiarata con
provvedimento definitivo. Ai fini della
dichiarazione d’incandidabilità il Mini‑
stro dell’Interno invia senza ritardo la
proposta di scioglimento di cui al com‑
ma 4 al tribunale competente per terri‑
torio, che valuta la sussistenza degli
elementi di cui al comma 1 con riferi‑
mento agli amministratori indicati nella
proposta stessa. Si applicano, in quanto
compatibili, le procedure di cui al libro
IV, titolo II, capo VI, del codice di pro‑
cedura civile.”
Con tale previsione normativa il legi‑
slatore ha voluto disporre una tutela
avanzata dell’ordine democratico, della
libertà e trasparenza dell’Amministrazio‑
ne che, soprattutto nelle Regioni ad alta
incidenza di criminalità organizzata, è
valore costituzionale e democratico che
non può recedere di fronte al diritto di
partecipazione attiva, mediante l’esplica‑
zione dell’elettorato passivo da parte del
singolo. Tale tutela si attiva a garanzia
della vita dell’Amministrazione, e quindi
di tutti i consociati, ma anche paradossal‑
mente del singolo cittadino medesimo che,
suo malgrado, può risultare permeabile,
pur senza commettere alcun reato, alla
patologia sociale ravvisabile in un deter‑
minato contesto storico‑ambientale.
137
Trattasi di norma giovane della qua‑
le si rinvengono poche applicazioni, tra
le quali le sentenze del Tribunale di Reg‑
gio Calabria n.474/2011 e del Tribunale
di Palmi n. 1/2011, che hanno dato il
loro valido contributo circa la delimita‑
zione dei poteri spettanti al Tribunale nel
procedimento di cui all’ art 143, co.11,
evidenziando la titolarità in capo al Tri‑
bunale, previa trasmissione degli atti da
parte del Ministero dell’Interno ex
art. 143 comma 11, di ampi poteri d’uf‑
ficio in ordine all’individuazione e alla
verifica dell’esistenza di elementi su col‑
legamenti diretti o indiretti degli ammi‑
nistratori con la criminalità organizzata,
ovvero su forme di condizionamento
degli stessi tali da compromettere l’im‑
parzialità delle Amministrazioni Comu‑
nali, il regolare funzionamento dei servi‑
zi, o la sicurezza pubblica.
Ai fini di una più ampia comprensio‑
ne della norma occorre preliminarmente
distinguere la misura di cui all’art. 143
da quella disciplinata dall’art. 58
T.U.E.L., in base al quale osta alla can‑
didabilità alle elezioni provinciali, comu‑
nali e circoscrizionali, degli amministra‑
tori pubblici “l’aver riportato una con‑
danna definitiva per il delitto di cui
all’art. 416 bis, c.p. e per gli altri delitti
indicati alle lettere a), b), c) e d) dell’ar‑
ticolo 58, T.U.E.L., nonché l’essere stati
destinatari, in forza di un provvedimen‑
to definitivo, di una misura di prevenzio‑
ne in relazione alla partecipazione ad
associazioni di carattere mafioso.”
Mentre la misura di cui all’art. 58 è
una vera e propria “sanzione definitiva
e a lungo termine”, conseguente all’ac‑
certamento di una responsabilità penale
per i delitti ivi indicati, che limita consi‑
derevolmente il diritto di elettorato pas‑
sivo, in quanto determina l’ineleggibilità
ed incandidabilità del soggetto sanziona‑
to senza limiti di tempo, l’incandidabili‑
tà di cui all’art. 143, comma 11, T.U.E.L.
è una “misura preventiva” che deve es‑
sere adottata senza ritardo, quindi tem‑
pestivamente, con un provvedimento
definitivo di carattere giurisdizionale
adottato con rito camerale, a seguito
della trasmissione al Tribunale compe‑
tente della proposta di scioglimento del
Consiglio Comunale avanzata dal Mini‑
stero dell’Interno (da cui parallelamente
ha luogo, con deliberazione del Consiglio
dei ministri entro tre mesi dalla trasmis‑
sione lo scioglimento dell’ente).
La proposta di scioglimento indican‑
questioni
Gazzetta
138
te in modo analitico le anomalie riscon‑
trate ed i provvedimenti necessari per
rimuovere tempestivamente gli effetti più
gravi e pregiudizievoli per l’interesse
pubblico, oltre gli amministratori ritenu‑
ti responsabili delle condotte che hanno
dato causa allo scioglimento, rappresen‑
ta il metro di valutazione del giudice nel
giudizio ex art. 143 che può concludersi
con la dichiarazione di incandidabilità
degli amministratori al primo turno
elettorale successivo allo scioglimento
nelle elezioni per il rinnovo dei consigli
regionali, provinciali, comunali e circo‑
scrizionali che si svolgono nella regione
del consiglio comunale sciolto.
Mentre la sanzione di cui all’art 58,
determinando l’ineleggibilità assoluta del
soggetto dichiarato responsabile per i
delitti indicati dalla norma, richiede
l’accertamento penale della imputabilità
dei fatti delittuosi al soggetto dichiarato
incapacità elettorale, la misura preventi‑
va di cui all’art 143 è correlata non a ti‑
toli di reato, bensì a condotte, in ipotesi
anche non contestate in sede penale, che
siano a fondamento della proposta di
scioglimento del consiglio dell’ente loca‑
le e risultino pertanto dalla proposta o
dalla relazione prefettizia eventualmente
richiamata dalla proposta.
