Silvia Simone Nullità delle intese anticoncorrenziali ed effetti sui contratti a valle Tesi di Dottorato Dottorato di ricerca Consumatori e mercato XVII Ciclo Coordinatore: Ch.ma Prof.ssa L. Rossi Carleo Direttore di ricerca: Ch.mo Prof. M. Sandulli Facoltà di Economia “Federico Caffè” Università degli Studi “Roma Tre” Roma, 2005 INDICE Premessa: struttura e scopo dell’indagine ..........................................1 Capitolo I – Regolazione del mercato e teoria generale del contratto: termini del problema...................................18 1. Intese anticoncorrenziali ed effetti sui contratti a valle: logica di un intervento .............................................................................................................. ............................................................................................................................... 18 2. Analisi del contesto e rilevanza del problema: dalla fiera al dominio delle multinazionali........................................................................................... 27 3. Contratti dei consumatori e contratti d’impresa: la disciplina della contrattazione diseguale quale sottosistema della disciplina della concorrenza e del mercato................................................................................. 44 4. Violazione delle norme antitrust e tutela dei consumatori ................................ 50 5. Le intese nel diritto antitrust .............................................................................. 57 5.1. La nozione di intesa ................................................................................... 57 5.2. La nullità delle intese anticoncorrenziali ................................................... 71 5.3. L’autorizzazione in deroga ......................................................................... 78 5.4. L’invalidità successiva delle intese............................................................ 85 6. Il Regolamento n. 1/2003: profili generali della riforma................................... 87 Capitolo II – Nullità delle intese antitrust e contratti a valle: analisi critica delle ricostruzioni................................. 93 1. Premessa ............................................................................................................ 93 2. Intese illecite e nullità dei contratti a valle ........................................................ 96 2.1. L’invalidità derivata e relative critiche ...................................................... 99 2.2. L’illiceità della causa ............................................................................... 106 2.2.1. Critiche........................................................................................... 109 II 2.3. L’illiceità dell’oggetto.............................................................................. 111 2.3.1. Critiche........................................................................................... 111 2.4. La nullità virtuale dei contratti a valle dell’intesa anticoncorrenziale .................................................................................... 112 2.4.1. Critiche alla tesi della nullità virtuale per contrasto con la norma imperativa di cui all’art. 2 della legge antitrust ................ 114 2.5. L’invalidità del contratto a valle come ipotesi di nullità di protezione................................................................................................. 119 2.6. Nullità ed abuso di posizione dominante ................................................. 126 2.6.1. Critica.................................................................................................... 134 3. La validità dei contratti a valle ........................................................................ 136 3.1. Linee generali........................................................................................... 136 3.2. I rimedi diversi dalla nullità: le tesi ......................................................... 142 3.3. L’utilità del richiamo alla figura della annullabilità: esiti ed obiezioni................................................................................................... 144 3.4. Una tesi minoritaria: la rescindibilità ed il diritto alla correzione del contratto.............................................................................................. 150 3.5. L’illecito anticoncorrenziale ed il risarcimento del danno in via extra-contrattuale: una questione ancora aperta....................................... 155 3.5.1. Il rimedio aquiliano e la selezione degli interessi rilevanti nel diritto antitrust .......................................................................... 155 3.5.2. L’ingiustizia del danno ................................................................... 172 3.5.3. L’elemento soggettivo, il nesso di causalità e la quantificazione del danno ............................................................... 175 Capitolo III – Concorrenza e mercato: prospettive evolutive.......... 184 1. La possibilità di una ricostruzione alternativa ................................................. 184 1.1. Il contratto a valle come elemento costitutivo della fattispecie anticoncorrenziale .................................................................................... 187 2. Le recenti aperture della giurisprudenza amministrativa ................................. 199 III 3. La sentenza 4 febbraio 2005, n. 2207 delle SS. UU. della Corte di Cassazione ............................................................................................................. ......................................................................................................................... 210 3.1. Osservazioni critiche................................................................................ 224 4. Considerazioni conclusive ............................................................................... 244 Riferimenti bibliografici ...................................................................................... 249 IV Premessa Struttura e scopo dell’indagine L’indagine muove dall’interrogativo - non risolto positivamente dal legislatore e non ancora sciolto nei suoi nodi cruciali da giurisprudenza e dottrina - relativo agli effetti che l’accertata esistenza di un’intesa anticoncorrenziale esplica sui contratti (successivamente) conclusi da ciascuna impresa aderente al patto illecito nel rispettivo mercato di riferimento 1 . L’analisi, in particolare, viene svolta inquadrando la problematica nell’attuale contesto normativo che, anche alla stregua delle recenti no vità di derivazione comunitaria, ha indotto ed imposto un ripensamento critico del regime delle invalidità e dei rimedi risarcitori, quali concepiti e costruiti dal codice civile 2 . 1 A questo proposito, nei termini più generali, “mercato” è qualsiasi ambito entro il quale si realizza l’incontro tra domanda ed offerta di beni e servizi e lo scambio di essi attraverso il meccanismo del prezzo, determinato appunto da tale incontro: gli operatori decidono in autonomia e singolarmente i propri comportamenti, in particolare i prezzi e le quantità di vendita e di acquisto, tale per cui la performance complessiva del mercato, in termini di prezzi e quantità globali, è la risultante delle innumerevoli decisioni decentrate assunte dagli attori che vi operano e delle loro interazioni. Il termine “concorrenza”, può assumere due significati ed entrambi presuppongono la nozione di mercato enunciata: di essi uno è riferito alla condotta delle imprese, l’altro a una particolare conformazione strutturale del mercato. La prima accezione è quella che richiama la rivalità, la competizione e la lotta tra le imprese, che attuano comportamenti indipendenti al fine di incrementare la propria posizione sul mercato, a scapito delle rivali. La seconda, invece, è costituita dalla situazione caratterizzata da un numero elevato di operatori sul mercato, ognuno dei quali offre una quota talmente ridotta del medesimo prodotto o servizio da non essere in grado di influenzare singolarmente il livello del prezzo a seguito di una variazione della quantità offerta. Per la polisemia del termine “mercato” si veda, in particolare, M.R. FERRARESE , Diritto e mercato, Torino, 1992, p. 17 ss., che ordina la varietà di accezioni in quattro categorie: a) mercato come luogo; b) mercato come ideologia; c) mercato come paradigma di azione sociale; d) mercato come istituzione (p. 20); M. LIBERTINI , Il mercato: i modelli di organizzazione, in Tratt. dir. comm. dir. pubbl. ec., a cura di F. Galgano, III, Padova, 1979, p. 361 s., così riassume i caratteri del modello dell’economia di mercato: a) libero mercato dei fattori produttivi (materie prime, capitale e lavoro); b) libertà di iniziativa economica privata; c) organizzazione dell’impresa privata secondo il principio della sovranità del capitale; d) libero gioco della concorrenza; e) sovranità del consumatore. 2 Opportuno il richiamo, a riguardo, alle parole di N. I RTI, Il diritto della transizione, in L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 2004, p. 154, il quale pone in risalto il fatto che “il regime del mercato (o, se si vuole, il mercato come statuto giuridico della concorrenza e delle relazioni di scambio) si va costruendo fuori dal codice civile”. Sui micro-sistemi che si giustappongono al 1 Il percorso volto all’individuazione delle conseguenze che, in termini rimediali, l’illiceità di un comportamento collusivo sotto il profilo antitrust esplica sulle operazioni negoziali a valle, deve infatti inevitabilmente misurarsi con l’evoluzione che la disciplina normativa e le categorie concettuali della patologia negoziale hanno subito di recente e con l’esigenza crescente di ricondurre rapporti negoziali strutturalmente sperequati quali quelli imprenditore- consumatore entro una logica sostanzialmente paritaria ed equilibrata. L’impegno dell’analisi è dunque rivolto in primo luogo a considerare in chiave di convergenza ed implicazione reciproca l’interesse pubblico a garantire e dunque a tutelare la libera concorrenzialità del mercato da meccanismi distorsivi quali le intese antitrust e l’interesse privato, sotteso al singolo atto di scambio, alla luce dei medesimi principi di correttezza, trasparenza, ragionevolezza ed eguaglianza sostanziale tra le parti3 . “sistema codice” si veda, dello stesso Autore, Leggi speciali (dal mono-sistema al poli-sistema), in Riv. dir. civ., 1979, I, p. 141 ss.; L’età della decodificazione, Milano, 1979; nonché I cinquant’anni del codice civile, in Riv. crit. dir. priv., 1992, I, p. 227 ss. L’irruzione delle leggi speciali, quale fonte sempre più rilevante nel diritto dei contratti ed il conseguente fenomeno di decodificazione e di instaurazione di microsistemi extracodicistici, è evidenziato altresì da V. ROPPO, Il contratto del duemila, Torino, 2002, pp. 9-11, il quale, nel richiamare le leggi speciali “di ultima generazione” (tra cui la legge in tema di: cessione dei crediti d’impresa, legge 21 febbraio 1991, n. 52; contratti negoziati fuori dei locali commerciali, d.lgs. 15 gennaio 1992, n. 50; contratti bancari e di credito al consumo, d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385; viaggi, vacanze e circuiti “tutto compreso”, d.lgs. 17 marzo 1995, n. 111; contratti di assicurazione vita, d.lgs. 1995, n. 174, e di assicurazione danni, d.lgs. n. 175/1995; contratti relativi alla prestazione di servizi finanziari, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58; contratti per la vendita di multiproprietà, d.lgs. 9 novembre 1998, n. 427; contratti di subfornitura, legge 18 giugno 1998, n. 192; contratti a distanza, d.lgs. 22 maggio 1999, n. 185; indicazione dei prezzi offerti ai consumatori, d. lgs. 25 febbraio 2000, n. 84), ne evidenzia, quali tratti comuni, la derivazione comunitaria e in particolare l’obiettivo ultimo di regolazione del mercato e la vocazione marcatamente settoriale. L’Autore, a quest’ultimo proposito, registra nelle stesse pagine la nuova centralità dei tipi contrattuali a scapito del “contratto in genere” e la crescente difficoltà a ricostruire, in questo quadro di frammentazione sempre più spinta, una significativa unitarietà della figura contrattuale. Negli stessi termini anche G. CHINÈ, Il consumatore, in Diritto privato europeo, a cura di N. Lipari, vol. I, Padova, 1997, p. 164 ss. 3 La convergenza tra interesse pubblico e privato è ravvisabile, secondo L. M ENGONI, Forma giuridica e materia economica, in Diritto e valori, Bologna, 1985, p. 169, già nello stesso art. 41 Cost., poiché “il riconoscimento costituzionale della libertà di iniziativa economica privata non ha semplicemente il significato di garanzia di una posizione di libertà individuale contrapposta all’autorità dello Stato, ma esprime una valutazione obiettiva di tale libertà come mezzo attraverso il quale l’azione privata concorre con l’azione pubblica a determinare l’organizzazione economica complessiva del Paese, così che la posizione dei privati e la posizione dello Stato non sono fra loro contrastanti, l’una derogatrice all’altra, ma convergenti, nel risultato ultimo, verso i medesimi fini”. Nella stessa direzione, G. VETTORI , Le asimmetrie informative fra regole di validità e regole di responsabilità, in Riv. dir. priv., 2003, p. 251, il quale - richiamandosi espressamente alla sentenza 2 Lo sforzo viene svolto in particolare tenendo in debito conto (secondo le linee ricostruttive formulate nel Capitolo I) le trasformazioni dimensionali e strutturali che in questi ultimi anni hanno riguardato i protagonisti della scena economica. L’impulso del diritto comunitario - che non costituisce più “altro” rispetto al nostro ordinamento, rappresentandone a tutti gli effetti una importante componente organica e strutturale 4 (come espressamente riconosciuto a fini interpretativi dall’art.1, comma 4, della legge n. 287/90 5 ) - ed il carattere fortemente globalizzato Courage della Corte di Giustizia CE, 20 settembre 2001, causa C-453/99, in Foro it., 2002, IV, p. 76 ss., con nota di A. PALMIERI e R. PARDOLESI , Intesa illecita e risarcimento a favore di una parte “chi è causa del suo mal… si lagni e chieda i danni - afferma che, poiché le libertà economiche di iniziativa, di concorrenza e di contratto sono strettamente connesse, è sempre più difficile pensare di poter valutare il contenuto di un contratto inteso come affare isolato. Ogni atto di autonomia patrimoniale, aggiunge l’Autore, è un fatto economico inserito nell’economia generale della nazione e spetta “alla costituzione economica trasformare l’ordine spontaneo e stabilire i presupposti per realizzare la giustizia contrattuale in concreto. Ne deriva con chiarezza che il diritto dei contratti e le regole di concorrenza attuano in modo complementare l’ordine giuridico realizzato da tale contesto in un certo momento storico, e sono fra loro istituti strettamente connessi che possono arricchirsi a vicenda”. Per una posizione diversa si veda A. PALMIERI e R. PARDOLESI , Intesa illecita e risarcimento a favore di una parte “chi è causa del suo mal… si lagni e chieda i danni, cit., p. 76 ss. 4 In argomento si rinvia, tra i numerosi contributi, a G. TESAURO, Diritto comunitario, Padova, 1998; R. A DAM, Il diritto comunitario nell’ordinamento giuridico italiano, in Il diritto privato dell’Unione europea, a cura di A. Tizzano, Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, XXVI, Torino, 2000, p. 77 ss.; N. SCANNICCHIO, Il diritto privato europeo nel sistema delle fonti, in Diritto privato europeo, op. cit., p. 58 ss. Per quanto concerne specificamente la normativa antitrust, è poi appena il caso di ricordare che l’unica disciplina, che per lungo tempo ha regolato con una qualche consistenza ed incisività la materia nel nostro paese, è stata proprio quella di fonte comunitaria. Gli artt. 81 e seguenti (ex artt. 85 ss.) del Trattato CE hanno infatti introdotto nel nostro ordinamento il primo corpo di norme volto a regolare in modo organico e coerente quella materia, ispirandosi ad avanzati modelli stranieri. 5 L’art. 1, comma 4, della legge antitrust dispone che, “L’interpretazione delle norme contenute nel presente titolo è effettuata in base ai principi dell’ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza”. Il richiamo ai principi comunitari è finalizzato a realizzare l’uniforme applicazione nel mercato unico della disciplina antitrust, ove la sostanziale identità della legge n. 287/1990 rispetto alle norme comunitarie sulla concorrenza facilita questo compito, ulteriormente agevolato dalla prossima attuazione del Regolamento n. 1/2003 (sulla cosiddetta “modernizzazione”). Si è notato inoltre [cfr. M.V. BENEDETTELLI , Sul rapporto fra diritto comunitario e diritto italiano della concorrenza (riflessioni in margine al disegno di legge n. 3755 ed al regolamento comunitario sulle concentrazioni), in Foro it., 1990, IV, p. 237], che il richiamo ai principi di diritto comunitario costituisce una “norma di interpretazione autentica”, operante attraverso il rinvio ai principi desumibili dal diritto di un altro ordinamento, principi che si sostanziano nella garanzia di una concorrenza leale non falsata (cfr. Corte di Giustizia, sentenza 14 febbraio 1978, United Brands, in Racc., 1978, pp. 207 ss.), nella realizzazione dell’integrazione del mercato (cfr. Corte di Giustizia, sentenza 17 luglio 1996, Consten e Grundig, in Racc., 1966, pp. 457 ss.), e nella funzionalizzazione dei poteri statali agli obiettivi della Comunità. In forza di tale interpretazione autentica, la prevalenza del diritto comunitario deve ritenersi operante anche rispetto all’utilizzo di eventuali nozioni di diritto interno; ciò varrebbe, in particolare, non solo per le “nozioni essenziali” della disciplina antitrust, ma anche per le nozioni “strumentali” all’attuazione della legge (così, M.V. BENEDETTELLI, op. cit., p. 238). Sulla scorta di una diversa lettura, alcuni autori hanno concluso che l’art. 1, comma 4, debba 3 del mercato, richiedono infatti di affrontare il tema tenendo ben presenti sia le trasformazioni che la disciplina generale del contratto è andata subendo per effetto dell’ondata normativa europea, che i limiti positivi progressivamente imposti all’esercizio dell’autonomia privata in un’ottica di regolazione degli scambi a livello macroeconomico. essere considerata una norma applicabile ad nutum, che nessun obbligo impone agli organi nazionali e che riguarda le sole nozioni di carattere tecnico richiamate al Titolo I della legge n. 287/1990, non definite dall’ordinamento ovvero definite ma con diversi contenuti e finalità (A. GUARINO, Sul rapporto tra la nuova legge antitrust e la disciplina comunitaria della concorrenza , in Contr. e Impr., 1991, p. 654). In origine la scelta operata dal legislatore, nell’assoluta mancanza di una tradizione antitrust nell’ordinamento italiano, si legava alla necessità di consentire alle autorità preposte all’applicazione della disciplina di far riferimento ad un corpo di principi già consolidatisi nell’esperienza comunitaria, costituendo essenziale fonte di ispirazione per risolvere problemi di politica della concorrenza già risolti in ambito comunitario. La mancanze di un “retroterra giurisprudenziale” in Italia al momento dell’entrata in vigore della legge n. 287/1990, ha posto quindi il diritto antitrust interno in rapporto di complementarietà rispetto a quello comunitario. Data la scelta per il modello della barriera unica - ossia della netta separazione tra campo di applicazione del diritto comunitario e quello del diritto nazionale (v. S. SPOLIDORO, Rapporto fra diritto della concorrenza comunitario e diritto italiano, p. 20) - diviene infatti fondamentale che lo scrutinio in base al diritto comunitario e quello di diritto interno producano risultati tendenzialmente analoghi per le medesime fattispecie (F. DENOZZA , Quadr., 1992, p. 650). Quanto all’ampiezza di significato da attribuire al termine “principi comunitari”, sembra ormai pacifico che si debba fare riferimento non soltanto alle norme di legge rilevanti, ma anche, e soprattutto, alla elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia e della Commissione. Non è peraltro mancato chi ha rigettato l’opportunità di una tale comunitarizzazione del diritto nazionale, sulla scorta della considerazione che le due discipline tutelano interessi diversi e che in tal modo si avrebbe una completa soggezione della disciplina interna ai principi di un altro ordinamento “sul cui sviluppo ed applicazione gli organi dello stato non avrebbero alcun controllo” (in questi termini, A. GUARINO, op. cit., p. 654); si è inoltre rilevato che il diritto comunitario è “massimamente giurisprudenziale” e che un rinvio rigoroso al rispetto dei suoi principi avvicinerebbe il nostro sistema ad un sistema di common law. Ciò costringerebbe l’interprete italiano ad un continuo adeguamento agli eventuali mutamenti della giurisprudenza comunitaria (R. A LESSI - G. OLIVERI , La disciplina della concorrenza e del mercato: commento alla legge 10 ottobre 1990, n. 287 ed al Regolamento CEE n. 4064/89 del 21 dicembre 1989, Torino 1991, p. 14). Nella prassi applicativa dell’Autorità garante i principi comunitari sono stati richiamati per l’interpretazione di concetti come quello di “impresa”; per la definizione di posizione dominante; per l’individuazione dei criteri per la determinazione dei confini del mercato rilevante; per circoscrivere l’ambito applicativo dell’art. 8 della legge n. 287/1990, e per la valutazione delle restrizioni accessorie. Per altri aspetti, al contrario, l’applicazione della legge nazionale si è discostata, seppure parzialmente, dai principi seguiti in ambito comunitario. Ad esempio, con riguardo alle intese (di cui principalmente ci occuperemo in questa sede), sebbene la nozione accolta nel diritto interno sia corrispondente a quella fornita dalla Commissione e dalle corti, diversa è la valutazione in termini di restrittività doffertadall’Autorità garante. Mentre gli organi comunitari applicano il divieto di cui al comma 1 dell’art. 81 con una certa severità, preservando lo spazio di competenza del regime autorizzatorio previsto al comma 3, l’Autorità garante sembra invece seguire un approccio maggiormente orientato verso una rule of reason, effettuando nell’ambito dell’art. 2 (e non dell’art. 4) della legge n. 287/1990, l’eventuale bilanciamento tra i contrapposti effetti dell’operazione. Dall’orientamento comunitario l’Autorità si è discostata, almeno nel primo periodo di applicazione della legge, anche con riferimento alla definizione ed alla valutazione delle imprese comuni ed al trattamento delle operazioni infragruppo. 4 La presenza di un’illecita collusione tra le imprese operanti in un dato settore, deve essere infatti considerata da un lato quale esito di un comportamento idoneo a compromettere il generale equilibrio di mercato, e dall’altro quale sintomo ed indice di un abusivo esercizio del potere negoziale ed economico di cui le singole aderenti al pactum dispongono, perpetrato e concretizzato nella successiva stipulazione di contratti a valle 6 . Un corretto inquadramento della tematica sollecita quindi alla ricerca di un livello adeguato di regolamentazione dell’autonomia privata cui attingere per realizzare tanto gli obiettivi di riequilibrio sostanziale dei rapporti privatistici quanto i fini più ampi che la normativa antitrust si propone 7 . La solidaristica preoccupazione di garantire adeguata protezione a chi si trovi a concludere un contratto, sostanzialmente “non contrattato” e “non scelto” (o scelto “apparentemente”, per mutuare il lessico di una recente quanto determinante pronuncia del giudice di legittimità) 8 , con un’impresa che ha illecitamente abusato del libero esercizio dell’iniziativa economica, pur costituzionalmente riconosciutole, chiama infatti alla costruzione di rimedi che sappiano garantire la certezza degli scambi e la stabilità del mercato - oltre a correggerne i malfunzionamenti - al contempo non menomando l’interesse del contraente debole al mantenimento del rapporto 9 . 6 In questo senso, M. SIRAGUSA (A. FRIGNANI - V. M ELI), Abuso di posizione dominante, in Diritto antitrust italiano, a cura di A. Frignani, R. Pardolesi, A. Patroni Griffi e L.C. Ubertazzi, Bologna, 1993, vol. II, p. 325 ss., nonché D. M ESSINETTI, Abuso del diritto, in Enc. dir., (aggiornamento), vol. II, Milano, 1998, p. 1 ss., specie p. 10. 7 La questione, paga all’idea che il mercato non sia espressione di un ordo naturalis, ma piuttosto il risultato di regolamentazioni giuridiche, e dunque locus artificialis, pone peraltro il problema di stabilire, dinanzi al fenomeno della globalizzazione e al dominio sempre più vasto della Tecnica, quale sia il livello adeguato di intervento normativo concretamente auspicabile. 8 Mi riferisco alla ormai già nota sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, 4 febbraio 2005, n. 2207, intervenuta nel corso della stesura del presente Lavoro ed alla quale si dedicherà ampio spazio nel Capitolo III. 9 G. OPPO, Diritto dell’impresa e morale sociale, in Riv. dir. civ., 1992, I, p. 15 ss., osserva che: “E’ comunemente riconosciuto che la libertà di iniziativa non è un valore meramente economico ma è anche un valore della persona: l’esercizio della libertà di iniziativa è dunque svolgimento della personalità, come è svolgimento della personalità il lavoro, presidiato non solo da libertà ma da diritto. Impresa e lavoro sono altresì modi di adempimento del dovere (art. 4 Cost.) di concorrere con la propria attività al progresso materiale o spirituale della società. In questa prospettiva è accettabile, e compatibile con il principio di uguaglianza, che la concorrenza non sia difesa contro l’affermazione naturale della personalità di chi opera nell’impresa e per l’impresa, non sia difesa contro la creatività 5 L’interesse pubblico alla tutela del mercato, che passa necessariamente per la tutela dei soggetti di volta in volta contrattualmente più deboli (non solo il consumatore, dunque, ma anche il professionista), impone quindi di calibrare la scelta e la disciplina del rimedio all’interesse sotteso al contratto a valle e su cui il rimedio stesso va ad incidere10 , secondo l’approccio funzionale caro al recente trend normativo di derivazione comunitaria, concentrato non più sul singolo atto ma sulla complessiva attività economica dell’impresa di cui il contratto rappresenta il principale strumento e di cui costituisce un singolo momento 11 . Difatti, da un esame dell’attuale quadro normativo emerge che il fine di edificare e garantire un mercato unico libero e concorrenziale viene sempre più spesso perseguito attraverso interventi positivi volti a conformare il contenuto minimo del contratto in quanto strumento cardine degli scambi12 . dell’imprenditore e il suo successo sul mercato; e sia invece difesa contro comportamenti diversi, diretti o idonei a togliere spazio all’affermazione della personalità altrui in ciò che questa affermazione significa per i singoli e in ciò che apporta alla collettività e all’arricchimento dello stesso ambiente sociale. In questo senso e in questo ambito, mantenere, anche con sacrificio di certi comportamenti per sé in regola con il principio di iniziativa, un’area di concorrenza non tanto come arena di una gara da combattere per il mercato quanto come spazio preservato alla compresenza, all’azione, alla creatività, insomma al realizzarsi della personalità dei consociati, ha valore che sovrasta l’ispirazione economicistica e anche alla rigidità della logica giuridica. In questo senso può sembrare che al vertice del diritto dell’impresa abbia trovato posto, con la normativa antitrust, quella conciliazione tra valori individuali e collettivi che è l’essenza stessa della morale sociale” (p. 36). 10 Conferma del rilievo privatistico del diritto antitrust (e delle posizioni giuridiche soggettive suscettibili di essere lese da condotte illecite), proviene da ultimo dal Regolamento n. 1/2003 (c.d. di “modernizzazione”) e dall’attribuzione ai giudici nazionali del potere di applicare, parallelamente alla Commissione, l’art. 81 (che vieta le intese anticoncorrenziali) nella sua interezza (compreso il par. 3), enunciando tra l’altro espressamente che la previsione punta a tutelare la concorrenza sul mercato (cfr, Considerando 9) e l’efficiente allocazione delle risorse. Sul concetto generale di rimedio, si veda A. DI M AJO, Il regime delle restituzioni contrattuali nel diritto comparato ed europeo, in Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo, a cura di S. Mazzamuto, Torino, 2002, p. 199 ss e V. ROPPO, Il contratto, Milano, 2001, p. 726. 11 Il nuovo diritto dei contratti, infatti, si pone come momento di rottura nella cosiddetta teoria generale del contratto - fondata su un soggetto protagonista sempre uguale a se stesso, dunque astratto e generale, la “parte” - sorretta da una funzione contrattuale collegata al singolo atto anziché alla complessiva attività posta in essere. Del resto, il metodo è ormai consolidato, avendo il legislatore adottato da tempo e nei più disparati settori una tecnica normativa volta a disciplinare secondo una prospettiva di questo tipo la fase che precede la stipulazione di un contratto, sia di consumo che tra soggetti entrambi professionisti (si veda ad esempio la disciplina in tema di contratti bancari, di intermediazione finanziaria o di credito al consumo, di pubblicità ingannevole e comparativa e via di seguito). Per un’analisi sul tema, si rinvia a G. VETTORI , Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, Padova, 1999. 12 Evidenzia S. TOLONE, L’ordine della Legge ed il mercato. La congruità nello scambio contrattuale, Torino, 2003, p. 10, che con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, istitutivo dell’Unione europea, e del successivo Trattato di Amsterdam (ratificato in Italia con legge 16 giugno 6 Simile considerazione assume valore specie ove si consideri che la restrizione al funzionamento del gioco concorrenziale attuata attraverso l’intesa - la cui consistenza legittima l’intervento sanzionatorio dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato 13 - costituisce essa stessa espressione della gravità dell’abuso che, esercitato collettivamente dalle imprese in una fase che precede la stipulazione dei contratti, si traduce poi nell’esercizio da parte della singola impresa di un alterato ed incrementato potere economico e negoziale a scapito della controparte contrattuale. L’illiceità dell’intesa, va pertanto assunta quale indice di valutazione del grado di meritevolezza degli interessi individuali sottesi al successivo atto di scambio, come prova presunta di un abuso negoziale da parte del soggetto più forte che impone un 1998, n. 209), nonché con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e l’evolversi dei lavori della Convenzione europea, si sono intensificate le riflessioni relative al rapporto diritto-mercato, sollecitate dai riferimenti contenuti nei Trattati stessi al principio dell’adozione “di una politica economica (…) condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”. A riguardo, anche G. VETTORI , Le asimmetrie informative fra regole di validità e regole di responsabilità, op. cit., p. 241 ss., in specie pp. 243-246, focalizza l’attenzione sulla circostanza che, soprattutto a seguito dell’Atto unico europeo, si sia affidato al contratto il compito di provvedere alla trasmissione delle informazioni indispensabili per il corretto funzionamento del mercato e per l’equilibrio dei rapporti negoziali. A riguardo, si veda anche M. DE POLI, Asimmetrie informative e rapporti contrattuali, Padova, 2002, pp. 348 ss., 459 ss. Una diversa lettura della normativa comunitaria a tutela del consumatore è offerta da C. CORAPI, Integrazione giuridica europea e regolazione del mercato. La disciplina dei contratti di consumo nel sistema del diritto della concorrenza, in Eur. dir. priv., 2002, pp. 718-719. 13 In merito al ruolo di crescente importanza che le Authorities, preposte al “governo” di diversi settori di mercato, vanno assumendo nell’attuale assetto normativo quali fonti eteronome del contratto, si vedano, per tutti, le considerazioni di M. ORLANDI, Autonomia privata e Autorità indipendenti, in Riv. dir. priv., 2003, p. 271 ss.; F. M ACARIO, Autorità indipendenti, regolazione del mercato e controllo di vessatorietà delle condizioni contrattuali, ivi, p. 295 ss.; E. DEL PRATO, Autorità indipendenti, norme imperative e diritto dei contratti: spunti, ivi, 2001, p. 515 ss.; G. GITTI, Autorità indipendenti, contrattazione collettiva, singoli contratti, ivi, p. 255 ss.; G. DE NOVA , Le fonti di disciplina del contratto e le Autorità indipendenti, ivi, p. 5 ss.; ID., Provvedimenti delle Autorità indipendenti e disciplina dei contratti, Relazione al Convegno nazionale di studi di Alba, Authorities, mercato, contratto e tutela dei diritti, 18 novembre 2000, in Le Società, 2001, p. 519 ss.; A.R. TASSONE, Situazioni giuridiche soggettive e decisioni delle Amministrazioni indipendenti, in Dir. amm., 2002, p. 181 ss.; U. BRECCIA, Prospettive nel diritto dei contratti, in Riv. crit. dir. priv., 2001, p. 183 ss.; P. SIRENA , Attività di regolazione, clausole contrattuali abusive e sindacato giudiziario, Annuario 2002, Milano, 2003, p. 239 ss.; V. ROPPO, Sulla posizione e sul ruolo istituzionale delle nuove Autorità indipendenti, in Pol. dir., 2000, p. 159 s.; G. CARRIERO, Autonomia privata e disciplina del mercato. Il credito al consumo, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, vol. XXXI, Torino, 2002, p. 118 ss.; G. CIAN, Gli interventi dell’Autorità regolatoria sul contratto, in Rass. giur. Enel, 1997, p. 327 ss. 7 intervento riequilibratore il quale, correggendo il regolamento contrattuale, ripristini al tempo stesso il virtuoso funzionamento del gioco concorrenziale 14 . Per un corretto inquadramento del problema degli effetti sui contratti a valle, si deve quindi muovere dal considerare, in particolare, che la definizione del regolamento contrattuale squilibrato non avviene all’interno dei confini strettamente negoziali (cioè del patto stipulato tra la singola impresa e la controparte), ma in un momento antecedente ed attraverso l’intervento di più soggetti. L’abusivo esercizio del potere contrattuale ed economico di cui l’impresa è portatrice rileva infatti in due fasi: 1) al momento della stipulazione dell’intesa che, datane la consistenza, giudicata illecita in quanto anticoncorrenziale e non ricadente nell’esenzione di cui all’art. 4 della legge n. 287/90; 2) con la successiva stipulazione del contratto a valle. 14 Il legame tra funzionamento del mercato e tutela del contraente debole (tradizionalmente identificato con il consumatore ma, attualmente, in fase di progressiva e crescente “oggettivazione”), è ravvisabile tra l’altro nella diffusa convinzione che la concorrenza, intesa come processo dinamico, oltre a razionalizzare l’allocazione delle risorse, ad evitare le concentrazioni permanenti di potere economico, a favorire l’accesso ai mercati di nuovi operatori, spinge le imprese ad un continuo aumento della quantità, varietà, qualità ed innovazione di prodotti e servizi e ad un costante ribasso dei prezzi verso il prezzo di costo, accrescendo le possibilità di scelta dei consumatori. La concorrenza si configura quindi come uno strumento efficace oltre che di “democrazia economica”, anche di salvaguardia degli interessi generali della collettività e dei consumatori. In merito a questi ultimi, in particolare, pare opportuno evidenziare che nel diritto della concorrenza il termine “consumatore” non è riferito solo agli utenti finali ma, più in generale, a tutti gli acquirenti dei prodotti o servizi oggetto dell’intesa e dunque comprensivo anche degli utilizzatori intermedi, e quindi anche degli imprenditori. A riguardo si veda P. CASSINIS e P. FATTORI , Disciplina antitrust, funzionamento del mercato e interessi dei consumatori, in I Contratti, n. 4/2001, p. 421. Sul tema specifico della tutela dei consumatori, si veda pure C.M. M AZZONI, I controlli sulle attività economiche, in A A. VV., La costituzione economica, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. ec., diretto da F. Galgano, vol. I, Padova, 1977, p. 322 ss., il quale osserva che “Proprio per la indissolubilità del vincolo che collega il momento della produzione al momento del consumo, un piano di organici provvedimenti a favore del consumatore non può non comprendere - ed avere come immediato fine - il controllo delle attività che al consumatore sono dirette. Di qui l’esigenza di elaborare strumenti giuridici con i quali articolare e rendere effettivo il controllo. In questa prospettiva si collocano ormai tutte le analisi dedicate alla difesa del consumatore”. L’Autore individua poi almeno quattro categorie di soggetti che dovrebbero essere preposti al controllo di tali attività: “Se si escludono le forme di self-government, i soggetti che esercitano il controllo possono identificarsi: a) nel legislatore, b) nella magistratura, c) nella pubblica amministrazione, d) in altri organismi di natura privata, come le associazioni di consumatori, i sindacati, i partiti, i gruppi spontanei e così via. (…) Confine e direttive del controllo si debbono ricercare nel dettato costituzionale. In questa prospettiva, le prime indicazioni sono offerte dall’art. 41 Cost. che, nei suoi tre commi, può considerarsi la norma fondamentale alla quale occorre far riferimento per individuare le direttive costituzionali del controllo delle attività private. (…) Nel suo ampio contenuto, pertanto, debbono ricomprendersi tra i primi oggetti del controllo che essa precisa le attività d’impresa destinate al pubblico dei consumatori”. 8 Simile premessa di inquadramento sistematico pare nella specie opportuna ai fini della lettura critica delle soluzioni sinora proposte dalla dottrina e dalla giurisprudenza le quali (a modesto avviso di Chi scrive), incentrate su un approccio parcellizzante di stampo formalistico e legato ad un sistema di contrattazioni individuali, hanno variamente e rispettivamente ricondotto la soluzione del problema alle tradizionali categorie concettuali della nullità e dell’annullabilità, del collegamento negoziale, della rescissione per lesione e della risarcibilità del danno per illecito extracontrattuale, non considerando pienamente né le peculiarità del diritto della concorrenza e dell’approccio che questa disciplina fa proprio, né l’evoluzione che le fattispecie generali del diritto civile hanno conosciuto di recente 15 . Istituti del diritto privato comune, quindi, i quali, attirati all’interno della disciplina giuridica del mercato, ricevono un diverso trattamento normativo ed assumono una conformazione a tratti divergente da quella codicistica 16 , rispondendo 15 V. ZENO-ZENCOVICH, Diritto europeo dei contratti (verso la distinzione tra “contratti commerciali” e “contratti dei consumatori”), in Giur. it., 1993, IV, p. 57, sottolinea, a proposito della trasformazione che la disciplina contrattuale sta subendo sulla scia della affermazione di nuovi mercati aperti e transnazionali e soprattutto in relazione all’impatto che la normativa di derivazione comunitaria ha esercitato ed esercita sul nostro sistema normativo, che “quello di cui occorre prendere atto è che è in corso una vasta modifica non di questo o di quell’aspetto del diritto dei contratti, ma dell’intera materia in tutti i suoi momenti. Il mutamento è determinato non da una riforma legislativa votata dal nostro Parlamento, né da una generale revisione del codice civile, bensì dalla prepotente pressione del diritto comunitario che impone ai legislatori nazionali di adeguare e uniformare il proprio ordinamento alle Direttive della Comunità”. Il fenomeno a cui assistiamo, sottolinea C. CORAPI, Integrazione giuridica europea e regolazione del mercato. La disciplina dei contratti di consumo nel sistema del diritto della concorrenza, op. cit., p. 713, è quello di una “nuova crisi dell’idea di Codice, diversa da quella determinata fino a due decenni addietro dal proliferare della legislazione speciale, e definita efficacemente in termini di decodificazione. Allora la perdita di spazi regolativi da parte dello strumento codicistico si consumava all’interno del sis tema statuale (…). Oggi la crisi del codice manifesta la crisi del potere statuale, e l’affermazione di politiche legislative sopranazionali fortemente tributarie di una filosofia liberale, non in contrasto con quella cui il codice civile si è ispirato, ma ugualmente foriera, in ragione delle sue dimensioni spaziali non territoriali, della sopravvenuta insufficienza regolativa dello strumento unitario”. Anche F. DI M ARZIO , Verso il nuovo diritto dei contratti (note sulla contrattazione diseguale), in Riv. dir. priv., 2002, p. 722, nota 5, osserva che “come ogni fenomeno dell’età moderna, anche la ridefinizione del diritto contrattuale, fondandosi su esigenze inedite e aprendosi ad aspettative mai prima concepite, si manifesta come un movimento di rottura ris petto al passato”. 16 Diversi autori sembrano non dubitare della ormai perduta capacità unificante delle categorie tradizionali del codice civile, specie di quella contrattuale: “Se si considera, infatti, il ‘contratto’ quale veicolo delle infinite relazioni intercorrenti tra imprese di grandi dimensioni e consumatori distinti per categorie, esso viene ad assumere il significato di mezzo di attuazione dell’ordine giuridico del mercato, ben distante da quello di strumento dei rapporti tra ‘privati’, secondo le 9 alle esigenze di ultra-territorialità che l’odierna estensione spaziale dell’economia degli scambi e la scelta di sistema operata nei Trattati europei impongono 17 . L’esame critico delle tesi dottrinali e giurisprudenziali prospettate sull’argomento (riportate analiticamente e criticamente nel Capitolo II) assume in particolare come fine il superamento delle rigide fattispecie cui queste sembrano ancora rifarsi, guardando all’approccio economicistico e pragmatico che le corti comunitarie e statunitensi privilegiano nell’analisi antitrust, alla ricerca dello strumento giuridicamente ed economicamente più efficiente e funzionale in vista della tutela disposizioni degli artt. 1321 ss. c.c.”, così M. BARELA, Teoria della concorrenza e libertà del consumatore: l’insegnamento di Tullio Ascarelli, in Rass. dir. civ., n. 4/2004, pp. 959-960. In un contributo significativamente destinato ad una Enciclopedia, Contratto: per una voce, in Riv. dir. priv., 2000, p. 633, G. DE NOVA , scrive della fine del contratto come figura generale, e della necessità - non meramente linguistica, ma concettuale - di sostituire la vecchia categoria unificante del contratto con diverse e molteplici categorie contrattuali (fra imprenditori, fra privati, con i consumatori, della Pubblica Amministrazione, e via dicendo). Di qui è breve il passo verso l’affermazione conclusiva, per la quale le norme sul contratto in genere sono “norme senza fattispecie” (p. 659). Nello stesso senso, anche N. IRTI, Il diritto della transizione, cit., pp. 115-116: “l’unità del diritto privato, faticosamente raggiunta nel 1942 intorno al concetto di impresa, ci appare minacciata, o già vulnerata, dalla distinzione tra rapporti civili e rapporti commerciali, designando i primi gli scambi dell’economia individuale, e gli altri scambi, meccanicamente anonimi e ripetitivi, fra imprese e masse di consumatori. Distinzione, che pur dovrebbe suggerire la revisione della teoria del contratto e dell’interpretazione e dei vizi del consenso e della responsabilità civile”. Come sottolineato, tra i numerosi contributi a riguardo, anche da F. BOCCHINI, Nozione di consumatore e modelli economici, in A A. VV., Diritto dei consumatori e nuove tecnologie, vol. I, Gli scambi, Torino, 2003, p. 25, “l’intera disciplina sui contratti, consegnata dalla tradizione ed espressa dal codice civile, è pensata ed organizzata in funzione della unità del soggetto di diritto (il corsivo è dell’Autore), senza alcuna rilevanza delle qualità socio-economiche dei singoli soggetti o delle circostanze di fatto che incidono sul potere contrattuale delle singole parti”. Tuttavia, “l’osservazione delle dinamiche commerciali mostra come il potere contrattuale si conforma alla collocazione economica dei singoli operatori”, così rivelando de facto una sostanziale asimmetria di potere economico e dunque negoziale dei soggetti coinvolti nello scambio. 17 Come osserva N. IRTI, La concorrenza come statuto normativo, in La concorrenza come statuto normativo, a cura di N. Lipari p. 63, a proposito del tema che ci riguarda, afferma che “la concorrenza diviene a mano a mano, da problema di diritto interno, problema di diritto spaziale, cioè de-localizzato e de-storicizzato”, da cui scaturiscono problematiche interazioni tra geo-economia e geo-diritto, non ancora composti dal legislatore e ripresi diffusamente dall’Autore in Norme e luoghi. Problemi di geo-diritto, Roma-Bari, 2001; ID., Le categorie giuridiche della globalizzazione, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 625 ss.; N. IRTI - E. SEVERINO, Le domande del giurista e le risposte del filosofo (un dialogo su diritto e tecnica), in Contr. e impr., 2000, p. 665 ss. Sul tema si vedano anche F. GALGANO, Diritto ed economia alle soglie del nuovo millennio, in Contr. e impr., 2000, p. 189 ss.; L. M ENGONI, Diritto e tecnica, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2001, p. 1 ss.; A. FALZEA , Nuove tecnologie e diritto, in New technologies e ricerca strategica nei trasporti, Messina, 2001, p. 73 ss. 10 dei valori e degli interessi di cui il nostro ordinamento si è fatto attualmente portatore 18 . La scelta metodologica parte dunque dalla considerazione circa l’opportunità di misurarsi con la questione delle conseguenze che il contratto conseguente all’intesa subisce per la presenza di un’intesa illecita a monte, superando l’approccio a cascata proposto da alcuni autori e leggendo il contratto a valle quale momento di una complessiva operazione economica che, abbracciando e comprendendo l’intesa stessa, rivela chiaramente la presenza di una disparità di forze di cui l’ordinamento non può tollerare la persistenza 19 . Alla luce di tali elementi, l’analisi procede lungo un esame dei vari rimedi astrattamente accordabili al consumatore ed al professionis ta controparti dell’impresa collusa, esaminandone l’attuale conformazione, le differenze in termini di costi e benefici, cercando di individuare lo strumento maggiormente adeguato alla fattispecie. L’obiettivo specifico è di delineare i contorni del rimedio ritenuto più efficiente che, senza apriorismi dogmatici né pericolosi automatismi, consenta di ricondurre ad un equilibrio di giustizia sostanziale (ad esempio attraverso la possibilità di rinegoziare o di sostituire il contenuto di singole clausole o di un apposito intervento integrativo giudiziale) il rapporto negoziale già previamente distorto dalla presenza di un’illecita concordanza di comportamenti, al fine di correggerne le distorsioni e di garantire il corretto e trasparente svolgimento di quelle operazioni economiche di cui 18 Simile esigenza è enunciata, altresì, da G. VETTORI , Le asimmetrie informative…, cit., p. 252, secondo il quale, di fronte ad anomalie e tutele prese in esame da una pluralità di indici normativi diversi (regole di validità, regole di responsabilità, regole di concorrenza interne e comunitarie), occorre superare rigidi formalismi partendo dalle azioni esperibili che si giustificano non per la corrispondenza a schemi precostituiti, ma in base alla soddisfazione del concreto interesse generale, collettivo o individuale sotteso alle norme. 19 La consapevolezza - dettata dall’opportunità di incrementare il punto di vista funzionale che si ispira agli interessi in gioco - che il contratto spesso non sia più, nell’odierna dinamica degli scambi, soltanto un atto singolo, atto di autonomia singolare, ma espressione di un’attività, di un ciclo ripetitivo, organizzato, coincidente con l’attività di impresa, è rilevato da P. PERLINGIERI , Equilibrio delle posizioni contrattuali ed autonomia privata. Sintesi di un convegno, in Il diritto dei contratti tra persona e mercato, Napoli, 2003, p. 465, nonché da A. JANNARELLI , La disciplina dell’atto e dell’attività: i contratti tra imprese e tra imprese e consumatori, in Diritto privato europeo, op. cit., vol. II, p. 589 ss. 11 il singolo contratto a valle costituisce un momento temporalmente e logicamente ma non “geograficamente” distinto 20 . Particolare attenzione viene quindi dedicata allo strumento della nullità di protezione, necessariamente parzia le e relativa, e l’ipotesi di ricorrere in via analogica, anche per i contratti preceduti dalla stipulazione di un’intesa anticoncorrenziale, al rimedio dalla dottrina ritenuto oggi maggiormente idoneo a tutelare il contraente più debole nei rapporti negoziali sperequati, soprattutto in settori, quali quello di specie, in cui più stretta è l’interrelazione tra interessi generali e particolari21 . 20 Il problema è riconosciuto, tra gli altri, da R. PARDOLESI , Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, in Foro it. 2004, I, p. 473, secondo il quale la nullità “è sanzione che mira a privare l’impresa dei frutti dell’illecito; e alimenta qualche interrogativo proprio perché appare, talora, inadeguata rispetto all’obiettivo. Per converso, il rimedio appare normalmente poco utile dal punto di vista di chi, nel ruolo di controparte, abbia subito l’altrui pressione anticompetitiva. In effetti, il ricatto per la vittima del fruit contract non alligna nel terreno dell’invalidità negoziale. Il contratto diventa mero elemento di una fattispecie di responsabilità aquiliana”. 21 Esempi di questo tipo di nullità, sono, tra i tanti, la nullità ex art. 127 T.U. bancario in materia di credito al consumo; ex artt. 18 e 20, comma 3, del d. lgs. n. 415/1996 in tema di servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari, nonché da ultimo l’art. 1519-octies cod. civ., introdotto dal d. lgs. 2 febbraio 2002, n. 24, in materia di vendita dei beni di consumo, e l’art. 7 del d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 sulle transazioni commerciali. Tra i numerosissimi contributi in tema di nullità, si ricordi V. ROPPO, Il contratto e le fonti del diritto, in Il contratto del duemila, op. cit., pp. 15-16, il quale sottolinea che le leggi di ultima generazione si caratterizzano per un impiego quanto mai “esuberante e movimentato” della nullità del contratto: “fioriscono nullità sempre nuove, sia nel senso di nullità che si ricollegano a fattispecie che si fa fatica a ricondurre alle tradizionali cause di nullità; sia nel senso di nullità assoggettate a trattamenti assai divaricati dal generale regime codicistico del contratto nullo. Gli artt. 1418-1424 cod. civ. sembrano oramai disegnare un paradigma residuale, di fronte alla proliferazione delle nullità speciali; e ciascuna di queste sembra andare per conto proprio, sicché dall’insieme di esse non si riescono neppure a enucleare le linee di un coerente paradigma alternativo”. Si tratta, prosegue l’Autore, di invalidità che, nate nel solco della legislazione posta a tutela del consumatore, presentano una incredibile forza espansiva, accompagnata tuttavia da una più contenuta “distruttività” rispetto alle invalidità di diritto comune. Nel tentativo di individuare la concreta rilevanza attuale del concetto di “autonomia privata”, inoltre, è stato di recente ribadito che la recente legislazione privatistica, anche attraverso l’introduzione di “figure di nullità del contratto improntate a tecniche di prevenzione di squilibri contrattuali operanti mediante l’imposizione di limiti all’autonomia privata”, intende regolare il “mercato mediante restrizioni dell’autonomia privata ordinate a tutela della concorrenza e a garanzia della correttezza e della trasparenza delle operazioni commerciali, cioè delle condizioni che qualificano il mercato come istituzione di utilità sociale” (così L. M ENGONI, Autonomia privata e Costituzione, in Banca, borsa e tit. di cred., 1997, I, p. 19 s.). Secondo M. M ELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, Milano, 2001, p. 6, la nullità, quale tipo di sanzione prescelta dal legislatore al fine di garantire la piena concorrenzialità del mercato, rappresenta uno strumento assolutamente in linea col sistema, “da semp re pronto ad operare un collegamento tra autonomia privata e scelte (nella specie economiche) di fondo, riassumibili nella formula dei principi fondamentali dell’ordinamento”. Su questa linea, come osserva G. A FFERNI, Le intese restrittive anteriori alla legge antitrust: legge retroattiva o nullità speciale? (Ancora su Cass., Sez. I, 1° 12 Specifico riguardo viene inoltre riservato alla tesi (cui è dedicato il Capitolo III) recentemente formulata dalla dottrina e suffragata nelle linee astratte tanto dalla giurisprudenza amministrativa quanto da quella ordinaria di legittimità - che propone una ricostruzione del problema muovendo da un’ottica attenta all’approccio empirico ed economicistico del diritto antitrust (nazionale, comunitario e statunitense), guardando al mercato ed al contratto a valle non come due realtà distinte e separate, ma come legate da un nesso inscindibile che ne accomunerebbe le sorti22 . Lo stato di reciproca tensione che si coglie tra queste due fasi non esclude infatti il pregio del tentativo (almeno in linea teorica) operato dall’osservatore intento ad interpretarne i fenomeni di interazione di un effettuare “salto”, al fine di colmare la divisione di piani tra i due termini del confronto - per come il tema è stato sinora affrontato - attraverso uno sforzo ricostruttivo teso ad interpretare il microcosmo contrattuale ed il macrocosmo del mercato come due realtà ontologicamente compenetrate e non disgiunte, avvolte dallo stesso universo degli scambi che, febbraio 1999, n. 827), in Giur. it., 2000, p. 941, si attesta, accogliendo la tesi della nullità sopravvenuta, anche la Corte di Cassazione nella citata pronuncia. Più diffusamente, sul tema delle “nuove nullità” si veda G. PASSAGNOLI, Nullità speciali, Milano, 1995. 22 L’imprescindibilità di un ripensamento critico in merito all’esercizio dell’autonomia negoziale alla luce della disciplina del mercato è stata ripetutamente segnalata da L. RAISER, Il compito del diritto privato. Saggi di diritto privato e di diritto dell’economia di tre decenni, traduzione a cura di M. Graziadei, Milano, 1990. In particolare, con riguardo all’argomento in esame, si veda il saggio Funzione del contratto e libertà contrattuale, p. 71 ss. L’obiettivo di garantire il pieno funzionamento del mercato anche per mezzo dello strumento negoziale è evidenziato da P. PERLINGIERI , Equilibrio delle posizioni contrattuali ed autonomia privata, op. cit., p. 467 ss., per il quale è “necessario trovare una disciplina del contratto che sia compatibile con la libertà di mercato, non intesa però come libertà incondizionata. Il mercato è non soltanto un insieme di regole economiche, ma uno statuto normativo. (…) Questo mercato è tale perché è conformato in un certo modo, perché ci sono certe regole. Le quali finiscono con l’incidere sui contratti e ad un tempo questi ultimi rappresentano una componente essenziale della regolamentazione del mercato. In questa prospettiva, anche la stessa distinzione tra interessi pubblici e privati pare superata. Tutto ciò implica il controllo di meritevolezza sugli atti di autonomia: questi devono svolgersi nel contesto dei valori dell’ordinamento (anche quelli dettati dall’esigenza di garantire una libera concorrenza, e quindi un mercato corretto, tendenzialmente meno imperfetto possibile)”. In questo senso, anche F. BOCCHINI, Nozione di consumatore e modelli economici, in Diritto dei consumatori e nuove tecnologie, Torino, 2003, op. cit., Gli scambi, p. 26, secondo cui è constatazione diffusa che il mercato sia la “risultante” della convergenza, in un determinato settore e con riguardo alla commercializzazione di singoli prodotti, “così di una pluralità di operatori come della presenza di regole della gara”. Sul tema, N. IRTI, Persona e mercato, in Riv. dir. civ., 1995, I, p. 289 ss., ed ora anche ne L’ordine giuridico del mercato, op. cit., p. 97 ss.; G. A MATO, Il mercato nella Costituzione, in Quad. cost., 1992, p. 12 ss.; A. PACE , Libertà “del” mercato e “nel” mercato, in Pol. Dir., 1992, p. 327 ss. 13 anonimo e spersonalizzato, richiede regole chiare e funzionali alla sua stessa esistenza 23 . L’intersezione e la combinata necessità di garantire contestualmente la realizzazione di interessi pubblici (ma pur sempre di rilevanza individuale) - quale la libertà e concorrenzialità del mercato enunciata nei Trattati comunitari24 - e la tutela di ineludibili interessi privati sottesi allo scambio 25 , conferma infatti il pregio 23 “Affinché un mercato funzioni, occorre la funzionalità degli strumenti”, così N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 47. 24 Come evidenzia N. IRTI, La concorrenza come statuto normativo, op. cit., pp. 62-63, il metodo competitivo non appartiene alla nostra tradizione culturale, la libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost. esprimendo solo una dimensione verticale, e non orizzontale e dunque designando la garanzia di un agire individuale, non la disciplina di relazioni tra soggetti economici: “il metodo competitivo ci proviene dai Trattati europei, le norme dei quali sono considerate capaci di prevalere anche sulle norme costituzionali, salvo l’estremo limite dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona umana. (…) Il metodo competitivo, non rimanendo più tra le norme legislative ordinarie (quali sono le norme del codice civile), ma elevandosi a decisione di sistema, guadagna la funzione di principio generale dell’ordinamento”. A questo riguardo, l’attenzione deve essere riportata in primo luogo sull’art. 4 (ex art. 3A) del Trattato C.E., introdotto dal Trattato di Maastricht sull’Unione europea del 7 febbraio 1992, che sancisce il noto principio secondo cui “l’azione degli Stati membri e della Comunità comprende (…) l’adozione di una politica economica (…) condotta conformemente ai principi di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”. Principio ripreso poi specificamente dall’art. 98 (ex art. 102A) del Trattato C.E., secondo cui “gli Stati membri e la Comunità agiscono nel rispetto dei principi di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”. Si può dunque dire, riprendendo le parole di A. TIZZANO, Le dimensioni internazionali della concorrenza, in La concorrenza tra economia e diritto, cit., p. 99, che l’art. 4 esprime “un principio di rango costituzionale dell’Unione Europea”. Nello stesso senso, si veda anche G. GIOIA, Vecchie intese e nuove nullità, in Giust. civ., 2000, II, p. 15, secondo la quale è “attraverso la legislazione di provenienza comunitaria, tutta extracodicistica, (che) si realizza un perfezionamento della tutela della concorrenza”. In ogni caso, ricorda M. LIBERTINI , Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, in Riv. dir. comm., 2002, I, pp. 440-441, il fatto che l’art. 117 Cost., comma 2, lett. E), preveda - a seguito della modifica del Titolo V della Costituzione, attuata con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 - la tutela della concorrenza come materia di rilevanza costituzionale riservata alla competenza statale, ne implica il riconoscimento quale attività “costituzionalmente doverosa” per lo Stato. Sull’opportunità di rileggere le disposizioni costituzionali alla luce di quelle comunitarie, è pure G. GHIDINI, Monopolio e concorrenza, in Enc. dir., op. cit. In senso contrario, P. M ARCHETTI, Boicottaggio e rifiuto di contrattare, cit., p. 70 ss., secondo il quale l’art. 41 Cost., non prendendo posizione in merito alla forma che l’economia di mercato deve assumere, legittimerebbe ogni atteggiarsi della concorrenza, purchè prodotto dalla stessa. Per una rilettura dell’art. 2596 cod. civ. alla stregua del principio di libera concorrenza, v. M. LIBERTINI , Limiti contrattuali della concorrenza, in Le nuove leggi civ. comm., 1989, II, p. 323. Più in generale, sull’inquadramento del diritto antitrust nel sistema costituzionale, si rinvia a R. NIRO, Profili costituzionali della disciplina antitrust, Padova, 1994; C. PICCIOLI, Contributo all’individuazione del fondamento costituzionale della normativa a tutela della concorrenza (c.d. legge antitrust), in Riv. trim. dir. pubbl., 1996, p. 29 ss., e M. PINNARÒ, Diritto di iniziativa economica e libertà di concorrenza. Di taluni eclissi e pleonasmi, nella legge antitrust n. 287 del 10 ottobre 1990, in Giur. comm., 1993, I, p. 430 ss. 25 Come ritiene anche S. BASTIANON, L’abuso di posizione dominante, Milano, 2001, p. 311, è ormai pacificamente riconosciuta l’operatività del diritto antitrust non solo in ambito pubblicistico, ma 14 di queste ultime soluzioni interpretative, che accostano il problema dell’interazione tra distorsione del mercato e realtà negoziale sottostante “leggendo” l’intesa antitrust ed il contratto a valle come due momenti di una medesima ed unitaria operazione economica (non dunque “un alto” ed “un basso”, ma “un prima” e “un dopo”). Il superamento della rigida divisione tra fase precontrattuale e successiva fase propriamente negoziale (che altera, tra l’altro, e sfuma la divisione tra regole di responsabilità e regole di validità 26 ), dettata dal carattere diffusamente anche in ambito privatistico, con la conseguente idoneità dello stesso a generare posizioni giuridiche di vantaggio in capo ai singoli. Secondo altra autorevole dottrina, infatti (cfr. A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, Milano, 1996, p. 108), ogni indagine “deve oggi muovere dalla premessa che la normativa antimonopolistica generata dall’ordinamento comunitario non è una disciplina avente esclusivamente contenuto pubblicistico, ma è idonea a creare, come di fatto crea, diritti soggettivi in capo ai privati”. L’intersezione tra interessi propriamente pubblici e privati - che sarà ancor più accentuata a seguito della prossima attuazione del Regolamento n.1/2003 - è riconosciuta, altresì, dalla Corte di Giustizia (cfr., sentenza 30 gennaio 1974, causa 127/73, BRT/Sabam, in Racc., 1974, p. 51). 26 A riguardo, sia consentito sin d’ora rinviare a G. D’A MICO, Regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto, Napoli, 1996; ID., Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto, in Riv. dir. civ., 2002, p. 38 ss.; V. ROPPO, Il contratto del duemila, cit., pp. 46-48; G. VETTORI , Le asimmetrie informative fra regole di validità e regole di responsabilità, op. ult. cit., p. 241 ss., il quale rileva come la rigida separazione fra regole di validità - “che delimitano il rilievo delle figure volte ad eliminare gli effetti” - e regole di responsabilità - “che valutano i contegni al solo fine di un’azione di danni” - pensata per un sistema economico e giuridico incentrato sul codice civile e sull’unità del soggetto e del contratto e che, sino agli anni ottanta, costituiva uno dei postulati della disciplina generale del contratto, è stata fortemente incisa dal nuovo assetto dei rapporti nati dall’adesione all’Unione europea e dalla conseguente uniformazione del diritto dei contratti. Il richiamo della buona fede negli artt. 1469-bis e 1469-ter cod. civ. quale segno di una normativa “pronta a contaminare il giudizio di validità con parametri che la tradizione colloca nella sfera dei giudizi sui comportamenti”, sottolinea come il nuovo legislatore consideri, in molte ipotesi, obblighi informativi e vincoli di trasparenza non più come elementi rilevanti sul terreno della responsabilità (precontrattuale), ma quali fattori capaci di incidere senz’altro sulla validità del contratto. Con riguardo alla disciplina dei contratti del consumatore, in particolare, la contaminazione si accentua richiamando l’art. 1469-quater, comma 4, cod. civ., nel quale si mescolano, al fine di valutare la vessatorietà della clausola, elementi strutturali ed elementi procedimentali, poiché il giudizio di validità - tradizionalmente riferito alla struttura della fattispecie contrattuale - dipende qui, invece, da elementi che attengono a modalità di comportamento delle parti, estranee alla struttura del contratto. A ciò si aggiunge, quale ulteriore esempio della detta commistione, il diffuso ricorso al meccanismo della nullità virtuale: la violazione delle regole di trasparenza e degli obblighi informativi, di natura imperativa, si estende in forza del principio di cui all’art. 1418, comma 1, cod. civ., anche alle ipotesi non espressamente contemplate, così allargando il raggio della nullità derivante dalla violazione di regole di comportamento (così, V. ROPPO, Contratti di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con asimmetria di potere contrattuale: genesi e sviluppi di un nuovo paradigma, in Il contratto del duemila, cit., pp. 46-50). La presenza di un’interferenza fra regole di validità e regole di responsabilità viene ravvisata già negli artt. 13371338 del codice ove la disciplina sui vizi del volere interferisce con quella sulla responsabilità precontrattuale (in questo senso, V. ROPPO, op. ult. cit., p. 46; V.G. VISINTINI, La reticenza nella formazione del contratto, Padova, 1972, p. 91 ss.; G. VETTORI , Anomalie e tutele nei rapporti di distribuzione fra imprese. Diritto dei contratti e regole di concorrenza, Milano, 1983, pp. 112 e 114; 15 standardizzato degli scambi - come confermato in primis dall’ampia normativa a tutela del consumatore - non esclude infatti la possibilità teorica (supportata dal dato normativo) di intendere il torto concorrenziale come singola componente di una più vasta operazione, che precede la conclusione del contratto a valle e rispetto al quale il legislatore ha già espresso - con la sanzione della nullità di cui al comma 3 dell’art. 2 della legge n. 287/90 27 - un giudizio di disvalore in termini di illiceità. Nel dipanarsi delle diverse ricostruzioni offerte un ruolo emblematico viene quindi riconosciuto alla recente sentenza n. 2207/05 delle Sezioni Unite, con cui il Collegio di legittimità ha autorevolmente chiarito alcuni punti ancora oscuri in merito alla ratio della disciplina antitrust nazionale, alla legittimazione attiva circa la proposizione dell’azione di cui all’art. 33 della medesima legge ed ai suoi limiti soggettivi. Diversi snodi di primaria importanza ed utilità vengono inoltre individuati, nella pronuncia della Suprema Corte, al fine della soluzione della questione che ci occupa e, nella specie, del rimedio civilistico maggiomente adeguato, in un’ottica funzionale, alla tutela della controparte a valle dell’impresa partecipe dell’infrazione antitrust a monte. M. M ANTOVANI, Vizi incompleti del contratto e rimedio risarcitorio, Torino, 1995, p. 187 ss.). L’indirizzo è altresì confermato dalla giurisprudenza che, accogliendo le suggestioni dottrinali, tende a spostare la funzione del principio di buona fede sul diverso terreno del giudizio di validità del contratto (cfr. Cass. n. 3362/1989 e, da ultimo, Cass. n. 10926/1998, che dichiara la nullità della clausola del contratto di leasing che trasferisce a carico dell’utilizzatore il rischio della mancata consegna del bene, semplicemente “perché viola il principio dell’esecuzione del contratto secondo buona fede”). Questa consapevolezza è poi rafforzata da un’attenta analisi della nuova legislazione e trova esplicita conferma in aree di attività ove l’autonomia e il raffronto fra atto e comportamento è evidente, come nella normativa antitrust “che fa saltare le simmetrie del passato fra fattispecie di validità e di responsabilità e induce a ripensare tali costruzioni”. In questi termini, G. VETTORI , Le asimmetrie informative…, cit., p. 249 e, sul tema specifico, ID., Anomalie e tutele…, cit., p. 43 ss.; G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, in Riv. dir. comm., 1999, I, p. 67 ss.; ID., Congruità dello scambio e contratti di credito (Ancora una breve riflessione intorno ai rapporti tra mercato e teoria del contratto), in Squilibrio e usura nei contratti, a cura di G. Vettori, Padova, 2002, p. 437 ss.; V. ROPPO, op. ult. cit., p. 49, il quale cita il campo delle intese anticoncorrenziali contemplate dall’art. 2 della legge antitrust quale ambito nel quale fioriscono nullità dipendenti contro lo schema tradizionale - da variabili esterne al contratto. Nel senso che la possibilità che un medesimo fatto materiale possa rilevare sia come fattispecie generatrice di responsabilità aquiliana che come fattispecie integrante gli estremi di una violazione contrattuale dando luogo ad una pluralità di pretese e senza che, peraltro, l’instaurarsi della relazione contrattuale valga ad assorbire la possibilità di avvalersi del più generale rimedio risarcitorio di cui all’art. 2043 cod. civ., si veda A. DI M AJO, Delle obbligazioni in generale, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1988, p. 230 ss. 16 Di questi e di altri temi legati alla mutevole intersezione (ed interazione) tra profili della teoria generale del contratto e regolazione dei mercati si tenterà quindi, nelle pagine che seguono, un’accurata trattazione. 27 E’ d’uopo richiamare sin d’ora il disposto della norma, ai sensi del quale “le intese vietate sono nulle ad ogni effetto”. 17 CAPITOLO I REGOLAZIONE DEL MERCATO E TEORIA GENERALE DEL CONTRATTO: TERMINI DEL PROBLEMA 1. Intese anticoncorrenziali ed effetti sui contratti a valle: logica di un intervento Il tema di studio, avente ad oggetto l’analisi degli effetti che l’accertata nullità di un’intesa anticoncorrenziale esplica sui contratti a valle, si presenta estremamente complesso e problematico, avuto riguardo sia alle considerazioni di carattere strettamente dogmatico che alle conseguenze di rilevanza pratica cui la prospettazione di una tesi tendenzialmente conclusiva sull’argomento inevitabilmente conduce 1 . 1 La questione costituisce un esempio emblematico di interferenza ed interazione tra disciplina del mercato e diritto dei contratti, la cui problematicità emerge in particolar modo dal carattere di specialità della nullità antitrust e del relativo regime applicativo rispetto alla categoria generale disciplinata dagli artt. 1418 ss. cod. civ. (profilo, questo, che verrà trattato più ampiamente infra), nonchè dalle recenti tendenze evoluzioniste di matrice comunitaria le quali, già da tempo e con particolare riguardo al settore della consumer protection, hanno imposto un ripensamento critico ed un’attenta meditazione attorno alle figure dogmatiche e normative fissate dalla tradizione civilistica. La problematicità della questione, secondo quanto rileva G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., p. 69, è accentuata dalla mancanza di una riflessione organica sul tema delle interrelazioni tra diritto dei contratti e regole di mercato. In particolare, afferma l’Autore, “si è avvertita l’assenza di specifiche indagini tese a determinare la misura in cui la violazione dei principi di comportamento, che, per essere destinati a garantire l’esistenza di un regime di libera concorrenza, si preoccupano di assicurare al mercato efficienza e funzionalità, possa condizionare il libero esplicarsi dell’autonomia negoziale, intaccando la validità degli atti in cui si manifesta”. Sull’argomento, si ricordi che la Corte di Giustizia ha in varie occasioni affermato che, a seguito dell’accertamento dell’anticoncorrenzialità di un’intesa, le ricadute sui contratti stipulati dagli utenti finali con le imprese in attuazione della collusione a monte sono regolate non dal Trattato CE, ma dai singoli diritti statali afferenti alla materia di obbligazioni e contratti (cfr. sentenza 14 dicembre 1983, causa 319/82, in Foro it., Rep., 1986, voce Comunità europee, n. 134, e, per esteso, in Giur. dir. ind., 1984, p. 932). 18 L’espresso riconoscimento, sancito dall’art. 2, comma 3, della legge 10 ottobre n. 2872 (“Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”), della nullità di intese antitrust (“Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto”), infatti, se da un lato rende manifesta la scelta del legislatore di circoscrivere la pur ampia libertà di autoregolamentazione riconosciuta ad ogni soggetto di diritto, dall’altro solleva attesa la mancanza di una disciplina positiva in materia e le peculiarità che l’invalidità anticoncorrenziale presenta - profonde incertezze circa la possibilità di estendere, oltre il ristretto ambito descritto dalla fattispecie normativa, il giudizio di disvalore espresso dal legislatore verso le forme di concertazione anticoncorrenziale previste dall’art. 2 3 . A riguardo, la legge nazionale non chiarisce infatti in alcun modo quali conseguenze comporta, dal punto di vista civilistico, la violazione delle norme antitrust sugli atti negoziali conclusi da ciascuna delle imprese colluse. Ad aggravare la lacuna normativa si aggiunge tra l’altro la mancata attribuzione all’Autorità garante della concorrenza e del mercato - preposta al compito di assicurare e tutelare l’effettivo funzionamento del meccanismo concorrenziale - del potere di ottenere, attraverso mezzi di coazione, l’osservanza del provvedimento con cui le imprese vengono diffidate dall’uniformare la propria condotta commerciale agli accordi vietati e dall’utilizzare quei moduli negoziali di cui sia stata accertata la abusività. Né si riconosce all’Autorità indipendente il potere autoritativo di impedire l’esecuzione dei contratti già conclusi prima dell’accertamento della compiuta violazione dei divieti di cui agli artt. 2 e 3 della legge n. 287/90, o di rimuovere gli 2 La legge è riportata in G.U. 13 ottobre 1990, n. 240. La questione è stata affrontata inizialmente con riguardo ai soli contratti in cui si concreta un abuso di posizione dominante dll’art. i cui all’art.3 della legge antitrust, il quale ben può assumere consistenza negoziale e rispetto al quale, si è affermato, si verificherebbe una violazione diretta della norma imperativa di cui all’art. 3, derivandone così de plano la nullità del contratto ai sensi dell’art. 1418, comma 1, cod. civ. A riguardo, A. M IRONE, Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, Torino, 2003, pp. 68-70, considera il silenzio del legislatore in materia di contratti a valle di un’intesa - diversamente dalla fattispecie di abuso di posizione dominante che vale tipicamente a salvaguardare la posizione dei consumatori “in alcune situazioni limite di annullamento delle logiche di mercato” - il frutto di una consapevole scelta normativa, coerente con la ratio del divieto di cui all’art. 2, il quale mira a garantire il mantenimento dell’autonomia strategica delle imprese tutelando gli utenti finali solo in via indiretta. 