Trombino - Storia della filosofia occidentale. I. La

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Trombino - Storia della filosofia occidentale. I. La filosofia greca. Epicuro e
l'epicureismo
Busto di Epicuro
Mario Trombino
Storia della filosofia occidentale. I. La filosofia greca
Epicuro e l'epicureismo
1. Epicuro e il "Giardino"
Intorno al 300 a.C. è ancora molto sentito tra i filosofi ad Atene l'influsso sia di Aristotele, che vi ha insegnato fino al 323, sia di
Platone, attraverso l'Accademia. Anche Epicuro tiene presente il loro pensiero, ma l'ispirazione di fondo della sua filosofia è
rigorosamente materialista e questo lo porta a condurre una vigorosa polemica contro le tesi platoniche. Più complesso invece il
rapporto con Aristotele, le cui argomentazioni egli ha avuto probabilmente presenti in alcuni punti della sua opera.
Non è sempre facile per noi comprendere nel loro esatto significato i testi epicurei, perché non conosciamo i particolari del dibattito
filosofico, molto ampio, in cui Epicuro si colloca. Tuttavia la sua filosofia va al di là del contesto storico in cui è nata. Il modello di
vita da lui delineato ha sedotto per secoli uomini d'altre culture, d'altra formazione. Circoli epicurei importanti e vitali sono presenti
nel mondo romano fin cinque, sei secoli dopo la morte del filosofo e il modello epicureo di vita ha affascinato anche i moderni.
Gli epicurei si strutturano, quando è ancora vivente il fondatore della scuola, in piccole comunità collegate fra loro, i cui aderenti
sono uniti da profondi vincoli d'amicizia. Per la comunità d'Atene Epicuro ha voluto una casa appartata con annesso un giardino,
sicché il "Giardino" diviene un nome per indicare la scuola. . E questo concorre a suggerire l'immagine di una comunità serena,
dedita agli studi filosofici ed al riparo dalle vicende del tempo. Una immagine analoga ci ha lasciato Lucrezio, poeta latino, che
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scrive nel I secolo a.C. a Roma, quando le scuole epicuree hanno un'ampia diffusione, sebbene non siano politicamente del tutto ben
viste.
Rispetto alle altre scuole filosofiche del tempo, quella epicurea mantiene per secoli quasi inalterata la dottrina del maestro. Non si
sviluppa infatti in essa uno spirito autonomo di ricerca, come avviene ad esempio per lo stoicismo, che in età romana si allontana
molto dalle tesi originarie. Le dottrine epicuree non hanno subìto quindi nel tempo variazioni sostanziali.
Epicuro ha scritto moltissimo, circa trecento libri. Alcune di queste opere sono analitiche, ampie e particolareggiate, oscure quindi
per coloro che desideravano applicare i precetti di vita epicurei, ma non seguire il maestro nei suoi approfondimenti filosofici e nelle
sue discussioni tecniche; altre invece sono compilazioni sintetiche, chiare e concise nelle quali la filosofia epicurea è espressa in
forma essenziale, adatta ad essere facilmente memorizzata. Il filosofo ha scritto diverse lettere con queste caratteristiche: la
tradizione, come si è detto, ne ha tramandate tre sino a noi, quelle indirizzate a Erodoto, a Pitocle, a Meneceo. Esse sono rivolte a
comunità epicuree lontane da Atene, con cui Epicuro mantiene continui contatti, nello spirito del culto dell' amicizia che aleggia
nella sua scuola. Alcuni autori hanno paragonato tale metodo "pedagogico" all'attività di San Paolo che pure, con le sue lettere
entrate poi nel novero dei libri che compongono il Nuovo Testamento, seguiva da lontano la vita delle comunità cristiane da lui
fondate. Questo accostamento sembra quasi attribuire ad Epicuro il carattere di fondatore di una nuova religione, e per certi aspetti si
deve ammettere che, se l'epicureismo non è una religione, tuttavia assume le funzioni di guida etica e spirituale.
2. Una lunga tradizione: l'epicureismo
La ricchissima produzione letteraria di Epicuro è andata quasi totalmente perduta. I documenti diretti che ci sono pervenuti
costituiscono solo una piccola parte di quella che sappiamo essere stata una vastissima opera. Possediamo comunque tre lettere,
indirizzate a Erodoto (sulla fisica e sulla teoria della conoscenza), a Pitocle (sui fenomeni atmosferici) e a Meneceo (sull'etica), che
costituiscono una summa dottrinale del suo pensiero. Queste lettere sono state conservate, assieme ad un gruppo di massime e altre
brevi opere, da Diogene Laerzio che le ha riportate nel suo Vite dei Filosofi.
Ci sono pervenute poi altre lettere, questa volta di carattere privato - di cui una alla madre -, un gruppo di massime ritrovate nel 1888
nella Biblioteca Vaticana, e infine alcuni papiri rinvenuti ad Ercolano, che riportano importanti frammenti dell'opera maggiore di
Epicuro, Sulla natura.
Nonostante la scarsità dei documenti, si è potuto ricostruire la dottrina epicurea, da una parte attraverso la testimonianza di autori
avversari della sua scuola, dall'altra grazie alle opere di scrittori appartenenti al circolo epicureo. Costoro, dei quali il più illustre è
sicuramente il poeta latino Lucrezio, ci hanno riportato il sistema filosofico epicureo mantenendo una notevole aderenza al pensiero
del maestro; la scuola infatti, a differenza ad esempio di quella stoica, non si è mai discostata in maniera sostanziale
dall'insegnamento del suo fondatore.
Di Epicuro abbiamo scarse notizie anche dal punto di vista biografico. Diogene Laerzio ci riporta alcuni dati che però non sono
sufficienti per tracciare un profilo ampio e completo della sua figura.
Sappiamo che nasce nel 341 a.C. a Samo. Il padre vi si era trasferito come colono ma, essendo cittadino ateniese di nascita, anche
Epicuro lo è. Secondo la tradizione ha come maestri un platonico e un democriteo, ma egli si dichiara autodidatta.
Nel 323 si reca ad Atene per il servizio militare e vi rimane per circa due anni. Si trasferisce poi nell'isola di Lesbo dove comincia ad
insegnare, ma ben presto è costretto a passare in Asia Minore, probabilmente per motivi politici, anche se le poche informazioni che
abbiamo ce lo mostrano sempre estraneo alla vita politica.
Qui intorno ad Epicuro si forma nel 309 il primo gruppo di seguaci, ma solo alcuni anni dopo, nel 306, egli fonda ad Atene la sua
scuola, detta il Giardino, dal luogo dove i discepoli e il maestro si intrattengono - appunto un edificio e un giardino - immersi nella
campagna e lontani dal caos cittadino.
Quella di Epicuro sembra essere, più che una scuola, una comunità in cui "maestro e discepoli si raccolgono non già nella pratica
degli studi e nella ricerca comune, ma nell'apprendimento e nella conversazione di una dottrina, nell'osservanza di una regola di vita,
nell'esercizio di una vicendevole amicizia" (D. Pesce). La scuola epicurea si caratterizza quindi come una comunità unita non solo da
un comune pensiero ma anche da un profondo senso delI'amicizia (cui Epicuro attribuirà una funzione fondamentale per la vita
dell'uomo); tuttavia, nonostante questo carattere privato e quasi familiare, essa è organizzata secondo una precisa struttura
gerarchica: vi è una scala progressiva che procede per gradi sempre maggiori di avanzamento. Un altro particolare piuttosto
interessante è che appartengono alla scuola epicurea anche donne e schiavi. La scuola epicurea in Atene sopravvive diversi secoli e
comunità epicuree sono attive in molte città greche. L'epicureismo si diffonde poi anche nel mondo latino. Nel I secolo a.C. ne
troviamo testimonianza ad Ercolano.
Qui si viene infatti formando, per opera delI'epicureo Filodemo di Gadara, una scuola anche se in realtà si avvicina di più ad un
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circolo intellettuale di carattere comunque prettamente aristocratico - nel cui ambito si colloca la figura di Lucrezio.
Le notizie che abbiamo sulla vita di Lucrezio sono limitatissime; provengono per lo più da San Girolamo. Sappiamo con certezza
che nasce nel 97 a.C.: sarebbe impazzito dopo aver ingerito un filtro d' amore, e si sarebbe poi tolto la vita all'età di 44 anni, nel 53.
Su questa presunta follia si è discusso a lungo. Il suo poema De rerum natura si propone di presentare e divulgare la dottrina
filosofica di Epicuro. Lucrezio sembra occuparsi non tanto della parte etica - più familiare e accessibile anche alle classi meno colte
- ma di quella più difficile e ostica dell'epicureismo: la fisica (intesa secondo la concezione antica e quindi estesa anche ai fenomeni
meteorologici, ecc.). In Lucrezio tutto questo diventa - quasi paradossalmente - poesia, una poesia che racchiude spesso una
fortissima carica emotiva e passionale. In Lucrezio la natura è vivificata, è una natura in cui "tutto parla, si agita, soffre, ama,
gioisce" (A. Ronconi).
Nel De rerum natura Epicuro viene rappresentato come lo scopritore della verità, come il salvatore del genere umano, il liberatore
dell'umanità dall'ignoranza e dalla superstizione.