In questo senso l’art. 143 svolgerebbe
una funzione di tutela immediata della
collettività oltre che dell’amministrazio‑
ne dell’ente locale, al fine di sottrarre la
gestione degli affari pubblici alle ingeren‑
ze della criminalità ove vi siano forti e
fondati sospetti di infiltrazioni camorri‑
stiche, laddove invece l’art. 58 assolve‑
rebbe ad una mera funzione sanzionato‑
ria nei riguardi dei soggetti responsabili
dei delitti ivi indicati.
Ciò posto, una prima questione di
particolare interesse, su cui si è pronun‑
ciata la citata sentenza del Tribunale di
Nola concerne l’estensione dei poteri
valutativi del giudice nel procedimento
ex art. 143.
Il Tribunale, nel valutare tutti i fatti
desumibili dalla relazione prefettizia e
dalla richiesta di scioglimento del Con‑
siglio, ivi compresi gli atti allegati, acqui‑
siti dai vari processi penali a carico degli
amministratori coinvolti, già conclusi
con sentenza passata in giudicato, evi‑
denzia, nell’individuare l’ambito di appli‑
cazione della norma, che il Tribunale nel
procedimento ex art 143 ha ampi “pote‑
ri ufficiosi”, di tipo valutativo, più che di
“accertamento inquisitorio in senso
q u e s t i o n i
stretto” in ordine alla verifica degli ele‑
menti di collegamento tra gli ammini‑
stratori facenti parte degli organi disciol‑
ti ed indicati nella nota ministeriale per
la pronuncia di incandidabilità e la cri‑
minalità organizzata, tenuto conto delle
forme di condizionamento che la stessa
possa aver esercitato sugli amministrato‑
ri, compromettendo o alterando l’impar‑
zialità amministrativa.
Si legge nella sentenza che “la verifica
giudiziale è correlata a condotte, in ipo‑
tesi anche non contestate in sede penale,
che tuttavia abbiano determinato lo
scioglimento del Consiglio…”. Secondo
il Tribunale l’organo giudicante ex art. 143
ha una competenza valutativa degli accer‑
tamenti già svolti dal Ministero dell’Inter‑
no, ambito entro il quale la valutazione va
perimetrata. In questo senso, secondo il
Tribunale, non è ammissibile un’ulteriore
attività istruttoria ufficiosa del giudice,
“sia perché secondo il dettato letterale
della disposizione in esame la misura de
qua è giustificata solo dai precisi fatti che
sono stati a fondamento della specifica
proposta di scioglimento, sia perché l’ul‑
teriore accertamento, anche se meramen‑
te acquisitivo, di risultanze di sopravve‑
nuti accertamenti, pur di altri sedi, ad es.
penale, snaturerebbe la finalità della
procedura improntata con il rito camera‑
le ad un processo sommario, immediato,
concentrato”.
Osserva altresì il giudicante che dal‑
la relazione devono emergere elementi di
fatto, ascrivibili precipuamente al sog‑
getto “in termini di responsabilità con‑
creta e significativi per l’analisi in esa‑
me.” In tal senso “l’ufficiosità del potere
valutativo del Tribunale è disancorata
da considerazioni di natura giuridica
penalistica, quindi da incasellature e
qualificazioni correlate o correlabili a
fattispecie di reato, ravvisandosi più la
prevalenza dell’equo e ponderato ap‑
prezzamento di fatti oggettivi…”.
Ancor più nello specifico, evidenzia
il Tribunale che gli esiti di un giudizio
penale o amministrativo non incidono
sul giudizio ex art 143 T.U.E.L. sicché il
Tribunale “dà una lettura autonoma dei
fatti”, anche di quelli emergenti dai so‑
praindicati giudizi e da quelli evidenzia‑
ti nella relazione.
Ciò significa che, a prescindere
dall’eventuale accertamento della re‑
sponsabilità penale dei soggetti destina‑
tari della proposta di incandidabilità e
dalla emissione del D.p.r. disponente lo
Gazzetta
F O R E N S E
scioglimento del Consiglio comunale, la
semplice proposta di scioglimento può
essere il parametro per valutare autono‑
mamente i fatti oggetto della stessa ap‑
prezzandoli sotto il profilo della altera‑
zione a sfondo criminoso dell’apparato
amministrativo locale.
In ciò la titolarità di un potere di
accertamento del giudice sciolto dalle
incombenze istruttorie del processo pe‑
nale troverebbe la sua ratio nell’esigenza,
nel procedimento ex art. 143, di valuta‑
zione meno rigorosa dei fatti rispetto al
giudizio penale, in quanto finalizzato
alla emissione in tempi rigorosamente
stretti della misura preventiva.
Nell’esercizio di siffatti poteri, nel
caso di specie, il Tribunale, ha rinvenuto
nell’amministrazione della Cosa Pubbli‑
ca rilevanti infiltrazioni camorristiche ex
art. 143, comma 5, T.U.E.L che denota‑
vano un’alta rete di contatti e esiti orga‑
nizzativi sostanziatesi in gestioni di atti‑
vità illecite, pertanto incidenti negativa‑
mente sull’esercizio della funzione am‑
ministrativa.
In particolare, la verifica giudiziale
del Tribunale di Nola ha messo in luce
una forte correlazione delle attività del
Comune a entità criminose infiltrate
nell’organizzazione pubblica, considera‑
ta l’alterazione della regolarità delle
procedure e la finalizzazione dell’operato
a favorire dette entità in diversi ambiti
organizzativi.
A prescindere dall’esito dei giudizi
penali, il giudice ha ritenuto rilevanti i
fatti desumibili dagli accertamenti svolti,
dai quali si ricavava che il Comune aveva
affidato diversi servizi e lavori pubblici,
a mezzo gare di appalto pilotate, ad im‑
prese tutte riconducibili ad un clan loca‑
le, pertanto gravate da forti controindi‑
cazioni antimafia, oltre ad aver tollerato
abusi edilizi intrapresi dal sodalizio ca‑
morristico e concesso aperture di com‑
merci in violazione della normativa di
legge, assunto parenti e persone apparte‑
nenti alla capo del clan.