3 19 effetti dei contratti già eseguiti, tali misure non potendo identificarsi con la facoltà di imporre alle imprese l’eventuale sospensione, per un periodo massimo di trenta giorni, dello svolgimento delle rispettive attività. L’unico rimedio utile riconosciuto al Garante consiste infatti nel potere - previsto dall’art. 15, come modificato dall’art. 11 della legge 5 marzo 2001, n. 57 - di comminare, nei casi di infrazione grave, una sanzione amministrativa pecuniaria 4 . Le ingiustificate carenze dispositive dell’apparato sanzionatorio conferito all’autorità di settore, paiono poi ancora meno comprensibili ove si consideri il contrasto che si viene così a creare tra la soluzione (omissiva) del legislatore italiano e l’indirizzo interpretativo adottato a livello comunitario. In quest’ultimo ambito, infatti - ancorché ciò non sia espressamente previsto - è pacifico che la Commissione possa adottare misure positive volte ad eliminare gli effetti di comportamenti anticoncorrenziali, ad esempio incidendo sui singoli contratti stipulati dalle imprese coi loro clienti, obbligandole a rinegoziarne il contenuto e prevedendo, in ogni caso, la possibilità per il contraente più debole di recedere dal contratto 5 . 4 Per un’analisi del sistema sanzionatorio contemplato dall’art. 15 della legge antitrust e nel senso dell’impossibilità per l’Autorità italiana di prescrivere comportamenti positivi alle imprese autrici dell’infrazione al fine di ripristinare condizioni di concorrenza sul mercato, si veda P. A QUILANTI, Poteri dell’Autorità in materia di intese restrittive della libertà di concorrenza e abuso di posizione dominante, in Diritto antitrust italiano, op. cit., vol. II, p. 877 ss. 5 A questo proposito può essere richiamata in particolare, quale esempio emblematico, la decisione Astra della Commissione 93/50/CEE, del 23 dicembre 1992, in G.U.C.E., n. L 20 del 28 gennaio 1993, p. 23, relativa ad un procedimento avviato in forza dell’art. 81 (ex art. 85) del Trattato CEE, in cui la Commissione ha espressamente riconosciuto l’alternativa della “rinegoziazione dei termini del contratto” o del “recesso salvo preavviso” a beneficio dei clienti di una delle imprese coinvolte nell’intesa. La lacuna nella disciplina nazionale si ravvisa pure dal confronto con il criterio seguito dall’ordinamento interno di alcuni Stati membri, quali quello tedesco e quello spagnolo. Il GWB tedesco, secondo quanto sostiene parte della dottrina, riconoscendo al § 19 all’Autorità competente il potere di regolare la sorte delle pattuizioni in qualche modo dipendenti o collegate ai cartelli diretti alla fissazione di prezzi o di condizioni contrattuali uniformi, sembra infatti offrire a quest’ultima qualche spazio per pronunciarsi anche sulla sorte dei contratti a valle. Sul punto - come rileva M. NEGRI , Risarcimento del danno da illecito antitrust e foro per la tutela del consumatore (la Cassazione non dilegua i dubbi nella vicenda RC auto), nota a Cass. 9 dicembre 2002, n. 17475, in Corr. giur. n. 6/2003, p. 753, nota 26, a questo proposito - la dottrina tedesca è solita distinguere tra Folgevertrage, ovvero gli accordi anticoncorrenziali conclusi dai membri di un cartello e, sulla base di questo, con soggetti terzi (ad esempio contratti di fornitura conclusi con i propri acquirenti che riproducano le condizioni contrattuali oggetto dell’intesa), e Ausfuhrungsvertrage, mediante i quali si rafforza o si porta ad effetto l’intesa vietata (ad esempio i contratti per l’adesione di terzi al cartello vietato). Solo questi ultimi, afferma l’Autrice, sarebbero certamente travolti dalla nullità dell’intesa. 20 Queste ragioni hanno quindi indotto la dottrina nazionale a domandarsi preliminarmente se la lacuna norma tiva sia davvero da intendere quale consapevole scelta legislativa di impedire che il giudizio di riprovazione espresso tramite la norma dell’art. 2 possa estendersi al contenuto del regolamento contrattuale sottostante, oppure se la circostanza che i contratti siano posti in essere nel quadro di una politica di mercato volta ad alterarne le condizioni di concorrenza (e nella prospettiva di restaurare la piena competizione), non assuma rilievo discriminante, essendo sufficiente il semplice ricorso allo strumentario generale delineato dal codice civile in materia di invalidità negoziale (ossia agli artt. 1418 cod. civ. ss.). La problematicità della questione emerge in tutta la sua evidenza soprattutto ove si consideri che le intese illecite - il cui contenuto si giustifica in ragione dell’interesse delle imprese aderenti a regolare i loro reciproci rapporti attraverso la determinazione congiunta e concordata delle modalità di esercizio della rispettiva attività - generalmente non incidono in maniera diretta ed immediata sulla funzionalità ed efficienza del mercato considerato 6 . La concretizzazione degli effetti anticoncorrenziali cui la stipulazione dell’accordo collusivo a monte mira, resta infatti per lo più affidata ai singoli e ripetuti atti realizzati in conformità alle norme d’azione reciprocamente concordate da ciascuna aderente nell’esercizio della propria attività commerciale. Sull’argomento si veda anche M. MELI , Il sistema sanzionatorio delle intese restrittive della concorrenza nell’ordinamento tedesco, in Riv. crit. dir. priv., 1997, p. 259. Nella stessa prospettiva dell’ordinamento tedesco, si consideri inoltre, ancora più chiaramente, la legge antitrust spagnola (Ley 16/1989), la quale attribuisce al competente Tribunal de Defensa de la Competencia, (art. 9), una volta accertata l’esistenza della fattispecie vietata, il potere di condannare le imprese responsabili al pagamento di sanzioni pecuniarie amministrative e di imporre a costoro le misure positive idonee a rimuoverne gli effetti, inoltre assegnando al Collegio il potere di assumere misure cautelari volte a prevenirne la produzione. 6 Il problema è emerso, a livello giurisprudenziale, soltanto nel 1998 in relazione all’adozione da parte di aziende ed istituti di credito aderenti all’ABI di norme bancarie uniformi (n.b.u.) fissate da quest’ultima - sanzionate dalla competente Banca d’Italia per contrasto con l’art. 2 della legge antitrust - ed alla conseguente attività negoziale. Il problema, come vedremo più diffusamente nel corso della trattazione, è stato poi incidentalmente affrontato dal Tribunale di Genova, 21 maggio 1996, in Banca, borsa e tit. di cred., 1998, II, p. 97 ss., il quale non ha preso esplicita posizione a riguardo. Diversamente, il Tribunale di Alba, con sentenza del 12 gennaio 1995, in Giur. it., 1996, I, p. 212 ss., si è pronunciato per la piena validità del contratto a valle, mentre il Tribunale di Roma, con sentenza del 12 settembre 1997, n. 4071, ha affermato la tendenziale nullità, circoscritta alle singole clausole riproduttive delle n.b.u., in applicazione dell’art. 1419 cod. civ. 21 Caratteristica tipica degli accordi anticoncorrenziali, infatti, consiste, ancor più che nel costituire un rapporto giuridico vincolante tra le imprese colluse più o meno coercibile, nel presentarsi quali fonti di regole di condotta per le aderenti, finalizzate a conformare secondo direttive uniformi i successivi rapporti di ognuna con la clientela a valle 7 . Il che rende evidente che gli effetti distorsivi dell’infrazione antitrust conseguenti ad un’alterazione collettiva delle condizioni di competizione a monte non si esauriscono nella semplice realizzazione dell’intesa, al contrario traducendosi e propagandosi nella posizione di forza negoziale ed economica di cui una delle parti della successiva attività negoziale gode e di cui individualmente abusa 8 . 7 Per questa ragione in queste ipotesi, almeno ove abbiano vera e propria natura negoziale, si tende ad inquadrare le intese antitrust nell’alveo dei contratti-quadro o normativi. A riguardo, un’attenta analisi della natura delle intese anticoncorrenziali è riscontrabile già nelle pagine di T. A SCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, Milano, 1960, il quale riconduceva i cartelli tra imprenditori ai “contratti innominati normativi”, attesa la mancanza all’epoca dell’Autore di una disciplina specifica in materia ed avuto riguardo al carattere vincolante dell’accordo tra i partecipanti, volto a regolare il contegno di costoro nello svolgimento delle rispettive attività. Si tratta, inoltre, di contratti aventi natura plurilaterale, interessando generalmente più di due soggetti, e caratterizzati da una identità giuridica delle prestazioni poste a carico di ciascun partecipante - il quale dunque rinunzia consapevolmente ad una porzione della propria indipendenza sul mercato - pur nella contrapposizione degli interessi sottesi. Ciò vale a distinguere questi accordi dai normali contratti di scambio, in cui agli interessi contrapposti delle parti corrispondono sempre prestazioni diverse ed in reciproca correlazione. Il contratto di cartello, in quanto contratto plurilaterale, è poi definito dall’Autore quale “contratto di organizzazione”, poichè, diversamente dai contratti di scambio, costituisce lo “strumento tipico per la disciplina interna dei rapporti di gruppo”, attraverso cui “tutti coloro che appartengono ad una determinata categoria possono nel diritto privato organizzarsi per il raggiungimento di un fine unico”. Le intese anticoncorrenziali, per il rapporto di diretta proporzionalità tra il numero di imprese partecipanti ed il grado di incidenza sul mercato del comportamento concordato, si presentano poi normalmente quali contratti aperti, che consentono cioè l’adesione di volta in volta di nuovi soggetti. Lega il naturale ripercuotersi dell’intesa sulla successiva attività negoziale alla stessa struttura dell’illecito anticoncorrenziale anche G. GIOIA, Vecchie intese e nuove nullità, cit., p. 12, secondo la quale il contratto associativo - cui gli accordi antitrust si avvicinano per conformazione - “non dà vantaggi immediati ad alcuna delle parti, ma attraverso la successiva attuazione, finisce indirettamente con l’avvantaggiare tutte le parti. In questo caso, la funzione del contratto non si esaurisce con l’esecuzione delle obbligazioni delle parti, la quale costituisce, invece, la premessa d’una attività ulteriore, la cui realizzazione rappresenta la finalità del contratto e l’interesse delle parti”. 8 Valga sin d’ora richia mare alcuni tra i più significativi contributi sull’argomento, dei quali si darà ampio conto nel Capitolo II. Tra questi, L.C. UBERTAZZI , Concorrenza e norme bancarie uniformi, Milano, 1986, in specie p. 98 ss.; A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, Milano, 1996, specie p. 339 ss.; G. ROSSI , Effetti della violazione di norme antitrust sui contratti tra imprese e clienti: un caso relativo alle norme bancarie uniformi, in Giur. it., 1996, I, 2, pp. 212 ss. (nota a Tribunale di Alba, 12 gennaio 1995); F. PARRELLA, Disciplina antitrust nazionale e comunitaria, nullità sopravvenuta, nullità derivata e nullità virtuale delle clausole dei contratti bancari a valle, in Diritto della banca e del mercato 22 Il contratto, infatti, rappresenta un “ponte”, il “mezzo di trasmissione” attraverso cui l’illecito anticoncorrenziale si infrange sulla realtà economica sottostante, ovvero lo strumento principale attraverso il quale le imprese colluse agiscono effettivamente sul mercato alterandone il funzionamento. Per questa ragione è su quest’ultimo, quale anello intermedio di un complessivo comportamento unilateralmente orientato a distorcere i meccanismi di una sana e leale competizione, che si intende focalizzare l’attenzione 9 , specie in considerazione della natura “bifronte” del tramite negoziale, attraverso il quale passano quegli strumenti di riequilibrio in grado di ripristinare la dinamica concorrenziale 10 . finanziario, 1996, p. 507 ss.; A. BERTOLOTTI, Illegittimità di norme bancarie uniformi (NBU) per contrasto con regole antitrust ed effetti sui “contratti a valle”: una ipotesi di soluzione a un problema dibattuto, in Giur. it., 1997, IV, p. 345 ss. Spunti sulla problematica in esame si rinvengono anche in G. OPPO, Diritto dell’impresa e morale sociale, op. cit., p. 25 ss.; ID., Costituzione e diritto privato nella “tutela della concorrenza”, ivi, 1993, II, p. 543 ss.; N. SALANITRO, Disciplina antitrust e contratti bancari, in Banca, borsa e tit. di cred., 1995, II, p. 420 ss.; D. SARTI, Osservazioni su norme bancarie uniformi, diritto antitrust e clausole di modifica unilaterale del rapporto, ivi, 1998, p. 103 ss. Riflessioni analoghe sono state condotte, in maniera peraltro scarna, con riguardo al contratto a valle attraverso il quale l’impresa abusa della propria posizione dominante. Tra questi si segnalano in particolare, G. PASETTI, Impresa dominante e rescissione, in Riv. dir. civ., 1971, I, p. 351 ss. e G. VETTORI , Anomalie e tutele nei rapporti di distribuzione fra imprese. Diritto dei contratti e regole di concorrenza, op. cit., p. 200 ss., i quali affrontano l’argomento prima dell’entrata in vigore della legge antitrust e con riguardo alla violazione dell’art. 86 del Trattato CEE; G. OPPO, op. ult. cit., p. 552; A. FRIGNANI (M. SIRAGUSA e V. M ELI), Abuso di posizione dominante, in Diritto antitrust, cit., p. 310 ss.; G. SELVAGGI , Abuso di posizione dominante, in Giur. it., 1992, IV, p. 134 ss.; G. PASSAGNOLI, Le nullità speciali, op. cit., pp. 44 ss., 150 ss., 235 ss.; G. ROSSI , op. ult. cit., p. 220. 9 Il contratto costituisce, riprendendo le parole di P. BARCELLONA, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969, p. 331, lo “strumento attraverso il quale principalmente i privati giocano sul mercato”. 10 In questo senso anche A. ALBANESE , Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Milano, 2003. Come evidenzia L. M ENGONI, Autonomia privata e Costituzione, op. cit., p. 14 “poiché la tutela della libertà di contratto è insieme uno strumento di protezione del mercato, fondamento costituzionale di questi limiti legali non è soltanto il secondo, ma anche il terzo comma dell’art. 41, riletto nel senso che i fini sociali ai quali la legge deve indirizzare l’attività economica, includono anzitutto il corretto funzionamento del mercato in condizioni uniformi di concorrenza”. In merito al ruolo che il contratto assume nel più vasto quadro della regolamentazione del mercato, si veda anche F. GALGANO, Diritto ed economia alle soglie del nuovo millennio, in Contr. e impr., 2000, p. 189 ss., il quale evidenzia come il contratto costituisca oggi il principale strumento di innovazione giuridica: “Il contratto prende il posto della legge in molti settori della vita sociale. Si spinge fino a sostituirsi ai pubblici poteri nella protezione di interessi generali, propri dell’intera collettività, quale l’interesse dei consumatori” (p. 197). Tale fenomeno, rileva l’Autore, è riconducibile in particolare alla “inettitudine della legge alla innovazione giuridica”, riconducibile a “due caratteri dell’economia contemporanea, la quale è, innanzitutto, una economia meta-nazionale, in antitesi con il carattere nazionale dei sistemi legislativi, ed è, in secondo luogo, una economia in continua trasformazione, la quale reclama flessibili strumenti di adeguamento del diritto ai mutamenti della realtà, in antitesi con la rigidità delle leggi” (pp. 197-198). Ciò spiegherebbe per quale ragione la scena giuridica del nostro 23 Intervenire sul contratto a valle e sulla vicenda negoziale che da esso scaturisce, azzerando (o comunque limitando) l’influenza che su di esso esplica l’intesa anticoncorrenziale, significa infatti non solo riequilibrare un rapporto geneticamente asimmetrico, ma anche introdurre meccanismi sanzionatori indiretti idonei a disincentivare le imprese indipendenti operanti in un dato mercato a definire concordemente standard comportamentali illeciti11 . La stessa presenza di una disciplina antitrust nel nostro ordinamento esprime infatti il principio secondo il quale la competizione tra operatori - effettiva o potenziale - rappresenta lo strumento più adeguato non solo per garantire agli acquirenti beni e servizi a prezzi convenienti e nella qualità e quantità desiderate, ma anche per disciplinare i comportamenti delle imprese là dove il potere di mercato tende a concentrarsi, più o meno naturalmente, nelle mani di alcuni soggetti a scapito di altri12 . tempo sia dominata dalla circolazione internazionale dei modelli contrattuali uniformi i quali, privi di nazionalità, assumono la peculiare funzione “di realizzare l’unità del diritto entro l’unità dei mercati” (p. 199). 11 Contra, F. FERRO-LUZZI, Prolegomeni in tema di mercato concorrenziale e “aurea aequitas” (ovvero delle convergenze parallele)”, in Foro it., 2004, I, p. 478, il quale ritiene coerente col sistema l’assoluta impermeabilità del contenuto del contratto e della sua disciplina alla normativa anticoncorrenziale: “in ambito contrattuale, gli strumenti di tutela offerti dal sistema codicistico sono indirizzati alla tutela della libera, piena, consapevole, determinazione negoziale, in altri termini sono finalizzati alla sussistenza di un rapporto equo. Il sistema di controllo legislativamente previsto, allora, verte sulla procedura attraverso la quale si forma la volontà della parte, mentre la tutela a valle di un contratto posto in essere da un’impresa partecipante ad un’intesa presupporrebbe un sistema che non è proprio del nostro ordinamento: un sistema impostato sui rimedi contro uno scambio che sebbene libero e consapevole fuoriesca dagli usuali parametri mercantili”. L’assunto induce l’Autore ad affermare - peraltro in maniera non condivisibile in quanto dimentica delle sostanziali trasformazioni di derivazione comunitaria in tema di equilibrio sostanziale del contenuto negoziale che il contraente a valle con un’impresa partecipante ad un’intesa illecita, si determina sempre liberamente a contrarre, “con la conseguenza che la circostanza che le condizioni di cui all’accordo siano meno o più favorevoli di quelle che avrebbe ottenuto in assenza dell’intesa in discorso risulta essere circostanza irrilevante per il sistema”. Nello stesso senso, si veda anche C. CORAPI, Integrazione giuridica europea e regolazione del mercato. La disciplina dei contratti di consumo nel sistema del diritto della concorrenza, op. cit., 2002, pp. 718-719. 12 In proposito, il primo Presidente dell’Antitrust, F. SAJA, L’Autorità garante della concorrenza e del mercato: prime esperienze e prospettive di applicazione della legge, in Giur. comm.,1991, p. 455, commentando il ruolo della legge n. 287/1990 nel nostro ordinamento, osservava che la disciplina della concorrenza possiede una “peculiarità (…) che la proietta al di là del campo strettamente economico in cui d’abitudine essa viene circoscritta. Tale disciplina incide invero anche sul piano sociale, non solo perché dà attuazione ad una libertà prevista dalla Costituzione, ma perché è anche protesa profondamente verso la tutela del consumatore: il quale trova sì la sua diretta protezione in altra normativa, per lui esclusivamente dettata, ma indirettamente è tutelato da quella in oggetto per gli effetti che una libera concorrenza e la regolarità del mercato possono produrre nei confronti 24 Ciò rende evidente l’importanza di individuare strumenti di intervento che, tutelando la parte contrattualmente debole, siano in grado di correggere il regolamento contrattuale e contestualmente di ripristinare la piena concorrenzialità del mercato 13 , in questo modo riconducendo il contratto nel mercato e dunque dentro il corretto meccanismo di selezione delle offerte. L’intersezione tra profili legati, rispettivamente, alla teoria generale del contratto ed alla regolazione del mercato accresce quindi l’interesse ed al tempo stesso la problematicità dell’argomento, la cui attualità ed il cui rilievo, confermati dal succedersi di numerose quanto divergenti pronunce giurisprudenziali 14 , nasce dell’intera collettività sul binomio prezzo-qualità”. Come ricorda inoltre G. GIOIA, Vecchie intese e nuove nullità, cit., p. 16, la libertà di concorrenza si concreta nella libertà di accedere al mercato e di uscirvi, non anche di rimanervi, poiché è la stessa libertà di competere tra più operatori a poter determinare la sconfitta di uno di essi e la conseguente legittima estromissione dallo scenario della gara. Per questa ragione è necessario ostacolare e sanzionare tutti quei comportamenti collusivi che, alterando il naturale confronto tra le imprese, ne distorcono anche il meccanismo di fisiologica selezione. 13 Il sistema di mercato a struttura concorrenziale è infatti considerato, in maniera pressoché incontestata, quale fattore in grado di soddisfare finalità di giustizia distributiva e di efficienza allocativa. Discusso è, invece, se di fronte a comportamenti anticoncorrenziali debba sempre attivarsi la risposta dell’ordinamento; discusso è, in altri termini, se l’ordinamento debba intervenire già dinanzi a comportamenti in grado di determinare trasferimenti di ricchezza dai consumatori alle imprese, benché a “costo zero” per la collettività (che significherebbe riconoscere al diritto antitrust essenzialmente il ruolo di normativa volta a perseguire un ideale di giustizia distributiva), oppure solo in caso di iniziative in cui a tale effetto si colleghi anche distruzione di ricchezza, e dunque come tale generatrici di inefficienze per la società nel suo complesso (secondo la nota tesi della Scuola di Chicago). Sul punto, tra gli innumerevoli contributi di dottrina giuridica ed economica, si rinvia a F. DENOZZA , Antitrust, Bologna, 1988; C. O STI, Antitrust e oligopolio, Bologna, 1995 e, tra gli economisti, F. GOBBO, Il mercato e la tutela della concorrenza, Bologna, 1997. Circa la necessità di definire strumenti correttivi idonei ad agire sia all’interno della vicenda contrattuale che nel più vasto mercato, non sembra inoltre fuori luogo richiamare le parole di P. BARCELLONA, Programmazione e soggetto privato, in Aspetti privatistici della programmazione, I, Atti della Tavola Rotonda tenuta a Macerata, 22-24 maggio 1970, Milano, p. 96, secondo il quale “l’esperienza ha dimostrato ampiamente che il mercato non costituisce lo strumento per l’autoregolazione degli interessi, per l’equa soddisfazione dei bisogni di ciascuno, giacchè nell’ambito del mercato stesso sussistono e si riproducono poteri e istituzioni che esercitano una funzione di condizionamento e di eteroregolazione dei comportamenti individuali; poteri, cioè, che si pongono in una posizione di sovranità rispetto ad altri soggetti privati. Si pone così il problema della protezione del privato dai pericoli e dalle sopraffazioni dell’autoritarismo economico di altri soggetti privati”. Il funzionamento, pur perfetto, “dell’economia, l’efficienza produttiva e l’incremento del reddito nazionale non garantiscono di per sé la giustizia sociale”, così L. RAISER, Il compito del diritto privato. Saggi di diritto privato e di diritto dell’economia di tre decenni, cit., p. 44. La configurazione di strumenti di intervento forti ed incisivi che, depurando i contratti a valle dei riflessi dell’illecito concorrenziale esercitino la propria azione benefica sul più vasto mercato, si rivela inoltre opportuna a fronte della condivisa insufficienza dei poteri di azione e coazione, estremamente contenuti, conferiti all’Autorità Antitrust. 14 Per un esame analitico delle divergenti interpretazioni fornite sul punto, rispettivamente, dalla giurisprudenza e dalla dottrina, si rinvia al Capitolo II. 25 appunto dalla necessità di esaminare quali conseguenze - da un punto di vista strettamente civilistico - patisce il regolamento pattizio e quale protezione debba accordarsi alla parte debole di un rapporto sperequato che si inserisca in un più ampio quadro comportamentale volto, dal lato della controparte imprenditoriale, ad alterare le condizioni di concorrenza del mercato di riferimento. La complessità del tema nasce quindi dalla esigenza di combinare interessi pubblici ed interessi di rilievo individuale, nel considerare unitamente il giudizio di valore espresso dal legislatore con riferimento agli accordi anticoncorrenziali a monte con l’atteggiamento di sfavore, espresso dal sistema nel suo insieme, nei confronti di quegli assetti sinallagmatici (a valle) caratterizzati da una sproporzione tra le rispettive attribuzioni non giustificabile alla luce dell’economia complessiva del rapporto, ma alla stregua di un abuso del soggetto più forte 15 . L’avvicinamento del diritto dei contratti ad un corpus normativo diretto alla regolazione del mercato (quale il diritto della concorrenza), richiede quindi un ripensamento della sua funzione ed una maggiore attenzione alla valenza che assumono le scelte d’impresa in quanto vicende giuridiche ed economiche non circoscritte, ma suscettibili di produrre effetti esterni (le c.d. esternalità nel linguaggio dell’economia) di varia natura, talvolta destinati ad avere ricadute su rapporti negoziali facenti capo anche a soggetti non direttamente coinvolti nelle strategie collusive. L’intimo ed al tempo stesso problematico legame che intercorre tra queste due realtà spiega, quindi, le incertezze che si manifestano nel ricostruire il rilievo e le ripercussioni che l’accertamento di un accordo anticoncorrenziale genera sui 15 Che la posizione di debolezza in cui si trova la controparte dell’impresa collusa debba essere letta alla stregua non soltanto della disciplina antitrust ma, altresì, di altre disposizioni normative - quali quelle riguardanti la fenomenologia dei contratti d’impresa, che definiscono e individuano gli interessi protetti dei consumatori nell’ambito dei rapporti negoziali finalizzati all’acquisto di beni e servizi - è riconosciuto espressamente da G. GUIZZI, Struttura concorrenziale del mercato e tutela dei consumatori. Una relazione ancora da esplorare, in Foro it., 2004, pp. 481-482. L’Autore, in particolare, ritiene che le suddette disposizioni, in quanto volte a delineare le condizioni di rapporti che si formano necessariamente sul mercato e a definire le garanzie di consapevolezza delle scelte di chi al mercato si rivolge, costituiscono anch’esse, a tutti gli effetti, parte integrante del suo statuto normativo. Per il rilievo che la simmetria tra le figure dell’imprenditore e del consumatore evidenzia l’identità dei fenomeni che li concernono, e dunque gli interessi di cui gli stessi sono portatori, si veda L. SAMBUCCI , I contratti dell’impresa, Milano, 2002, p. 128 ss. 26 regolamenti negoziali sottostanti, nella duplice e contestuale necessità - avvertita tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza - di garantire adeguata tutela ai soggetti che di quelle contrattazioni rappresentano la parte più debole e, al tempo stesso, la stabilità del mercato. 2. Analisi del contesto e rilevanza del problema: dalla fiera al dominio delle multinazionali Ai fini di una migliore comprensione del problema, sembra opportuno focalizzare preliminarmente l’attenzione su taluni dati ed alcune nozioni che assumeranno rilievo nel corso della trattazione. Da un punto di vista “ambientale” l’elemento sui cui si ritiene di dover riflettere, a sottolineare le conseguenze che il prendere posizione circa i termini dell’interferenza tra regole del mercato e disciplina negoziale comporta, ruota innanzitutto attorno alle sostanziali trasformazioni che la società degli scambi ha conosciuto negli ultimi tempi. Il sistema di relazioni che caratterizza la nostra epoca ha infatti visto mutare profondamente, grazie all’impiego delle moderne tecnologie dell’informazione ed alla definizione di spazi dell’economia di dimensioni globali, sia la natura dei soggetti che interagiscono sul mercato, sia i modi di svolgimento dell’attività negoziale 16 . 16 A questo riguardo, si vedano anche le considerazioni di V. ROPPO, Il contratto del duemila, op. cit., pp. 5-7, il quale sottolinea che da un’analisi delle conseguenze istituzionali della globalizzazione emerge come i processi di produzione normativa siano caratterizzate da un crescente di un nuovo attore: le grandi compagnie multi- o trans-nazionali. Il diritto vivente che regola le odierne transazioni economiche, ma anche le micro-transazioni di massa su beni o servizi di consumo non scaturisce più, in prevalenza, da leggi dello Stato, “ma in misura crescente s’identifica in corpi di regole prodotte dalle stesse imprese che di quelle operazioni e transazioni sono le protagoniste”. Norme create “a colpi di contratto”, “a colpi di schemi contrattuali sempre pronti ad essere modificati, in un processo di adeguamento serrato e veloce, secondo le mutevoli esigenze delle imprese predisponenti”. Alla esaltazione della forza normativa del contratto, la globalizza zione, peraltro, aggiunge profili di indubbio indebolimento, poiché “il contratto dell’economia e della società globalizzate è un contratto in cui l’esigenza della flessibilità fa premio sui valori della certezza e della stabilità. (…) In breve: una figura di contratto sempre meno tributaria all’idea di 27 Il singolo operatore commerciale, difatti, cede sempre più spesso il passo alle grandi multinazionali e ad entità complesse ed articolate le quali, all’incerto ed imprevedibile dipanarsi di una corretta gara preferiscono la definizione di standard comportamentali certi, prevedibili ed uniformi 17 . Alla competizione leale, destinata a premiare l’imprenditore più meritevole (quello che Tullio Ascarelli indicava come il “soggetto economicamente più vincolo, alla sacertà del pacta sunt servanda, alla metafora della forza di legge; dunque una figura di contratto sempre meno aderente al paradigma della norma, per come tradizionalmente la possediamo”. In merito alla circostanza che la produzione del diritto non sia più una prerogativa esclusiva dei soggetti giuridici ufficiali e che trovi spesso come propri co-autori soggetti privati, M.R. FERRARESE , Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società transnazionale, Bologna, 2000, p. 133 ss., parla di fenomeni di “co-titolarità del diritto”. Nello stesso senso si veda altresì G. ROBILANT , Ordini statici e ordini dinamici nella società complessa, in Il pensiero di Friederich von Hayek, a cura di Clerico e Rizzello, Torino, 2000, vol. II, p. 220. Simili considerazioni inducono, tra l’altro, ad abbandonare definitivamente il tradizionale modello di concorrenza perfetta il quale, fondato sull’esistenza di un mercato in cui opera un numero elevatissimo di piccole imprese nessuna delle quali in grado di influire con il proprio comportamento sulla condotta delle altre e sul regime complessivo dei prezzi, confidava nella capacità del mercato di assestarsi, senza alcun intervento dall’esterno, su una posizione di pieno equilibrio. 16 A questo proposito G. GUIZZI, Struttura concorrenziale del mercato e tutela dei consumatori. Una relazione ancora da esplorare, cit., p. 482, sottolinea che, nella misura in cui si accentua il fenomeno della standardizzazione del contratto, la circostanza che questo costituisca un regolamento di interessi non già negoziato ma unilateralmente predisposto dall’impresa, fa sì che la garanzia della correttezza della sua formazione non possa più cogliersi - come era nella logica del codice - nell’imposizione di doveri di comportamento interni ad una trattativa ormai insussistente, spostandosi essa su un piano diverso: un piano che non può essere altro che quello della correttezza del comportamento dell’impresa sul mercato. In tal senso, si vedano anche A.M. AZZARO , I contratti non negoziati, Napoli, 2000; R. A LESSI , Diritto europeo dei contratti e regole dello scambio, in Europa e dir. priv., 2000, p. 970 ss., specie p. 996; L. SAMBUCCI , Il contratto dell’impresa, op. cit., p. 256 ss. La condotta delle imprese diretta a provocare un’alterazione della struttura concorrenziale del mercato e delle dinamiche che ne caratterizzano il normale funzionamento, “sub specie intesa”, configura infatti una modalità d’azione certamente difforme dallo standard comportamentale deontologicamente corretto, non fosse altro perché si tratta di condotte finalizzate, attraverso l’eliminazione del confronto, ad impedire a chi si colloca in posizione di controparte contrattuale di orientarsi liberamente nella scelta tra alternative diverse. Simili pratiche, pertanto, contraggono ulteriormente quella che nel peculiare contesto della contrattazione standardizzata costituisce l’ultimo baluardo di una già ridotta autonomia negoziale: la libertà di scelta. Nel senso che le condotte integranti le fattispecie vietate dalla legge antitrust siano da considerare sempre come non rispettose dei principi di correttezza professionale, tanto da poter integrare fatti rilevanti anche nell’ottica del giudizio di concorrenza sleale, cfr. G.M. BERRUTI, La concorrenza sleale nel mercato. Giurisdizione ordinaria e normativa antitrust, Milano, 2002. 17 Con la definizione di comportamenti convergenti, le imprese colluse, infatti, riducono (talvolta sino ad azzerarlo) il rischio insito in qualunque leale competizione, sottraendosi al principio della lotta ed al conseguente pericolo della sconfitta. Violando le norme a tutela della concorrenza, pertanto, le imprese si sottraggono alla scelta operata dal potere politico di “immergere” i poteri economici nell’incognita del conflitto, così esponendoli alla minaccia dell’insuccesso. In questi termini, N. IRTI, La concorrenza come statuto normativo, cit., p. 62 e p. 66. 28 degno”)18 , si sostituiscono, prendendo il sopravvento, accordi collusivi finalizzati alla preventiva ripartizione del mercato, mentre al principio che guarda al prezzo quale punto di incontro e di perfetto equilibrio tra curva della domanda e dell’offerta prevale la logica della determinazione congiunta e concordata. L’innegabile trasformazione dei protagonisti del mercato fa sì, come osservato dal Commissario europeo Van Miert, che “il comportamento anticoncorrenziale (…) non tiene conto delle frontiere. Nell’emergere di imprese multinazionali di sempre maggiori dimensioni (…) è insito il pericolo che esse – sia a livello unilaterale che in collusione con altre imprese – possono avere la tentazione di adottare misure restrittive della concorrenza o abusare del proprio potere su tali mercati globali. Se siffatto comportamento anticoncorrenziale non viene sottoposto a controllo, non è esagerato affermare che molti dei vantaggi raggiunti in termini d’apertura dei mercati internazionali potrebbero risultare vanificati”. A fronte di questa situazione, come vedremo, sempre maggiore importanza assume quindi la cooperazione bilaterale ma soprattutto multilaterale tra gli Stati (specie con riguardo alle operazioni di concentrazione), che consente di applicare a livello mondiale un insieme basilare di regole di concorrenza comuni, esigenza questa cui ha dato in parte risposta la riforma attuata con il Regolamento CE n. 1/2003 di modernizzazione delle norme per l’applicazione degli articoli 81 e 82 del Trattato, oggetto di specifica analisi (par. 6, Capitolo I) 19 . Alle metamorfosi soggettive si aggiunge inoltre una peculiare connotazione dell’attività negoziale, la quale, abbandonando i rassicuranti contorni dell’agire individuale, sembra oggi lasciare il passo all’anonima, spersonalizzata ed uniforme contrattazione di massa, inseguendo l’allargarsi della dimensione dell’economia e 18 “All’interesse dell’imprenditore ad appropriarsi della probabilità di guadagno corrisponde il pubblico interesse a che i consumatori non siano fuorviati nella loro scelta, sì che il premio del successo vada effettivamente a chi dal pubblico dei consumatori ne è giudicato più degno e sia perciò promossa la produzione e lo smercio di quanto effettivamente preferito dal mercato”, così T. A SCARELLI, Teoria della concorrenza e interesse del consumatore, op. cit., p. 74. 19 In merito si vedano: G.M. BERRUTI, La nuova cooperazione attiva tra Istituzioni comunitarie, Antitrust nazionali e giudici nel Regolamento comunitario n. 1/2003, in Corr. giur., n. 1/2004, p. 115 ss.; D. IELO, L’internazionalizzazione del controllo antitrust: dalla Rete Internazionale della concorrenza al Regolamento n. 1/2003, in Dir. e formaz., n. 12/2003, p. 1693 ss. 29 della tecnica e con questa intrecciandosi a rispondere agli imperativi di pura razionalità e strenua celerità dell’odierno capitalismo. Dinanzi allo smisurato aumento delle dimensioni dei mercati e del numero degli scambi che in essi hanno quotidianamente luogo, ed alla complessità della struttura dei mercati stessi, l’esigenza della semplificazione diventa quindi irrinunciabile. L’uso di schemi uniformi per tutti gli operatori economici di un determinato settore ha infatti la finalità di facilitare e snellire il funzionamento dei meccanismi del mercato concorrenziale, agevolando il confronto che i consumatori sono chiamati ad effettuare, all’interno di un contesto informativo trasparente, tra i prodotti offerti in un determinato settore 20 . E tuttavia, l’adozione di comportamenti uniformi nelle decisioni e strategie commerciali può avere per effetto l’appiattimento dell’offerta sul mercato di un determinato bene, l’uniformazione dei prodotti (anche negoziali), con la conseguente limitazione della libertà di scelta dei consumatori, ed è, pertanto, sanzionabile (con la nullità) anche quando sia posta in essere mediante strumenti di per sé leciti. E’ in questo quadro che le infrazioni anticoncorrenziali, lungi dal rimanere al di sopra e al di fuori delle relazioni negoziali sottostanti esaurendo sul mercato la propria forza distorsiva, penetrano invece in maniera decisiva e diffusa nel tessuto pattizio, alterandone gli elementi essenziali (tra cui, e prima di ogni altro, il prezzo) 21 . La distorsione che a livello macroeconomico si verifica a seguito dell’intervenuta convergenza di comportamenti concertati tra le imprese operanti in un dato mercato, idonea ad alterarne in misura consistente il grado di competitività, va infatti di regola traducendosi, sul piano individuale, nella fissazione di condizioni sperequate 20 Ampie considerazioni ed una vasta bibliografia sul punto si ritrovano in M. BARELA, Teoria della concorrenza e libertà del consumatore: l’insegnamento di Tullio Ascarelli, op. cit., p. 909 ss. 21 “La giustizia del prezzo è nella legalità della sua formazione: in ciò che venditori e compratori abbiano osservato le regole della gara”, così N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 2004, p. 101. Ciò implica, pertanto, che ove le imprese assumano comportamenti contrastanti con i principi della lotta concorrenziale incidenti sul meccanismo di formazione del prezzo, anche la giustizia di questo viene ad essere menomata, così richiedendo l’introduzione di strumenti di riequilibrio tali da ricondurlo alla legalità. 30 nei singoli contratti che, uniformi e standardizzati, ogni impresa va a stipulare con la propria clientela 22 . Il rilievo, del resto, è confermato pure dal dato normativo il quale, all’art. 2 della legge n. 287/90, nel prevedere in via esemplificativa i comportamenti in cui tipicamente si concretizzano le intese anticoncorrenziali, richiama le attività di concertazione tipicamente consistenti nel “fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali”23 (lett. a), ovvero nel “subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun rapporto con l’oggetto dei contratti stessi” (lett. b, che prevede il cosiddetto tye-in) 24 . 22 Già T. A SCARELLI , Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, op. cit., p. 32 ss. - pur precisando che l’art. 41 Cost. “parte dalla premessa di finalità sociali del sistema economico e dalla negazione che queste finalità possano essere automaticamente raggiunte col solo gioco della concorrenza” - sottolineava come gli accordi anticoncorrenziali finiscano col risolversi in un “grave e fondamentale problema dell’economia mo derna”, eliminando una competizione che si svolge a favore del progresso tecnico e dell’abbassamento di costi. In termini analoghi anche G. GHIDINI, I limiti negoziali alla concorrenza, in Trattato di diritto commerciale, diretto da F. Galgano, Milano, 1981, vol. IV, p. 27. Qualche accenno al fatto che gli accordi limitativi della concorrenza vadano contro l’interesse del consumatore e degli utenti, si rinviene anche in F. M ESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1954, vol. III, p. 14 ss. 23 Tra le intese tradizionalmente considerate come le più restrittive, la prassi dell’Autorità annovera in particolar modo quelle relative ai prezzi, ritenute intrinsecamente anticompetitive. A riguardo si è infatti affermato che “una dettagliata analisi dei mercati e delle posizioni delle parti non pare strettamente necessaria, sia per un principio di economia del procedimento, sia e soprattutto sulla base del principio di razionalità degli agenti, per il quale due o più imprese ben difficilmente tenterebbero di eliminare ogni forma di concorrenza tra loro se non si aspettassero che questo comportamento determinasse un aumento dei loro extra -profitti” (così provv. AGCM, Latte artificiale per neonati, in Boll., n. 9/2000). Sul punto, tuttavia, è opportuno dare conto di un orientamento più rigoroso della Corte di Cassazione, la quale, con riferimento ad un’intesa orizzontale ed in riforma di una sentenza della Corte di Appello di Venezia, ha affermato che “la distorsione, reale o potenziale, per essere individuata, impone che se ne accerti in modo rigoroso il riflesso sul mercato nazionale o su di una parte rilevante, come la legge stabilisce. (…) L’affermazione della nullità dell’intesa da parte del giudice ordinario richiede l’accertamento di tale consistenza e l’adeguata motivazione sul punto” (Cass. 1° febbraio 1999, n. 827, in Foro it., 1999, I, p. 831 ss.). 24 Le pratiche di gemellaggio, ovvero quelle tecniche attraverso le quali un’impresa cerca di estendere il potere detenuto in un determinato mercato su un secondo mercato, subordinando la vendita del proprio prodotto (cosiddetto prodotto legante) all’acquisto di un altro prodotto (cosiddetto prodotto legato), ovvero all’accettazione di prestazioni supplementari, rappresentano uno degli aspetti più dibattuti, soprattutto a livello dottrinale, dell’intera politica antitrust. Alla base del disfavore con cui si è soliti guardare le pratiche di gemellaggio, vi è, in particolare, la cosiddetta teoria della leva, in base alla quale l’impresa che detiene un rilevante potere sul mercato del prodotto A potrebbe estendere siffatto potere anche sul mercato del prodotto B semplicemente subordinando la vendita del 31 Anche il dettato della norma pare quindi confermare che l’illecito antitrust non circoscrive il suo ambito di incidenza - per quanto ciò possa essere astrattamente immaginato - a profili legati esclusivamente alla regolazione del mercato, al contrario entrando, modificandone le condizioni sia economiche che normative, nei contratti successivamente stipulati da professionisti o consumatori con l’impresa collusa. Questa considerazione vale soprattutto nei settori in cui - come confermato dagli ultimi provvedimenti dell’Autorità garante - p iù accentuato è il rischio di collusioni anticoncorrenziali, quali quello bancario ed assicurativo, in cui l’offerta delle primo prodotto all’acquisto del secondo. Ricostruito in questi termini, il gemellaggio presenta marcati tratti di anticoncorrenzialità, in quanto “sfocia, da un lato, nel costringere i clienti ad accettare un prodotto che non desiderano acquistare altrove; dall’altro, - ed è in ciò che consiste il suo effetto anticompetitivo specifico - costituisce un mezzo per escludere i concorrenti dall’accesso ad un mercato che, normalmente, sarebbe loro accessibile. Allorché consiste nel subordinare la vendita di un bene utensile durevole all’acquisto, per il suo funzionamento, di beni di consumo provenienti dal venditore, la pratica comporta, inoltre, una discriminazione tra acquirenti secondo l’uso più o meno intenso che essi fanno del bene acquistato, nella misura in cui il prezzo dei beni di consumo forniti dal produttore incorpora un sovrapprezzo rispetto al prezzo al quale essi potrebbero essere acquistati sul mercato”, così A. FRIGNANI - M. W AELBROECK, op. cit., p. 553. A questa impostazione concettuale si è replicato, su entrambe le sponde dell’Atlantico, con la cosiddetta teoria dell’invarianza (o fixed sum argument), in base alla quale si sostiene che colui che detiene un certo potere su un determinato mercato non può accrescerlo modificando il modo con cui il profitto viene estratto. Infatti “ove siano necessari due prodotti per fornire un servizio (…), chi monopolizzi l’un bene può estrarre il profitto massimo (corrispondente a quello ritraibile dall’intero servizio) senza bisogno di trapiantare la sua situazione di forza sul versante del prodotto complementare. Se mai, egli dovrà preoccuparsi di minimizzare i costi di quest’ultimo; e sarà, pertanto, interessato a che la sua commercia lizzazione avvenga in condizioni altamente competitive. Ciò perché il consumatore non si cura dei costi separati dei prodotti, ma di quello unitario del servizio: com’esso sia allocato tra le sue differenti componenti, non ha per lui importanza alcuna”, così R. PARDOLESI , Analisi economica della legislazione antitrust italiana, in Foro it., V, 1, 1993, p. 293. Perché la pratica legante possa essere considerata illecita, inoltre, occorre che tra i due prodotti venduti congiuntamente non sussista alcuna connessione (o “rapporto”, come dispone l’art. 2, lett. e) in materia di intese). Simile valutazione, peraltro, rileva A. FRIGNANI, op. cit., 1993, p. 397, risulta tutt’altro che agevole, atteso che “una qualche connessione c’è sempre, soprattutto se misurata secondo gli usi”, come dispongono gli artt. 2, lett. e), e 3, lett. d), della legge antitrust. Variazione della pratica descritta è il c.d. bundling, per effetto del quale il venditore offre due o più prodotti sul mercato sia separatamente che unitamente, applicando in quest’ultima ipotesi una riduzione del prezzo. In questo caso, ponendo particolare attenzione a quello tra i prodotti maggiormente richiesti, si ritiene che, fin quando il consumatore può acquistare i beni separatamente, la pratica sfugga al divieto, in quanto la condotta è da considerare illecita soltanto allorché l’acquisto di un prodotto sia subordinato all’acquisto dell’altro prodotto. 32 imprese, non essendo costituita da beni fisici oggetto di scambi negoziali, è rappresentata in primo luogo proprio dalle relazioni contrattuali con la clientela 25 . Pur non escludendosi che anche nei settori propriamente industriali le scelte contrattuali siano dotate di particolare valore strategico, si osserva infatti che è soprattutto nell’ambito bancario e creditizio, come pure in quello assicurativo, che la caratterizzazione delle condizioni generali di contratto viene a costituire per le imprese (almeno potenzialmente) la primaria fonte di differenziazione competitiva 26 . L’attenzione, a questo proposito, cade in primo luogo sulla clausola determinativa del prezzo, il quale, in linea generale, non si commisura più né in via esclusiva né prevalente al bene o al servizio rendendosi valutabile in quanto tale dai potenziali interessati, bensì alla specificità delle clausole contrattuali, per loro natura sottratte, soprattutto nella contrattazione di massa, alla piena conoscenza da parte dei soggetti acquirenti. In altri termini, il prezzo reale finisce per correlarsi sempre meno alla prestazione nella sua oggettività, legandosi sempre più al contenuto specifico e concreto del contratto, ossia a quel dato, per lo più invisibile ai terzi, costituito dal complessivo 25 Attenta analisi circa la natura illecita di intese stipulate tra istituti bancari e creditizi, volte alla fissazione di condizioni generali di contratto standardizzate, è svolta da A. M IRONE , Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, op. cit., il quale distingue rispettivamente tra standardizzazione delle clausole “salienti”, standardizzazione “unidimensionale”, abusiva e neutrale, differenziando le conseguenze, in termini di restrizione del grado di concorrenzialità del mercato, che l’imposizione delle medesime condizioni di volta in volta comporta. 26 Secondo G. FLORIDIA, Condizioni bancarie uniformi e tutela del risparmiatore, in A A.VV., La concorrenza bancaria, a cura di L.C. Ubertazzi, Milano, 1985, p. 184, “l’intermediazione finanziaria, in tutte le operazioni attive e passive nelle quali si concretizza, si sviluppa mediante un insieme di negoziazioni e di atti giuridici la cui qualità è rappresentata appunto dalla natura delle condizioni praticate. Sotto questo profilo risulta davvero inaccettabile trasferire nel settore bancario la giustificazione che gli apologeti della contrattazione standardizzata hanno addotto per esaltare gli effetti benefici non solo dal punto di vista della organizzazione aziendale bensì anche dal punto di vista esterno all’azienda della dinamica concorrenziale; costoro, come è noto, attribuiscono alla pratica delle condizioni generali che siano divenute uniformi in un intero settore il merito di creare trasparenza di mercato e quindi di favorire una scelta più consapevole dei consumatori, sul presupposto che questi, ormai liberati da ogni preoccupazione sulle condizioni alle quali è possibile effettuare l’acquisto, sarebbero meglio in grado di valutare le due componenti principali della selezione, è cioè la qualità del prodotto e del servizio”. Sull’equiparazione tra standardizzazione contrattuale e di prodotto, si veda A. MIRONE , op. cit., p. 124, il quale sottolinea che l’uniformazione dei prodotti “fisici” determina un risparmio nei costi di produzione in modo non dissimile da quanto accade con l’uniformazione vessatoria delle relazioni contrattuali, “attraverso la quale si esternalizzano i rischi - ed i conseguenti oneri economici - attinenti alle vicende patologiche (e non) del rapporto”. 33 “trattamento” giuridico dell’operazione economica che si rinviene appunto nelle clausole negoziali, nei formulari e nelle condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti. Il prezzo nominale, assunto isolatamente, cessa infatti di assolvere alla sua semplice e fisiologica funzione di informare adeguatamente e di orientare razionalmente le forze agenti sul mercato, non rappresentando necessariamente il bene o servizio più conveniente, posta la sua variabilità in dipendenza dello specifico “pacchetto” di regole pattizie destinate a disciplinare la relazione contrattuale 27 . E’ invece il contratto stesso, inteso come insieme di clausole e condizioni negoziali stabilite dal contraente più forte e non più semplice strumento di circolazione di beni preesistenti, a divenire “bene” a sua volta, singolo momento in cui quanto definito a monte collegialmente si attua individualmente nella realtà di mercato. Per questa ragione, l’eventualità di un abuso da parte dell’impresa non deve essere valutata avuto riguardo alla sola clausola di determinazione del corrispettivo, ma anche ed in special modo attraverso una valutazione complessiva dello statuto normativo del contratto, in cui surrettiziamente entra il contenuto dell’intesa. Per questo motivo, tra l’altro, da più parti è stata avanzata in passato la proposta di estendere, sull’esempio di altri ordinamenti giuridici, l’applicazione del diritto antitrust alle condizioni generali di contratto 28 e a svolgere un’analisi combinata come implicitamente disposto dalla norma dell’art. 2 citato - circa i relativi profili normativi ed economici. 27 Considerazioni di questo tipo si rinvengono, altresì, in G. VETTORI , Le asimmetrie informative…, cit., p. 242, il quale sottolinea, in particolare, che la mutata funzione del corrispettivo - non più indice di convergenza degli interessi e parametro di equilibrio delle posizioni negoziali delle parti costituisce un fattore di opacità ed una vera e propria barriera informativa sul mercato che limita la libertà di concorrenza e la libertà di contratto. Sul valore giuridico di queste libertà economiche, ID., Carta europea e diritto dei privati, in Persona e mercato, Padova, 2002, p. 51 ss. 28 Cfr. L.C. UBERTAZZI , Concorrenza e norme bancarie uniformi, op. cit., p. 104, il quale riteneva opportuno - prima dell’entrata in vigore della legge 6 febbraio 1996 n. 52 attuativa della direttiva 93/13/CE relativa alle clausole abusive nei contratti con i consumatori - seguire in materia di contratti standard gli esempi di ordinamenti giuridici “più evoluti” quale quello tedesco che, per controllare questi contratti, attivano contemporaneamente la normativa generale antitrust e la disciplina specifica in materia di condizioni generali di contratto. 34 Sebbene infatti la standardizzazione dei modelli contrattuali - diffusa non solo all’interno dell’attività della singola impresa, ma di interi settori economici e caratterizzante in generale l’attività negoziale delle moderne società capitalistiche in cui la produzione e distribuzione dei beni e servizi è fortemente massificata 29 - s i presti ad avvantaggiare il cliente- utente sia sul piano indiretto del minor prezzo d’offerta del bene 30 o servizio sia dal punto di vista informativo - rendendo più facilmente comprensibili e confrontabili le offerte sul mercato 31 - si ritiene opportuno sottoporre il fenomeno ad un controllo più esteso e pervasivo 32 . 29 La circostanza che l’analisi relativa alle conseguenze che il singolo contratto a valle debba essere svolta non isolatamente, ma tenendo ben presente che l’accordo si inserisce nel contesto complessivo della contrattazione bancaria uniforme, è sottolineato da F. PARRELLA, Disciplina antitrust nazionale e comunitaria, nullità sopravvenuta, nullità derivata e nullità virtuale delle clausole dei contratti bancari a valle, cit., p. 519, il quale, anche per questa ragione, critica la più volte menzionata sentenza del Tribunale di Alba, 12 gennaio 1995. 30 Come rileva N. SALANITRO, Disciplina antitrust e norme bancarie, cit., p. 419, nessuno nega che la predisposizione uniforme dei testi contrattuali presenti dei vantaggi che per i clienti possono essere anche di natura economica, nella misura in cui si riducono i costi della formazione dei contratti e la loro traslazione sugli stessi clienti. Tuttavia, perché la normativa antitrust non venga ad essere violata, è necessario che alla uniformizzazione di alcune clausole faccia da contrappeso, attraverso un esame dei comportamenti fattuali sul mercato, un effettivo grado di differenziazione dei prodotti offerti dalle singole imprese. Con riguardo al caso analizzato dall’Autore, in particolare, si rammenta che la Banca d’Italia, con provvedimento 3 dicembre 1994, n. 12, pur lasciando impregiudicata la questione della nullità o meno delle clausole dei contratti bancari riproduttive delle N.B.U. contrastanti con la normativa antitrust, aveva censurato, in quanto lesive del principio di libera concorrenza, quelle che: “a) stabiliscono le date di decorrenza della valuta e le cadenze di capitalizzazione degli interessi; b) regolano la compensazione volontaria a favore della banca; c) stabiliscono esoneri di responsabilità a favore della banca; d) stabiliscono termini di decadenza; e) fissano termini o modalità per l’esercizio di facoltà o per l’adempimento di obblighi; f) prevedono il rinnovo negoziale tacito alla scadenza; g) modificano (in senso sfavorevole al cliente) la disciplina stabilita dal codice civile relativamente alla restrizione dell’azione di regresso e all’opponibilità delle eccezioni da parte del fideiussore”. Sul tema si veda anche F. PARRELLA, op. ult. cit. 31 Si è infatti ritenuto a questo proposito che “un certo grado di uniformità dei contratti riguardanti prodotti bancari e finanziari può agevolare il confronto e quindi la scelta da parte della clientela delle prestazioni più convenienti” (lettera circolare della Banca d’Italia 21 marzo 1995). Ancor più esplicitamente nel provvedimento n. 12/1994, la Banca d’Italia ha ribadito che “tale uniformità è da valutare positivamente se favorisce il confronto e agevola il consumatore nella scelta dell’impresa che offre le condizioni economiche più vantaggiose. L’offerta di uno stesso prodotto o servizio bancario regolato da contratti tra loro ampiamente diversi per forma e struttura potrebbe infatti rendere più difficoltosa la loro valutazione sostanziale e quindi la scelta da parte della clientela delle prestazioni più convenienti”. Per questa ragione, sottolinea G. GALASSO , Contratti bancari uniformi e regole di concorrenza nei provvedimenti della Banca d’Italia, in Riv. dir. dell’impr., 1995, p. 567 ss., le condizioni uniformi hanno trovato la loro sede naturale nella sfera di quelle categorie di intese che possono, in presenza di determinate circostanze, beneficiare dell’esenzione ex art. 4 della legge antitrust. L’utilità delle condizioni generali di contratto, del resto, si coglie in ciò, che “l’aderente, il cliente, il consumatore, l’utente, è un soggetto inserito nella dinamica della velocità: svolge la sua vita in ambiti relazionali caratterizzati dalla rapidità del desiderio, della scelta, della decisione”, così F. DI M ARZIO, op. ult. cit., p. 727; “Egli è per definizione un uomo che ha fretta”, così G. GORLA, 35 I benefici che l’uniformazione del regolamento negoziale è in grado di apportare vengono infatti spesso compromessi dal suo sostanziale risolversi in un’imposizione unilaterale del contenuto contrattuale al cliente, per interessi di cui l’imprenditore è portatore non più solo o non tanto come singolo, ma come parte di un gruppo o dell’intera categoria cui volontariamente aderisce 33 . Nella misura in cui il contratto è sempre più standardizzato, predisposto e non negoziato, il dovere di correttezza si trasferisce quindi dal piano delle trattative ormai appiattite sulla scelta di un’impersonale adesione o rifiuto a quanto unilateralmente ed uniformemente stabilito - a quello del comportamento dell’impresa sul mercato 34 . La circostanza che la realtà degli scambi abbia visto mutare così profondamente non solo l’estensione delle relazioni ma, ancora prima, la stessa fisionomia dei soggetti interagenti sulla scena - non più confinati nell’imprenditore singolo, ma estesi alla potenza prevaricatrice delle multinazionali, delle associazioni di Condizioni generali di contratto e contratti conclusi mediante formulari nel diritto italiano, in Riv. Dir. Comm., 1964, I, p. 114. 32 In questo senso, S. FORTUNATO, I contratti bancari: dalla trasparenza delle condizioni contrattuali alla disciplina delle clausole abusive, in Dir. della banca e del mercato finanz., 1996, p. 14 ss. 33 Cfr. provv. AGCM: 2 luglio 1993, Ania, in Boll., n. 15-16/93; 27 settembre 2000, Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri, in Boll., n. 39/00; 29 luglio 2004, Anfima, in Boll., n. 27/04. La necessità di una valutazione in termini antitrust discende in particolare dal fatto che l’obiettivo della standardizzazione delle condizioni di contratto - che l’impresa persegue in risposta alle esigenze di semplificazione delle procedure di contrattazione relative alle operazioni bancarie di massa - è in realtà conseguibile autonomamente da ciascuna impresa. A rigore, infatti, non è necessario che le condizioni generali siano uniformi per tutte le imprese che operano in un determinato settore economico. Per questa ragione, rileva F. PARRELLA, op. ult. cit., p. 514, la Banca d’Italia da un lato ha vietato all’ABI di raccomandare tout court alle proprie associate l’adozione delle N.B.U., e d’altro canto ha disposto la soppressione di quelle N.B.U. che, concorrendo a definire l’oggetto del contratto e non essendo giustificate né da esigenze tecniche di funzionamento del servizio offerto né dall’economia complessiva del rapporto, devono essere rimesse all’autonoma determinazione di ciascuna banca con la propria clientela, sì da salvaguardare una concorrenza effettiva tra le imprese bancarie, destinata a ripercuotersi beneficamente anche sul piano dei rapporti contrattuali tra banca e cliente in termini di crescita del livello di correttezza delle banche già nella fase di determinazione del regolamento contrattuale. 34 In questo senso G. GUIZZI, Struttura concorrenziale del mercato e tutela dei consumatori. una relazione ancora da esplorare, cit., p. 482. “Tramontata è l’idea romantica di contratto”, “Lo scambio seriale dei beni testimonia la perdita irreversibile della negoziazione nell’esperienza quotidiana. L’impressione è che la contrattazione si sia dislocata prima e oltre il contratto”, così F. DE M ARZIO, op. ult. cit., p. 727. 36 categoria 35 e dei gruppi dall’identità transnazionale - richiede pertanto di riferire l’analisi ad un contesto più esteso e con lo sguardo rivolto all’intero mercato. Abbandonando la prospettiva del singolo contratto e procedendo ad una valutazione complessiva del fenomeno della contrattazione standardizzata, ci si avvede infatti che il singolo atto a valle posto in essere da ciascuna impresa collusa non è indifferente dal punto di vista antitrust, concorrendo anch’esso, insieme a tutti gli analoghi atti compiuti dalle altre imprese aderenti all’infrazione antimonopolistica, alla realizzazione cumulativa dell’effetto anticonconcorrenziale vietato. La verifica della validità o comunque dei riflessi che il regolamento pattizio a valle subisce deve allora essere compiuta in una prospettiva che, trascendendo il microcosmo del singolo contratto, ne valuti la liceità e la validità calandolo all’interno del fenomeno complessivo ed unitario della contrattazione uniforme. Esaminando il contratto impresa-cliente in un’ottica esclusivamente atomistica, infatti, si finirebbe erroneamente per affermare che: 1) il contratto, da solo, non ha ad oggetto né produce l’effetto di restringere in maniera consistente la concorrenza 35 A riguardo, P. FATTORI e M. TODINO , La disciplina della concorrenza in Italia, Bologna, 2004, p. 68, sottolineano che il ricorso alle associazioni di imprese per porre in essere un coordinamento illecito delle condotte commerciali è un fenomeno molto ricorrente, sia perché la concertazione, specie quando il numero di imprese coinvolte è elevato, può essere raggiunta più facilmente attraverso un organismo comune, sia perché l’azione in forma associata garantisce una sorta di “scudo” che consente alle singole imprese di attenuare la propria responsabilità diretta. Lo schermo istituzionale della associazione di categoria si presta quindi, attesa la sua naturale funzione meramente associativa, a dissimulare rapporti fra le imprese con finalità anticoncorrenziali. In sede nazionale, peraltro, nonostante le facilitazioni di ordine probatorio che l’Autorità incontra nell’accertare la restrittività di un atto anticoncorrenziale imputabile ad un organismo comune, problemi non secondari emergono dal punto di vista sanzionatorio. Le associazioni di imprese, infatti, non solo non generano un fatturato in senso tecnico su cui calcolare la sanzione ai sensi dell’art. 15, comma 1, della legge n. 287/90, ma generano di regola disponibilità finanziarie molto limitate e non è previsto che i singoli associati rispondano in solido con l’associazione per il pagamento. Per questo è accaduto che, al fine di garantire piena efficacia alle sanzioni irrogate, singole imprese affiliate siano state chiamate a rispondere delle condotte dell’associazione, o perché le condotte delle une e dell’altra non erano chiaramente distinguibili, oppure perché l’associazione non aveva svolto una funzione propulsiva rilevante (cfr. provv. AGCM, 9 ottobre 1997, Associazione Vendomusica/Case discografiche multinazionali e altri, in Boll., n. 49/97). Al contrario, l’infrazione è imputata solo all’associazione ove essa svolga un ruolo attivo ed indipendente tale da impedire alle singole associate di adottare comportamenti autonomi (cfr. provv. AGCM, 3 febbraio 2000, Inaz Paghe/Associazione nazionale consulenti del lavoro, in Boll., n. 5/00). 37 fra le imprese colluse su un dato mercato 36 ; b) l’impresa non detiene singolarmente, su tale mercato né su una parte rilevante di esso, una posizione di dominanza di cui poter abusare. Diversamente, inserendo l’analisi in un contesto più ampio, si assume la giusta prospettiva alla cui stregua valutare se, con riguardo ai primi, sia effettivamente possibile ragionare in termini di nullità in via derivata o per vizio autonomo, oppure escludere radicalmente l’ipotesi invalidativa ricercando conseguenze in termini rimediali di altra natura. Da queste considerazioni pare inoltre chiaro che l’argomento che ci occupa richiama inevitabilmente la più ampia tematica del rapporto tra mercato e diritto, tra regole dello scambio e disciplina generale del contratto che, non più concepibili come in passato in termini di alternatività esclusiva, impongono una riflessione ed un esame congiunto dei fenomeni collusivi anticoncorrenziali i quali, come chiarito, pur assumendo rilievo immediato sotto un profilo di disciplina del mercato, 36 In termini di diritto antitrust, deve ricordarsi che la valutazione di anticoncorrenzialità di un singolo patto, di natura negoziale o semplicemente comportamentale, discende da una considerazione estesa al contesto ambientale in cui esso si colloca. La circostanza che un singolo atto appaia di per sé innocuo, non esclude infatti il sindacato dell’Autorità garante ove esso concorra con altri atti della stessa natura a determinare il c.d. “effetto di blocco”. A titolo di esempio, si citi la recente sentenza del Tar del Lazio n. 8368 del 3 settembre 2004, in cui il Collegio afferma in primo luogo, con riguardo ai tariffari relativi all’attività di amministratore di condominio, che “ciascun tariffario costituisce singolarmente un’intesa che restringe in maniera consistente la concorrenza sul mercato tenuto conto che i geometri iscritti all’albo e le associazioni di categoria coprono una parte considerevole del mercato”. A ciò il Collegio aggiunge inoltre che “l’adozione di tariffari riguardanti il prezzo del servizio da parte di associazioni che riuniscono una larga parte degli operatori del settore dà luogo ad intese che restringono in modo consistente la concorrenza, in quanto ciascun singolo tariffario, indipendentemente dal numero degli operatori che interessa, concorre a determinare un effetto complessivo e cumulativo di limitazione del comportamento degli amministratori condominiali professionisti nella fissazione dei prezzi nei vari ambiti locali nei quali operano gli aderenti alle associazioni”. La legittimità del provvedimento antitrust viene quindi riconosciuta alla stregua del fatto che esso “non sanziona una unica intesa restrittiva della concorrenza tra i singoli soggetti collettivi coinvolti nel procedimento, ma piuttosto considera come singole intese restrittive i comportamenti di ciascuno di tali soggetti, in quanto preordinati alla fissazione degli onorari minimi per le prestazioni degli associati con effetto di comprimere su uno dei più qualificanti elementi dell’attività svolta”. In senso conforme anche i provv. AGCM: 2 luglio 1993, Ania, cit.; 14 dicembre 1994, Tariffe amministratori di condomini, in Boll., n. 50/94; 27 marzo 1997, Associazione italiana editori, in Boll., n. 13/97; 9 ottobre 1997, Associazione Vendomusica/Case discografiche multinazionali-Federazione industriale musicale italiana, cit.; 3 febbraio 2000, Inaz Paghe/Associazione nazionale consulenti del lavoro, cit. 38 involgono altresì i singoli regolamenti negoziali che da quelle stesse intese scaturiscono in via più o meno diretta 37 . Come appare di immediato rilievo, infatti, il problema delle connessioni e dei condizionamenti reciproci tra disciplina del contratto e violazione delle norme di regolazione del mercato, lungi dall’esaurirsi in una questione di collocazione sistematica dell’argomento oggetto di indagine nell’ambito delle categorie codicistiche della tradizione, si presenta decisamente più ampio, involgendo profili di intersezione e di ineliminabile commistione tra realizzazione di interessi pubblici e protezione di interessi particolari, richiedendo di verificare con quali modalità ed in quale misura la violazione dei principi di comportamento tesi ad informare l’economia di mercato può condizionare il libero esplicarsi dell’autonomia negoziale dei soggetti operanti in tale contesto, intaccando la validità degli atti in cui tale autonomia si manifesta. Alla luce dei recenti mutamenti di derivazione comunitaria, infatti, si potrebbe affermare, formulando il giudizio in termini non perentori, che la delimitazione della sfera di autonomia riconosciuta ai privati dalla norma dell’art. 41 Cost. è la risposta ad una esigenza di strutturazione del mercato, in tal modo rimandando alla istanza di definizione, nei suoi lineamenti essenziali, della cornice giuridica entro cui è consentito alle relazioni tra privati di dispiegarsi liberamente. Difatti, il mondo reale degli scambi difficilmente ed assai raramente vede il concorso di tutte quelle cond izioni che, secondo il paradigma teorico, assicurano il dispiegarsi della concorrenza e, dunque, il raggiungimento di quell’equilibrio cui si lega il miglior soddisfacimento degli interessi in campo, in particolare dei consumatori, quali acquirenti finali dei prodotti e dei servizi offerti. In altre parole, nel mondo reale, sono molteplici i fattori che possono condurre al fallimento del mercato, tra cui primeggia soprattutto la crescente asimmetria di 37 L’ostacolo principale consiste quindi, in primo luogo, nello stabilire, con riferimento ad un determinato momento storico, quale sia il limite entro cui l’intervento legislativo è legittimato ad incidere sugli atti negoziali attraverso i quali le parti regolamentano liberamente i propri interessi: “Il problema dell’autonomia privata finisce infatti per confondersi, al livello del diritto privato, con il più generale problema dei rapporti tra stato e cittadini, della dialettica autorità-libertà: esso è, in sostanza, 39 potere economico e negoziale tra i soggetti che operano, rispettivamente, in veste di venditori ovvero di acquirenti. A fronte di questa realtà effettuale, così distante dal modello ispirato al mercato concorrenziale, nelle varie esperienze giuridiche è emerso da tempo il problema della salvaguardia dell’equilibrio contrattuale, della “giustezza” del contenuto negoziale in termini di giustizia sostanziale. A ben vedere, a questa specifica problematica hanno inteso fornire una prima risposta di ordine generale gli importanti strumenti di intervento già ricompresi nella nostra disciplina codicistica in materia di contratti, tra cui, in primo luogo, la clausola generale di buona fede. Tali strumenti correttivi, tuttavia, sono stati chiamati ad intervenire contemporaneamente su due fronti sensibilmente diversi tra loro. Da una parte, infatti, gli strumenti codicistici della tradizione sono stati impiegati sul versante rappresentato dalle carenze che impediscono al mercato di funzionare con efficienza e che pregiudicano il conseguimento di un risultato equilibrato all’interno di contratti che altrimenti sarebbero “completi”, con tale termine indicandosi i contratti che normalmente si inseriscono nel mercato ed in cui ciascuno dei contraenti orienta le proprie scelte sulla base di dati esterni assunti oggettivamente. I medesimi strumenti correttivi presenti nel codice sono stati però impiegati anche con riguardo a contratti inseriti in un ambiente in cui il mercato invece è già decisamente compromesso, a fronte di accordi negoziali scientemente impiegati in alternativa al mercato 38 ed in cui le scelte effettuate da ciascun contraente sono direttamente condizionate dalle azioni delle controparti in interazioni strategiche. un problema sociale e politico, più ancora che giuridico”, in questi termini F. GAZZONI, Equità e autonomia privata, 1970, p. 188. 38 La stipulazione di intese anticoncorrenziali, come mette in luce N. IRTI, La concorrenza come statuto normativo, in La concorrenza tra economia e diritto, op. cit., p. 60, escludendo di per sé la possibilità ed i connessi rischi della lotta fra competitori - che costituisce “l’essenza propria del metodo competitivo”- altera altresì il meccanismo di scelta attraverso cui i destinatari del leale competere esprimono la loro preferenza in merito all’offerta maggiormente rispondente alle proprie esigenze. Pertanto, impedendo il leale confronto tra gli imprenditori operanti in un determinato mercato, l’intesa illecita distorce il criterio selettivo che, attraverso la scelta dei soggetti cui si indirizzano le proposte concorrenti, premia le imprese più meritevoli, garantendone la persistenza o l’ingresso al mercato. 