Dell'opera, certamente incompleta, ci rimangono soltanto sei libri.
2. La fisica atomistica
2.1. Epicuro e la polis
Epicuro fonda la sua scuola con l'intento dichiarato di indicare agli uomini la via della felicità. Egli si rivolge a tutti, perché in tutti è
presente il desiderio di una vita felice. Non fa quindi alcuna distinzione tra Greci e Barbari, tra uomini e donne, tra cittadini e
schiavi. Il quadro stesso in cui si colloca il suo insegnamento è del tutto sgombro da quella tipica concezione greca per cui la
filosofia si rivolge e forma il "cittadino". C'è invece in Epicuro una forma dell'universalismo ellenistico, pur nel sostanziale rispetto
delle tradizioni; egli si rivolge all'uomo in quanto tale, chiunque egli sia e in qualunque tempo viva. A tutti insegna una regola di
vita. "Deve aver provato un forte sentimento di pietà per le sofferenze dell'umanità, ed un'incrollabile convinzione che esse
avrebbero potuto essere grandemente attenuate se gli uomini avessero adottato la sua filosofia" (B. Russell).
2.2. Lo scopo della conoscenza della natura
Punto di partenza è la constatazione che gli uomini hanno un'idea molto vaga e per di più profondamente errata della natura delle
cose, e questo genera un complesso di ansie, angosce, paure e superstizioni che li rende schiavi di vacui fantasmi della mente.
Obiettivo quindi è ristabilire la vera conoscenza della natura delle cose ed eliminare false convinzioni, frutto dell'ignoranza. Dopo
sarà possibile vedere se le paure e le angosce umane sono oggettivamente giustificate o meno. La filosofia ha come scopo iniziale la
liberazione dall'ignoranza, perché deve sgombrare il campo dalle false opinioni.
Una sentenza di Epicuro dice:
"Non è possibile dissolvere i timori sulle cose che per noi sono più importanti ignorando che cosa sia la natura dell'universo e
vivendo in sospettoso timore per i miti".
Quindi non è possibile senza lo studio della natura avere gioie pure. Queste tesi epicuree sono fortemente critiche nei confronti della
cultura tradizionale greca, fondata sulla retorica ed incapace di liberare gli uomini dalla paura e dalle superstizioni. In molti
frammenti Epicuro ha espressioni assai polemiche verso la retorica e la cultura in generale, se non assolve la sua funzione
liberatoria. In un frammento scrive:
"Felice te, o Apelle, che puro da ogni educazione ti volgesti alla filosofia".
E di se stesso dice, polemicamente, di essere un autodidatta e di non aver appreso da nessun altro le sue dottrine. Un autore romano,
Ammiano Marcellino, ci testimonia che "questa attività degli oratori forensi (...) Epicuro (...) chiamandola ?mala arte? la annovera
tra le arti intese al male". C'è in queste ripetute affermazioni una dura critica contro quelle forme di sapere che non permettono la
liberazione umana e la comprensione della semplice e, per Epicuro, facile verità delle cose.
Non possiamo ricostruire con esattezza il percorso di formazione delle sue idee, anche perché non ci sono rimaste le sue opere
fondamentali. La critica moderna ritiene comunque che la fisica epicurea sia stata elaborata tenendo certamente conto dei risultati
della ricerca di Democrito e degli atomisti antichi, ma anche delle analisi aristoteliche, critiche verso l'atomismo di Democrito.
2.3. Spiegare la realtà con la realtà stessa
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Se non seguiamo bene le fasi di formazione dell'atomismo epicureo, ne comprendiamo invece bene il metodo. Esso ricorda, per
alcuni aspetti, quello dei moderni illuministi perché si fonda sull'idea che tutta la realtà sia comprensibile per il pensiero dell'uomo,
che non esistano zone in cui il mistero sia assoluto e che i princìpi attraverso cui la mente può comprendere il mondo siano pochi,
semplici ed evidenti. Tutta l'impostazione di questo pensiero è antiplatonica proprio nel suo punto chiave. Platone è infatti convinto
che la vera realtà sia "altrove" e sia caratterizzata dalla immutabilità. Egli vede nella mobilità delle cose il segno della loro labilità
ontologica, della mancanza di un fondamento ultimo - che egli trova attraverso la via dialettica nell'idea del Bene come supremo
principio di spiegazione del mondo. Epicuro è convinto invece che questa strada sia errata perché viziata da un errore di prospettiva:
al contrario di quel che sostiene Platone, dobbiamo cercare finché è possibile (e per Epicuro è possibile sempre) di spiegare la realtà
con la realtà stessa, rintracciando in essa i princìpi della propria fondazione e del proprio sviluppo. Soltanto così ci salveremo
dall'arbitrio delle interpretazioni unilaterali e, rimanendo rigorosamente legati all'esperienza, spiegheremo i fenomeni della natura
con ragionamenti che hanno il loro fondamento nei fenomeni stessi. Di qui la scelta dell'atomismo.
2.4. La divisibilità dei corpi e l'atomo
Epicuro, come Democrito, accetta il principio parmenideo che nulla possa nascere dal nulla. Si tratta quindi di spiegare la realtà
senza cadere in contraddizioni.
L'esperienza ci dà infatti i fenomeni di moltissimi corpi. E' ammissibile pensare che la loro costituzione ultima sia la infinita
divisibilità? No, perché così facendo i corpi risulterebbero composti di nulla. Conducendo al limite estremo la reale divisibilità dei
corpi sensibili, le loro proprietà verrebbero annullate e non spiegate. Per spiegarle razionalmente è necessario ammettere che la
divisibilità matematica, che non ha un limite minimo, come hanno insegnato gli eleati, non può avere un reale significato fisico.
L'idea è questa. Perché ogni corpo è divisibile? Perché in realtà esso è già diviso, composto com'è di parti. Frammentare un corpo
non significa spezzare la materia piena, ma solo separare le particelle della materia secondo linee di frattura che corrispondono alle
loro linee di congiunzione. Per questo, da un punto di vista fisico, la materia è divisibile. Perché sia possibile condurre all'infinito
questa operazione di divisione, occorre immaginare infinite linee di frattura: come dunque si sarebbe formato un corpo? attraverso
infinite congiunzioni di materia? Questo non è possibile, perché il corpo di cui dobbiamo spiegare la natura è finito. Dobbiamo
quindi ammettere che le fratture possibili di un corpo siano in numero finito e corrispondano alle reali congiunzioni della materia
che lo costituisce. Esistono quindi come suoi componenti grumi di materia, particelle non divisibili perché non composte di parti
fuse insieme, ma elementi primi semplici: materia che non ha linee di frattura al suo interno. Gli atomi (da a-tomos, non divisibile)
quindi, di cui non abbiamo esperienza sensibile perché la loro dimensione è inferiore alla capacità di percezione dei nostri sensi,
sono materia piena.
2.5. Matematica e conoscenza della natura
Epicuro ha così dimostrato l'idea cardine della sua fisica - l'esistenza degli atomi - con una argomentazione che contrappone la
matematica (che ammette la divisibilità all'infinito) alla fisica (che non l'ammette). Sulla base di questo tipo di riflessioni, egli è stato
portato a negare qualsiasi validità conoscitiva alla matematica. Questo sorprende moltissimo noi moderni, testimoni di un'esperienza
di ricerca che, applicando la matematica alla fisica, ha ottenuto risultati scientifici fondamentali. Bisogna però comprendere il punto
di vista di Epicuro. Nella cultura greca la matematica si era sviluppata come scienza puramente teorica, senza un diretto contatto con
la realtà empirica. Immediatamente prima di Epicuro, Platone ne aveva fatto uno degli strumenti di conoscenza della vera realtà
ideale, contrapposta alla opinabile conoscenza sensibile. E' quindi chiaro come, nel suo sforzo di ancorare la scienza alla conoscenza
empirica, Epicuro abbia escluso di potere utilizzare la matematica, questa scienza dei rapporti puri senza alcun contatto con la realtà
delle cose. Essa porta la ragione dell'uomo all'errore ammettendo, nel caso su citato, la infinita divisibilità dei corpi, che da un punto
di vista fisico è un'assurdità.
"Se in Grecia la matematica fosse stata in quest'epoca l'ancella della ricerca fisica, non vi sarebbe stato alcun contrasto tra le due
discipline. Senonché la matematica pitagorica e la matematica dell'Accademia erano le ?facenti funzioni? dell'investigazione fisica.
La geometria aveva usurpato il posto della fisica. Nel sistema platonico le relazioni spaziali erano realtà. La vera scienza era scienza
a priori, la sola cosmologia a cui poteva condurre era la cosmologia del Timeo. La scuola di Epicuro doveva difendere la scienza da
una tale deformazione. Atomismo e matematica pitagorica erano incompatibili. La concezione non ?matematica?, ma puramente
fisica dell'atomo, e cioè che un corpo esteso nello spazio e perciò matematicamente divisibile è in realtà fisicamente indivisibile, era
una legge fondamentale della fisica, e tale era quindi anche per Epicuro. Ma questa era una deduzione dai dati sensibili, non una
verità ?ricordata? dall'anima sottraendosi al contatto con le cose materiali" (B. Farrington).