Si legge pertanto nella sentenza che
“a parere del Tribunale i fatti sono sinto‑
matici in modo emblematico di un mo‑
dus operandi e vivendi improntato alla
generale vicinanza e convivenza con
ambienti della criminalità organizzata”.
In ordine alle condizioni di procedi‑
bilità dell’azione di cui all’art. 143, com‑
ma 11, T.U.E.L. la sentenza appare inte‑
ressante in quanto il Tribunale si è trova‑
to di fronte alla necessità di pronunciar‑
F O R E N S E
si sulla procedibilità dell’azione nell’ipo‑
tesi in cui si siano nelle more già svolti
due turni elettorali.
Difatti, in pendenza del giudizio di
impugnazione intrapreso avverso il D.p.r.
di scioglimento del Consiglio Comunale
innanzi al TAR Campania si erano svol‑
te le elezioni del Consiglio Regionale
della Campania, e successivamente, le
elezioni comunali, in pendenza del ricor‑
so per revocazione ex art. 395, n.4 c.p.c.
avverso la sentenza del Consiglio di Sta‑
to che confermava, con sentenza n. 5017
del 6/09/2011, lo scioglimento del Con‑
siglio Comunale.
La lettera della norma limita la possi‑
bilità di poter dichiarare l’incandidabilità
al solo “primo turno elettorale successivo
allo scioglimento, nelle elezioni per il
rinnovo dei consigli regionali, provincia‑
li, comunali e circoscrizionali che si svol‑
gono nella regione in cui si trova l’ente in
cui il consiglio sia stato sciolto”.
Ciò nonostante, il Tribunale ha riget‑
tato l’eccezione di improcedibilità con‑
fermando la proposta di incandidabilità
di alcuni degli esponenti del Consiglio
Comunale e disponendo che la misura
produca i suoi effetti per le elezioni suc‑
cessive all’emissione della sentenza.
Nell’applicare la norma al caso di
specie, il Tribunale, dichiarando gli am‑
ministratori “non candidabili nelle pros‑
sime elezioni regionali, provinciali, co‑
munali e circoscrizionali successive alla
presente pronuncia” appare aver seguito
un criterio interpretativo teleologico
piuttosto che letterale, guardando alla
ratio della norma come mezzo attraverso
il quale evitare un’alterazione della for‑
mazione di volontà degli organi elettivi
ed amministrativi tale da compromettere
il buon andamento ed imparzialità
dell’amministrazione pubblica.
Scelta, questa coerente con le premes‑
se assunte dal giudicante, atteso che “il
criterio di interpretazione teleologica,
può assumere rilievo prevalente rispetto
all’interpretazione letterale nel caso in
cui l’effetto giuridico risultante dalla
formulazione della disposizione di legge
sia incompatibile con il sistema norma‑
tivo” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 genna‑
io 2011, n. 124).
Il giudicante ha ritenuto irragionevo‑
le considerare improcedibile l’azione ex
art. 143 TUEL, qualora nelle more
dell’espletamento dello stesso, si svolga‑
no, di fatto, turnazioni elettorali, “tenu‑
to conto che nell’ambito dello stesso ri‑
MARZO • APRILE
139
2 0 1 2
corrono esigenze di acquisizione proba‑
toria e di instaurazione del contraddit‑
torio con i relativi tempi”, e potendo la
misura essere “riferita al turno elettora‑
le successivo alla pronuncia”.
Invero, pur essendo condivisibile
l’interpretazione teleologica della norma,
l’applicazione della misura preventiva
dell’incandidabilità, procrastinata all’esi‑
to della tempistica processuale, appare
vanificare la ratio medesima della nor‑
ma, che è quella cautelativa e preventiva,
intendendo la misura come modalità di
controllo immediato sulle candidature,
in una fase temporale circoscritta, imme‑
diatamente successiva alla proposta di
scioglimento del Consiglio.
Diversamente intesa, come avvenuto
nel caso di specie e, in contraddizione
con le premesse assunte, la norma avreb‑
be funzione sanzionatoria e non preven‑
tiva: l’applicazione della misura preven‑
tiva all’esito di diversi turni elettorali e di
diversi giudizi penali e amministrativi
collegati, finirebbe altresì, paradossal‑
mente, per fare apparire la misura ex
art.143, piuttosto che una misura caute‑
lare, una semplice sanzione, talora sussi‑
diaria a quella di cui all’art. 58, tutte le
volte in cui, conclusosi il processo pena‑
le con proscioglimento dai delitti indica‑
ti dall’art. 58, il nostro ordinamento
provveda a sanzionare in modo alterna‑
tivo gli amministratori collegati con la
criminalità organizzata.
In questo senso, o i tempi della giu‑
stizia dovrebbero essere rivalutati nuova‑
mente in senso sostanziale e non solo
formale, oppure la norma dovrebbe es‑
sere rivista nella parte in cui limita il
potere ministeriale a quello di mero inol‑
tro al Tribunale della proposta di sciogli‑
mento ai fini della dichiarazione di in‑
candidabilità, rinviando la definitiva
pronuncia di incandidabilità all’esito di
un giudizio connotato da tempi talora,
anzi spesso, lunghi e farraginosi.
In quest’ottica sarebbe auspicabile
una reformatio della norma tesa a rico‑
noscere in capo al Ministero dell’Interno
il potere di adottare la misura preventiva
del’incandidabilità, con immediata ese‑
cutorietà all’esito della relazione prefet‑
tizia e della contestuale proposta di
scioglimento del Consiglio.