40 La differenza tra le due categorie di contratti permette quindi di cogliere con maggiore chiarezza la progressiva inadeguatezza dello strumentario contenuto nella nostra codificazione destinato a correggere gli squilibri contrattuali. Infatti, anche a voler ammettere che tali strumenti siano efficienti ed adeguati nella correzione degli squilibri legati alla presenza di disparità di potere negoziale tra le parti della singola contrattazione, devesi poi riconoscere come l’equilibrio ristabilito sia comunque destinato a rimanere circoscritto alla singola operazione contrattuale. Ma la correzione del singolo specifico contratto costituisce una risposta debole ed inadeguata là dove lo squilibrio da combattere è dovuto ad un fenomeno come le intese anticoncorrenziali, i cui effetti negativi si traducono in un mancato funzionamento del gioco concorrenziale che poi si riflette in termini negativi sull’intero sistema. Gli strumenti offerti dal nostro codice civile, pensati per una realtà degli scambi ben diversa e lontana dalla attuale 39 , possono quindi continuare ad intervenire in misura episodica su ipotesi in cui il contratto rivela una patologia sociale, non anche in relazioni negoziali standardizzate fisiologicamente caratterizzate da una disparità sostanziale tra le parti. Perché si possa garantire l’effettività della competizione nei vari mercati è quindi necessario che tale libertà negoziale venga contenuta entro gli argini della legalità, 39 Come ricorda N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, op. cit., p. 106-107, “il linguaggio legislativo evoca, non gli scambi anonimi del mercato, ma la relazione negoziale tra soggetti determinati, l’uno dei quali cade in errore o subisce violenza o inganno. Si tratta ormai di sciogliersi da questa logica (che sarà pur sempre efficace nei negozi individuali e solitari, dove conserva rilievo l’identità delle parti), e di elaborare una tutela del consenso negli scambi del mercato”. Particolarmente significative, sul punto in esame, le parole di F. DI M ARZIO, op. ult. cit., p. 725, secondo il quale “La vicenda prima legislativa poi dottrinale e giurisprudenziale dei contratti seriali evidenzia da sessant’anni l’estrema difficoltà e infine l’incapacità del politico e del tecnico di restituire credibilità e legittimazione al contratto come meccanismo di uno scambio economico basato sulla libertà di autodeterminazione. L’intangibilità del contratto e la sua preservazione dall’intervento del pubblico potere hanno favorito l’attuazione della sperata libertà di autodeterminazione. L’intangibilità del contratto e la sua preservazione dall’intervento del pubblico potere hanno favorito l’attuazione della sperata libertà di tutti in prepotenza di alcuni e soggezione di altri. Hanno inoltre determinato la divaricazione tra governo del mercato e governo degli atti di autonomia privata”. 41 ben potendo al contrario essere esercitata in senso anticoncorrenziale, ossia nella direzione di frenare o eliminare la concorrenza 40 . Al profilo più propriamente repressivo deve però aggiungersi anche un intervento di natura propulsiva, atteso che il semplice riconoscimento (o ripristino) dei principi di libertà contrattuale non garantisce, di per sé, la fioritura di quelle iniziative che sono auspicabili perché possa dirsi operante un principio di concorrenza effettiva41 . Aderendo a quanto sapientemente osservato da autorevole dottrina, può infatti concludersi che nel nostro ordinamento il “bene giuridico” concorrenza assume rilievo in una triplice veste, ovvero come libertà di concorrenza, come tutela della concorrenza e come promozione della concorrenza 42 , profili questi che, seppure distinti, si integrano e completano a vicenda. 40 Come evidenzia M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, in Riv. dir. comm., 2002, I, p. 433 ss., si può riconoscere facilmente che fra libertà contrattuale e libertà di iniziativa economica (e quindi di fare concorrenza), da un lato, e concorrenza effettiva, dall’altro, non vi è corrispondenza biunivoca, dovendosi altresì distinguere tra libertà di concorrenza e tutela della concorrenza. In questo senso, può affermarsi che “dove c’è la concorrenza c’è il mercato, ma non viceversa, e che il mercato è propedeutico alla concorrenza”, così F. GOBBO, Il mercato e la tutela della concorrenza, op. cit., p. 13. 41 Come osserva M. LIBERTINI , op. ult. cit., p. 434, infatti, l’insufficienza del semplice riconoscimento della libertà di iniziativa economica all’instaurazione di un mercato effettivamente concorrenziale, può essere confermata dall’abolizione dei vecchi monopoli legali che, lontana dall’aver garantito una situazione di libera competizione, ha quasi sempre richiesto l’avvio di un’attività amministrativa di promozione della concorrenza, ovvero di una regolazione tendenzialmente provvisoria ed “asimmetrica” - caratterizzata da obblighi specifici a carico dei soli e x-monopolisti - in funzione pro-concorrenziale. 42 Si rileva, che il profilo della promozione della concorrenza è espressamente riconosciuto ed elevato a principio generale dalla legge 14 novembre 1995, n. 481 (“Norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Istituzione delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità”, pubblicata in G.U. 18 novembre 1995, n. 270), la quale sancisce che “le disposizioni della presente legge hanno la finalità di garantire la promozione della concorrenza e dell’efficienza nel settore dei servizi di pubblica utilità (…), promovendo la tutela degli interessi di utenti e consumatori, tenuto conto della normativa comunitaria in materia e degli indirizzi di politica generale formulati dal Governo. Il sistema tariffario deve altresì armonizzare gli obiettivi economico-finanziari dei soggetti esercenti il servizio con gli obiettivi generali di carattere sociale, di tutela ambientale e di uso efficiente delle risorse”(art. 1, comma 1); “le disposizioni del presente articolo costituiscono principi generali cui si ispira la normativa relativa alle Autorità” (art. 2, comma 2). In questa direzione, si veda I. M USU , Il valore della concorrenza nella teoria economica, in La concorrenza tra economia e diritto, cit., p. 5, secondo il quale “la concorrenza non va solo promossa e tutelata con regole, ossia con leggi e regolamenti amministrativi, ma con politiche, ossia con la creazione di un ambiente favorevole. Regole e politiche sono entrambe necessarie per promuovere la concorrenza”. 42 Perché sia garantita la competizione effettiva tra le imprese operanti sul mercato, difatti, non è sufficiente la semplice libertà di iniziativa economica e di concorrenza, occorrendo a tal fine una politica attiva di sostegno della dinamica concorrenziale 43 . Quest’ultima, in effetti, può valersi sia di strumenti incentivanti - quali sovvenzioni e regola zioni amministrative proconcorrenziali - che di strumenti repressivi - quali norme e sanzioni antitrust 44 . L’idea di base è quindi che la concorrenza debba essere valutata come processo, ossia come insieme di regole di comportamento che regolano dall’esterno le condizioni della interazione tra chi opera nell’economia, piuttosto che per i risultati di tale rapporto. Ciò, del resto, è certamente in armonia con l’esigenza che la concorrenza diventi un vero e proprio valore che, assorbito ed abbracciato dalla cultura di una società, possa tradursi in leggi, regolamenti ed istituzioni efficaci45 . 43 Questo legame è ravvisato da N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, cit., pp. 99-100, il quale afferma che “la libertà di iniziativa economica non è soltanto libertà di promuovere o non promuovere un’attività industriale o commerciale o finanziaria, ma anche libertà di accesso, libertà di entrare in un certo campo di affari e di competere con altri. Di qui la connessione, insieme storica e logica, tra libertà di iniziativa economica e disciplina della concorrenza ”. Così pure F. M ESSINEO, Il contratto in genere, in Trattato di dir. civ. e comm., diretto da A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1973, p. 42 s., secondo il quale “la libertà (o autonomia) contrattuale (o, in più larga accezione, negoziale) dipende concettualmente (e ne è la principale articolazione) dalla cosiddetta autonomia privata (che, a sua volta, è il riflesso della libertà economica)”. 44 La rilevanza costituzionale del principio concorrenziale è peraltro confermata dalla sua stessa collocazione accanto alle altre materie attribuite alla competenza esclusiva dello Stato in materia di politica economica (moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari, sistema valutario e contabile, perequazione delle risorse finanziarie) elencate all’interno del medesimo art. 117, comma 2, lett. e), della Costituzione. In altre parole, la contestuale collocazione nel medesimo precetto costituzionale di alcune parole-chiave dell’economia (moneta, tutela della concorrenza, tutela del risparmio e mercati finanziari), suggeriscono di qualificare la tutela della concorrenza come una delle leve della politica economica statale: in quanto strumento di politica economica, la tutela della concorrenza non può quindi essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali. In un contesto di ripartizione in senso federalistico della competenza, rispettivamente, dello Stato e delle Regioni, gli interventi dell’autorità nazionale a tutela e promozione della concorrenza sono dunque legittimi nella misura in cui perseguono finalità che attengono allo sviluppo dell’intero paese. L’intervento statale, in altri termini, si giustifica per la sua rilevanza macroeconomica: appartengono invece alla competenza legislativa concorrente e residuale delle regioni gli interventi incentrati sulla realtà produttiva locale. 45 I. M USU, Il valore della concorrenza nella teoria economica, cit., p. 26, ritiene infatti che “la concorrenza è un valore strumentale all’affermazione di altri valori fondamentali quali l’incentivo all’innovazione, la responsabilità, la lealtà verso i contraenti, l’esercizio del diritto di iniziativa economica, che sono valori essenziali non meno importanti dell’altruismo e della solidarietà per dare alla persona opportunità e dignità nel suo vivere sociale”. 43 La stretta interrelazione sussistente tra disciplina giuridica del mercato e teoria generale del contratto - che verrà in luce dall’indagine - presuppone quindi una riflessione complessiva intorno alle categorie concettuali della tradizione civilistica, al fine di chiarire quali ripercussioni il riconoscimento di una sempre più penetrante ed incisiva tutela dei valori propri dell’economia di mercato esplichi sugli atti in cui l’autonomia privata si esprime e concretizza 46 . 3. Contratti dei consumatori e contratti d’impresa: la disciplina della contrattazione diseguale quale sottosistema della disciplina della concorrenza e del mercato La penetrazione di istanze di giustizia contrattuale nel diritto del mercato, trova significative conferme nella vasta normativa di derivazione comunitaria a tutela del consumatore, normativa che ha ormai la consistenza di un vero e proprio corpus complesso ed articolato e che ha segnato in senso fortemente innovativo l’evoluzione del diritto contrattuale 47 . 46 Sul nesso tra contratto e mercato, si rinvia, tra i numerosi contributi, a N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 41 ss.; G. OPPO, Impresa e mercato, in Riv. dir. civ., 2001, I, p. 423; P. PERLINGIERI , Nuovi profili del contratto, in Riv. crit. dir. priv., 2001, p. 225; A. GENTILI, I principi del diritto contrattuale europeo: verso una nuova nozione di contratto?, in Riv. dir. priv., 2001, p. 25; N. LIPARI , Diritto e mercato della concorrenza, in Riv. dir. comm., 2000, I, p. 315; U. M ATTEI , Il nuovo diritto europeo dei contratti, tra efficienza ed eguaglianza. Regole dispositive, inderogabili e coercitive, in Riv. crit. dir. priv., 1999, p. 611; G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., p. 67. 47 In questa direzione si muove, innanzitutto, la disciplina in materia di clausole vessatorie di cui agli artt. 1469-bis ss. cod. civ., la quale dirige verso i contratti conclusi tra professionista e consumatore connotati da un significativo squilibrio normativo, il rimedio dell’inefficacia. Simile considerazione ha determinato in parte della dottrina - si veda, ad esempio, V. ZENO-ZENCOVICH, Diritto europeo dei contratti (verso la distinzione tra “contratti commerciali” e “contratti dei consumatori”), cit., il convincimento che vi sia ormai spazio sufficiente per accreditare - ad onta dell’unificazione della disciplina contrattuale avutasi nel 1942 a seguito dell’assorbimento del codice di commercio in quello civile - la distinzione tra “contratti commerciali” e “contratti dei consumatori”: “il processo che si è avviato (…) è quello della creazione di regole distinte a seconda che una delle parti sia o non sia un consumatore. E’ dunque la qualità del soggetto (o, se si vuole, il suo status) a determinare la norma applicabile ai rapporti negoziali”. Coglie la portata innovativa della novella al codice civile anche N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 1998, p. 100, rilevando che “gli artt. 1469bis/1469-sexies non si lasceranno ridurre docilmente a diritto eccezionale (…). E’ piuttosto da credere che da questo corpo estraneo partiranno impuls i di carattere sistematico, dapprima incerti, poi ambiziosi e prepotenti, per i quali uscirà ridisegnata l’intera disciplina dei contratti”. 44 La fitta normativa a tutela del consumatore ha infatti introdotto nel quadro della disciplina comune, elementi di forte dissonanza, moltiplicandosi regole e rimedi che mirano a garantire imperativamente un certo equilibrio del contratto 48 e che, inizialmente circoscritte al solo ambito definito dai contratti dei consumatori, mostra una forza espansiva tale da aver indotto la dottrina più accorta ad attribuire a questo nuovo modello contrattuale la consistenza di un “nuovo paradigma”49 . 48 Significativo impulso all’evoluzione normativa in questa direzione è stato fornito, in primo luogo, dalla Costituzione, consacrando i valori di uguaglianza e solidarietà ed ancorando all’utilità sociale prerogative legate ad istanze individuali quali l’iniziativa economica privata e la proprietà. A questo riguardo, la Corte Costituzionale, con sentenza del 23 aprile 1965, n. 30, in Giur. civ., 1965, p. 300, ha espressamente riconosciuto il “principio della doverosa tutela delle posizioni economiche più deboli” - espresso in “svariate norme costituzionali” - che deve indurre a “ritenere che ogni legge intesa a realizzare questa soddisfi un interesse che la stessa Carta costituzionale considera attinente all’ordinata vita della collettività e, quindi, di carattere generale”. 49 Come evidenziato da F.D. BUSNELLI, Note in tema di buona fede ed equità, in Riv. dir. priv., 2001, I, p. 552, infatti, la recente legislazione mostra un comune impegno nella protezione dei “contraenti deboli” dalla possibile iniquità dei rapporti negoziali ed il controllo di equità consiste in una valutazione della eventuale abusività della condotta del “contraente forte” espletata alla stregua della regola della buona fede. Di condizioni di cui sia accertata l’abusività parla l’art. 1469-sexies cod. civ.; secondo l’art. 9 della legge n. 192/1998 in materia di subfornitura industriale “l’abuso può consistere…nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie”; commette delitto di usura, ai sensi dell’art. 644, comma 1, cod. pen., chi esige interessi “sproporzionati” dal contraente che “si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria” (art. 1, comma 1, legge n. 108/1996). “Il giudizio di buona fede” - osserva C. CASTRONOVO , L’avventura delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, p. 29 - è “indicativo di un intervento anche incisivo sul contratto, intervento che, pur condotto da un potere alieno alle parti, tuttavia non è autoritario perché si limita a filtrare valori sociali entro la forma giuridica”. A riguardo, si veda anche M. NUZZO , I contratti del consumatore tra legislazione speciale e disciplina generale del contratto, in Rass. dir. civ., n. 2/1998, p. 308 ss., ove l’Autore ricorda che già agli inizi degli anni Settanta, dunque ancor prima della elaborazione della vasta normativa in materia di consumer protection, era cominciata in dottrina una riflessione sulle ipotesi nelle quali l’ordinamento interviene a riequilibrare la disuguaglianza delle posizioni dei contraenti al momento della conclusione del contratto. Ciò, in particolare, attraverso tecniche volte all’eliminazione della clausola pregiudizievole e conservando per il resto il contratto, integrato - nelle ipotesi riconducibili alla clausola generale dell’art. 1339 cod. civ. -, con le norme imperative contrastanti con la clausola incriminata, ovvero con le norme dispositive applicabili in presenza di lacune del regolamento negoziale. Il tentativo, aggiunge l’Autore, ha avuto il suo più significativo sviluppo con riferimento ai contratti di massa, il cui diffondersi, indotto dalla crescente presenza di fenomeni di aggregazione e di razionalizzazione dell’attività produttiva e del mercato, si risolve nell’offerta di condizioni generali uniformi da parte di tutti gli operatori di un dato settore economico e nel conseguente indebolimento della posizione dell’aderente, il quale si trova spesso nell’alternativa tra subire il regolamento predisposto dalla controparte o rinunciare all’utilizzazione del bene o servizio. La reazione della dottrina italiana, sulla scia delle elaborazioni della dottrina tedesca, fu inizialmente nel senso di avvalorare, tra i criteri utilizzabili per una correzione giudiziale del regolamento contrattuale, quello volto ad escludere da quest’ultimo le clausole contrastanti con il principio di buona fede (così, ad esempio, M. COSTANTINO , Regole di gioco e tutela del più debole nell’applicazione del programma contrattuale, in Riv. dir. civ., 1972, p. 97 e A. DI M AJO, Il controllo giudiziale delle condizioni generali di contratto, in Riv. dir. comm., 1970, p. 192 ss.). Successivamente, si preferì assumere a 45 La tendenza dell’equilibrio negoziale ad assumere i contorni di un vero e proprio principio generale è difatti riconducibile alle stesse caratteristiche che l’attività di impresa - sviluppata attorno alla figura della multinazionale - presenta nella odierna realtà degli scambi. Come già evidenziato nel par. 2, infatti, l’attuale controparte del fruitore del bene o servizio offerto - inizialmente coincidente con la sola figura del consumatore quale soggetto debole sul quale si era principalmente appuntata l’attenzione del legislatore - è l’impresa che, lungi dal presentarsi sul mercato uti singula, mutua ed amplifica il proprio potere contrattuale dalla categoria di appartenenza. Nel mercato, si sottolinea, in misura crescente “rileva la forza contrattuale della categoria di appartenenza, determinatrice di comportamenti monolitici ed impermeabili ad ogni intervento esterno di singoli privati, consumatori e non”50 . parametro di giudizio i principi ordinanti del sistema riassunti nel concetto di ordine pubblico, tramite il quale, riconosciuta l’immediata efficacia precettiva dell’art. 41, comma 2, Cost., si riconosceva al giudice ordinario il potere di dichiarare la nullità delle clausole vessatorie. Valutato il rischio che la dichiarazione di nullità della singola clausola si ripercuotesse, ex art. 1419, comma 1, cod. civ. sulla validità dell’intero contratto, si preferì dunque affermare che per stabilire se il contratto, pur strutturalmente perfetto, persegue interessi meritevoli di tutela, è necessario accertare se l’interesse soddisfatto è compatibile con la tutela degli altri interessi la cui realizzazione è assunta dall’ordinamento quale proprio obiettivo. E’ in particolare in quegli anni che il dibattito della dottrina comincia ad interessarsi del tema della nullità parziale e dei suoi limiti di applicabilità in relazione alla natura dell’interesse protetto e sulla nullità relativa quale riflesso della necessità di una tutela differenziata dei contraenti appartenenti a differenti categorie economico-sociali. A questo proposito si vedano P. BARCELLONA, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969, pp. 17 ss., 21 ss., 224 ss.; G. PASSAGNOLI, Nullità speciali, op. cit., pp. 61 ss. e 176 ss. 50 Le parole riportate sono di F. BOCCHINI, Nozione di consumatore e modelli economici, cit., pp. 4142, il quale evidenzia come la tutela del fruitore di prodotti dell’impresa è generalizzata, e perciò non condizionata dal ricorrere della qualifica di consumatore, allorché sia rivolta, in particolare, al soddisfacimento di esigenze legate alla: 1) protezione di situazioni esistenziali della persona umana; 2) garanzia di trasparenza del mercato; 3) tutela verso imprese che si avvalgono della forza economica della categoria professionale di appartenenza”. In quest’ultima direzione, il soggetto che accede ai prodotti di una di queste imprese è tutelato nella mera dimensione oggettiva di fruitore degli stessi, quale mero “cliente” di un istituto bancario (art. 116 del D. lgs. n. 385/1993) o nell’acquisto di prodotti finanziari (art. 23 D. lgs. n. 58/1998); come “contraente” nei contratti di assicurazione sulla vita (art. 109 D. lgs. n. 17/1995), quale “acquirente” di pacchetti turistici (art. 5 D. lgs. n. 111/1995). La tutela accordata al fruitore dei prodotti dell’impresa, aggiunge l’Autore, si giustifica dunque con la valutazione operata dalla legge di una sua istituzionale debolezza rispetto ai ceti bancario, finanziario e assicurativo, cioè ai poteri forti dell’economia capitalistica. La forza si esprime, quindi, in una standardizzazione di moduli e formulari “di secondo grado”, ovvero di categoria, che la singola impresa si limita ad utilizzare. Pertanto, quello che si impone è di garantire adeguata e generalizzata tutela ai fruitori (consumatori ed imprenditori) contro un potere economico in grado di conformare e dunque di orientare - e, aggiungerei, distorcere - il mercato. 46 Non più radicata in un connotato sociale, la normativa di protezione si presta quindi ad essere applicata a tutti gli operatori che, nelle articolazioni del mercato e dunque nello svolgimento di relazioni negoziali, rivestono la medesima posizione asimmetrica rispetto alla grande impresa, soprattutto ove quest’ultima si affacci al mercato in vesti più o meno apertamente collusive 51 . Il dato unificante dei contratti la cui disciplina si inserisce a pieno titolo nell’alveo di questo nuovo “paradigma” contrattuale, non si identifica dunque più, riduttivamente, in una rigida categorizzazione socio-economica delle parti contraenti: l’elemento comune va invece ricercato in un elemento più generale, rappresentato da ciò che una volta si sarebbe definito come “debolezza” e che ormai diffusamente si indica quale “asimmetria di potere contrattuale”. Il predominio dell’attività economica dell’impresa predisponente e la circostanza che l’atto di scambio si inserisca in una trama di relazioni economiche che lo sottendono ed indirizzano - così accentuando in maniera esponenziale la posizione di debolezza in cui si situa la controparte - sollecita la riconduzione della generale problematica dell’equilibrio sostanziale tra le parti all’interno della più vasta articolazione del mercato. Come osserva un’autorevole dottrina, “l’equità del contratto è la sua aderenza al mercato, la giustizia contrattuale è la sua adeguatezza al mercato, le prestazioni sono proporzionate se la loro misura riflette il mercato. Non può avvenire che uno scambio sia giusto perché contraddice al mercato, o ingiusto perché collegato al mercato. Perché il contratto si adegui al mercato, bisogna d’altronde che il mercato esista e funzioni. La lotta per la giustizia contrattuale è la lotta per il funzionamento del mercato. E’ la lotta per la concorrenza (…). Lottare per la giustizia contrattuale significa lottare per il mercato, cioè per la concorrenza e poi lottare contro le 51 La qualifica di “consumatore”, infatti, si allarga a quella di “cliente” o “contraente” soprattutto nei settori a forte concentrazione economica, ove il grande capitale riesce a gestire ed indirizzare modelli e comportamenti giuridici uniformi, escludendo ab origine la possibilità di una qualunque individualizzante interazione con i fruitori dei relativi prodotti. In questi comparti, proprio in ragione dei modelli economici sussistenti, è quindi necessario assicurare protezione alla totalità dei fruitori dei singoli prodotti. Quanto più marcato è il grado di concentrazione del capitale, e dunque l’uniformità del mercato del prodotto e dei relativi modelli contrattuali, tanto più la legge dilata la 47 circostanze che possono menomare, nell’operatore, la sua capacità di accedere al mercato (…)”52 . Proprio nel mercato, infatti, l’esperienza evidenzia che la progressiva dilatazione delle imprese di produzione e distribuzione - in primo luogo attraverso la stipulazione di intese e cartelli, oppure mediante operazioni concentrative - ne potenzia l’influenza, generando la formazione di imprese satelliti o collegate, che operano secondo pratiche commerciali e negoziali definite preliminarmente dalle imprese capogruppo e da queste imposte. Lo stesso evolvere ed articolarsi dei rapporti di mercato - con l’emergere, da un lato, di una intermediazione sempre più accentuata e diffusa nella collocazione dei prodotti e, dall’altro, con il crescere della forza del capitale commerciale su quello industriale attraverso la distribuzione di massa - finisce dunque per riproporre anche con riguardo ai soggetti professionisti i medesimi problemi di tutela che avevano fatto da sfondo alla vasta normativa in materia di consumer protection 53 . In tal modo, la sensibilità emersa in funzione di soggetti considerati istituzionalmente deboli quali i consumatori - il cui status era considerato dalla legge quale sintomo qualificato di uno squilibrio contrattuale -, tende progressivamente ad estendersi in favore di quanti si presentino deboli nei rapporti di mercato 54 . fascia dei soggetti protetti che entrano in contatto con l’impresa, indipendentemente dalla possibilità di ricondurli alla nozione di “consumatore”. 52 Così R. SACCO - G. DE NOVA , Il contratto, Torino, 2004, terza ed., p. 26. 53 A questo riguardo, G. BERTOLO, Status di consumatore, libertà d’impresa e tutela del contraente aderente, in Giur. it., n. 1/2003, p. 207, nell’interrogarsi in merito alla estensibilità della nozione di consumatore e dunque della disciplina dettata dagli artt. 1469-bis ss. cod. civ. anche ad imprenditori e professionisti, evidenzia, confermando le affermazioni di V. BUONOCORE , Contrattazione d’impresa e nuove categorie contrattuali, Milano, 2000, p. 40, che nella contrattazione per adesione, in cui si sostanzia gran parte della odierna attività negoziale privata, non intercorre alcuna differenza tra l’iter formativo del vincolo contrattuale tra imprenditore-predisponente e consumatore-aderente e quello in cui le parti siano imprese. In entrambe le ipotesi, afferma l’Autore, i presupposti sono i medesimi: predisposizione unilaterale del regolamento contrattuale da parte dell’imprenditore ed adesione incondizionata della controparte. 54 Il dato è confermato, tra l’altro, dalla circostanza che, ad esempio, l’applicabilità della disciplina in materia di contratti del consumatore di cui agli artt. 1469-bis ss. del cod. civ. sia stata riconosciuta anche con riguardo alle persone giuridiche e agli enti in generale. In via esemplificativa si veda, in altro ambito, l’ordinanza 24 luglio 2001, n. 10086, con cui la Corte di Cassazione ha ritenuto che la disciplina fosse applicabile al contratto concluso dall’amministratore del condominio - ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti - con il 48 Le nuove discipline, infatti, presentano un’area di incidenza tendenzialmente molto più estesa che in passato, non delimitata in senso merceologico 55 . Superata la nota obiezione che limita la possibilità di un sindacato debole 56 sul contenuto del contratto - limitato al solo profilo normativo, intangibile restando l’assetto economico delle prestazioni definito liberamente dalle parti - si deve prendere dunque atto della generalizzata tendenza ad estendere il controllo giudiziale anche a profili di questo secondo tipo, per quanto inseriti in contratti conclusi in condizioni di fisiologica asimmetria. L’obiettivo del legislatore è, infatti, in via gene rale quello di scongiurare, o quanto meno di arginare, il prepotere della parte economicamente e contrattualmente forte e di assicurare adeguata protezione all’altra, debole 57 . professionista, ritenendo che l’amministratore agisca quale mandatario con rappresentanza dei vari condomini, i quali devono quindi essere considerati consumatori, in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività imprenditoriale o professionale. 55 Secondo V. ROPPO, Il contratto del duemila, cit., p. 42 ss., che, diversamente dalla recente legislazione di derivazione comunitaria, il modello tradizionale di controllo sull’equilibrio economico del contratto era incentrato sulla previsione e sulla precisa quantificazione dei prezzi imposti. Questo sindacato, inoltre, era circoscritto entro singole zone delle contrattazioni tra privati, i cui confini coincidevano con i mercati di particolari beni o servizi, oggetto della manovra di politica economica. Il riferimento è in particolare al mercato delle locazioni abitative, al mercato dei farmaci, al mercato delle assicurazioni r.c. auto ed ai relativi contratti. 56 L’espressione è mutuata dalla nota pronuncia del Consiglio di Stato, sez. VI, 23 aprile 2002, n. 2199, in Corr. giur., n. 4/2003, p. 491 ss., con nota di M. NEGRI , Configurazione “debole” (nel caso assicurazioni R.C.A.) del controllo giurisdizionale sui provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato?, con cui il Collegio ha chiarito la natura ed i limiti del giudizio del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’Autorità garante. Afferma infatti l’Organo giudicante che “il sindacato del giudice amministrativo sull’attività discrezionale di natura tecnica, esercitata dall’Autorità antitrust, sia un sindacato di tipo debole, che non consente un potere sostitutivo del giudice tale da sovrapporre all’operato dell’Autorità la propria valutazione tecnica opinabile o il proprio modello logico di attuazione del concetto indeterminato. Il giudice deve, quindi, verificare direttamente i fatti posti a fondamento di tali provvedimenti ed esercita un sindacato di legittimità sull’individuazione del parametro normativo da parte dell’Autorità e sul raffronto con i fatti accertati. In tale ultimo ambito il G. A. può censurare le valutazioni tecniche, compreso il giudizio tecnico finale, che, attraverso un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza tecnica, appaiono inattendibili”. Diversamente, il sindacato sulle sanzioni pecuniarie si atteggerebbe come controllo “pieno” e di merito. 57 “Ecco dunque l’orizzonte del diritto contrattuale della contemporaneità, tutto segnato dalla disuguaglianza delle parti come presupposto indefettibile di disciplina. Al diritto eguale dell’età borghese, costruito sul primato incondizionato dell’idea di autonomia privata e sulla dichiarata eguaglianza delle soggettività negozianti, si è progressivamente avvicendato il diritto diseguale della tarda modernità neocapitalistica, costruito all’opposto sull’affermazione in concreto dell’autonomia provata di tutte le parti e sulla presa d’atto della disuguaglianza delle une rispetto alle altre”, così F. DI M ARZIO, Verso il nuovo diritto dei contratti (note sulla contrattazione diseguale), op. cit., p. 724. “La eguaglianza sostanziale viene attuata (…) attraverso la disparità giuridica; cioè attribuendo 49 Questi possono quindi ritenersi, per sommi capi, i contorni generali del contesto “ambientale” entro cui si inserisce il tema oggetto della presente indagine, la cui trattazione richiede peraltro di fornire, seppure brevemente e nei punti essenziali, alcune delucidazioni in ordine al fenomeno che di queste stesse operazioni negoziali costituisce in qualche modo “l’antecedente”: le intese anticoncorrenziali. 4. Violazione delle norme antitrust e tutela dei consumatori Una questione ancora fortemente dibattuta e condizionante l’esito delle soluzioni offerte in ordine ai mezzi di tutela riconosciuti a quanti siano risultati lesi a valle dalla commissione di un’infrazione anticoncorrenziale - e della quale è pertanto opportuno delineare i lineamenti generali - attiene alla selezione degli interessi rilevanti nel diritto della concorrenza e dunque dei soggetti legittimati ad esperire i relativi strumenti di protezione. Il contrasto interpretativo che si è creato sul punto è nella specie collegato al diverso contenuto che di volta in volta si è ritenuto di dover attribuire al generalissimo disposto dell’art. 41 della Costituzione e conseguentemente alla legge antitrust nazionale, che di quella norma ha fatto un proprio baluardo costitutivo. Le ragioni di tale divario ricostruttivo (storicamente di natura ideologica), in particolare, sono da ricondurre al fatto che la legge n. 287/90 non enuncia in maniera chiara ed evidente la propria ratio complessiva (tanto da aver lungamente diviso la migliore dottrina), non definendo, nonostante l’espresso richiamo all’art. 41 Cost., le proprie finalità. Per questo motivo, a chi attribuisce rilievo esclusivo alla pura logica d’impresa che esclude qualunque rilievo immediato e diretto degli interessi dei consumatori, si alterna una diversa interpretazione della legge antitrust, secondo la quale, attraverso posizioni giuridiche privilegiate ai soggetti che sono sostanzialmente più deboli”, P. BARCELLONA, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, op. cit., p. 240. 50 una lettura rigorosa e sistematica delle norme sostanziali, si ritiene possibile ravvisare in quella disciplina anche obiettivi di tutela di natura diversa. Sul punto, si fa riferimento in modo particolare al disposto degli artt. 2 e 4 in materia di intese 58 , nei quali si ritiene possibile rinvenire numerosi indici di rilevanza dell’interesse del consumatore (intendendo per tale, in assenza di specificazioni normative, il cliente in senso lato dell’impresa, cioè colui che acquista beni e servizi a scopo professionale o non professionale) 59 , suscettibile di aprire il varco ad una diversa valutazione circa lo spirito di fondo, rispettivamente, dei divieti e delle autorizzazioni ivi contemplate. Nella specie, si afferma che soprattutto l’art. 4, comma 1, nell’attribuire all’Autorità garante della concorrenza e del mercato il potere di autorizzare le intese restrittive della concorrenza che “diano luogo a miglioramenti delle condizioni di offerta sul mercato i quali abbiano effetti tali da comportare un sostanziale beneficio per i consumatori”, implicitamente attribuisca rilevanza all’obiettivo del miglioramento del livello di benessere dei consumatori, elevandolo a scopo finale della disciplina antitrust e rispetto al quale l’obiettivo della salvaguardia di un mercato concorrenziale si porrebbe quindi quale mezzo al fine 60 . Il dato viene inferito in particolare dalla constatazione che l’art. 4, comma 1, contiene, a distanza di circa un trentennio dall’approvazione del Trattato di Roma, 58 L’art. 4, infatti, che disciplina le ipotesi in cui l’Autorità Garante può provvedere ad una temporanea deroga al divieto di intese illecite ex art. 2, prevede appunto la possibilità di esentare in via provvisoria accordi altrimenti nulli i quali, ancorché produttivi di effetti restrittivi sulla concorrenza, siano compensati da guadagni di efficienza. Tra le condizioni richieste a questo fine, due di segno positivo e due di segno negativo, si annovera infatti (come già evidenziato nel Capitolo I con riguardo alle esenzioni in deroga) il “sostanziale beneficio per i consumatori”, consumatori i quali (come già puntualizzato in Premessa) comprendono non solo gli utenti finali, ma più in generale tutti gli acquirenti dei prodotti o servizi oggetto dell’intesa e dunque anche gli utilizzatori intermedi. Interpreta estensivamente la nozione di “consumatore”, come equivalente di “utilizzatore” e comp rensiva quindi anche della clientela imprenditoriale della banca, C. PIOVERA, L’incidenza della legge antitrust italiana (n. 287 del 1990) sul settore bancario: profili esegetici, in Giur. it., 1992, IV, p. 193. 59 L’assunto è confermato dalle citate decisioni 10 ottobre 1994, n. 11 e 8 agosto 1994, n. 10, adottate dalla Banca d’Italia nei confronti dell’ABI, in merito, rispettivamente, all’accordo Bancomat ed agli accordi interbancari relativi ai servizi Ri. Ba, R.I.D., incasso bollette Sip e Italgas, cassette di sicurezza e depositi a custodia chiusi: decisioni nelle quali i termini “consumatori” e “clientela” sono usati indifferentemente come sinonimi. 60 In questo senso, F. PARRELLA, Disciplina antitrust nazionale e comunitaria, nullità sopravvenuta, nullità derivata e nullità virtuale delle clausole dei contratti bancari a valle, cit., p. 531. 51 una significativa inclinazione verso la tutela del consumatore quasi del tutto assente nella corrispondente norma comunitaria (art. 85, comma 3 - ora 81, comma 3 - del Trattato). Questa deviazione dalla disciplina comunitaria, si afferma, evidenzierebbe l’intenzione del legislatore italiano di affidare alla disciplina antitrust la funzione primaria, ancorché mediata, di realizzare la tutela del consumatore 61 . Stesso percorso argomentativo viene inoltre suggerito con riferimento all’art. 3, ove è evidente il rilievo giuridico dell’interesse di chi subisce l’abuso, sino a diventare in alcuni casi, il danno al consumatore, elemento esplicito della fattispecie (art. 3, lett. b). 61 La rilevanza e la considerazione delle esigenze dei consumatori, secondo A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 97 ss., si ravviserebbe già con riferimento allo Sherman Act statunitense, sul cui modello sono state elaborate le teorie antitrust di diverse nazioni (cfr. a riguardo G. BERNINI, Un secolo di filosofia antitrust. Il modello statunitense, la disciplina comunitaria e la normativa italiana, Bologna, 1991, pp. 17 ss. e 295 ss.). L’Autore, in proposito, afferma che “sembra emergere che il valore prevalente posto a base della legislazione fosse costituito dalla protezione dell’interesse dei consumatori, ed in particolare del benessere che loro deriva in presenza di un regime concorrenziale (…). Dal dibattito parlamentare emerge infatti con una certa chiarezza che la principale preoccupazione che ispirava il legislatore dello Sherman Act era la protezione dei consumatori nei confronti dello strapotere delle grandi imprese, ed in particolare la protezione del loro diritto a pagare per ogni prestazione un prezzo più vicino possibile al prezzo concorrenziale, senza subire il potere di mercato delle imprese stesse: protezione del diritto del consumatore, dunque, a non vedersi sottrarre ingiustamente parte della propria ricchezza”. Gli strumenti legislativi finalizzati al perseguimento del descritto obiettivo, peraltro, sono stati migliorati e raffinati dalla legislazione antitrust successiva, ovvero, rispettivamente, dal Federal Trade Commission Act, dal Clayton Act del 1914 e dal Celler-Kefauver Antimerger Act del 1950. Originariamente, infatti, lo Sherman Act non aveva previsto la presenza di un’autorità amministrativa di controllo, affidando il compito di applicare e far rispettare la normativa antitrust al Department of Justice ed alle Corti. Soltanto successivamente, con l’introduzione del Federal Trade Commission Act, venne loro affiancato un apposito organismo amministrativo, preposto sia a vietare i metodi concorrenziali sleali (tra cui rientravano le violazioni dello Sherman Act), sia ad applicare concretamente le disposizioni del Clayton Act. La Federal Trade Commission non ha infatti alcun potere di irrogare direttamente sanzioni (di carattere amministrativo, penale o civile, neppure a titolo risarcitorio) per la violazione delle predette normative, potendo solamente ordinare con apposito provvedimento (cease and desist order) al presunto responsabile della violazione, di cessare immediatamente il comportamento ritenuto illecito. L’unica sanzione automaticamente conseguente ai provvedimenti della Commissione è di carattere amministrativo e viene irrogata nell’ipotesi in cui il destinatario di un cease and desist order ometta o ritardi nel conformarsi al provvedimento. La Commissione ha poi diverse importanti funzioni nell’ambito del sistema applicativo della disciplina per la tutela della concorrenza - le quali, peraltro, non hanno alcun riflesso particolare sull’impianto sanzionatorio della disciplina - quale quella di dettare astratte regole di comportamento al fine di agevolare il compito interpretativo degli operatori. Tali funzioni, peraltro, non hanno alcun riflesso particolare sull’impianto sanzionatorio della disciplina. 52 La rilevanza dell’interesse dei consumatori troverebbe in questo caso sicura conferma nell’elencazione esemplificativa delle intese e degli abusi vietati, la maggior parte dei quali contempla ipotesi in cui viene tutelata la posizione del cliente-consumatore, di cui l’Autorità deve tener conto nell’esercizio dei suoi poteri62 . A non diverse conclusioni si giunge con riferimento all’art. 6, il quale stabilisce i criteri di valutazione delle operazioni di concentrazione. La riduzione durevole e sostanziale della concorrenza - che impone all’Autorità di vietare l’operazione di concentrazione comunicata - deve essere infatti valutata tenendo conto della “possibilità di scelta dei fornitori e degli utilizzatori, della posizione sul mercato delle imprese interessate, del loro accesso alle fonti di approvvigionamento o agli sbocchi di mercato, della struttura dei mercati e della situazione competitiva dell’industria nazionale, delle barriere all’entrata sul mercato di imprese concorrenti, nonché all’andamento della domanda o dell’offerta dei prodotti o servizi in questione”. Da queste considerazioni, accompagnate da una lettura della ratio della disciplina antimonopolistica ancorata al dato dell’art. 41, comma 2, della Costituzione 63 (e non del comma 1) - in base al quale l’esercizio concreto dell’iniziativa economica deve essere subordinato al rispetto del valore sovraordinato dell’utilità sociale - si conclude affermando che scopo della normativa sia non già il perseguimento di interessi particolari delle imprese, bensì di interessi generali del mercato e della collettività, nell’ambito dei quali trovano una collocazione di primo piano gli interessi dei consumatori64 . 62 Suggerisce un simile ordine argomentativo con particolare riguardo alla tutela dei consumatori nella fattispecie di abuso di posizione dominante, M. D’A LBERTI, La tutela dei consumatori nella disciplina della concorrenza e della pubblicità, in A A.VV., La tutela giurisdizionale degli interessi collettivi e diffusi, a cura di L. Lanfranchi, Torino, 2003, p. 167 ss. 63 La norma, lo si ricordi, dispone che l’iniziativa economica privata - di cui il comma 1 predica la libertà - “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. 64 Sul punto, A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 153, conclude affermando che “La normativa antitrust è (…) l’espressione della scelta, fatta propria dalla Costituzione, per un sistema di libero mercato orientato a fini sociali, e di tale scelta è anche il generale e principale garante. Questo significa anche che la normativa antitrust si pone come un ulteriore livello di protezione dei valori sociali, che fa da sfondo 53 Quale possa essere il ruolo ricoperto dalla tutela del consumatore nell’impianto normativo antimonopolistico nazionale pare desumibile inoltre, come anticipato, anche dalla lettura delle norme fondamentali del Trattato UE - cui l’interprete, per espressa statuizione dell’art. 1, comma 4, della legge n. 287/90, deve costantemente fare capo -, le quali sembrano condurre verso una chiara individuazione di quali interessi debbano essere perseguiti dal sistema economico nell’ambito degli Stati della Comunità, fornendo, mutatis mutandis, in questo modo una chiave di lettura utile per la composizione dei conflitti relativi all’interpretazione della disciplina antitrust nazionale. Sul punto deve tra l’altro ricordarsi che la tutela del consumatore (ed in generale delle categorie deboli, come anche i lavoratori) assume un ruolo centrale nel perseguimento dei fini complessivi del Trattato UE. Il cambiamento di prospettiva segnato con il Trattato di Maasticht del 1992 e del successivo Trattato di Amsterdam del 1997 rispetto al Trattato di Roma - nel quale la creazione e la salvaguardia del mercato concorrenziale costituivano uno strumento essenziale per il raggiungimento dello scopo ultimo della creazione del mercato libero tra gli Stati europei, ma solo di questo - , è stato infatti letto come il riconoscimento da parte del Trattato UE dell’economia di mercato e della libera concorrenza - tanto negli scambi interstatali, quanto nell’ambito dei singoli mercati interni - quali caposaldi su cui fondare il perseguimento dei più vari e complessi obiettivi della Comunità. Questi ultimi, in particolare, si sono confermati nel tempo come caratterizzati da profonde e ambiziose finalità sociali e solidaristiche 65 . a quelli costituiti dalle leggi settoriali, ove queste ne siano presenti, e garantisce comunque una forma di tutela, governata dai principi del libero mercato, ove non ne esista alcuna più specifica". 65 Di questo avviso, ad esempio, A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 126, secondo il quale “il richiamo a valori quali la crescita occupazionale e la protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita e infine la generale solidarietà tra gli Stati membri, pare capace di dare contenuto definito al concetto di concorrenza voluto dagli Stati della Comunità”. Così pure P. PERLINGIERI , Il diritto dei contratti tra persona e mercato, op. cit., p. 314, il quale osserva che, mentre il Trattato di Roma “poneva il mercato in posizione prioritaria in termini economicistici, sì che mal si integrava con i principi costituzionali (…)”, il Trattato di Maastricht “sicuramente si caratterizza per una svolta di socialità, con forti richiami ai diritti dell’uomo, e dunque attribuisce al mercato non più un’impostazione essenzialmente economicistica”. 54 La crescita economica - si è detto - attuabile mediante l’instaurazione di un mercato unico libero e concorrenziale ed attraverso l’unione monetaria, non è incondizionata, ma deve coniugarsi con il perseguimento di finalità ad alto contenuto sociale, quali il rispetto dell’ambiente, la convergenza dei risultati economici, un elevato livello occupazionale e di protezione degli individui, un generalizzato miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra gli Stati membri66 . Pertanto, la presenza fra gli obiettivi fondamentali della Comunità di valori come quelli appena indicati - caratterizzati da uno spiccato senso solidaristico - sembra orientare la scelta degli Stati aderenti (e dunque dell’Italia) verso un sistema che, lontano da una rigida prospettiva efficientista, tenga conto anche degli effetti redistributivi conseguenti a strategie imprenditoriali (tra cui quelle collusive) che, pur senza danneggiare la crescita totale della società, siano in grado di incidere negativamente sulla condizione di determinate categorie di soggetti (quali i consumatori o i lavoratori) a beneficio di altre (come i produttori) 67 . 66 Tale lettura del Trattato, non è peraltro unanimemente condivisa. R. NIRO, Profili costituzionali della disciplina antitrust, Padova, 1994, p. 136 ss. e M. LUCIANI, La Costituzione italiana e gli ostacoli all’integrazione europea, in Pol. dir., 1992, p. 557 ss., ad esempio, sostengono che “proprio il principio della libera concorrenza, più che fini sociali, appare essere stato concepito come il faro dell’azione della Comunità, della quale è all’un tempo criterio e scopo essenziale. Come criterio esso funziona come norma agendi per gli interventi comunitari. Come scopo, viene sostenuto dai mezzi istituzionali più possenti che la Comunità abbia a disposizione (in particolare, da quelli monetari ex art. 105), si delinea dunque una possibile asimmetria tra le finalità sociali e quelle economiche, che paiono addirittura prevalere sulle prime” (così, in particolare, M. LUCIANI, op. ult. cit., p. 579 s.). 67 In realtà, già in origine il Trattato CEE sembrava propendere verso una visione del diritto antitrust come strumento di protezione dell’interesse ad un’equa distribuzione delle risorse. In proposito, si veda l’art. 85 (ora 81), par. 3, del Trattato, secondo il quale costituiscono presupposto necessario per l’ottenimento di un’esenzione individuale o per categoria, non solo il fatto che l’intesa contribuisca “a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico”, ma anche che una “congrua parte dell’utile” che ne deriva sia riservato ai consumatori. Anche il disposto dell’art. 86 (ora 82) del Trattato sembra muoversi nella stessa direzione, contemplando tra le ipotesi di abuso di posizione dominante “il limitare la produzione, gli sbocchi o lo sviluppo tecnico, a danno dei consumatori” e il “subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi”. Tale impostazione viene inoltre ribadita, con maggiore convinzione, nell’art. 2, comma 1, del Regolamento CEE n. 4964/89 sul controllo delle concentrazioni, che impone alla Commissione di tenere conto, nella valutazione di liceità delle operazioni di concentrazione, tra l’altro, “delle possibilità di scelta dei fornitori e degli utilizzatori, del loro accesso alle fonti di approvvigionamento o agli sbocchi, (…) degli interessi dei consumatori intermedi e finali”. 55 Ciò detto e considerato che le descritte premesse inducono le istituzioni comunitarie - prime tra le quali la giurisprudenza della Corte di Giustizia - a ritenere che le norme antitrust siano idonee a creare posizioni giuridiche soggettive di vantaggio a favore dei singoli che siano lesi da pratiche anticoncorrenziale (e ciò anche al fine di assicurarne la massima efficienza dal punto di vista applicativo), sembra condivisibile l’opinione di chi afferma che una simile conclusione debba essere raggiunta anche con riguardo alla legislazione nazionale in materia e all’interpretazione delle relative norme (per un’analisi tesa a cogliere, tra le norme antitrust, sicuri indici di rilevanza circa il ruolo che la tutela del consumatore riveste in un’ottica pro-competitiva, si veda infra) 68 . Nel riportare il discorso entro i confini nazionali, il dato pare confermato dalla migliore dottrina, la quale a riguardo ha avuto modo di osservare che “la Costituzione scritta sia perfettamente in grado di ospitare questa aggiornata visione e sia in grado di offrirle anzi più spazi per farsi valere” 69 , così suffragando quella concezione del mercato che lo intende e che mira ad accentuarne la natura non solo di “luogo di conflitto e di scambio, ma anche di valori e di solidarietà”70 . 68 Si ritiene infatti logico e ragionevole che, date le condivise premesse, uniformi debbano essere anche le conclusioni, e che quindi con riguardo al problema della eventuale creazione di posizione soggettive la soluzione debba essere, in presenza di un dato normativo sostanzialmente comune, necessariamente unitaria per il diritto comunitario e per il diritto nazionale. Come afferma G. BERNINI, Un secolo di filosofia antitrust, op. cit., p. 430, “Il ragionamento può essere svolto indifferentemente per la normativa nazionale come per quella comunitaria, considerato che un diverso punto di vista finirebbe per attribuire rilevanza attenuata agli imperativi di diritto comunitario, contro il fondamentale principio del primato di quest’ultimo”. Questo discorso assume rilievo soprattutto ai fini di quanto si dirà oltre con riguardo alla possibilità di prospettare a vantaggio della controparte del contratto a valle, in applicazione della legislazione antimonopolistica nazionale, la possibilità di esperire il rimedio risarcitorio riconosciuta a livello comunitario. Riguardo a ques t’ultimo profilo, non possono essere trascurate le posizioni interpretative emerse in ambito comunitario sulla opportunità che, al fine di assicurare la massima efficienza del sistema applicativo del diritto antitrust, i privati siano posti in condizione di agire per la tutela delle proprie posizioni soggettive. Se anche questa impostazione non consente di dare sin da ora (salvo ribadire, ancora una volta, la portata dirompente della sentenza delle SS.UU. n. 2207/05, intervenuta in corso d’opera) una risposta al quesito in ordine alla selezione dei soggetti legittimati ad agire a fini risarcitori, certamente essa costituisce un indizio importante per l’individuazione di una tendenza verso l’allargamento dell’area di tutela, piuttosto che verso la direzione opposta. 69 Così G. A MATO, Il mercato nella Costituzione, cit., p. 12. 70 G. A LPA, Prefazione, in Diritto dei consumatori, op. cit.; contra, N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, op. cit., p. 75, secondo cui “il diritto del mercato non assiste né soccorre, non benefica né elargisce doni (…)”. 56 Mettere in rilievo, in chiave evolutiva, questi ultimi aspetti consente infatti di superare, nell’ottica antitrust che qui ci preme, quella “inaccessibilità degli strumenti di tutela al consumatore finale”, tuttora professata anche in sede giurisprudenziale, la quale rivendica il suo essere “debitrice della vecchia lettura dell’art. 41 Cost., basata su una netta separazione di iniziativa economica ed utilità sociale e dei rispettivi ordinamenti” 71 . 5. Le intese nel diritto antitrust 5.1. La nozio ne di intesa Ai fini dello svolgimento del tema dei “contratti a valle”, si ritiene opportuna un’analisi preliminare delle tematiche di diritto della concorrenza che verranno in evidenza nel corso della trattazione. La vastità dell’area, peraltro, ne impone in questa sede una disamina limitata ai soli tratti fondamentali e rilevanti in vista dell’esame relativo agli effetti di cui il contratto a valle risente per il suo avvicendarsi ad un’intesa vietata (e nulla) ai sensi dell’art. 2 della legge n. 287/1990 72 . La prima figura di cui è d’uopo tratteggiare i contorni è quella di “intesa” accolta dal diritto antitrust. Questa infatti - alla cui enunciazione normativa si rinvia - già ad un primo esame si fa indice di una certa divergenza concettuale tra le categorie economiche rilevanti nella valutazione concorrenziale di determinati comportamenti e le corrispondenti tradizionali categorie civilistiche. 71 Così, E. SCODITTI, Il consumatore e l’Antitrust, in Foro it., 2003, I, p. 1129. L’art. 2, afferma N. IRTI, L‘ordine giuridico del mercato, op. cit., 2004, p. 44 ss., nel vietare comportamenti collusivi anticoncorrenziali assume le vesti di norma proibitiva, qualificando le intese quali “atti vietati: (…) il divieto non concerne negozi su dati beni, o negozi stipulati da certi soggetti, ma il negozio in sé, come tipo di atto astrattamente considerato. Con riguardo a questo e agli altri casi, le norme proibitive sono in grado di ricorrere alle sanzioni più varie: penali, amministrative, civili. Consueta la sanzione della nullità, la quale ha il pregio di auto-applicarsi, e di non richiedere l’ausilio di apparati coercitivi ed esecutivi”. 72 57 Dalla lettura del comma 1 - secondo il quale “sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordati tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari” - difatti, emerge la estesa latitudine della nozione, la quale, atta a ricomprendere tutti quei comportamenti finalizzati a realizzare iniziative comunque idonee ad alterare la libertà di concorrenza 73 , non si esaurisce nel tradizionale concetto civilistico di “accordo”, scomponendosi ed allargandosi ad abbracciare anche “le pratiche concordate” tra imprese74 , nonché “le deliberazioni (…) di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari”. La nozione, pur ricomprendendo qualsiasi incontro di volontà fissato in un atto di natura negoziale, prescinde dalla funzione e dalla struttura di un negozio bilaterale (nonché dalla espressa previsione di misure di esecuzione, verifiche dei comportamenti e sanzioni in caso di inadempimento rispetto alle condotte concordate), presentandosi quale categoria tipicamente comportamentale anziché formale 75 . 73 Si è per questo affermato che la nozione di “intesa” accolta dal diritto antitrust, nella sua ampiezza ed onnicomprensività, attesta la volontà di riferirsi a qualsiasi tipo di collaborazione o di coordinamento tra imprese, quali che siano il mezzo impiegato e la veste formale assunta dall’accordo o dalla pratica. 74 L’esplicita previsione dell’illiceità delle pratiche concordate, osservano G. FLORIDIA e V.G. CATELLI , Diritto antitrust. Le intese restrittive della concorrenza e gli abusi di posizione dominante, Torino, 2003, p. 116 ss., è preordinata allo scopo di sanzionare anche cartelli ed accordi collusivi che rimangono segreti e che diventano palesi soltanto attraverso i loro effetti (ad esempio con contemporanei innalzamenti dei prezzi), e cioè soltanto in funzione dell’uniformità dei comportamenti che vengono tenuti dagli operatori del mercato. Conseguentemente, stando alla definizione offerta dalla Corte di Giustizia e recepita dall’Antitrust, le pratiche concordate “corrispondono ad una forma di coordinamento fra le imprese che, senza essere spinta fino all’attuazione di un vero e proprio accordo, costituisce in pratica una consapevole collaborazione fra le imprese stesse, a danno della concorrenza, collaborazione la quale porti a condizioni di concorrenza non corrispondenti a quelle normali di mercato” (AGCM, provv. 9 ottobre 1997, Associazione Vendomusica/Case discografiche multinazionali-Federazione Industria Musicale Italiana, cit., che riprende la sentenza della Corte di Giustizia del 16 dicembre 1975, Industria europea dello zucchero, in Racc., 1975, p. 1663 ss.). Perché sia ravvisabile una effettiva concordanza di comportamenti, in particolare, non è sufficiente il parallelismo di comportamenti delle imprese, dovendo sussistere una conoscenza artificiale delle decisioni dei concorrenti riconducibile ad un reciproco scambio di informazioni sulle strategie di mercato che ciascuna intende seguire. 75 La lettura funzionale del dettato normativo è confermata anche dagli organi comunitari, i quali hanno in più occasioni affermato che, ai fini dell’applicazione dell’art. 81 del Trattato, non è essenziale l’esatta qualificazione della figura oggetto di esame, rilevando esclusivamente la connotazione anticoncorrenziale della medesima e la sua ascrivibilità ad una pluralità di imprese. La stessa interpretazione è stata accolta dall’Autorità nazionale, nonché dal Tar Lazio, il quale ha 58 Come bene evidenziato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, infatti, “l’art. 2 della legge n. 287 del 1990 (…) non ha inteso riferirsi solo alle intese in quanto contratti in senso tecnico ovvero negozi giuridici consistenti in manifestazioni di volontà tendenti a realizzare una funzione specifica attraverso un particolare voluto. Il legislatore – infatti – con la suddetta disposizione normativa ha inteso – in realtà ed in senso più ampio – proibire il fatto della distorsione della concorrenza, in quanto si renda conseguenza di un perseguito obiettivo di coordinare, verso un comune interesse, le attività economiche; il che può essere il frutto anche di comportamenti non contrattuali o non negoziali”76 . Ciò che conta è “l’inerenza di tali comportamenti ad una distorsione del gioco concorrenziale, (…) l’effettività di un atteggiamento comune, volto a sostituire la stabilito che “il termine intesa, nella sua ampiezza ed onnicomprensività, rese ancora più marcate dalla successiva proposizione esplicativa (gli accordi o le pratiche) attesta la volontà di riferirsi a qualsiasi tipo di collaborazione o coordinamento posto in essere dalle imprese, quali che siano il mezzo impiegato e la veste formale assunta dall’accordo o dalla pratica. In realtà come si evince dall’art. 2, 2° comma, della legge n. 287/1990, è determinante il fine che le imprese si propongono di raggiungere (…) o le conseguenze che l’intesa è oggettivamente idonea a produrre” (cfr. sentenza 2 novembre 1993, n. 1549, in Foro it., 1994, III, p. 146 ss.). Si noti inoltre - come affermato dalla Corte di Cassazione, 1° febbraio 1999, n. 827, in Giur. It., 1999, p. 1223, con nota di B. LIBONATI, Intese orizzontali e aperture in tema di concorrenza e di mercato nella giurisprudenza della Cassazione; ivi, 2000, p. 939 ss., con nota di G. A FFERNI, Le intese restrittive della concorrenza anteriori alla legge antitrust: legge retroattiva o nullità speciale? (Ancora su Cass., Sez. I, 1° febbraio 1999, n. 827); in Danno e resp., 2000, p. 57 ss., con nota di L. NIVARRA e S. BASTIANON; in Riv. dir. ind., 2000, I, p. 151 ss., con nota di A. PARMIGIANI e in Riv. dir. comm., 1999, II, p. 183 ss., con nota di G. GUIZZI; in Foro it., 1999, I, p. 831 ss., con nota di L. LAMBO - che il disposto dell’art. 2 dice che “sono considerate intese” e non “sono intese”, così ammettendo espressamente la possibilità di ricondurre entro la nozione anche comportamenti privi del carattere negoziale. 76 Così Cass., 1° febbraio 1999, n. 827, ult. cit. Come osserva anche M. SCUFFI, Orientamenti consolidati e nuove prospettive nella giurisprudenza italiana antitrust, in Riv. dir. ind., 2003, p. 109, a conferma del carattere normalmente comportamentale dell’infrazione, di regola le imprese, nel realizzare accordi di regolamentazione del mercato, evitano di lasciare tracce scritte del loro operato (il c.d. smoking gun), desumibile pertanto solo da prove indirette ricavate da comportamenti convergenti e concludenti a quello scopo e sufficienti a far supporre l’esistenza di una intesa sia pur a livello informale (cfr. in tal senso, App. di Milano, ordinanza 13-19 giugno 2001, Bluvacanze/Viaggi del Ventaglio e altri). Indispensabile in questi casi è dunque il ricorso alla prova indiziaria, orientata ad accertare - tramite l’analisi congiunta di plus factors endogeni (quali le modalità di condotta) ed esogeni (rapporti tra le imprese) - se l’uniformità di intenti sia plausibilmente spiegabile, al di fuori di qualunque logica collusiva, quale mera coincidenza di comportamenti, ovvero non risulti altrimenti comprensibile se non quale risultato di una concertazione. Sotto quest’ultimo profilo, di particolare interesse si presenta la sentenza del Consiglio di Stato 22 marzo 2001, n. 1699, Telecom+Omnitel/Agcm+Codacons, riguardante la fissazione da parte delle due aziende leaders sul mercato della telefonia di prezzi identici per i servizi di comunicazione fisso-mobile. La pronuncia, infatti, individua (sia pure nell’ambito del giudizio amministrativo) gli indizi e gli elementi di 59 competizione concorrenziale con una collaborazione pratica che giustifica una nullità speciale77 , (…) così dando rilevanza non solo all’eventuale negozio giuridico originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione - anche successiva al negozio originario – la quale, in quanto tale, realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza”78 . Sul punto vale la pena osservare che la rilevanza anticompetitiva della condotta quale emerge dal dato normativo e dalla giurisprudenza maggioritaria indipendentemente dalla sua riconducibilità entro predeterminati formali schemi negoziali, è stata riconosciuta di recente persino quando l’impedimento operi nei confronti di uno dei contraenti liberamente aderenti all’intesa, poiché, allorquando riscontro necessari per rivelare la concertazione, nonché come debba essere ripartito tra le parti l’onere della prova. 77 In merito a quest’ultimo aspetto, si veda infra. 78 Così, ancora, Cass. 1° febbraio 1999, n. 827, ult. cit., la quale, muovendo dalle considerazioni esposte, è stata indotta ad estendere l’applicazione della sopraggiunta normativa antitrust anche a quei comportamenti che, pur riconducibili ad un fatto originario antecedente all’entrata in vigore della legge, protraevano i propri effetti illeciti sino ed oltre questo momento. Tra l’altro, è bene precisare che proprio l’affermazione della Corte sopra riportata è stata interpretata da diverse decisioni di merito, quale varco alla possibile ricaduta della invalidità dell’illecito antitrust sui negozi stipulati a valle di quell’intesa (cfr. App. Brescia, sent. 29 gennaio 2000, Girelli/Novogas, richiamata più ampiamente infra). Nel senso sopra citato, anche il Consiglio di Stato il quale, con la sentenza 30 agosto 2002, n. 4362 (cosiddetta Latti artificiali), ha ribadito che la nozione di intesa è “ampia e non formalistica” e che “la nozione di accordo è diversa da quella formale civilistica e va intesa in senso ampio, tale da ricomprendere anche obbligazioni giuridicamente non vincolanti”. Così anche il Tar Lazio, secondo cui “non è necessario, perché si integri la figura dell’accordo di cui all’art. 2, 1° comma, della legge n. 287/90, che vi sia stipula di un contratto valido e vincolante fra le parti in quanto è diversa la portata della norma richiamata che intende perseguire, coerentemente con l’impianto complessivo della legge, ogni forma di collusione che attenti al valore della libera concorrenza sul mercato” (cfr. sentenza n. 1474/95). Anche gli impegni moralmente vincolanti, come i gentlemen’s agreements, possono costituire accordi vietati, essendo sufficiente a questo fine il fatto che attraverso di essi venga espressa una volontà concorde delle imprese in senso anticoncorrenziale. Perché l’accordo venga sanzionato, inoltre, non è necessaria alcuna formalizzazione dello stesso, essendo sufficiente anche la forma orale, ancorchè ciò comporti la soluzione di complessi problemi di prova in merito alla dimostrazione dell’esistenza dell’accordo stesso. L’esistenza dell’accordo restrittivo può poi essere dedotta anche da semplici circostanze di fatto (così Commissione, decisione del 13 luglio 1987, Sandoz, in G.U.C.E., L22 del 1987 e AGCM, provvedimento I210, Mercato del calcestruzzo preconfezionato di Olbia, in Boll., n. 12/97). Ciò imp lica innanzitutto che la circostanza che un accordo non contenga clausole restrittive espresse non significa che le stesse non siano state concordate tra le parti (come potrebbe emergere in sede istruttoria attraverso un’eterointegrazione del contratto con clausole dedotte da o contenute in documenti differenti ed estranei al contratto medesimo); d’altra parte, per aversi la violazione del divieto è sufficiente che la clausola sia stata accettata, anche tacitamente, dalle parti contraenti. Parallelamente, clausole generali di vendita destinate a diventare parte integrante dei contratti stipulati da una delle parti con i singoli clienti possono determinare il passaggio del contratto nel novero di quelli vietati (Corte di Giustizia, sentenza del 10 luglio 1980, Distillers, causa 30/78, in Racc., 1980, p. 2229). 60 incida sulla libertà economica delle imprese, è da considerare vietata tanto a livello orizzontale quanto a livello verticale 79 . Conformemente alla diffusa giurisprudenza europea, si è addirittura giunti ad affermare che “siffatta intesa può determinarsi anche su schemi giuridici unilaterali, come quando si inserisce in un rapporto di durata l’esercizio di un potere unilaterale da parte di uno dei partecipi al rapporto, ovvero, ad esempio, si concede un’esclusiva che conforma il rapporto in modo da sbarrare la strada ad altri ingressi nel medesimo mercato”80 , così accentuando la prevalenza che nelle valutazioni antitrust viene attribuita all’incidenza effettiva del comportamento economico delle imprese rispetto alla relativa qua lificazione giuridico-formale 81 . 79 Corte di Giustizia, sent. 20 settembre 2001, causa C-453/99, Courage/Crehan, in Foro it., 2002, IV, p. 75 ss., con nota A. PALMIERI e R. PARDOLESI , Intesa illecita e risarcimento in favore di una parte:”chi è causa del suo mal…si lagni e chieda i danni; E. SCODITTI, Danni da intesa anticoncorrenziale per una delle parti dell’accordo: il punto di vista del giudice italiano, e G. ROSSI , “Take Courage”! La Corte di giustizia apre nuove frontiere per la risarcibilità del danno da illecito antitrust, che - intervenendo in via pregiudiziale sulla c.d. in pari delicto doctrine, regola generale dei paesi di common law in tema di contract, secondo cui le parti contraenti si trovano sempre su un piano di parità sostanziale oltre che formale partecipando in egual misura alla perpetrazione dell’illecito e dunque nessuna di esse risultando meritevole di tutela (nemo auditur propriam turpitudinem allegans) - ha messo in risalto come un accordo restrittivo della concorrenza possa avere anche natura asimmetrica (one-sided) per la posizione di debolezza assunta da una parte che, pur assentendo al negozio in maniera esente da vizi della volontà, subisca il preponderante potere della controparte. La Corte ha così statuito che il diritto comunitario si oppone a normative nazionali che precludano, per il solo fatto di essere parte di intese del genere, il diritto al risarcimento del danno derivato dalla loro esecuzione, a meno che non si accerti che il richiedente abbia avuto una responsabilità significativa nella distorsione della concorrenza. La nullità del contratto, quindi, non preclude di per sé il rimedio risarcitorio al contraente-imprenditore debole. Questo principio, tra l’altro, trova significativo riscontro anche nel nostro ordinamento, posto che la legge n. 192/1998 prevede espressamente - nell’ambito dei rapporti di subfornitura industriale - l’azione di risarcimento del danno per abuso di dipendenza economica. 80 Cass. 1° febbraio 1999, n. 827, cit. A riguardo il Tribunale di Primo Grado ha avuto modo di ricordare che “occorre distinguere le ipotesi in cui un’impresa ha adottato una misura effettivamente unilaterale e quindi senza la partecipazione espressa o tacita di un’altra impresa da quella in cui il carattere unilaterale è solo apparente”. Questa seconda ipotesi, ad esempio, si ravvisa nel caso delle pratiche e delle misure restrittive della concorrenza che “adottate in apparenza in modo unilaterale dal produttore nell’ambito delle sue relazioni contrattuali con i propri rivenditori, sono tuttavia accettate, almeno tacitamente, da questi ultimi” (sentenza 3 dicembre 2003, Volkswagen/Commissione, causa T-208/01, in Foro it., n. 1/2004, IV, p. 34 ss., con nota di G. COLANGELO, e ivi, p. 90 ss., con nota di S. BASTIANON, Intesa antitrust e “vertical price fixing”: il caso “Volkswagen”, che richiama la nota sentenza del Tribunale 26 ottobre 2000, Bayer/Commissione, causa T-41/96, in Foro it., 2001, IV, p. 78 ss.). 