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2.6. Lo spazio
Sulla base della fisica atomistica, Epicuro elabora poi una nuova concezione dello spazio. Il suo ragionamento è questo. Poiché gli
atomi si muovono o comunque stanno, occupano un luogo, è necessario ammettere l'esistenza di uno spazio vuoto che li contenga.
Deve essere pensato come spazio vuoto perché l'esperienza ci insegna che esso non interagisce con la materia piena degli atomi. Le
sue caratteristiche sono tutte negative.
Esso non ha confini, ed è quindi infinito, perché non avrebbe senso ammettere un limite per lo spazio vuoto: che cosa vi sarebbe
infatti oltre lo spazio? Che cosa lo delimiterebbe, se non dell'altro spazio? Esso poi non ha caratteristiche particolari di alcun tipo,
perché non è composto di materia, anzi non è un composto perché non è un corpo, e per questo non interagisce coi corpi. Solo gli
atomi possono interagire con gli atomi. Il loro movimento nel vuoto, che non li ostacola, avviene ad altissima velocità, anzi con la
massima velocità consentita dalla loro natura. Dal fatto che lo spazio non ha qualità particolari si deduce anche che esso è
omogeneo, e non ha quindi alcuna differenza al suo interno da punto a punto. I suoi "luoghi" sono tutti eguali e neutri rispetto alla
materia: lo spazio è solo il luogo dei corpi.
Questa concezione di Epicuro è rigorosamente materialista perché egli ritiene che tutta la realtà possa essere spiegata ricorrendo solo
a due elementi qualitativamente diversi fra loro: il pieno ed il vuoto, l'atomo materiale e lo spazio vuoto che lo contiene. Il mondo è
generato dalla aggregazione degli atomi ed è destinato a dissolversi per la loro disgregazione.
Poiché si deve ammettere che lo spazio vuoto è infinito, dobbiamo anche ammettere la infinità numerica degli atomi: se essi fossero
in numero finito, infatti, si disperderebbero nello spazio senza confini. Questo dimostra che il nostro mondo visibile non è l'unico dei
mondi possibili, e che esistono, sono esistiti ed esisteranno nell'universo in spazi e/o tempi lontani, altri mondi, nessuno dei quali in
linea di principio migliore o peggiore del nostro: tutti sono nati dall'aggregarsi, casuale come vedremo, degli atomi e tutti sono
destinati a disgregarsi, in un incessante movimento cosmico.
Questo porta Epicuro a negare uno degli assunti fondamentali delle filosofie di Platone e di Aristotele e, attraverso loro, della cultura
anteriore alla rivoluzione scientifica moderna del Seicento: l'idea che i cieli siano composti di una materia perfetta e non corruttibile,
diversa dalla materia terrestre. Questa concezione aveva portato Platone a vagheggiare una religione astrale, ed Aristotele a
contrapporre i movimenti perfetti dei cieli (oltre i quali egli vedeva il dio motore immobile) a quelli imperfetti della terra. Per
Epicuro, essendo tutto composto di atomi, non esiste ovviamente nessuna differenza di questo tipo. I cieli, per conseguenza, non
sono più perfetti della terra, né hanno alcun titolo perché ad essi si debba guardare con occhi diversi che verso la terra. Come
vedremo, questa concezione avrà un'importanza notevole in sede etica.
2.7. Forma, peso e dimensione degli atomi
Epicuro poi, per spiegare la grande differenza esistente tra i corpi, è portato a ritenere che gli atomi non siano affatto tutti eguali.
Essi si differenziano per dimensioni (esistono atomi più o meno grandi, anche se tutti invisibili perché più piccoli della soglia di
visibilità dell'occhio umano) per peso (ad esempio gli atomi che compongono l'anima dell'uomo sono più leggeri di quelli del corpo)
e per forma (e questo spiega le differenze qualitative tra i corpi). La realtà è molteplice proprio perché è molto grande la diversità tra
gli atomi ed enormemente complesso il movimento del loro aggregarsi e disgregarsi.
2.8. Il movimento degli atomi
Resta da spiegare attraverso quale meccanismo si formino i mondi e quali leggi regolino il loro funzionamento. Partiamo intanto da
un dato di fatto: gli atomi si muovono nello spazio vuoto. Quale forza li muove? La risposta di Epicuro non è in realtà del tutto
coerente con la sua concezione di uno spazio omogeneo infinito.
Egli infatti pensa che gli atomi si muovano verso il basso trascinati in giù dal loro stesso peso. Non è facile per noi comprendere che
cosa Epicuro intenda per "verso il basso". In un universo infinito, privo quindi di riferimenti assoluti, come possono esistere
posizioni assolute come il basso e l'alto? Non conosciamo la risposta a questa domanda perché le opere più ampie di Epicuro sono
andate perdute.
Ancora una difficoltà: se tutti gli atomi si muovono con grandissima velocità verso il basso, il loro movimento deve essere parallelo,
e per conseguenza essi non possono mai incontrarsi. Tuttavia nell'universo c'è un continuo aggregarsi e disgregarsi di corpi, dunque
gli atomi si incontrano e si separano. Come è possibile questo? Epicuro introduce qui due altri movimenti, la cui natura è per la
verità piuttosto oscura (anche perché ci sono noti da altre testimonianze e non direttamente dalle sue opere).
Il primo movimento è il clinamen - parola latina (la si trova nel De rerum natura di Lucrezio) che significa deviazione, declinazione
-: gli atomi, del tutto casualmente in momenti non prefissati deviano dalla loro traiettoria, e questo li porta ad una serie di urti con gli
altri. I corpi sarebbero dunque il prodotto di movimenti casuali.
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Il secondo movimento è quello oscillatorio, su se stessi, di cui gli atomi sarebbero dotati e che spiegherebbe così come mai i corpi
possono disgregarsi senza interventi esterni.
Come si è detto, le opere di Epicuro che ci sono rimaste non chiariscono del tutto questi concetti. Il quadro è comunque, a grandi
linee, il seguente: esistono tre tipi di movimento atomico interagenti fra loro (la caduta, il clinamen, l'oscillazione) e la formazione e
la disgregazione del mondo avvengono sulla base di questi movimenti. Non esiste quindi alcuno scopo nelle cose, né alcun fine
ultimo della vita, che non è altro che un prodotto del caso, ed è possibile abbandonare tutti i miti relativi al mondo degli dèi, frutto
della tradizione, e ricondurre ogni fenomeno alla sua causa fisica. E' ben vero poi che i movimenti atomici sono tali da non
assicurare una rigorosa stabilità del mondo, perché tutto, presto o tardi, tende a disgregarsi per ricomporsi poi in nuovi aggregati
atomici; è però altrettanto vero che questo accade nel pieno rispetto delle leggi naturali del movimento, per cui il mondo ha quel
tanto di stabilità che ci consente di non vivere nel timore di eventi misteriosi. Per chi conosce le leggi atomiche, tutto è spiegabile ed
inquadrabile in una visione stabile, razionale. Anche la morte, come vedremo più avanti.
2.9. La natura, il caso, la libertà
C'è però una difficoltà, ed è l'oscurità connessa alla concezione del clinamen. Che cosa significa che gli atomi sono dotati di un
movimento di declinazione? Quale forza li fa deviare? Qual è la spiegazione della casualità di questo movimento? In Epicuro non
troviamo risposta a queste domande. Ci rendiamo solo conto che questa teoria fa della fisica epicurea certamente una concezione
materialistica, ma non un meccanicismo perfetto, se con questo termine intendiamo una concezione della realtà materiale in cui ogni
corpo è sottoposto ad un insieme di forze che agiscono secondo necessità vincolate dal rapporto causa-effetto. Il clinamen infatti è
del tutto casuale. C'è quindi in natura un elemento imponderabile, la capacità di creare il movimento ex novo, c'è quello che con
terminologia moderna chiamiamo libertà, fermo restando il determinismo di fondo, naturalmente, visto che il clinamen è un evento
di fondamentale importanza, ma costituisce quasi un'eccezione.
Del resto è proprio questa concezione a spiegare la libertà degli esseri viventi e degli uomini in particolare. La libertà umana è
possibile, come rottura dell'universo meccanico e come capacità di porre dei fini (capacità che le cose inanimate non hanno), perché
la struttura dell'uomo riprende, al livello della coscienza, le caratteristiche del - visto che l'uomo e la sua stessa anima sono fatti di
atomi.
Possiamo quindi concludere la descrizione fisica del mondo secondo Epicuro con alcune riflessioni.
2.10. Contro le differenze qualitative
E' evidente che in un universo in cui tutto è, se pieno, atomo materiale, se vuoto, spazio, non c'è alcuna differenza qualitativa
assoluta tra le cose. Niente è superiore o inferiore al resto. Questa concezione si oppone quindi nettamente alla filosofia di Platone
che spiegava la realtà attraverso radicali distinzioni qualitative. In Epicuro, per conseguenza, non potremo costruire nessuna morale
assoluta, fondata su una differenza metafisica tra bene e male, e dovremo cercare altrove il principio del nostro comportamento.
Anche il bene e il male, infatti, poiché non esiste altro nell'universo che lo spazio vuoto e gli atomi pieni, andranno ricondotti alla
loro radice materiale.