Difatti la salvaguardia della ratio e le
finalità stesse della norma, la cui perse‑
cuzione rende chiara la differenza tra la
misura preventiva ex art. 143 dalla mi‑
sura sanzionatoria ex art. 58, non po‑
trebbero che essere garantite nell’imme‑
diatezza dello scioglimento del Consiglio
Comunale e pertanto la misura dell’in‑
candidabilità dovrebbe essere immedia‑
tamente disposta, eseguita e resa insu‑
scettibile di sospensione nel corso del
giudizio di impugnazione, venendo altri‑
menti meno la funzione stessa della
norma e consentendo che l’adozione
della misura e la sua conseguente effica‑
cia siano rinviate all’esito del giudizio
attraverso i suoi vari gradi, non coinci‑
denti con quelli politici previsti per lo
svolgimento dei turni elettorali.
●
osservatorio mediazione
Il ruolo dell’avvocato
nel procedimento di mediazione
● M. Michela Fusco
Avvocato
Con il Decreto Legislativo, n. 28 del
4 marzo 2010 (pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale del 5/03/2010 n. 53) si è intro‑
dotto nel nostro sistema giudiziario un
meccanismo di risoluzione alternativa
delle controversie civili e commerciali,
(ADR); esso è “la risposta italiana”
all’adeguamento richiesto a livello euro‑
peo attraverso la Direttiva Comunitaria
n. 2008/52/CE recepita dal Legislatore
con una Legge Delega al Governo: art. 60
L. 18 giugno 2009, n. 69. Purtroppo,
però, il Decr. Lgs. n. 28/2010 non ha
ancora trovato terreno fertile per gradual‑
mente radicalizzarsi nella cultura e modus
vivendi del cittadino medio italiano; da
più parti è stato (e tuttora continua ad
esserlo) criticato e avversato trovando il
suo più agguerrito, quanto tenace “nemi‑
co” proprio nella avvocatura italiana,
atteso che sin da subito i principali orga‑
nismi di rappresentanza hanno osteggiato
il Decr. Lgs, ritenendolo inadeguato al
sistema tutt’ora vigente e incapace di ga‑
rantire il raggiungimento di livelli massi‑
questioni
Gazzetta
140
mi di professionalità dei mediatori e di
imparzialità e terzietà degli Organismi
di Mediazione e Conciliazione. Si è ar‑
rivati a sostenere che con l’introduzione
del procedimento di mediazione la Giu‑
stizia Civile sarebbe finita (rectius: sa‑
rebbe stata gestita) nelle mani dei priva‑
ti, che di Essa ne avrebbero fatto solo e
unicamente un mezzo cinico e opportu‑
nistico di bieco guadagno: un modo
come un altro perché pochi potessero
vedere accrescere i propri profitti. Ma,
non è così! E’ indiscutibile che la nostra
tradizione giuridica ci è invidiata da più
parti, per cui è necessario del tempo
affinchè - attraverso una corretta, quan‑
to leale e capillare opera di conoscenza
e diffusione - si radichi nella nostra
mentalità la cultura della mediazione.
Può, dunque, apparire un paradosso ma
nel compimento di questa impresa tita‑
nica di educazione socio/giuridica/cul‑
turale un ruolo determinante è rivestito
proprio dall’avvocato, che in questo
preciso momento storico è, invece, il
nemico dichiarato numero uno! Nel
Decr. Lgs. n. 28/2010 e, precipuamente
al comma 3 dell’art. 4 è statuito che
l’avvocato all’atto del conferimento
dell’incarico deve (è tenuto a) informare
il proprio cliente/assistito della possibi‑
lità di potersi avvalere del procedimento
di mediazione, comprese le agevolazioni
fiscali previste e disciplinate dagli arti‑
coli 17 e 20 del Decreto sopracitato. Tra
l’altro, il difensore della parte ha il com‑
pito di informare il proprio assistito dei
casi in cui l’esperimento del procedimen‑
to di mediazione è – in virtù del comma
1 del successivo articolo 5 – obbligatorio
perché condizione di procedibilità della
eventuale e successiva domanda giudi‑
ziale. La presente informazione deve
essere data in modo chiaro e per iscritto,
con la conseguenza che in caso di viola‑
zione di tale obbligo da parte dell’avvo‑
cato il suo contratto con il cliente è
“annullabile”, (nell’eventualità di queste
ipotesi la mancata informazione può
essere sanata dal Giudice, che informa
la parte della possibilità di poter esperi‑
re il procedimento di mediazione, che
diventa passaggio necessario per quelle
materie per le quali ex art. 5 co. 1 è
prevista la obbligatorietà quale condi‑
zione di procedibilità del successivo ed
eventuale atto introduttivo del giudizio.
Lo scopo, quindi, è quello di rendere
salvo il contratto tra il cliente e l’avvo‑
cato), l’atto che contiene l’informazione,
q u e s t i o n i
poi, deve essere sottoscritto dall’assistito
e l’avvocato deve allegarlo all’atto intro‑
duttivo dell’eventuale giudizio; il legale,
pertanto, ha un ruolo fondamentale,
anzi in alcuni casi diventerà determinan‑
te per il buon esito di tutta la procedura,
ma perché questo avvenga è necessario
in primo luogo che egli gradualmente
abbandoni quell’atteggiamento di avver‑
sarialità che solitamente ha nel proces‑
so, per cedere il passo a un atteggiamen‑
to più morbido, fatto in prevalenza di
tatticismo diplomatico, dal momento
che egli con la mediazione non deve tu‑
telare i diritti dei propri assistiti, ma
deve proteggere i loro interessi. Preci‑
puamente, egli dovrà attivarsi per ga‑
rantire la presenza al tavolo della media‑
zione delle persone giuste, vale a dire di
coloro che hanno il potere di transigere
la controversia e una buona conoscenza
della stessa. In primo luogo,l’avvocato,
(qualora il proprio cliente decida di non
partecipare al procedimento o alla pri‑
ma sessione congiunta), dovrà munirsi
di appositi poteri di rappresentanza (cd.