81 Il carattere non rigoroso della terminologia impiegata nel diritto antitrust, improntata più alle esigenze della realtà economica che allo stretto formalismo delle categorie giuridiche consegnate al dato codicistico, emerge pure con riguardo al (preliminare) concetto di “impresa”. In merito, è agevole constatare che la definizione accolta dalla legge antimonopolistica nazionale, discostandosi 61 dal disposto di cui all’art. 2082 cod. civ., si presenta molto più ampia di quella codicistica, avendo in particolare recepito, in applicazione del criterio interpretativo di cui al comma 4 dell’art.1 della legge n. 287/90, la nozione elaborata nel corso degli anni dagli organi comunitari. A riguardo, cfr. Tribunale di Primo Grado, sentenze del 17 dicembre 1991, BASF, Enichem Anic, Hercules Chemicals NV, DSM NV (polipropilene), cause T 4, 6, 8/89, in Racc., 1991, II, pp. 1527, 1628, 1715, 1837 e Corte di Giustizia, sentenza del 23 aprile 1991, Hofner/Macroton, causa C-41/90, in Racc., 1991, I, p. 1979; in dottrina, A. SPADAFORA, La nozione di impresa nel diritto comunitario, in Giust. Civ., 1990, II, p. 283; A. FRIGNANI - M. W AELBROECK, Disciplina della concorrenza nella CE, Torino, 1996, p. 32; V. A FFERNI, La nozione di impresa comunitaria, in Trattato di dir. comm. e dir. pubbl. dell’econ., a cura di F. Galgano, vol. II, Padova, 1978; G. GUIZZI, Il concetto di impresa tra diritto comunitario, leggi antitrust e codice civile, in Riv. dir. comm., 1993, p. 281 ss. La definizione è dunque idonea a ricomprendere ogni entità impegnata in attività commerciali, indipendentemente dal requisito della personalità giuridica. In essa ricadono, pertanto, le imprese previste dalla normativa nazionale, sia che siano esercitate da imprenditori individuali, sia che siano esercitate in forma collettiva sotto forma di società di persone o di capitali. Vi rientrano altresì le cooperative (cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 25 marzo 1981, Presame - Cooperative Stremseln, causa 61/80, in Racc., 1981, p. 851), i consorzi, le associazioni commerciali di categoria, le fondazioni e gli enti costituiti da più imprese per coordinare il rispetto di un accordo, indipendentemente dalla loro veste giuridica (cfr. Commissione, decisione del 10 gennaio 1980, Vetro greggio in Italia, in G.U.C.E., L383 del 1980). La divaricazione fra la nozione di impresa di cui all’art. 2082 cod. civ. e quella comunitaria elaborata ai fini dell’applicazione del diritto antitrust, si fa più ampia con riguardo all’assoggettabilità a tale disciplina anche di persone fisiche che non esercitino un’attività organizzata e di entità economiche che non abbiano scopo di lucro. In particolare, la Commissione ha considerato “impresa” ai sensi della normativa antitrust comunitaria anche la persona fisica titolare di un brevetto concesso in licenza che non svolga attività organizzata, in funzione dei soli atti di natura economica che egli è in grado di compiere e che sono suscettibili di restringere la concorrenza. Non diversamente viene assoggettato alla disciplina antitrust lo sfruttamento commerciale da parte degli artisti dei propri diritti d’autore, ancorché si tratti di uno sfruttamento non sistematico e meramente occasionale, potendo anch’esso comportare limitazioni nella competizione sul mercato, di guisa che, anche in tali casi, la persona fisica autrice del comportamento riveste la qualifica di impresa (cfr. Commissione, decisione del 10 gennaio 1979, RAI-UNITEL, in G.U.C.E., L157 del 1978). Uguale qualifica riveste agli stessi fini il soggetto che esercita un’attività di consulenza o di ricerca (Commissione, decisione 26 luglio 1976, Reuter-BASF, in G.U.C.E., L254 del 1976) anche in forma personale non organizzata, oppure il soggetto che assume una partecipazione di controllo societaria (Commissione, decisione del 10 gennaio 1979, Vaessen-Morris, cit.), ancorché non eserciti effettivamente attività di gestione, o infine il soggetto che sottoscrive un patto di non concorrenza a seguito di cessione d’azienda (Corte di Giustizia, sentenza del 11 novembre 1985, Remia-Nutricia, causa C42/84, in Racc., 1985, p. 2545). Quanto precede spiega come gli organi comunitari abbiano esteso la qualifica di imprenditori anche agli esercenti le professioni intellettuali (si veda la decisione del 30 giugno 1993, CNSD, Spedizionieri doganali, in G.U.C.E., L203 del 1993, ora anche in Dir. ind., 1994, p. 151 ss., con commento di V. G. CATELLI), così confermando quel consolidato orientamento che considera del tutto irrilevante l’assetto organizzativo dell’attività posta in essere, rilevando soltanto l’autonomia e l’indipendenza con cui il medesimo soggetto svolge la propria attività. Un temperamento a questo orientamento, peraltro, è stato operato dalla Corte di Giustizia in una sentenza del 19 febbraio 2002, Arduino/Compagnia assicuratrice RAS s.p.a., causa C 35/99, in Corr. giur, 2002, p. 581 ss., con commento di B. NASCIMBENE e S. BASTIANON. Riguardo a quest’ultimo profilo, è d’uopo sottolineare che il Trattato CE non offre alcuna definizione di impresa, lasciandone la ricostruzione all’interprete, soprattutto sulla base della elaborazione giurisprudenziale e della prassi amministrativa comunitarie, le quali hanno più volte dimostrato di rifuggire da qualsiasi criterio di carattere formale e di perseguire, invece, una ricostruzione funzionale del concetto di impresa. La scelta, in particolare, si spiega dall’intento di consentire il migliore perseguimento degli obiettivi del Trattato e, conseguentemente, di permettere di reprimere ogni comportamento e, prima ancora, ogni pattuizione che possa in qualsiasi modo alterare il gioco della concorrenza indipendentemente dalla forma 62 In merito al largo richiamo alla normativa comunitaria ed ai limiti nei quali opera il rinvio di cui al comma 4 dell’art. 1, deve peraltro ricordarsi quanto statuito dal giudice amministrativo, il quale, a riguardo, ha puntualizzato osservando che, con il rinvio operato dalla legge antimonopolistica nazionale al diritto comunitario ed all’interpretazione della Corte di Giustizia e degli organi europei, “non è stata posta una clausola categorica di adattamento totale ed assoluto del diritto nazionale antitrust a quello comunitario (una sorta di trasformatore permanente del diritto comunitario di settore in diritto interno), ma solo un ausilio per l’interpretazione del primo in modo coerente con le linee direttrici del secondo”. giuridica assunta dal soggetto che pone in essere il comportamento denunciato. In prima approssimazione, pertanto, può dirsi che costituisce un’impresa ai sensi della legislazione antitrust qualunque soggetto (persona fisica o giuridica) che svolga in maniera indipendente un’attività di natura economica tale da poter anche solo potenzialmente comprimere il grado di concorrenzialità del mercato, sempre che i beni prodotti o i servizi prestati possano essere offerti in un’ottica di mercato. La nozione enunciata dalle Corti comunitarie, come accennato, è stata ripresa, in virtù del vincolo interpretativo di cui al comma 4 dell’art. 1 della legge antitrust, anche dall’Autorità nazionale, intendendo per impresa “qualsiasi entità che eserciti un’attività economica, a prescindere dal suo stato giuridico e dalle modalità di finanziamento”, non assumendo quindi rilievo, ai fini dell’applicazione della disciplina (fatta salva l’eccezione di cui all’art.8), la natura giuridica - pubblica o privata – dell’autore dell’infrazione (cfr. provv. AGCM, 28 luglio 1995, S.i.l.b./S.i.a.e., in Boll., 1995, p. 30; 26 novembre 1998, Consigli Nazionali dei ragionieri e periti commerciali e dei dottori commercialisti, in Boll., 1998, p. 48, confermato dal Tar del Lazio con sentenza del 28 gennaio 2000, n. 466, in Guida al dir., n. 6/2000, p. 85; in dottrina, G. M ILITELLO, Antitrust e professioni liberali, in Antitrust fra diritto nazionale e diritto comunitario, a cura di E.A. RAFFAELLI , Milano, 1998; A. M ASTROLILLI, Abuso di diritto d’autore e disciplina antitrust, in Foro it., 1995, IV, p. 270). Quanto all’autonomia del soggetto che opera sul mercato, l’Autorità nazionale, discostandosi dall’indirizzo comunitario, ha ritenuto che, ove più imprese facciano capo alla medesima entità imprenditoriale, difetta il requisito della pluralità di soggetti indipendenti e qualsivoglia possibilità di coordinamento del loro comportamento sul mercato, mancando il presupposto del rapporto concorrenziale. Per questa ragione, si esclude la configurabilità di un’intesa qualora l’accordo intercorra tra imprese appartenenti al medesimo gruppo. In merito al contenuto delle decisioni delle associazioni di imprese, come evidenzia I. BERTI, Associazioni di imprese e diritto antitrust: un difficile connubio, Relazione presentata al VI Convegno Antitrust fra diritto nazionale e diritto comunitario, Treviso 13-14 maggio 2004, è consolidato orientamento comunitario e nazionale che rientri nella nozione della decisione di associazione tutta l’attività degli organismi gestionali dell’associazione che sia in grado di influenzare la condotta delle imprese associate sul mercato, in qualsiasi modo essa si manifesti: integra pertanto una decisione dell’associazione qualsiasi atto, anche non formale, attraverso cui si esprime la determinazione dell’organo esponenziale della volontà di una pluralità di imprese. Anche con riferimento a questo aspetto, non è dunque la forma della condotta ma la sua sostanza quella che propriamente la qualifica come decisione di associazione di impresa. In merito ai problemi di natura concorrenziale sollevati dalle associazioni temporanee di imprese, diffuse soprattutto nel settore degli appalti pubblici, si veda il contributo di A. A RGENTATI, L’associazione temporanea tra imprese negli appalti pubblici e nella disciplina antitrust, in Riv. dir. comm., 2000, p. 283 ss. 63 Il raccordo tra i due sistemi normativi e giurisprudenziali, in ogni caso, assume un rilievo assolutamente determinante, specie alla luce di quanto statuito con il Regolamento n. 1/2003 in merito alla necessità di una uniformazione e di una armonizzazione nella applicazione (e dunque nella previa interpretazione) del diritto comunitario della concorrenza (e delle normazioni nazionali derivate). Abbandonando per il momento le considerazioni di carattere generale e calandoci in un’analisi degli specifici tratti della fattispecie “intesa” che qui ci riguarda, si osserva che, perché un accordo tra imprese possa dirsi rilevante sotto il profilo antitrust, è necessario, secondo il disposto dell’art. 2, che ricorrano innanzitutto alcuni requisiti cui la legge ricollega la previsione del divieto e della conseguente nullità. Più in particolare - ma tralasciando l’analisi tecnica delle singole fattispecie di intese antimonopolistiche esemplificativamente contemplate dalla legge n. 287/90 ai sensi del comma 2 dell’art. 2, “sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante82 , anche attraverso attività consistenti nel: a) fissare direttamente o 82 Nella valutazione sotto un profilo antitrust di qualunque comportamento d’impresa (sebbene né le norme comunitarie né quelle nazionali lo prevedano espressamente), di fondamentale importanza è il concetto di “mercato rilevante” e la sua preliminare determinazione, in quanto funzionale alla successiva valutazione di indicatori strutturali quali le quote di mercato detenute dalle imprese. In estrema sintesi, l’individuazione del mercato rilevante nei singoli casi concreti presuppone un duplice accertamento: in primo luogo, si tratta di selezionare tutti i prodotti che, in ragione del prezzo, delle caratteristiche e dell’uso cui sono destinati, vengono considerati sostituibili dai consumatori e dunque in concorrenza tra loro (c.d. mercato merceologico o del prodotto); in secondo luogo, si tratta di determinare in questo contesto le imprese che, in ragione della loro ubicazione geografica, si trovano in rapporto di concorrenza l’una con l’altra (c.d. mercato geografico). In particolare, il grado di sostituibilità tra due prodotti in sede di individuazione del mercato rilevante, è misurato attraverso l’indicatore dell’elasticità incrociata della domanda che, mutuato dall’esperienza statunitense, indica il rapporto che intercorre tra le variazioni percentuali del prezzo di un bene X e le variazioni percentuali del prezzo di un bene Y. L’individuazione del mercato rilevante avviene dunque attraverso un giudizio prognostico incentrato sulla valutazione del presumibile comportamento dei consumatori di un determinato bene di fronte ad un ipotetico incremento del prezzo, lieve ma significativo e non transitorio, del bene stesso (a questo riguardo, si distingue tra consumatori marginali - che decidono di rivolgersi ad un altro prodotto - e consumatori captive o prigionieri – che, al contrario, restano fedeli al prodotto originario anche a fronte di un incremento del prezzo). Alla valutazione del grado di sostituibilità dal lato della domanda, si accosta poi, nell’individuazione del mercato rilevante, quella dal lato dell’offerta (c.d. supply substitutability), utile nei casi in cui “alcuni prodotti, benché non sostituibili gli uni con gli altri, sono considerati come appartenenti al medesimo mercato a causa delle loro condizioni di produzione molto simili”, così A. FRIGNANI - M. 64 indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali; b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, gli investimenti, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico; c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento; d) applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti, condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza; e) subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun rapporto con l’oggetto dei contratti stessi”. La prima indicazione che si ricava dalla norma, quindi, è che l’illiceità delle intese deve essere misurata con riguardo al loro “oggetto” o al loro “effetto”, ossia al risultato anticoncorrenziale che un determinato comportamento, fattuale o negoziale, concretizza sul mercato di riferimento 83 . W AELBROECK, Disciplina della concorrenza nella CE, cit., p. 241. La stessa nozione, generalmente accolta, di “mercato rilevante” ci deriva dalla prassi nordamericana, che, come ricordiamo, si è provvista di una disciplina della concorrenza con il lontano Sherman Antitrust Act del 1890. Il concetto, sulla scorta del pensiero di alcuni illustri economisti (R. A. POSNER, Antitrust law. An economic perspective, Chicago, 1976; P. A REEDA - D. E. TURNER, Antitrust law, Boston - Toronto, 1978), è inteso come “il più piccolo contesto, in termini di insieme di prodotti e di area geografica, nel cui ambito è possibile, tenendo conto delle esistenti opportunità di sostituzione, la creazione di un significativo grado di potere di mercato” (Merger Guidelines del 1992). Sul punto, il Consiglio di Stato in una recente pronuncia (cfr. sentenza del 27 gennaio 2004, n. 926, Gemeaz Cusin Srl e altri/Agcm, cit.), ha ricordato che la rilevanza dell’individuazione del mercato rilevante assume diverso spessore a seconda che questa si riferisca alla valutazione di un’operazione sub specie di abuso di posizione dominante, ovvero quale intesa. Nel primo caso, infatti, “la delimitazione del mercato di riferimento inerisce ai presupposti del giudizio sul comportamento che potrebbe essere anticoncorrenziale”, posto che occorre preventivamente accertare l’esistenza di una dominanza nel mercato stesso. Nella fattispecie sanzionata dall’art. 2, invece, tale problematica “rileva in un momento successivo dal punto di vista logico”, non costituendo presupposto di accertamento dell’infrazione ma, diversamente, essendo funzionale alla decifrazione del suo grado di offensività. A riguardo la letteratura nazionale e straniera è vastissima, per cui, per tutti, si rinvia a G. BRUZZONE , L’individuazione del mercato rilevante nella tutela della concorrenza, in Temi e problemi, a cura dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, 1995, p. 12. 83 Secondo il Consiglio di Stato (sentenza n. 926 del 27 gennaio 2004, ult. cit.), “le norme in materia di concorrenza non sono di stretta interpretazione, ma colpiscono il dato sostanziale costituito dai comportamenti collusivi tra le imprese, non previamente identificabili, che abbiano oggetto o effetto anticoncorrenziale”. Sul profilo in esame si veda anche G. A FFERNI, Le intese restrittive anteriori alla legge antitrust: legge retroattiva o nullità speciale? (Ancora su Cass., Sez. I, 1° febbraio 1999, n. 827), cit., p. 939 ss., il quale sottolinea, in merito ad un problema di diritto intertemporale e di applicazione retroattiva della legge n. 287/1990, che la norma dell’art. 2 opera essa stessa una distinzione tra intesa quale fonte degli effetti, ed effetti stessi, considerati dunque quali fatti giuridici distinti. L’orientamento è stato condiviso, a questo proposito, anche dall’Autorità Garante la quale ha avuto modo di affermare che “esula dalla competenza della Autorità l’attività di cooperazione fra 65 Accanto ad un’analisi di tipo strutturale, inc entrata sull’obiettivo rispetto al quale l’accordo è strumentale (l’oggetto), il legislatore inserisce quindi una valutazione di carattere funzionale, attenta alle concrete ripercussioni che una determinata condotta imprenditoriale determina sull’assetto economico sottostante (l’effetto). Più in particolare, con il termine “oggetto” la norma non si riferisce all’intenzione delle parti, ma, in coerenza con un approccio di tipo funzionale, allo scopo oggettivo ed al significato che l’intesa assume nel contesto economico di riferimento. In tal senso depone anche la definizione recentemente introdotta dalle Linee direttrici adottate dalle autorità comunitarie in merito all’applicazione dell’art. 81, par. 3, del Trattato, secondo cui “le restrizioni della concorrenza per oggetto sono quelle che per loro stessa natura possono restringere la concorrenza. Si tratta di restrizioni che, alla luce degli obiettivi delle regole di concorrenza comunitarie, hanno una potenzialità talmente alta da produrre effetti negativi sulla concorrenza che è inutile, ai fini dell’applicazione dell’articolo 81, par. 1, dimostrare l’esistenza di effetti specifici sul mercato”84 . La valutazione degli effetti, invece, deve essere effettuata ogni qualvolta la natura anticoncorrenziale dell’oggetto non sia manifesta. In questo caso, l’Autorità è chiamata quindi a verificare quale impatto concreto esplica l’intesa sul grado di competitività dello specifico mercato in cui essa si inscrive. Peraltro, gli effetti di cui si deve tener conto nella va lutazione della condotta imprenditoriale non sono solo quelli attuali, ma anche quelli solo potenziali. Perché un’intesa sia considerata restrittiva (e dunque sanzionata) è infatti sufficiente (ma non ai fini risarcitori ex art. 33) che essa sia idonea ad incidere negativamente sul mercato rilevante, non essendo necessario che l’effetto lesivo si sia concretamente verificato. imprese realizzatasi antecedentemente all’entrata in vigore della legge n. 287/1990. Sono invece oggetto di valutazione gli effetti di tale attività ove si manifestino successivamente all’entrata in vigore della legge citata” [così provv. 14 marzo 1994, n. 1796 (180), Consorzio Trevi, in Boll., n. 8/1994, p. 32, nonché provv. 6 marzo 1996, n. 3671 (1123), Sipac, in Boll., n. 10/1996, p. 7]. 84 Cfr. Comunicazione della Commissione, Linee direttrici sull’applicazione dell’art. 81, par. 3, del Trattato, 2004/C 101/08, in G.U.C.E., 2004, C 101/97, par. 23. 66 La ripartizione tra oggetto ed effetto e l’accertamento circa la anticoncorrenzialità dell’uno o dell’altro, non è peraltro condivisa unanimemente dalla dottrina. La natura alternativa (e non cumulativa) 85 dei due criteri (oggetto ed effetto) ai fini del giudizio antitrust, ripetutamente affermata, è infatti contestata da quanti ritengono che in realtà l’intera normativa in materia di intese sia incentrata sul solo profilo effettuale. L’oggetto dell’intesa, secondo questa ricostruzione, andrebbe quindi interpretato quale semplice indice presuntivo di un effetto anticoncorrenziale, dovendosi necessariamente accertare la presenza di conseguenze pregiudizievoli per gli scambi a fronte di un comportamento il cui contenuto anticoncorrenziale non sarebbe, per se, sufficiente a determinarne l’illiceità 86 . 85 Così, ad esempio, P. FATTORI - M. TODINO , Il diritto della concorrenza in Italia, op. cit., p. 69; P. M ARCHETTI - L.C. UBERTAZZI, Commentario breve al diritto della concorrenza, Padova, 1997, p. 351, i quali, tra l’altro, chiariscono che per l’illiceità (e dunque la nullità) dell’intesa non è necessario che l’intero accordo risulti, nel complesso, ostativo del gioco concorrenziale: perché scatti il divieto è infatti sufficiente che alcune clausole abbiano un oggetto anticompetitivo. Nella giurisprudenza comunitaria, Corte di Giustizia, 8 luglio 1999, Commissione/Anic partecipazioni spa, C-49/92 P, in Racc., I, p. 4125. 86 In questo senso, da ultimo, M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., pp. 448-449, il quale ritiene un’interpretazione di questo tipo in linea con le riforme introdotte dal Regolamento n. 1/2003. Peraltro, come precisa R. PARDOLESI , Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 475, sarebbe paradossale pensare che, in presenza di un accordo con contenuto intrinsecamente anticoncorrenziale non sia necessario procedere all’esame delle conseguenze dell’accordo. L’accertamento dell’illiceità dell’oggetto infatti, afferma l’Autore, “serve ad alleviare l’onere probatorio a carico di chi debba dimostrare la violazione; e non vale a togliere dal giro gli effetti, quando essi sono palpabili”. In questo senso anche F. GHEZZI e M. POLO, Alcune considerazioni sugli interventi in materia di intese e di abuso nell’esperienza comunitaria e italiana, in L’Industria, 2001, p. 103, secondo cui la verifica degli effetti di un determinato accordo che non viene meno nemmeno con riguardo agli accordi “palesi” - si rivela fondamentale soprattutto al fine di stabilire un livello della sanzione proporzionale alla gravità dei comportamenti e alla rilevanza degli effetti che l’intesa ha generato. Criticamente M. GRANIERI , nota a Cass., sez. III, ordinanza 17 ottobre 2003, n. 15538; Cass., sez. III, sentenza 11 giugno 2003, n. 9384; Giudice di pace di Albano laziale, sentenza 10 settembre 2003, in Foro it., 2004, I, p. 466 ss., il quale, sottolineando il carattere “cruciale” dello snodo oggetto/effetto anticoncorrenziale, ritiene che “l’ansia di repressione” e le difficoltà probatorie hanno talvolta suggerito scorciatoie e fatto anticipare la valutazione di liceità dell’oggetto dell’intesa anche in casi per i quali un’analisi degli effetti avrebbe condotto a conclusioni tutt’altro che univoche (a riguardo ci si riferisce, più nello specifico, al provvedimento AGCM 28 luglio 2001, n. 8546, in Boll, n. 30/2000, confermato in parte qua dal Consiglio di Stato, sez. VI, 23 aprile 2002, n. 2199, cit.). Dello stesso avviso sembra pure la Cass., sez. III, 11 giugno 2003, n. 9384, in Foro it., 2004, I, p. 466 ss., la quale cassa la pronuncia di merito della Corte di Appello di Brescia, 29 gennaio 2000, citata, nel presupposto che l’accertamento di una condotta anticoncorrenziale non possa prescindere da una valutazione degli effetti della condotta stessa sul mercato. In quest’ottica, afferma la Corte, deve essere letto ed interpretato il requisito della consistenza, che l’intesa deve presentare perché se ne possa sancire la nullità. 67 In realtà, la differenza tra i due parametri pare assuma rilevanza, più che ai fini della sola valutazione antitrust di un’intesa, con riguardo al successivo ed eventuale momento risarcitorio. Come hanno cura di specificare le Sezioni Unite della Corte di Cassazione in una recente sentenza (la n. 2207 del 4 febbraio 2005, intervenuta nel corso della stesura del presente lavoro), il divieto di cui all’art. 2, comma 2, tanto degli accordi aventi “ad oggetto” quanto di quelli aventi un “effetto” anticoncorrenziale, “si spiega in considerazione del doppio livello di intervento che essa prevede, quello amministrativo della AGCM e quello riparatorio di cui all’azione di nullità e risarcimento. L’Autorità Garante è organo di Amministrazione, ancorché caratterizzato da ampiezza di poteri sui generis. Essa opera anche in vista di un pericolo, e dunque in considerazione della esigenza economica di prevenire l’effetto distorsivo del fenomeno di mercato. Il giudice, che dirime controversie e non si occupa di fenomeni, può essere officiato solo in presenza o in vista almeno di un pregiudizio” 87 . Se quindi la concretizzazione dell’effetto restrittivo non è indispensabile ai fini dell’intervento sanzionatorio dell’Antitrust, la quale può ben pronunciarsi a fronte di una mera potenzialità monopolistica di una pratica concordata, lo stesso non può dirsi con riguardo alla successiva ed eventuale vicenda risarcitoria dinanzi alla Corte d’Appello ex art. 33, comma 2. In quest’ultima sede, infatti, “deve essere allegata un’intesa di cui si chiede la dichiarazione di nullità, ed altresì il suo effetto pregiudizievole, il quale rappresenta l’interesse ad agire dell’attore secondo i principi del processo, da togliere attraverso il risarcimento”88 . Quanto al metodo da impiegare per sindacare la liceità o meno di un atteggiamento collusivo tra più operatori economici, è necessario - come chiarito dalla migliore dottrina specialistica e dalle richiamate Linee direttrici -, tanto nella valutazione dell’oggetto quanto dell’effetto dell’intesa, adottare un approccio rigorosamente economico, attento ad apprezzare il potere di mercato detenuto da una 87 Cfr. Cass. n. 2207/05. 68 o più delle imprese coinvolte nella concertazione ed alla possibilità che l’accordo accresca tale potere, consentendo uno sfruttamento della posizione detenuta dalle interessate a danno dei concorrenti (attuali o potenziali) o degli utilizzatori finali 89 . In ordine poi alla concreta individuazione dei comportamenti giuridicamente rilevanti ai fini antimonopolistici, alla elencazione indubitabilmente esemplificativa contenuta nella disposizione dell’art. 2 90 , si aggiunge la distinzione tra intese orizzontali ed intese verticali, a seconda che l’accordo intervenga tra soggetti operanti in uno stesso mercato oppure a diversi livelli del ciclo produttivo o distributivo di un medesimo bene 91 . 88 Così ancora Cass. n. 2207/05. Cfr. Linee direttrici, cit., parr. 25-27. 90 Che si tratti di elencazione esemplificativa e non tassativa, lo si può desumere dall’inciso “anche”, contenuto nella disposizione e, più in generale, dalla circostanza che le intese sono comunque vietate in relazione al loro effetto, a prescindere dal contenuto tipizzato dal legislatore. 91 Vengono solitamente ricondotte tra le intese orizzontali le seguenti categorie di accordi: a) gli accordi che tendono ad uniformare il comportamento di mercato delle imprese partecipanti, tra cui si inseriscono i cartelli in senso classico, tradizionalmente vietati per se, quali quelli che tendono alla uniformazione dei prezzi o delle altre condizioni contrattuali; gli abusi di sfruttamento, con cui le parti tendono, ad esempio, a subordinare la conclusione di un contratto all’accettazione di prestazioni supplementari (tying contracts); i patti di discriminazione; i patti di boicottaggio, ovvero le azioni concertate dirette a danno dei terzi al fine, ad esempio, di escluderlo dal mercato. Si tratta, come rileva M. M ELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, cit., p. 12, di accordi non vietati per se, ma in relazione al loro effetto, per i quali dovrà verificarsi se attraverso di essi si realizzi una posizione dominante collettiva; b) gli accordi che realizzano una programmazione privata del mercato (ad es. di contingentamento della produzione), che ricadono senz’altro nel divieto; c) gli accordi di cooperazione tra imprese (es. accordi di ricerca e sviluppo), solitamente indicati come tecniche indirette di cartellizzazione. Simili accordi non sono vietati per se, ed anzi spesso consentono il raggiungimento di obiettivi addizionali altrimenti non raggiungibili, assumendo di frequente la forma di vere e proprie strutture organizzative complesse (imprese comuni). Tra le intese verticali, tra il produttore e i dettaglianti o tra questi ultimi e i grossisti, si annoverano invece: a) le intese relative alla distribuzione commerciale dei prodotti; b) gli accordi che si risolvono, in linea verticale, in tecniche di uniformazione dei comportamenti (che, a loro volta, potranno avere ad oggetto la fissazione di prezzi o di altre condizioni contrattuali); c) gli accordi che tendono a ripartire i mercati, ad esempio attraverso le clausole di esclusiva, per la cui valutazione assume particolare rilievo l’indagine relativa al c.d. effetto cumulativo di blocco. In merito alla distinzione tra intese orizzontali e verticali, si afferma che, in linea di principio, gli accordi tra produttori che operano nello stesso stadio produttivo o di commercializzazione, sono considerati particolarmente pericolosi e dannosi e dunque guardati con maggior sfavore, poiché, attraverso il coordinamento dei comportamenti e le condotte collusive orizzontali, le imprese sono in grado di attuare comportamenti e ricreare situazioni simili a quelle di mo nopolio, con uguali effetti distorsivi sotto il profilo allocativo e redistributivo e con costi sociali complessivi ancora più alti, dovuti allo spreco di risorse ed ai costi di funzionamento dei cartelli (per una visione parzialmente critica, v. R. PARDOLESI , in Diritto antitrust italiano, cit., p. 149). Diversamente, si ritiene, in linea generale, che le intese verticali ricadono nel divieto solo in alcuni casi determinati, ed in generale quando si risolvono nella compartimentazione dei mercati, generando extraprofitti e costi aggiuntivi ingiustificati per i consumatori, come accade nel caso dell’imposizione del prezzo di rivendita e delle 89 69 Senza dilungarci nella descrizione delle diverse tipologie di intesa che la prassi e l’elaborazione dottrinale offrono quale campionario di fattispecie colpite dal disposto dell’art. 2, è invece opportuno sottolineare, perché operi il divieto, che la compressione del gioco concorrenziale sul settore di riferimento deve necessariamente assumere un peso sensibile (per dirla con l’art. 81 del Trattato CE). La legge nazionale, cioè, diversamente dall’esperienza d’oltreoceano, non “vieta” e non dichiara “nulle” tutte le intese (salva espressa esenzione), ma solo quelle che incidono in maniera consistente sulla concorrenza e (almeno) in una parte rilevante del mercato interno. Consistenza della restrizione e rilevanza del mercato interessato dalla pratica antitrust - misurate specialmente alla stregua delle ricadute effettuali che l’accordo realizza sulla realtà economica sottostante - costituiscono dunque i due fattori presupposti dal divieto, senza l’accertamento dei quali il piano concertato non può dirsi illecito e dunque non può esservi nullità92 . Il requisito della consistenza, nella specie, pur potendo essere influenzato dalle dimensioni del mercato rilevante, opera tuttavia su un piano diverso rispetto a quest’ultimo, riferendosi alla restrizione del gioco competitivo al fine di evitare di sanzionare accordi che, pur restrittivi della concorrenza tra le parti, non hanno ripercussioni sensibili nei confronti dei terzi93 . Su quest’ultimo aspetto (su cui torneremo nel prosieguo del discorso) deve quindi porsi particolare attenzione, specie in considerazione di quegli ele menti (comportamentali e negoziali) che, pur esterni all’accordo strettamente inteso, assumono nel loro insieme un peso qualificante ai fini del sindacato di liceità dell’intesa. esclusive territoriali. In realtà, anche all’interno della summa divisio tra intese orizzontali e verticali, occorre ulteriormente distinguere tra accordi intrinsecamente anticompetitivi, volti a fissare prezzi, quantità o a ripartire i mercati, ed accordi che possono risultare anticompetitivi solo in determinate circostanze. 92 Cfr. G. OPPO, Costituzione e diritto privato nella “tutela della concorrenza”, in Riv. dir. civ., 1993, II, p. 546. 93 Così il Consiglio di Stato nella citata sentenza n. 926/2004, Gemeaz Cusin Srl e altri/Agcm. 70 5.2. La nullità delle intese anticoncorrenziali La nullità contemplata dall’art. 2, comma 3, della legge antitrust - secondo il quale “le intese vietate sono nulle ad ogni effetto” – ha comportato notevoli incertezze interpretative, riconducibili ai tratti di anomalia che la caratterizzano e che valgono a distinguerla parzialmente dalla categoria concettuale e dal regime applicativo previsto dalla normativa civilistica degli art. 1418 ss. 94 . Sebbene alcuni autori riconducano tout court le norme in questione, sotto un profilo sostanziale, alla disciplina codicistica della nullità negoziale, pare infatti che la sanzione antitrust si discosti da quella sotto diversi aspetti, tanto da aver indotto la Corte di Cassazione, in una nota pronuncia, a qualificarla quale “nullità ulteriore rispetto a quelle che il sistema già conosceva”95 . 94 In merito alla nullità, in particolare, è utile dare conto di quanto elaborato in sede comunitaria; il diritto interno, infatti, ricalca il disegno elaborato dal legislatore comunitario, il quale all’art. 81 (ex 85) del Trattato ha previsto “la nullità di pieno diritto” degli accordi e delle decisioni vietate, rimanendo silente, quanto alla previsione della nullità, in relazione alle fattispecie di abuso di posizione dominante ed alle concentrazioni. La Corte di Giustizia, in particolare, si è più volte pronunciata sulla nullità delle intese e sul regime di questa sanzione, chiarendo che la disposizione contenente la previsione della nullità di pieno diritto “destinata a garantire l’osservanza del Trattato, va interpretata soltanto in funzione del suo scopo comunitario; la nullità si applica ai soli elementi dell’accordo colpiti dal divieto, a meno che detti elementi risultino inseparabili dall’accordo stesso, nel qual caso esso sarà colpito nel suo complesso; le conseguenze di tale nullità per tutte le restanti parti dell’accordo esulano dal diritto comunitario” (cfr. sentenza 30 giugno 1966, Soc. Tecnicque Minière/Maschinenbau Ulm., causa 56/65, in Foro it., 1966, IV, p. 193 ss.). Dalla pronuncia, rileva G. VETTORI , Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, cit., pp. 445-446, si ricavano gli elementi peculiari della nullità previs ta dalla norma comunitaria: innanzitutto, la ragione della nullità automatica delle intese vietate è di privare di valore gli accordi e le decisioni che incorrono nel divieto di fronte a qualsivoglia giudice all’interno della Comunità; si tratta dunque di una nullità di tipo “comunitario”, con una sua propria configurazione (ipso iure, ad effetto retroattivo, inopponibile ai terzi), che il giudice nazionale dovrà necessariamente applicare nei confronti di tutte le disposizioni contrattuali incompatibili con l’art. 81, dovendo invece decidere sulla base del diritto nazionale della sorte degli atti derivati dagli accordi nulli. Sul punto si veda anche R. GUARNIERI , L’azione di nullità (riflessioni sistematiche e comparatistiche), in Riv. dir. civ., 1993, p. 41 ss. Come precisa anche M. SCHININÀ , La nullità delle intese anticoncorrenziali, in Riv. trim. dir. proc. civ., n. 2/2004, p. 431, l’operatività della sanzione della nullità prevista dall’art. 81, par. 2, presuppone l’applicazione del diritto comunitario ai fini dell’individuazione della fattispecie vietata. L’interpretazione della nozione di “nullità di pieno diritto”, invece, deve avvenire sulla base del diritto nazionale, “dovendosi desumere dalla previsione comunitaria esclusivamente la volontà di caducare l’intesa anticoncorrenziale, attraverso l’applicazione della più grave delle forme di invalidità contemplate dal diritto nazionale”. 95 Anche B. LIBONATI, Intese orizzontali e aperture in tema di concorrenza e di mercato nella giurisprudenza della Cassazione, nota a Cass., 1° febbraio 1999, n. 827, cit., p. 1226, sottolinea la difficoltà di ricondurre la nullità dell’intesa di cui all’art. 2 alla tradizionale nozione codicistica: “forse un’altra definizione sarebbe stata preferibile, ma davanti al testo legislativo occorre evidentemente ricostruire su premesse rinnovate la concezione tradizionale, vedendo la nullità più 71 Delineando i tratti caratteristici della previsione dell’art. 2, comma 3, deve evidenziarsi in primo luogo che la nullità ivi prevista - alla stessa stregua della generale categoria dell’invalidità - opera automaticamente, senza cio è la necessità di un provvedimento ad hoc da parte dell’Autorità garante. Coniugando l’art. 2, comma 3, con l’art. 33 - ai sensi del quale “le azioni di nullità (e di risarcimento del danno, nonché i ricorsi tesi ad ottenere provvedimenti di urgenza a fronte delle diverse violazioni antitrust) sono promosse di fronte alle corti d’appello competenti per territorio” – discende infatti che la nullità “ad ogni effetto” opera ipso iure, ove siano integrati gli estremi dell’intesa anticoncorrenziale, potendosene chiedere soltanto la dichiarazione da parte del giudice civile competente, senza che all’Autorità sia attribuito - accanto a quello di diffida e di comminare una sanzione amministrativa pecuniaria ex art. 15 - alcun potere invalidatorio 96 . La nullità antitrust, inoltre, se non si applica agli accordi che avevano già esaurito i loro effetti al momento dell’entrata in vigore della legge n. 287/90, trova al contrario applicazione nei confronti di tutte quelle intese da cui derivano rapporti come sanzione che come vizio conseguente”. L’applicazione rigorosa della categoria della nullità alle intese lesive della concorrenza, ni fatti, rileva F. PARRELLA, op. cit., p. 522, nota 34, dovrebbe comportare l’invalidità ab origine delle intese e dunque l’impossibilità logico-giuridica di un’autorizzazione successiva delle stesse da parte delle Autorità competenti. Anche G. OPPO, Diritto dell’impresa e morale sociale, cit., p. 32, dubita della correttezza dell’impiego della categoria civilistica della nullità. In dottrina, manifesta perplessità in ordine all’inquadramento sistematico della nullità delle intese antitrust anche R. SACCO - G. DE NOVA , Il contratto, in Tratt. dir. civ., Padova, 1993, vol. II, p. 476. In giurisprudenza, valga l’esempio della Pretura di Brescia, 23 ottobre 1979, in Foro pad., 1980, I, p. 353, in cui per la prima volta si eccepisce la “nullità di pieno diritto”, ex art. 85 del Trattato CEE, di alcune clausole contenute in un contratto di licenza e il giudice manifesta perplessità in ordine all’inquadramento dogmatico della figura della nullità, ritenendo possa trattarsi di annullabilità o di inefficacia condizionata risolutivamente. M. M ELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, op. cit., pp. 82-83, si domanda se, al di là del nomen iuris, la sanzione di cui all’art. 2, comma 3, non debba invece, in ragione della possibilità di “recuperare” l’atto attraverso il meccanismo della deroga, confluire in altre categorie giuridiche. 96 Le decisioni della Corte d’Appello, secondo buona parte della dottrina, saranno quindi indipendenti dalle valutazioni eventualmente espresse dall’Autorità, essendo i due organi preposti alla tutela di interessi differenti. Ciò tuttavia non toglie che, al di là dell’autonomia dei procedimenti e della non vincolatività delle reciproche decisioni - che escludono, tra l’altro che il giudice civile sia tenuto, in pendenza del procedimento antitrust, a sospendere il giudizio innanzi a sé ex art. 295 c.p.c. - si riscontra di regola una uniformità di posizioni. Diverse voci si sono espresse a sostegno della incostituzionalità dell’art. 33 della legge antitrust, che fa venir meno (diversamente da quanto avviene in sede comunitaria), come evidente, il doppio grado di giurisdizione. 72 obbligatori di durata, i cui effetti continuano a persistere anche al momento della sopravvenuta vigenza della normativa antimonopolistica. La conseguenza dell’applicazione dell’art. 2 agli accordi in corso di esecuzione è quindi, in questo caso, la nullità sopravvenuta, la quale, anziché in via retroattiva, opererà ex nunc a partire da quella data 97 . La nullità antitrust è invece speciale se considerata dal punto di vista della fonte, derivando da una legge altrettanto speciale che pone una nuova norma di ordine pubblico 98 . Il contravvenire al divieto si traduce infatti, secondo l’opinione prevalente, in un vizio della causa dell’accordo 99 . 97 Contrasti si registrano in dottrina in ordine alla questione della decorrenza della previsione legale di una nullità successiva al perfezionamento di un contratto di durata per l’innanzi valido e tuttora pendente: nel senso della operatività ex nunc della previsione legale di nullità sopravvenuta si veda C. DONISI , In tema di nullità sopravvenuta del negozio giuridico, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1967, p. 797 ss.; F. M ESSINEO, Il contratto in genere, in Trattato di dir. civ. e comm., diretto da Cicu e Messineo, vol. XXI, Milano, 1972, 2, p. 182 s.; nonché, implicitamente, R. TOMMASINI, voce Invalidità (dir. priv.), in Enc,. dir., vol. XXII, Milano, 1972, p. 591 ss.; nel senso invece dell’operatività ex tunc, R. SCOGNAMIGLIO, Sulla invalidità successiva dei negozi giuridici, in Annuario dir. comp. e studi legisl., 1951, p. 87 s. e 113 ss., specie 114 ss.; G. STOLFI , Teoria del negozio giuridico, Padova, 1947, p. 63; V. SCALISI , voce Inefficacia (dir. priv.), in Enc. dir., vol. XXI, Varese, 1971, p. 369 s. 98 In questo senso, G. FLORIDIA - V.G. CATELLI, Diritto antitrust, op. cit., p. 158, secondo i quali la nullità di cui all’art. 2 è ascrivibile alla contrarietà delle intese all’ordine pubblico economico; in senso conforme anche G. A FFERNI, Le intese restrittive della concorrenza anteriori alla legge antitrust, op. cit., pp. 941-942, il quale invece non condivide la tesi della nullità delle intese tout court, senza distinguere tra accordi e pratiche concordate: la nullità prevista dalla norma, nonostante il dato testuale, si riferirebbe infatti soltanto ai contratti. Una pratica concordata, come pure i gentlemen’s agreements, rilevando solo sotto il profilo della illiceità del comportamento, potrebbe, secondo quest’ultimo Autore, portare esclusivamente all’applicazione di una sanzione amministrativa o all’esercizio di un’azione inibitoria, oltre che al risarcimento del danno ex art. 2043 cod. civ. Della stessa opinione, anche M. LIBERTINI , Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, in Giur. comm., I, 1998, p. 666, secondo il quale la nozione di intesa potrebbe riferirsi, in ordine alla previsione della nullità di cui all’ultimo comma dell’art. 2, solo ad un contratto o ad una deliberazione, facendo dunque riferimento agli artt. 1418 e 2379 cod. civ. Diversamente, M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, Milano, 1998, p. 296, ritengono che la sanzione sia rivolta anche ad atti, comportamenti e decisioni privi del carattere di negozialità ed obbligatorietà. 99 Di questo avviso, ad esempio, M. LIBERTINI , Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), in Danno e resp., n. 3/2005, p. 245 ss. Contra, M. SCHININÀ, La nullità delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 424 ss., che inquadra la fattispecie in un’ipotesi di contratto illegale per violazione di norme imperative. Secondo M. M ELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 81, la sanzione della nullità antitrust esprime l’esigenza di negare vincolatività ad accordi difformi dal modello normativo, reagendo ad una programmazione negoziale lesiva di valori fondamentali fissati dalla Costituzione (o, come nel nostro caso, da norme ordinarie attuative di principi costituzionali). In linea con l’ampia nozione di intesa elaborata dalla giurisprudenza comunitaria, un accordo restrittivo della concorrenza può essere 73 Tale affermazione viene peraltro dissentita da quanti evidenziano che la nullità di cui all’art. 2 debba essere riferita non ad un vizio intrinseco all’atto, ma “alla fattispecie comprensiva dell’atto e di un complesso di elementi fattuali ad esso esterni, piuttosto che all’atto in sé considerato” 100 , ossia alla complessiva situazione di mercato in cui l’atto è inserito e ad elementi ad esso esterni, tali da renderlo idoneo a determinare quella consistente restrizione della concorrenza che rappresenta il risultato vietato dall'art. 2 (e dall'art. 81 a livello comunitario) 101 . Un’intesa, quindi, potrebbe essere vietata ex art. 2 (o ex art. 81) e quindi dichiarata nulla pur avendo una causa lecita e non producendo ab origine un effetto anticoncorrenziale. L’effetto sulla struttura potrebbe infatti discendere da circostanze sopravvenute (da cui l’invalidità sopravvenuta) e che si collocano al di fuori dell’oggettività della fattispecie (come nel caso dell’uscita di un concorrente dal mercato). Lo stesso ragiona mento viene svolto pure con riguardo alle intese aventi un oggetto anticoncorrenziale, in considerazione del fatto che anche in questo caso uno stesso atto, avente il medesimo scopo ma inserito in un contesto diverso, potrebbe non essere idoneo a determinare conseguenze sul mercato rilevante ed essere dunque sottratto alla sanzione della nullità102 . A porsi direttamente in contrasto con la norma imperativa dell’art. 2 non sarebbe quindi la funzione anticoncorrenziale dell’atto in sé considerata, bensì “la situazione di fatto che consiste nel complesso dell’atto e di elementi ad esso esterni e che è legata al contesto geografico e di mercato nel quale l’atto si inserisce”103 . La qualificazione in termini di nullità della situazione di restrizione della concorrenza, piuttosto che del singolo atto che concorre a determinare tale situazione, giustificherebbe tra l’altro l’applicazione della disciplina inserito anche in un contratto tipico e lecito secondo le norme civilistiche (cfr. Consiglio di Stato, n. 150/2002, Rai/C.G.C., in Cons. Stato, 2002, p. 646 ss.). 100 M. SCHININÀ, La nullità delle intese anticoncorrenziali, cit., p. 422 ss. 101 Di questo avviso sono anche L. DI VIA, L’invalidità nei contratti tra imprenditori, in Trattato di diritto privato europeo, a cura di N. Lipari, Padova, 2003, p. 658 e G. OPPO, Diritto dell’impresa e morale sociale, op. cit., p. 32, secondo il quale “il vizio non è nella causa, ma nell’effetto, anzi nella quantità dell’effetto”. 102 Cfr. M. SCHININÀ, op. ult. cit., p. 424. 74 antimonopolistica anche a quei rapporti che siano stati originati da intese anteriori all’entrata in vigore della legge n. 287/90, limitatamente agli effetti perduranti dell’illecito 104 . Profilo di specialità di particolare rilievo è poi quello che attiene alla sanabilità, potendo l’intesa che ricade nella previsione dell’art. 2 (e quindi nulla), essere privata dell’illiceità attraverso un provvedimento amministrativo con cui l’Autorità Garante concede l’autorizzazione ai sensi dell’art. 4 della legge nazionale 105 (almeno sino a quando la norma non sarà modificata conformemente al mutato regime comunitario dettato dal Regola mento n. 1/2003). Accanto a questi profili di indubbia “specialità”, la nullità antitrust presenta peraltro alcune caratteristiche tipiche dell’istituto civilistico, quali (oltre al già richiamato carattere dichiarativo del provvedimento giudiziale che interviene ad accertare la nullità) l’inefficacia nei confronti delle parti e l’inopponibilità ai terzi 106 , nonché l’operatività in via retroattiva, con i conseguenti problemi relativi alle 103 Così, ancora, M. SCHININÀ, op. ult. cit., p. 425. A riguardo si rinvia nuovamente a Cassazione, 1° febbraio 1999, n. 827 e Corte d’Appello di Milano, 20 settembre 1994, in Riv. Dir. ind., 1995, II, p. 289. Contra, Cass., 21 agosto 1996, n. 7733, in Giust. Civ., 1997, I, p. 1373; 4 marzo 1999, n. 1811, in Riv. dir. ind., 2000, II, p. 421. 105 Così M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 300 e M. LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norma antitrust, op. cit., p. 667. A fronte del difficile inquadramento dogmatico della nullità sanabile, P. A UTERI , Nullità e autorizzazione delle intese restrittive della concorrenza nella normativa antitrust nazionale, in Riv. dir. ind., 1996, I, p. 69, propone di ricostruire la condizione giuridica in cui si trovano le intese sino all’ottenimento dell’autorizzazione in deroga in termini non di nullità, ma di mera inefficacia: in questa prospettiva, la nullità ricorrerebbe solo qualora l’autorizzazione sia stata negata o non sia stata richiesta (e non possa più esserlo). Negli altri casi, invece, l’accordo si troverebbe in uno stato di inefficacia provvisoria o pendente, che può risolversi nella inefficacia definitiva (nullità) oppure nella efficacia (ex nunc), alle condizioni e nei limiti temporali fissati dall’Autorità in sede di rilascio del provvedimento. Se quindi può darsi un’invalidità antitrust solo successiva - e ciò non solo nell’ipotesi in cui la normativa antitrust sia entrata in vigore posteriormente alla stipulazione dell’intesa, ma anche là dove ne sia sopraggiunta una valenza anticoncorrenziale (come nel caso di intese verticali che incorrano nel divieto solo al verificarsi di un effetto cumulativo di blocco, o dell’accordo di distribuzione esclusiva di un prodotto nuovo i cui iniziali effetti positivi vengano progressivamente meno), specularmente, il mutamento delle condizioni di fatto in cui un’intesa è stipulata può determinarne una compatibilità successiva con le norme di concorrenza, giustificandone l’autorizzazione. 106 Anche con riguardo all’applicazione dell’art. 81 del Trattato CE, la Corte di Giustizia ha enunciato che l’accordo “è privo di effetto nei rapporti tra i contraenti e non può essere opposto ai terzi” (cfr., sentenza 25 novembre 1971, causa C-22/71, Begueline import co./S.A.G.L. import-export, in Racc., 1971, p. 949). 104 75 eventuali restituzioni di quanto eseguito dalle parti conformemente alle intese di cui sia dichiarata l’invalidità 107 . La sanzione antitrust condivide poi con il rimedio generale della nullità anche la parzialità di cui all’art. 1419 cod. civ. e l’imprescrittibilità dell’azione di cui all’art. 1422 cod. civ. La nullità potrà quindi dirsi parziale, in questo modo riguardando solo gli elementi dell’accordo colpiti dal divieto, purché non risulti che i contraenti (le imprese colluse) non l’avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità (ad esemp io per “inscindibilità” delle relative clausole), e sempre che non sia possibile la sostituzione di diritto della clausola nulla con norme imperative (cfr. art. 1419, comma 2, cod. civ.)108 . A fronte di una clausola contrattuale incompatibile con l’art. 2, quindi, si dovrà innanzitutto procedere ad una verifica circa l’essenzialità della stessa nell’economia dell’accordo. A questo fine, il giudice nazionale - sulla base del criterio oggettivo accolto dalla giurisprudenza più recente e dunque prescindendo da difficili indagini in ordine alla volontà reale o ipotetica delle parti109 - procederà in primo luogo a valutare se l’intesa, privata della clausola nulla, risulti ancora funzionale alla realizzazione dello scopo pratico originariamente avuto di mira dalle imprese aderenti e, soprattutto, a 107 La nullità, infatti, mira a ripristinare lo status quo ante, in quanto le prestazioni contrattuali già eseguite, data l’invalidità ex tunc della pattuizione, non trovando giustificazione nell’accordo dovranno essere restituite secondo le norme sulla ripetizione dell’indebito, salva comunque la possibilità per la parte che ha incolpevolmente confidato nella validità dell’accordo di domandare (ex art. 1338 cod. civ.) al contraente che conosceva o avrebbe dovuto conoscere l’esistenza della causa di invalidità il maggior danno subito per il suo affidamento. 108 M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 297. Anche a livello comunitario la Corte di Giustizia ha ripetutamente affermato che la nullità di “pieno diritto” (“ad ogni effetto” secondo la dizione italiana) deve applicarsi solo agli elementi dell’accordo colpiti dal divieto ed investire la interezza dell’intesa solo se le clausole viziate non sono separabili dal resto (lecito) dell’intesa stessa. Anche la dottrina segnala come l’interesse di tutti i soggetti coinvolti, nonché l’utilità sociale verso la quale tende l’intero sistema dovrebbe privilegiare il più possibile la soluzione della nullità parziale e della sostituzione automatica delle clausole (ai sensi degli artt. 1419, comma 2, e 1339 cod. civ.) rispetto ad ogni altra soluzione ostativa alla conservazione del rapporto “rettificato” secondo legge a salvaguardia degli interessi in gioco, compresi quelli delle pretese vittime. Così, ad esempio, A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 339 ss. 109 Cfr. F. DI M ARZIO, La nullità del contratto, op. cit., p. 403; S. POLIDORI , op. cit., p. 193. 76 misurare la compatibilità dell’atto, pur privato della parte colpita dalla nullità, con la disciplina antimonopolistica. L’esigenza di garantire il funzionamento del gioco concorrenziale si pone infatti come “limite esterno rispetto all’autonomia contrattuale e impone al giudice di verificare, a prescindere da una domanda di parte, gli eventuali effetti anticoncorrenziali del contenuto residuo del negozio, al fine eventualmente di stabilirne la nullità totale”110 . Quanto alla proponibilità dell’azione, si è peraltro osservato che la relativa legittimazione non sia estesa a chiunque vi abbia interesse (alla stregua dell’art. 1421 cod. civ. 111 ) ma - secondo una lettura dell’art. 2, comma 3, combinata con l’art. 33 - soltanto alle imprese concorrenti che siano state lese dalla pratica collusiva, con la conseguente esclusione tanto delle imprese non direttamente incise dalla pratica illecita quanto (ed in via generale) dei consumatori sui quali l’infrazione reagirebbe solo in maniera mediata ed indiretta 112 . L’affermazione risulta peraltro superata dalla già richiamata sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (la n. 2207 del 4 febbraio 2005), con cui il Collegio, riconoscendo anche ai consumatori la legittimazione ad esperire l’azione risarcitoria dinanzi alla Corte d’Appello territorialmente competente ex art. 33, ha aperto a questi ultimi - nella misura in cui l’illecito antitrust abbia loro arrecato, restringendo o “rompendo” il regime concorrenziale del mercato, uno specifico pregiudizio - la possibilità di adire il giudice ordinario perché dichiari nulla l’intesa. In merito a quest’ultimo profilo, ci si riserva comunque sin d’ora di rinviare alle considerazioni sviluppate nel corso del Capitolo II e del Capitolo III. 110 M. SCHININÀ, La nullità delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 446. Anche applicando l’art. 1421 cod. civ., peraltro, la legittimazione verrebbe comunque ad essere ristretta soltanto a coloro i quali dimostrino la sussistenza di un concreto interesse ad agire, non potendo proporre l’azione semplicemente adducendo un fine generale di attuazione della legge (cfr., Cass., 11 gennaio 2001, n. 338, in Mass. Foro it., 2001). 112 Secondo indirizzo unanime, dall’azione di nullità sarebbe esclusa pure l’Autorità garante sulla base della mancata previsione, all’interno della legge antitrust, di una norma analoga a quella che, nel settore dell’editoria, legittimava il Garante per la radiodiffusione e l’editoria ad agire innanzi al giudice per ottenere provvedimenti cautelari o la dichiarazione di nullità di un’operazione di concentrazione. 111 77 Al momento pare invece opportuno dare un rapido sguardo ai problemi di coordinamento che il regime della nullità dell’art. 2 solleva rispetto alla possibilità di un’esenzione delle intese - contemplata rispettivamente dall’art. 81, par. 3, del Trattato CE e dall’art. 4 della legge nazionale - sui quali è tra l’altro destinata ad incidere profondamente la modernizzazione attuata con il Regolamento CE n. 1/2003, di cui nel prosieguo del discorso si delineeranno i passaggi essenziali e gli aspetti innovativi. 5.3. L’autorizzazione in deroga Sul modello comunitario, la legge n. 287/90 prevede che un’intesa vietata ai sensi dell’art. 2, comma 2, possa beneficiare di una esenzione nei casi in cui, nonostante il profilo illecito, essa, residuando un margine sufficiente di competizione sul mercato di riferimento, si mostri in grado di soddisfare alcune condizioni, dando luogo complessivamente a dei benefici più che proporzionali agli effetti anticoncorrenziali 113 . Alla base di questo meccanismo di bilanciamento che giustifica l’autorizzazione in deroga da parte dell’Antitrust114 vi è in particolare la convinzione che la 113 L’autorizzazione, infatti, presuppone in ogni caso l’accertamento della violazione del divieto di cui all’art. 2, comma 2, tanto che l’Autorità non può procedere ad un esame dell’istanza presentata dalle parti quando il giudice amministrativo ha pronunciato un’ordinanza di sospensione dell’esecutività della decisione di divieto precedentemente adottata dall’Autorità medesima (P. M ARCHETTI - L.C. UBERTAZZI, Commentario breve al diritto della concorrenza, op. cit., p. 2331; cfr. provv. AGCM, n. 2884, Esenzione CIAG, in Boll., n. 11/95). Affinché l’intesa possa essere esentata è necessario, nella specie, che i benefici oggettivi che si verificano siano legati da un nesso di causalità diretto all’attività economica oggetto dell’accordo (in questi termini, ad esempio, si è espressa la Commissione con riguardo al caso Van den Bergh Foods limited, in G.U.C.E., 1998, L 246/19. In dottrina, R. PARDOLESI , Deroghe al divieto di intese restrittive della libertà di concorrenza, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 196 s. e p. 408 s.; A. FRIGNANI - M. W AELBROECK, Disciplina della concorrenza nella CEE, op. cit., p. 89; P. M ANZINI , L’esclusione della concorrenza nel diritto antitrust comunitario, Milano, 1994, p. 177 ss.; M. M ELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 79 ss.; P. M ARCHETTI - L.C. UBERTAZZI, Commentario breve al diritto della concorrenza, op. ult. cit., p. 2330 ss.). 114 L’autorizzazione in deroga delle intese che ricadono nel divieto di cui all’art. 2, comma 2, rientra in particolare nella competenza esclusiva dell’Antitrust (R. PARDOLESI , op. ult. cit., p. 402), chiamata ad esercitare una funzione amministrativa di carattere discrezionale, rispetto alla quale non può quindi essere configurato alcun diritto delle parti ad ottenere l’autorizzazione (all’interno di una 78 concorrenza non sempre si risolva nel più efficiente impiego delle risorse e che a volte l’efficienza dell’azione imprenditoriale e l’innovazione possano essere favorite da forme di cooperazione che diminuiscono la competizione fra le imprese e il grado di concorrenzialità complessiva del mercato. La disposizione dell’art. 4 conferma dunque, riprendendo le parole di un noto studioso della materia, che “l’obiettivo da raggiungere non è l’assetto concorrenziale in quanto tale, essendo la concorrenza un mero strumento funzionale al raggiungimento dell’utilità sociale, che può essere perseguita anche mediante altri e diversi percorsi economici (…). Da ciò emerge che il legislatore non ha individuato nel mantenimento del maggior grado di concorrenza possibile il bene ultimo da tutelare ma ha concepito la tutela della concorrenza come uno strumento – anche se il principale – per realizzare il maggior grado possibile di utilità sociale” 115 . L’Autorità, del resto, è chiamata ad esercitare un’attività di regolazione cosiddetta “condizionale”, definita dalla dottrina amministrativistica come quell’“insieme di regole che, al contrario di quanto avviene per le regole di tipo finalistico e prudenziale, non prefigura un risultato o un obiettivo al quale l’attività privata deve conformarsi, bensì contiene criteri di comportamento e regole di condotta rivolti agli stessi privati. (…) Si tratta di regole volte ad assicurare, distinzione tradizionale dei provvedimenti amministrativi, quello in oggetto sembra assimilabile ad una dispensa, con cui si mira a consentire attività istituzionalmente vietate. Così M. CLARICH, Per uno studio sui poteri dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in Dir. amm., 1993, p. 77 ss.). Ne consegue tra l’altro che, in una causa civile in cui venga in rilievo la nullità dell’intesa, al giudice non è consentito valutare la sussistenza delle condizioni per l’autorizzazione stabiliti nell’art. 4 e quindi assumere, anche incidentalmente, la validità dell’intesa vietata dall’art. 2 (così C. SELVAGGI , Disciplina della concorrenza e del mercato. Problemi di giurisdizione e di competenza, in Riv. dir. comm., 1993, p. 243 e p. 253). Nel settore bancario, invece, secondo quanto dispone l’art. 20 della legge n. 287/90, la competenza amministrativa è devoluta alla Banca d’Italia, nei cui confronti l’Antitrust esplica una funzione consultiva che investe anche la valutazione sulle condizioni di rilascio di una autorizzazione in deroga (parere AGCM, Accordi ABI-Bancomat, in Boll., n. 40/94; parere AGCM, Accordi interbancari-ABI, in Boll., n. 28-29/94). A riguardo si veda G. ROTONDO, L’attribuzione alla Banca d’Italia di poteri in materia di tutela della concorrenza (ex art. 20 della legge 10 ottobre 1990, n. 287) alla luce dell’evoluzione normativa del settore creditizio, in Riv. dir. impr., 1996, p. 381 ss. 115 L. DI VIA, L’invalidità nei contratti tra imprenditori, in Diritto privato europeo, op. cit., p. 745. 79 insieme, l’uguaglianza degli operatori, la libera scelta dei consumatori e l’efficienza allocativa del mercato nel suo complesso”116 . Poiché l’intesa non è portatrice in sé di un disvalore oggettivo, ma solo nei casi in cui falsi o minacci di falsare in maniera sensibile la concorrenza, il legislatore prevede quindi la possibilità di ammetterla, purché migliorino le condizioni di offerta sul mercato con beneficio dei consumatori oppure si assicuri il raggiungimento di determinati obiettivi. L’art. 4 della legge nazionale, ricalcato sul modello dell’art. 81 (par. 3) del Trattato, dispone infatti che, perché l’Autorità possa pronunciarsi (con un provvedimento di natura costitutiva) a favore della temporanea esentabilità dell’intesa 117 , è necessario che: 1) l’accordo determini sensibili sviluppi nelle condizioni di offerta sul mercato interessato, connessi in particolare con l’aumento o con il miglioramento qualitativo della produzione o della distribuzione o con il progresso tecnico o tecnologico 118 ; 2) una congrua parte di tali benefici siano riservati ai consumatori119 , determinando, ad esempio, una migliore allocazione delle risorse e la produzione di beni a prezzi più bassi o con standard qualitativi più 116 Così L. TORCHIA, Gli interessi affidati alla cura delle Autorità Indipendenti, in I garanti delle regole, a cura di S. Cassese e C. Franchini, Bologna, 1996, p. 58. 117 Vedi provv. AGCM, n. 140, Assirevi, in Boll., n. 7/92, e in Foro it., 1992, III, p. 562 ss., con nota di R. CORNETTA ed in Riv. dir. comm., 1992, II, p. 235 ss., con nota di L. SAMBUCCI . La temporaneità dell’autorizzazione non esclude peraltro la possibilità di un suo rinnovo - in simmetria a quanto espressamente previsto in diritto comunitario sub art. 81 - purché ne sussistano tutti i presupposti , ed in ogni caso previo accertamento dei benefici prodotti nel periodo di validità della deroga (cfr. provv. AGCM, n. 3832, CIRAS, in Boll., n. 16/96; n. 6814, Consorzio del Prosciutto di San Daniele/Consorzio del Prosciutto di Parma, in Boll., n. 37/99). L’autorizzazione può inoltre essere sottoposta a condizioni e ad oneri (cfr. R. PARDOLESI , op. ult. cit., p. 402; provv. AGCM, n. 1501, INA/Banca di Roma, in Boll., n. 30/93), ovvero soggetta a revoca (ai sensi dell’art. 4, comma 2) previa diffida, qualora l’interessato abusi dell’autorizzazione ovvero quando venga meno alcuno dei presupposti per l’autorizzazione (cfr. M. M ELI, op. ult. cit., p. 109 ss.). La richiesta di autorizzazione presentata dalle parti può inoltre essere oggetto di rinuncia ed in tal caso l’Autorità chiude il procedimento istruttorio con una delibera di non luogo a provvedere (cfr. provv. AGCM, Ania, cit.). 118 La prima condizione riguarda quindi i cosiddetti incrementi di efficienza, distinti dalla Commissione in incrementi in termini di costi ed incrementi in termini di valore aggiunto. Il miglioramento, in particolare, discende dal conseguimento di quelle economie di scala che, in assenza dell’intesa, le parti non potrebbero realizzare (R. PARDOLESI , op. ult. cit., p. 410 ss.). A riguardo si rinvia inoltre a P. FATTORI - M. TODINO , La disciplina della concorrenza in Italia, op. cit., pp. 75-77, i quali analizzano le diverse fattispecie di intese esentabili a seconda della natura dei benefici apportati riportando un’ampia casistica di provvedimenti antitrust. 80 elevati (condizioni c.d. positive); 3) siano comunque garantite alle imprese le condizioni necessarie alla concorrenzialità sul piano internazionale; 4) la restrizione determinata dall’intesa esentata sia strettamente necessaria e proporzionale agli effetti positivi elencati (cioè che non esistano alternative di minore impatto anticoncorrenziale), non eliminando la concorrenza da una parte sostanziale del mercato (c.d. condizioni negative) 120 . Nel definire quali comportamenti soggettivi sono giustificabili alla luce della tutela oggettiva del “bene concorrenza”, l’Autorità deve pertanto tenere conto di fattori di diversa natura (non solo economica, ma anche sociale, dunque “meta-concorrenziale”), in considerazione del fatto che “ripristinare il contraddittorio sul mercato non può essere soltanto un’operazione di censura che riporta tutti dietro la stessa linea di partenza, poiché, diversamente, lo stesso sviluppo economico ed i benefici ad esso legati ne uscirebbero irrimediabilmente frustrati. (…) Un’autorità di concorrenza ha, pertanto, il compito di garantire lo sviluppo di un sano darwinismo di mercato, non certo quello di sterilizzarlo; se così non fosse, il suo stesso ruolo ne uscirebbe compromesso specie sotto il profilo della sua neutralità rispetto agli interessi in gioco” 121 . In questo modo l’art. 4 introduce una eccezione al generale divieto di cui all’art. 2, rigorosamente subordinata alla cumulativa presenza di condizioni obbiettive 119 A questo proposito, le Linee direttrici sulla applicazione dell’art. 81, par. 3, del Trattato, chiariscono che per consumatori devono intendersi, a questi fini, “tutti i fruitori dei prodotti oggetto dell’accordo, dai distributori all’ingrosso, ai dettaglianti, agli utilizzatori finali”. 120 Il test di indispensabilità è soddisfatto se le parti dell’accordo dimostrano il nesso di causalità ed il rapporto di proporzionalità tra le misure anticompetitive ed i benefici attesi (cfr. provv. AGCM, n. 3692, Raffinerie di Roma/Fina italiana/Erg Petroli/Monteshell, in Boll., n. 11/96; in senso conforme Tar Lazio, 7 marzo 1997, n. 425, Raffineria di Roma e altri/AGCM, in T.a.r., 1997, I, p. 424). Il carattere indispensabile della restrizione, in particolare, come chiarisce la Commissione nelle Linee direttrici, deve essere valutata all’interno del contesto effettivo in cui opera l’accordo. Da ciò consegue quindi l’esigenza di un’appropriata analisi della struttura di mercato, dei rischi economici collegati all’accordo e dei possibili incentivi alle parti. 121 Così A. M AZZILLI , Verso un pieno riconoscimento della tutela giurisdizionale dei terzi contro le pronunce dell’Antitrust, nota a Tar Lazio, sez. I, sentenza 24 febbraio 2004, n. 1715, in Foro amm.: T.a.r., 2004, p. 1438. Come osservato dalla dottrina amministrativistica, il senso dell’intervento neutrale delle Autorità di regolazione si esprime “non tanto nella tutela di questa o quella situazione soggettiva, ma, invece, nell’assicurare le (pari) condizioni di svolgimento della libertà di tutti i soggetti potenzialmente interessati” (libertà d’accesso, libertà di scelta dei consumatori e migliore funzionamento del meccanismo allocativo), ossia l’equilibrio tra situazioni giuridiche soggettive, a 81 destinate ad assicurare che le restrizioni al grado di competitività del mercato interessato siano da (un lato) giustificate tanto da esigenze di efficienza produttiva e di progresso tecnico, quanto dall’interesse degli utilizzatori finali (e dunque anche dei consumatori stricto sensu), e che (dall’altro) non siano incompatibili con il sistema di “concorrenza non falsata” che tanto il Trattato quanto la normativa interna si propongono di instaurare e mantenere 122 . L’onere di provare la ricorrenza delle quattro condizioni richieste dall’art. 4 grava, in particolare, sui soggetti che richiedono l’autorizzazione 123 . Alcune divergenze si registrano nella dottrina in ordine alla natura dell’autorizzazione in deroga, inquadrata da taluno non quale requisito di validità di un’intesa altrimenti condannata alla nullità, ma quale condizione legale di efficacia di un atto che giace, prima dell’autorizzazione stessa, in una situazione di pendenza, ovvero di provvisoria inefficacia destinata a tradursi in una ine fficacia definitiva (conseguente alla violazione dell’art. 2 ed alla conseguente nullità) oppure ancora in una efficacia decorrente dal momento della concessa deroga (ex nunc)124 . volte simmetriche, a volte confliggenti (cfr. L. TORCHIA, Gli interessi affidati alla cura delle Autorità Indipendenti, in I garanti delle regole, op. cit., p. 60 e p. 64). 122 Il carattere cumulativo delle quattro condizioni richieste per l’autorizzazione implica, nella specie, la stesura di un ideale bilancio economico dell’intesa notificata, nel quale trovano spazio non solo considerazioni sull’efficienza consentita dall’accordo, ma anche motivazioni ed elementi riferibili agli obbiettivi di politica industriale, quali il rafforzamento della posizione competitiva dell’industria italiana sui mercati internazionali (R. PARDOLESI , op. ult. cit., p. 409) o l’obbiettivo di favorire la transizione verso un assetto di mercato concorrenziale per un settore in precedenza rigidamente regolamentato (cfr. provv. AGCM, n. 2401, Assicurazioni rischi agricoli, in Boll., n. 11/95; n. 3832, CIRAS, cit.). 123 Cfr., ad esempio, i provv. AGCM: 21 gennaio 1999, Consorzio prosciutto San Daniele/Consorzio prosciutto di Parma, cit.; 19 luglio 2001, Unione Petrolifera/Piano di realizzazione della rete di carburanti, in Boll., n. 29/01. Nello stesso senso, con riguardo all’applicazione dell’esenzione di cui all’art. 81, par. 3, del Trattato, dispone l’art. 2 del Regolamento CE n. 1/2003 concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli artt. 81 e 82, per cui si veda infra. 124 Di questo avviso, P. A UTERI , Nullità e autorizzazione delle intese restrittive della concorrenza nella normativa antitrust nazionale, op. cit., p. 93, secondo il quale, in attesa della decisione dell’Autorità, l’intesa nei confronti della quale sia stata richiesta o possa ancora essere richiesta la deroga produce gli effetti prodromici o preliminari strumentali all’ottenimento dell’autorizzazione e all’efficacia definitiva che siano compatibili con il divieto posto dall’art. 2. In particolare, le parti sarebbero vincolate a fare quanto necessario per ottenere l’autorizzazione e ad astenersi da qualsiasi comportamento che possa pregiudicare la futura efficacia del contratto; M. MELI , Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 90 ss., specie p. 98 ss. 82 Diversamente da quanto accade in ambito comunitario 125 , si ritiene inoltre che il nostro sistema antimonopolistico richieda alle imprese - allo scopo di rimanere al riparo da ammende in seguito alla stipulazione di un’intesa - non solo di comunicare l’avvenuta concertazione, ma di astenersi dall’eseguirla nelle more del procedimento di autorizzazione 126 . In merito ai provvedimenti di esenzione, è inoltre opportuno segnalare che, dopo un atteggiamento di iniziale chiusura, tanto la giurisprudenza nazionale 127 quanto quella comunitaria manifestano ultimamente un atteggiamento di progressiva apertura nell’estendere anche a soggetti terzi (imprese concorrenti o consumatori) la legittimazione ad agire dinanzi all’autorità giurisdizionale amministrativa avverso un provvedimento con cui l’Antitrust autorizza, in forza dell’art. 4, un’intesa anticoncorrenziale. All’iniziale esclusione della legittimazione al ricorso di quanti a) non fossero diretti destinatari128 della decisione autorizzativi; b) non avessero partecipato al procedimento (se non a titolo meramente informativo), si è infatti avvicendata 125 Con riguardo all’art. 81, parr. 1 e 3, si prevede infatti che, nelle more del procedimento dinanzi alla Commissione e fino al momento della decisione, gli accordi notificati siano sottratti alle sanzioni amministrative, consentendone così l’esecuzione spontanea, cui si aggiunge inoltre il potere della Commissione di concedere l’esenzione con effetto retroattivo dalla data della notificazione o da un momento comunque successivo alla comunicazione dell’intesa stabilito dalla Commissione medesima. 126 Così P. A UTERI , Nullità e autorizzazione delle intese restrittive della concorrenza nella normativa antitrust nazionale, op. cit., p. 83. Di contrario avviso, R. PARDOLESI , op. ult. cit., p. 401 s. e R. A LESSI , in La disciplina della concorrenza e del mercato: commento alla legge 10 ottobre 1990, n.287 ed al Regolamento CEE n. 4064/89 del 21 dicembre 1989, op. cit., p. 31 e p. 46. 127 A livello nazionale, si veda ad esempio Tar Lazio, sez. I, sentenza 24 febbraio 2004, n. 1715, in Foro amm.: T.a.r., 2004, p. 1422 ss., con nota di A. M AZZILLI , Verso un pieno riconoscimento della tutela giurisdizionale dei terzi contro le pronunce dell’Antitrust, cit. Una prima apertura era ravvisabile già in Tar Lazio, sez. I, sentenza 5 maggio 2003, n. 3861, con commento di L. ZANETTINI , La legittimazione dei terzi ad impugnare i provvedimenti antitrust: il caso Sfir, in Foro amm.: T.a.r., 2003, p. 1952 ss. 128 Come precisato dal Tar Lazio, sentenza n. 1715/2004, cit., vanno disattesi quegli orientamenti dottrinari che qualificano come “diretti destinatari” dell’azione amministrativa esclusivamente quei soggetti che, rispettivamente: a) risultino menzionati nel provvedimento (o ai quali lo stesso sia stato comunicato o notificato); b) abbiano partecipato al procedimento; c) o siano stati colpiti da atti di diniego o da atti sanzionatori. Tali criteri infatti, osserva il Collegio, “appaiono immotivatamente restrittivi e formalistici, oltre che certamente insoddisfacenti sul piano dogmatico e della teoria generale, non essendo seriamente revocabile in dubbio: che nelle ipotesi di atti di regolazione, sono qualificabili destinatari diretti dell’azione amministrativa - siccome coinvolti in prima persona tutti coloro che vengono assoggettati al potere conformativo; e che nelle ipotesi di atti autorizzatori, 83 seguendo una linea peraltro discontinua - una diversa tendenza, orientata ad allargare il potere di impugnare il provvedimento di deroga ex art. 4 dell’Autorità, che abbia come “effetto diretto” la lesione delle posizioni concorrenziali di altri imprenditori presenti sul mercato, anche in mancanza dei due requisiti indicati. Superando l’iniziale indirizzo restrittivo - propenso al disconoscimento in capo a qualunque soggetto terzo (imprese concorrenti o consumatori) della titolarità di una situazione giuridica sostanziale direttamente incisa dall’esercizio del potere discrezionale dell’Autorità 129 - la giurisprudenza amministrativa è giunta infatti a riconoscere - in considerazione dell’esistenza di un interesse differenziato e qualificato (diretto, concreto ed attuale) e del vincolo ermeneutico di cui all’art. 1, comma 4, della legge n. 287/90 - la legittimazione del terzo concorrente (non anche delle associazioni di categoria) ad agire nei casi in cui esista un nesso di causalità diretta tra la decisione di esenzione e la lesione della posizione concorrenziale subita 130 . Uniformandosi alla linea comunitaria 131 , il giudice amministrativo nazionale ha quindi statuito che, qualora un’intesa di per sé illecita venga, tramite una sono qualificabili destinatari diretti dell’azione amministrativa tutti coloro che per effetto dell’attività illegittimamente autorizzata vengano a subire un ingiusto pregiudizio”. 129 Sul punto, si veda ad esempio M.E. SCHINAIA, Il controllo giurisdizionale sulle Autorità amministrative indipendenti, in Foro amm.: Cons. di Stato, 2003, p. 3171, il quale osserva che, poiché “sia il procedimento davanti all’autorità sia il successivo processo davanti al giudice sono preordinati ad una tutela oggettiva del libero mercato e non alla garanzia di posizioni individuali dei relativi operatori economici … le uniche posizioni a confronto davanti al giudice amministrativo sono da un lato quelle dell’autorità che ha adottato il provvedimento e quella dell’impresa che lo subisce, non potendo inserire direttamente nel processo anche l’interesse di altri soggetti privati, concorrente e consumatore che siano, che intendano rimuovere l’altrui comportamento contrario alle regole di concorrenza”. In questo senso anche la giurisprudenza amministrativa, la quale, su queste premesse, afferma che, a fronte della esplicazione di detti poteri, “tutti gli altri soggetti diversi da quelli direttamente incisi, siano essi consumatori, siano imprese concorrenti, sono titolari di un mero interesse diffuso, indifferenziato rispetto alla posizione di pretesa della generalità dei cittadini a che le autorità preposte alla repressione dei comportamenti infrattivi attuino correttamente e tempestivamente i poteri che sono loro, a tale specifico fine, conferiti dall’ordinamento” (cfr. Tar Lazio, sez. I, sentenze 11 febbraio 2003, n. 868; 13 luglio 1999, n. 1158; 23 dicembre 1997, n. 2216; 29 settembre 1998, n. 2746; 15 ottobre 1998, n. 2952; nonché Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 30 dicembre 1996, n. 1792). 130 Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 14 giugno 2004, n. 3865, in Giorn. Dir. Amm., n. 1/2005, p. 33 ss., con commento di M. M ACCHIA. 131 Cfr. Tribunale di Primo grado, 8 ottobre 2002, cause riunite T-185/00, T-216/00, T-199/00 e T300/00, Métropole Télévision SA, in Racc., 2002, II-3808; Corte di Giustizia, sentenza 22 ottobre 1986, causa C-75/84, Metro II. 84 determinazione discrezionale dell’Autorità, “temporaneamente assentita in considerazione della sua idoneità a perseguire finalità di natura pubblicistica”, le imprese concorrenti, compresse nel loro diritto di iniziativa economica (e che trovano salvaguardia proprio nel rispetto della normativa antitrust), divengono pienamente legittimate a richiedere la verifica giurisdizionale di legittimità dell’operato dell’Autorità, causa diretta del pregiudizio subito dalle imprese stesse 132 . Una contraria affermazione, infatti, sottrarrebbe ampi segmenti di azione amministrativa al sindacato giurisdizionale e sarebbe per ciò stesso incompatibile con il principio costituzionale che accorda a tutte le persone fisiche e giuridiche indistintamente tutela giurisdizionale nei confronti dei pubblici poteri (artt. 103 e 113 Cost.). 