2.11. Contro il finalismo
In un universo così concepito non vi è quindi spazio per interventi sovrannaturali di qualsiasi natura, né alcun fenomeno è
interpretabile come la conseguenza della volontà di un Dio o di un demiurgo. Non ha senso chiedersi "a che scopo", "a che fine" la
realtà sia così: non può esserci alcun fine in natura, perché essa è dominata dalla struttura meccanica degli atomi e dai loro
movimenti, in parte casuali. Bisogna piuttosto sempre ricondurre i fenomeni alle loro cause, deterministiche o casuali. Non
essendoci nel mondo alcuna intenzione superiore, il finalismo, come strumento di interpretazione del reale, deve essere abbandonato.
Epicuro "cercava una metafisica che dimostrasse come gli dèi non interferiscano nelle cose umane e come l'anima perisca insieme al
corpo. La maggior parte dei moderni pensano alla religione come ad una consolazione, ma per Epicuro era il contrario. L'intervento
soprannaturale nel corso della natura gli sembrava una fonte di paura e l'immortalità gli appariva addirittura fatale alla speranza di un
riposo dalla sofferenza. (...) Alle origini, il concetto di necessità in Grecia era religioso, e forse Epicuro aveva ragione pensando che
un attacco alla religione sarebbe stato incompleto se si fosse permesso alla necessità di sopravvivere" (B. Russell).
Epicuro combatte così una difficile battaglia, perché non solo i filosofi, ma lo stesso senso comune vedono la finalità inserita nella
natura (è sempre possibile interpretare come finalistico, ad esempio, il rapporto tra il seme e la pianta, o tra la pioggia, la crescita
dell'erba e la vita degli animali che si nutrono d'erba). Su questo tema i filosofi hanno dibattuto fino ai nostri giorni. Anche su questo
punto Epicuro ha preso una posizione antitetica alla tradizione platonica. Si pensi, per comprendere l'importanza della posizione
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antifinalistica in metafisica, a quanto la concezione opposta sia rilevante in Aristotele (Dio come causa finale del mondo) e in
Platone (tutte le idee "ordinate" all'idea del Bene).
3. La canonica
Per un filosofo materialista come Epicuro la teoria della conoscenza è importante perché è indispensabile, ai fini della eliminazione
di ogni residuo dell'idealismo platonico, mostrare la radice materiale del pensiero. Essa gli permette inoltre di mostrare sia la validità
del proprio metodo di ricerca della verità, sia la fonte degli errori degli altri filosofi. La teoria della conoscenza, che prende in
Epicuro il nome di canonica (dal greco canon = canna, il regolo usato dagli artigiani; dunque, per traslato, criterio, regola), è quindi
tanto una ricerca sulla origine delle idee, quanto una teoria dell'errore ed una teoria del metodo.
3.1 L'origine delle idee
Per Epicuro, ogni nostra conoscenza è legata ai sensi: è una sensazione, una affezione (cioè una passione, un sentimento), oppure
una elaborazione razionale di sensazioni o affezioni. Le nostre idee devono la loro validità alla realtà materiale da cui, attraverso la
sensazione, provengono.
Con questa tesi Epicuro rimane coerente al proprio programma, e trova per esso un solido fondamento. Se infatti fosse possibile
accettare la teoria platonica di una origine delle nostre idee al di fuori dell'esperienza, si dovrebbe costruire un metodo che ricerca la
verità al di fuori del mondo sensibile. Epicuro pensa invece che un'origine extrasensibile delle idee sia impossibile, e la ragione di
questo è proprio nella fondamentale unicità del reale: i nostri strumenti di conoscenza esistono ed operano all'interno di un mondo i
cui fondamenti ultimi sono solo due, il pieno ed il vuoto, l'atomo e lo spazio. Come potrebbero le nostre idee provenire da
qualcos'altro, se null'altro esiste? E d'altronde, come possiamo credere che esistano cose di cui non abbiamo nessuna informazione e
che non sono deducibili dall'esperienza? La nostra mente può certo fantasticare, ma su questo non è possibile fondare alcuna
conoscenza certa. La teoria platonica delle idee per Epicuro non ha alcun fondamento. Epicuro deve però dimostrare la natura
materiale delle nostre conoscenze, sensibili e razionali, la loro derivazione dal mondo atomico perché non è in alcun modo possibile
ammettere una natura delle idee diversa dalla natura delle cose senza cadere in una qualche forma di dualismo di tipo platonico. Se
uno è l'universo, la conoscenza non può che farne parte e deve essere spiegata con gli stessi princìpi con cui la fisica ha spiegato la
natura dei corpi. Bisognerà quindi spiegare fisicamente prima le sensazioni e le affezioni, poi le idee che su di essa si fondano.
La teoria materialista collega in un unico quadro d'insieme le sensazioni, che ci danno le informazioni sul mondo esterno, e le
affezioni, cioè il sentire interiore, strutturato intorno ai due poli del piacere e del dolore. Non c'è conoscenza, infatti, che non sia
collegata con una risposta emotiva soggettiva, non c'è alcuna forma di sapere, per quanto astratto e "puro" esso sia, che possa essere
distaccato dalla personalità complessiva dell'uomo e quindi dalla sua vita e dalle sue emozioni. Il soggetto pensante è sempre allo
stesso tempo un soggetto senziente.
La conoscenza non è quindi mai del tutto staccata dalla vita e dalla sfera materiale dell'esistenza. Questa dottrina si contrappone
nettamente al punto di vista idealista sulla conoscenza umana.
Il rapporto che lega sensazione ed affezione trova fondamento nella concezione materialista dell'anima: Epicuro la concepisce infatti
come un aggregato di atomi, riducendo interamente lo spirito alla materia. Nella Lettera ad Erodoto scrive:
"L'anima è un corpo sottile, sparso per tutto l'organismo, assai simile all'elemento ventoso e avente una certa mescolanza di calore, e
in qualche modo somigliante all'uno, in qualche modo all'altro. C'è poi una parte che per la sottigliezza si differenzia nettamente
anche da questi, e per ciò più adatta a subire modificazioni insieme al rimanente dell'organismo".
Epicuro quindi descrive l'anima come un corpo affine all'aria ed al fuoco, riprendendo in questo antiche tematiche presocratiche
(questa concezione ricorre, ad esempio, in Anassimene e in Eraclito). Il fatto poi che l'anima sia adatta a subire modificazioni spiega
come avvenga il processo della conoscenza sensibile.
Epicuro pensa che dai corpi si distacchino continuamente, ad altissima velocità, sottilissime pellicole composte da particelle
atomiche, che egli chiama simulacri. Questi rispecchiano in tutto le caratteristiche del corpo da cui provengono, e le sensazioni si
formano quando i nostri organi di senso entrano in contatto con i simulacri. In quanto semplici recettori, i nostri organi di senso sono
puramente passivi, e ogni sensazione è in quanto tale vera perché non è altro che la percezione passiva di un simulacro. Se ne deduce
il carattere di oggettività della conoscenza sensibile, perché nella sensazione non facciamo altro che registrare passivamente
l'oggetto così come esso ci si presenta. Si spiega così la derivazione atomica, e quindi materiale, della sensazione.
Interpretando in questo modo la conoscenza sensibile, Epicuro finisce col ricondurre tutti i sensi al tatto. Noi, infatti, conosciamo per
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contatto: solo quando gli atomi che compongono il simulacro entrano in contatto con i nostri organi di senso (ad esempio con
l'occhio) la sensazione si forma. Questa concezione è molto lontana da quella platonica, che assegnava il primato alla vista, in
quanto meno legata degli altri sensi alla materialità delle cose.
In Epicuro dobbiamo poi distinguere il simulacro, che colpisce i nostri sensi, dalla rappresentazione del simulacro che nasce dalla
nostra coscienza come "impronta" lasciata dal simulacro, impronta che ha un carattere soggettivo (in quanto prodotta da un atto
apprensivo della mente), anche se perfettamente rispondente all'oggetto. Le sensazioni sono quindi le rappresentazioni soggettive dei
simulacri.
Bisogna poi osservare che noi non conosciamo le cose, ma i loro simulacri, per cui non dobbiamo confondere questi con quelle: le
cose non sono i simulacri, anche se questi le rispecchiano perfettamente. Queste due distinzioni sono importanti perché, attraverso
esse, come vedremo, sarà possibile spiegare gli errori nella conoscenza.
Più esattamente, noi conosciamo le modificazioni dei nostri organi di senso prodotte dall'azione dei simulacri. Il nostro occhio vede
il simulacro perché ne recepisce in sé l'impronta, lasciandosi modificare da esso. Per questo ogni conoscenza, in fondo, non può
avvenire che per contatto ed è sempre accompagnata da una affezione di piacere o di dolore, per debole che sia. Se con la mano
tocchiamo un oggetto, possiamo conoscerlo per questa via perché la mano segue la forma dell'oggetto e noi ci accorgiamo delle
modificazioni, sia pur minime, che essa subisce: in qualche modo, noi conosciamo plasmando i nostri organi di senso sulla forma
dell'oggetto.