procura ad hoc) anche se, giova eviden‑
ziare, nella mediazione la ripartizione
dei ruoli cliente-avvocato propria del
giudizio non è idonea a soddisfare nel
migliore dei modi gli interessi della par‑
te assistita; pertanto in sede di procedu‑
ra alternativa alla controversia (ADR) il
cliente e l’avvocato contribuiscono in
maniera interdipendente alla risoluzione
della lite: i clienti perché conoscono i
fatti e ogni sua sfumatura, comprese le
questioni di merito che hanno ingenera‑
to l’insorgere della controversia; l’avvo‑
cato, invece, è esperto conoscitore del
procedimento ex Decr. Lgs. n. 28/2010
e delle leggi che dovranno essere appli‑
cate al caso concreto. Sarà importante,
quindi, decidere prima che atteggiamen‑
to assumere nel corso della prima sessio‑
ne congiunta e quale invece tenere nel
corso di eventuali sessioni individuali.
E’ molto importante che l’avvocato
rammenti costantemente al proprio
cliente che tutto il procedimento di me‑
diazione è coperto dalla riservatezza e
segretezza, pertanto quello che viene
dichiarato e/o prodotto nel corso della
mediazione non potrà essere utilizzato
dalla controparte in un successivo even‑
tuale giudizio. Ecco perché è di fonda‑
mentale importanza che l’avvocato e il
suo assistito in anticipo, rispetto all’ini‑
zio del procedimento di mediazione,
stabiliscano quali informazioni divulga‑
Gazzetta
F O R E N S E
re nel corso delle sessioni congiunte e
quali, invece, vincolarle alla regola della
segretezza e riservatezza, (cd. confiden‑
zialità). Compito ulteriore del legale è
quello di fare arrivare in mediazione il
proprio cliente con la consapevolezza
che essa dovrà essere affrontata e gestita
in modo flessibile, non tralasciando di
considerare possibili soluzioni “creati‑
ve” e alternative della lite, ma senza per
questo perdere di vista i reali interessi
che attraverso la procedura di mediazio‑
ne devono essere garantiti e difesi. Per‑
ché tutto questo si possa realizzare è
importante che l’avvocato per primo
assista il proprio cliente con uno spirito
più collaborativo, nel senso che egli
dovrà evitare di alzare il tono della
voce, di usare un lessico aggressivo e di
enfatizzare la posizione del proprio
cliente. Perché la mediazione non falli‑
sca è consigliabile abbandonare strate‑
gie di difesa improntate al conflitto,
poiché un simile atteggiamento avrebbe
come conseguenza quella di provocare
la controparte, che ben potrebbe assu‑
mere analoghi comportamenti connota‑
ti di conflittualità massima. Come già
accennato, l’avvocato nel corso della
prima sessione congiunta può illustrare
gli aspetti giuridici della lite al fine,
anche per il tramite del mediatore, di
instaurare un dialogo con la contropar‑
te; la redazione, poi, di memorie illustra‑
tive/introduttive offre l’opportunità di
far conoscere al mediatore quali sono i
reali interessi del cliente e quali possono
essere gli eventuali ostacoli per la riso‑
luzione del conflitto. In ultima analisi è
indubbio che il ruolo dell’avvocato nella
mediazione è fondamentale o quanto
meno determinante per il buon esito
della procedura stragiudiziale instaura‑
ta. Non è, quindi, peregrina quella nota
proposta dell’allora Ministro della Giu‑
stizia (On.le A. Alfano), il quale nelle
fasi preliminari alla stesura del Decreto
Legislativo n. 28/2010 auspicava, in un
incontro con i rappresentanti nazionali
dell’avvocatura, che quest’ultima accet‑
tasse l’obbligatorietà della difesa tecnica
nei procedimenti di mediazione di valo‑
re pari ad euro 5.000/00 a salire; in
questo modo, tra l’altro, si potrebbe
garantire una sempre maggiore e capil‑
lare diffusione del procedimento di
mediazione indispensabile per contribu‑
ire a manlevare la Giustizia Civile dal
carico dei processi, i cui tempi di tratta‑
zione e definizione sono ormai biblici.
Recensioni
Verso un sistema generale di indennizzi per danni non illeciti.
Responsabilità da atto lecito dannoso, Carlo Buonauro,
Il diritto privato oggi (serie a cura di Paolo Cendon), Giuffrè editore, 2012 143
recensioni
A cura di Angela Libardi
F O R E N S E
●
Verso un sistema generale
di indennizzi per danni non
illeciti. Responsabilità da
atto lecito dannoso, Carlo
Buonauro, Il diritto privato
oggi (serie a cura di Paolo
Cendon), Giuffrè editore, 2012
● A cura di Angela Libardi
Avvocato
Il libro “Responsabilità da atto leci‑
to dannoso”del Giudice amministrativo
Carlo Buonauro, Giuffrè editore 2012,
offre una ampia trattazione del sistema
degli indennizzi da atto lecito dannoso
e rappresenta, per gli operatori del di‑
ritto, un utile strumento di riflessione
di un istituto che spesso si ritiene rin‑
chiuso in pochi e tipici casi.