5.4. L’invalidità successiva delle intese Come può avvenire che un’intesa certamente restrittiva della concorrenza (e dunque indubitabilmente illecita, quindi nulla) sia esentata alla luce dell’effetto benefico che essa esplica (ex art. 4 della legge antitrust) sulla dinamica competitiva (ovvero che, a seguito di una modificazione sopraggiunta delle condizioni di mercato, divenga successivamente compatibile con le norme antitrust) 133 , così può accadere che un accordo inizialmente lecito divenga nel tempo talmente nociva per l’economia di un determinato settore da dover essere vietata 134 . 132 Come precisato dal Tar Lazio, sentenza n. 1715/2004, cit., nell’ipotesi di adozione di un atto amministrativo illegittimo - siccome obiettivamente distorsivo del mercato - “il pregiudizio giuridicamente rilevante deriva non già dall’attività svolta dal beneficiario dell’atto autorizzativo, ma dal fatto che il predetto beneficiario la svolge proprio in ragione - e dunque a cagione - dell’ottenuta autorizzazione (o della mancata adozione della misura interdittiva). Ragion per cui il nesso di causalità diretta non può essere escluso, posto che è proprio il rilascio dell’autorizzazione a costituire la condicio sine qua non dell’azione dannosa”. 133 In caso di compatibilità successiva di un’intesa inizialmente nulla, tuttavia, la sanatoria avrà comunque efficacia ex nunc, facendo quindi salvi gli effetti (anche risarcitori) prodottisi in precedenza. Sul punto, si veda Corte di Appello di Torino, 7 agosto 2001, in Dir. ind., 2002, p. 261, con nota adesiva (sulla questione) di F. PORTINCASA . 134 La fattispecie rimanda direttamente al caso sottoposto al giudizio della Corte di Cassazione (1° febbraio 1999, n. 827, cit.), la quale, dalla premessa che il divieto dell’art. 2 si riferisce non già alla 85 Dato che la lesione della concorrenza si può cogliere solo a livello di analisi del funzionamento dell’intero mercato rilevante, può infatti venirsi a creare una situazione tale per cui il contrasto tra un’intesa - che si configura di regola quale contratto di durata - ed il principio di concorrenza effettiva sopravvenga nel corso dell’esecuzione del rapporto anche per cause del tutto indipendenti dalla volontà delle aderenti. La fattispecie, in particolare, è prevista dal Regolamento n. 2790/1999 CE in materia di intese verticali 135 , il quale, con riguardo al c.d. “effetto cumulativo di blocco” di più intese verticali indipendenti, contempla testualmente l’invalidità successiva dei contratti che concretame nte impediscano l’accesso al mercato di eventuali nuovi concorrenti (si veda, ad esempio, il caso dei contratti di approvvigionamento esclusivo per i distributori di carburanti). semplice conclusione di un accordo con funzione o oggetto anticoncorrenziale, ma si indirizza ad ogni comportamento comune a due o più soggetti consapevolmente assunto, che nella sua dimensione fattuale abbia la capacità di alterare la concorrenza nel mercato interessato, trae il corollario per cui, se è indubbio che il divieto non può colpire una convenzione perfezionatasi prima della sua entrata in vigore, ciò non toglie che i comportamenti posti in essere sulla base di quell’accordo possano, in quanto obiettivamente dotati di una valenza anticoncorrenziale, ricadere nell’ambito di operatività del divieto, ove e nei limiti in cui essi siano successivi alla sua introduzione. Con simile affermazione, la Corte si ricollega a quell’orientamento consolidato secondo cui il sopravvenire di una norma imperativa che proibisce una certa manifestazione dell’autonomia privata, può determinare l’invalidità del contratto, nonostante il principio della normale irretroattività del ius superveniens, quando i suoi effetti siano destinati a protrarsi anche in costanza della disposizione proibitiva (cfr. Cassazione, 21 giugno 1993, n. 6864; 3 aprile 1987, n. 3231; 25 luglio 1978, n. 3709). In dottrina, a favore della nullità sopravvenuta nel senso citato è C. DONISI , In tema di nullità sopravvenuta del negozio giuridico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1967, I, p. 755 ss. Con specifico riguardo alle intese anticoncorrenziali, si vedano: R. A LESSI - G. OLIVIERI , La disciplina della concorrenza e del mercato, op. cit., p. 174 s.; M. LIBERTINI, Legge antitrust nazionale e sua applicabilità ai contra tti stipulati prima della entrata in vigore della legge, in Riv. dir. priv., 1997, p. 352 ss., ove si conclude in prospettiva analoga a quella assunta dalla Corte nella pronuncia richiamata alla stregua del fatto che l’art. 2 prende in considerazione la fattispecie “intesa” in funzione delle sue conseguenze, prescindendo dal momento formativo dell’atto. In senso sostanzialmente conforme anche M. COCCIA, Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1488 ss. (in specie p. 1492 s.); P. A UTERI , Nullità e autorizzazione delle intese restrittive della concorrenza nella normativa antitrust nazionale, op. cit., p. 102 ss. Contra, G. GUIZZI, A proposito della nullità delle intese restrittive della concorrenza concluse prima dell’entrata in vigore della legge n. 287/1990, op. cit., pp. 196-197. 135 In G.U.C.E., L 29 dicembre 1999, n. 336, p. 21. 86 In un caso del genere si ritiene che la qualificazione in termini di invalidità successiva dell’intesa debba essere estesa anche ai contratti tramite i quali si viene effettivamente a determinare questa strozzatura in entrata 136 . 6. Il Regolamento n. 1/2003: profili generali della riforma Dando uno sguardo alle ultime novità normative in materia antitrust, è da ricordare il Regolamento n. 1/2003 del Consiglio del 16 dicembre 2002 137 - concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli artt. 81 e 82 del Trattato e destinato a sostituire dal 1° maggio 2004 il Regolamento n. 17/62 - adottato dalle istituzioni europee al fine di attuare un sostanziale processo di modernizzazione e di semplificazione nel sistema di enforcement anticoncorrenziale e di raccordo tra le autorità nazionali e gli organismi comunitari138 . 136 Di questa opinione, M. LIBERTINI , Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., p. 449. 137 Il Regolamento è pubblicato in G.U., n. 17 del 3 marzo 2003. A riguardo si ricordi che il progetto di riforma del sistema applicativo delle regole di concorrenza era già contenuto e descritto dalla Commissione nel c.d. Libro Bianco sulla modernizzazione delle norme per l’applicazione degli artt. 85 (ora 81) e 86 (ora 82) del Trattato CE, pubblicato nel 1999, cui ha poi fatto seguito un’ampia fase consultiva, terminata nella formulazione di una Proposta di regolamento del Consiglio che avrebbe dovuto sostituire il Regolamento n. 17/62. La pubblicazione della Proposta è stata poi seguita dalla trasmissione al Parlamento europeo e dalla stesura di un Parere del Comitato Economico e Sociale, il quale, apportati alcuni emendamenti, ha da ultimo condotto alla emanazione del Regolamento n. 1/2003. Per delle considerazioni sul contenuto del Libro Bianco, si rinvia a F. GHEZZI, Il libro bianco della Commissione sulla modernizzazione del diritto della concorrenza comunitario, in Conc. e merc., 2000, p. 175 ss.; L. NIVARRA, Il Libro Bianco sulla modernizzazione delle norme per l’applicazione degli articoli 85 e 86 del Trattato CE: quale futuro per il diritto europeo della concorrenza, Relazione al Convegno Giurista italiano – giurista europeo: il passaggio di millennio nella scienza giuridica italiana, Palermo, 7-8 aprile 2000, in Eur. e dir. priv., n. 4/2000, p. 1001 ss. In chiave prospettica, P. DE PASQUALE, Verso una nuova disciplina comunitaria in tema di concorrenza, in Dir. pubbl. compar. ed eur., n. 4/1999, p. 1575 ss. 138 Per un esame analitico delle novità introdotte dal Regolamento di modernizzazione, si vedano M. VICENTI e F. VENTURINI, La nuova disciplina comunitaria in materia di concorrenza, in Le nuove leggi civ. comm., 2003, p. 537 ss.; M. TAVASSI, Il regolamento CE n. 1/2003: verso la devoluzione di competenze in materia di concorrenza dalla Commissione europea alle autorità garanti ed ai giudici nazionali, in Dir. comm. scambi internaz., 2004, p. 315 ss. Per un commento più generale: G.M. BERRUTI, La nuova cooperazione attiva tra Istituzioni comunitarie, Antitrust nazionali e giudici nel Regolamento comunitario n. 1/2003, in Corr. giur., n. 1/2004, p. 115 ss.; L.F. PACE , La politica di decentramento del diritto antitrust CE come principio organizzatore del Regolamento 1/2003: luci ed 87 La rilevanza dell’impatto e della svolta che l’introduzione del Regolamento è destinata ad esercitare discende, in particolare, dal fatto che esso, pur limitandosi a modificare il sistema applicativo delle sole norme comunitarie in materia di intese e di abuso di posizione dominante, va in realtà ad incidere profondamente sulla normativa nazionale e sulle attribuzioni delle autorità interne 139 . Richiamando per opportunità di indagine soltanto i passaggi normativi utili allo scopo che ci riguarda, giova innanzitutto evidenziare che la linea di intervento del Regolamento si snoda lungo due direttrici principali. La prima novità è rappresentata, con specifico riguardo all’applicazione dell’art. 81, par. 3, del Trattato, dal passaggio dal previgente regime di autorizzazione preventiva a quello di eccezione legale, alla stregua del quale le intese anticoncorrenziali sono lecite e valide ab initio, senza la necessità di una preventiva ombre del nuovo regolamento di applicazione degli artt. 81 e 82 CE, in Riv. ital. dir. pubbl. comunit., 2004, p. 147 ss.; R. BARATTA, Sui problemi di uniformità d’applicazione della normativa sulla concorrenza posti dalla “modernizzazione” dell’art. 81, par. 3, del Trattato CE, in Riv. dir. internaz., n. 2/2000, p. 502 ss.; N. PECCHIOLI - H. NYSSENS, Il regolamento n. 1/2003 CE: verso una decentralizzazione ed una privatizzazione del diritto della concorrenza. Commento al Regolamento CE n. 1/2003, in Dir. Unione eur., n. 2-3/2003, p. 357 ss.; A. PERA - V. FALCE , La modernizzazione del diritto comunitario della concorrenza ed il ruolo delle Autorità nazionali per la concorrenza – Rivoluzione o evoluzione?, in Dir. Unione eur., n. 2-3/2003, p. 433 ss.; F. GHEZZI, La modernizzazione delle norme antitrust comunitarie, in Riv. società, n. 6/2000, p. 1098 ss.; M. SCUFFI, I riflessi ordinamentali ed organizzativi del Regolamento comunitario n. 1/2003 sulla concorrenza, in Corr. giur., n. 1/2004, p. 123 ss. 139 A riguardo si veda A. PERA - P. CASSINIS, Applicazione decentrata del diritto comunitario della concorrenza: la recente esperienza italiana e le prospettive della modernizzazione, in Dir. Comm. Int., 1999, p. 723. Secondo gli Autori, nell’ambito del processo verso un crescente decentramento dell’attività di enforcement della disciplina antitrust europea, “occorre osservare che, oltre all’uniformità nell’applicazione delle disposizioni sostanziali di concorrenza comunitarie, un rilievo non secondario avrà la questione dell’uniformazione delle procedure (e.g. durata, diritto di difesa delle parti, modalità d’impugnazione delle decisioni) e soprattutto dei poteri (istruttori, cautelari e sanzionatori) utilizzabili dalle autorità nazionali, in relazione a casi rientranti nell’ambito di applicazione degli artt. 81 e 82 CE”. Sull’influenza che il Regolamento CE n. 1/2003 esplicherà nel contribuire “all’irruzione comunitaria nel diritto amministrativo nazionale”, rendendo quest’ultimo più complesso, disponendosi su più livelli (comunitario e nazionale) e risultando dall’interazione di tali livelli”, si veda S. CASSESE , Il diritto amministrativo europeo presenta caratteri originali?, in Riv. Trim. dir. Pubbl., 2003, p. 35 ss., nonché C. FRANCHINI, Il diritto amministrativo italiano e l’influenza comunitaria: l’organizzazione, in Riv. It. Dir. Pubbl. comunit., n. 5/2004, p. 1179 ss. Più in generale, sul rapporto tra diritto amministrativo nazionale e diritto comunitario, si veda: M. GNES, Giudice amministrativo e diritto comunitario, in Riv. trim. dir. pubbl., 1999, I, p. 331 ss.; S. CASSESE , Diritto amministrativo europeo e diritto amministrativo nazionale: signoria o integrazione?, in Riv. it. Dir. pubbl. comunit., n. 5/2004, p. 1135 ss.; S. DE M ARIA, Recenti sviluppi della giurisprudenza comunitaria in materia di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto comunitario, in Riv. it. Dir. pubbl. comunit., n. 3-4/2004, p. 879 ss. 88 autorizzazione da parte della Commissione ove siano soddisfatte le condizioni previste dalla medesima disposizione 140 . Sulla base di questo meccanismo, è quindi compito delle imprese interessate procedere ad una valutazione ex ante della legittimità dell’intesa, mentre il controllo di liceità diviene solo eventuale e successivo, nel caso in cui si ritenga di volerne contestare la validità dell’accordo. Ai sensi dell’art. 1 del Regolamento, infatti, “Gli accordi, le decisioni e le pratiche concordate di cui all’articolo 81, paragrafo 1, del Trattato che non soddisfano le condizioni di cui all’articolo 81, paragrafo 3, del Trattato sono vietati senza che occorra una previa decisione in tal senso. Gli accordi, le decisioni e le pratiche concordate di cui all’articolo 81, paragrafo 1, che soddisfano le condizioni di cui all’articolo 81, paragrafo 3, del Trattato non sono vietati senza che occorra una previa decisione in tal senso”. Con questo nuovo sistema si procede quindi ad una revisione sostanziale delle modalità di applicazione della deroga al divieto di intese anticoncorrenziali di cui all’art. 81, par. 3 (e, di conseguenza, dell’art. 4 della legge nazionale), al fine di garantire una sorveglianza efficace sulle operazioni di mercato ed allo stesso tempo una semplificazione del controllo amministrativo (cfr. Considerando n. 2). Con questa “rivoluzione copernicana”, infatti, viene meno la necessità di notificazione preventiva da parte delle imprese, la quale - a fronte dell’ingente numero di notifiche trasmesse alla Commissione - è stata sino ad ora considerata come la causa principale delle forti inefficienze e degli eccessivi rallentamenti lamentati dalle istituzioni europee nell’applicazione della disciplina antimonopolistica. La seconda (ma consequenziale) innovazione (di grandissimo rilievo) è rappresentata invece dalla eliminazione della competenza esclusiva della Commissione europea nell’applicazione dell’art. 81, par. 3, e dall’attribuzione del relativo potere di autorizzazione in deroga ai giudici ed alle autorità di concorrenza 140 Mentre la prova circa l’esistenza di effetti proconcorrenziali grava sulle imprese che hanno posto i essere l’intesa incriminata, quella relativa all’esistenza degli effetti anticoncorrenziali graverà invece sulla parte che ne afferma l’illiceità. 89 nazionali, ai quali viene quindi demandato in via decentrata il potere di accertare, in sede di valutazione delle intese di cui all’art. 81, par. 1 (di rilevanza, dunque, non limitata al solo mercato nazionale), la sussistenza delle condizioni per l’esenzione dal divieto (di cui allo stesso par. 3) 141 . Come dispone l’art. 6, infatti, “le giurisdizioni nazionali sono competenti ad applicare gli artt. 81 e 82 del Trattato” (nella loro interezza). Come ha osservato il Consiglio europeo, “Le giurisdizioni nazionali svolgono una funzione essenziale nell’applicazione delle regole di concorrenza comunitarie. Esse tutelano i diritti soggettivi garantiti dal diritto comunitario nelle controversie tra privati, in particolare accordando risarcimenti alle parti danneggiate dalle infrazioni.. Le giurisdizioni nazionali svolgono sotto questo aspetto un ruolo complementare rispetto a quello delle autorità garanti della concorrenza degli Stati membri”142 . Nel sistema concepito dal Regolamento, la Commissione e le autorità nazionali - tanto amministrative quanto giudiziarie - sono pertanto investite allo stesso modo e nella stessa misura della integrale applicazione dell’art. 81 del Trattato 143 . 141 Con l’art. 1 del Regolamento si è quindi data attuazione a quel sistema di eccezione legale già contemplato dal Libro Bianco, il quale disponeva che “In tale contesto, l’adozione di un regime di eccezione legale e di un controllo a posteriori potrebbe permettere di rispondere alle sfide che la politica di concorrenza dovrà affrontare nei decenni a venire. In un tale regime, difatti, qualsiasi autorità amministrativa o giurisdizionale investita dei poteri necessari potrebbe valutare pienamente un’intesa ad essa sottoposta esaminandone sia gli effetti restrittivi ai sensi dell’art. 85, par. 1, del trattato, sia gli eventuali vantaggi economici di cui all’art. 85, par. 3. L’adozione di un sistema di eccezione legale si tradurrebbe così nell’eliminazione della competenza esclusiva in materia d’applicazione dell’art. 85, par. 3, di cui la Commissione è stata investita dall’articolo 9, par. 1, del regolamento n. 17, e ciò agevolerebbe un’applicazione decentrata delle regole di concorrenza. Lo stesso sistema permetterebbe inoltre di eliminare per le imprese il vincolo burocratico della notifica, poiché le intese conformi alle condizioni d’applicazione dell’art. 85, par. 3, del trattato sarebbero riconosciute valide senza la necessità di alcuna autorizzazione. Eliminato il peso delle notifiche da esaminare, la Commissione potrebbe pertanto concentrarsi sulla repressione delle infrazioni più gravi” (p. 29). Come evidenzia M. M ELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, op. cit., pp. 38-39, il Regolamento n. 1/2003, se sotto un profilo formale comporta solo un’emancipazione dall’idea della competenza esclusiva della Commissione nella valutazione dei presupposti per la deroga, dal punto di vista sostanziale - sostituendo ad un controllo ex ante un controllo ex post - determina un vero e proprio superamento del meccanismo dell’autorizzazione. 142 Così il 7° Considerando. 143 L’importanza della diretta ed integrale applicazione degli artt. 81 e 82 da parte delle autorità nazionali è accentuata anche dalla considerazione della nuova ed accresciuta realtà dimensionale dell’Unione la quale richiede, al fine di garantire il rispetto e l’uniforme osservanza delle regole di 90 Il nuovo regime di eccezione legale, fondato su di un controllo a posteriori delle intese da parte delle autorità nazionali, viene pertanto a perfezionare il processo di decentramento del diritto antitrust comunitario in armonia con il principio di sussidiarietà sancito dal Trattato di Maastricht e dunque a rafforzare il ruolo del giudice naziona le nell’applicazione degli artt. 81 e 82 144 . Come può agevolmente intendersi, il sistema di valutazione delle intese introdotto con la riforma determina infatti non solo un formale superamento dell’idea di una competenza esclusiva della Commissione nella va lutazione dei presupposti per la deroga, ma, da un punto di vista sostanziale, ad un vero e proprio superamento del meccanismo della esenzione, con un conseguente ridimensionamento del problema relativo al rapporto divieto-eccezione, ora riferibile solo ai casi “più gravi”. Tale meccanismo, sino ad ora ritenuto (dalla stessa Commissione) indispensabile nell’ottica della costruzione del mercato unico, viene difatti ritenuto sostituibile concorrenza in ambito comunitario, che la Commissione si concentri principalmente sui casi di maggiore rilievo e gravità e sui settori di attività in cui l’azione della stessa è più efficace rispetto a quella svolta dalle strutture nazionali. A questo fine, peraltro, la Commissione aveva già adottato alcune misure tese a ridurre il carico delle notificazioni ad essa indirizzate, quali, ad esempio, la Comunicazione relativa agli accordi di importanza minore, c.d. de minimis, che concerne gli accordi ritenuti a priori non in grado di minare la concorrenza a livello di mercato comunitario che, pertanto, non devono essere notificati poiché non rientrano nel divieto posto dall’art. 81, par. 1, ed i regolamenti generali di esenzione per categoria, i quali - ferme restando le restrizioni fondamentali comunque proibite (le c.d. “clausole nere”) - definiscono le caratteristiche che debbono presentare gli accordi per essere considerati conformi alle condizioni di esenzione dal divieto poste dal par. 3 della medesima disposizione, senza la necessità di alcun esame preventivo (tra questi, si ricordino, oltre al citato Regolamento n. 2790/1999 relativo all’applicazione dell’art. 81, par. 3, a determinate categorie di accordi verticali e di pratiche concordate, il Regolamento n. 2658/2000 relativo agli accordi di specializzazione, ed il Regolamento n. 2659/2000 relativo agli accordi in materia di ricerca e sviluppo). A riguardo deve peraltro notarsi che, per espressa previsione del Regolamento n. 1/2003, l’applicazione della legislazione nazionale sulla concorrenza non può portare in ogni caso a vietare un’intesa che rientri in una delle categorie esentate alla stregua di un regolamento generale adottato dalla Commissione (cfr. art. 3, par. 2, Regolamento n. 1/2003). D’altro canto, però, conformemente al principio di decentralizzazione nell’applicazione del par. 3 dell’art. 81, si prevede che l’esenzione comunitaria possa essere revocata, limitatamente al confine nazionale, dalle autorità garanti (non anche dai giudici) nazionali qualora un’intesa esentata in applicazione della normativa regolamentare produca effetti incompatibili con l’art. 81, par. 3, del Trattato “sul territorio di uno Stato membro o di una parte di esso avente tutte le caratteristiche di un mercato geografico distinto” (cfr. art. 29, par. 2, del Regolamento). 144 L’art. 3 b), aggiunto dal Trattato sull’Unione europea firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993 (ora art. 5, secondo la numerazione del Trattato di Amsterdam del 1997), stabilisce infatti che la Comunità sia chiamata ad intervenire soltanto se e nella misura in cui gli obbiettivi dell’azione prevista non possono essere realizzati dagli Stati membri. 91 attraverso una immediata ponderazione dei vantaggi e dei costi in termini di competitività del mercato connessi all’esecuzione di un determinato accordo. Giova peraltro osservare che il meccanismo introdotto con il Regolamento n. 1/2003, se certamente comporta notevoli vantaggi sotto il profilo della speditezza e dello snellimento delle procedure attribuite alla competenza della Commissione, implica tuttavia un dato da non sottovalutare. Il congegno della eccezione legale si traduce infatti nella restituzione agli operatori economici di un ampio margine nell’esercizio della autonomia privata, assegnando ad essi il compito di valutare autonomamente se gli accordi conclusi presentano profili di illiceità o meno. Ne consegue dunque una maggiore responsabilizzazione delle imprese, con tutti i rischi che ciò comporta dal punto di vista della realizzazione degli obbiettivi di tutela del mercato 145 . In ordine alle autorizzazioni in deroga, invece, la conseguenza più evidente del nuovo regime è il venir meno del carattere costitutivo del provvedimento di esenzione. Delineati per sommi capi i tratti generali dei temi di diritto antitrust che si affacciano nella trattazione del tema, sembra a questo punto opportuno procedere ad una disamina (critica) delle tesi che sono state sino ad ora offerte dalla elaborazione dottrinale e giurisprudenziale in merito alla interazione tra l’infrazione antitrust (relativamente alla quale sussistano gli estremi per una dichiarazione di nullità) e l’attività negoziale (per lo più standardizzata ed uniforme) successiva con cui ciascuna delle imprese colluse si 145 lega alla clientela a valle. In merito si veda L. TOFFOLETTI, Riforma del diritto antitrust comunitario: giudizio di esenzione e diritti dei singoli, in Giur. comm., n. 4/2002, I, p. 417 ss. 92 CAPITOLO II NULLITA’ DELLE INTESE ANTITRUST E CONTRATTI A VALLE: ANALISI CRITICA DELLE RICOSTRUZIONI 1. Premessa La necessità di stabilire in che misura l’agire negoziale a valle possa ritenersi pregiudicato e condizionato dall’accertamento - da parte dell’Antitrust - d i una violazione delle regole poste a salvaguardia della concorrenzialità del mercato, ha sollecitato - come anticipato nel Capitolo I - l’intervento della dottrina e della giurisprudenza le quali, interroga ndosi sugli effetti che i contratti conclusi da ciascuna impresa aderente all’intesa con la propria clientela (conformemente al programma concordato) subiscono per il porsi quale “precipitato” dell’illecito anticoncorrenziale, hanno fornito nel tempo risposte di diverso tenore 1 . 1 In dottrina il tema è stato trattato marginalmente già da G. GORLA, Il contratto, Milano, 1955, vol. I, p. 214 ss., il quale, nell’individuare il limite di liceità dell’agire negoziale nella non dannosità sociale dell’atto di autonomia, si pone il problema se tale limite non sia violato dai contratti finalizzati ad alterare le condizioni del mercato oppure diretti a monopolizzarlo, nonché da quelli indirizzati a vincolare in varia misura la libera esplicazione di attività economica, risolvendolo tendenzialmente in senso affermativo. Sempre cenni sull’argomento si leggono, con specifico riferimento alla violazione delle regole dettate dagli artt. 81 (ex 85) e 82 (ex 86) del Trattato CE, in T. A SCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, op. cit., p. 163 ss., che conclude nel senso della nullità di qualsiasi incontro di consensi che abbia, anche indirettamente, effetti anticoncorrenziali. Più ampia attenzione al problema è dedicata da P.G. M ARCHETTI, Boicottaggio e rifiuto di contrattare, Padova, 1969, p. 35 ss., il quale - seppure muovendo dall’analisi della problematica relativa alla individuazione della disciplina applicabile ai contratti che producano effetti diretti di boicottaggio perviene alla conclusione, di portata tendenzialmente generale, secondo cui non è possibile procedere ad una considerazione separata delle regole di concorrenza e delle regole disciplinanti l’esercizio dell’autonomia privata, affermando pertanto che la violazione delle prime, realizzata attraverso la conclusione di atti negoziali, determina la nullità di questi ultimi, appunto perché diretti a realizzare un risultato non meritevole di tutela. In analoga prospettiva si pone anche G.B. FERRI , Ordine pubblico, buon costume e la teoria del contratto, Milano, 1970, p. 223 ss., che, interrogandosi anch’egli sulla validità dell’atto di autonomia che si pone in conflitto con le regole del mercato, tende a rispondere che l’eventuale violazione delle medesime dovrebbe determinare la nullità del contratto, e ciò sul rilievo che il limite dell’utilità sociale di cui all’art. 41 Cost. implica che gli atti in cui si esplica la libertà di iniziativa economica debbano essere valutati non solo in rapporto “all’incidenza effettiva su singole posizioni soggettive”, ovvero delle parti, ma anche nella loro “possibilità e capacità di incidere su tutti i consociati” ed in particolare “sui valori fondamentali che reggono la società e ne caratterizzano il sistema economico”. A questi atti, afferma l’Autore, deve pertanto 93 La radice della divergenza tra le pronunce che si sono succedute sul punto nasce in particolare dalla difficoltà incontrata nel ricostruire la natura del rapporto intercorrente tra l’illecito antitrust e le vicende negoziali susseguenti, ovvero nel dover verificare di volta in volta l’esistenza di un legame sufficientemente rilevante tra i due momenti tale da ritenere che la nullità normativamente prevista per l’infrazione concorrenziale possa essere estesa anche all’atto a valle. Nella ricerca di una soluzione al problema si sono quindi andate distinguendo diverse correnti interpretative le quali, nel concepire il contratto come un quid disgiunto dalle scelte di mercato a monte e quale microcosmo distinto dall’infrazione anticompetitiva di cui all’art. 2 (per quanto, da alcuni, supposto in un rapporto di collegamento con l’intesa), propongono percorsi che - talvolta più sensibili agli influssi del diritto comunitario - si muovono in via di principio nel solco della nostra tradizione civilistica. Tra queste - sulle quali ci si soffermerà più approfonditamente nei paragrafi a seguire - si distinguono più precisamente due (più ampie) elaborazioni del problema. La prima raccoglie coloro i quali escludono in limine la possibilità di una partecipazione dell’atto negoziale al destino di nullità dell’intesa: all’illecito anticoncorrenziale ed alla conseguente sanzione civilistica viene infatti attribuita rilevanza solo ai fini del ricorso agli ordinari strumenti impugnatori (annullabilità, risarcimento del danno e, secondo una corrente minoritaria, rescindibilità del contratto), individuando nel risarcimento del danno - posto a carico delle imprese che conformano le proprie scelte negoziali a quanto stabilito nell’accordo restrittivo a monte - il principale strumento di ristoro del pregiudizio subito dai contraenti a valle a causa delle deteriori condizioni negoziali imposte attraverso il ricorso allo strumento anticompetitivo. essere negata tutela in tutti i casi in cui si pongano in contrasto con quei valori. Sul tema del possibile conflitto tra le manifestazioni dell’autonomia privata e la tutela della concorrenzialità del mercato, si veda anche G. VETTORI , Anomalie e tutele nei rapporti di distribuzione tra imprese (diritto dei contratti e regole della concorrenza), op. cit., il quale, discostandosi dalle impostazioni sopra menzionate, ravvisa nella violazione del principio di correttezza professionale cui deve ispirarsi la competizione tra imprese, una circostanza capace di incidere sulla validità del contratto non in termini di nullità ma di “impugnabilità”. 94 La seconda, invece, riconduce unitariamente la patologia di cui soffre il contratto a valle nell’alveo dell’amplissima categoria della nullità negoziale e della relativa disciplina codicistica (art. 1418 ss. cod. civ.), presentando poi al suo interno ulteriori articolazioni interpretative 2 . Nell’ambito di quest’ultimo vasto orientamento si inquadrano infatti diverse ricostruzioni della nullità dei contratti conclusi in violazione della normativa antitrust, letta rispettivamente quale sanzione conseguente ad un vizio derivato ovvero ad un vizio proprio del negozio e riconducibile a sua volta a fonti ulteriormente diversificate. Tra queste ultime, vedremo, si distinguono, ne lla specie, la contrarietà del contratto a norme imperative di legge (da cui la nullità virtuale del contratto, per il combinato disposto degli artt. 1418, comma 1, cod. civ. e 2 della legge n. 287/1990), l’illiceità sotto il profilo della causa 3 (ex artt. 1343 e 1418, comma 2, cod. civ.) ovvero dell’oggetto contrattuale (ai sensi degli artt. 1346 e 1418, comma 2, cod. civ.). Particolare considerazione merita quindi il profilo della nullità e della fonte cui la sanzione invalidante viene di volta in volta ricondotta, con la dovuta precisazione che, in ogni caso, il discorrere (ove lo si ritenga possibile) della ricaduta dell’invalidità di un’intesa anticoncorrenziale in termini di nullità dei contratti a valle, impone in maniera imprescindibile un’attenta individuazione del parametro normativo cui fare riferimento e del relativo regime applicativo 4 . 2 Deve poi ricordarsi che, tra quanti valutano in astratto la possibilità di ricorrere alle figure dell’invalidità negoziale, vi è chi non esclude la possibilità di configurare la patologia del contratto a valle come rimedio concorrente con l’azione aquiliana. Così, ad esempio, A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 347. Del resto, già un grande maestro (cfr. F. M ESSINEO, Contratto nei rapporti col terzo, in Enc. del dir., vol. X, Milano, 1962, p. 197) aveva evocato la categoria generale del contratto a danno del terzo, che configurerebbe un atto illecito ex art. 2043 cod. civ., salvo però poi affermare, nella questione che ci occupa, che il patto di non concorrenza tra imprenditori comporterebbe per i consumatori solo un danno riflesso, irrisarcibile anche perché non nelle intenzioni immediate dei paciscenti. 3 A riguardo, F. PARRELLA, op. cit., p. 516, spiega l’improvviso interesse della dottrina per il tema e, soprattutto, la formulazione della tesi della nullità derivata - preceduta da una fase di iniziale esclusione della possibilità di far discendere la nullità dei contratti per adesione da un loro supposto contrasto con la normativa antitrust comunitaria (artt. 85 e 86 del Trattato) - anche in termini di condizionamento emotivo prodotto dalla coeva ondata di leggi a tutela dell’utente-consumatore. 4 Tra quanti ritengono che il contratto a valle sia affetto da nullità, si distinguono, come vedremo, da un lato coloro i quali attribuiscono alla sanzione il regime applicativo previsto dal codice civile, dall’altro chi invece riconduce l’invalidità del negozio alla recente figura della nullità di protezione 95 L’estrema varietà di soluzioni offerte e lo stato di dubbio tuttora permanente sul punto, suggerisce pertanto di svolgere qualche considerazione più approfondita sulle diverse tesi prospettate a riguardo, al fine di poterne apprezzare l’attendibilità, nella ricerca del rimedio più funzionale all’esigenza di garantire adeguata protezione al contraente debole e, contestualmente, stabilità e competitività nelle relazioni commerciali. 2. Intese illecite e nullità dei contratti a valle Tra coloro i quali discorrono in termini di nullità dei contratti a valle si rinviene prima di tutto, nonostante le divergenti prospettive, la presenza di un denominatore comune, incardinato nella convinzione che l’optare per una diversa soluzione condurrebbe sostanzialmente a vanificare gli obiettivi avuti di mira dal legislatore con la previsione del divieto di cui all’art. 2 della legge antitrust5 . La ricaduta estrema della invalidità di un’intesa - si afferma - è prospettabile infatti, implicitamente, dalla stessa ratio del divieto, la norma proponendosi di colpire una certa condotta ritenuta illecita non ex se, ma in quanto abbia ad oggetto ovvero quale effetto una consistente restrizione del grado di concorrenzialità del mercato interessato. L’accento posto sulla necessità di valutare l’anticoncorrenzialità della convergenza di comportamenti da parte delle imprese operanti in un dato mercato alla stregua delle conseguenze in termini “effettuali” che da questi discendono, prima ancora che dall’oggetto, induce infatti, secondo questo vasto indirizzo interpretativo, a ritenere che la nullità dell’intesa non possa non produrre riflessi che, discendendo dalle fonti comunitarie, trova ormai larghissima previsione ed applicazione nel nostro ordinamento. 5 Critico a riguardo A. M IRONE, Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, op. cit., p. 67, secondo il quale appare eccessivo far dipendere l’efficacia dell’enforcement antimonopolistico dall’invalidità dei contratti a valle, in quanto l’ordinamento possiede già sufficienti mezzi di reazione contro gli illeciti anticoncorrenziali, quali le sanzioni amministrative, le diffide, le azioni risarcitorie. All’inverso, osserva l’Autore, un’eccessiva pretesa sanzionatoria avrebbe come 96 traumatici anche sui rapporti contrattuali in cui tali effetti distorsivi sostanzialmente si concretizzano 6 . A questo comune denominatore si contrappongono tuttavia, come anticipato, posizioni divergenti e contrasti ricostruttivi in ordine alla fonte della sanzione civile ed al fondamento giuridico- formale cui ancorare la comminatoria di siffatta nullità7 . A riguardo, si distinguono in particolare due diverse ricostruzioni, delle quali l’una giustifica la nullità dei contratti a valle muovendo dal principio della invalidità derivata, ovvero da un meccanismo invalidativo che investe la vicenda negoziale in virtù di un vizio esogeno trasmesso in via riflessa dall’illecito anticoncorrenziale a monte; l’altra, invece, fonda la valutazione negativa dei singoli atti conclusi dall’impresa collusa con la propria clientela in ossequio al contenuto dell’intesa, non in ragione di un elemento esterno al contratto e riconducibile al rapporto che lo lega all’accordo anticoncorrenziale che lo precede, ma di un vizio endogeno, che ne inficia la validità da un punto di vista costitutivo, riguardando a sua volta il profilo della causa o dell’oggetto negoziale. Secondo quest’ultima corrente interpretativa, pertanto, la nullità del contratto discenderebbe non da una patologia derivata e riflessa che, originata nell’intesa a monte, si propaga automaticamente alle situazioni giuridiche sottostanti, ma da un probabile conseguenza una progressiva tendenza a ridurre l’area dell’illecito, con effetti ben più gravi sul livello di concorrenzialità del sistema economico. 6 La centralità del piano effettuale dell’illecito è sottolineato in particolare con riguardo a quegli accordi che non rivestono rilevanza giuridica in quanto carenti dell’abito negoziale e per i comportamenti rilevanti solo di fatto in quanto effetto di pratiche concordate conseguenti all’abuso di una posizione dominante singola o collettiva. In queste fattispecie, si osserva, un’interpretazione letterale e strettamente formale della norma (per quanto sostenuta da parte della dottrina) che commina la nullità ai soli accordi, sarebbe del tutto insufficiente a cogliere le manifestazioni di abuso di posizione dominante individuale o di gruppo vietate dall’art. 3 della legge n. 287/90 che concretamente turbano la concorrenza. La necessità di colpire tutte le pratiche anticoncorrenziali, anche qualora queste si svolgano attraverso comportamenti puramente fattuali, sposterebbe quindi il piano applicativo della sanzione al comportamento infrattivo solo nel momento in cui l’abuso o la pratica concordata vengono a concretizzarsi attraverso la stipulazione del successivo contratto a valle. Pertanto, la previsione dell’art. 2, comma 3, della legge antitrust non potrebbe che assumere effettiva portata applicativa - e c iò soprattutto, come rilevato, con riguardo a quelle pratiche restrittive che si esprimano attraverso comportamenti meramente fattuali od informali - soltanto attraverso un’estensione della sanzione invalidativa alla vicenda negoziale che dà concreta attuazione al programma concordato a monte o nel quale si sostanzia l’abuso di una posizione di dominanza sul mercato. 7 In merito alla nullità quale sanzione civile, si vedano le celebri pagine di N. IRTI, La nullità come sanzione civile, in Contratto e Impr., 1987, p. 541 ss. 97 agente patogeno interno, idoneo ad inficiarne l’integrità da un punto di vista strutturale, toccandone gli elementi costituivi. Sia nell’una che nell’altra ricostruzione la nullità dei contratti a valle - pur spiegata alla luce di un diverso ancoraggio normativo - è considerata quale soluzione ottimale, almeno da un punto di vista astratto, al fine di poter rimuovere gli effetti negativi derivanti alla collettività ed al mercato dalla spontanea osservanza dell’intesa. Allo stesso tempo, però, la considerazione delle conseguenze di ordine pratico cui l’effettiva declaratoria di nullità dei contratti conclusi sulla falsariga dell’illecito antitrust conduce, ed il rischio di dare così ingresso ad una soluzione che urta in realtà contro quel valore di utilità sociale che pur si vuole tutelare e ripristinare, induce - escludendo per un attimo coloro i quali ritengono che l’unica forma di tutela, per chi in ragione dell’intesa ha dovuto concludere un contratto a condizioni deteriori rispetto a quelle concorrenziali, sia quella rappresentata dall’azione risarcitoria di cui all’art. 33 della legge antitrust - quanti persistono nel professare la tesi dell’invalidità a circoscriverne l’ambito di operatività. Si osserva infatti che il riconoscimento dello strumento invalidativo a valle per violazione della norma imperativa che fa divieto di tenere comportamenti collusivi anticoncorrenziali a monte comporterebbe il rischio di vedere la declaratoria di nullità trasformata surrettiziamente in strumento di lotta concorrenziale. La legittimazione attiva a far valere la nullità, enunciata dall’art. 1421 cod. civ., “a chiunque vi abbia interesse”, attribuirebbe infatti ad ogni impresa concorrente comprese le partecipanti all’intesa - il potere di agire al fine di caducare i suddetti contratti8 . Colpire con la sanzione della nullità i contratti a valle potrebbe quindi rivelarsi controproducente per la tutela degli interessi della stessa parte a fa vore della quale la misura invalidativa sarebbe pure prevista, in particolar modo considerando che la 8 In questo senso, in particolare, A. TOFFOLETTO, op. cit., p. 340 s. Si osservi, peraltro, che simile rischio è più apparente che reale, dovendosi tenere presente che la legittimazione ad esperire l’azione volta ad accertare la nullità del vincolo negoziale non può essere riconosciuta in maniera indiscriminata, dovendosi restringere la portata dell’art. 1421 cod. civ. con la necessaria sussistenza ripetuta ormai da tempo dalla giurisprudenza - di un interesse concreto all’azione, ai sensi dell’art. 100 c.p.c. 98 relativa pronuncia giudiziale potrebbe intervenire quando la controparte dell’impresa non è più in grado di provvedere alla restituzione della prestazione ricevuta. Si è poi rilevato il rischio insito nell’introduzione all’interno del sistema di uno strumento (l’azione di nullità, appunto) in grado di condurre alla presumibile disfatta economica delle imprese coinvolte nell’illecita collusione, atteso che queste ultime potrebbero trovarsi nell’incapacità di far fronte alle obbligazioni restitutorie derivanti dall’accertamento della nullità del vincolo negoziale 9 . Per questa ragione, coloro i quali persistono nel propugnare la tesi della nullità dei contratti a valle provvedono poi in larga parte a connotarne la disciplina conformemente al più vasto trend normativo di derivazione comunitaria - in termini di nullità relativa10 , posta cioè nell’interesse esclusivo della controparte negoziale della singola impresa collusa, e necessariamente parziale, ovverosia estesa solo a quelle clausole che costituiscono l’effettiva e pedissequa riproduzione all’interno del microcosmo negoziale di quanto previamente statuito a monte. Di questi profili si darà più largamente conto nel prosieguo dell’indagine, dovendoci al momento soffermare sulle diverse ricostruzioni che, dell’unitaria tesi della nullità dei contratti a valle, la dottrina e la giurisprudenza hanno fornito sino ad ora. 2.1. L’invalidità derivata e relative critiche La prima ricostruzione, come accennato, identifica l’invalidità dei singoli contratti a valle, di per sé strutturalmente perfetti, quale effetto riflesso della nullità dell’intesa illecita, riguardata quale presupposto essenziale della sequenza negoziale sottostante 11 . 9 Così ancora A. TOFFOLETTO, op. cit., p. 343, il quale argomenta la propria critica alla tesi della nullità del contratto per contrarietà a norma imperativa considerando che questa soluzione potrebbe essere praticabile solo imponendo alle imprese l’onere di attuare una politica di continuo accantonamento di riserve, con le quali eventualmente far fronte alle obbligazioni restitutorie derivanti dalla sentenza giudiziale con cui si dichiara l’invalidità del pactum; una politica questa, soggiunge l’Autore, che implicherebbe costi eccessivamente alti per il mercato. 10 Di questo avviso, A. BERTOLOTTI, Illegittimità delle norme bancarie uniformi, op. cit., p. 345. 11 In questo caso si ravvisa quindi un’ipotesi di collegamento negoziale tra l’intesa a monte ed il contratto a valle. A proposito, si ricordi che, in prima approssimazione, il concetto di “collegamento 99 Questa interpretazione poggia quindi sulla sussistenza di un nesso di causalità ovvero di un collegamento in senso tecnico tra l’intesa ed i contratti conseguenti, alla stregua del quale - in applicazione del principio simul stabunt simul cadent questi ultimi verrebbero ad essere colpiti in via automatica e derivata dalla invalidità di cui all’art. 2, comma 3, della legge n. 287/90. Secondo questa ricostruzione, in particolare, la nullità dell’infrazione concorrenziale dovrebbe ripercuotersi negli stessi termini su tutti i negozi accessori che si trovino in rapporto di collegamento funzionale con il negozio principale 12 . Ragionare in termini diversi, si afferma, significherebbe infatti che la previsione di nullità dell’intesa sarebbe inutiliter data qualora non potesse estendersi, lasciandoli immuni, anche ai contratti che di dette collusioni costituiscono sostanziale esecuzione e nella cui stipulazione si ravvisano quegli effetti restrittivi alla libertà di competizione che la normativa antitrust intende reprimere là dove contrattuale” suggerisce di per sé l’idea di un nesso o legame tra due o più atti negoziali. Il vincolo, come rileva A. RAPPAZZO, I contratti collegati, Milano, 1998, pp. 10-11, può essere meramente casuale od occasionale, ovvero necessario, se discende dalla natura stessa dei contratti ed, infine, può essere volontario e funzionale se è effetto della volontà dei contraenti. Questi ultimi, in particolare, costituiscono una delle possibili manifestazioni della libertà delle parti di determinare il contenuto del regolamento pattizio ex art. 1322, comma 1, cod. civ. (così G. FERRANDO, I contratti collegati, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fondata da W. Bigiavi, I contratti in generale, vol. III, I requisiti del contratto, Torino, 1991, p. 587). Come possono liberamente determinare il contenuto dei contratti che vanno a stipulare, del pari le parti possono infatti concludere più contratti i quali, pur conservando l’individualità e le caratteristiche del tipo negoziale di appartenenza alla cui disciplina rimangono rispettivamente sottoposti, vengono tuttavia funzionalmente e teleologicamentre collegati tra di loro in rapporto di interdipendenza. Limite oggettivo al collegamento, afferma F. M ESSINEO, Contratto collegato, in Enc. del diritto, vol. X, Milano, 1962, p. 49, è dato, naturalmente, dalla non contrarietà a norme imperative, al buon costume o all’ordine pubblico e dal fatto che il collegamento non tenda a realizzare la frode alla legge. Peraltro non è necessario che i soggetti dei contratti collegati siano i medesimi (cfr. Cass. 30 ottobre 1991, n. 11638, in Mass. Giur. it., 1991), anche se occorre che il secondo contratto abbia in comune col primo almeno una delle parti (in tal senso anche F. M ESSINEO, op. ult. cit., p. 48). La prima formalizzazione “della portata valutativa e non meramente descrittiva” del collegamento negoziale è riscontrabile, secondo M. NUZZO, I contratti del consumatore tra legislazione speciale e disciplina generale del contratto, cit., p. 316, nell’art. 125 della legge bancaria, la cui disciplina evidenzierebbe l’emersione sul piano del diritto positivo dell’unità dell’operazione in cui si compongono i contratti di fornitura e di finanziamento. La configurazione normativa di una fattispecie di collegamento, afferma l’Autore, che si sovrappone per alcuni profili alle fattispecie dei singoli negozi “consente di ritenere che, rispetto a questa, debbono considerarsi parti tutti i soggetti coinvolti nell’operazione. (…) Lo schema legale supera dunque la formale autonomia dei due contratti, che vengono considerati unitariamente, con la conseguenza di rendere nuovamente opponibili al finanziatore le eccezioni relative al contratto di vendita”. 12 M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, cit., p. 298. 100 dichiara le intese nulle “ad ogni effetto” (art. 2, legge n. 287/1990) o “di pieno diritto” (art. 81 del Trattato) 13 . Con riguardo alla descritta soluzione, peraltro, sono state mosse diverse obiezioni 14 . La tesi dell’invalidità derivata, si afferma da alcuni, pur suggestiva, si presenta supportata da considerazioni per lo più metagiuridiche 15 . Affermare che la previsione di nullità dell’intesa è sostanzialmente priva di portata precettiva se non può estendersi anche ai contratti a valle non troverebbe infatti alcun fondamento nel dato normativo. Innanzitutto, si rileva, l’invalidità potrebbe considerarsi inutiliter data solo in relazione allo specifico caso in cui l’intesa consista in una deliberazione di un’associazione di imprese avente ad oggetto la regolamentazione dei futuri rapporti contrattuali con la rispettiva clientela, e non anche in relazione alla generalità dei casi di intese fra imprese. Ciò considerato, si deve quindi riconoscere che il divieto previsto dalla norma di cui all’art. 2, comma 3, continua comunque a conservare un campo di applicazione vastissimo, tale da non poterne in alcun modo inferire l’inutilità applicativa. Sul piano delle valutazioni politiche e di opportunità, si contesta poi l’unità e l’opportunità di estendere una sanzione drastica come la nullità ad operazioni del tutto autonome ed indipendenti dalla collusione, considerando la soppressione dell’intesa in via amministrativa quale rimedio sufficiente all’eliminazione degli 13 Di questo avviso, A. BERTOLOTTI, Illegittimità delle norme bancarie uniformi per contrasto con le regole antitrust ed effetti sui “contratti a valle, op. cit., p. 351, secondo il quale “vi è un nesso non solo logico, ma anche giuridicamente vincolante tra l’intesa ed il contratto a valle… ne discende che l’illegittimità di quella non può non riflettersi su questo”. Di contrario avviso, invece, con riguardo al medesimo caso, è A. M IRONE, Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, cit., p. 74, secondo cui il divario esistente tra raccomandazione di categoria relativa alle n.b.u. (non vincolante) formulata dall’ABI e condizioni generali di contratto adottate dalle singole banche aderenti all’associazione romperebbe qualunque ipotesi di collegamento. Contrario alla tesi della invalidità derivata, per la difficoltà di ravvisare una qualche forma di collegamento, volontario o involontario, tra intesa a monte e contratto a valle è pure A.M. AZZARO, I contratti non negoziati, Napoli, 2001. 14 Così G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, cit., p. 81 ss., il quale ritiene ostacolo non trascurabile quello di considerare una pratica concordata o una deliberazione di associazione di imprese come il primo dei due termini negoziali fra i quali ravvisare un collegamento. A questo proposito, si veda anche A. M IRONE , op. cit., p. 71. 15 In questo senso, F. PARRELLA, op. ult. cit., p. 539. 101 effetti anticoncorrenziali, senza la necessità di comminare la nullità anche ai contratti a valle, in questo modo trovando un ragionevole compromesso tra l’esigenza di salvaguardia della concorrenzialità del mercato e l’esigenza di stabilità dei rapporti contrattuali fra imprese e clienti. Perché il meccanismo dell’invalidità derivata possa propagarsi dall’infrazione anticoncorrenziale ai sottostanti contratti a valle è poi in ogni caso necessario accertare preliminarmente l’esistenza di un nesso di indissolubile dipendenza con l’intesa a monte, legame questo che non sembra invece riscontrarsi, almeno in linea generale, con riguardo alla gran parte dei casi in cui, al contrario, le intese mostrano di non costituire un tutt’uno con i contratti a valle, di non essere a questi collegati né per legge né per volontà delle parti e di non rappresentarne in alcun modo un presupposto di esistenza, validità od efficacia 16 . I contratti fra la singola impresa ed il cliente, piuttosto, derivano in via esclusiva dall’autonomia privata dei contraenti, ovvero da una autonoma manifestazione di consenso da cui può discendere anche l’eventuale recepimento all’interno del regolamento contrattuale delle singole clausole riproduttive dell’illecita determinazione congiunta, rendendole così vincolanti per le parti17 . La circostanza che l’impresa collusa, per poter svolgere in maniera efficiente e proficua la propria attività, debba pianificare la condotta uniformando a tale programma le manifestazioni della propria autonomia privata 18 , non è quindi considerata sufficiente a privare il successivo contratto a valle di una autonoma ragion d’essere. 16 L’affermazione, come accennato, era riferita al rapporto intercorrente tra deliberazioni degli organi dell’ABI determinative di N.B.U. - qualificate quali intese antitrust - e disciplina dei contratti bancari per adesione contenente clausole riproduttive delle stesse N.B.U. 17 D’altro canto, si afferma con riguardo al caso bancario, se per ipotesi un cliente riuscisse a “spuntare” in sede di contrattazione individuale con la banca una clausola dal contenuto a sé più favorevole rispetto all’omologa clausola anticoncorrenziale (quale la N.B.U.), nessuno penserebbe di affermare la nullità o l’inefficacia della clausola stessa a favore della banca argomentando dalla supposta esistenza di un nesso funzionale di necessaria interdipendenza fra N.B.U. e clausole dei contratti a valle. In questi termini ancora F. PARRELLA, op. ult. cit., p. 541, nota 83. 18 Che l’agire negoziale dell’impresa sia strettamente condizionato dagli imperativi posti dalla gestione del ciclo produttivo, e che dunque non sia immaginabile un’attività contrattuale che non sia conformata alle regole previamente predisposte e programmate a tal fine dall’imprenditore, sembra ormai un dato sufficientemente acquisito. A questo proposito, in particolare, si veda L. SAMBUCCI , Il contratto dell’impresa, op. cit. 102 L’invalidità dell’intesa, dipendente dall’essere stata la singola condotta negoziale previamente concordata con le imprese concorrenti, non si ritiene quindi suscettibile di riflettersi automaticamente sui successivi e diversi atti attraverso cui l’impresa medesima, conformandosi al programma illecitamente prefissato, esplica la propria attività contrattuale. La rilevanza di questo piano di azione resterebbe infatti circoscritta alla sfera personale dell’imprenditore, senza influire in alcun modo sul processo decisionale della clientela, in tal modo escludendo qualunque fine illecito comune 19 . Il dato è confermato pure dalla giurisprudenza di merito, secondo la quale l’ipotesi della nullità derivata “cade con l’errato presupposto di un collegamento negoziale”, in realtà non ravvisabile, “posto che alle intese tra imprese sono totalmente estranei, sia sotto il profilo formale che economico, i consumatori, e posto che l’intesa tra banche espressa nelle n.b.u. non ha ad oggetto un obbligo di contrattare con terzi” 20 . Pertanto, si conclude, “non è dunque configurabile un negozio complesso che abbracci i due fenomeni” 21 . La nullità derivata del contratto concluso tra impresa e cliente, di conseguenza, potrebbe ravvisarsi solo in quei rari casi in cui il singolo atto negoziale può qualificarsi come accessorio all’intesa vietata, ovvero non solo collegato a quello principale da un nesso teleologico- funzionale, ma anche dalla volontà delle parti in ordine al vincolo di reciproca subordinazione che deve instaurarsi tra i due negozi22 . 19 Contro la tesi dell’invalidità derivata, osserva G. GUIZZI, op. cit., p. 82, nota 25, milita anche il carattere non necessariamente negoziale delle intese restrittive della concorrenza. Infatti, se si accetta la premessa secondo cui la nullità dei contratti stipulati da ciascuna impresa aderente all’intesa vietata in conformità alla stessa è una nullità derivata, sostiene l’Autore, si dovrebbe trarre anche il corollario per cui tale misura non potrebbe mai colpire gli atti negoziali a valle, ad esempio, di una pratica concordata, non potendosi in questo caso ragionare in termini di nullità nemmeno con riguardo alla fattispecie comportamentale che del contratto costituisce il presupposto. La differenza in termini di conseguenze che la nullità di un’intesa a monte provocherebbe sui contratti a valle in ragione della diversa forma giuridica assunta dalla prima - negoziale o meramente comportamentale comporterebbe quindi, a parità di attitudine a pregiudicare i valori propri dell’economia di mercato una ingiustificabile disparità di trattamento, così rivelando l’irrazionalità della soluzione proposta. 20 Corte di Appello di Torino, 27 ottobre 1998, cit. 21 Cfr., ancora, Corte di Appello di Torino, 27 ottobre 1998, cit. 22 Sembra esigere la sussistenza di entrambi i profili la giurisprudenza maggioritaria, secondo la quale “le parti nell’esercizio della loro autonomia negoziale, possono dar vita a diversi contratti, che vengano concepiti e voluti come funzionalmente e teleologicamente collegati tra loro” (Cass., 25 103 E tuttavia, anche nei casi in cui si ritiene di poter ravvisare la sussistenza del presupposto di natura oggettiva (il nesso teleologico- funzionale, appunto), di particolare complessità risulta la successiva dimostrazione della partecipazione soggettiva dell’utente finale (il quale stipuli un contratto con la singola impresa collusa) al disegno anticoncorrenziale complessivo: per quest’ultimo, infatti, come rilevato, l’accordo a monte, riconducibile allo schema di un contratto normativo unilaterale, sembra rimanere quale semplice res inter alios acta23 . E se anche è vero che alle più tradizionali teorie soggettive sul collegamento negoziale paiono di recente sostituirsi ricostruzioni maggiormente obiettive, va comunque preso atto che anche queste ultime non prescindono affatto dall’analisi dell’interesse delle parti, limitandosi a correggere la formula del “collegamento per volontà delle parti” con quella di “collegamento per atto di volontà delle parti” 24 , ponendo dunque l’accento sulla proiezione oggettiva dell’intento dei contraenti nell’esercizio della loro privata autonomia 25 . Si ricordi inoltre che, benché l’identità delle parti dei due negozi non sia requisito imprescindibile per il loro collegamento negoziale, quando difetti tale identità - come appunto nel caso dell’intesa e dei contratti da essa derivati “l’intento delle parti di consentire a un tale collegamento è meno scontato e richiede una prova rigorosa, perché in questi casi è ben più probabile che l’unitarietà del risultato perseguito da uno soltanto dei contraenti non determini un’interdipendenza funzionale” 26 . agosto 1988, n. 8410, in I Contratti, 1999, p. 336; conf., Cass., 15 febbraio 1980, n. 1126; in dottrina, M. GIORGIANNI, Negozi giuridici collegati, in Riv. it. sc. giur., 1937). Sul punto si veda, altresì, V. DI NANNI, Collegamento funzionale e funzione complessa, Napoli, 1984. 23 Così G. GUIZZI, op. ult. cit., p. 82 e F. PARRELLA, op. ult. cit., p. 507. In giurisprudenza, si veda Corte di Appello di Torino, 27 ottobre 1998, cit., secondo cui l’ipotesi della nullità derivata “cade con l’errato presupposto di un collegamento funzionale”, in realtà non ravvisabile, “posto che alle intese tra imprese sono totalmente estranei, sia sotto il profilo formale che economico, i consumatori, e posto che l’intesa tra banche espressa nelle n.b.u. non ha ad oggetto un obbligo di contrattare con terzi; non è dunque configurabile un negozio complesso che abbracci i due fenomeni”. 24 Così V. DI NANNI, I negozi collegati nella recente giurisprudenza (note critiche), in Dir. e giur., 1976, p. 130. 25 G. FERRANDO, I contratti collegati, op. cit., pp. 594-595. Sottolinea come l’antitesi tra teorie soggettive ed oggettive sia più apparente che reale G. LENER, Profili del collegamento negoziale, Milano, 1999, p. 17 ss. 26 Cass., 25 novembre 1998, n. 11942. Sul punto, G. LENER, op. ult. cit., p. 176 ss. 104 Secondo questa giurisprudenza, pertanto, affinché sia riscontrabile un collegamento, non è sufficiente che il regolamento di interessi sia unitario con riguardo a uno solo dei contraenti (quello che è parte di tutti i contratti), all’insaputa o senza la partecipazione dell’altro, essendo al contrario necessario che tutte le parti lo abbiano voluto. In questa ottica, pertanto, l’invalidità - di per sé prevista per la sola intesa - si ripercuote in via derivata sul contratto concluso tra impresa e cliente in via esclusivamente eventuale, anche in considerazione del fatto che essa rimane esposta all’incertezza con cui è di volta in volta individuato il livello di connessione minima necessaria perché la nullità a monte possa trasmettersi a valle 27 . Il rinvio alla figura del collegamento negoziale non rappresenta una soluzione soddisfacente anche ove si consideri che la regola generale di estensione dei vizi tra negozi collegati opera, proprio con riguardo alla nullità, con una certa cautela. A questo proposito, i giudici fanno espresso rinvio all’art. 1419 cod. civ. 28 sostenendo che, se l’intesa ed i contratti a valle possono ritenersi funzionalmente legati da un rapporto di reciproca interdipendenza, allora la nullità prevista per la prima travolge necessariamente l’intero regolamento di interessi. Si aggiunge inoltre che invocare l’art. 1419 cod. civ. (in maniera necessariamente tronca) per affermare la nullità, anziché la salvezza del contratto in sé non viziato (secondo il principio vitiatur sed non vitiat enunciato dalla norma), rappresenta indubbiamente una forzatura 29 . 27 Con riferimento al rapporto tra n.b.u. e contratti bancari, il collegamento era, ad esempio, ammesso da A. BERTOLOTTI, Illegittimità delle norme bancarie uniformi per contrasto con le regole antitrust, ed effetti sui “contratti a valle”: un’ipotesi di soluzione ad un problema dibattuto, cit., p. 351. Il nesso è, invece, radicalmente negato da A. M IRONE, op. cit., p. 74, secondo il quale lo iato esistente tra raccomandazione di categoria relativa alle n.b.u. e condizioni generali adottate dalle singole banche spezzerebbe in radice qualunque ipotesi di collegamento. 28 Si veda, ad esempio, Cass., 18 gennaio 1988, n. 321, in Giust. civ., 1988, I, p. 1214. 29 Un principio di questo tipo, rileva C. LO SURDO, Il diritto della concorrenza tra vecchie e nuove nullità, in Banca, borsa e tit. cred., n. 2/2004, p. 190, appartiene piuttosto a sistemi diversi dal nostro, quale quello tedesco, il cui § 139 BGB adotta una prospettiva rovesciata, in base alla quale la nullità di una parte del contratto si estende automaticamente all’intero regolamento negoziale, salvo che quest’ultimo possa continuare a vivere senza la parte caducata. Le regola di cui al § 139, in particolare, è fondata su due principi in base ai quali, in primo luogo, la parte interessata alla conservazione del contratto è gravata dall’onere di fornire elementi sufficienti per vincere la presunzione legale di nullità integrale dell’atto; in secondo luogo, ove l’apprezzamento della volontà ipotetica delle parti non possa altrimenti fondarsi, si fa prevalere, nel dubbio, la nullità dell’intero contratto disposta dalla legge. Peraltro, sottolinea l’Autrice, già da diverso tempo si registra anche 105 La circostanza che la giurisprudenza faccia ricorso ad una norma che il nostro diritto dispositivo non contempla si ritiene debba essere interpretata come il segno della difficoltà di trovare un soddisfacente fondamento a soluzioni che possono essere invece acquisite nella prassi (la nullità di tutti i contratti collegati) 30 . 2.2. L’illiceità della causa Alla tesi della nullità in termini derivativi e riflessi si aggiungono, come anticipato, quanti - prescindendo dall’accertamento del tipo di rapporto che lega l’atto negoziale all’infrazione antitrust - riconducono la nullità del contratto a valle ad un vizio proprio, ovvero alla illiceità endogena di uno dei requisiti costitutivi di cui all’art. 1325 cod. civ. Tra queste ricostruzioni, in particolare, quella che giustifica la nullità alla stregua della illiceità della causa attribuisce carattere illecito ai singoli contratti stipulati sulla falsariga di un’intesa vietata ravvisando in essi gli estremi di una diretta violazione, alternativamente, della norma imperativa di cui all’art. 2 della legge antitrust 31 , oppure del principio generale di ordine pubblico economico di libera concorrenza 32 . nella giurisprudenza tedesca la tendenza ad interpretare ed applicare la norma come se accogliesse alla stessa stregua del nostro ordinamento - la regola dell’utile per inutile non vitiatur. 30 Così C. LO SURDO, op. ult. cit., p. 190, che, a riguardo, si rifà alle riflessioni conclusive di G. LENER, op. cit., p. 237. 31 In questo senso, ad esempio, L. DELLI PRISCOLI, La nullità dell’intesa anticoncorrenziale da parte del giudice ordinario, nota a Cass. 1° febbraio 1999, n. 827, cit., p. 231, e (con specifico riguardo ai contratti conclusi in esecuzione di restrizioni verticali della concorrenza stipulati tra distributori e consumatori in cui il produttore abbia imposto i prezzi al distributore) ID., Le restrizioni verticali della concorrenza, Milano, 2002, pp. 156-157, ove l’Autore, criticando l’impostazione della pronuncia di legittimità, ritiene che i contratti a valle siano sì nulli, ma ex art. 1418, comma 2, cod. civ., per illiceità della causa, “perchè conclusi in violazione della norma imperativa rappresentata dal comma 2 dell’art. 2 - che vieta la fissazione concordata dei prezzi di vendita - e non per la nullità che colpirebbe il comportamento anticoncorrenziale”. L’Autore ritiene quindi che il giudizio di nullità “attiene soltanto al negozio giuridico con il quale due o più imprese si accordano per coordinarsi in modo da creare una situazione concorrenziale a loro favorevole e non anche all’effettiva messa in atto del comportamento distorsivo della concorrenza”. Contestando dunque l’affermazione della Corte, che ravvisa nella previsione dell’art. 2 un’ipotesi di nullità “ulteriore”, l’Autore interpreta la sanzione invalidativa quale nullità che, come le altre previste dal nostro ordinamento giuridico, “si riferisce ad un negozio giuridico, rappresentato dal patto anticoncorrenziale concluso dalle imprese”. A questo fine, inoltre, l’Autore opera un parallelo tra la norma citata e l’art. 9 della legge n. 192 del 1998 in materia di subfornitura, sostenendo che dal 106 Ogni contratto, infatti - secondo questa ricostruzione - nella misura in cui costituisce lo strumento che consente all’impresa di conseguire concretamente quel maggior profitto rappresentato dalla differenza tra quanto potrebbe ricavare contrattando in regime di concorrenza e qua nto in concreto ricava in ragione dell’eliminazione della competizione realizzata grazie all’intesa, persegue un interesse non meritevole di tutela. Le singole clausole negoziali corrispondenti al contenuto della vietata determinazione, in quanto illecite sotto il profilo causale, sono quindi invalide 33 . confronto dell’art. 2, comma 3, della legge antitrust con l’art. 9, comma 3, di quest’ultima disciplina può ricavarsi ulteriore conferma del fatto che la nullità di cui all’art. 2 riguarda soltanto il patto attraverso il quale si realizza la distorsione della concorrenza e non anche la situazione concorrenziale determinatasi a seguito dell’esecuzione dell’accordo da parte delle imprese che vi abbiano preso parte. L’Autore poi, in I controlli sui prezzi nei contratti d’impresa, in Riv. dir. comm., 2000, pp. 100-101, parzialmente modificando la propria tesi, ma confermando la nullità per illiceità della causa dei contratti d’impresa a rilevanza pubblica posti in esecuzione di un’intesa diretta a fissare i prezzi di vendita, o quelli stipulati imponendo prezzi ingiustificatamente gravosi abusando della propria posizione dominante, osserva che il concludere diversamente con riguardo all’ipotesi di accordo illecito porterebbe ad una ingiustificata disparità di conseguenze tra due condotte - quelle previste dall’art. 2 e dall’art. 3 della legge antitrust - “del tutto omogenee e dai confini non nettamente definiti”. Infatti, poiché l’art. 3 vieta l’imposizione dei prezzi ingiustificatamente gravosi, sarebbe impossibile obiettare che tale norma non sia una norma imperativa direttamente violata dai contratti conclusi tra grande impresa e consumatori. In merito a quest’ultimo profilo, si veda anche, del medesimo Autore, L’abuso di dipendenza economica nella nuova legge sulla subfornitura: rapporti con la disciplina delle clausole abusive e con la legge antitrust, in Giur. comm., 1998, I, p. 833 ss. 32 Aderiscono alla tesi della nullità derivata per illiceità della causa del contratto già stipulato, in quanto venuta in contrasto con un principio di ordine pubblico economico: S. LA CHINA, Commento sub art. 33, in Concorrenza e mercato, a cura di G. Alpa e V. Afferni, Padova, 1994, p. 647 ss.; Tribunale di Roma, 20 febbraio 1997, in Giur. comm., 1999, II, p. 449 ss., con nota di A.V. GUCCIONE, Intese vietate e contratti individuali a valle: alcune considerazioni sulla c.d. invalidità derivata, secondo cui “(…) l’accertata violazione delle norme in materia di concorrenza nella predisposizione delle norme bancarie uniformi non può non comportare conseguenze sulla validità delle clausole che risultino inserite nei singoli contratti con la clientela. Queste clausole, in quanto predisposte in contratti-tipo articolati dall’ABI ed applicati da tutte le aziende di credito, costituiscono una violazione del principio di libertà di concorrenza che, in linea di principio, si configura come una delle caratteristiche della libertà di iniziativa economica sancita dall’art. 41 della Costituzione. In tal modo risulta violato il c.d. ordine pubblico economico e la clausola contrattuale è nulla per illiceità della causa ai sensi dell’art. 1343 cod. civ.”. In questo senso anche N. SALANITRO, Disciplina antitrust e contratti bancari, cit., p. 420 il quale peraltro rileva come la situazione sia più incerta, invece, con riguardo ai contratti da stipulare: se le clausole vengono ugualmente inserite nei contratti anche in mancanza di deliberazioni formali, la loro illegittimità a livello antitrust dovrà essere accertata sul piano applicativo in termini di comportamenti paralleli o di pratica concordata. 33 In questo senso si è espressa la Corte di Appello di Brescia con sentenza 29 gennaio 2000, in Foro it., 2000, I, p. 2679 ss. ed in Giur. it., 2000, p. 1876 ss., con nota di A. BERTOLOTTI, Ancora su norma antitrust e contratti a valle, in ordine ad un’intesa - ritenuta illecita dall’Autorità Garante con provv. 28 aprile 1993, n. 1087, in Giur. dir. ind., 1993, p. 826 ss. - stipulata tra la società convenuta (Novogas s.p.a.) ed altre imprese operanti nel settore della distribuzione del gpl per uso domestico. Con la pronuncia, in particolare, la Corte ha sancito la nullità virtuale dei contratti di somministrazione e comodato stipulati da ciascuna società fornitrice con la propria clientela 107 Secondo questa prospettiva, pertanto, il contratto a valle si pone nei confronti della norma imperativa di cui all’art. 2 alla stressa stregua dell’intesa che ne costituisce l’antefatto. Come chiarito nel Capitolo I, infatti, la dottrina è sostanzialmente concorde nel ricondurre l’invalidità del comune state of minds sancita dalla normativa antimonopolistica nazionale quale ipotesi sanzionatoria conseguente al contrasto tra l’elemento causale dell’accordo tra le imprese colluse ed il principio generale del libero mercato. La nullità del contratto a valle per illiceità della causa, in quanto contraria alla norma imperativa dell’art. 2 della legge antitrust, viene sostenuta anche da chi ritiene sufficiente che l’autonomia privata, pur non superando la soglia di rilevanza che giustifica l’intervento dell’Autorità garante (e dunque anche al di fuori del campo di applicazione delle norme imperative della legge antitrust), sia esercitata in modo tale da perseguire finalità contrarie al principio di concorrenza effettiva all’interno di un determinato mercato. La nullità di cui all’art. 2 della legge n. 287/1990 non costituisce altro - secondo questa visione - che una specificazione dell’indicazione di principio contenuta nel comma 2 dell’art. 41 Cost. 34 , per cui neanche la definizione legale di una soglia dimensionale minima - al di sotto della quale non si giustifica l’avvio di un’azione amministrativa da parte dell’Autorità nazionale - vale ad escludere una valutazione in termini di illiceità della causa degli accordi (minori) lesivi della concorrenza (come pure di illiceità degli abusi monopolistici commessi in piccoli mercati). utilizzando lo schema contrattuale uniforme, comprensivo di vincolo di esclusiva, predisposto dalla convenuta. Nella medesima direzione si era mosso anche il Tribunale di Roma il quale, con la pronuncia citata nella nota che precede, ha ritenuto nulle le clausole contenute nei singoli contratti stipulati tra la banca ed i propri clienti, riproducenti Norme Bancarie Uniformi qualificate dalla Banca d’Italia come intese vietate per illiceità della causa ex art. 1343 cod. civ. in quanto contrastanti con la libertà di concorrenza e quindi con l’ordine pubblico economico. 34 Favorevole ad una lettura della nullità dei contratti che perseguano finalità anticoncorrenziali è M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., pp. 445-446, per il quale “la presenza di una normativa specifica non esclude la possibilità di dichiarare nulli atti privati anticoncorrenziali che, per qualsiasi ragione, non rientrino nell’ambito di applicabilità dell’art. 2”. Così pure V. SCALISI , Nullità e inefficacia nel sistema europeo dei contratti, in Eur. e dir. priv., 2001, p. 492, secondo cui la nullità delle intese, sancita dalla disciplina comunitaria (e, mutatis mutandis, quella nazionale ) “è sicuramente da ricondurre ad illiceità della causa”. 108 Una tesi assolutamente minoritaria - su cui non si ritiene di doversi dilungare prospetta poi la nullità dei contratti a valle quale conseguenza dell’illiceità della causa per frode alla legge ex art. 1344 cod. civ. 35 , interpretando questi ultimi come lo strumento attraverso il quale le singole imprese tendono sostanzialmente ad eludere il divieto di cui all’art. 2. 