La sensazione appartiene sempre al presente, ma nello scorrere del tempo essa diviene subito passata. Perché quindi la nostra
conoscenza possa articolarsi nel tempo è necessario che gli organi di senso abbiano la capacità di trattenere dentro di noi le
sensazioni, cioè le rappresentazioni dei simulacri. Entra quindi in gioco la memoria. Essa però non opera come un deposito di
sensazioni, come uno schedario di esperienze fatte che rimangono staccate fra loro, perché nel tempo c'è sempre un presente e quindi
sempre nuove sensazioni si aggiungono alle vecchie mescolandosi ad esse.
La memoria opera sovrapponendo una sull'altra le sensazioni che la coscienza riceve in ciascun presente che diviene subito passato;
questa operazione, per cui nella nostra mente si formano delle impronte profonde, è appunto il meccanismo attraverso cui si formano
le idee astratte: esse sono solo esperienza sedimentata, e non hanno quindi quella natura diversa dalla materia e dalla sensazione che
Platone ha creduto di poter loro attribuire. Epicuro chiama queste idee prolessi, cioè anticipazioni del futuro. E' vero infatti che
viviamo sempre nel presente, ma poiché il presente per sua natura trascorre, noi abbiamo continuamente bisogno di avere
informazioni sul nostro immediato futuro: non potremmo infatti agire se non avessimo informazioni di ciò che accadrà (persino per
le operazioni più semplici: come potremmo muovere dei passi se non avessimo la ragionevole certezza che il piede potrà posarsi una
volta sollevato?). Tutta la nostra conoscenza si fonda sulle sensazioni, ma è chiaro che è impossibile avere sensazioni del futuro.
Bisogna aspettare che esso diventi presente. Di queste informazioni abbiamo però bisogno prima: la memoria può venirci in aiuto,
perché le situazioni presenti e future sono simili alle situazioni del passato: le nostre idee (sensazioni passate accumulate e fuse
insieme) anticipano il futuro e ci informano quindi di che cosa accadrà (o meglio, di che cosa dobbiamo aspettarci che accada).
3.2 La teoria dell'errore
La nostra conoscenza è soggetta ad errori, anche gravi. Qual è la loro origine? Epicuro individua due tipi diversi di errori: uno che
riguarda la sensazione, l'altro i nostri giudizi sulla realtà.
Principio chiave della teoria della conoscenza in Epicuro è che la nostra sensazione è sempre vera, nel senso che i simulacri sono
percepiti da noi in modo passivo e non vengono alterati in alcun modo. Se quindi ho una sensazione di colore guardando il tavolo su
cui scrivo, o un bastone mi appare spezzato se lo immergo a metà entro l'acqua, queste sensazioni sono vere nel senso che io
percepisco i simulacri che le formano esattamente come essi sono.
Tuttavia è certamente vero che se tolgo il mio bastone dall'acqua scopro che non è spezzato. Da dove nasce l'errore? Nasce dal
mezzo che i simulacri attraversano per giungere ai nostri organi di senso. E' infatti vero che lo spazio vuoto non interagisce con la
materia, ma lo spazio tra l'oggetto percepito e me non è vuoto. L'aria e l'acqua sono elementi composti da atomi e per conseguenza
gli atomi del simulacro che parte dall'oggetto interagiscono con gli atomi dell'aria e dell'acqua. Questo provoca una distorsione del
simulacro, evidentemente diversa a seconda del tipo di mezzo attraversato. L'errore non è quindi nella nostra sensazione, ma nella
variazione del simulacro lungo lo spazio ch'esso attraversa per giungere al soggetto che lo percepisce. Per Epicuro "si vedono gli
oggetti per mezzo di simulacri, e quindi non si vedono gli oggetti in sé, ma solo i loro simulacri, tanto è vero che se di una cosa
qualsiasi un simulacro giunge ai nostri occhi comunque alterato, noi, se non potessimo ricorrere agli altri sensi o all'intelletto,
saremmo costretti a credere che l'oggetto è veramente come ci appare" (G. Arrighetti).
Le anticipazioni sulla realtà che la nostra mente concepisce, cioè le prolessi, sono fondate sui sensi. Sono quindi correttamente
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fondate. Non è qui l'errore. Noi però non ci limitiamo a questo. Sulla base delle sensazioni e delle prolessi noi riteniamo di poter
dare un giudizio sulla realtà, e questo accade anche quando non abbiamo sufficienti informazioni per farlo. Ad esempio, nel caso del
bastone che appare spezzato nell'acqua l'immagine che si forma nella mia mente è corretta, anche se non corrisponde alla realtà, nel
senso che il simulacro che perviene ai miei organi di senso viene percepito così com'è senza alcuna modifica. Quando però io
elaboro un giudizio e dico "il bastone è spezzato", allora commetto un errore. Non lo commetterei se dicessi: "io vedo il bastone
spezzato", perché le cose stanno proprio così: io vedo effettivamente un bastone spezzato. Questo però non significa che lo sia
davvero, perché in questo caso tra la cosa e il suo simulacro si è instaurata una differenza. La sensazione infatti riguarda i simulacri e
la coscienza che ne abbiamo; il giudizio pretende invece di mettere da parte la nostra coscienza soggettiva e di descrivere la realtà
vera ed oggettiva della cosa.
In questo passaggio dal soggettivo all'oggettivo può nascere l'errore, se non teniamo conto del fatto che le informazioni che abbiamo
sono insufficienti a formare un giudizio. Nel caso del bastone la scarsità di informazioni è evidente: basterebbe utilizzare un altro
senso, il tatto, e ci accorgeremmo subito che la nostra mano tocca un oggetto non spezzato. Attraverso il confronto di informazioni
diverse potremmo arrivare ad un giudizio migliore.
3.3. Il metodo
Per la conoscenza oggettiva della natura delle cose è necessario un metodo che sia al tempo stesso una guida per la ricerca filosofica
ed uno strumento di verifica dei nostri procedimenti razionali. Lo scopo è quello di trovare la verità e di evitare l'errore. In Epicuro
l'intera teoria della conoscenza, come si è detto, forma l'oggetto di una disciplina chiamata canonica. L'origine di questo termine
mostra l'intento del filosofo. Cànone è infatti la regola, "ma il vocabolo greco indica originariamente il regolo di cui si servono i
muratori" (D. Pesce). Ciò che qui viene studiato è dunque la misura, il metodo della conoscenza razionale.
Ricapitoliamo quanto detto sulla teoria della conoscenza. Noi conosciamo attraverso le sensazioni e le affezioni, sulle quali
formiamo le anticipazioni ed i giudizi. Sono questi ultimi a costituire lo strumento della conoscenza razionale dell'oggetto, ma essi
non possono operare che sulla base delle sensazioni, delle affezioni e delle anticipazioni. Il metodo consiste allora nel distinguere gli
oggetti da studiare sulla base delle informazioni che ne abbiamo. Chiamiamo fenomeni le informazioni che la realtà ci dà attraverso i
sensi: del mondo esterno, infatti, possiamo conoscere solo ciò che i nostri sensi sono in grado di recepire, ciò che appare ad essi
(l'aggettivo greco fainomenos è detto di ciò che appare, che si manifesta).
I fenomeni della natura possono essere di tre tipi:
- Fenomeni evidenti: su questi non c'è alcun problema perché abbiamo tutte le informazioni necessarie per poter formulare un
giudizio. Tra oggetto, simulacro e sensazione non si è instaurata alcuna differenza.
- Fenomeni non evidenti, ma tali da poter diventare evidenti se riusciamo a modificare le condizioni in cui riceviamo informazioni
dall'oggetto. Ad esempio, un oggetto molto lontano può diventare evidente se riusciamo ad avvicinarci ad esso, o un oggetto molto
piccolo se riusciamo ad osservarlo attraverso una lente (oggi potremmo aggiungere: un oggetto ci dà più informazioni di sé, se lo
osserviamo attraverso macchine e strumenti di misura adeguati). Nel caso di fenomeni non evidenti il giudizio va sospeso, finché
non abbiamo un sufficiente numero di informazioni. Se non sospendiamo il giudizio, corriamo il rischio dell'errore perché potrebbe
essersi instaurata una differenza tra oggetto, simulacro e sensazione. Compito della ricerca scientifica sarà quindi quello di cercare le
migliori condizioni in cui studiare l'oggetto per ottenere il massimo di informazioni.
- Fenomeni occulti. Nascono da questo tipo di fenomeni i maggiori problemi. Un oggetto è occulto quando non ci dà che poche
informazioni, ed appartiene ad un tipo di oggetto reale le cui informazioni difficilmente potranno aumentare: ad esempio è questo il
caso dei terremoti o di certi fenomeni meteorologici o astronomici. E' possibile costruire giudizi certi su di essi? Epicuro, con molto
vigore, sostiene la non scientificità dei giudizi sulle cose occulte, su cui possiamo avere conoscenze al massimo probabili, o fare
semplici congetture.
Il metodo è rigoroso. Se non si distinguono i fenomeni occulti da quelli non ancora evidenti, ma che possono diventarlo, oppure se si
formulano giudizi che pretendono di valere in modo oggettivo per le realtà occulte, allora si è fuori dalla scienza. Di queste realtà
saranno possibili spiegazioni molteplici, sarà cioè possibile soltanto costruire teorie, ipotesi di lavoro, tentativi di spiegazione il cui
valore è solo probabile; lo scienziato potrà tenerne presenti diverse, perché sa che nessuna di esse è in grado di spiegare sino in
fondo questo tipo di realtà.