Strutturalmente l’opera si compone
di:
‑ una prima parte nella quale l’autore
cerca di individuare i fondamenti
dell’istituto (responsabilità da atto
lecito) che ha incontrato non poche
critiche dalla dottrina: già sul piano
semantico‑definitorio ne veniva
contestata la contraddizione insita
in una formula che utilizza il termi‑
ne responsabilità in senso diame‑
tralmente opposto alla sua origina‑
ria ed attuale matrice semantica di
sanzione legata ad una violazione
di legge;
‑ e di una seconda parte dove, in ma‑
niera dettagliata, vengono analizza‑
te le ricadute della responsabilità da
atto lecito dannoso in quei settori
dell’ordinamento giuridico ove il
nocumento da atto lecito trova le
sue più significative applicazioni.
E si completa di guide bibliografiche
che introducono ogni capitolo, dando
conto sinteticamente degli argomenti
che verranno trattati, facilitando, in tal
modo, la lettura.
Sia consentito, in questo breve com‑
mento che qui si offre, citarne taluni
passi per meglio seguire l’Autore nel suo
ragionamento giuridico.
m a r z o • a p r i l e
2 0 1 2
I primi ostacoli ad una elaborazione
di un sistema generale di responsabilità
da atto lecito attraverso lo strumento
riparatorio dell’obbligazione indennita‑
ria del danneggiante si rinviene già
nella mancanza, sul piano del diritto
positivo, di una previsione dai contenu‑
ti atipici ed universali (alla stregua
dell’art. 2043 che, dopo le Sezioni Uni‑
te della Cassazione 22 luglio 1999
n. 500, è diventato la previsione cardine
del principio generale del neminem le‑
dere) e sul piano ricostruttivo, nella
difficoltà di sganciare il modello della
responsabilità giuridica dall’accertata
violazione di un parametro normativo
di riferimento.
Tradizionalmente si ricostruisce,
infatti, l’istituto della responsabilità da
atto lecito in termini negativi e differen‑
ziali rispetto al modello generale e pro‑
totipico dell’illecito: atto lecito, dunque,
che si contrappone all’illecito, ma che
analogamente a quest’ultimo produce
un danno ingiusto e perciò risarcibile.
La responsabilità per fatto lecito
comprende tutte quelle ipotesi normati‑
ve in cui è prevista la corresponsione di
provvidenze economiche al fine di ripa‑
rare, a mezzo di indennizzi, i pregiudizi
non riconducibili ad una attività illecita
e, come tali, sottratti alla tutela appre‑
stata dall’art. 2043 c.c.
Le ipotesi di responsabilità da atto
lecito, però, ad avviso dell’Autore, pro‑
prio in ragione dello specifico titolo
giuridico che le sorregge, non possono
dilatarsi fino a comprendere nel pro‑
prio genus qualsivoglia previsione nor‑
mativa che contempli forme di inden‑
nizzo correlate alla produzione di even‑
ti lesivi. Ed in vero laddove non ricorra
quella comune ratio di diretta perequa‑
zione tra chi ha conseguito un beneficio
e chi ha subito un pregiudizio in rela‑
zione ad una unitaria e correlata atti‑
vità non antigiuridica, non pare possa
proficuamente utilizzarsi il modello
della responsabilità da atto lecito, che
altrimenti verrebbe effettivamente a
perdere di ogni consistenza giuridica e
di autonomia concettuale, risolvendosi
nel mero dato contenutistico della cor‑
responsione di un indennizzo. In altri
termini, l’immediatezza del rapporto
beneficio‑sacrificio distingue l’obbligo
di indennizzo dalla discrezionalità con‑
nessa ad altre forme di trattamento
perequativo liberamente ed episodica‑
mente previste a livello legislativo.
143
L’istituto rinviene, infatti, la propria
matrice etica in una istanza di equità,
giustizia ed eguaglianza tra consociati,
ritenendosi contrario ad un innato sen‑
so di solidarietà sociale che, pur al di
fuori di condotte connotate da un coef‑
ficiente di antigiuridicità obiettiva, vi
possa essere un vantaggio per taluno o
della collettività a fronte di un altrui
danno. Per cui alla base delle previsioni
di obblighi indennitari quali conseguen‑
za di forme di responsabilità per atto
non illecito vi è un fondamento etico ed
equitativo, soddisfacendo, per tale verso
il principio di giustizia distributiva.
Partendo da queste premesse, l’ope‑
ra ha il preciso scopo di verificare se nel
nostro ordinamento vi siano le basi per
costruire un sistema completo ed atipico
della responsabilità da atto lecito (sulla
falsariga della responsabilità aquiliana)
e vi procede attraverso l’indagine delle
disposizioni normative che espressa‑
mente contemplano tale forma di tutela
nei diversi settori dell’Ordinamento
(civile, penale, amministrativo, costitu‑
zionale e comunitario).
Indagando anche sulla summa‑divi‑
sio tra diritti personali e diritti patrimo‑
niali, viene notato che in dottrina vi
sono opinioni nettamente contrastanti:
alcuni affermano che la mancata gene‑
ralizzazione della categoria della re‑
sponsabilità da atto lecito per la prote‑
zione dei diritti fondamentali si concre‑
tizzerebbe in un vulnus di tutela a
vantaggio dei soli diritti di matrice pa‑
trimoniale, altri, invece, sottolineano il
rischio che una tale opzione generaliz‑
zante, ancorché sorretta da motivate
argomentazioni dogmatiche, non trovi
effettiva applicazione, atteso che la
giurisprudenza (per citare un esempio)
non ha mai proceduto ad un’estensione
dell’applicazione dell’art. 46 L. 2359/
1865 (in base al quale di riconosce un
indennizzo ai proprietari dei fondi che
abbiano subito un pregiudizio) al di là
delle ipotesi di danno permanente alle
proprietà immobiliari dei privati. Tale
contraddizione sembra, tuttavia, in via
di composizione a seguito di alcune
pronunce della Corte Costituzionale
rese all’esito di giudizi di costituziona‑
lità aventi ad oggetto la legge sulla
vaccinazione obbligatoria antipolio (L.