2.2.1. Critiche Anche a questa ricostruzione sono state mosse diverse critiche. Il primo ordine di contestazioni muove innanzitutto dal concetto di “causa-concreta” e dalla considerazione della differente natura che i contratti conclusi da chi svolge attività d’impresa presentano a seconda che li si guardi, rispettivamente, dalla prospettiva dell’imprenditore ovvero della controparte. Mentre l’inerenza teleologica del contratto a valle all’attività d’impresa vale a spiegare la ragione dell’atto negoziale dal lato dell’imprenditore - risolvendosi quest’ultimo nello strumento attraverso il quale l’impresa concretamente realizza il fine cui istintivamente tende, l’extraprofitto 36 - lo stesso discorso non può infatti essere svolto con riguardo al singolo contraente a valle il quale, lungi dall’utilizzare il contratto quale strumento volto al perseguimento di uno scopo ulteriore e indiretto (anticoncorrenziale), esaurisce il proprio interesse nella realizzazione del fine tipico dell’atto concluso. Data la premessa, si conclude nel senso che l’impossibilità di ricostruire un comune intento delle parti circa l’interesse pratico perseguito mediante la stipulazione del contratto a valle, non consente di ragionare con riguardo a quest’ultimo atto negoziale in termini di causa illecita. Quanti criticano questa tesi, in particolare, oppongono che di illecito nei contratti a valle c’è al più solo il movente di una delle parti, quella che intende attuare l’intesa vietata. 35 L’ipotesi è astrattamente prospettata da V. SCALISI , op. ult. cit., p. 492 e da M. MELI , op. cit., p. 134. 36 A questo riguardo si veda ancora L. SAMBUCCI , Il contratto dell’impresa, op. ult. cit., p. 211 ss. 109 Il fine dell’impresa collusa di realizzare per via negoziale un profitto superiore a quello conseguibile in un regime di leale competizione resterebbe dunque relegato entro i confini della sfera soggettiva dei motivi individuali, non comuni e come tali giuridicamente irrilevanti, atteso che “un motivo illecito unilaterale non è sufficiente per determinare l’invalidità di un contratto”37 . Accanto alla critica di quanti affrontano il problema partendo da un concetto di causa concreta, si pongono poi (giungendo in sostanza alle medesime conclusioni) coloro i quali contestano la prospettata tesi della nullità dei contratti a valle partendo invece dal concetto di causa quale funzione economico-sociale dell’atto negoziale. Sorvolando per opportunità di indagine l’annosa disputa che ha visto la dottrina e la giurisprudenza dividersi intorno al concetto di causa accolto dal nostro ordinamento - analisi che richiederebbe bel altro impegno e competenza -, ci si limita a ricordare che quest’ultima ricostruzione del problema esclude la possibilità di ragionare in termini di causa illecita con riguardo ai contratti a valle di un’intesa anticoncorrenziale quante volte i primi rientrino tra i tipi legali previsti dal nostro legislatore. Sul punto, si rileva, non potrebbe nemmeno astrattamente prospettarsi un’ipotesi di illiceità sul piano causale dei contratti che riproducono sostanzialmente la determinazione anticoncorrenziale, attesa la previa e non censurabile indagine in termini di liceità effettuata dal legislatore nella stessa costruzione del tipo corrispondente 38 . 37 P. SCHLESINGER, Sul problema della responsabilità per i danni derivanti dalla violazione dei divieti previsti dal progetto governativo di legge a tutela della concorrenza, in Riv. soc., 1960, p. 737, nota 24. In senso critico, A. BERTOLOTTI, Ancora su norme antitrust e contratti a valle, cit., p. 1876; L.C. UBERTAZZI , Concorrenza e norme bancarie uniformi, op. cit., p. 101, G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., p. 83. 38 Così dicasi, ad esempio, con riguardo al contratto di conto corrente, all’apertura di credito ed alla fideiussione, in ordine ai quali - in quanto tipizzati dal legislatore e dunque sottoposti ad una preventiva valutazione in termini di liceità della causa - non potrebbe in alcun modo pronunciarsi alcun giudizio di illiceità sotto il profilo causale. In questi termini si esprime il Tribunale di Alba, 12 gennaio 1995, in Giur. it., 1996, I, p. 225, con nota di G. ROSSI , Effetti della violazione di norme antitrust sui contratti tra imprese e clienti: un caso relativo alle norme bancarie uniformi, il quale esclude altresì che, con riguardo ai citati contratti, possa parlarsi di frode nei confronti dei terzi. Nell’ordinamento vigente infatti, afferma il Tribunale richiamando la estesa giurisprudenza del giudice di legittimità, non esiste alcuna norma che sancisca in via generale la nullità del contratto in frode ai terzi, “i quali sono tutelati soltanto in particolari situazioni e cioè con l’azione di nullità ove questa sussista ovvero con l’azione revocatoria”. 110 2.3. L’illiceità dell’oggetto Nella ricerca del nesso logico- giuridico idoneo a giustificare la propagazione della sanzione invalidatoria prevista per l’infrazione concorrenziale a monte anche al contratto a valle, parte della dottrina e della giurisprudenza prospettano la possibilità di ancorare simile ricaduta all’illiceità dell’oggetto di quest’ultimo atto negoziale. La soluzione invalidativa viene in particolare ravvisata in quei soli casi in cui esso riproduce e veicola il contenuto concordato nell’intesa vietata. Nella misura in cui il contratto assorbe nella sua interezza o all’interno di singole clausole le statuizioni della concertazione a monte, il suo oggetto è ritenuto illecito (ed il contratto nullo) ai sensi del combinato disposto degli artt. 1418, comma 2, e 1346 cod. civ. Ciò avverrebbe, si osserva, con riguardo alle intese aventi ad oggetto l’adozione di condizioni contrattuali uniformi (come nel caso delle n.b.u.), ovvero nei cartelli di prezzo, in cui l’illecita determinazione viene solitamente - attesa l’impossibilità per la controparte (terza rispetto all’intesa) di negoziare quanto fissato previamente nell’accordo inter- imprenditoriale - riprodotta senza alcuna variazione né margine di modifica all’interno del regolamento negoziale 39 . 2.3.1. Critiche Le argomentazioni critiche addotte a confutare la tesi della nullità del contratto a valle per illiceità dell’oggetto muovono dalla considerazione che, se è vero che l’art. 2 della legge antitrust fa divieto alle imprese attualmente o potenzialmente concorrenti di colludere nella definizione di standard comportamentali omogenei (tali da pregiudicarne l’indipendenza di azione sul mercato), ad esempio fissando prezzi di vendita uniformi, deve pure riconoscersi che l’illiceità ed il contrasto tra il contenuto del contratto e la norma imperativa non concernono tanto il prezzo in sé, quanto la modalità attraverso il quale è formato. 39 L’ipotesi è paventata da A. BERTOLOTTI, Ancora su norme antitrust e contratti a valle, op. cit., p. 1877; ID., Illegittimità di norme bancarie uniformi (NBU) per contrasto con regole antitrust ed effetti sui “contratti a valle”: una ipotesi di soluzione a un problema dibattuto, cit., p. 351. 111 Di conseguenza, se si ammette che non ogni contrarietà a norma imperativa comporta la nullità del contratto, ma solo quella che attiene al precetto negoziale in sé, non è immaginabile a rigore alcun contrasto tra il contratto a valle che recepisce il prezzo fissato concordemente e la norma dell’art. 2. 2.4. La nullità virtuale dei contratti a valle dell’intesa anticoncorrenziale Le critiche mosse alle teorie descritte sinora non sono comunque invalse ad indurre la dottrina ad abbandonare la tesi della nullità dei contratti a valle, ricostruita, secondo un’interpretazione più neutra, attraverso la norma dettata dall’art. 1418, comma 1, cod. civ. 40 , ai sensi del quale “il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente”. L’assunto della tesi che riassume in termini di nullità virtuale la ricaduta sui contratti a valle dell’infrazione anticoncorrenziale, consiste nel ritenere che i singoli atti negoziali - che trovano nell’illecita collusione la loro fonte primigenia, dando alle finalità illecite di essa concreta attuazione - contrastano direttamente con la norma imperativa dettata dall’art. 2 della legge antitrust 41 . Posto che le norme a tutela della concorrenza costituiscono nell’ambito dell’ordinamento italiano un corpus organico di norme imperative - il cui carattere inderogabile sarebbe confermato dalla sanzione di nullità che colpisce l’intesa a monte - si ritiene che anche con riguardo ai contratti a valle debba essere ravvisata - in mancanza di un’espressa previsione normativa - un’ipotesi di nullità, riconducibile, in particolare, al disposto dell’art. 1418, comma 1, cod. civ. 40 La disposizione contempla la figura della nullità virtuale, vale a dire una nullità che discende dalla contrarietà a norme imperative prive di espressa comminatoria al riguardo e che deve desumersi dal sistema in ragione della natura dell’interesse protetto: quanto alla dottrina, si veda, tra i molti contributi a riguardo, C. M. BIANCA, Il contratto, in Diritto civile, vol. III, Milano, 2000, p. 582 ss.; G. DE NOVA , Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. crit. Dir. priv., 1985, p. 435 ss.; M. NUZZO, Negozio illecito, in Enc. giur., vol. XX, Roma, 1990, p. 6. Non mancano, peraltro, in dottrina voci contrastanti: R. TOMMASINI, Nullità, cit., p. 878 e R. SACCO, Il contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, vol. II, Torino, 1993, p. 475. 41 In questo senso soprattutto G. SELVAGGI , Abuso di posizione dominante, in Giur. it., 1992, IV, p. 134 ss.; G. A LPA, La riformulazione delle condizioni generali dei contratti delle banche, in I 112 Infatti, poiché il principio di leale e corretta competizione è entrato a pieno titolo tra i principi di ordine pubblico del nostro sistema 42 , consegue che anche ogni contratto che annulla nel contraente più debole la possibilità di fatto, attraverso patti che rendono antieconomica (nel caso di specie) la risoluzione del contratto, di rivolgersi ad imprese concorrenti, violando perciò il principio della libertà di mercato e della libera concorrenza, non può che essere valutato negativamente proprio perché contrastante con norme imperative ed inderogabili. In questo caso, si afferma, il divieto posto dall’art. 2 della legge antitrust viene in rilievo in considerazione non solo, o non tanto, nel proporsi di colpire una certa condotta, quanto nel contrastare gli effetti distorsivi che ne conseguono, pena, in difetto, di vederne sostanzialmente vanificato lo scopo. Scopo della disposizione è da un lato di integrare lo statuto normativo dell’impresa, attraverso limiti diretti ad impedire - attraverso condotte concordate volte a convertire ad una logica tendenzialmente monopolistica settori altrimenti competitivi - sensibili ed artificiali alterazioni della struttura concorrenziale del mercato; dall’altro a salvaguardare la libertà ed insieme la possibilità di scelta di quanti, nell’ottica del singolo rapporto di scambio, si rivolgono al mercato per soddisfare i propri bisogni (di consumo e non). I due piani della tutela, rispettivamente della concorrenza e dell’utilizzatore finale, vengono così collegati e la nullità individuata in relazione al secondo profilo, viene ricondotta espressamente alla figura della nullità virtuale, ex art. 1418, comma 1, cod. civ. 2.4.1. Critiche alla tesi della nullità virtuale per contrasto con la norma imperativa di cui all’art. 2 della legge antitrust Anche questa impostazione, per la verità, ha suscitato perplessità di varia natura. Contratti, 1996, p. 5 ss; G. ROSSI , Effetti della violazione di norme antitrust, nota a Trib. Alba 12 gennaio 1995, cit., p. 220. 42 Il principio di libertà di concorrenza, come già rilevato, “si configura come una delle caratteristiche della libertà di iniziativa economica sancita dall’art. 41 della Costituzione” (così il Tribunale di Roma, sentenza 20 febbraio 1997, cit., con nota di A.V. GUCCIONE, Intese vietate e contratti individuali a valle: alcune considerazioni sulla c.d. invalidità derivata). 113 Le argomentazioni addotte a confutare la tesi che riconduce la sanzione inferta ai contratti a valle alla diretta violazione della norma imperativa di cui all’art. 2, comma 2, della legge n. 287/1990, poggiano innanzitutto sulla considerazione che, diversamente da quanto accade nelle ipotesi di illiceità dell’oggetto o della causa del contratto, la nullità di un atto negoziale consegue solo di regola e non in via necessitata e costante alla violazione di una norma imperativa, tanto da non poterne sostenere la verificazione in via generale 43 . Sebbene si riconosca la possibilità di attribuire una portata più ampia al divieto antitrust - esteso a ricomprendere non solo la definizione concordata di standard 43 Il punto, sviluppato da G.B. FERRI , Ordine pubblico, buon costume…, op. cit., p. 162, è ripreso pure da G. DE NOVA , Il contratto contrario a norme imperative, op. cit., p. 435 ss. In particolare, le incertezze sollevate a riguardo hanno indotto dottrina e giurisprudenza a selezionare criteri quanto più possibile univoci e certi per stabilire in quali ipotesi la violazione di una norma imperativa da parte di un atto negoziale ne determini l’invalidità. A questo fine si è quindi posta attenzione, di volta in volta, al dato formale rappresentato dalla struttura della disposizione, a quello sostanziale del rango della norma violata, al criterio della direzione della norma proibitiva (in base al quale la nullità discenderebbe solo quando il divieto posto dalla norma violata sia destinato ad essere osservato da entrambi i contraenti e non quando si indirizzi ad uno solo di essi), sino a giungere al criterio dell’interesse protetto dalla norma violata, così distinguendo tra i casi in cui il precetto sia dettato a salvaguardia di interessi individuali e privati e le ipotesi in cui invece sia pensato a tutela di interessi pubblici, ricollegando la nullità virtuale solo a quest’ultimo caso. In proposito, G. GUIZZI, Mercato concorrenziale…, op. cit., pp. 95-96, ritiene che il contratto debba esser considerato nullo solo nelle ipotesi in cui il contrasto tra norma imperativa e regola negoziale si ponga in maniera diretta, “quando cioè la norma violata rivolga la sua proibizione all’atto nella sua efficacia privatistica, nella sua attitudine a generare obbligazioni”. A riguardo si veda altresì, da ultimo, A. A LBANESE , Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Milano, 2003. La questione è emersa in maniera evidente anche nelle indagini relative alle conseguenze in punto di validità per il negozio giuridico posto in essere in violazione di norme penali. Nell’ambito di queste ricerche (svolte ragionando rispetto alle ipotesi del delitto di truffa di cui all’art. 640 cod. pen.), in particolare, si è sottolineato che l’illiceità penale si atteggia in modo diverso quando il contratto costituisca solo il mezzo per realizzare l’intento fraudolento vietato (ad esempio, Tizio induce Caio, con artifici e raggiri, a pagare per un prezzo di 100 euro un bene che in realtà ne vale 10), rispetto al caso in cui è la regola negoziale a violare direttamente il precetto legislativo (Tizio conclude un contratto con Caio con cui si obbliga a truffare Sempronio). Mentre infatti nel primo caso è il comportamento di una delle parti (e non il contratto) ad essere illecito, nella seconda ipotesi è proprio la determinazione negoziale ad essere disapprovata. Da questo consegue che, mentre nel primo caso la validità del contratto non si riflette in alcun modo sull’interesse sociale a che siano puniti comportamenti truffaldini (essendo tale interesse soddisfatto dall’applicazione della sanzione penale) e residuando soltanto un problema di tutela dell’interesse della parte truffata a veder reintegrato in via risarcitoria il proprio patrimonio, nel secondo la validità stessa dell’atto negoziale non potrebbe essere tollerata al fine di salvaguardare l’interesse della collettività. Ove si riconoscesse validità al contratto, infatti, dovrebbe poi conseguentemente ammettersi anche la possibilità per le parti di agire al fine di ottenerne l’esecuzione in via giudiziale (e dunque di agire esecutivamente per l’adempimento di un rapporto criminoso). Per un’analisi specifica del problema con riguardo alla fattispecie penale, si rinvia a F. VASSALLI, In tema di norme penali e nullità del negozio giuridico, in Riv. crit. dir. priv., 1985, p. 467 ss.; M. RABITTI, Contratto illecito e norma penale. Contributo allo studio della nullità, Milano, 2000. 114 comportamentali illeciti da parte delle imprese, ma anche (come del resto espressamente dispone il divieto di intese “che abbiano ad oggetto o per effetto” la consistente restrizione del mercato) la loro esecuzione - si ritiene comunque che la possibilità di configurare una ricaduta della ratio della norma dell’art. 2 sulla disciplina negoziale delle singole operazioni negoziali non sia sufficiente a sostenere che la violazione del precetto dia luogo alla nullità, ai sensi dell’art. 1418, comma 1, cod. civ., dei contratti stipulati a valle da ciascuna delle imprese aderenti alla collusione anticompetitiva 44 . Perché possa aversi questa forma di invalidità non basta infatti - alla luce delle considerazioni generali che precedono - la semplice violazione della norma imperativa dell’art. 2, ma occorre di più, ovvero che per effetto di tale violazione si determini una situazione di oggettiva incompatibilità tra il precetto posto dalla disposizione antimonopolistica e la regola negoziale contenuta nei contratti a valle dell’intesa. In altri termini, perché sia possibile ragionare nell’ottica descritta è necessario che la proibizione contenuta nella norma, che fa divieto alle imprese di conformare la propria condotta e le proprie scelte strategiche secondo standard comportamentali illeciti, investa anche il precetto che le parti si sono date ed in base al quale intendono disciplinare i propri rapporti. E tuttavia, ciò viene escluso nel caso di specie, osservando in primo luogo che la proibizione dettata dalla legge antitrust non condanna in maniera diretta il contenuto degli atti negoziali, ma un comportamento che si pone a monte e prima di questi, pur condizionando il processo decisionale (la volontà) dell’altro contraente e dunque compromettendo la formazione del pactum45 . 44 Taluno esclude (cfr. G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., p. 100) la possibilità di ravvisare un contrasto diretto tra regolamento pattizio e precetto imperativo anche là dove - come nel caso dei cartelli sui prezzi e delle condizioni generali - il contenuto dei contratti a valle abbia una maggiore inerenza all’intesa a monte. 45 Su questa posizione sembrano attestarsi anche la dottrina tedesca e la giurisprudenza americana. Quest’ultima, in particolare, ritiene che la nullità del contratto sia da escludere quante volte il divieto della norma imperativa non sia rivolta direttamente al contenuto tipico del contratto. In questo caso, infatti, non potrebbe in alcun modo asserirsi che il contratto sia intrinsecally illegal. Per i profili comparatistici, si veda C. VILLA, Contratto e violazione di norme imperative, Milano, 1993, p. 2, nota 1. 115 Partendo dall’assunto che il rapporto tra norme imperative proibitive ed agire negoziale non si atteggia in maniera univoca, si osserva infatti che altrettanto differenziata deve essere la valutazione delle conseguenze che la violazione di una norma imperativa, in ragione della ratio che la connota, può produrre sull’atto di autonomia privata. Atteso che le norme imperative proibitive (tra cui certamente rientrano le disposizioni antimonopolistiche) agiscono in maniera diversa a seconda che colpiscano, rispettivamente, la condotta dei paciscenti che precede la stipulazione di un contratto, il negozio inteso come valore 46 (cioè l’attitudine a divenire fonte di obbligazioni giuridiche vincolanti), o gli effetti materiali conseguenti all’instaurazione di un certo assetto di interessi, si ritiene che la qualificazione in termini di nullità ex art. 1418, comma 1, cod. civ., può essere ravvisata solo nei casi in cui l’eliminazione della rilevanza giuridica del vincolo negoziale rappresenta l’unico mezzo attraverso il quale scongiurare o prevenire la lesione dell’interesse protetto dalla norma. Perché possa inferirsi la nullità virtuale di un atto è quindi necessario che il contrasto si ponga direttamente tra precetto imperativo e regola negoziale, quando cioè la norma violata rivolge la sua proibizione proprio all’attitudine del negozio a generare obbligazioni. Al di fuori di questa eventualità la nullità virtuale del contratto si ritiene al contrario da escludere 47 . Ad un esito diverso dalla invalidità - ed al riconoscimento della rilevanza giuridica del programma negoziale - deve quindi giungersi con riguardo alle ipotesi in cui la norma proibitiva è rivolta a sanzionare la condotta materiale tenuta da una delle parti a danno dell’altra nella fase che precede la conclusione del contratto48 , 46 L’espressione, formulata in origine da B. DE GIOVANNI, Fatto e valutazione nella teoria nel negozio giuridico, Napoli, 1958, è stata ripresa da G.B. FERRI , Il negozio giuridico tra libertà e forma, Rimini, 1995. 47 Il punto è stato sviluppato attentamente con riguardo al negozio giuridico posto in essere in violazione di norme penali. A questo proposito si rinvia nuovamente a F. VASSALLI e a M. RABITTI, opp. ultt. citt. 48 Si faccia, a riguardo, l’esempio di chi, con una condotta truffaldina, induca taluno a concludere un contratto di per sé pregiudizievole. 116 come pure quando essa intende evitare che il contratto, inteso come fatto, possa essere strumentalizzato per la realizzazione di effetti ulteriori49 . Anche accettando la premessa secondo cui il divieto di concludere intese restrittive della concorrenza implica quello di dare esecuzione alle stesse e quindi di svolgere un’attività negoziale corrispondente nei contenuti all’accordo illecito, si nega quindi che la violazione dell’art. 2 possa aprire il varco ad un giudizio di liceità della regola negoziale espressa dai contratti in cui la fissazione congiunta di modelli comportamentali uniformi si concretizza. Tessendo le fila del discorso, pertanto, si esclude che il contratto che si colloca a valle di un’intesa anticoncorrenziale nulla possa subire il medesimo destino ricorrendo alla categoria della nullità virtuale - in forza di un contrasto diretto con la norma antitrust. La circostanza che un’impresa determini congiuntamente (e dunque illecitamente) ad altre concorrenti i termini del proprio agire negoziale, approfittando, alla luce della situazione non-competitiva che si viene a creare, della menomata libertà della controparte di orientare altrove la domanda dei beni (e dunque, in virtù delle considerazioni in precedenza svolte, anche dello stesso regolamento pattizio) oggetto di intesa, non viene quindi ritenuta quale causa idonea a provocare la nullità del contratto a valle, ma (semmai) di conseguenze di altra natura. L’esclusione di un contrasto diretto tra contratti a valle e art. 2 della legge antitrust viene negato anche da chi, in linea più generale, focalizza l’attenzione sul dato normativo nazionale (oltre che del corrispondente comunitario) il quale, si 49 Questo il caso, ad esempio, del contratto con obbligo di esclusiva realizzato in modo tale da sortire un effetto di boicottaggio nei confronti di un imprenditore concorrente. Nella prospettiva esposta, pertanto, la nullità di un’intesa per la ripartizione dei mercati non potrebbe comunicarsi ai contratti conclusi da ciascuna impresa con i propri clienti nelle rispettive zone di esclusiva, proprio perché il contrasto con la norma imperativa attiene in questo caso, non al contenuto del contratto individuale, ma solo al comportamento complessivo delle altre imprese che, osservando il patto, si astengano dall’intervenire nelle zone riservate. Il profilo è rilevato da G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., p. 100; A. BERTOLOTTI, Ancora su norme antitrust e contratti a valle, cit., p. 1877; M. NEGRI , Risarcimento del danno da illecito antitrust e foro per la tutela del consumatore (la Cassazione non dilegua i dubbi nella vicenda RC auto), op. cit., p. 754. 117 rammenta, sancisce espressamente la nullità delle sole intese tra imprese 50 , con ciò escludendo la possibilità di estendere la sanzione per violazione diretta della disposizione ai contratti conclusi tra impresa e cliente. Una sicura delimitazione dell’area degli atti che in ipotesi potrebbero essere dichiarati nulli per violazione diretta delle norme contenute nella disposizione antitrust, discenderebbe quindi dallo stesso dato letterale, in virtù del quale devono essere esclusi dall’area dell’invalidità di cui all’art. 2, comma 3, i contratti stipulati fra impresa e cliente 51 . Ciò, peraltro, solleva il proble ma se fra questi ultimi contratti debbano rientrare anche quelli in cui il cliente rivesta la qualifica di imprenditore. In questo caso, infatti, sul piano formale il contratto risulta stipulato fra due imprese, potendo allora sorgere il dubbio che esso integri già di per sé la fattispecie di intesa lesiva della libertà di concorrenza configurata dalla norma proibitiva. Tuttavia, si osserva, non vi è ragione di stabilire un trattamento dei contratti fra impresa e cliente sulla base della natura imprenditoriale o non di quest’ultimo considerando illeciti e quindi nulli soltanto quei contratti in cui il cliente esercita un’attività imprenditoriale. Se così fosse, la sanzione della nullità sarebbe applicabile in via diretta soltanto ai contratti a valle in cui come controparte dell’impresa figuri un altro imprenditore. La non condivisibilità della conclusione astrattamente ipotizzata, porta quindi a ritenere che debba escludersi dall’area di diretta incidenza del divieto qualunque contratto stipulato dalla singola impresa collusa con i propri clienti a valle, esercitino o meno attività imprenditoriale. 50 Così F. PARRELLA, Disciplina antitrust nazionale e comunitaria, nullità sopravvenuta, nullità derivata e nullità virtuale…, cit., pp. 536-538. 51 Cfr. T. A SCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, cit., p. 168, ad avviso del quale la declaratoria di nullità dei contratti stipulati con la clientela in esecuzione di un cartello fra imprese è esclusa dalla “sistematica dell’art. 85 che riferisce espressamente divieto e nullità all’accordo tra imprenditori”. 118 2.5. L’invalidità del contratto a valle come ipotesi di nullità di protezione Tra gli autori che accolgono, o comunque ipotizzano, la tesi della nullità si distinguono poi quanti propongono un regime normativo dell’invalidità diverso da quello consegnatoci dalla disciplina codicistica, avanzando soluzioni sub specie nullitate in linea con il recente modello comunitario. Assumendo quale obiettivo primario la tutela del contraente più debole, tali ricostruzioni hanno il merito di divergere in maniera evidente dal regime normativo tradizionale, proprio allo scopo di attenuarne le conseguenze caducatorie. Gli inconvenienti pratici derivanti dall’affermazione di una nullità dei contratti a valle ricostruita secondo il dettato degli artt. 1418 ss. cod. civ. inducono infatti a calibrare diversamente il paradigma normativo cui dare applicazione. Parte della dottrina, parzialmente discostandosi dagli indirizzi esposti ne i paragrafi che precedono, propone quindi - conformemente al criterio del minimo mezzo e del principio generale di conservazione del contratto - la tesi della nullità di protezione, caratterizzata dagli elementi della legittimazione relativa, della non rilevabilità d’ufficio e della parzialità necessaria 52 , e della quale non si ritiene fuori luogo ricostruire, nelle linee più generali, i tratti caratterizzanti. A riguardo, notevole interesse rivestono le nullità previste (per citare solo alcune delle ipotesi ormai largamente diffuse di queste nullità) dal Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (D. lgs. 1° settembre 1993, n. 385), ed in particolare la norma dell’art. 127, la quale da un lato ammette la derogabilità alla disciplina prevista a tutela del cliente o del consumatore solo in senso ad essi favorevole53 , 52 In questi termini, A. BERTOLOTTI, Illegittimità delle norme bancarie uniformi, cit., p. 345. L’ultimo importante esempio di nullità di protezione ci viene offerto dall’art. 7 del D. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 che, in materia di transazioni commerciali, sancisce la nullità degli accordi sulla data del pagamento (o sulle conseguenze del ritardo) che “risultino gravemente iniqui a danno del creditore”, disponendo poi che “il giudice, anche d’ufficio, dichiara la nullità dell’accordo … ovvero riconduce ad equità il contenuto dell’accordo medesimo”. Con riguardo alle nullità dettate a protezione del contraente debole G. PASSAGNOLI, Nullità speciali, op. cit., p. 27 ss. L’esigenza di un trattamento differenziato della nullità in relazione agli interessi da tutelare costituisce ormai un dato acquisito dalla dottrina: cfr. in tal senso, P.M. PUTTI, La nullità parziale. Diritto interno e diritto comunitario, Napoli, 2002, p. 7 ss. e S. POLIDORI , Discipline della nullità e interessi protetti, Napoli, 2001, p. 39 ss. 53 Lo strumento dell’inderogabilità c.d. relativa è impiegato in numerose norme del codice civile o di leggi speciali. Si pensi, per citare solo alcuni esempi, alla disciplina del contratto di assicurazione 119 dall’altro stabilisce che la nullità conseguente alla violazione delle norme in questione può essere fatta valere solo dal contraente protetto 54 . Previsioni dello stesso tenore si riscontrano, altresì, nell’art. 23 del D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, che, nel disciplinare i contratti relativi ai servizi finanziari offerti dalle società di intermediazione mobiliare, oltre a richiedere a pena di nullità la forma scritta (comma 1), stabilisce che “è nulla ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro onere a suo carico” (comma 2) e che in entrambi i casi la nullità può esser fatta valere solo dal cliente (comma 3). Alle norme richiamate deve essere ora aggiunta anche la regola prevista dall’art. 1519- octies, comma 1, cod. civ. (rubricato “Carattere imperativo delle disposizioni”), introdotta nel tessuto codicistico dall’art. 1 del D. lgs. 2 febbraio 2002, n. 24, ai sensi del quale “è nullo ogni patto, anteriore alla comunicazione al venditore del difetto di conformità, volto ad escludere o limitare, anche in modo indiretto, i diritti riconosciuti dal presente paragrafo. La nullità può esser fatta valere solo dal consumatore e può essere rilevata d’ufficio anche dal giudice”. Con queste norme - si afferma pacificamente - ha quindi trovato riconoscimento nel nostro ordinamento la discussa e controversa figura della nullità relativa, la cui ammissibilità sul piano dogmatico è stata per lungo tempo oggetto di acceso dibattito 55 . inderogabile in senso sfavorevole al cliente (art. 1932 cod. civ.), all’inderogabilità della normativa che prevede il diritto dell’agente all’indennità in caso di cessazione del rapporto (art. 1751, comma 6, cod. civ., come modificato dall’art. 4 del d. lgs. n. 303/91) e all’inderogabilità in peius delle norme poste a tutela del lavoratore subordinato (art. 2113 cod. civ., come modificato dall’art. 6 della l. n. 533/73). 54 La legittimazione relativa ad agire, peraltro, è già prevista in via generale dall’art. 1421 cod. civ. il quale, nel prevedere che “la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse”, fa salve le diverse disposizioni di legge. 55 Prima dei recenti interventi del legislatore, infatti, si contestava la stessa ammissibilità della nullità relativa (ne dà atto C.M. BIANCA, Il contratto, op. cit., p. 632). Ritiene inconcepibile la figura, ad esempio, R. SCOGNAMIGLIO, Inefficacia (Dir. priv.), in Enc. giur., vol. XVI, Roma, 1988, p. 11 e F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1971, p. 247, il quale nega l’esistenza della categoria e riconduce le ipotesi in cui la legge pone limitazioni alla legittimazione a far valere la nullità alla categoria dell’annullabilità. Critico a riguardo, L. M ENGONI, La disciplina delle “clausole abusive” e il suo innesto nel corpo del codice civile, in Rass. giur. en. el., 1997, p. 301, nota 10. Si ricordi, inoltre, che la tesi della nullità di protezione era stata sollevata anche con riguardo alla disciplina generale dei contratti del consumatore (art. 1469-bis ss. cod. civ.), con particolare riguardo alla soluzione della inefficacia di cui all’art. 1469-quinquies. Senza ripercorrere 120 Ulteriore deviazione rispetto alla disciplina generale della nullità, anch’essa dettata da esigenze di protezione del contraente debole, si rinviene nelle ipotesi in cui il legislatore esclude, in deroga al principio di cui all’art. 1419, comma 1, cod. civ., che la nullità parziale o di singole clausole possa estendersi all’intero contratto, a prescindere dalla considerazione della volontà ipotetica delle parti e dall’esistenza di norme imperative sostitutive, allorché l’obiettivo primario del riequilibrio della disparità sostanziale intercorrente tra i contraenti imponga la conservazione del contratto, depurato della parte affetta da nullità. Costituisce emblematico esempio di questo principio l’art. 124, comma 5, del citato D. lgs. n. 385/93, secondo cui in caso di nullità di singole clausole contrattuali il contratto resta valido per la restante parte, opportunamente integrata dalla disciplina legale dispositiva, che individua i criteri atti alla determinazione delle condizioni economiche che regolano il rapporto. Peraltro, queste peculiari figure di nullità volte, garantire specifica e rinforzata protezione ad uno dei contraenti, non configurano fenomeni occasionali privi di rilevanza sistematica, né tantomeno ipotesi eccezionali, al contrario costituendo attuazione di un più ampio obiettivo di politica legislativa e traducendosi in un nuovo tipo di intervento dello Stato nell’economia e nei rapporti tra privati. Ciò avviene, nella specie, mediante l’emanazione di disposizioni a carattere cogente volte “a dettare regole al mercato per garantirne correttezza ed efficienza, non a sostituirlo nel ruolo di guida del processo economico” 56 . l’acceso dibattito sollevato sul punto, deve solo rilevarsi come, proprio con riferimento a tale profilo, la maggior parte della dottrina ha fatto ricorso alla teoria della nullità di protezione, caratterizzata dalla legittimazione relativa e della parzialità necessaria. Ciò, ragionando intorno al fatto che la inefficacia, deriverebbe dalla contrarietà della clausola ad una norma posta a tutela dell’interesse dei consumatori, qualificabile in termini di norma imperativa di protezione, la cui violazione determinerebbe, appunto, la nullità. Questa lettura dell’art. 1469-quinquies è riproposta da G. PASSAGNOLI, Art. 1469-quinquies, comma 1, 3 e 5, in Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, a cura di G. Vettori, op. cit., p. 158 e condivisa da M. NUZZO, Art. 1469-quinquies, comma 1 e 3, in Le nuove leggi civili comm., 1997, p. 777; S. M ONTICELLI, Dalla inefficacia della clausola vessatoria alla nullità del contratto, in Rass. dir. civ., 1997, p. 565; G. OPPO, Lo “squilibrio” contrattuale tra diritto civile e diritto penale, in Riv. dir. civ., 1999, p. 533, con riferimento alle disposizioni in materia di usura introdotte dalla legge n. 108/96. Dubbi in ordine alla riconducibilità alle figure di invalidità esprime A. ORESTANO, L’inefficacia delle clausole vessatorie: “contratti del consumatore” e condizioni generali, in Riv. crit. dir. priv., 1996, p. 501. 56 Queste le parole di L. M ENGONI, Autonomia privata e Costituzione, op. cit., p. 3. 121 In questo modo, tra l’altro, si verifica una significativa convergenza tra i valori della Costituzione, che individua nell’utilità sociale e nei valori della persona i limiti dell’iniziativa economica privata, e le istanze di derivazione comunitaria, che perseguono l’obiettivo primario del corretto funzionamento della concorrenza quale mezzo per garantire non solo la pari libertà di iniziativa economica degli imprenditori che operano sul mercato, ma allo stesso tempo la libertà di scelta individuale dell’acquirente che a tali operatori si rivolge per il soddisfacimento dei propri bisogni. La forza innovatrice della fonte comunitaria è dunque tale da rendere inadeguata rispetto alla mutata realtà normativa una ricostruzione in termini di eccezionalità delle disposizioni che ad essa danno attuazione, travolgendo così i tradizionali modelli dogmatici, non suscettibili di essere assunti quali schemi predefiniti ed immutabili 57 . Da questa prospettiva, quindi, il modello europeo di nullità risulta dotato di una ratio intrinsecamente coerente con l’assetto di interessi regolato, che si esprime attraverso norme riconducibili ad una fondamentale decisione di sistema, a sua volta fondata su di un principio generale di supremazia gerarchica o di autonoma competenza normativa 58 . Le nullità cosiddette “speciali”, pertanto, si mostrano in grado di incidere significativamente nella ricostruzione del diritto comune dei contratti, al quale le corrispondenti previsioni sono legate da un nesso di reciproca interdipendenza ed integrazione. Come evidenziato, infatti, le singole previsioni contemplate nei vari settori dell’ordinamento giuridico, non solo configurano nuove fattispecie di invalidità negoziale soggette alla disciplina generale per tutti quegli aspetti che risultino compatibili con la disciplina speciale, ma concorrono altresì a definire i tratti essenziali di quella figura unitaria di nullità di cui costituiscono una specificazione. 57 Così N. LIPARI , Il ruolo del notaio nella nuova realtà delle nullità contrattuali, in Spontaneità del mercato e regole giuridiche, Relazione al XXXIX Convegno nazionale del notariato, Milano, 2002, p. 233. 58 Essenziali le considerazioni svolte in questo senso da V. SCALISI , Nullità e inefficacia nel sistema europeo dei contratti, op. cit., pp. 503-504. 122 Questo ruolo dei “diritti secondi”59 , in particolare, riconosciuto con riguardo alle disposizioni che hanno trovato accoglimento all’interno del corpo del codice civile 60 , si estende anche a quelle che, pur collocate fuori da esso, presentano il medesimo valore formale. Il mutato quadro legislativo, pertanto, ha imposto all’interprete un ripensamento in merito alla categoria generale della nullità la quale si presenta diversificata e graduata alla stregua dell’interesse di cui la norma violata si fa garante. A questo principio risulta appunto funzionale una nullità relativa e parziale 61 , che tenda alla conservazione del contratto, previa sostituzione della clausola nulla 62 . Le fattispecie da ultimo segnalate meritano quindi particolare attenzione, presentando evidenti analogie con il caso in esame. In applicazione di questo nuovo paradigma si afferma infatti che l’invalidità che colpisce gli atti negoziali posti in essere dalla singola impresa collusa con la propria clientela, non potrebbe che operare nell’esclusivo interesse della parte contrattualmente più debole, in questo modo rimanendo circoscritta alle sole clausole che costituiscono effettivamente una trasposizione sostanziale del contenuto dell’illecita determinazione. Il rimedio della nullità, pertanto, può essere fatto valere solo dall’utilizzatore finale controparte dell’impresa collusa, andando inoltre a colpire (ex art. 1419, comma 1, cod. civ.) esclusivamente quella parte del contenuto negoziale che traduce 59 Così C. CASTRONOVO , Il diritto civile nella legislazione nuova. La legge sull’intermediazione mobiliare, in Banca, borsa e tit. di cred., 1993, I, pp. 301-304, definisce le leggi speciali, ritenendo la locuzione preferibile allorché si faccia riferimento non alla fonte da cui la norma promana ma alla materia da essa regolata. 60 Emblematica in tal senso è la collocazione degli artt. 1469-bis ss. nella parte generale della disciplina del contratto. Sottolinea inoltre la presenza crescente di norme imperative di protezione tra le disposizioni che hanno modificato la disciplina dei singoli contratti G. DE NOVA , Il contratto ha forza di legge, Milano, 1993, p. 69 ss. 61 Cfr. G. GIOIA, op. cit., p. 23 s.; G. PASSAGNOLI, op. cit., p. 44 ss., 230 ss., 236 s. 62 G. PASSAGNOLI, op. cit., p. 238, individua quale ratio unitaria delle fattispecie di nullità di protezione - tale da giustificarne un’applicazione analogica - “la sussistenza di uno squilibrio, non eventuale ma strutturale, tra le parti contraenti, al quale un criterio normativo attribuisca rilevanza formale”, cui sarebbe riconducibile, in particolare, il divieto di abuso di posizione dominante, idoneo a determinare la nullità del contratto in cui l’abuso si sia concretizzato, proprio perché “consente, fissandone i relativi criteri, un apprezzamento a posteriori, in concreto…della sussistenza di uno strutturale squilibrio tra i contraenti (p. 243). 123 nel regolamento pattizio l’illecito anticoncorrenziale a monte, indipendentemente da qualunque indagine circa l’ipotetica volontà delle parti63 . Alla luce dell’analisi dei meccanismi di mercato, infatti, si ritengono fortemente inadeguate alla protezione dell’interesse del contraente più debole l’assolutezza della legittimazione, la rilevabilità d’ufficio (art. 1421 cod. civ.), l’imprescrittibilità dell’azione (art. 1422 cod. civ.), e l’improduttività di effetti che, come osservato poc’anzi, si predicano tradizionalmente del negozio nullo. Al contrario, il trattamento della nullità deve necessariamente adeguarsi alle esigenze dello specifico settore in cui opera, in primo luogo consentendo che la nullità sia parziale e dunque incida sul contratto solo per la parte che viola i divieti di legge, con conservazione delle relazioni commerciali tra le parti, tenendo altresì conto dell’eventuale disparità dei soggetti che agiscono nel mercato, al fine di offrire idonea protezione alla parte più debole. La tesi si fa quindi sostenitrice - con riguardo al tema oggetto di studio - della brevemente descritta figura della nullità di protezione (rectius, delle nullità) la quale, fondata su un regime applicativo speciale (e non - come pure è stato diffusamente sostenuto - eccezionale), costituisce ormai a tutti gli effetti un modello alternativo riconducibile ad una ratio unitaria, e quindi suscettibile di applicazione analogica 64 . 63 Favorevole al rimedio della nullità di protezione sembra L. DELLI PRISCOLI, Le restrizioni verticali della concorrenza, op. cit., p. 159; G. GIOIA, Vecchie intese e nuove nullità, op. cit., p. 3 ss. Nel senso della nullità relativa, si veda soprattutto A. BERTOLOTTI, Illegittimità delle norme bancarie uniformi, cit., p. 346 s. e, dubitativamente, A. TOFFOLETTO, op. cit. Critico, invece, G. GUIZZI, Mercato concorrenziale…, op. cit., p. 78, nota 18, il quale non condivide l’impostazione di fondo della tesi della nullità di protezione, ovvero l’essere la normativa antitrust dettata a protezione di una particolare categoria di soggetti, identificata alternativamente ora con quella del consumatore ora con quella del contraente debole. In merito, si vedano anche le considerazioni di G. ROSSI , Antitrust e teoria della giustizia, in Riv. soc., 1995, p. 1 ss. Per un’attenta ricostruzione del recente percorso evolutivo subito dalla figura della nullità, si veda G. PASSAGNOLI, op. cit., p. 214 ss.; S. POLIDORI , Disciplina delle nullità ed interessi protetti, op. cit., nonché P.M. PUTTI, La nullità parziale. Diritto interno e comunitario, op. cit.; G. GIOIA, Nuove nullità relative a tutela del contraente debole, in Contr. e impr., 1999, p. 1332 ss. 64 In questo senso, soprattutto G. PASSAGNOLI, op. cit., p. 20 ss.; G. GIOIA, Vecchie intese e nuove nullità, op. cit., p. 23 s. Cenni al carattere parziale della nullità dei contratti a valle si ritrovano anche in A. BERTOLOTTI, op. ult. cit., p. 353; A. TOFFOLETTO, op. cit., p. 343 s. Più in generale, in ordine alla figura della nullità ed alla categoria dell’invalidità del negozio, si ricordi - nel ricostruire molto brevemente l’excursus storico dell’istituto - che, sulla base delle disposizioni del codice civile del 1942, si è andata consolidando nel tempo una tradizione di pensiero che ha fissato in modo schematico e rigoroso i principi della materia. I due principi cardine, nella specie, sono rappresentati dall’irrilevanza del negozio nullo e dalla natura pubblica dell’interesse protetto. Dal congiunto operare dei due principi è quindi conseguito per lungo tempo un trattamento unitario ed immutabile 124 Si è parlato, in particolare, di nullità speciali virtuali, da ammettere, pur in assenza di una espressa previsione di legge, alla luce della evoluzione del diritto dei contratti, sempre più informato alla protezione del contraente debole ed alla uguaglianza sostanziale del potere negoziale delle parti. L’idea da superare per poter abbracciare una soluzione di questo tipo - che è stata tramandata sino ai nostri giorni e su cui tradizionalmente si fondava la distinzione tra nullità ed annullabilità - è che l’atto di autonomia privata è nullo quando viola un precetto posto a tutela di un interesse generale, mentre la lesione di interessi esclusivamente privati comporterebbe conseguenze diverse, rimesse all’iniziativa del soggetto interessato. In contrasto con questa ricostruzione, si rileva infatti che non sempre il carattere pubblico dell’interesse tutelato da una norma è di per sé in grado di spiegare la nullità da questa prevista, né di qualificarla come imperativa. Già nell’originario impianto del codice civile, del resto, erano contemplate - sia pure in numero limitato - norme imperative che disponevano la nullità del contratto quale mezzo per impedire alle parti di vincolarsi validamente ed efficacemente ad un determinato regolamento contrattuale, vietato proprio in considerazione degli effetti pregiudizievoli che questo avrebbe prodotto nei confronti di una di esse 65 . La soluzione favorevole all’inquadramento delle conseguenze caducatorie di cui soffre il contratto a valle di un’intesa anticoncorrenziale nell’alveo delle nullità di protezione – poc’anzi ricostruita nelle sue linee più generali - è stata in realtà sviluppata soprattutto con riguardo agli atti per mezzo dei quali l’impresa abusa del negozio nullo - obiettivamente ed assolutamente improduttivo di effetti, con conseguenti caratteristiche di insanabilità, imprescrittibilità, assolutezza e natura dichiarativa dell’azione - non differentemente calibrabile in relazione all’interesse tutelato. La progressiva apertura da parte del codice ad una considerazione diversificata della nullità è stata per questo inizialmente risolta confinando l’ipotesi nella regione dell’eccezione, ovvero predicando delle nullità speciali l’estraneità alla categoria sistematica della nullità e ricorrendo invece al concetto dell’inefficacia. 65 Al riguardo, già R. NICOLÒ, Diritto civile, in Enc., dir., vol. XII, Milano, 1964, pp. 913-914, riconosceva, accanto a “norme imperative dirette a realizzare superiori esigenze della vita sociale”, norme “che hanno sì efficacia imperativa, ma hanno la funzione di proteggere un altro interesse individuale (si pensi alle norme che tutelano la spontaneità e la libertà del volere, alle norme che si preoccupano di proteggere il contraente più debole di fronte a quello potenzialmente più forte)”. In senso analogo anche G.B. FERRI , Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, pp. 335-336 e ID ., Ordine pubblico, buon costume e la teoria del contratto, op. cit., p. 220. 125 effettivamente della posizione dominante che detiene all’interno di un determinato mercato. All’esame di quest’ultima fattispecie si ritiene quindi di dover rinviare, allo scopo di cogliere i passaggi normativi ed argomentativi attraverso i quali alcuni autori hanno formulato la tesi della estensibilità della nullità sub art. 3 della legge n. 287/1990 anche al divieto di cui all’art. 2, che più direttamente ci riguarda. 2.6. Nullità ed abuso di posizione dominante Il ragionare in termini di nullità conduce infatti ad interrogarsi se, dinanzi alla difficoltà di ricondurre l’invalidità del negozio in cui il contenuto dell’intesa anticoncorrenziale va sostanzialmente ad inserirsi, non sia possibile individuare, quale “appiglio normativo” alternativo il disposto dell’art. 3 della legge antitrust. La norma, infatti, vieta l’abuso di posizione dominante non solo quando questo sia ascrivibile ad una singola impresa egemone, ma altresì quando ad approfittare della particolare posizione occupata all’interno del mercato nazionale o di una sua parte rilevante siano più imprese (cfr. art. 3, comma 1). La difficoltà di dare risposta all’interrogativo che ci occupa, potrebbe quindi essere superata attraverso l’osservazione dei termini in cui l’illiceità dell’abuso di posizione di dominanza si riflette sugli atti negoziali a valle, attesa l’innegabile affinità della natura del problema che involge le due diverse ipotesi di infrazione antitrust (intesa e abuso di posizione dominante) 66 . 66 La vicinanza delle fattispecie delineate, rispettivamente, dall’art. 2 e dall’art. 3 della legge n. 287/1990 è colta, in particolare, da G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., pp. 75-76, il quale riconduce l’omogeneità del problema a due specifici profili: “da un lato (perché), anche nel caso dell’abuso di posizione dominante realizzato attraverso la conclusione di una o più operazioni negoziali dal contenuto conforme alle previsioni di cui all’art. 3 non può essere negato che l’apprezzamento negativo dell’ordinamento (…) si rivolge già al modo con cui l’impresa si pone sul mercato e si determina all’esercizio dell’autonomia privata, ciò che implica, allora, che pure a tale ipotesi non sembra essere del tutto estraneo un problema di rapporto tra violazione di regole di condotta dettate per l’imprenditore come tale, e dunque operanti a monte dell’atto negoziale, e sorte del contratto attraverso cui il comportamento abusivo si manifesta. Dall’altro perché i contratti che si pongono a valle di intese tra imprese e gli atti negoziali compiuti dall’impresa che abusa della propria posizione di dominio sono accomunati, al vertice, dal particolare risultato cui tendono, ovvero dal fatto che l’esercizio della provata autonomia costituisce in entrambi i casi lo strumento preordinato al 126 Come è stato osservato con riferimento alle fattispecie contrattuali attraverso cui si concreta l’abuso di posizione dominante sembra infatti più facile riconoscere alla violazione del precetto l’attitudine ad incidere sulla validità dell’atto negoziale a valle, atteso che la norma dell’art. 3 “sembra vietare proprio un certo contenuto dell’atto di autonomia privata”67 . Con riguardo alla fattispecie dell’abuso di posizione dominante si registrano, in particolare, due orientamenti68 . raggiungimento di un extraprofitto, rectius di un profitto maggiore di quelli che l’impresa avrebbe potuto conseguire ove non fosse intervenuta a monte una violazione delle norme dettate a tutela del mercato”. A rafforzare la tesi della affinità del problema con riguardo alle due fattispecie infrattive ed anzi ad avvalorare l’affermazione per cui l’invalidità dei contratti a valle dovrebbe verificarsi a maggior ragione con riferimento alle intese - l’Autore osserva (p. 77, nota 15) che “sono sempre i contratti a valle di un’intesa quelli caratterizzati dall’adozione di condizioni ingiustificatamente gravose per la clientela, appunto perché alle imprese che coordinano la propria attività manca - in ragione degli elevati costi che comporta il mantenimento del cartello - la possibilità, per stroncare la concorrenza delle imprese concorrenti che non partecipano all’intesa, di adottare politiche del tipo del predatory pricing, possibili (almeno economicamente) invece all’impresa in posizione dominante”. La simmetria di problematiche sottesa alle due fattispecie è messa implicitamente in evidenza pure da R. PARDOLESI , Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 470. 67 Così, G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., p. 74. In questo senso sembra essere orientato anche G. PASSAGNOLI, Nullità speciali, cit., nonché A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno…, op. cit., p. 340, nota 116, ove si legge che “(…) nel caso dell’abuso di posizione dominante, non possono sussistere dubbi sul fatto che il precetto normativo imperativo, tanto nel diritto comunitario (art. 86) quanto nel diritto nazionale (art. 3, l. n. 287/1990), sia direttamente afferente al comportamento idoneo a causare l’invalidità e non determini in alcun caso un passaggio di secondo grado. Così, se è vero che il divieto di cartello produce, per esplicita previsione normativa la nullità del cartello, ma potrebbe non produrre la nullità dei contratti conclusi dagli aderenti al cartello medesimo con la loro rispettiva clientela; il problema non sussiste in relazione alla fattispecie dell’abuso di posizione dominante, nel quale il precetto imperativo direttamente individua il comportamento vietato nella pratica abusiva (ad es. le condizioni di prezzo ingiustificatamente gravose)”. Il riscontro positivo del legame tra abuso di posizione dominante e contratti a valle è ravvisato anche nel rifiuto di contrattare (e non solo nella discriminazione) il quale non assume rilievo nei rapporti fra contraenti diretti ma avuto riguardo ad “altri contraenti”, ovvero di coloro che, operando in un mercato diverso da quello dell’impresa dominante, è vittima dell’abuso. La posizione di dominio che viene quindi in evidenza è, in questi casi, quella di un mercato in senso verticale (si pensi al fenomeno della distribuzione selettiva). In senso conforme, Tribunale di Milano, ordinanza 4 agosto 2000 e 5 settembre 2000, Europa TV/Ass. Sportiva Calcio Napoli, in I Contratti, n. 2/2001, p. 127; Corte d’Appello di Roma, ord. 16 gennaio 2001, Stream/Telepiù, in Danno e resp., n. 3/2001, p. 284 ss., con nota di S. BASTIANON , commentate anche da M. M ELI, L’abuso di posizione dominante attraverso comportamenti aventi carattere negoziale: il caso Telepiù, in Giur. comm., 2002, I, p. 318 ss. 68 M. M ELI, op. ult. cit., pp. 326-327, osserva che le due soluzioni contrapposte, presentano in realtà un punto di contatto, convergendo nella inopportunità di un richiamo alla nullità così come disciplinata dal codice civile. Diversa invece la logica delle due alternative ermeneutiche: l’una (l’annullabilità) prende le mosse dalla natura del vizio (l’abuso) ed opera un accostamento con i vizi della volontà negoziale; l’altra (la nullità speciale) guarda al risultato prodotto dal contratto: l’abuso di posizione dominante determina un effetto distorsivo della concorrenza e del mercato; il contratto che realizza tale risultato viola una norma imperativa ed è pertanto nullo. La nullità, osserva l’Autrice, va tuttavia adattata al tipo di conflitto, finendo così per perdere molti dei suoi caratteri 127 Il primo propende per la nullità, ricollegata alla violazione di norma imperativa e configurata quale ipotesi di nullità speciale, la quale troverebbe il proprio referente in una serie di interventi normativi di matrice comunitaria fondati sull’esigenza di tutelare la parte debole del rapporto. In questo senso si parla, anche con riguardo alla condotta vietata dall’art. 3 della legge antitrust, di nullità di protezione che, derogando alla disciplina generale prevista dal codice civile, andrebbe interpretata non come eccezione, ma quale diverso modo di atteggiarsi della sanzione nel momento in cui interviene a tutela di un interesse particolare 69 . Il secondo orientamento, invece, guarda, con riferimento alla fattispecie di abuso di posizione dominante, al rimedio dell’annullabilità, operando un accostamento tra la figura dell’abuso e la materia dei vizi del consenso 70 . Tale soluzione, che può apparire forse anomala dinanzi ad un sistema delle invalidità negoziali che concepisce la nullità come rimedio generale e relega l’annullabilità alle ipotesi testualmente previste, è quella presa in considerazione nell’ambito della elaborazione dei Principi di diritto privato europeo dei contratti, ove il rimedio dell’annullabilità è utilizzato (art. 4:109) per tutte le ipotesi di Gross disparity, ovvero di “eccessivo guadagno ed ingiusto profitto”, dunque anche con riferimento a situazioni che presuppongono una disparità di potere di mercato e un consequenziale assetto di interessi sfavorevole per la parte debole del rapporto. tradizionali. La possibilità di fare ricorso a tali rimedi, si aggiunge, lascia tuttavia insoluta la questione relativa all’opportunità di intervenire sul piano negoziale, specie là dove l’abuso sia perpetrato nelle contrattazioni di massa, determinando un effetto a catena sulle molteplici opera zioni poste in essere. A riguardo si suggerisce quindi l’astratta possibilità di diversificare la soluzione a seconda che si tratti di rapporti tra imprenditori - in ordine ai quali il conflitto interindividuale potrebbe trovare adeguata soluzione (anche) nell’ambito della disciplina dell’atto - ovvero di rapporti col pubblico dei consumatori. Con riferimento a quest’ultima ipotesi, in particolare, salvo che il comportamento negoziale abusivo non sia già contemplato in altri momenti del sistema (si pensi alla tipologia di clausole previste dalla disciplina dei contratti del consumatore di cui agli artt. 1469-bis ss. cod. civ.), “potrebbe ritenersi che il sistema sanzionatorio previsto dalla legge antitrust, nonché la tutela fornita in sede di disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti (l. n. 281/98), siano tali da non richiedere un ulteriore intervento sul piano negoziale”. 69 Di questo avviso, per sommi capi, G. PASSAGNOLI, op. ult. cit. 70 Propendono per questa soluzione R. SACCO, L’abuso della libertà contrattuale, in Diritto privato, vol. III, Milano, 1997, p. 217; di “quarto vizio” del consenso parla anche U. BRECCIA, Il contratto: nuovi itinerari di ricerca. Prospettive nel diritto dei contratti, in Riv. crit. dir. priv., 2001, p. 161. 128 Per procedere al preannunciato parallelismo, si riflette in primo luogo sul fatto che la situazione che si viene a creare con la definizione concordata della strategia di impresa sul mercato a valle è sostanzialmente assimilabile a quella determinata dalla singola impresa che, abusando della posizione di dominanza di cui gode, fissa ad esempio condizioni contrattuali abusive o stabilisce prezzi iniqui a carico dei soggetti con cui viene a stabilire relazioni negoziali. Colludendo tra loro, infatti, le imprese si assicurano di regola sfere di influenza esclusiva, accrescendo in questo modo il potere di mercato di cui ciascuna disporrebbe agendo in un contesto competitivo. Il divieto di abusare del potere d’impresa esercitandolo in una direzione monopolistica e dunque di restringere significativamente il grado di competizione sul mercato, opera pertanto allo stesso modo sia che una scelta in tal senso provenga dal singolo operatore dominante, che se la posizione di sostanziale predominio (altrimenti inesistente) venga creata artificiosamente per effetto di una collusione tra due o più operatori71 . In altri termini, in presenza dell’unilaterale imposizione di condizioni negoziali o di prezzi sovra-concorrenziali, a nulla rileva l’origine unilaterale o concordata della pratica illecita, essendo l’imperativo antimonopolistico rivolto più al piano degli effetti che all’origine della distorsione 72 : “una volta chiarito che ad esser vietato è 71 La differenza tra le due fattispecie, pertanto, è individuabile nel fatto che, mentre con riguardo all’art. 3 “è la posizione dominante il presupposto dell’illecito”, l’illecito di cui all’art. 2 può perfezionarsi indipendentemente da una tale posizione sul me rcato. Tant’è vero che “questa per accedere alla attenzione della legge deve dare luogo ad un fenomeno consistente, mentre la posizione dominante dentro il mercato nazionale o una sua parte rilevante se è abusiva è sempre sanzionabile” (così, Cassazione, 1° febbraio 1999, n. 827, cit.). 72 Come ricorda S. BASTIANON , L’abuso di posizione dominante, op. cit., nell’ambito delle regole applicabili alle imprese previste dal Trattato di Roma, gli artt. 81 e 82 rappresentano gli strumenti principali attraverso i quali gli organi comunitari mirano a realizzare, in conformità all’art. 3, lett. g), del Trattato dell’Unione europea, un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno. A livello comunitario, pertanto, la disciplina in materia di posizioni dominanti e di intese (ma il discorso vale, mutatis mutandis, anche a proposito della disciplina delle concentrazioni) non solo non è fine a se stessa, rientrando nel novero degli strumenti previsti per la realizzazione dei più ampi obiettivi fondamentali di cui all’art. 2 del Trattato UE, ma serve altresì all’attuazione del medesimo obiettivo. Secondo la Corte di Giustizia (21 febbraio 1973, Continental Can, causa 6/72, in Racc., 1973, p. 215), infatti, “su piani diversi, gli artt. 81 e 82 mirano allo stesso scopo, cioè a mantenere un’effettiva concorrenza nel mercato comune”. Se a ciò si aggiunge che il Trattato non prevede alcuna gerarchia tra le due norme, ben si comprende l’affermazione della stessa Corte, (13 febbraio 1979, Hoffmann-La Roche, cit., p. 461), secondo la quale “il fatto che accordi possano rientrare (pure) nella sfera dell’art. 81, e in particolare del suo n. 3, non implica comunque che debba 129 l’esercizio abusivo del potere monopolistico, poco importa se tale potere esista ex se in capo ad un’impresa, arrivata a tale invidiabile posizione per ‘luck, superior products or business acumen’, oppure venga creato dal nulla per effetto della collusione tra due o più operatori; se mai, ai ‘congiurati’ può contestarsi qualcosa di più, non certo di meno, rispetto al responsabile di abuso di posizione dominante, nella misura in cui la concertazione anticoncorrenziale si pone come strumento per la creazione artificiosa di un potere di mercato altrimenti inesistente”73 . Ne consegue che, in presenza dell’imposizione di prezzi sovracompetitivi, la coerenza del sistema antimonopolistico postula la condanna della pratica a prescindere dalla portata unilaterale o collusiva della stessa. In altre parole, secondo alcuni, riconoscere ai sensi dell’art. 3 della legge n. 287/1990 che l’utente finale (consumatore o professionista) legato da un rapporto negoziale con l’impresa egemone può agire per far accertare l’abusività della condotta, inficiare di nullità il contratto in cui il comportamento si è tradotto ed ottenere il risarcimento dei danni subiti, significa dover estendere il medesimo discorso anche nel caso in cui l’infrazione antitrust sia rappresentata da un’intesa. La sostanziale equivalenza di ratio ravvisabile, rispettivamente, nel divieto di abuso di posizione dominante individuale ed in quello di dominanza collettiva creato per mezzo di un accordo collusivo, sarebbe infatti sufficiente a spiegare la plausibilità di rivendicare una ricaduta applicativa delle due fattispecie 74 tendenzialmente omogenea . essere disapplicato l’art. 82 cosicché, in questi casi, la Commissione può, tenuto conto in particolare dell’indole degli impegni reciprocamente assunti e della posizione concorrenziale dei vari contraenti sul mercato o sui mercati in cui operano, instaurare un procedimento in base all’art. 81 o 82. Inoltre, è generalmente riconosciuta l’ammissibilità di un’applicazione cumulativa delle due norme, purché venga compiutamente accertata l’esistenza dei presupposti di entrambe le fattispecie (cfr. Corte di Giustizia, 11 novembre 1989, Ahmed Saeed, causa 66/86, in Racc., 1989, p. 803; Tribunale di Primo Grado, 10 marzo 1992, Vetro Piano, cause T-68/89, 77/89, 78/89, in Racc., 1992, II, p. 1403). 73 R. PARDOLESI , Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., pp. 470-471. 74 Sul punto, cfr. Cassazione, 1° febbraio 1999, n. 827, la quale riconosce che “tra le due proibizioni sussista un evidente analogia di ratio che determina qualche contiguità”. Di questo avviso, tra gli altri, R. PARDOLESI , Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 471; M. GIORDANO, Abuso di posizione dominante collettiva e parallelismo oligopolistico: la Corte di giustizia tenta la quadratura del cerchio?, nota a Corte di Giustizia, 16 marzo 2000, cause C-395/96 e C-396/97, Compagnie maritime belge, in Foro it., 2001, IV, p. 269 ss. Contra, A. MIRONE , Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, op. cit., pp. 68-69, nota 251, secondo il quale nelle intese, il cui divieto ha ad oggetto l’attività di concertazione, fra il momento della collusione e quello della relazione con la clientela permane uno iato, negli abusi di posizione 130 A questo riguardo è peraltro necessario compiere un passo intermedio. Poichè infatti la disciplina antimonopolistica non ricollega espressamente alc una sanzione alla violazione dell’art. 3, la dottrina è solita richiamarsi - al fine di giustificare una dichiarazione di nullità degli atti che concretizzino l’infrazione all’art. 9, comma 3, della legge 18 giugno 1998, n. 192 in tema di subfornitura, norma “sospesa tra diritto civile e diritto antitrust”75 , secondo la quale “il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è nullo” 76 . dominante, invece, il divieto ha ad oggetto proprio la relazione fra l’impresa e la clientela, ragion per cui si può fondatamente ipotizzare che questa stessa relazione sia anche funzionalmente illecita. 75 Così V. PINTO, L’abuso di dipendenza economica “fuori dal contratto” tra diritto civile e diritto antitrust, in Riv. dir. civ., 2000, II, p. 389 ss., il quale precisa che l’abuso di dipendenza economica non opera esclusivamente in ambito contrattuale, ma anche al di fuori del contratto. E’ lo stesso art. 9, infatti, a prevedere che l’abuso possa consistere, oltre che nell’imposizione di clausole contrattuali da parte dell’impresa dominante, anche in meri comportamenti: “in tali casi la sanzione si sposta dal piano della nullità al piano della responsabilità per danni: in altre parole, l’abuso di dipendenza economica, oltre ad essere un vizio di nullità del contratto, è anche un’ipotesi di illecito” (p. 393). In merito si ricordi, tra ’l altro, ma senza voler ripercorrere in questa sede i temi del dibattito, che l’originaria intenzione del legislatore - disattesa a seguito di un parere sfavorevole da parte dell’Antitrust - era nel senso dell’inserimento della fattispecie di cui all’art. 9 nel tessuto della legge n. 287/90 (come art. 3-bis), tale per cui pare corretto concordare con chi ritiene che il precetto dell’art. 9 non possa essere applicato senza un’indagine, sul piano della realtà economica, analoga a quella che deve essere utilizzata per interpretare ed applicare le norme antitrust. In quest’ultimo senso non può nemmeno essere sottovalutata la circostanza che, in altri ordinamenti europei, norme simili all’art. 9 costituiscono parte integrante della normativa a tutela della concorrenza, dunque risentendo dei medesimi criteri economici di valutazione tipici del diritto antitrust. Per un’analisi della legge n. 192/98 si vedano anche: G. DE NOVA , La subfornitura: una legge grave, in Riv. dir. priv., 1998, p. 449 ss.; R. CASO - R. PARDOLESI , La nuova disciplina del contratto di subfornitura (industriale): scampolo di fine millennio o prodromo di tempi migliori?, ivi, p. 712 ss.; F. BORTOLOTTI, I contratti di subfornitura, Padova, 1999; A. A LBANESE , Abuso di dipendenza economica: nullità del contratto e riequilibrio del rapporto, in Eur. e dir. priv., 1999, p. 1179 ss.; A A. VV., La subfornitura. Commento alla legge 18 giugno 1998, n. 192, a cura di G. Alpa e A. Clarizia, Milano, 1999; A. FRIGNANI, Disciplina della subfornitura nella l. n. 192/98: problemi di diritto sostanziale, in I Contratti, 1999, p. 188 ss.; ID., La subfornitura internazionale. Profili di diritto della concorrenza, in Riv. dir. comm., 1998, p. 683; C. O STI, L’abuso di dipendenza economica, in Mercato, concorrenza, regole, 1999, p. 9 ss.; A. BARBA, L’abuso di dipendenza economica: profili generali, in A A. VV., La subfornitura nelle attività produttive, a cura di V. Cuffaro, Napoli, 1998; A. PALMIERI , Abuso di dipendenza economica: battuta d’arresto o pausa di riflessione?, nota a Tribunale di Taranto, ord. 22 dicembre 2003, in Danno e resp., n. 4/2004, p. 424 ss.; R. CASO , Subfornitura industriale: analisi economica delle situazioni di disparità di potere contrattuale, in Riv. crit. dir. priv., 1998, p. 243 ss.¸ L. DELLI PRISCOLI, L’abuso di dipendenza economica nella nuova legge sulla subfornitura: rapporti con la disciplina delle clausole abusive e con la legge antitrust, in Giur. comm., 1998, I, p. 833 ss.; ID., Abuso di dipendenza economica e contratti di distribuzione, cit.; G. CERIDONO, Sub art. 9, in Le nuove leggi civili comm., 2000, p. 429 ss.; F. PROSPERI , Subfornitura industriale, abuso di dipendenza economica e tutela del contraente debole: i nuovi orizzonti della buona fede contrattuale, in Rass. dir. civ., n. 4/99, p. 639 ss.; M. LUBRANO DI SCORPANIELLO, Abuso di posizione dominante e abuso di dipendenza economica, in A A. VV., Diritto dei consumatori e nuove tecnologie, a cura di F. Bocchini, op. cit., vol. II, Il mercato, p. 1 ss. 76 F. PROSPERI , Subfornitura industriale, abuso di dipendenza economica e tutela del contraente debole: i nuovi orizzonti della buona fede contrattuale, op. cit., p. 670, spiega la nullità di cui all’art. 131 Il confronto, nella specie, viene operato tra le due diverse (ma per certi versi sovrapponibili e reciprocamente interferenti) fattispecie di abuso di posizione dominante (di cui, appunto, all’art. 3 della legge antitrust) e di abuso di dipendenza economica (contemplato dalla norma del richiamato art. 9), ritenendo che “non si può pensare che la qualificazione di nullità rimanga estranea ai casi (ammesso che esistano) in cui l’abuso di posizione dominante, attuato tramite un atto di autonomia privata, non costituisce anche un abuso di dipendenza economica”77 . La similitudine è dunque giustificata osserva ndo che l’impresa in grado di determinare nei rapporti commerciali con un’altra impresa un “eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi” - che si manifesta tipicamente nella capacità della prima di imporre alla controparte un prezzo squilibrato, quale certamente è un prezzo non concorrenziale – è un’impresa che ha un potere economico e contrattuale tale da poter imporre, in un ipotetico contratto con un cliente o con un fornitore, il prezzo della prestazione senza alcun riguardo a quello praticato in regime di concorrenza. In altri termini, si tratta di un’impresa che, in forza di un potere qualitativamente analogo a quello rivestito dall’impresa che occupa una posizione dominante assoluta, detiene il “potere sul prezzo” (c.d. power over price). Non vi è infatti alcun dubbio sul fatto che l’essenza economica del potere di mercato consiste proprio nella possibilità per l’impresa di imporre prezzi superiori (se monopolista) o inferiori (se 9 quale conseguenza di un vizio genetico del contratto ricollegabile all’abuso che una parte faccia del potere socio-economico di cui dispone nei confronti della controparte debole. 77 Con queste parole, M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., p. 456. A favore della nullità del contratto in cui si concreta l’abuso: G. PASSAGNOLI, Le nullità speciali, op. cit., p. 235 ss.; G. ROSSI , Effetti della violazione di norme antitrust sui contratti tra imprese e clienti: un caso relativo alle “n.b.u.”, op. cit., p. 220; A. TOFFOLETTO, op. cit., p. 340, nota 116; C. SELVAGGI , Abuso di posizione dominante, in Giur. it., 1992, IV, p. 134 ss.; V. SCALISI , Nullità ed inefficacia nel sistema europeo dei contratti, op. cit., p. 493; in giurisprudenza, Tribunale di Milano, 7 agosto 2000, in Cass. pen., 2001, p. 57. Contra, nel senso che lo “squilibrio causale” del contratto frutto di abusivo sfruttamento della posizione dominante non è configurabile come fonte di invalidità: G. OPPO, Costituzione e diritto privato nella tutela della concorrenza, op. cit., p. 552 ss.; A. FRIGNANI, Sub art. 3, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 367; L. RISTORI , La competenza speciale della Corte d’Appello nella legge antitrust, in Riv. dir. priv., 1998, p. 423 s.; implicitamente, G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., p. 76 s. A riguardo F. PROSPERI , Subfornitura industriale, abuso di dipendenza economica e tutela del contraente debole: i nuovi orizzonti della buona fede contrattuale, op. cit., p. 665 ss., ritiene legittima l’assimilazione del divieto di abuso di dipendenza economica al divieto di abuso del diritto, intendendo il primo come “abuso di diritto nell’esercizio dell’autonomia privata di un contraente verso un altro”. Il comportamento di chi compie atti formalmente rientranti nel contenuto del diritto, ma funzionalizzati in concreto a 132 monopsonista) a quelli praticati in regime di concorrenza, senza che gli altri operatori presenti sul mercato siano in grado di reagire efficacemente 78 . Così l’impresa in posizione dominante assoluta, per dirla con la terminologia di cui all’art. 9, non è altro che un’impresa in grado di determinare un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi nei confronti di tutti i clienti o i fornitori presenti sul mercato. Alla nullità per violazione del divieto a carico dell’impresa di abusare della posizione di dominanza detenuta si ritiene di poter conseguentemente attribuire, per relationem, i medesimi tratti della nullità di cui all’art. 9, la quale è intesa dalla dottrina più autorevole non come espressione della figura generale della nullità assoluta disciplinata dal codice civile, ma quale ipotesi di nullità speciale, da inserire quindi nell’attuale orientamento di matrice comunitaria 79 . Il regime della nullità sancita dalla legge n. 192/1998 - applicabile di rimando alle fattispecie anticompetitive di cui all’art. 3 - sarebbe quindi caratterizzato - alla luce della ratio di proteggere l’interesse del soggetto che ha contrattato in condizioni di dipendenza economica (generalmente, ma non in ogni caso, il subfornitore) - da relatività della legittimazione ad agire, parzialità necessaria e sanabilità (ai sensi degli artt. 1419, 1339 e 1374 cod. civ.)80 . realizzare scopi antisociali, costituisce un tipico comportamento di contrario al principio di buona fede (inteso in senso oggettivo) da parte del soggetto dotato di maggiore potere socio-economico. 