L'astronomia è in particolare il campo in cui è necessario applicare il criterio delle spiegazioni molteplici. Per la tranquillità dell'
animo è infatti necessario eliminare le superstizioni e le paure degli dèi; non è quindi tanto importante conoscere la vera spiegazione
dei fenomeni astronomici - difficile da raggiungere per la esiguità delle informazioni in nostro possesso - quanto sapere che possono
esistere diverse spiegazioni naturali che escludono la superstizione e l'intervento degli dèi, anche se non possiamo identificare con
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precisione quale sia quella vera.
Nella Lettera a Pitocle, Epicuro scrive:
"Il dare di questi fatti una sola spiegazione, mentre invece i fenomeni ne consigliano molte, è agire da folli ed in maniera inadeguata,
propria di coloro che seguono la stolta scienza astronomica, i quali invano danno ragione di alcuni fenomeni, dal momento che non
liberano mai la natura divina da tali compiti".
Il discorso è qui per Epicuro particolarmente importante perché l'ambito dei fenomeni occulti è quello in cui si sono insinuate sia la
superstizione popolare, contro la quale ogni visione scientifica della realtà deve combattere, sia la teologia astrale platonica, con la
sua mitica spiegazione delle cose del cielo e degli inferi.
Il lavoro di demitizzazione del mondo e di lotta alle superstizioni, che Epicuro vuole intraprendere per rassicurare l'uomo circa il suo
destino, consiste proprio nel dimostrare che l'occulto è, appunto, occulto, e che ogni spiegazione che pretenda di essere esauriente ci
inganna, perché non c'è uomo che abbia abbastanza informazioni per formulare giudizi. E' sempre possibile invece formulare delle
teorie, o ipotesi di lavoro, che spieghino questi fenomeni occulti sulla base delle leggi fisiche, escludendo ogni intervento divino o
soprannaturale.
E' questa esclusione che importa, non tanto trovare la vera spiegazione. Bisogna far capire alla gente che se avviene un terremoto è
assurdo pensare all'ira degli dèi; non sappiamo bene quale ne sia la causa e forse non la conosceremo mai esattamente, ma è
possibile formulare diverse teorie fisiche (fondate sui princìpi dell'atomismo) che spieghino il verificarsi dei terremoti, lasciando gli
dèi al loro posto e noi al nostro. "La vera novità di Epicuro consiste nel fatto che egli fu il primo ad organizzare un movimento per
liberare l'umanità intera dalla superstizione.(...) Escludendo dalla natura il mortificante intervento degli dèi del paganesimo, Epicuro
pose fine anche a tutte quelle pie menzogne con cui gli uomini si ingannavano l'un l'altro e ingannavano se stessi. Mentre Protagora,
Socrate ed anche Democrito, l'Accademia, il Liceo, la Stoa, e tutte le scuole, anche le più libere, credevano nella divinazione (e
ricorrevano al volo degli uccelli, alle viscere delle vittime, alle stelle e ai sogni, al delirio e a cento altre pratiche) Epicuro fu il solo
che rifiutò queste scienze ingannatrici e ne rivelò l'impostura" (B. Farrington).
C'è un'ultima considerazione da fare sulle cose occulte. Gli atomi ed il vuoto sono realtà occulte perché di essi non abbiamo alcuna
informazione sensibile diretta: gli atomi sono troppo piccoli ed il vuoto, proprio perché vuoto, non può mandarci nessun simulacro
di sé, visto che il vuoto non è composto di atomi ed i simulacri sono fatti di atomi. Tuttavia siamo scientificamente certi della loro
esistenza in altro modo, e cioè per deduzione. Atomi e vuoto sono condizioni necessarie perché la realtà sia così come la
conosciamo. Noi abbiamo esperienza dei corpi e del loro movimento. Perché queste cose ci siano, è necessario un luogo che le
contenga, un luogo che abbia sufficiente spazio vuoto per contenerle. Né i corpi possono essere divisibili all'infinito senza
dissolversi nel nulla. Essi sono quindi occulti per l'esperienza sensibile diretta, ma sono condizioni razionalmente certe della realtà
sensibile.
4. L'etica
L'etica è la parte più nota della filosofia epicurea. Essa costituisce lo scopo della ricerca della fisica e della canonica. È di Epicuro la
sentenza:
"Vana è la parola di un filosofo, se non allevia qualche sofferenza umana".
E il vano, come vedremo, per Epicuro è da evitare. Se la filosofia ha diritto di cittadinanza nel mondo culturale degli uomini, ciò è
dovuto alla sua capacità di placare le sofferenze che la vita comporta.
Abbiamo oggi conoscenza diretta dell'etica epicurea soltanto da alcune sentenze e soprattutto dalla Lettera a Meneceo, la più nota
forse fra quelle scritte dal filosofo. Poiché l'etica ha un'importanza fondamentale, seguiamo la stessa impostazione di Epicuro e
presentiamo il suo pensiero seguendo argomento per argomento la Lettera a Meneceo.
- Filosofia e felicità
Dall'avvio della lettera è subito chiaro che cosa sia la filosofia per Epicuro: in sintesi, un ottimo modo per imparare ad essere felici.
Altrove egli scrive:
"Bisogna ridere ed insieme filosofare ed attendere alle cose domestiche ed esercitare tutte le nostre altre facoltà, e non smettere mai
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di proclamare i detti della retta filosofia".
È naturale quindi, come corollario, che la filosofia sia per tutti e per tutte le età (coerentemente con questa tesi le comunità epicuree
erano aperte a tutti senza distinzione di sesso o di condizione sociale).
Epicuro infatti ritiene che la verità possa essere facilmente scoperta e compresa dalla ragione dell'uomo, e che quindi la filosofia,
come attività che ci permette di conoscere razionalmente la verità, sia alla portata di tutti ed abbia carattere liberatorio. Egli esclude
lunghe iniziazioni e faticosi percorsi dialettici. Nella Lettera a Meneceo si legge tra le righe questo concetto: la conoscenza della
verità è capace essa sola di liberare il cuore dell'uomo dalle inquietudini e dalle passioni e di avviarlo al facile cammino
dell'equilibrio razionale. Epicuro insiste sulla facilità con cui si impara e si mette in pratica la filosofia, se si ha cura di meditare sui
suoi princìpi. Certamente questa insistenza è in rapporto con l'atteggiamento che era stato tenuto da altri filosofi del suo tempo.
All'ingresso dell'Accademia, per citare un esempio, una iscrizione vietava l'accesso a chi non conoscesse le matematiche. Platone
infatti considerava la filosofia l'ultimo gradino del processo di conoscenza, a cui si veniva iniziati dopo un lungo tirocinio. Aveva
quindi una concezione aristocratica della filosofia, concezione destinata ad un notevole successo nel mondo antico. Per Epicuro
invece ciò che conta è la felicità individuale: "se siamo felici abbiamo tutto ciò che ci occorre" e la felicità è per tutti. Per possederla
però il giovane deve liberarsi dalle paure e dalle ansie, "per affrontare con coraggio l'avvenire", mentre il vecchio deve saper
conservare i bei ricordi, per rimanere giovane. La filosofia si presenta quindi sotto una duplice veste:
a. da una parte insegna, attraverso la conoscenza della natura delle cose, a liberare la mente dalle inquietudini;
b. dall'altra insegna a godere del piacere della vita.
La lettera descrive dapprima questa attività di liberazione, in particolare dalla paura degli dèi e della morte, quindi spiega in che cosa
consista il piacere e come lo si ottenga.
- Sugli dèi
La concezione di Epicuro sugli dèi è sorprendente, anche perché è veramente unica nel mondo antico. Egli crede che gli dèi esistano,
accogliendo in questo la convinzione comune al suo tempo, e non si si cura affatto di dimostrare la loro esistenza. Essa è
semplicemente evidente ai suoi occhi: per lui non esiste in proposito alcun dubbio. Questa evidenza viene spiegata con la teoria dei
simulacri: noi conosciamo gli dèi perché la nostra mente percepisce i loro simulacri anche se, per la particolarità degli atomi che li
compongono, questi non possono essere percepiti dai sensi allo stesso modo degli altri oggetti sensibili. Gli dèi, come qualsiasi altro
essere in natura, sono composti da atomi, e hanno quindi, in fondo, la nostra stessa natura. Possono però reintegrare le perdite di
atomi che subiscono e quindi la loro vita non ha termine e non si ha mai la disgregazione del loro corpo, così come avviene invece
per tutti gli altri esseri. Gli dèi vivono nello spazio fra i mondi (gli intermundia di Lucrezio) e sono quindi fisicamente lontanissimi
da noi che viviamo entro un mondo ben circoscritto.
A proposito dell'epicureismo Cicerone scrive:
"Epicuro vide che esistono gli dèi perché nell'animo di tutti la natura ha impresso la nozione di essi. Quale popolo c'è, quale stirpe di
uomini che non abbia, senza bisogno di una dottrina particolare, una certa qual anticipazione degli dèi, che Epicuro chiama prolessi,
cioè una qualche informazione anticipata, senza la quale né capire, né ricercare, né discutere si può alcunché?"