51/1966) che hanno avviato un proces‑
so idoneo a superare una contraddizio‑
ne in apparenza presente nelle stesse
norme della Costituzione, le quali, men‑
recensioni
Gazzetta
144
tre prevedono che il sacrificio a titolo
particolare di alcuni diritti patrimonia‑
li debba sempre essere indennizzato,
uguale garanzia non accordano ai dirit‑
ti fondamentali non patrimoniali.
Per quanto riguarda i diritti patri‑
moniali, infatti, vi è una maggiore vo‑
lontà del legislatore per una generaliz‑
zazione dell’ istituto visto che l’adden‑
tellato normativo da cui prendere le
mosse si rinviene già negli art. 3 e 42,
comma 3, Cost.: una Grundnorm che
fornisce all’interprete una generalizzata
copertura costituzionale alla cd. respon‑
sabilità per atti leciti, attraverso la pre‑
visione di un indennizzo a favore di chi
abbia subito una (legittima) espropria‑
zione per motivi di interesse generale.
Il motivo di tale ricostruzione è fa‑
cilmente intuibile: se il modello norma‑
tivo della responsabilità da atti leciti è
ricostruibile in termini di istituto di
teoria generale del diritto in ragione
della sostanziale identità di struttura e
funzione delle diverse fattispecie ad
esso rapportabili, esso trova una fre‑
quente applicazione nel diritto pubbli‑
co con riferimento ai moduli di azione
dei pubblici poteri e degli apparati am‑
ministrativi, attesa la naturale attitudi‑
ne dell’atto amministrativo a sacrifica‑
re (e dunque ad arrecare indubbio pre‑
giudizio) la sfera giuridico‑economica
dei consociati con conseguente rifusio‑
ne di un indennizzo previsto dalla
norma legislativa che ha la funzione di
riparare il pregiudizio ma non necessa‑
riamente in maniera totale(dal sacrifi‑
cio del singolo a vantaggio della collet‑
tività non nasce una obbligazione risar‑
citoria in senso tecnico ma un obbligo
indennitario come fondamento del
principio di giustizia distributiva).
L’indennità di espropriazione è la
materia che maggiormente ha interessa‑
to il legislatore e la giurisprudenza al
fine di trovare la giusta misura per
compensare vantaggi della collettività e
r e c e n s i o n i
riparare adeguatamente sacrifici dei
privati: il pagamento dell’indennizzo
costituisce, oggi, una condizione di le‑
gittimità del decreto di esproprio ex
art. 42, comma 3, Cost. ed, infatti,
l’art. 8 T.U. espropri, stabilisce che
prima di emanare il decreto di espro‑
prio, cioè l’atto che estingue la proprie‑
tà privata, occorre quantificare ed of‑
frire al privato l’indennità a compensa‑
zione della vicenda di sottrazione.
Questo è solo uno dei problemi che
l’autore affronta nel capitolo sesto dedi‑
cato alla responsabilità da atto lecito
dannoso ed attività amministrativa
dove vengono anche ampiamente trat‑
tate problematiche che qui, per esigenza
di brevità, ci limitiamo solo a citare: il
diritto all’indennizzo da diversa valuta‑
zione dell’interesse pubblico nella disci‑
plina degli appalti, nel recesso da accor‑
di partecipativi e da revoca provvedi‑
mentale, la quantificazione dell’inden‑
nità da asservimento, indennizzi per
disfunzioni procedimentali ed ineffi‑
cienze della P.A.
Il modello legislativo della respon‑
sabilità da atto lecito rinviene poi nu‑
merose applicazioni nel campo del di‑
ritto civile: nel sistema dei diritti reali,
in primis, dove in considerazione della
frequente evenienza che l’attività con‑
nessa allo sfruttamento della proprietà
si risolva in un non equo svantaggio per
un altro proprietario, pure al di fuori di
condotte stricto sensu illecite (le fatti‑
specie di cui agli artt. 922 c.c., 1327 c.c.
sono solo alcune di cui l’autore si occu‑
pa nel libro); ma anche nell’ambito
della disciplina contrattuale e, segnata‑
mente, delle dichiarazioni negoziali
quali gli istituti della revoca della pro‑
posta contrattuale, del mandato e del
recesso dal contratto di appalto sono
significative applicazioni del principio
della cd. responsabilità da atto lecito
dannoso, ma anche all’interno del titolo
IX del libro quarto del codice civile
Gazzetta
F O R E N S E
“Dei fatti illeciti” si rinviene una orga‑
nica utilizzazione del modello di alloca‑
zione dei danni improntato sullo sche‑
ma della responsabilità da fatto lecito.
Leggendo il libro ci rendiamo davve‑
ro conto che la tematica della responsa‑
bilità da atto lecito taglia trasversalmen‑
te tutte le branche del diritto ed addirit‑
tura anche il campo del diritto costitu‑
zionale ed in particolare viene ad essere
interessato quello che precipuamente
attiene alla produzione legislativa.
L’autore analizza esaustivamente
tutti i problemi che possono derivare al
singolo che riceve un danno da esercizio
della funzione legislativa o dal mancato
o tardivo recepimento da parte del legi‑
slatore delle direttive non immediata‑
mente esecutive, commentando ampia‑
mente la “monumentale sentenza” delle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione
del 17 maggio 2011, n.10813.
Nel campo del diritto penale la tu‑
tela indennitaria si rinviene nelle norme
che prevedono la corresponsione di in‑
dennizzi come riparazione dei pregiudi‑
zi subiti dai privati in seguito ad errori
giudiziari o ad una eccessiva durata del
processo.