78 Come osserva F. DENOZZA , Antitrust. Leggi antimonopolistiche e tutela dei consumatori nella CEE e negli USA, op. cit., p. 17 e p. 20 ss., l’impresa che detiene il potere di mercato è in grado di fissare i prezzi in modo tale da massimizzare il proprio profitto, con pregiudizio per la controparte contrattuale (effetto redistributivo) e per l’efficienza allocativa del mercato (effetto allocativo). In definitiva, si può ragionevolmente affermare - con le parole di A. M AZZONI, Prime riflessioni sull’abuso di dipendenza economica nei contratti agro-industriali, in Riv. dir. agr., 1999, p. 163 - che “la dipendenza economica è la situazione simmetrica ad una posizione di dominanza relativa, che trova origine in rapporti commerciali (verticali) attuali o potenziali tra imprese”. 79 Per l’impostazione sistematica relativa (ancorché anteriore alla legge n. 192/98) si veda: G. PASSAGNOLI, Nullità speciali, op. cit. Tende invece a ricondurre la nullità dell’art. 9 all’azione di annullamento di cui agli artt. 1441 ss. cod. civ., intesa quale figura di invalidità di protezione già prevista in via generale (e dunque suscettibile di applicazione analogica) dall’ordinamento, M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., p. 458. 80 Sul tema si vedano soprattutto: S. POLIDORI , Discipline della nullità e interessi protetti, op. cit.; P.M. PUTTI, La nullità parziale. Diritto interno e comunitario, op. cit.; nonché D. RUSSO , Sull’equità dei contratti, Napoli, 2001, p. 87 ss. L’ultimo importante esempio di nullità di protezione è costituito dall’art. 7 del D. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, che, in materia di transazioni commerciali, sancisce la nullità degli accordi sulla data del pagamento (o sulle conseguenze del ritardo) che “risultino gravemente iniqui a danno del creditore”, di seguito disponendo che “il giudice, anche d’ufficio, dichiara la nullità dell’accordo (…) ovvero riconduce ad equità il contenuto dell’accordo medesimo”. 133 2.6.1. Critica La prima contestazione che si ritiene di poter muovere al tentativo di ravvisare nel combinato disposto degli artt. 3 della legge n. 287/1990 e 9 della legge n. 192/1998 il dato positivo cui ancorare la tesi della nullità dei contratti a valle di un’intesa anticoncorrenziale (letta alla stregua di un abuso di posizione dominante collettivo e dunque accomunato in termini di ricadute dell’infrazione), discende dal presupposto da cui muove la ricostruzione. Ritenere che sia ravvisabile un’ipotesi di abuso di dipendenza economica ogniqualvolta l’impresa abusi della propria (diversa) posizione dominante per mezzo di un atto di autonomia negoziale - e conseguentemente estendere pedissequamente la sanzione di nullità contemplata dall’art. 9 anche alle ipotesi di cui all’art. 3 sembra infatti una affermazione non condivisibile e viziata nelle premesse. Come osservato da autorevole dottrina, infatti, non tutti gli atti compiuti in esecuzione di un abuso di posizione dominante collettiva - equiparabile, quanto agli effetti, ad un’intesa anticoncorrenziale - possono qualificarsi come abuso di dipendenza economica 81 . Rimane dunque non coperto dalla soluzione ermeneutica un vasto spazio in cui i contratti consequenziali all’infrazione anticoncorrenziale danno luogo solo a rimedi risarcitori e non anche ad esiti invalidativi. L’estensione della nullità - inferita attraverso il passaggio per l’art. 9 della legge n. 192/98 - dalle fattispecie sub art. 3 della legge n. 287/90 a quelle sub art. 2 è pure contestata da quanti - condividendo l’assimilazione dell’abuso di posizione dominante collettiva al cartello - tornano ad affermare che il silenzio del legislatore Per un primo commento sul punto si veda V. PANDOLFINI, La nullità degli accordi “gravemente iniqui” nelle transazioni commerciali, in I Contratti, n. 5/2003, p. 501 ss. 81 Cfr. M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., p. 453. In questo senso pure V. PINTO, L’abuso di dipendenza economica “fuori dal contratto” tra diritto civile e diritto antitrust, op. cit., p. 400, secondo il quale “è la fonte del potere e, di conseguenza, l’ampiezza dello stesso a rappresentare il tratto caratteristico della posizione di dominio fondata sulla dipendenza economica rispetto alla posizione dominante: se la forza economica e contrattuale del monopolista deriva essenzialmente dalla struttura (e, in particolare, dal grado di concentrazione) del mercato preso a riferimento e sussiste nei confronti di tutti i soggetti che in esso operano, il dominio fondato sulla dipendenza economica trae origine da rapporti commerciali bilaterali tra imprese e, dunque, può essere esercitato solo nei confronti del cliente o fornitore che è parte di detti rapporti”. 134 nell’art. 2 sia il frutto di una consapevole scelta normativa, come tale escludente qualunque accostamento di ratio tra le due disposizioni legittimante un’applicazione analogica della soluzione scelta con riguardo ai contratti che si pongano a valle di un abuso del primo tipo 82 . L’argomentazione, in particolare, muove da una diversa ricostruzione della logica sottesa, rispettivamente, all’art. 2 e 3 della legge antitrust. Ciò che si sostiene è che, mentre il primo divieto ha come finalità immediata esclusivamente il mantenimento dell’autonomia strategica delle imprese, evitando la definizione di standards comportamentali e strategici uniformi - tutelando gli utenti finali solo in via indiretta -, la norma dell’art. 3 ha proprio ad oggetto la repressione di un comportamento “di relazione” fra le imprese e gli utenti finali. La circostanza che le relazioni negoziali tra impresa e clientela a valle siano contemplate solo nel disposto dell’art. 3 e non dell’art. 2, si afferma, induce a ritenere che il legislatore, tanto nazionale quanto comunitario, abbia inteso circoscrivere la rilevanza dell’interazione tra condotta imprenditoriale e contratti a valle solo alle ipotesi di collegamento “forte” fra operatori concorrenti (la posizione dominante collettiva), ad esclusione di altre forme più “deboli”, ricadenti nella previsione dell’art. 2. Pertanto, si conclude, mentre non sussistono dubbi circa l’applicazione della sanzione della nullità - ricondotta nell’ambito della invalidità virtuale di cui al comma 1 dell’art. 1418 cod. civ. - ai contratti ed alle clausole negoziali che sono espressione di un abuso concorrenziale, è evidente che lo stesso non può dirsi per le intese, dato che l’art. 2, comma 3, circoscrive esplicitamente la nullità alle “intese vietate”, senza menzionare in alcun modo gli atti consequenziali o esecutivi. 82 Di questo avviso A. M IRONE, Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, op. cit., pp. 68-69. 135 3. La validità dei contratti a valle 3.1. Linee generali La tesi che, in linea generale, esclude la nullità del contratto a valle risulta, ad un esame delle pronunce di dottrina e giurisprudenza, la più condivisa. L’opinione maggioritaria è infatti nel senso della intrasmissibilità della nullità espressamente prevista per l’intesa dall’art. 2 della legge antitrust nazionale (e dell’art. 81 del Trattato) all’attività negoziale consequenziale all’illecito, attesa la netta distinzione e separazione di piani che si ritiene di poter rilevare, rispettivamente, tra violazione delle regole di condotta dettate per l’imprenditore come tale e sorte del contratto attraverso cui il comportamento abusivo si manifesta. A questo proposito, è opportuno ricordare che la giurisprudenza nazionale si occupa per la prima volta della questione in maniera specifica con riguardo alle intese (contrarie all’art. 85, ora 81, del Trattato) poste in essere da istituti bancari attraverso la predisposizione di Norme Bancarie Uniformi (di seguito, n.b.u.), il cui contenuto viene di seguito trasfuso dalle singole banche nei contratti di conto corrente o di fideiussione stipulati con i propri clienti83 . 83 Sulla compatibilità con le norme comunitarie delle n.b.u. che disciplinano l’apertura di credito in conto corrente (Tribunale di Genova, 21 maggio 1996, in Foro it., Rep. 1998, voce “Contratti bancari”, nn. 31 e 33 ed in Giur. it., 1997, I, 2, p. 167; 28 dicembre 1996, inedita), è stato sollecitato anche l’intervento della Corte di Giustizia (ai sensi dell’art. 234, ex 177, del Trattato CE), la quale, pur investita della questione relativa agli effetti a valle dell’intesa, non si è pronunciata sul punto, ritenendo insussistenti le denunciate violazioni del Trattato (Corte di Giustizia, 21 gennaio 1999, cause riunite C-215 e 216/96, Bagnasco e altri c. Banca popolare di Novara, in Foro it., 1999, IV, p. 41, ed in Giur. comm., 1999, II, p. 477, con nota di G. PERASSI , il quale ricorda che la costante giurisprudenza della Corte ritiene disciplinate dai singoli ordinamenti nazionali le conseguenze sui contratti stipulati dalle imprese con i consumatori in attuazione delle intese costituenti infrazione delle norme del Trattato). Oggi, anziché di norme bancarie uniformi, è più corretto parlare (come rilevato nel Capitolo I) di “condizioni generali del rapporto banca-cliente”. Come sottolinea A. M IRONE , Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, cit., p. 5 ss. e 291 ss., i modelli Abi sono infatti schemi -tipo di condizioni generali, destinate a divenire parte del regolamento contrattuale con i clienti solo in seguito alla loro eventuale e libera ricezione da parte delle banche, secondo le tecniche di cui all’art. 1341 cod. civ. Ciò impone quindi di valutarne la portata anticoncorrenziale in un’ottica di tipo oggettivo, come “raccomandazioni non vincolanti”, peraltro potenzialmente e fattualmente lesive del principio di libera concorrenza anche in assenza di vincoli per le imprese destinatarie. 136 In questo caso, in particolare, i giudici di merito e di legittimità 84 , escludono qualsiasi relazione tra la valutazione delle n.b.u. alla stregua di un’intesa anticoncorrenziale (nulla ex art. 85), da un lato, e la possibilità per i clienti, dall’altro, di invocare l’invalidità dei contratti a valle. Partendo dall’assunto in base al quale “la sanzione di nullità prevista dall’art. 33, legge 10 ottobre 1990, n. 287, cosiddetta antitrust, riguarda esclusivamente le intese tra imprese restrittive della libertà di concorrenza, così come individuate dall’art. 2 della stessa legge, e non si applica ai contratti che, sulla base di tali intese, le imprese che ne sono parti abbiano concluso con i terzi”, simile ricostruzione nega infatti qualunque ripercussione dell’invalidità della collusione illecita sui contratti sottostanti85 . 84 Così, oltre al citato Tribunale di Alba, anche Corte d’Appello di Torino, 27 ottobre 1998; Tribunale di Torino, 16 ottobre 1997 e Tribunale di Milano, 25 maggio 2000, in Banca, borsa e tit. di cred., 2001, II, p. 87 ss., con nota di G. FALCONE, Ancora sull’invalidità dei contratti a valle per contrasto delle “norme bancarie uniformi” con la disciplina antitrust; Corte di Appello di Catania, 1° giugno 2001. In sede di legittimità, si veda Cass., 4 marzo 1999, n. 1811 e Cass., 13 aprile 2000, n. 4801, entrambe in Riv. dir. ind., 2000, II, p. 431. In particolare, nella prima pronuncia la Cassazione afferma la carenza di legittimazione del cliente bancario, sostenendo che destinatari diretti delle norme antimonopolistiche “sono gli imprenditori commerciali (…), (mentre) l’utente singolo potrebbe trarre vantaggio in fatto, solo in via riflessa ed indiretta, dai generali benefici della libera concorrenza di mercato, ma non può ritenersi direttamente investito della legittimazione giuridica a dolersi di asserite violazioni poste in essere da un’impresa o un gruppo di imprese”. 85 In questi termini il Tribunale di Alba, 12 gennaio 1995, cit., secondo il quale, nulla disponendo il diritto comunitario né quello nazionale circa gli effetti dell’illecito anticoncorrenziale sui contratti conclusi dalle imprese con i clienti, ne deriva che il giudice dovrà applicare ad essi le sanzioni eventualmente previste dal diritto interno, ai sensi del quale le norme bancarie uniformi - nel caso di specie - devono qualificarsi come “condizioni generali di contratto di diritto privato liberamente accettate” dal cliente che le sottoscrive. Gli unici strumenti di tutela del contraente più debole consistono dunque, afferma l’Organo giudicante, negli artt. 1341 e 1342 cod. civ. e nelle norme in materia di trasparenza previste dalla legge n. 154 del 1992. Dello stesso avviso è pure G. OPPO, Costituzione e diritto privato nella “tutela della concorrenza”, cit., p. 549 ss. (specie pp. 552-553), secondo il quale “la repressione e la eliminazione dell’infrazione non possono coinvolgere i rapporti contrattuali nei quali si sia già svolta l’intesa. In presenza di consimili rapporti, l’iniziativa di investirli allegando la illiceità dell’intesa non può essere che della controparte del soggetto dell’intesa medesima, ma dell’ammissibilità e dell’esito di una simile iniziativa - sia pure in presenza di un’accertato comportamento anticoncorrenziale - è a giudicarsi, in coordinamento con la normativa antitrust, secondo il diritto dei contratti”. In particolare l’Autore, con riguardo alla fattispecie di abuso di posizione dominante che si concretizza in atti aventi natura negoziale, nega il ricorrere sia dell’annullabilità che della nullità, ritenendo che il comportamento abusivo debba essere qualificato quale illecito che, ricorrendo gli altri presupposti dell’azione di danni, può legittimare la richiesta di un risarcimento ex art. 33, comma 2, legge antitrust. A questo proposito, inoltre, si segnala l’opportunità di distinguere ulteriormente la “veste” in cui il danneggiato subisce la lesione e in particolare se la subisce direttamente come controparte dell’autore dell’abuso ovvero attraverso la distorsione del mercato, nel primo caso escludendosi la responsabilità aquiliana, l’Autore si domanda se la configurazione di un illecito all’interno del rapporto contrattuale non importi legittimazione 137 L’esclusione, nella specie, è motivata adducendo in primo luogo la letterale limitazione della previsione di cui all’art. 85 alle sole intese ed il fatto che la norma è diretta “a tutelare la libertà di concorrenza tra le imprese (…), sì che essa sanziona di nullità gli accordi tra imprese che risultino lesivi di tale libertà, non i negozi che a valle le banche abbiano stipulato con le imprese clienti”; conseguentemente, “gli effetti sul cliente potrebbero venire in gioco sotto il profilo della tutela dei diritti del consumatore”86 , ma “l’art. 85 tutela la libertà di concorrenza in sé e non detta una disciplina specifica a garanzia del consumatore”87 . E anche dove voglia ammettersi che la disposizione in esame persegua complessivamente fini di tutela del mercato e dei consumatori, i giudici affermano che l’estensione della nullità ai singoli contratti bancari conclusi in conformità all’illecito antitrust vada comunque negata, nella considerazione che con l’invalidità negoziale, anziché tutelare, si finisce per danneggiare il consumatore (e, in generale, la controparte dell’impresa collusa), “discendendo dalla nullità dei contratti l’immediata esigibilità nei confronti del mutuatario, a titolo di indebito oggettivo, delle somme erogate dalla banca” 88 . Poiché il diritto nazionale di settore si limita a contemplare una previsione di nullità dotata della stessa struttura e latitudine di quella contenuta nel Trattato, ci si orienta conseguentemente, secondo il richiamato indirizzo, nel senso che neppure la nullità disposta dall’art. 2 si estenda, al pari della corrispondente norma comunitaria, ai contratti a valle dell’infrazione concorrenziale, che rimangono quindi del tutto insensibili alle vicende anticoncorrenziali che li precedono. della controparte a pretendere la reductio ad equitatem. In merito a quest’ultimo profilo, si rinvia a G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit. 86 Si alludeva, in quella occasione, alla disciplina dettata dagli artt. 1469-bis ss. cod. civ. in materia di contratti del consumatore, cui si affianca attualmente anche la legge 30 luglio 1998, n. 281 sulla disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti. A proposito del rilievo che i criteri di individuazione dello squilibrio contrattuale di cui agli artt. 1469-bis ss. cod. civ. possono assumere nella valutazione delle intese anticoncorrenziali, si veda A. M IRONE, op. cit., specie Cap. IV e V. 87 Queste le parole del Tribunale di Alba, 12 gennaio 1995, cit., secondo il quale le medesime considerazioni possono essere estese anche alla diversa fattispecie di abuso di posizione dominante di cui all’art. 86 del Trattato, così escludendo la nullità dei contratti conseguenti all’abuso stesso. 88 Così la Corte d’Appello di Torino, 27 ottobre 1998, secondo cui accedere alla tesi della nullità “getterebbe nel caos la certezza dei rapporti giuridici”. 138 A sostegno della validità dei contratti, si è pronunciato anche il Tar del Lazio competente in via esclusiva a conoscere dell’impugnazione dei provvedimenti antitrust ex art. 33 legge n. 287/1990 - con la sentenza 10 marzo 2003, n. 1790 89 , in 89 Con la sentenza sopra richiamata - per la cui più ampia trattazione si rinvia al Capitolo III - (cui è seguita, con l’ impugnazione in sede di appello, la n. 926 del 27 gennaio 2004 del Consiglio di Stato), il Tar Lazio è stato chiamato a pronunciarsi in merito ad un’intesa consistente in una pratica concordata diretta ad alterare, da parte di alcune società operanti nel settore della ristorazione (Ristomat, Gemeaz Cusin, Day Ristoservice, Ristochef, Sagifi, La Cascina, Qui! Ticket Service e Sodexho Pass) nell’ambito di una gara bandita dalla Consip (Concessionaria Servizi Informativi Pubblici, indirettamente controllata dal Ministero del Tesoro), la concorrenza nella fornitura del servizio sostitutivo di mensa mediante l’emissione di buoni pasto per il personale dipendente delle pubbliche amministrazioni. L’intesa, secondo l’impugnato provvedimento dell’Antitrust, si sostanziava nella determinazione congiunta delle modalità di partecipazione alla gara e, più specificamente, nell’individuazione concordata della composizione delle varie associazioni temporanee di impresa (ATI) e delle imprese destinate a presentarsi singolarmente, nella fissazione dei livelli di sconto previsti dalle singole offerte e nella ripartizione dei lotti. La questione, in particolare, si incentrava nella pratica del c.d. bid rigging, ovvero nella alterazione delle gare commesso attraverso la concertazione delle modalità di partecipazione ed offerta ai fini della aggiudicazione, attraverso collusioni rilevanti sul piano antitrust. Il fenomeno, in particolare, è stato studiato prima di tutto dalla giurisprudenza e dalla dottrina statunitensi, le quali mostrano attenzione alla fattispecie ove commessa attraverso agreement, combination, o conspiracy in violazione della Section 1 dello Sherman Act. Nella specie, diversamente dalle violazioni concorrenziali accertate alla stregua della rule of reason, per cui è necessario il riscontro in concreto del restraint of trade, il bid rigging è sanzionato per se, in ragione della gravità della restrizione e a prescindere dal riscontro a livello effettuale sul mercato di riferimento. Ciò comporta che l’accordo collusivo teso ad alterare il procedimento di aggiudicazione è punito già al momento della ideazione e formazione del piano comune, non essendo richieste condotte ulteriori, e tanto meno il raggiungimento degli obiettivi, rilevando eventuali condotte ultronee (i c.d. over acts in furtherance) solo sotto il profilo della durata e gravità della violazione e dunque di commisurazione della sanzione. A questa iniziale interpretazione, peraltro, si è poi succeduta intorno agli anni ‘80 una diversa impostazione che, attenta al profilo della continuazione della violazione, si è spinta ad affermare che il bid rigging può considerarsi cessato o realizzato non con la semplice e falsata partecipazione alla gara con l’aggiudicazione dell’appalto, ma in un momento successivo, coincidente ora con la percezione dei corrispettivi contrattuali, ora con la condivisione dei profitti successivi all’aggiudicazione. A livello comunitario i principali esempi in materia sono costituiti dalle decisioni della Commissione 5 febbraio 1992, 92/204/CEE, Industria delle Costruzioni dei Paesi Bassi-SPO, in G.U.C.E., L92, p. 1 ss., e 2 gennaio 1973, 73/109/CEE, Suiker Unie, Industria europea dello zucchero, in G.U.C.E., L140, p. 17 ss. In quest’ultima, in particolare, la Commissione afferma che “in un sistema di gare, il gioco della concorrenza deve necessariamente poter aver libero campo; che se le offerte fatte dai partecipanti ad una gara non sono più il risultato di un calcolo economico individuale, ma derivano dalla conoscenza delle offerte degli altri partecipanti e da una concertazione con essi, il gioco della concorrenza è impedito o, per lo meno, falsato e ristretto”. Nel caso SPO, invece, la Commissione (confermata sul punto dal Tribunale di Primo grado) ribadisce che l’alterazione della gara e la violazione delle norme antitrust non è costituita solo dalla concertazione sulla presentazione delle offerte in risposta al bando di gara, ma anche dalla definizione concordata delle modalità per pervenire all’effettiva aggiudicazione del soggetto selezionato, nonché dalla ripartizione dei mercati quale risultato ultimo del meccanismo collusivo. In proposito, all’obiezione per cui una volta aggiudicata la gara, non può esservi competizione ulteriore suscettibile di essere falsata o ristretta, la Commissione (confermata dal Tribunale) replica statuendo che proprio il procedimento di “pre selezione” del migliore offerente serve a realizzare una ripartizione del mercato, restringendo la concorrenza fra le imprese offerenti e limitando la libertà di scelta degli utilizzatori. La giurisprudenza comunitaria, quindi, ritiene che la concertazione sulle gare è fattispecie sanzionata sia 139 cui conferma sostanzialmente il richiamato indirizzo interpretativo affermando che, già da un punto di vista strettamente letterale, risulta che la nullità non coinvolge i contratti che possono essere stati conclusi a valle dell’intesa tra (una o più delle) imprese aderenti ed un terzo a questa estraneo. Ciò in quanto i “contratti i quali ricadono nell’ambito della previsione letterale della norma sulla nullità, hanno una propria causa a sé stante (in questo caso la causa tipica dell’appalto) e realizzano il corrispondente assetto di interessi”. Distinguendo tra negozio-mezzo dell’intesa - concluso con un terzo perché l’intesa illecita possa progredire verso il fine al quale tende e che, secondo lo stesso giudice amministrativo, difficilmente potrebbe sottrarsi ad una valutazione di illiceità della causa concreta - e contratti a valle dell’intesa - ovvero conclusi con i terzi da un’impresa che, giovandosi del concordamento anticompetitivo stretto a monte, sia in condizione di trarre da questo indebiti vantaggi economici - il Collegio giunge ad escludere che con riguardo a questi ultimi possa ragionarsi in termini di illiceità e dunque di nullità. Sebbene infatti “in contratti di questo genere, siano essi una moltitudine oppure (come nella specie), uno solo, potrebbe sempre essere rinvenuto il fine ultimo degli illeciti concordamenti antitrust - posto che proprio attraverso le relative operazioni viene normalmente incamerato il vantaggio economico che costituisce, in ultima analisi, il punto di mira delle strategie anticompetitive delle imprese – nondimeno si tratta di contratti che, per quanto possano presentare, in forza del loro antecedente storico, dei termini di scambio alterati da uno squilibrio economico, e denunziare magari l’esistenza di un vizio del consenso di una delle parti, non potrebbero però essere considerati illeciti in alcuno dei loro elementi costitutivi”. in quanto vi è accordo sulla partecipazione alle gare, che in caso di aggiudicazione ed effettiva ripartizione dei mercati fra le imprese concertanti. Oggetto di particolare attenzione, ai fini che qui interessano, deve essere pertanto la risposta fornita di volta in volta dalle corti al quesito su cosa esattamente costituisca attuazione e raggiungimento degli obiettivi nel caso di bid rigging ovvero quando possa configurarsi cessazione della violazione, ed in particolare se l’attività successiva all’aggiudicazione (quale l’esecuzione delle forniture o la ricezione di pagamenti a seguito di gara alterata), sia qualificabile quale continuazione della violazione antitrust e a quali condizioni ovvero quando rappresenti un mero risultato dell’illecito. In quest’ultimo caso, infatti, l’attività “criminosa”, ove dovesse ritenersi non rientrante nell’ambito di applicazione delle norme antitrust (che non colpirebbero la percezione di profitti, ma solo la concertazione per l’alterazione della concorrenza), potrebbe costituire violazione di norme di altra natura (penali, ad esempio). 140 A queste considerazioni la giurisprudenza richiamata aggiunge pure, rafforzando l’indirizzo inaugurato dal Tribunale di Alba con riguardo al caso delle n.b.u., la considerazione della gravità estrema delle conseguenze che un’ipotetica estensione della nullità dell’infrazione ai contratti a valle (prevedibile conseguenza della tesi che vorrebbe veder colpiti e caducati tutti i negozi costituenti attuazione dei comportamenti vietati dall’art. 2 della legge n. 287/1990) esplicherebbe sulla certezza degli scambi. Il carattere normalmente occulto, per i terzi, della causa determinatrice della ipotizzata nullità “a cascata” (o “a pioggia”, per utilizzare l’espressione del Tar, sostenuta da chi inquadra il problema in termini di invalidità derivata) ed il rigore che permea la disciplina normativa della nullità, esporrebbe infatti i terzi, al di fuori di ogni consapevolezza e possibilità di controllo ed anche a distanza di tempo, all’alea di una possibile vanificazione retroattiva dei loro più diversi rapporti contrattuali, con un effetto devastante sulla sicurezza delle relazioni giuridiche e la stessa tutela del mercato. Anche in virtù di queste osservazioni, l’indirizzo contrario all’idea della nullità a valle ritiene pertanto che gli ordinari strumenti di tutela previsti dal codice civile sono pienamente idonei a garantire adeguata protezione e ristoro ai terzi (siano essi consumatori o imprenditori) controparti delle singole imprese colludenti. Nel negare l’invalidità (di qualunque natura e fonte) dei contratti a valle, il richiamato indirizzo fornisce quindi soluzioni di altra natura che, permanendo in vita l’atto negoziale conseguente all’illecito antitrust, si incentrano a diverso titolo sulla risarcibilità del danno patito dalla controparte contrattuale dell’impresa collusa e coincidente nella misura con quell’extra-profitto che costituisce il fine ultimo dell’intesa. Alla luce di quanto fino ad ora osservato ed alle critiche mosse alla più vasta ricostruzione che, diversificata in quanto alla fonte, riconduce unitariamente la sorte dei contratti a valle al destino dell’invalidità, sembra dunque opportuno dedicarsi a quelle tesi che ragionano non in termini di illiceità della regola negoziale, quanto di una sua possibile iniquità, bilanciabile con rimedi di diversa natura. A questi ultimi, pertanto, sembra opportuno volgere ora l’attenzione. 141 3.2. I rimedi diversi dalla nullità: le tesi Sulla base delle premesse esposte poc’anzi, la tesi favorevole alla perdurante validità dei contratti a valle dell’intesa ritiene sufficiente, al fine di non frustrare gli obiettivi perseguiti dall’ordinamento, una tutela solo obbligatoria a vantaggio della controparte contrattuale dell’impresa partecipante all’illecita collusione. La ricostruzione che trova maggior credito presso la dottrina e la recente giurisprudenza è rappresentata, in particolare, dal riconoscimento dell’azione risarcitoria a vantaggio di quanti - legati da un vincolo negoziale con una delle imprese colludenti - abbiano subito per effetto dell’illecito antitrust l’imposizione di condizioni contrattuali deteriori rispetto a quelle che sarebbero state praticate ove la definizione del regolamento pattizio fosse avvenuta attraverso il regolare funzionamento dei meccanismi di mercato e dunque in assenza di una preventiva concertazione. Il fondamento della relativa legittimazione è individuato, in particolare, nella norma dell’art. 1439 cod. civ. 90 (ravvisando un’ipotesi di dolo determinante l’annullabilità contratto e la risarcibilità del danno); dell’art. 1440 cod. civ. (qualificando la fattispecie quale ipotesi di dolo incidente, per il quale è esclusa l’ipotesi di annullamento del contratto, residuando solo il rimedio risarcitorio); ovvero ancora dell’art. 2043 cod. civ., così riassumendo l’intesa anticoncorrenziale nel vasto genus dell’illecito civile il quale, ove ne ricorrano i presupposti, 90 M. M ELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, op. cit.; ID., L’abuso di posizione dominante attraverso comportamenti aventi carattere negoziale: il caso Telepiù, cit., p. 318 ss., la quale si richiama, nel sostenere la tesi dell’annullabilità dei contratti a valle, ad autorevole dottrina (tra cui R. SACCO e U. BRECCIA). In particolare, l’Autrice individua nella norma degli artt. 1441 ss. cod. civ. la prima forma di invalidità di protezione prevista in via generale dall’ordinamento, che lascerebbe pensare ad una estensione sistematica della disciplina dell’azione di annullamento a tutte le situazioni, positivamente definite, di invalidità di protezione poste dal legislatore come limitazioni del potere d’impresa. Contrario a questa ricostruzione, M. LIBERTINI , Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., p. 451. 142 legittimerebbe il soggetto leso ad esperire in via extra-contrattuale la relativa azione risarcitoria 91 . Lungi dall’ammettere la traduzione dell’illecito antitrust quale elemento patogeno portatore di un vizio - tanto esogeno quanto endogeno - in grado di provocare la più grave forma di invalidità negoziale (la nullità, appunto), l’indirizzo in esame ammette invece, unitariamente ed esclusivamente, l’esperibilità di un’azione impugnatoria ovvero risarcitoria (ovvero di entrambi i rimedi in via congiunta). L’esclusione di una sanzione tanto radicale - motivata dalle ragioni teoriche e dalle considerazioni pratiche esposte - porta quindi ad inquadrare - nel rispetto della tradizionale divisione tra categorie dogmatiche, ed in particolare tra nullità ed annullabilità del negozio giuridico - l’alterazione delle condizioni di mercato quale elemento idoneo a penetrare nel tessuto pattizio, viziando (sub specie doli) la volontà negoziale della parte non collusa, oppure quale fatto estraneo al contratto ma ugualmente idoneo ad incidere sulla sfera patrimoniale del contraente non coinvolto nell’illecita concordanza strategica, pertanto giustificante - in presenza dei relativi presupposti - il ricorso alla norma dell’art. 2043 cod. civ. Il contratto a valle, tanto in un caso che nell’altro, resterebbe pertanto pienamente operativo e vincolante sino alla pronuncia costitutiva del giudice ordinario ed al momento del suo successivo e solo eventuale annullamento. 91 Ulteriore e diverso problema, di cui ci occuperemo più avanti, è quindi quello di verificare se effettivamente sussistano, con riguardo ai contratti a valle, gli estremi per invocare i menzionati rimedi indicati. In particolare, dovrà valutarsi se possa dirsi che il contratto a valle è viziato da un comportamento doloso da parte dell’impresa collusa (nelle diverse ipotesi di dolo incidente o, addirittura, di dolo determinante), oppure se la situazione giuridica specificamente lesa dall’infrazione anticoncorrenziale consenta a chi asserisce di aver subito un danno patrimoniale in via extra-contrattuale di ricorrere al rimedio risarcitorio di cui all’art. 2043 cod. civ. Sul punto, in particolare, si dovrà verificare la compatibilità del regime previsto per l’illecito civile dal nostro codice con i caratteri peculiari dell’illecito antitrust, domandandosi se ai fini del risarcimento del danno si debba accertare la presenza di tutti gli elementi della responsabilità aquiliana, ovvero se sia possibile ritenere che la qualificazione di illiceità dell’intesa consenta di affermare direttamente l’ingiustizia del danno. Sulla questione si veda, da ultimo, M. LIBERTINI , Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, cit., p. 452. 143 3.3. L’utilità del richiamo alla figura della annullabilità: esiti e obiezioni Nell’insieme di ricostruzioni che inquadrano le problematiche inerenti alla sorte dei contratti a valle di un’infrazione anticoncorrenziale in termini di validità, si inserisce - come poc’anzi anticipato - la soluzione di quanti riconducono la fattispecie alla categoria dogmatica della annullabilità ed al sostrato fattuale che di quell’istituto costituisce il fondamento giuridico, così avvicinando la tematica antitrust a quella tradizionale dei vizi del consenso eteroindotti, partecipi degli elementi dell’abuso e dello “sviamento” della volontà 92 . La scelta ermeneutica, in particolare, è fondata sull’osservazione che “laddove interviene la sanzione di nullità contrari alle norme imperative sono gli effetti che il preteso negozio vorrebbe attuare; laddove interviene la sanzione dell’annullabilità, illecito è il mezzo usato per ottenere la formazione del negozio, ma non necessariamente l’effetto che il negozio produce” 93 . Il che, si ritiene, è ciò che accade nella nostra ipotesi: illecito è, infatti, l’abuso da parte dell’impresa aderente all’intesa la quale, in forza del conseguente accresciuto potere di mercato, impone al proprio interlocutore a valle un regolamento negoziale a sua vo lta sperequato. 92 La tesi è formulata da M. M ELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 190 ss., la quale riferisce l’analisi, per la gran parte, alla norma dell’art. 3 della legge n. 287/90 (e dunque alla fattispecie dell’abuso di posizione dominante), di seguito estendendo l’angolo di osservazione anche alle intese restrittive della concorrenza (p. 197). L’Autrice, pur riferendosi nella specie al dolo incidente, suggerisce un richiamo al sistema generale dell’annullabilità definito dal codice civile (artt. 1425 ss.), ravvisando una comunanza di elementi (abuso e vizio del consenso) tra la problematica in esame e la disciplina codicistica: il “primo elemento (l’abuso) perché, come dice la parola stessa, la controparte approfitta della situazione di particolare forza in cui si trova per realizzare un assetto di interessi a sé particolarmente favorevole”; il “secondo elemento (il vizio del consenso) perché, a differenza dell’ipotesi della rescissione, la situazione che si sfrutta a proprio vantaggio non è preesistente, nella sfera del contraente debole. Al contrario, essa è eteroindotta, ed è indotta proprio da colui che abusa il quale, conscio della propria superiorità economica, la sfrutta, diciamo eccessivamente, a proprio vantaggio. Una situazione tale da incidere non soltanto sull’assetto di interessi, ma anche sulla libera determinazione del consenso”. Contrario all’utilizzazione in via analogica della figura della annullabilità è invece M. LIBERTINI , Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, cit., p. 451, secondo il quale, nei casi in cui il contratto derivato non è stato stipulato approfittando della dipendenza economica della parte debole, non ricorre l’analogia con i vizi del consenso. 93 Così, ancora, M. M ELI, op. ult. cit., p. 190. 144 L’abuso della parte collusa viene quindi valutata alla stregua di un elemento viziante il tessuto pattizio ab interno, tanto da rivolgersi, con riguardo al contraente a valle, in termini di volontà prevaricata. Come è stato osservato con riguardo alle fattispecie che ci toccano più da presso “Il monopolio, la posizione dominante, il cartello (…) sono altrettanti fenomeni che hanno fatto irruzione nella vita sociale, nella consapevolezza del giurista e nelle fonti scritte del nostro sistema. Ognuno di questi fenomeni turba la regolarità della formazione del contratto e porta con sé un vizio del consenso” 94 . Partendo dal paragrafo 138 del BGB, passando per l’art. 3.10 dei Principi Unidroit dei contratti commerciali internazionali 95 , per l’art. 4:109 dei Principles of European Contract Law elaborati dalla Commissione Lando 96 , per la legislazione speciale nazionale (in particolare la legge n. 192/1998 in materia di subfornitura, così come novellata dalla legge n. 57/2001), si giunge quindi a definire l’esigenza di accordare maggiore protezione alle vittime degli abusi distorsivi del mercato identificando nella norma dell’art. 1337 cod. civ., teso a reprimere le conseguenze della culpa in contrahendo, “il vero punto di partenza di tutta la protezione di cui il soggetto abbisogna allorché negozia, poiché questa protezione viene somministrata secondo una valutazione comparativa della condotta dei contraenti e poiché la prevenzione stessa dell’ingiustizia contrattuale è affidata largamente alla repressione della malafede”97 . Nella prospettiva di una valorizzazione dell’art. 1337 cod. civ., si suggerisce dunque l’impiego della norma al di là del diritto dei contratti e dell’illecito civile, pur tuttavia rimanendo nell’alveo del rapporto obbligatorio, in quella che è stata 94 Cfr. R. SACCO - G. DE NOVA , Il contratto, in Trattato di diritto civile, a cura di R. Sacco, vol. I , Torino, 2004, pp. 454-471, in specie, p. 469. 95 La norma include tra le possibili cause di invalidità dei contratti, oltre ai classici vizi della volontà, anche la gross disparity, consentendo ad una parte di annullare (avoidance) il contratto qualora vi sia uno squilibrio tra le obbligazioni delle parti, che ingiustificatamente attribuisce ad una parte un eccessivo vantaggio, oppure di domandarne la revisione, in modo da adeguarlo a ragionevoli standards di correttezza commerciale. La revisione può anche essere offerta dalla parte avvantaggiata per salvare il contratto, dopo che l’altra ne abbia chiesto l’annullamento. 96 L’art. 4:109 dei Principi Lando attribuisce ad una parte il diritto di chiedere la rettifica del contratto in una serie di ipotesi tra cui l’approfittamento di una parte della situazione di difficoltà o di dipendenza in cui versi l’altra, in un modo eccessivamente scorretto (gross unfair). A riguardo si veda G. A LPA, Il codice civile europeo: “e pluribus unum”, in Contr. e impr./Europa, 1999, p. 695. 97 Cfr., ancora, R. SACCO - G. DE NOVA , op. ult. cit., p. 455. 145 definita una prospettiva “quasi-contrattuale” 98 , fondata su un superamento dell’antica distinzione tra regole di validità e regole di buona fede. Da un lato, il confine dei tradizionali vizi del consenso appare ad alcuni sempre più angusto e rigido, inducendo l’interprete ad una “espansione” e ad una “traslazione” delle figure tipizzate (quali il dolo, la violenza e l’incapacità naturale), così smentendo nella sostanza l’idea (cui pur formalmente si continua a prestare ossequio) che l’annullabilità si conformi interamente (a differenza della nullità) sul paradigma di una invalidità testuale, giammai virtuale99 . Dall’altro - e soprattutto sul versante della nullità - si osserva la crescente difficoltà nel contestare che i rimedi invalidanti “sono ormai lontanissimi dalle rigorose sistemazioni concettuali imperniate sulla mancanza (o sul vizio) di un elemento costitutivo del contratto concepito nella sua struttura organica di fattispecie”100 . Da queste considerazioni muove dunque lo sforzo di individuare il parametro normativo attraverso il quale riportare la problematica all’interno del sistema della annullabilità101 e, nella specie, nella norma dell’art. 1440 cod. civ., disciplinante la figura del dolo incidente, alla luce della quale “Se i raggiri non sono stati tali da 98 E. SCODITTI, Danni da intesa anticoncorrenziale per una delle parti dell’accordo: il punto di vista del giudice italiano, in Foro it., 2002, IV, p. 84 ss., in cui esplicita è l’adesione ai modelli elaborati in proposito da Mengoni e Castronovo. 99 Sulla tipicità dei vizi del consenso (e delle connesse ipotesi di invalidità), e sui riflessi che questa asserita tipicità dovrebbe avere sul terreno dell’interpretazione, si veda G. D’A MICO, Regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto, op. cit., p. 17 ss. 100 Così U. BRECCIA, Causa, in Il contratto in generale, tomo III, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, vol. XIII, Torino, 1999, p. 76; e vedi anche ivi la citazione a GHESTIN, Les obligations. Le contract: formation, p. 869, il quale riassume il tramonto della teoria classica dell’invalidità, osservando che “la teoria della nullità, concepita essenzialmente in considerazione degli elementi costituivi del contratto (consenso, oggetto, causa, e capacità) si dimostra sempre più inadeguata di fronte alla moltiplicazione delle regole di ordine pubblico che limitano ai nostri giorni la libertà contrattuale”. 101 Nel prospettare la soluzione, ci si riferisce infatti alla annullabilità per vizi del consenso come “sistema”, e non all’applicazione analogica della disciplina prevista per una singola ipotesi. L’accostamento dell’abuso alle figure del dolo o della violenza viene infatti giudicata come una forzatura del dato testuale, e ciò soprattutto con riguardo alla violenza, la cui previsione normativa evoca la necessità di un comportamento attivo, volto a paventare nel contraente il rischio delle conseguenze cui si sottopone se non addiviene alla conclusione del contratto (il male ingiusto). Più ancora, la forzatura del dato normativo è riscontrata con riguardo ai requisiti che di quel male sono previsti, ovvero alla gravità ed alla consistenza, che non sembrano adattabili alla nostra ipotesi. 146 determinare il consenso, il contratto è valido, benché senza di essi sarebbe stato concluso a condizioni diverse; ma il contraente in mala fede risponde dei danni” 102 . La figura del dolo incidente - incentrato sull’attività ingannatoria (i raggiri) di una delle parti, tesa ad influire sulle condizioni cui il contratto viene concluso ruota infatti attorno alla volontà del contraente ingannato il quale, ferma restando la libera maturazione del consenso negoziale (intaccato non nell’an, ma solo nel quomodo), è indotto alla stipulazione di un contratto che, in assenza della pressione psicologica dettata dalla forza economica della controparte, avrebbe ugualmente perfezionato ma a condizioni diverse da quelle concretamente stabilite103 . Pregio della soluzione consisterebbe quindi nell’eliminare il rischio della invalidità del contratto, congiuntamente obbligando il contraente raggirante (l’impresa concertante) a risarcire il danno patito in termini negoziali dalla controparte per effetto dell’alterazione delle condizioni contrattuali praticate nel settore di riferimento 104 . Risarcimento che, nella specie, non sarebbe limitato all’interesse negativo, ma riferito alle migliori condizioni negoziali che la parte lesa avrebbe ottenuto ove il contratto, in assenza dell’attività dolosa della controparte, fosse stato concluso senza l’illecita interferenza (pari alla differenza tra le condizioni contrattuali che si sarebbero avute ove non si fosse realizzata la fattispecie ingannatoria e quelle in concreto avute per effetto di tale attività). Riportando, mutatis mutandis, il discorso entro gli argini della vicenda che ci occupa più da vicino, si nota quindi che il ricorso al rimedio di cui all’art. 1440 cod. civ., oltre a mantenere in vita i singoli rapporti a valle, consente di colpire il comportamento scorretto delle imprese aderenti all’intesa proprio per mezzo dello 102 M. M ELI , op. ult. cit., sul punto richiama anche la norma dell’art. 1432 cod. civ. in tema di “Mantenimento del contratto rettificato”, che però non ritiene utilizzabile all’interno di un conflitto caratterizzato (riportando il discorso alla fattispecie dell’abuso di posizione dominante) dal binomio “soggetto che abusa/vittima dell’abuso”, in quanto riferita ad un vizio del consenso autonomamente prodottosi in capo ad uno dei contraenti. In tal caso, osserva l’Autrice, il legislatore consente alla controparte di evitare l’annullamento, modificando il contenuto del contratto secondo quei parametri che lo stesso soggetto caduto in errore si era rappresentato. 103 Sul concetto di dolo incidente si veda, inter pluribus, V. ROPPO, Il contratto, op. cit., p. 184. 104 Nel senso che l’art. 1440 cod. civ., sia norma idonea a fondare la coesistenza tra atto illecito e attività negoziale, si veda A. TRABUCCHI, Dolo (diritto civile), in Nov. Dig. It., p. 151, secondo cui il risarcimento deve assumere la forma di una diminuzione del contenuto della controprestazione, il danno essendo costituito dalla minor convenienza dell’affare. 147 strumento risarcitorio, atto a recuperare il danno in una misura coincidente con la differenza tra il prezzo concorrenziale e quello monopolistico. Esito della soluzione consisterebbe pertanto nel coniugare, riconducendole ad unità, le divaricate questioni dell’invalidità dei contratti a valle e quella del risarcimento del danno da illecito antitrust, in ultimo disgiunte dalla soluzione offerta al paragrafo che segue. Perché possa accogliersi una tesi quale quella esposta è tuttavia necessario giova precisarlo - muovere da un presupposto dato per condiviso e fermo alla stregua di un assioma, ovvero la pretesa estensibilità del rimedio previsto dall’art. 1440 cod. civ. qua le applicazione di un principio generale in materia di risarcimento del danno ed espressione di un più generale principio di conservazione del contratto in tutti quei casi in cui, come quello di specie, l’eliminazione di una fattispecie a fronte di un abuso non corrisponde al reale interesse della parte danneggiata 105 . 105 Così, F. LUCARELLI, Lesione di interessi e annullamento del contratto, Milano, 1964, p. 122 ss. L’argomentazione è stata ripresa in una lettura dell’art. 1440 cod. civ. tesa ad estendere il rimedio risarcitorio ivi previsto a tutti i c.d. “vizi incompleti” del contratto (violenza “incidente”, approfittamento dello stato di bisogno altrui “incidente” e via di seguito). Nella prospettiva indicata, l’art. 1440 cod. civ. sarebbe norma eccezionale rispetto alla previsione del dolo determinante, nella parte in cui preclude l’accesso all’azione di annullamento pur in presenza di un fattore turbativo della volontà, ma non nella parte in cui contiene un accertamento normativo dell’esistenza di un illecito. Sotto tale profilo, secondo M. M ANTOVANI , “Vizi incompleti” del contratto e rimedio risarcitorio, Torino, 1995, la norma dell’art. 1440 sarebbe, in presenza di una regola generale sul fatto illecito, meramente “pleonastica”; per altro verso, invece, meramente applicativa dell’art. 1337 cod. civ. La tesi che intende desumere dall’art. 1440 la generale esercitabilità dell’azione di danno a tutti i casi di “vizi incidenti” ha trovato forti resistenze anche in G. D’A MICO, Regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto, op. cit., p. 17 ss. e ID., Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto, op. cit., p. 40 ss., secondo il quale affermare che nell’ambito di un rapporto contrattuale validamente concluso possa sopravvivere una responsabilità precontrattuale di una parte per il comportamento scorretto da essa tenuto nella fase della formazione del contratto (comportamento che comunque non presenta in concreto caratteri tali da integrare gli estremi di un vizio della volontà o di altra causa di invalidità, cui esso sia astrattamente riconducibile), significa infatti “aggirare” sostanzialmente il rigoroso meccanismo delle invalidità, chiamando il principio di buona fede a svolgere (attraverso lo strumento risarcitorio) “un improprio ruolo di integrazione e di rimedio delle pretese lacune del sistema delle invalidità, e di garanzia (attraverso il meccanismo compensatorio o correttivo del risarcimento) della giustizia o equità del contratto. Sul punto, M. M ELI, op. cit., p. 193, nota 83, peraltro precisa che l’impostazione da lei suggerita resterebbe incolume da obiezioni di questa natura, “giacché non si tratta di desumere da una regola di responsabilità (il comportamento scorretto) una conseguenza sul piano dell’invalidità negoziale, ma di ricondurre l’ipotesi di abuso a quelle dei vizi del consenso eteroindotti, evidenziandone l’identità di ratio”. Conseguenza di quest’ultima considerazione è, nel pensiero dell’Autrice, che “ogni qualvolta ricorra il medesimo (o analogo) tipo di sopruso, dovrà applicarsi il medesimo rimedio” (p. 196). 148 Il dato, tuttavia, appare tutt’altro che condiviso, distinguendosi una dottrina che guarda al rimedio risarcitorio di cui all’art. 1440 cod. civ. come ad uno strumento eccezionale rispetto alla figura generale del dolo determinante (da cui, lo si ricordi, non discende il solo ristoro del danno, ma anche l’annullabilità del contratto), come tale non suscettibile di applicazione in via analogica se non al ricorrere dei rigidi requisiti normativamente prescritti106 . Anche la tesi da ultimo prospettata, quindi, non risulta esente da obiezioni, essendo la stessa classificazione della responsabilità da dolo incidente fortemente controversa, attesa la riconosciuta attitudine della fattispecie a porsi in una posizione intermedia tra la responsabilità contrattuale e quella precontrattuale, nell’ambito della quale la dottrina sembra più incline ad inserirla 107 . Difficoltosa risulta, altresì, la possibilità di configurare, con riguardo al rapporto tra impresa collusa e contraente a valle, gli estremi del raggiro necessari ai fini della sussumibilità della fattispecie nell’alveo della previsione astratta di cui all’art. 1440 cod. civ. Ciò di cui il contratto a valle pare carente perché il rimedio esperibile possa essere qualificato nei termini esposti è infatti non solo l’errore del contraente danneggiato quale conseguenza dell’attività ingannatoria del deceptor, ma anche la possibilità di inquadrare l’intesa antitrust quale strumento idoneo a condizionare in via diretta (secondo un meccanismo di propagazione causale) la volontà negoziale del consumatore, risultando piuttosto preordinata a scalfire l’equilibrio concorrenziale del mercato. Il presupposto che più di ogni altro sembra non convincere la dottrina misuratasi sul punto è però prima di tutto la ravvisabilità di un vizio nel processo di formazione della volontà negoziale del consumatore il cui consenso, anche di fronte ad un ignoto cartello di imprese che applicano in modo concordato le medesime condizioni, rimane del tutto libero e consapevole. Ciò che va infatti rilevato “è che ad essere alterato non è tanto il processo di formazione della volontà dell’aderente, 106 Di questo avviso, ad esempio, L. M ENGONI, “Metus causam dans” e “metus incidens”, in Riv. dir. comm., 1952, p. 20. 107 In questo ordine di idee, anche C.M. BIANCA, Il contratto, in Diritto civile, Milano, 2000, p. 173; V. ROPPO, Il contratto, op. cit., p. 184. 149 quanto quello delle condizioni generali dell’imprenditore” 108 , il quale, intervenendo in un momento antecedente ed estraneo alla fase negoziale vera e propria, non potrebbe incidere, condizionandola, sulla libera determinazione del consumatore. 3.4. Una tesi minoritaria: la rescindibilità ed il diritto alla correzione del contratto Una tesi minoritaria, della quale è comunque opportuno dare conto, è quella che individua nell’azione di rescissione del contratto a valle lo strumento di natura privatistica idoneo a tutelare quanti abbiano stretto una relazione negoziale con una delle imprese concordatarie. Contestando le affermazioni di coloro i quali predicano tanto l’invalidità dei contratti a valle quanto la possibilità di promuovere l’azione di risarcimento del danno in via extracontrattuale, la ricostruzione elabora la soluzione al problema partendo dal concetto di “giustizia contrattuale”109 . Muovendo dal presupposto che il fondamento dell’azione di rescissione per lesione di cui all’art. 1448 cod. civ. 110 sia da ravvisare in un principio di giustizia 108 Così A. M IRONE, Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, op. cit., p. 73, nota 266. 109 Sostenitore della tesi è, con riguardo all’oggetto di indagine, G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., p. 110 ss., il quale ravvisa la tendenza del legislatore del 1942 a riconoscere in linea di principio come economicamente razionali (e quindi “giusti”) i rapporti negoziali che costituiscono espressione di una scelta libera e consapevole, predisponendo dunque una serie di strumenti di intervento tesi a ripristinare l’equilibrio negoziale tra le parti ove intervengano circostanze di fatto che dall’esterno incidono sulle modalità di formazione del consenso individuale. Espressione di ciò sarebbero in particolare, ravvisabili nel disposto degli artt. 1371 e 1374 cod. civ. che rinviano al principio di equità ora come criterio di interpretazione, ora come fonte di integrazione dell’atto negoziale - e, soprattutto, nella categoria dell’annullabilità. Non si taccia, a riguardo, che il problema della giustizia contrattuale è ultimamente avvertito in maniera evidente soprattutto dal legislatore comunitario, il quale si è andato mostrando sempre più sensibile alle istanze di giustizia sostanziale mosse da quanti versano, in ambito negoziale, in una posizione di fisiologica e strutturale asimmetria. Considerazioni interessanti a riguardo si ritrovano, con riguardo al diritto europeo dei contratti, in M. J. BONELL, I principi Unidroit – Un approccio moderno al diritto dei contratti, in Riv. dir. civ., 1997, I, p. 231; R. A LESSI , Diritto europeo dei contratti e regole dello scambio, in Eur. e dir. priv., 2000, p. 961 ss.; D. CORAPI, L’equilibrio delle posizioni contrattuali nei Principi Unidroit, ivi, 2002, p. 23 ss. La tesi è astrattamente paventata anche da R. SACCO - G. DE NOVA , Il contratto, Torino, 2004, terza edizione, p. 610, i quali depongono poi a favore del rimedio risarcitorio generale di cui all’art. 2043 cod. civ. Contrario alla soluzione della reductio ad aequitatem proposta da Guizzi è A. BERTOLOTTI, Ancora su norme antitrust e contratti a valle, cit., p. 2679 ss. 110 Rammentiamo il dettato della disposizione, secondo cui “Se vi è sproporzione tra la prestazione di una parte e quella dell’altra, e la sproporzione è dipesa dallo stato di bisogno di una parte, del quale 150 oggettiva del contratto, si ritiene che lo strumento attraverso cui proteggere coloro i quali hanno contrattato con imprese che hanno alterato le condizioni competitive del mercato consista nel riconoscimento al soggetto leso della possibilità di agire giudizialmente per eliminare il vincolo attraverso la rescissione del contratto, o per ottenerne la correzione 111 . Questi rimedi, si afferma “lungi dal rappresentare un’anomalia del sistema, debbono infatti essere considerati come gli ordinari strumenti di protezione accordati dall’ordinamento a chi, pur non versando in una delle classiche ipotesi di vizio della volontà, subisca, anche per effetto di una innaturale compressione della propria libertà di scelta, condizioni contrattuali che, non giustificate dalla struttura del mercato, conducano ad un assetto di interessi non equo, non fondato cioè su una commisurazione reciproca dei vantaggi e sacrifici” 112 . A questo scopo si propone dunque di superare la specificità dei presupposti cui l’azione è ancorata ai sensi dell’art. 1448 cod. civ. proponendone una estensio ne generale, informata alla trasformazione che si sostiene il rimedio rescissorio abbia subito nella prassi applicativa. Ricostruendo una tendenza evolutiva giurisprudenziale maturata nella lettura della norma, si giunge così ad affermare che lo “stato di bisogno”, originariamente concepito “come impulso irresistibile alla contrattazione provocato da uno stato di necessità economica”, possa essere identificato “con qualsiasi condizione di difficoltà, anche solo momentanea nel reperire beni o servizi”. Così anche per quanto riguarda la nozione di “approfittamento”, inizialmente ravvisata solo ove la condotta positiva del contraente avvantaggiato fosse l’altra ha approfittato per trarne vantaggio, la parte danneggiata può domandare la rescissione del contratto. L’azione non è ammissibile se la lesione non eccede la metà del valore che la prestazione eseguita o promessa dalla parte danneggiata aveva al tempo del contratto. La lesione deve perdurare fino al tempo in cui la domanda è proposta. Non possono essere rescissi per causa di lesione i contratti aleatori. Sono salve le riposizioni relative alla rescissione della divisione”. 111 La possibilità per il contraente pregiudicato di ricorrere alla sola correzione del contenuto contrattuale viene, in particolare, giustificata superando il limite di cui all’art. 1450 cod. civ., il quale, si ricordi, legittima la modificazione del contratto sufficiente a ricondurlo ad equità solo ove tale offerta venga formulata dal soggetto contro il quale è domandata la rescissione (e dunque il contraente avvantaggiato convenuto in giudizio), al fine di evitarla. La possibilità per il contraente leso di esperire l’azione di correzione del contratto viene quindi giustificata evidenziando il fine di tutela in cui consisterebbe la ratio della stessa reductio ad aequitatem, tesa a consentire la conservazione del contratto e ad una contestuale riallocazione delle risorse. 151 caratterizzata dal proposito di danneggiare la parte più debole e nel tempo accertata anche in presenza di un comportamento meramente passivo, consistente nella semplice consapevolezza del pregiudizio arrecato alla controparte con la stipulazione del contratto. Ciò detto, si propone - a fronte di questo processo di progressiva erosione della specificità dei requisiti caratterizzanti il rimedio rescissorio di cui all’art. 1448 cod. civ., di cui si propugna l’ampliamento della sfera di operatività - una lettura del principio codificato dalla norma come tendenzialmente generale e dunque applicabile analogicamente in tutti quei casi in cui circostanze obiettive - quale può essere la definizione imprenditoriale di un modello comportamentale uniforme in grado di alterare l’assetto competitivo del mercato - intervengono a condizionare dall’esterno la libertà di scelta di uno dei contraenti e sono utilizzate consapevolmente dalla controparte per trarne un vantaggio (in questo caso, l’extra-profitto) 113 . Particolare attenzione viene poi rivolta al profilo della correzione giudiziale in senso equitativo del contratto ed alla possibilità per la stessa vittima della lesione di esperire il rimedio in via d’azione 114 . La possibilità per il contraente pregiudicato di ricorrere alla sola revisione del contenuto contrattuale (e non al pregiudizievole scioglimento del vincolo) viene, nella specie, paventata adducendo una serie di argomentazioni tese a superare il limite insito nell’impianto normativo del codice e soprattutto nel dettato dell’art. 1450 cod. civ. La norma infatti, lo si ricordi, legittima la modificazione del contratto sufficiente a ricondurlo ad equità solo ove tale offerta venga avanzata dal soggetto contro il 112 Così, G. GUIZZI, op. cit., pp. 116-117. Come osserva V. ROPPO, Contratto (voce), in Digesto, Disc. priv., sez. civ., vol. IV, Torino, 1989, p. 87 ss. e, nella specie, p. 136, “L’ordinamento non tutela l’intrinseca giustizia dello scambio contrattuale, ma solo la formale correttezza delle modalità esterne con cui lo scambio è deciso e realizzato”, in quanto l’indiscriminata tutela degli interessi particolari dei singoli operatori sconvolgerebbe la dinamica razionale dei rapporti economici. 114 Secondo F. PROSPERI , op. cit., p. 676, prefigurare un controllo giudiziale dell’equilibrio economico del contratto attraverso il parametro della buona fede non significa introdurre forme di “dirigismo statalistico”. Il contratto infatti, osserva l’Autore, rimane rivolto a realizzare ciò che le parti hanno autonomamente voluto e agli interessi direttamente perseguiti non si sovrappone alcun 113 152 quale è domandata la rescissione (e dunque dal contraente avva ntaggiato convenuto in giudizio), al fine di evitarla. La possibilità per il contraente leso di esperire l’azione di correzione di un contratto oggettivamente squilibrato viene quindi giustificata sostenendo che la ratio complessiva della stessa reductio ad aequitatem - in quanto tesa a consentire la conservazione del contratto e ad una contestuale riallocazione delle risorse - sia da individuare proprio nel fine di tutelare l’interesse della parte che ha subito il pregiudizio 115 . Da queste considerazioni ge nerali si sostiene quindi che l’equilibrio negoziale raggiunto all’interno del singolo contratto a valle, alterato dalla presenza a monte di una condotta vietata ai sensi dell’art. 2 della legge n. 287/90, possa essere ripristinato attribuendo al soggetto che di quell’alterazione faccia le spese la legittimazione ad agire al fine di mettere in discussione la vincolatività del pactum o, comunque, di ottenerne la correzione sino a ricondurlo ad equità. Anche tale tesi, nonostante il merito riconducibile al tentativo di soddisfare istanze di tipo equitativo, non pare indenne da obiezioni. Pur non disconoscendo la tendenza maturata a seguito dell’ampio numero di interventi normativi di derivazione comunitaria, una parte sostanziale della dottrina civilistica sostiene infatti che il nostro ordinamento non contempli alcun principio di giustizia contrattuale, al contrario postulando una regola generale di irrilevanza dell’equità dello scambio. Alla luce di una simile premessa, si configura dunque l’istituto della rescissione quale strumento eccezionale della tutela del contraente debole rispetto al principio generale della irrilevanza dell’equità dello scambio, alla stregua del quale la possibilità che il contratto non conduca agli esiti convenienti prefigurati dal altro valore, al contrario sanzionando soltanto l’ingiusto vantaggio che la parte dotata di maggiore forza socio-economica abbia realizzato abusando della condizione di debolezza dell’altra parte. 115 L’Autore, in particolare, ritiene l’azione di correzione coerente tanto con la ratio dell’art. 1450 cod. civ. e dell’istituto della rescissione, quanto con il principio sotteso alla norma dell’art. 2041 cod. civ., in cui sarebbe ravvisabile una generale azione di correzione “tesa ad evitare che un soggetto consegua, a carico di chi tale iniziativa ha assunto, un vantaggio che, pure in presenza di un titolo formalmente valido, è però… privo di giustificazione economica” (cfr. G. GUIZZI, op. cit., p. 122). 153 contraente non costituisce altro che l’alea propria di qualunque operazione negoziale. Con la fattispecie rescissoria, infatti, “il diritto non vuole sostituire un prezzo giusto a un prezzo effettivo, ma proteggere la libertà della parte che, caduta in istato di pericolo o di bisogno, non ha consapevolmente deciso la propria scelta”116 . Un’ulteriore argomentazione mossa a criticare questa ricostruzione del problema attiene alla possibilità di rinvenire un nesso eziologico tra l’azione preordinata alla correzio ne del contratto e la norma di cui all’art. 2041 cod. civ. Sul punto si ritiene infatti difficilmente configurabile un’azione di arricchimento senza causa a favore del contraente estraneo all’intesa con l’esistenza di un titolo negoziale valido 117 . Aderendo alle descritte critiche, si dedica ora particolare attenzione a quello che tra i rimedi civilistici è attualmente considerato, da dottrina e recente giurisprudenza, maggiormente aderente alla problematica e funzionale alla tutela del contraente pregiudicato: il risarcimento del danno in via extracontrattuale. 3.5. L’illecito anticoncorrenziale ed il risarcimento del danno in via extra-contrattuale: una questione ancora aperta 3.5.1. Il rimedio aquiliano e la selezione degli interessi rilevanti nel diritto antitrust Tra le soluzioni prospettate a fronte di una infrazione concorrenziale quale quella disciplinata dall’art. 2 della legge n. 287/90 (“l’intesa”), il risarcimento del danno è destinato a divenire - anche alla luce di una recente fitta giurisprudenza (soprattutto di merito) - il più importante dei rimedi previsti dall’art. 33, comma 2, il quale, nella specie, configura un’azione risarcitoria svincolata da altre figure di illecito: quella per il danno da torto antitrust 118 . 116 Così N. IRTI, Persona e mercato, op. cit., p. 289, ora ne L’ordine giuridico del mercato, op. cit., p. 70. 117 Di questo avviso M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, cit., p. 457, nota 26. 118 La soluzione è stata di recente avallata da una fitta e variegata giurisprudenza di merito, la quale, a seguito della più volte richiamata pronuncia della Cassazione, n. 17475/2002, ha optato per la tutela aquiliana del danno subito dal consumatore a causa dell’infrazione anticoncorrenziale in quanto “conseguenza di un atto illecito”, coincidente con “l’illegittimo aumento dei prezzi che è sicuramente 154 Il legame intercorrente tra nullità dell’intesa a monte, contratti a valle e rimedio risarcitorio viene messo in risalto soprattutto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, la quale in una recente pronuncia ha osservato che “la legge ha previsto una tutela civilistica, autonoma e concorrente rispetto alle funzioni esercitate dall’Autorità, ad opera della Corte d’Appello competente per territorio in relazione ad azioni di nullità, risarcimento danni e ricorsi diretti ad ottenere provvedimenti d’urgenza per violazione delle disposizioni antitrust; la qual cosa lascia dedurre che se l’accordo antitrust può essere dichiarato nullo, i contratti scaturiti in dipendenza di tale accordo o intesa mantengono la loro validità e possono dar derivante da atto illecito”. Cfr., tra le diverse pronunce, Giudice di Pace di Sala Consilina, n. 252/2001; Giudice di Pace di Lecce, 30 gennaio 2003, in Giur. merito, n. 6/2003, p. 1109 ss., con nota di S. CASCIARO, Intesa di cartello tra imprese assicuratrici e lesione dei diritti dei consumatori, ed in Gius, 2003, p. 869; Giudice di Pace di Casoria, 12 febbraio 2003, in Foro it., 2003, I, p. 2192. Altre volte invece, con riguardo alle controversie instaurate prima della modifica dell’art. 113 c.p.c., il ricorso ai criteri equitativi di valutazione ha giustificato la condanna della società convenuta alla restituzione di una somma pari al 10% del premio assicurativo per “indebito aumento” (cfr. Giudice di Pace di Roma, 21 marzo 2003, in Gius, 2003, p. 2179), oppure a titolo di ripetizione di indebito oggettivo ex art. 2033 cod. civ. (cfr. Giudice di Pace di Torre Annunziata, 13 gennaio 2003, inedita). Non sono poi mancate sentenze di condanna al pagamento di somme liquidate sic et simpliciter in modo equitativo “per violazione dell’obbligo di buona fede nella formulazione ed esecuzione del contratto nonché di violazione dei doveri di correttezza, trasparenza ed equità imposti ex lege n. 281 del 1998” (così Giudice di Pace di Petilia Policastro, 27 gennaio 2003, inedita). Come vedremo, l’argomento si intreccia all’ulteriore profilo, anch’esso problematico e molto discusso, della selezione dei soggetti legittimati da un punto di vista processuale a proporre le azioni di cui all’art. 33 della legge n. 287/90 [risolto da ultimo dalle SS.UU. con la sentenza n. 2207/05]. A riguardo, si ricordi che la legge n. 287/90 non contiene alcuna disposizione specifica in materia di risarcimento del danno; l’art. 33, infatti, rubricato “Competenza giurisdizionale”, dispone al comma 2 che “Le azioni di nullità e di risarcimento del danno, nonché i ricorsi intesi ad ottenere provvedimenti di urgenza in relazione alla violazione delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV sono promossi davanti alla corte d’appello competente per territorio”. La norma - rileva A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., pp. 159-160 - si presenta pertanto estremamente diversa dalla disciplina in materia di concorrenza sleale: “mentre infatti l’art. 2600 cod. civ. appare essere una norma di diritto sostanziale in qualche misura completa (…), l’art. 33 della l. 287/90, come del resto si evince anche dal titolo, parrebbe essere una norma meramente processuale”, che ha la finalità di creare una particolare competenza esclusiva per materia in deroga alle regole generali sulla competenza contenute nel c.p.c.; “…sotto il profilo sostanziale, la norma sembra semplicemente fare rinvio alle regole generali in materia di illecito. Cionondimeno, essa contiene taluni spunti di grande interesse (…), giacché rende certo e inequivocabile che la violazione delle norme contenute nei primi quattro titoli della legge, e cioè fino all’art. 26 compreso, può originare un diritto al risarcimento del danno a favore delle vittime della violazione stessa”. Sul punto si vedano anche le considerazioni di A. LALLI, La selezione degli interessi rilevanti nel diritto della concorrenza, in Dir. amm., n. 2/2004, p. 403 ss. Contrario alla risarcibilità in via extracontrattuale del danno da illecito antitrust è invece G. GUIZZI, op. cit., p. 104, secondo il quale “la determinazione di un certo contenuto contrattuale… non può tendenzialmente mai assurgere a fatto produttivo di danno risarcibile”. 155 luogo solo ad azione di risarcimento del danno nei confronti dei distributori da parte degli utenti” 119 . In merito giova in particolare evidenziare che l’art. 33 rappresenta l’unica disposizione nell’ambito della normativa antitrust nazionale relativa alla tutela civile 120 , la quale, attesa la specificazione dei presupposti necessari al fine della esperibilità dell’azione, solleva problemi di non poco momento di cui si darà brevemente conto. Come si è affermato nel discorrere circa l’estensione degli strumenti di tutela accordati dall’art. 33, “ci si deve chiedere quali disposizioni della legge 287/90 integrino gli estremi della norma di tutela e con riferimento a quali categorie di soggetti” 121 . Il problema del rapporto tra nullità dell’intesa e risarcibilità del danno a valle deve infatti essere affrontato muovendo dalla lettera dell’art. 33, il quale non precisa in alcun modo a quali soggetti sia astrattamente attribuita la possibilità di adire la Corte d’Appello territorialmente competente. Un adeguato impiego della misura risarcitoria esige infatti che si faccia chiarezza intorno ad alcuni profili, attinenti in particolare alle condizioni di rilevanza del danno ed ai criteri di imputazione dell’atto dannoso e di formulazione del giudizio di responsabilità. Nell’art. 33, infatti, “la legge si limita ad evocarlo, astenendosi dal fornire indicazioni ulteriori: e ciò come se il trapianto del rimedio aquiliano nell’ambito della normativa de qua non desse luogo a problemi di sorta, e potesse avvenire mediante un semplice rinvio alla disciplina generale dei fatti illeciti (art. 2043 e ss. c.c.)” 122 . 119 Così Corte di Cassazione, sez. III, sentenza 6 giugno 2003, n. 9384. Con riguardo alla norma dell’art. 33, L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1449 ss., sottolinea la eccessiva sobrietà rispetto all’imponente apparato sanzionatorio degli artt. 2599-2601 cod. civ., considerandola una “occasione perduta”, specie per la mancata previsione dell’inibitoria, da alcuni autori e da parte della giurisprudenza ammessa per via ermeneutica (passando, in base alla identità di conformazione del pregiudizio subito, per la norma dell’art. 2599 cod. civ. ove dispone che “la sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione”). La rinuncia all’inibitoria, infatti, aggiunge l’Autore (p. 1462), appare grave soprattutto tenuto conto della strutturale inadeguatezza della misura risarcitoria a soddisfare esigenze di natura preventiva, acuita ancora di più dalla mancanza nel nostro ordinamento di un meccanismo come la treble damages nordamericana. 121 Così L. NIVARRA, op. ult. cit., p. 1453. 122 L. NIVARRA, op. ult. cit., p. 1452. 120 156 Il primo sostanziale problema che si pone con riguardo alla possibilità di invocare il rimedio risarcitorio, risiede innanzitutto nella preliminare selezione dei soggetti a ciò legittimati; questione, questa, su cui dottrina e giurisprudenza paiono attestarsi ancora su posizioni divergenti. Se da un lato è pacifica la legittimazione dei concorrenti dell’autore dell’illecito 123 , nonché di quei soggetti che si collocano negli anelli intermedi della catena distributiva (fornitori, acquirenti) che abbiano subito direttamente gli effetti del comportamento abusivo (senza con ciò concorrere a traslare il danno a terzi), fortemente contestata è, invece (almeno sino alla sopraggiunta sentenza delle SS.UU. n. 2207/2005), l’esperibilità dell’azione risarcitoria da parte dei consumatori finali, ovvero di coloro i quali si posizionano all’altezza dell’ultimo passaggio di quella medesima catena 124 . 123 A riguardo, peraltro, si dibatte circa la possibilità di estendere la legittimazione a provocare la reazione dell’ordinamento unanimemente riconosciuta alle imprese partecipanti all’accordo anche alle imprese c.d. “terze”, che, come afferma la Cassazione nella già richiamata sentenza n. 17475/2002, “siano esse stesse partecipi di quel medesimo livello operativo” (quello dell’impresa autrice dell’infrazione). Sul punto si vedano le differenti posizioni di A. PALMIERI , Intese restrittive della concorrenza e azione risarcitoria del consumatore finale: argomentazioni “extravagantes” per un illecito inconsistente”, cit., p. 1124, che pare incline alla soluzione più restrittiva: “il risarcimento da intesa restrittiva può essere richiesto soltanto da quanti abbiano deciso di coordinare i rispettivi piani di penetrazione commerciale, salvo a pentirsene in un secondo tempo, magari perché alla prova dei fatti raggiungono risultati inferiori alle attese. Apprendiamo, perciò, che la normalità nell’ordinamento interno sarebbe rappresentata da ciò che appariva ai limiti dell’eterodossia agli esegeti della sentenza Courage”; e S. BASTIANON, Antitrust e tutela civilistica: anno zero, cit., p. 394, che prospetta problematicamente l’alternativa. In realtà, è da ritenere che il discrimine giaccia nell’interpretazione della locuzione “medesimo livello operativo”. 