Le caratteristiche fondamentali degli dèi sono due: l'immortalità e la felicità. La felicità degli dèi non è affatto di natura diversa dalla
nostra: è solo il risultato della perfezione della loro costituzione corporea. Poiché l'infelicità nasce dal bisogno, gli dèi sono felici
perché non hanno mai bisogno di nulla. Epicuro invita a trarre le conseguenze di questa concezione degli dèi: hanno gli uomini
qualche cosa da temere da esseri cosiffatti? E' coerente con l'immagine che hanno della loro perfetta e felice immortalità il pensiero
che essi possano interessarsi agli uomini e alle loro vicende? Evidentemente no, ed Epicuro esorta a considerare gli dèi come sono,
ed a liberarsi dalla paura dei loro castighi come dalla speranza dei loro premi. Gli dèi, felici, "considerano estraneo tutto ciò che non
è simile ad essi" e ovviamente non se ne curano affatto. La paura degli dèi è irrazionale, e l'epicureo è un uomo libero che si occupa
di loro solo per imitarli e cercare di essere felice come loro; mai per temerli. "Gli epicurei erano educati ad elevarsi verso i loro dèi
con devozione ed amore ed a sperare che, mantenendo puri i loro cuori, le sacre immagini che emanavano dai corpi degli dèi
sarebbero liberamente penetrate nelle loro menti portando con sé qualcosa della pace e della beatitudine divina. Era una religione
senza timore, una religione senza miracoli, una religione senza offerte se non quella di un cuore puro, basata sulle credenze
tradizionali del popolo, che non richiedeva necessariamente templi o clero, ma soltanto una mente serena" (B. Farrington).
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- Sulla morte
Se è irrazionale avere paura degli dèi in vita, questo timore è altrettanto assurdo pensando ad una vita futura oltre la morte, per la
semplice ragione che per l'uomo non esiste alcuna vita futura, di alcun genere. L'anima è fatta di atomi e si disgrega col corpo. Con
la morte tutto finisce. Dobbiamo avere paura di questa fine?
"Non c'è nulla da temere nella vita se si è veramente convinti che non c'è niente da temere nel non vivere più". Ma non è facile: il
pensiero che un giorno non vivremo più non ci dà serenità. Per Epicuro bisogna risolvere alla radice il problema: come si fa a
togliere "il desiderio di immortalità"? Bisogna dimostrare che la morte è niente per noi, che la vita è bella così com'è, e che non è
saggio desiderarne altre: "il saggio non rifiuta la vita e non teme la morte, perché non è contrario alla vita, ma nello stesso tempo non
considera un male il non vivere". La vita è bella perché dà piacere, la morte non è né bella né brutta perché non dà nulla.
E' qui il cuore della argomentazione, famosissima: "Quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte non ci siamo più noi".
E allora, se è nulla, perché averne paura? Il saggio cerca il piacere della vita così com'è, ed evita il dolore. Evita anche la morte? No,
l'accetta quando viene, ma non la fugge né la teme perché la morte non è "il più terribile dei mali", anzi non è affatto un male, perché
non è nulla. Né male, né bene. Solo la fine.
Il vero problema è arrivare felici a questa fine: "Non il giovane è felice, ma il vecchio che ha vissuto una vita bella". Ed è la
memoria il segreto per conservare la felicità della vita: "Chi è dimentico del bene passato è già vecchio oggi". Epicuro stesso ce ne
dà una prova; in punto di morte scrive ad un amico:
"Ti scrivo questa lettera mentre trascorro il giorno beato ed ultimo della mia vita. Mi accompagnano sofferenze al ventre così grandi
che maggiori non potrebbero esservene, ma a queste si contrappone la felicità del mio animo per il ricordo dei nostri ragionamenti
passati".
È assurdo in vita lasciare che il nostro animo si angosci pensando alla morte. L'angoscia è un dolore presente, reale, forte; la morte,
il cui pensiero genera l'angoscia, non è e non sarà mai presente. E' sì certamente nel futuro, ma in un futuro nel quale noi non saremo
più. Perché angosciarsi?
- Sui desideri
Fin qui Epicuro ha spiegato sinteticamente quella parte della sua filosofia che si propone di liberare l'uomo ristabilendo la verità e
sgombrando il campo da ciò che irrazionalmente ci procura dolore. Si tratta adesso di descrivere in positivo la bellezza della vita e di
spiegare attraverso quali strumenti un uomo può essere felice.
Epicuro infatti crede veramente che una felicità piena sia possibile in vita, naturalmente a certe condizioni.
"Il futuro non è interamente nelle nostre mani, ma in qualche modo lo è anche se in parte". Per essere felici è quindi necessario
rendersi conto che noi non siamo affatto padroni del futuro, e che ogni nostro progetto è subordinato al naturale corso degli eventi.
Questo non deve - però indurci al fatalismo, perché in qualche modo noi possiamo influire sul futuro. Il saggio quindi sa che i suoi
progetti possono realizzarsi, ma è consapevole che è nella natura delle cose se, a volte, essi non si realizzano.
"Una sicura conoscenza dei desideri naturali guida le scelte della nostra vita". Il saggio costruisce il proprio futuro, nel rispetto della
natura propria e del mondo, con le sue scelte. Ma ogni scelta ha sempre dietro di sé un desiderio del nostro animo ed il saggio sa
discernere tra i propri desideri. Principio cardine dell'etica epicurea è che la felicità è una sensazione che nasce non dal desiderio in
quanto tale, ma dalla sua soddisfazione. Il dolore è anch'esso una sensazione, che però nasce da desideri insoddisfatti. La conoscenza
del piacere e del dolore, e non quella del bene come valore di tipo platonico, costituisce il fondamento delle scelte etiche del saggio.
E' allora evidente la regola etica che il saggio seguirà: egli lascerà libero corso a tutti quei desideri la cui soddisfazione è
indispensabile (la fame, la sete, ecc.) o a quei desideri che egli ha la ragionevole certezza di poter soddisfare. Di qui la distinzione tra
i desideri vani, che vanno repressi perché non naturali e quindi di difficilissima soddisfazione, e desideri naturali: alcuni di questi
ultimi sono necessari e non possono non essere soddisfatti (sono pochi, la fame e la sete, e di facile soddisfazione), mentre altri non
sono necessari, e su questi il saggio esercita la sua capacità di discernimento.
"Noi compiamo tutte le nostre azioni al fine di non soffrire e di non avere l'animo turbato". Se ci troviamo già in questa condizione,
non desideriamo nulla perché nulla ci manca. E' questo l'obiettivo da raggiungere, visto che il desiderio nasce sempre dalla
mancanza di qualche cosa. E' qui il segreto della felicità degli dèi ed è questo il motivo per cui dobbiamo imitarli, anche se essi non
si curano di noi. Essi sono felici perché non mancano di nulla, e quindi non desiderano nulla. Appunto per questo si disinteressano
degli uomini.
Epicuro è quindi contrario ad ogni forma di consumismo, perché abituarsi ad alti consumi - per usare una terminologia moderna -
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significa diventare schiavi delle proprie abitudini: non potremo più fare a meno di cose che, prima di abituarci ad esse, non avevano
alcuna importanza per noi. E così saremo meno liberi e, con ogni probabilità, meno felici.
- Sul piacere: edonismo e utilitarismo
Se diciamo che il piacere è l'assenza o la soddisfazione dei desideri, ne diamo una definizione negativa. Ma in positivo che cosa è il
piacere? Epicuro scrive: "E' il bene primo, connaturato con noi stessi". E' al termine connaturato che bisogna porre attenzione.
L'uomo è felice secondo natura, a meno che non gli manchi qualcosa. Infatti il piacere è la felice sensazione di pienezza che l'uomo
prova naturalmente, se non lo limitano dei desideri insoddisfatti.
Poiché Epicuro considera il piacere come carattere primo della vita dell'uomo e scopo dell'azione, chiamiamo la sua teoria etica
edonismo (da hedonè, che in greco significa piacere).
Per il materialismo epicureo il piacere non è una lunga, remota e difficile conquista. Al contrario esso è vicinissimo a noi tanto da
essere con noi connaturato, un carattere del nostro essere. Tutto ciò che dobbiamo fare è mantenerci nel piacere, eliminando le cause
che disperdono la pienezza del nostro essere. Seneca commenta il concetto di felicità come pienezza con questo esempio:
"Come la serenità del cielo non può ricevere maggiore splendore una volta che sia tersa nel nitore più schietto, così la condizione
dell'uomo che ha cura del corpo e dell'anima e dall'armonica connessione di essi trae il suo bene, è perfetta e raggiunge il sommo dei
suoi desideri se non c'è né tempesta nell'animo né dolore nel corpo".
Infatti la nostra costituzione, essendo il nostro corpo come la nostra anima un composto di atomi abbastanza stabile, ma incline alla
instabilità, tende alla disgregazione ed è pertanto sempre necessario reintegrare dentro di noi le perdite atomiche che continuamente
subiamo (e proprio in questo consiste, nell'esempio prima citato, la natura della fame e della sete).