Il criterio seguito dalla legge è anche
in questo campo diretto ad escludere
una tutela obbligata di tipo risarcitorio
e risponde ad una precisa finalità: “se il
legislatore avesse costruito la riparazio‑
ne dell’errore giudiziario, o dell’ingiu‑
sta detenzione, come risarcimento dei
danni avrebbe dovuto richiedere, come
coerenza sistematica, che il danneggia‑
to fornisse non solo la dimostrazione
dell’ esistenza dell’ elemento soggetti‑
vo, fondante la responsabilità per colpa
o per dolo, nelle persone che hanno
agito, ma anche la prova dell’ entità dei
danni subiti”.
L’opera si inserisce in una collana
“Il diritto privato oggi” a cura di Paolo
Cendon che raccoglie i contributi intel‑
lettuali dei maggiori studiosi italiani.
Indice delle sentenze
Diritto e procedura civile
corte di cassazione
Cass. civ., sez. un., 13.04.2012, n. 5873 s.m.
Cass. civ., sez. I, 10.04.2012, n. 5652 s.m.
Cass. civ., sez. I, 06.04.2012, n. 5572 s.m.
Cass. civ., sez. I, 05.04.2012, n. 5497 s.m.
Cass. civ., sez. I, 26.03.2012, n. 4776 s.m.
Cass. civ., sez. III, 16.03.2012, n. 4253 s.m.
Cass. civ., sez. I, 15.03.2012, n. 4184 s.m.
Cass. civ., sez. un., 13.03.2012, n. 3936 s.m.
Cass. civ., sez. lav., 08.02.2012, n. 1850 s.m.
Cass. civ., sez. II, 16.02.2012, n. 2242 s.m.
Cass. civ., sez. lav., 28.02.2012, n. 3044 s.m.
Cass. civ., sez. lav., 29.02.2012, n. 3056 s.m.
corte di appello
App. Napoli, sez. I, 01.03.2012 s.m.
tribunale
Trib. Napoli, sez. X, 06.03.2012, n. 2701 (con nota di Aprone)
Trib. Torre Annunziata, 25.01.2012 s.m.
Trib. Napoli, sez. V-bis, 20.01.2012, n. 687 (con nota di Magliulo e
Musto)
Trib. Napoli, sez. VII, 05.01.2012 (con nota di D’Alessandro)
Trib. Napoli, sez. X, ord. 14.12.2011 s.m.
Trib. Napoli, sez. Lav., 27.10.2011, n. 24101 (con nota di Scuotto)
Trib. S. M. Capua Vetere, sez. dist. Aversa, 22.02.2011, n. 19 (con nota
di Micillo)
Diritto e procedura penale
corte di cassazione
Cass. pen., sez. V, 24.02.2012, n. 8921 s.m.
Cass. pen., sez. V, 23.02. 2012, n. 12252 s.m.
Cass. pen., sez. un., 19.01.2012, n. 14484 (con nota di Pignatelli)
Cass. pen., sez. V, 20.12.2011, n. 8610 s.m.
Cass. pen., sez. un., 15.12.2011, n. 12164 (con nota di Pignatelli)
Cass. pen., sez. un., 15.12.2011, n. 11545 (con nota di Pignatelli)
Cass. pen., sez. II, 01.12.2011, n. 5585 s.m.
Cass. pen., sez. un., 24.11.2011, n. 15933 (con nota di Pignatelli)
Cass. pen., sez. V, 18.11.2011, n. 8555 s.m.
Cass. pen., sez. V, 17.11.2011, n. 7800 s.m.
Cass. pen., sez. I, 04.11.2011, n. 5881 s.m.
Cass. pen., sez. V, 28.10. 2011, n. 6487 s.m.
Cass. pen., sez. un., 27.10.2011, n. 5859 s.m.
Cass. pen., sez. V,18.10.2011, n. 7787 s.m.
corte d’appello
App. Napoli, sez. I, 12.03.2012, n. 1286 s.m.
App. Napoli, sez. VII, 07.03.2012, n. 1221 s.m.
tribunale
Trib. Napoli, G.M., 10.04.2012, n. 4920 s.m.
Trib. Napoli, G.M., 12.03.2012, n. 3829 s.m.
Trib. Nola, coll. B), 01.03.2012, n. 652 s.m.
Trib. Nola, G.M., 01.02.2012, n. 310 s.m.
Trib. Nola, G.M., 24.01.2012, n. 198 s.m.
Trib. Nola, coll. A), 11.01.2012, n. 68 s.m.
Trib. Nola, coll. B), 15.12.2011, n. 654 s.m.
Trib. Nola, coll. B), 27.05.2011, n.1349 s.m
Trib. Nola, coll. B), 09.06.2011, n. 1468 s.m.
Diritto amministrativo
consiglio di stato
Cons. Stato, sez. V, 29.03.2012, n.1189 s.m.
Cons. Stato, sez. V, 29.03.2012, n.1186 s.m.
Cons. Stato, sez. V, 28.03.2012, n.1862 s.m.
Cons. Stato, sez. V, 26.03.2012, n.1732 s.m.
Cons. Stato, sez. V, 01.03.2012, n.1196 s.m.
tribunale amministrativo regionale
T.a.r. Campania, Napoli, sez. I, 21.03.2012, n.1407 s.m.
Diritto internazionale
corte di giustizia dell’unione europea
CGUE, sez. I, 19.04.2012, Causa C‑523/10 (con nota di Romanelli)
CGUE, sez. III, 19.04.2012,Causa C‑461/10 (con nota di Romanelli)
CGUE, sez. III, 19.04.2012, Causa C‑ 443/09 (con nota di Romanelli)
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