Per questo motivo Epicuro scrive che il piacere - in quanto sensazione interiore - deve essere "posto come norma delle nostre
affezioni". E' un problema di "calcolo e valutazione degli utili". Il principio è il seguente. Ogni piacere è di per sé un bene, ma non è
detto che le sue conseguenze nel tempo siano vantaggiose per noi. Viceversa ogni dolore è un male, ma non è detto che da un male
non possa derivare un bene per noi. Quindi il piacere diventa la norma, il metro, su cui giudicare le nostre azioni perché ci
suggerisce che cosa scegliere, spingendoci verso ciò che nel tempo ci è più favorevole. Proprio per questo motivo Epicuro consiglia
una vita frugale. Innanzitutto perché fa bene al corpo, e poi perché l'abitudine alla frugalità consente di trarre piacere dal poco, e di
essere facilmente felici; allo stesso tempo non ci impedisce affatto, all'occasione, di godere dell'abbondanza (Epicuro però invita a
diffidare: attenti alle conseguenze dell'abbondanza, perché possono a volte nuocere, ed attenti al prezzo da pagare per averla, che
non sia troppo alto). Più sopra, aveva scritto: "Il saggio non cerca i cibi più abbondanti, ma i migliori; così non cerca di avere più
tempo da vivere, ma di godere il tempo più dolve".
Concludendo il suo discorso sul piacere, poi, Epicuro mette in guardia contro le errate interpretazioni del suo pensiero. Noi
sappiamo che il significato del termine epicureo è stato travisato nel tempo divenendo sinonimo di gaudente, detto di chi è dedito ai
piaceri materiali. Questo travisamento doveva essere diffuso già al tempo di Epicuro. Su questo punto le sue parole sono chiarissime.
Il piacere è il bene completo e perfetto, ma non si tratta del piacere dei dissoluti; il piacere è invece "non avere dolore nel corpo né
turbamento nell'animo". La vita felice è il risultato di un "sobrio calcolo". E' per questo che, in chiusura della lettera Epicuro fa un
elogio della prudenza, considerato il fondamento di tutte le virtù (laddove per virtù è da intendersi l'insieme dei comportamenti
abituali capaci di darci stabilmente la felicità). La prudenza è infatti l'abitudine a contenere i desideri, e a valutare con cura le
conseguenze delle nostre scelte, prevedendo un ampio margine di sicurezza, per evitare che da un bene abbia a derivare un male. In
una sentenza Epicuro afferma: "Per ognuno dei desideri va posta questa domanda: che cosa mi accadrà se si realizza il mio desiderio,
e che cosa se non si realizza ?"
In conclusione la vita sarà felice se saprà essere vissuta con saggezza, semplicità e giustizia. Qui per giustizia si deve intendere l'utile
nei rapporti reciproci: "La giustizia non è qualche cosa che esiste di per sé, ma solo nei rapporti reciproci e sempre a seconda dei
luoghi dove si giunge ad un accordo per non recare né ricevere danno".
Poiché la teoria epicurea considera l'utile come metro per valutare la correttezza dell'azione, la sua teoria è utilitarista. Il bene è
infatti non un valore, come per Platone, ma una sensazione: il metro per il bene è il piacere, e quindi l'utile, il metro per il male è il
dolore. "Ogni bene e ogni male consiste nella sensazione".
Sull'amicizia e sull'amore
Nella Lettera a Meneceo non ne fa parola, ma in altri testi (e la cosa è confermata dalle testimonianze sulla sua vita) Epicuro scrive
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che vanno privilegiati i sentimenti dell'amicizia, perché sono fonte di grande piacere, immuni da cattive conseguenze. Nell'esaltare
l'amicizia, egli assume a volte toni lirici. Una sua sentenza dice:
"L'amicizia percorre il mondo annunziandoci che è giunta l'ora per noi di essere felici".
E un'altra:
"Di tutti quei beni che la saggezza ci procura per essere felici, il più grande di tutti è acquistare l'amicizia".
C'è infatti nell'amicizia una serenità profonda, superiore anche a quella dell'amore, perché più facilmente si può conservare libera da
cattivi sentimenti, da sentimenti che portano dolore, come la gelosia, o il dolore del distacco, o la paura di non essere riamati.
L'amore è un sentimento che ha in sé qualche cosa di eccessivo, qualche cosa che fa quasi violenza sull'anima. Occorre molta più
prudenza per l'amore che per l'amicizia. La comunità epicurea del Giardino, come poi altre nel mondo antico, tenevano a presentare
se stesse come comunità di liberi amici.
- Sul fato e la fortuna
L'ultima questione che Epicuro tratta nella Lettera a Meneceo, riguarda argomenti molto dibattuti nella cultura greca, cioè il fato e la
fortuna. Il termine "fortuna" va inteso sia in senso favorevole, sia nel senso sfavorevole di sfortuna. Fortuna è quindi l'imprevedibile
accadere degli eventi. Sul fato la tesi di Epicuro è di assoluto rifiuto. La sua fisica infatti, con la teoria del clinamen, esclude un
rigido determinismo ed ammette un principio di libertà nella natura. Per questo egli può escludere che le teorie sul fato - questo
destino che governerebbe inesorabilmente gli uomini ed il mondo - abbiano alcuna validità.
Sulla fortuna il suo atteggiamento è diverso. Effettivamente - Epicuro lo ha sostenuto prima: "Il futuro non è interamente nelle nostre
mani" - noi non dominiamo la fortuna. Come si comporta il saggio?
"E' preferibile che nelle nostre azioni una saggia decisione non sia premiata dalla fortuna, piuttosto che una decisione poco saggia sia
coronata dalla fortuna". Ritorna il discorso sulla prudenza. Proprio questa virtù ci insegna come comportarci, perché il saggio sa che
esiste la fortuna e ne tiene conto nelle sue scelte. Saggio è quindi non colui che domina la fortuna, ma colui che agisce in conformità
ai princìpi epicurei, accettando, se non può far altro, i colpi della sorte con animo sereno. Epicuro ne ha dato un esempio nella
malattia che lo ha condotto alla morte. I1 saggio, meditando giorno e notte la retta filosofia, consegue la perfetta felicità, nonostante
il dolore del mondo, perché questo non può turbare la tranquillità del suo animo. Egli è simile ad un dio tra gli uomini. "L'uomo
infatti che vive tra beni immortali non è in niente simile ad un mortale".
- Il quadrifarmaco
Il metodo pedagogico epicureo prevede che il contenuto della dottrina sia espresso in modo da poter essere facilmente memorizzato:
per questo si avvale di formule efficacemente espressive. La più famosa di queste formule - molte delle quali risalgono ad Epicuro,
mentre altre sono della sua scuola - è probabilmente il cosiddetto tetrafarmaco, un insieme di quattro formule che racchiudono una
parte del contenuto essenziale della Lettera a Meneceo, presentate come farmaco contro l'inquietudine della vita umana.
Un epicureo del I secolo a.C., Filodemo di Gadara, ci riporta in forma molto sintetica le formule del tetrafarmaco:
"Gli dèi non sono da temere;
Non c'è rischio da correre nella morte;
Il bene è facile a procurarsi;
Il male è facile da sopportare con coraggio".
La necessità di simili formule adatte ad una pedagogia per i nonfilosofi nasce dal fatto che la filosofia di Epicuro si rivolge a tutti, e
deve quindi adeguarsi nei suoi mezzi espressivi anche a chi non ha capacità, possibilità o interesse ad approfondire i tecnicismi
filosofici della dottrina. Essa si presenta non come una complessa indagine per pochi iniziati, ma come una ragionevole guida per
tutti.
Tuttavia essa non ha il carattere di una filosofia pubblica; conserva invece un carattere fortemente privato, e si sviluppa nei circoli
epicurei, privati e mai pubblici, in cui, come si è detto, i componenti sono legati da personali rapporti di amicizia. La politica è fonte
di preoccupazione e di affanni, ed è per questo che il saggio le resta lontano, non per altri motivi. Concludiamo citando un
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frammento di una lettera di Epicuro, di cui non ci è rimasto altro che la frase, emblematica:
"Queste cose io le dico non per molti, ma per te: noi siamo infatti l'uno all'altro abbastanza vasto teatro".
- L'epicureismo e la politica
L'ideale di vita secondo il modello epicureo implica un sostanziale distacco dalla politica e dall'impegno pubblico, perché il piacere
è garantito non dal successo o dall'adempimento di doveri (che l'epicureo non sente affatto: non ci sono valori né doveri
nell'universo etico epicureo, fondato sui princìpi dell'edonismo e dell'utilitarismo), ma dalla soddisfazione dei bisogni primari, dalla
meditazione filosofica e dalla serena compagnia degli amici, in un clima privo di tensioni. Le comunità epicuree sono quindi
comunità private che tendono a mantenere scarsi contatti con la vita pubblica. "Vivi nascosto", è il consiglio di Epicuro ai suoi
seguaci. In questo, l'epicureismo ha dato una indicazione di vita del tutto opposta a quella della contemporanea scuola stoica, che
invece ha indicato nell'impegno politico e nel servizio agli altri nello Stato un preciso dovere dell'uomo saggio.
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