124 “Sotto il profilo tecnico, il danno subito da quest’ultimo (il consumatore) non solo è oggettivamente differente da quello subito dall’intermediario, ma gode di una propria autonomia anche sul piano causale”, così, ancora, L. NIVARRA, op. ult. cit., p. 1455. La questione è stata largamente affrontata nel diritto antitrust statunitense, ove ha trovato esiti difficilmente trasferibili nel nostro ordinamento, attesa la diversa natura che il rimedio risarcitorio riveste nei due sistemi: “infatti, la tradizione giuridica americana ammette con larghezza la funzione deterrente del rimedio del risarcimento del danno, mentre nell’ordinamento italiano il risarcimento ha esclusivamente la funzione di compensare il danno patrimoniale subito dal danneggiato”, così M. LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, cit., p. 673. Sul tema si veda inoltre l’ampia analis i svolta da A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 262 ss., nonché, per il diritto statunitense, A. GENOVESE , Il risarcimento del danno per violazione di norme antitrust: l’esperienza americana, in Riv. soc., 1992, p. 680 ss. e G. BROGGINI, Compatibilità di sentenze statunitensi di condanna al risarcimento di “punitive damages” con il diritto europeo della responsabilità civile, in Eur. e dir. priv., 1999, p. 479 ss. 157 Su questi ultimi, in particolare, viene ad essere normalmente traslato - alla stregua del meccanismo definito dagli statunitensi di passing on - il danno concorrenziale, senza che essi siano a loro volta in grado di ritrasferire il danno 125 . In realtà si tratta di una questione che trascende la questione di natura meramente processuale, implicando dilemmi di natura sostanziale legati alle stesse finalità della normativa antitrust, la cui interpretazione incide in maniera determinante sulla possibilità di attribuire anche ai consumatori finali la legittimazione a ricorrere ai rimedi disposti dall’art. 33 126 . L’attribuzione della pretesa risarcitoria implica infatti una preliminare verifica intorno al contenuto della norma violata ed alla natura degli interessi tutelati dalla disciplina antimonopolistica. Sul punto, peraltro, giova ricordare - al fine di poter più lucidamente delineare i tratti caratterizzanti e le problematiche sottese alla proponibilità dell’azione risarcitoria - che gli esiti ermeneutici raggiunti sinora sono tutt’altro che condivisi. 125 Nell’analizzare il fenomeno della traslazione del danno, A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 324, ritiene che “il punto di partenza deve necessariamente essere quello del riconoscimento della legittimazione dei soggetti che hanno subito il danno, anche solo in conseguenza degli effetti redistributivi della pratica, e l’approccio pragmatico delle Corti deve eventualmente intervenire al solo fine di attenuare le conseguenze inique di azioni strumentali”. In merito alla teoria della traslazione del danno, S. BASTIANON , nel commentare la sentenza 6 luglio 2000, n. 1061 della Corte di Appello di Torino, in Danno e resp., n. 1/2001, p. 50, ricorda che nell’antitrust americano si è soliti distinguere all’interno della teoria della traslazione del danno tra: a) la difensive passing-on theory, in base alla quale il convenuto cerca di resistere alla domanda risarcitoria dell’attore sostenendo che quest’ultimo non può pretendere di essere risarcito per quella parte di danno che lo stesso è riuscito a trasferire su altri soggetti; b) la offensive passing-on theory, in applicazione della quale l’attore, ancorché vittima indiretta dell’illecito anticoncorrenziale, invoca la propria legittimazione ad agire a motivo del fatto che il middleman è riuscito a traslare su di lui, in tutto o in parte, gli effetti pregiudizievoli del comportamento illecito. Con le note pronunce Illinois Brick C./State of Illinois e Hanover Shoe Inc./United Shoe Machinery Corp, la Corte Suprema ha peraltro respinto entrambe le teorie, escludendo da una parte la legittimazione ad agire delle vittime indirette e, dall’altra, l’obbligo per l’attore di dedurre dalla propria domanda risarcitoria quella parte di danno eventualmente traslato su altri soggetti. 126 Come ricorda M. LIBERTINI , Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, cit., p. 672, poiché in materia di antitrust la qualificazione di illiceità dei comportamenti è operata dalla legge, ancorché con una tecnica dispositiva “a maglie larghe”, il problema della qualificazione del danno come ingiusto e il problema della individuazione di un nesso di causalità giuridicamente rilevante possono ambedue ricondursi al criterio dello “scopo della norma violata”. E’ danno ingiusto, direttamente imputabile all’autore dell’illecito, qualsiasi lesione di un interesse la cui tutela rientri fra gli scopi della legge antitrust, ovvero la lesione di quegli interessi privati la cui tutela rientra anch’essa (insieme agli interessi generali allo sviluppo economico, alla limitazione del potere di mercato, ecc.) fra gli scopi dichiarati e tradizionali della disciplina antimonopolistica. 158 Per chi aderisce alla ricostruzione tradizionale, ad esempio, l’intervento antitrust troverebbe il suo obiettivo esclusivo e primario nella tutela dell’assetto concorrenziale del mercato in quanto tale 127 , indipendentemente dalle conseguenze che l’infrazione antitrust va poi ad esplicare sulla realtà negoziale sottostante, con ciò negando ai consumatori la legittimazione a ricorrere agli strumenti di tutela di cui all’art. 33. L’assunto, tuttavia, appare tutt’altro che condiviso, registrandosi soprattutto ultimamente una certa oscillazione di vedute tra quanti, per l’appunto, si appellano ad una visione unidirezionale della normativa antitrust e quanti invece professano l’opportunità di una diversa lettura - conforme alla tendenza manifestata dalle istituzioni comunitarie - della disciplina antimonopolistica che, lontana da schemi di interpretazione univoci ed in chiave evolutiva, ponga in evidenza la complessità degli interessi toccati dall’illecito 128 . Interpretando (con le Sezioni Unite) in quest’ultimo senso la logica ultima della legislazione antimonopolistica, si ritiene infatti non solo che, in linea di principio, anche i contratti tra impresa a monte e cliente a valle possano rientrare nel mirino antitrust, ma che anche il cliente dell’impresa sia titolare di situazioni giuridiche 127 Critico a tale riguardo, con specifico riferimento alla pronuncia del Tribunale di Alba, F. PARRELLA, op. cit., p. 530, il quale evidenzia che ritenere che la disciplina antitrust assuma quale fine esclusivo la tutela della libera concorrenza in sé equivale ad affermare che essa si pone sullo stesso piano della disciplina degli atti di concorrenza sleale: il rispetto delle regole antitrust mirerebbe a garantire, al pari del rispetto delle regole di correttezza professionale, che ciascuna impresa eserciti la propria attività economica in modo da non arrecare pregiudizio alla libertà di iniziativa economica delle altre. L’interrogativo relativo alla possibilità di apprezzare la violazione della normativa antitrust alla luce degli interessi dei consumatori è affrontato diffusamente da P. CASSINIS e P. FATTORI , Disciplina antitrust, funzionamento del mercato e interessi dei consumatori, cit., p. 416 ss. 128 A riguardo, G. A MATO, Il potere e l’antitrust, Bologna, 1998, sottolinea l’inopportunità di letture univoche ed onnicomprensive del diritto della concorrenza, suggerite da certe correnti del pensiero economico, per non tradirne l’ispirazione originaria e vitale che è quella di garantire un giusto equilibrio tra potere privato e potere pubblico. Dello stesso ordine di idee è anche G. ROSSI , Antitrust e teoria della giustizia, cit., p. 14, secondo cui l’antitrust “…più che un’applicazione di teorie economiche, è uno strumento del processo democratico, allo sviluppo del quale i cittadini tutti, dagli imprenditori ai consumatori, dovrebbero partecipare come protagonisti”. Riconoscono, tra gli altri, la natura plurioffensiva dell’illecito antitrust, L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1454; S. BASTIANON, Violazione della normativa antitrust e risarcimento del danno, cit., p. 555; M. ORLANDI, La risarcibilità del danno causato da una violazione delle norme comunitarie antitrust, cit., p. 986. 159 soggettive attive tutelabili dinanzi alla Corte d’Appello territorialmente competente ex art. 33129 . Il dato evidenziato in quest’ultima prospettiva è dunque la natura plurioffensiva dell’illecito concorrenziale 130 , di per sé idoneo a pregiudicare allo stesso tempo non solo le imprese, ma anche l’interesse dei consumatori, la cui tutela deve essere considerata come una delle principali finalità della normativa antimonopolistica. Una soluzione contraria, si afferma, finirebbe infatti per discriminare “l’unico tra i vari attori che si muove sul mercato, incapace di difendersi trasferendo su altri il danno patito”131 . Difatti, “il danneggiato della pratica antitrust non è solo l’imprenditore escluso dal mercato, ma anche la clientela, acquirente finale del prodotto, che (…) vede alla fine ripercuotersi su di sé, ad esempio, l’aumento del prezzo o la diminuzione della qualità della merce compravenduta”132 . Assumendo che la violazione avvenga ad un livello iniziale della catena, “è presumibile che la prima impresa che ha dovuto sostenere un aumento di prezzo cerchi di scaricare sulla propria clientela gli effetti di tale aumento, tentando di mantenere inalterati i propri profitti” 133 . 129 Riconoscono la legittimazione dei consumatori - intesi in linea generale come ultimo anello della catena produttivo-distributiva - ad esercitare l’azione di responsabilità prevista dall’art. 33, comma 2, della legge antitrust, quali soggetti su cui da ultimo viene traslato il danno, A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 322 s.; G. ROSSI , Antitrust e teoria della giustizia, cit., p. 15, nota 35, il quale a proposito dei consumatori afferma che “in definitiva essi siano gli ultimi e veri danneggiati nella loro property”. 130 Così L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1454, secondo cui “gli illeciti del tipo in esame possiedono una vis plurioffensiva che non permette di istituire relazioni troppo rigide tra l’illecito stesso e l’area di interessi entro la quale i suoi effetti sono destinati a diffondersi”. Si veda altresì S. BASTIANON, Violazione della normativa antitrust e risarcimento del danno, cit., p. 555, il quale evidenzia la “naturale idoneità dei comportamenti anticoncorrenziali a ledere, con diversa incidenza, non solo una pluralità di soggetti, ma anche soggetti appartenenti a categorie socio-economiche non omogenee”. Così anche M. ORLANDI, La risarcibilità del danno causato da una violazione delle norme comunitarie antitrust, cit., p. 986. 131 L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1455. 132 Così, V. SCUFFI, Azione collettiva a difesa dei consumatori: legittimazione e tecniche processuali, in Dir. ind., 1999, p. 153, secondo il quale il rilievo attribuito dal legislatore alla tutela degli interessi dei consumatori è ravvisabile anche nel dettato dell’art. 12 della legge antitrust. 133 Così, ancora, A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 269, il quale, come già rilevato, fornisce una distinzione tra uso difensivo ed offensivo del passing on anche con riferimento all’esperienza americana. In argomento si veda anche A. PALMIERI , Intese restrittive della concorrenza e azione risarcitoria del consumatore finale: argomentazioni “extravagantes” per un illecito inconsistente, cit., p. 1126, secondo cui “si dispiega, infatti, nel mercato il fenomeno del passing on: chi sta nel mezzo non resterà a guardare, ma reagirà all’innalzamento dei costi e presumibilmente, nel tentativo di non vedere scalfito il proprio margine di profitto, proverà a neutralizzare il pregiudizio, scaricandolo sullo stadio inferiore”. Si veda 160 L’affermazione, peraltro, torna ad essere nuovamente contestata da quanti - pur condividendo l’affermazione di base secondo cui è innegabile una certa attenzione da parte delle norme nazionali (e comunitarie) agli effetti del coordinamento tra le imprese sui consumatori e sottolineando l’importanza di profili di efficienza distributiva e non solo allocativa, e dunque l’esistenza di un nesso tra protezione dei consumatori/utilizzatori e tutela della struttura concorrenziale del mercato continuano ad accentuare con enfasi l’aspetto di natura per lo più derivata della tutela dei consumatori dall’esistenza di un contesto di mercato concorrenziale 134 . sul punto anche L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1455, il quale osserva che “deve ritenersi che, a prescindere dalla circostanza che il rivenditore riesca o meno a trasferire sugli acquirenti posteriori il sovrapprezzo, un danno a suo carico si produrrà comunque, o attraverso una diminuzione delle vendite oppure attraverso la mancata percezione dell’aumento di prezzo che il mercato si è in concreto rivelato capace di assorbire”. Diverso è poi il caso in cui l’utente finale contratti direttamente con il soggetto colluso dall’ipotesi in cui uno o più operatori intermedi si frappongano tra l’illecito a monte ed il contratto a valle. In merito si rinvia nuovamente, tra gli altri, ad A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 322 ss.; S. BASTIANON, Violazione della normativa antitrust e risarcimento del danno, cit., p. 557. 134 Sul punto si osserva che, in generale, un comportamento d’impresa può essere considerato abusivo anche in assenza di un danno diretto ed attuale ai consumatori/utilizzatori e addirittura in presenza di un beneficio immediato per gli stessi (si veda il caso dei prezzi predatori). Lo stesso discorso è stato fatto pure (cfr. P. CASSINIS - P . FATTORI , Disciplina antitrust.., cit., p. 422) con riguardo alle fattispecie in cui tipicamente si concretizza l’abuso di posizione dominante (art. 3 della legge nazionale ed art. 82 del Trattato), là dove si vieta di “impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico, a danno dei consumatori” (lett. b). Nonostante il tenore della norma possa far apparire la stessa come uno strumento di tutela “diretta” dei consumatori/utilizzatori, si è detto, essa ha in realtà di mira la struttura concorrenziale del mercato, essendo volta a colpire i comportamenti strategici dell’impresa dominante per ostacolare l’ingresso sul mercato di un concorrente (o per costringerlo a uscirne) o per monopolizzare un mercato connesso. In tale contesto, quindi, il riferimento al “danno dei consumatori” di cui all’art. 3, lett. b), non potrebbe condurre di per sé a qualificare automaticamente come abusivo un comportamento d’impresa che, ancorché apparentemente pregiudizievole per i consumatori, non assuma rilievo sotto un profilo antitrust. Viceversa, la sussistenza di conseguenze pregiudizievoli per i consumatori - in presenza degli altri presupposti del divieto - può costituire un elemento che concorre alla qualificazione del comportamento posto in essere dall’impresa in posizione dominante come abusivo e, se del caso, ad apprezzarne la gravità sotto il profilo sanzionatorio. Sul punto cfr., V. M ANGINI - G. OLIVIERI , op. cit., p. 67; P. FATTORI , La tutela giurisdizionale nei confronti dei provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, Raccolta degli atti del IV Convegno Antitrust tra diritto nazionale e diritto comunitario, a cura di E.A. Raffaelli, Milano, 2000, p. 307. Analogamente si ragiona con riguardo alle operazioni di concentrazione di cui all’art. 6 della legge antitrust ed alla valutazione prognostica che si opera con riguardo ai fenomeni di crescita esterna delle imprese. G. A LPA, Il diritto dei consumatori, Roma-Bari, 1999, p. 90, si esprime a riguardo qualificando l’interesse dei consumatori rispetto alla disciplina antitrust quale mezzo piuttosto che come fine. In tal senso, ma con riguardo alle norme comunitarie in materia, si vedano anche le considerazioni svolte da G. ROSSI , Effetti della violazione di norme antitrust sui contratti tra imprese e clienti: un caso relativo alle norme bancarie uniformi, cit., p. 212. 161 In altri termini, si continua ad opporre (sulla base, peraltro, di un equivoco chiarito con la sentenza n. 2207/2005, per il cui esame si rinvia al Capitolo III) che la tutela del consumatore esorbiterebbe dalle finalità immediate della disciplina monopolistica dettata dalla legge n. 287/1990, esattamente come dalla - seppur distinta - disciplina della concorrenza sleale inserita negli artt. 2598 ss. cod. civ. 135 . Quest’ultima ricostruzione, in particolare, è stata avallata da una vicina sentenza della Corte di Cassazione, la quale, atteso l’impatto delle asserzioni ivi contenute e l’ampio dibattito (non ancora esauritosi) sollevato, è degna di particolare attenzione (il riferimento è, naturalmente, alla già menzionata sentenza n. 17475 del 9 dicembre 2002136 ). 135 Così, ad esempio, C. SANTAGATA, Concorrenza sleale e interessi protetti, op. cit., p. 184 ss. In merito al rilievo della tutela degli interessi dei consumatori a livello comunitario, si veda ad esempio G. A LPA, La nuova cittadinanza e i diritti dei consumatori e delle “parti deboli”, in Rass. forense, 1999, p. 799, il quale ritiene che “le esigenze dei consumatori costituiscono dunque un punto di riferimento obbligato, nel senso che non sarà sufficiente prenderle in considerazione, ma sarà necessario mediare gli interessi con esse conflittuali, per assicurare un livello di protezione elevato degli interessi dei consumatori”. Diversamente, G. ROSSI , op. ult. cit., p. 219, afferma che l’art. 1, comma 4, della legge n. 287/90, “vincola l’interprete al rispetto dei principi comunitari in materia di concorrenza, tra i quali certamente rientra, in assenza di diversa disposizione esplicita da parte del legislatore italiano, quello che eleva la libertà di concorrenza in sé ad unico oggetto del legislatore italiano, riservando al consumatore una tutela meramente indiretta”. In ordine al rapporto tra disciplina antitrust e concorrenza sleale, ferma restando la tradizionale separazione tra le due categorie (su cui si veda G.M. BERRUTI, La concorrenza sleale nel mercato. Giurisdizione ordinaria e normativa antitrust, op. cit.; G. GHIDINI, Concorrenza sleale, in Enc. dir., Aggiorn., vol. III, Milano, 1999, p. 377 ss.; parzialmente contra M. LIBERTINI, Concorrenza sleale e disciplina antitrust: una proposta di ricostruzione unitaria dei principi, Relazione al Convegno “Proprietà intellettuale e antitrust”, Perugia, 26 maggio 2001), una certa comunanza di intenti è da ultimo ravvisata da Cass., 9 dicembre 2002, n. 17475, secondo la quale la disciplina antitrust sarebbe legata da un rapporto di “continuità con le caratteristiche strutturali della disciplina codicistica della concorrenza, così come riletta, nel tempo, alla luce della Costituzione”. Dello stesso avviso è pure G. GIOIA, Vecchie intese e nuove nullità, cit., p. 14, la quale però, pur evidenziando che l’art. 2595 cod. civ. si pone in connessione con la normativa antitrust nello stabilire che “la concorrenza deve svolgersi in modo da non ledere gli interessi dell’economia nazionale e nei limiti stabiliti dalla legge”, ricorda che alla base della normativa codicistica della concorrenza sleale vi sono comunque interessi di parte, la cui tutela prescinde dalla salvaguardia del mercato concorrenziale rispetto a possibili pratiche distorsive (in questo senso anche G.M. BERRUTI, op. ult. cit.). 136 In Danno e resp., 2003, p. 390 ss., con nota di S. BASTIANON , Antitrust e tutela civilistica: anno zero; in Dir. ind., 2003, p. 172 ss., con nota di G. COLANGELO, Intese restrittive e legittimazione dei consumatori finali ex art. 33 legge antitrust; in Corr. Giur., 2003, p. 339 ss., con nota di I. NASTI, Tutela risarcitoria del consumatore per condotta anticoncorrenziale: una decisione difficile, e ivi, p. 747 ss., con nota di M. NEGRI , Risarcimento del danno da illecito antitrust e foro per la tutela del consumatore (la Cassazione non dilegua i dubbi nella vicenda Rc Auto), Si tratta della prima significativa esperienza nel nostro ordinamento di risarcimento del danno subito dai consumatori per effetto di pratiche antitrust, che va ad arricchire una fino ad oggi assai poco nutrita casistica giurisprudenziale in materia di risarcimento del danno anticoncorrenziale. Gli unici precedenti noti, fino alla sentenza Rc Auto, erano infatti quelli del già citato leading case Telsystem/Sip (per cui si 162 Sebbene la lettura della disciplina antimonopolistica accolta dai giudici di legittimità in quella occasione rappresenti una battuta d’arresto rispetto alle richiamate aperture evoluzionistiche, pare infatti di grande interesse richiamare i passaggi fondamentali della sentenza da ultimo richiamata che, pronunciata in ordine ad un caso antitrust inerente al settore assicurativo, consente di procedere ad alcune riflessioni generali intorno ai confini della risarcibilità del danno da illecito anticoncorrenziale. L’assunto primo da cui muove la Corte nell’inquadramento delle questioni sottese al caso concretamente portato al suo giudizio, è che la legge antitrust nazionale è ispirata alla “prospettiva privilegiata dell’impresa quale termine comunque principale del mercato”. Attraverso una pronuncia che a tutti gli effetti assume i contorni di una “sentenza- trattato”, i giudici della Corte, infatti, pur riconoscendo che “il consumatore finale rappresenti egli stesso un termine imprescindibile di riferimento del più generale fenomeno del mercato”137 e che la legge n. 287/1990 “tende ad assicurare le condizioni per il più pieno esprimersi della concorrenza (…) come fattore imprescindibile per l’esprimersi delle potenzialità e delle capacità del mercato”, negano poi - segnando, come poc’anzi rilevato, un marcato passo indietro rispetto alle posizioni di “avanguardia” ed alle aperture che anche la giurisprudenza andava mostrando 138 - che proprio questo soggetto, così centrale nell’equilibrio di mercato che la legge vuole regolare, trovi tutela alcuna nell’ambito della normativa antitrust. rinvia a nota 162) ed Appello di Torino, 6 luglio 2000, n. 1061, cit., in cui però si trattava di risarcimento del danno da abuso di posizione dominante richiesto da imprese concorrenti. Non constavano invece, sino alla summenzionata pronuncia, precedenti relativi al risarcimento del danno risentito dai consumatori per effetto di un’intesa. 137 Il dato da non trascurare a riguardo - come pure ricorda M. LIBERTINI , op. ult. cit., p. 435 - è che la selezione delle imprese meritevoli deve avvenire proprio grazie alla scelta di una moltitudine di consumatori liberi e informati, e dunque non pregiudicati dall’operare distorsivo di condotte imprenditoriali anticoncorrenziali incidenti negativamente sulla trasparenza del mercato e sulla fruibilità delle informazioni. 138 Si veda ad esempio, in merito alla questione della legittimazione attiva dei consumatori, l’indirizzo - opposto a quello assunto dalla Corte di legittimità nel caso assicurativo - della Corte di Appello di Torino, 6 dicembre 2002, n. 1061, la quale, nel caso Juventus/Indaba, ha affermato chiaramente che alla nullità dell’intesa vietata segue il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 33 per i terzi estranei all’infrazione - consumatori compresi -, “posto che quest’ultima (l’intesa) nei loro confronti si pone come un comportamento illecito di natura aquiliana”. 163 A questa affermazione di principio, la Corte fa quindi seguire come logico corollario l’impossibilità per il consumatore finale di invocare gli strumenti sanzionatori di cui all’art. 33 della legge nazionale al fine di chiedere il risarcimento del danno ovvero di far dichiarare nullo il contratto che ha concluso con l’impresa responsabile dell’infrazione concorrenziale 139 , atteso che “sul piano fattuale” non sarebbe ravvisabile “una qualsivoglia soglia di interesse in testa a soggetti che non siano essi stessi partecipi di quello stesso livello operativo, e rivestano invece la mera veste di consumatori finali, non potendo in alcun modo reagire su di essi l’esistenza in sé delle intese”. Come è evidente “L’esito sconvolge: sulla scorta di un approccio in odore di formalismo oltranzistico, (che) relega i consumatori nell’ingrato ruolo di figli di un dio minore, prigionieri di un paternalismo condiscendente e distratto”140 . Dall’esclusione dei consumatori dai soggetti legittimati a far valere la nullità, la Corte deduce infatti, in un’ottica sistematica, la natura “stravagante” che l’eventuale riconoscimento a quegli stessi soggetti della possibilità di azionare il ristoro di cui all’art. 33 andrebbe ad assumere rispetto all’impianto normativo, essendo “lo strumento risarcitorio previsto in stretta connessione con le azioni di nullità e di inibitoria dal medesimo secondo comma dell’art. 33; strumento il quale non può di conseguenza non lasciare presupporre esso stesso una tipologia di danni strettamente connessa alle tematiche dell’impresa e della sua presenza nel mercato”141 . 139 Contra , L. DELLI PRISCOLI, I controlli sui prezzi nei contratti d’impresa, in Riv. dir. comm., 2000, p. 101. 140 Queste le parole di R. PARDOLESI , Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 473. 141 Così ancora Cass. 9 dicembre 2002, n. 17475, cit., la quale aggiunge inoltre che il ruolo del consumatore finale sarebbe chiamato “ad esaurirsi nella sollecitazione dell’esercizio dei loro poteri da parte degli organi individuati dalla stessa legge n. 287 del 1990 in quella che si rivela la sua componente più propriamente pubblicistica”. Critico nei confronti della pronuncia è, tra gli altri, A. M ONTELERO, “Per qualche lira in più” o del danno al consumatore nei contratti a valle di un’intesa anticoncorrenziale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., n. 1/2004, p. 338, il quale, anche alla luce dei lavori parlamentari conclusisi con la formulazione dell’art. 33, comma 2, della legge antitrust, contesta la “stravaganza” del ricorso al giudice ordinario da parte del consumatore che abbia subìto un pregiudizio in conseguenza di un’intesa vietata. A riguardo, l’Autore non ritiene corretto limitare la lettura della normativa antimonopolistica in un’ottica che trascuri completamente il ruolo determinante svolto dal consumatore, il quale, con il suo comportamento indubbiamente condiziona le scelte fondamentali degli autori della produzione. 164 Ciò tuttavia, si afferma, non equivale ad escludere in capo al consumatore finale ogni possibilità di tutela in relazione “alle ricadute estreme di quelle intese vietate dal legislatore in sede di legge n. 287/1990” - questi potendo sempre agire in sede civile alla stregua delle norme ordinarie, ovvero rivolgendosi al competente giudice di pace 142 - ma solo ad escludere che tale tutela possa conseguire al “solo fatto in sé che a monte della singola operazione conclusa dal consumatore si ponga, dal lato dell’impresa, l’intesa vietata, rendendosi invece necessario che, nel concreto, il rapporto instauratosi tra il consumatore finale e l’impresa si connoti (…) per l’avvenuta violazione di un diritto soggettivo di quest’ultimo, (…) che non potrà farsi discendere dal solo fatto in sé della pregressamente intervenuta intesa vietata”, dovendo al contrario derivare dall’applicazione dei “correnti criteri di individuazione del nesso di causalità”143 . 142 Ciò salvi i limiti introdotti dal d.l. 8 febbraio 2003, n. 18 (c.d. decreto salvacompagnie), convertito con modificazioni nella legge 7 aprile 2003, n. 63, con cui, modificando l’art. 113 c.p.c., si è fissata a 1.100 euro la soglia massima sino alla quale il Giudice di Pace può decidere secondo equità, inoltre stabilendosi che la formula per equità non debba applicarsi ai contratti di massa conclusi mediante moduli o formulari. Il risultato appare poco ragionevole anche alla luce dell’esigenza di concentrare l’intero contenzioso antitrust dinanzi ad un unico giudice “specializzato”. E’ inoltre appena il caso di osservare come la formulazione dell’art. 33 dia luogo ad inopportuni grovigli di competenze, che contraddicono la stessa ratio della competenza in unico grado della Corte d’Appello, pregiudicando le proclamate finalità di concentrazione e celerità dei giudizi coinvolgenti profili antitrust. Assai più lineare, ad esempio, la legge tedesca: la GWB, come riformata nel 1999, prevede al § 87 una competenza esclusiva del tribunale, senza compressione del doppio grado, per tutte le controversie civili che sorgono dalla stessa legge, ed a quelle legate ad esse da un nesso di pregiudizialitàdipendenza; il § 88 prevede poi una deroga alla competenza per ragioni di connessione, così da consentire la trattazione unitaria, davanti al tribunale competente ai sensi del precedente § 87, delle controversie connesse; la costante preoccupazione per la concentrazione delle competenze in materia antitrust, infine, è resa palese dal § 96, che rinvia ai paragrafi richiamati per la determinazione della competenza a decidere controversie fondate sulle norme antitrust comunitarie. 143 Il panorama delle decisioni emesse a seguito della pronuncia della Suprema Corte dai giudici di pace chiamati a pronunciarsi sulle controversie tra i consumatori e le imprese di assicurazione sanzionate dall’Autorità è però estremamente diversificato: si va dall’esplicito riconoscimento secondo cui il cartello ha avuto come “effetto immediato” un aumento dei costi delle polizze Rc Auto, con condanna delle imprese - nel silenzio circa la validità delle relative clausole contrattuali alla ripetizione dell’indebito ex art. 2033 cod. civ. (così il Giudice di Pace di Agrigento nella sentenza emessa il 30 giugno 2003); all’esplicita statuizione della nullità della clausola contrattuale relativa all’importo del premio per sua contrarietà all’ordine pubblico economico (Giudice di Pace di Locri nella sentenza emessa il 31 dicembre 2002); alla condanna, secondo diritto, al risarcimento del danno (calcolato nel 20% del premio pagato) ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. (Giudice di Pace di Lecce, 8 ottobre 2003); all’affermazione secondo cui sarebbe integrata “un’ipotesi di responsabilità precontrattuale, e quindi extracontrattuale…, essendo stato chiaramente violato il dovere del “neminem laedere” ed i più elementari principi di buona fede” (Giudice di Pace di Casoria, 12 febbraio 2003, in Foro it., 2003, I, p. 2192 ss.). 165 Ai sensi dell’art. 33 della legge n. 287/1990 - prosegue la Corte - sono pertanto deducibili solo profili di “diretta ed immediata incidenza causale dell’intesa (…) nella produzione del danno lamentato, il quale si deve rendere effetto immediato e diretto dell’intesa medesima, e non di fenomeni che … si pongano solo a valle, in quanto mediati dal concreto comportamento tenuto dalle singole imprese nella gestione di singoli e specifici rapporti intessuti direttamente con i singoli consumatori; rapporti già presidiati in quanto tali dalla loro logica giuridica interna”. L’asserita alterità di piani in cui si collocano, rispettivamente, l’attività d’impresa a monte ed il contratto che involge a valle il consumatore, conduce quindi i giudici ad estromettere quest’ultimo dall’orbita antitrust, relegandone la tutela nel limbo indistinto di una “ordinaria azione di responsabilità soggetta agli ordinari criteri di competenza”, cui segue, problematica, la necessità di rinvenire uno “specifico diritto soggettivo” violato dalla produzione del danno anticoncorrenziale, non valendo la collusione, di per sé, ad integrare il profilo dell’ingiustizia del danno 144 . A riguardo, pare tra l’altro da rimarcare come la Corte, negando che “il rapporto instauratosi tra il consumatore finale e l’impresa si connoti (…) per l’avvenuta violazione di un diritto soggettivo di quest’ultimo”, finisca per attestarsi su posizioni che sembrano non tenere in debito conto dell’evoluzione segnata dalla nota sentenza n. 500/99 delle Sezioni Unite, nella misura in cui, con quest’ultima pronuncia, si riconosce che “qualunque interesse” tutelato dall’ordinamento possa, in quanto violato, integrare gli estremi potenziali del danno ingiusto. Sul punto, quindi, “scende un silenzio assordante”145 . 144 Diversamente, come rileva I. NASTI, Tutela risarcitoria del consumatore per condotta anticoncorrenziale: una decisione difficile, cit., p. 344, ove si riconoscesse al consumatore la possibilità di ricorrere ai rimedi di cui all’art. 33, lo si esonererebbe dalle limitazioni strutturali del giudizio di accertamento della responsabilità aquiliana sancito dall’art. 2043 cod. civ. Il consumatore, in altri termini, si gioverebbe di una presunzione relativa di dannosità del contratto stipulato e potrebbe ottenere il risarcimento senza dover provare l’esistenza di un danno né di un nesso causale tra il comportamento vietato ed il danno lamentato. 145 L’ossimorica espressione è ascrivibile a R. PARDOLESI , Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, op. loc. cit. 166 I giudici infatti si limitano a statuire che il consumatore non ha un diritto tutelato ai sensi della legge n. 287/90, ma non indicano in alcun modo quale sia il diritto soggettivo su cui fondare la tutela risarcitoria. Viene allora in soccorso l’ipotesi di un “diritto di concorrenza”, anni fa teorizzato nella sentenza Telecom/Telsystem 146 , come interesse del consumatore alla preservazione di una situazione di concorrenza effettiva ed alla fissazione di condizioni negoziali proprie di un regime competitivo 147 . Ciò, peraltro, potrebbe eventualmente risolvere il problema del nomen iuris, ma non necessariamente la concreta azionabilità del rimedio: in tema di azione risarcitoria, infatti, il legislatore non ha dettato norme particolari afferenti la materia antitrust, sicchè agli illeciti disciplinati dalla legge n. 287/90 vengono ad applicarsi le regole generali in materia di responsabilità civile, con la conseguente necessità di individuare un danno qualificabile in termini di ingiustizia ex art. 2043 cod. civ. e di un nesso di causalità adeguato tra danno e fatto imputabile, secondo l’interpretazione che dell’art. 1223 cod. civ. ha fornito la giurisprudenza dei nostri giorni. Corollario dell’impostazione seguita dalla Corte di Cassazione è poi, per altro verso, “l’artificioso isolamento dei contratti a valle”148 , che paiono, nella ricostruzione dei giudici, del tutto avulsi dalla realtà economica cui accedono. Alla stregua dell’esito esegetico cui perviene il Collegio, pare quindi potersi argomentare nel senso della sussistenza di una duplice tipologia di pregiudizio, cui corrispondono altrettante figure di pretese risarcitorie: da un lato, infatti, troveranno ristoro le imprese i cui interessi sono stati lesi in maniera diretta ed immediata dalla 146 Corte di Appello di Milano, 18 luglio 1995, in Danno e resp., 1996, p. 105 ss., con nota di C. O STI, Abuso di posizione dominante e danno risarcibile, e in Foro it., 1996, I, p. 276 ss., con nota di A. BARONE, Danni da abuso di posizione dominante e giurisdizione ordinaria. 147 Dello stesso ordine di idee, M. TAVASSI , Il giudizio di merito antitrust ed il processo di concorrenza sleale, in Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 302, secondo la quale l’apparato normativo predisposto in materia antitrust tutela proprio il “diritto alla concorrenza, inteso nel senso dell’interesse del singolo operatore alla propria posizione concorrenziale sul mercato (ovvero - per il consumatore - alla preservazione di una situazione di concorrenza effettiva)”. 148 Così A. PALMIERI , Intese restrittive della concorrenza e azione risarcitoria del consumatore finale: argomentazioni “extravagantes” per un illecito inconsistente, cit., p. 1124 e, in senso conforme, R. PARDOLESI , Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 472. 167 fattispecie vietata 149 ; dall’altra, invece, si staglieranno le pretese risarcitorie di quanti, rimanendo l’intesa sullo sfondo, sono entrati in rapporti contrattuali con le imprese autrici della collusione 150 . Queste ultime, in particolare, saranno fondate - secondo la logica dei giudici di legittimità - su pregiudizi non direttamente riconducibili all’illecito concorrenziale proprio perché mediati dal comportamento tenuto sul mercato dalle singole imprese e dunque sottoposti al generale regime delineato dall’art. 2043 cod. civ., con ciò che ne consegue in ordine alla sussistenza degli estremi della fattispecie risarcitoria 151 . Quanto ai contratti a valle - le cui problematiche ci occupano più da vicino deve tra l’altro notarsi - ad accrescere il criticabile indirizzo avallato con la sentenza in evidenza (e superato dalla più volte menzionata sentenza delle Sezioni Unite del 4 febbraio 2005) - che, logica conseguenza dell’isolamento di essi predicato dalla Corte, è la disparità di trattamento degli atti negoziali che succedono alla pratica collusiva rispetto alla differente (ma sotto diversi aspetti involgente analoghe questioni, come evidenziato nel Capitolo II) fattispecie dell’abuso di posizione dominante di cui all’art. 3 della legge n. 287/90; anomalia, questa, già rilevata dalla dottrina, la quale a riguardo pare incline ad un riconoscimento al singolo della possibilità di agire per far valere l’abusività della condotta negoziale, la nullità dell’atto così perfezionato e a domandare il risarcimento dei danni subiti152 . La difformità ravvisata da chi si è soffermato sul punto cade in particolare nell’osservare che ove l’abuso, anziché collettivamente per mezzo dell’intesa, si fosse perpetrato attraverso un approfittamento da parte della singola impresa della posizione di dominanza occupata nel mercato, la coincidenza tra atto di autonomia 149 In questo caso, quindi, la qualificazione di illiceità dell’intesa consentirà di formulare direttamente una valutazione di ingiustizia del danno patrimoniale eventualmente patito da quelle altre imprese che hanno avuto rapporti diretti con i partecipanti al cartello. 150 La relativa azione - rileva M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, cit., p. 452, potrà avere come legittimato passivo (in quanto componente del cartello vietato) tanto il contraente diretto del terzo danneggiato, quanto tutte le altre imp rese partecipanti all’intesa. 151 In questo senso A. PALMIERI , Intese restrittive della concorrenza e azione risarcitoria del consumatore finale: argomentazioni “extravagantes” per un illecito inconsistente, cit., p. 1123. 152 Si vedano a riguardo: M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, cit., p. 456; C. O STI, Abuso di posizione dominante e danno risarcibile, in Danno e resp., 1996, p. 105; G. ROSSI , Effetti della violazione di norme antitrust sui contratti tra imprese e clienti: un caso relativo alle norme bancarie uniformi, cit., p. 220. 168 negoziale e condotta illecita avrebbe escluso l’emarginazione della fattispecie civilistica dall’infrazione anticoncorrenziale, comportandone la medesima invalidità. In altri termini, “se si riconosce che l’utente finale, entrato in rapporto d’affari con l’impresa egemone, può agire per far accertare l’abusività della condotta, inficiare di nullità il contratto in cui essa si sia tradotta ed ottenere il risarcimento dei danni subiti, non si vede per quale motivo lo stesso ragionamento non debba valere in presenza di un’intesa che abbia prodotto i medesimi inconvenienti” 153 . Tra l’altro, non deve tacersi che l’adesione ad una impostazione quale quella fatta propria dalla Corte di Cassazione nel caso poc’anzi richiamato, conduce inesorabilmente, escludendo in via generale l’azionabilità del rimedio di cui all’art. 33 da parte dei consumatori finali, ad un sostanziale ridimensionamento della portata precettiva ed imperativa delle norme antitrust, ponendosi per di più in contrasto stridente con la linea interpretativa inaugurata nel 2001 dalla Corte di Giustizia europea. Quest’ultima, infatti, si mostra chiaramente propensa ad estendere i margini della tutela risarcitoria persino a chi dell’intesa illecita - ancorché in una posizione di fisiologica debolezza - sia stato parte (cfr. sentenza 20 settembre 2001, causa C-453/99, Courage Ltd/Crehan, già menzionata). Di estremo interesse, considerata la sua portata evolutiva, si rivela sul punto la giurisprudenza comunitaria da ultimo richiamata, la quale, aprendo nuove frontiere all’orizzonte della risarcibilità del danno da illecito antitrust, riconosce in astratto finanche al soggetto coautore del torto di invocare tutela, quale vittima egli stesso dell’infrazione, rispetto al comportamento anticoncorrenziale che - purché non gli si possa attribuire una responsabilità significativa nella messa in opera dell’intesa - ha pure contribuito a realizzare 154 . 153 R. PARDOLESI , Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 470, il quale parte da un condivisibile interrogativo: “Che cosa cambierebbe se a profittare dei consumatori non fosse stata un’impresa singola, padrona del mercato, ma un pugno di imprese, che in teoria si sarebbero dovute fronteggiare nell’agone concorrenziale, ma che in pratica hanno optato per la più comoda prospettiva di comportarsi collettivamente come un’imp resa solitaria?”. 154 Nel commentare la sentenza della Corte di Giustizia, A. PALMIERI e R. PARDOLESI , Intesa illecita e risarcimento a favore di una parte: “chi è causa del suo mal si lagni e chieda i danni”, cit., p. 75, ritengono opportuno che non si riconosca “alcuna aprioristica preclusione all’azione risarcitoria per chi si è sporcato le mani, dando vita ad un accordo vietato, e poi, vista la mala parata (leggi, scarsa 169 Con la sentenza Courage, infatti, la Corte di Giustizia riconosce espressamente la strumentalità della tutela giurisdizionale dei singoli (senza alcuna distinzione tra impresa e consumatore) rispetto alla sussistenza di una effettiva competizione, caratterizzandosi per l’essere “ (…) tale da scoraggiare gli accordi o le pratiche, spesso dissimulate, che possono restringere o falsare il gioco della concorrenza. In quest’ottica le azioni di risarcimento danni dinanzi ai giudici nazionali possono contribuire sostanzialmente al mantenimento di un’effettiva concorrenza nella Comunità”. E’ dunque agevole, dopo tale dictum, concludere che nella prospettiva inaugurata da tale sentenza il consumatore, che rappresenta la vittima per eccellenza di cartelli ed altre intese restrittive, possa essere tra i soggetti più interessati a proporre l’azione risarcitoria, con un notevole beneficio per il mercato anche sotto il profilo della deterrenza nei confronti delle imprese ad assumere atteggiamenti anticoncorrenziali. Infatti, “Il timore delle azioni risarcitorie dei consumatori spingerà le imprese, le cui condotte si riverberino direttamente sui consumatori stessi, cagionando loro un pregiudizio tale da indurre all’azione giudiziaria, ad una maggiore attenzione verso le norme antitrust”155 . Nella stessa direzione (per espresso richiamo della pronuncia comunitaria) muove anche l’ordinanza interlocutoria n. 15583/2003 della Sezione III della Corte di Cassazione, secondo la quale “la piena efficacia dell’art. 85 (ora 81) del Trattato e, in particolare, l’effetto utile del divieto sancito dal n. 1 di detto articolo sarebbero messi in discussione se chiunque non potesse richiedere il risarcimento del danno convenienza dei patti siglati), faccia valere l’illiceità di tale accordo nel tentativo di rifarsi delle perdite correlate allo svolgimento del rapporto”. Un primo sentore di un’apertura in questa direzione è rinvenibile già nella sentenza della Corte di Appello di Torino, 6 luglio 2000, n. 1061, cit., p. 44 ss., ove si riconosce al soggetto partecipante all’intesa in posizione economica subordinata la possibilità di domandare il risarcimento del danno per abuso di posizione dominante “per l’evidente ragione che egli stesso ha subito la limitazione della competitività del mercato”. 155 Così G. ROSSI , nell’annotare la richiamata sentenza della Corte di Giustizia,“Take Courage”! La Corte di Giustizia apre nuove frontiere per la risarcibilità del danno antitrust, cit., p. 190 ss. 170 causatogli da un contratto o da un comportamento che possono restringere o falsare il gioco della concorrenza” 156 . Un’apertura sostanziale verso l’ammissibilità di una tutela risarcitoria ex art. 33 anche a beneficio dei consumatori appare pure sostenibile [continuando a tacere, per il momento, i contenuti della sentenza n. 2207/2005] alla luce del nuovo Regolamento (CE) n. 1/2003 (in merito al quale si rinvia al Capitolo I), il quale con l’art. 6 - ai sensi del quale “le giurisdizioni nazionali sono competenti ad applicare gli articoli 81 e 82 del Trattato” - contribuisce (come già osservato) in maniera significativa ad accrescere la dimensione privatistica del diritto antitrust, con ciò incrementando anche sul piano risarcitorio il potere di cui le diverse autorità giurisdizionali nazionali preposte alla tutela della concorrenza sono investite. Data la perdurante querelle sul punto, pare quindi evidente quale contributo servirà a portare in questa tormentata vicenda l’attesa [ed ora giunta] pronuncia chiarificatrice delle Sezioni Unite. [La pronuncia delle Sezioni Unite (4 febbraio 2005, n. 2207) - intervenuta nel corso della stesura del presente lavoro - ha infatti segnato un deciso superamento del dibattito sviluppatosi attorno alla ratio ed agli interessi tutelati dal sistema antimonopolistico, statuendo che “la legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia un interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere”. Alla trattazione dei passaggi di maggior rilievo e significato in ordine al tema che ci occupa è dedicato un apposito paragrafo nel Capitolo III, al quale pertanto si rinvia]. 156 Si tratta della già menzionata ordinanza del 3 luglio 2003, n. 15583, con cui la III Sezione della Cassazione Civile - con riguardo al noto caso RC Auto - ha rimesso alle Sezioni Unite il compito di sciogliere il nodo relativo alla competenza (Giudice di Pace, secondo gli ordinari criteri processuali, ovvero Corte d’Appello territorialmente competente, secondo il dettato dell’art. 33 della legge antitrust) in materia di risarcimento del danno subito dai consumatori a seguito di un illecito antitrust (nella specie, l’intesa tra imprese assicuratrici). 171 3.5.2. L’ingiustizia del danno Delineate nelle linee più generali le problematiche sottese alla interpretazione dell’art. 33, ed allo sforzo teso a rivelarne la natura sostanziale ovvero processuale e a definire la rilevanza dell’interesse alla concorrenzialità del mercato ascrivibile alle diverse categorie di soggetti che nel mercato si muovono e agiscono, occorre ora vagliare gli altri presupposti necessari in concreto ai fini di un accoglimento della domanda risarcitoria. Infatti, nonostante gli slanci di apertura manifestati a fasi alterne dalla giurisprudenza, perché possa riconoscersi la legittimazione ad agire al consumatore è comunque necessario muoversi lungo “i binari” dell’illecito aquiliano, rispetto ai quali la dottrina più accorta ha denunciato la presenza di alcune ingenti difficoltà, quale quella relativa all’accertamento del danno, alla sua estrema dispersione ed al rischio di un ricorso strumentale al rimedio risarcitorio in grado di trasferire la competizione concorrenziale dal mercato alle aule di Tribunale 157 . A questi inconvenienti se ne aggiungono poi altri di natura più strettamente tecnica che si ricollegano al tentativo di inquadrare l’illecito antitrust nella disciplina di cui agli artt. 2043 ss. cod. civ., ed in particolare nella possibilità di rinvenire un danno ingiusto a fronte di un’infrazione concorrenziale e della idoneità delle norme antimonopolistiche a creare posizioni soggettive in capo ai privati tutelate dall’ordinamento 158 . 157 Quelle elencate sono solo alcune delle difficoltà riscontrate sul punto dalla dottrina. Sul punto si vedano, in particolare, A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 322; L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1456, e M. LIBERTINI , Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, cit., p. 673. In riferimento alla eventualità di risarcimenti multipli con riguardo alla situazione statunitense, si veda A. GENOVESE , Il risarcimento del danno per violazione di norma antitrust: l’esperienza americana, cit., p. 680 ss. 158 Sul punto, G. BERNINI, Un secolo di filosofia antitrust. Il modello statunitense, la disciplina comunitaria e la normativa italiana, op. cit., p. 429, secondo il quale “non può dubitarsi dell’idoneità delle norme di cui alla l. 287/90 a determinare in capo ai singoli situazioni giuridicamente protette anche a livello risarcitorio”, qualificate in termini di interessi legittimi rinforzati. Sostanzialmente adesiva, anche se fondata su una differente connotazione della situazione giuridica soggettiva, la tesi di A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 12 ss. e 28 ss. In merito alla ingiustizia del danno, pur non potendoci inoltrare in una compiuta disamina delle teorie elaborate da dottrina e giurisprudenza a proposito della nozione di “danno ingiusto”, ai fini che qui interessano è sufficiente ricordare, come già osservato nel testo, che la tesi tradizionale - secondo cui il danno ingiusto di cui all’art. 2043 cod. civ. coincide esclusivamente con la lesione “non iure” di un diritto soggettivo assoluto - è stata 172 Nel caso dell’illecito antitrust, il vero punto dolente di un’indagine relativa al problema del risarcimento del danno è infatti costituito dall’individuazione del bene giuridico tutelato dalla normativa antitrust. E’ soprattutto con riguardo a quest’ultimo profilo che si manifesta in tutta la sua pienezza il rilievo sistematico assunto dalla nozione e dai confini del danno concorrenziale il quale, come abbiamo avuto modo di chiarire nel paragrafo precedente, è ricostruito dalla dottrina secondo linee sostanzialmente antitetiche. Da preferire, tra queste, pare tuttavia la tesi che, in chia ve evolutiva, individua nelle maglie della normativa antitrust il fine di tutelare interessi di duplice natura: da un lato interessi di carattere generale o pubblici, identificabili nello sviluppo economico e nella limitazione del potere di mercato; dall’altro interessi privati, “la cui tutela rientra comunque anch’essa fra gli scopi dichiarati e tradizionali delle normative antitrust”159 . In proposito viene allora in rilievo il dettato della legge 30 luglio 1998, n. 281 (così come modificata dalla legge 1° marzo 2002, n. 39, che ha introdotto il comma 5-bis), che disciplina i diritti dei consumatori e degli utenti. E’ infatti all’interno dell’art. 1, comma 2, lettera e), che si rintraccia la norma protettiva del consumatore che consente di affermare la risarcibilità del danno extracontrattuale patito in conseguenza dell’adozione di pratiche anticoncorrenziali, lì dove viene espressamente enunciato il diritto del consumatore “alla correttezza, abbandonata a partire dagli anni sessanta (per culminare con la miliare pronuncia delle SS.UU. n. 500/99) a favore di un’interpretazione della norma meno rigida e più sensibile ai principi desumibili dall’ordinamento nel suo insieme. Tale inversione di tendenza ha portato con sé l’idea di una differenziazione ontologica tra il danno (ingiusto) cui si riferisce la prima parte dell’art. 2043 cod. civ. e il danno (da risarcire) di cui alla seconda parte dell’articolo. In altri termini, mentre il danno da risarcire può ben essere inteso come perdita patrimoniale, il danno ingiusto è stato elevato al rango di oggetto di tutela della norma, favorendo l’elaborazione di una nozione più ampia in grado di abbracciare ogni lesione di un bene giuridicamente tutelato, da intendersi come sinonimo di posizione giuridica di vantaggio. 159 M. LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, op. cit., p. 672; in senso conforme anche A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., pp. 88 e 322; E. SCODITTI, Il consumatore e l’Antitrust, cit., p. 1128; S. BASTIANON, Nullità a cascata? Divieti antitrust e tutela del consumatore, cit., p. 1073, secondo cui “il riparto delle competenze e delle attribuzioni tra autorità amministrativa ed autorità giurisdizionale trova la sua ragione nel fatto che la disciplina antitrust opera su due piani: uno, di natura pubblicistica, che attiene alla tutela di interessi e finalità generali, e l’altro, di natura privatistica, relativo ai rapporti interindividuali”. 173 trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi”160 , diritto la cui integrità pare violata proprio dalla gran parte delle fattispecie contemplate dalla legge antitrust. L’incidenza sul diritto del mercato della richiamata disposizione, lungi dal rimanere circoscritta ad una pura affermazione di principio, dovrebbe consentire di trarre coerenti conseguenze anche in tema di legittimazione, specie con riguardo alla dimensione collettiva della tutela - il cui ruolo è fortemente incrementato dalla legge n. 281/98 - ed alla tipologia di azioni esperibili dalle associazioni dei consumatori, rendendo esplicita l’opportunità di tale mezzo aggiuntivo di protezione, “potenziato” rispetto al tradizionale rimedio risarcitorio. Quest’ultimo, infatti (ampiamente articolato nel Capitolo che segue), ove esperito uti singuli rivelerebbe inevitabilmente una scarsa efficacia 161 . Assumendo che la normativa antitrust offre tutela anche al consumatore, occorre poi di seguito verificare, oltre al fatto illecito (la cui sussistenza potrebbe essere inferita dalla pronuncia del relativo provvedimento antitrust) e al danno patito, anche la sussistenza degli altri elementi di fattispecie necessari a configurare la responsabilità per danno extracontrattuale, ossia l’elemento soggettivo ed il nesso causale 162 . 160 In questo senso, ad esempio, A. TOFFOLETTO - A. STABILINI , Tutela giurisdizionale collettiva dei diritti dei consumatori e legge “antitrust”, in AA.VV., La disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti (l. 30 luglio 1998, n. 281), a cura di A. Barba, Napoli, 2000, ed A. PAGLIANTINI, Tutela del consumatore e congruità dello scambio: il c.d. diritto all’equità nei rapporti contrattuali, ivi, p. 306 ss., il quale osserva che “l’iniquità dello scambio non rileva in modo automatico ma solo se ancillare ad una anomalia intervenuta nella procedura di contrattazione; un’anomalia, giova rilevare, che viene a precludere il realizzarsi di un prezzo e di un profitto conformi a quelli indotti dal mercato concorrenziale”. Critica l’assenza di riferimenti alla concorrenza ed al mercato nella legge n. 281/1998, R. COLAGRANDE, Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, in Le nuove leggi civ. comm., n. 4/1998, p. 700 ss., specie pp. 718-722. 161 In tal senso A. TOFFOLETTO - A. STABILINI , Tutela giurisdizionale collettiva dei diritti dei consumatori e legge “antitrust”, op. cit., p. 245, i quali pervengono alla conclusione della utilizzabilità dell’azione collettiva a fronte di violazioni della normativa antitrust. Si consideri, altresì, l’opinione espressa da L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1456, nota 13, che, con riferimento alla l. 287/90, osserva che “molto opportuno si sarebbe rivelato, poi, proprio con riguardo a queste ipotesi, un esplicito riconoscimento della legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori più rappresentative, del quale, però, nell’art. 33, comma 2, non vi è traccia”. 162 Con riguardo all’elemento soggettivo, L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1461, osserva che “qualora la vittima dell’illecito sia un consumatore finale si potrebbe ipotizzare (…) che l’impresa risponde sine culpa. Il sovraprezzo monopolistico, la prestazione supplementare e le altre fattispecie generatrici di danno, a ben vedere, originano tutte 174 3.5.3. L’elemento soggettivo, il nesso di causalità e la quantificazione del danno Quanto all’elemento soggettivo, dubbi solleva la possibilità di estendere anche al danno da illecito antitrust il principio, proprio della disciplina in materia di concorrenza sleale, di presunzione della colpevolezza del soggetto agente (e della conseguente inversione dell’onere della prova), che considera l’elemento soggettivo in re ipsa in qualunque comportamento imprenditoriale avente effetti anticoncorrenziali, così sollevando il soggetto danneggiato a valle dal relativo onere probatorio 163 . A riguardo, peraltro, la tesi maggioritaria vuole che, se la colpa deve intendersi in senso oggettivo (ossia come difformità da un modello comportamentale astrattamente valutabile come socialmente corretto), la soluzione sul punto debba essere positiva, almeno per quegli illeciti antitrust che si considerano ormai normativamente o socialmente tipizzati164 . Più in particolare, si ritiene che, l’applicazione della presunzione di colpa alle violazioni di regole antimonopolistiche rilevanti sotto il profilo aquiliano, comporti che, qualora “la fattispecie è identificata dal legislatore secondo un criterio teleologico (lettere b) e c) dell’articolo 2 e lettera b) dell’articolo 3), la sussistenza di una precisa consapevolezza in ordine alla destinazione antigiuridica della nella sfera di controllo dell’imprenditore, come e più di quel difetto che sta all’origine delle ben nota figura di responsabilità oggettiva. L’indicazione ha, però, un valore puramente orientativo, perché una volta appurato che la pratica incriminata possiede o per la specifica finalità o per il contenuto impressogli dall’autore, quella destinazione anticoncorrenziale di cui sopra, il problema relativo all’imputabilità potrà dirsi risolto”. Cfr., altresì, M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 310 ss. Sul profilo del nesso causale: P. CASSINIS - P. FATTORI , op. cit., p. 425; M. SCUFFI, Violazione della normativa antitrust e risarcimento del danno, in Dir. ind., 1999, p. 153; C. O STI, Abuso di posizione dominante e danno risarcibile, cit., p. 113 ss. 163 Favorevole ad un’applicazione analogica all’azione risarcitoria da illecito antitrust della disposizione dell’art. 2600, comma 3, cod. civ., che, nella corrispondente azione in materia di concorrenza sleale, sancisce una presunzione di colpa, è M. LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione del diritto antitrust, cit., p. 674, il quale riconosce una “unitarietà sistematica e funzionale” tra le due discipline tale da giustificare l’operazione. Dello stesso avviso è pure M. TAVASSI , Il giudizio di merito antitrust ed il processo di concorrenza sleale, in Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 310; L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1459 s. Contra, M. SCHININÀ, Responsabilità per attività d’impresa, in Trattato di diritto privato europeo, a cura di N. Lipari, vol. IV, Padova, 2003, pp. 611-612. 175 condotta deve ritenersi in re ipsa; allorché, viceversa, la vocazione anticoncorrenziale dell’atto venga dal legislatore ricavata, in via tipica, dal suo contenuto (lettere a), d) ed e) dell’articolo 2, lettere a), c) e d) dell’articolo 3), ad integrare l’elemento soggettivo dell’iniuria basterà la consapevolezza della ricorrenza di un tale contenuto, non rilevando né la rappresentazione, né la specifica volizione di uno scopo o di un effetto”165 . Più controverso, di contro, è il profilo del nesso causale, ossia del vincolo eziologico intercorrente fra la partecipazione ad un’intesa diretta ad alterare le condizioni di mercato ed il danno lamentato dal consumatore per effetto della variazione. Come osservato in dottrina, infatti, l’indubbia attitudine dell’illecito concorrenziale a propagarsi secondo lo schema della reazione a catena - esaltata dal livello crescente di mercati integrati e dalle operazioni cosiddette “conglomerali”, che toccano cioè diversi settori - suggerisce l’impiego di criteri di causalità il più possibile rigorosi, “onde evitare un uso distorto delle opportunità di tutela offerte dall’art. 33, comma 2”166 . In linea di principio, quindi, si considera come danno risarcibile solo quello patito dal diretto destinatario della condotta infrattiva, con la tendenziale esclusione del danno mediato. Sul punto si chiarisce peraltro che la sfera dei destinatari diretti del torto non viene necessariamente ad esaurirsi in quella del destinatario immediato o visibile dell’atto 167 . In proposito occorre infatti operare una distinzione fra due differenti ipotesi, a seconda che sussista o meno un livello intermedio tra chi aderisce all’intesa ed il consumatore finale; se infatti in entrambi i casi quest’ultimo risente comunque degli 164 L’osservazione è di M. LIBERTINI , Il ruolo del giudice nell’applicazione del diritto antitrust, cit., p. 674. 165 L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1460. 166 L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1455. 167 In ogni caso, la dottrina e la giurisprudenza sono concordi nel ritenere infondate le pretese risarcitorie di eventuali terzi che, pur intrattenendo con la vittima dell’illecito rapporti economici e dunque potendo risentire del calo dei profitti e della minore disponibilità alla spesa del cliente, occupano una posizione “eccentrica rispetto alla sequenza causale”, collocandosi al di fuori della traiettoria offensiva dell’illecito e subendo quindi un danno soltanto indiretto. In questo senso, ad esempio, L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1455; M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 303. 176 effetti negativi del comportamento anticoncorrenziale, tuttavia il nesso causale si atteggia diversamente. Ove il consumatore contratta direttamente con chi ha aderito all’intesa, pare difatti da non dubitare la sussistenza di un nesso eziologico fra l’accordo anticoncorrenziale e la ripercussioni di quest’ultimo nella sfera giuridica del consumatore 168 . Più controversa è invece la ricostruzione del nesso causale nella diversa ipotesi in cui vi siano uno o più operatori economici intermediari che si frappongono fra gli autori dell’intesa ed il consumatore a valle 169 . In tale eventualità, il soggetto posto a livello intermedio è infatti sostanzialmente chiamato a dover scegliere fra due differenti politiche commerciali: o farsi interamente carico del divario di prezzo determinato dalla pratica antitrust in maniera tale che il consumatore risulti indenne dalla stessa, oppure, come solitamente accade, scaricare in tutto o in parte sull’acquirente a valle i maggiori costi. Rispetto a quest’ultima ipotesi, parte della dottrina ha in vero ravvisato una sorta di automatismo che permetterebbe di affermare la sussistenza del nesso casuale, giuridico e materiale, fra il comportamento dell’imprenditore a monte ed il danno causato, anche tramite l’operato degli intermediari, al consumatore a valle 170 . Il vero ostacolo alla protezione giudiziaria del consumatore risiede quindi nella concreta difficoltà di ravvisare il necessario nesso teleologico tra la condotta 168 169 Cfr. P. CASSINIS - P. FATTORI , op. loc. cit. Cfr. L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1455 ss. 170 A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 322, osserva a riguardo che “se infine si ritiene convincentemente dimostrato che nelle catene verticali di produzione-distribuzione si verifica, nel medio periodo, nella grande maggioranza dei casi, un quasi automatico effetto di traslazione del danno da parte degli anelli intermedi della catena a carico di coloro che si trovano in fondo alla catena stessa (in buona sostanza gli utilizzatori finali e i consumatori), non si può non concludere che, salvo casi eccezionali, quest’ultimi devono essere i soggetti legittimati a promuovere l’azione risarcitoria”. Si veda anche S. BASTIANON , Violazione della normativa antitrust e risarcimento del danno, cit., p. 557, secondo cui non può contestarsi “che l’aumento del prezzo operato dall’intermediario non sia idoneo ad interrompere il nesso causale tra l’originario incremento da parte del produttore e il danno risentito dal consumatore, posto che l’aumento di prezzo effettuato dal rivenditore è solo apparentemente frutto di un’autonoma e libera scelta imprenditoriale”. Cfr., altresì, M. ORLANDI, op. cit., p. 986. 177 anticoncorrenziale iniziale e l’evento dannoso riverberatosi sugli ultimi anelli della catena distributiva. Esiste peraltro un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale (formatosi soprattutto in materia infortunistica) in forza del quale nel risarcimento del danno da illecito vanno ricompresi anche quei danni mediati ed indiretti che si presentino come effetto normale del fatto stesso, cioè come conseguenza ordinaria e naturale cui il fatto medesimo ha dato origine in base al principio di regolarità causale. Ma una simile evenienza nella fenomenologia antitrust pare tutt’altro che agevole da dimostrare. Anche in merito alla determinazione del quantum debeatur la dottrina ha lungamente dibattuto. A onor del vero, infatti, il problema della quantificazione del danno si presenta assai più complesso di quanto un’analisi superficiale potrebbe indurre a pensare. In linea generale, non v’è dubbio che le regole applicabili in materia di determinazione del danno da fatto illecito trovino applicazione anche al danno antitrust (per la liquidazione del danno, gli artt. 1223 o 1226171 cod. civ.; l’art. 1227 cod. civ. in caso di concorso del fatto colposo del danneggiato, il tutto in base al richiamo operato dall’art. 2056 cod. civ.), e che la misura del risarcimento debba estendersi a coprire tanto il danno emergente quanto il lucro cessante 172 . Tuttavia, si osserva che la grande varietà di ipotesi in cui le pratiche anticoncorrenziali possono concretizzarsi, unitamente alla richiamata pluralità di soggetti su cui le condotte infrattive possono andare ad incidere, determina di fatto l’impossibilità pratica di affidarsi ad un unico criterio di ordine generale, per questa ragione suggerendo la ricerca di rego le flessibili in rapporto ai profili sia soggettivi che oggettivi di ogni singola fattispecie 173 . 171 In merito al criterio equitativo di cui all’art. 1226 cod. civ., M. TAVASSI - M. S CUFFI, Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 323, notano la mancata elaborazione da parte della giurisprudenza di modelli uniformi per la liquidazione del danno. 172 Mentre la determinazione della prima voce si ritiene non sollevare particolari difficoltà, più problematica si presenta la ricostruzione della seconda voce di danno, cioè del lucro cessante. La stima in questo caso è infatti correlata alla mancata percezione di un profitto di impresa e dunque ad un decremento di fatturato eziologicamente riferibile all’altrui azione illecita. Di questo avviso M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 314. 173 Cfr. M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 315. 178 Il dato su cui riflettere, nella specie, è che in caso di fissazione di un prezzo sovra-concorrenziale ogni pretesa tesa a calcolare il danno subito dalla vittima in termini di differenza tra il prezzo sovra-competitivo e quello che si sarebbe determinato sul mercato in assenza della manovra illecita (ossia, il probabile market price), si scontra inevitabilmente con il fatto che il prezzo di mercato non è un dato esogeno, che esiste a prescindere dai complessi meccanismi che regolano il funzionamento di un dato settore, ma è, al contrario, il prezzo che viene a determinarsi in virtù dell’operare congiunto di fattori talmente numerosi e diversificati da rendere approssimativo qualunque tentativo di definizione in vitro174 . Ad esito del dibattito, si riscontra sul punto che la posizione attualmente condivisa - anche sulla scorta del criterio del but-for condition elaborato sull’altra sponda dell’Atlantico - ruota attorno alla convinzione che “(per il danno subito dal consumatore a causa del sovrapprezzo) ci si affiderà ad un metodo di comparazione ipotetica che abbia riguardo, cioè, alla situazione quale si sarebbe prospettata in assenza dell’illecito”175 . 174 A riguardo si veda S. BASTIANON, Il risarcimento del danno per violazione del diritto antitrust in Inghilterra e in Italia, cit., p. 1073 ss. 175 Così L. NIVARRA, La tutela civile…, op. cit., p. 1459. In merito si veda anche S. BASTIANON, Violazione della normativa antitrust e risarcimento del danno, op. cit., p. 561 ss. e M. TAVASSI - M. SCUFFI, Diritto processuale antitrust, op. cit., p. 315. Osservazioni di diverso segno si riscontrano in L. DELLI PRISCOLI, I controlli sui prezzi nei contratti d’impresa, op. cit., p. 93 ss., con riguardo all’applicazione della legge n. 281/98. Secondo l’Autore, infatti, il giudice, nel tutelare il diritto del consumatore all’equità nei rapporti contrattuali, “nella verifica dell’assetto contrattuale riguardante il prezzo dei beni o dei servizi, potrà fare riferimento ad un prezzo di mercato effettivamente esistente in un dato momento storico, ma non anche ad un ipotetico prezzo di mercato che si formerebbe in una situazione di concorrenza perfetta (…) (essendo) tale compito già attribuito all’Autorità garante della concorrenza e del mercato”. Con riguardo al caso assicurativo affrontato con la sentenza n. 17475/2002, A. GUARNERI , Cartello degli assicuratori e tutele degli assicurati: aspettando le Sezioni Unite, op. cit., p. 498 ss., osserva criticamente che le numerose pronunce dei giudici di pace coinvolti sulla questione della risarcibilità del danno (tra cui si vedano, ex multis: Giudice di Pace di Acquaviva delle Fonti, 12 dicembre 2000, in Resp. civ. e previd., 2003, p. 359 ss.; Giudice di Pace di Casoria, 12 febbraio 2003, in Foro it., 2003, I, p. 2192 ss.; Giudice di Pace di Bari, 18-29 novembre 2003, inedita; Giudice di Pace di Avellino, 30 aprile 2002), che hanno quantificato la pretesa risarcitoria e/o restitutoria esperita dal singolo assicurato contro la compagnia di assicurazione aderente al cartello (in misura pari, di regola, al venti per cento del premio di polizza pagato) si fondano sul provvedimento sanzionatorio dell’Antitrust, considerandolo “fatto generatore del sovraprezzo indebitamente pagato per tale misura”, senza procedere ad un concreto accertamento del rincaro medesimo. Sul punto M. LIBERTINI, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, cit., p. 673, osserva inoltre che, nella (rara) ipotesi di azione di danni da parte dei consumatori, si pone tra l’altro il problema di evitare doppi o multipli risarcimenti per uno stesso fatto: ad esempio, un prezzo eccessivo potrebbe essere stato considerato già oggetto di danno risarcibile a favore del fornitore intermedio e successivamente liquidato nuovamente anche a favore 179 Sul punto, di grande ausilio si rivela pure il ricorso alla consulenza tecnica. Quanto invece alla prescrizione, il termine è quello stabilito in via generale dall’art. 2947 cod. civ. per il risarcimento da illecito extracontrattuale (cinque anni). Va inoltre osservato che le diverse interpretazioni fornite in merito alla norma che legittima l’azione risarcitoria, oltre ad incidere in maniera rilevante sul piano sostanziale, comportano significative conseguenze a livello processuale. La scelta del percorso si riflette infatti nell’individuazione del giudice competente, assumendo un ruolo tutt’altro che secondario in merito all’efficacia della tutela medesima. Così, nel caso in cui si faccia ricorso all’art. 33, comma 2, della legge n. 287/1990, il giudice designato sarà la Corte d’Appello territorialmente competente; ove invece si applichi l’art. 2043 cod. civ., in relazione al disposto dell’art. 1, comma 2, della legge n. 281/1998, la competenza sarà determinata per valore secondo quando previsto dagli artt. 7 ss. c.p.c. Tali affermazioni, peraltro, richiedono di valutare attentamente quella che potrebbe dirsi la “sopportabilità” dei costi della tutela, la cui problematicità non potrebbe che essere sciolta alla luce di principi di ragionevolezza 176 . Come rilevato in dottrina, “l’azione di risarcimento del danno nell’ambito degli strumenti sanzionatori per le violazioni della normativa antitrust, infatti, che in linea teorica può avere una grande importanza, può vedere nella pratica una rilevanza molto più ridotta (…). I motivi di tale scarsa efficacia sono noti: la costosità dell’azione, l’irrisorietà del danno subito dal singolo, la difficoltà probatoria (sia in relazione al danno, sia con riguardo al nesso causale tra questo e la violazione)”177 . del consumatore. Il problema, lungamente discusso oltreoceano, non pare poter trovare le medesime conclusioni nel nostro ordinamento, ove il rimedio risarcitorio, diversamente dal sistema americano, non svolge una funzione deterrente e sanzionatoria, ma esclusivamente compensativa. 176 Cfr. R. PARDOLESI , Clausole abusive (nei contratti con i consumatori): una direttiva abusata?, in Foro it., 1994, V, p. 139 ss., secondo cui “(…) il problema sta proprio nella misura: vale a dire nella ponderazione dei costi amministrativi cui si va incontro scegliendo un parametro generalissimo, che dilata il raggio dell’intervento innescando l’apparato di controllo anche quando non ve ne sarebbe bisogno”. 177 Così A. TOFFOLETTO - A. STABILINI , Tutela giurisdizionale collettiva dei diritti dei consumatori e legge “antitrust”, op. cit., p. 245. 180 A questi aspetti deve inoltre aggiungersi che, nella maggior parte dei casi, le pratiche limitative della concorrenza sono realizzate da operatori economici che intrattengono relazioni negoziali con una pluralità indistinta di consumatori attraverso il ricorso a moduli contrattuali uniformi (per cui si rinvia al Capitolo I) e all’inserimento di clausole standardizzate riproducenti il contenuto delle strategie d’impresa concordate a monte 178 . Ciò comporta, quale conseguenza, una frammentazione del danno tra una moltitudine di soggetti, scoraggiati nel formulare doglianze individuali tanto dagli elevati costi processuali quanto dalla mancanza, nel nostro ordinamento, di meccanismi di coesione delle diverse azioni risarcitorie quali le class actions, da taluni indicate quale istituto idoneo ed opportuno a colmare il deficit di tutela delle pretese dei consumatori riscontrato nella legge antitrust 179 (e di cui meglio diremo nel Capitolo III). Per queste ragioni, parte della dottrina ritiene la via definita dalla legge n. 281/98 più favorevole al consumatore, non solo per i bassi costi processuali, ma anche in virtù della tutela collettiva, oltre che individuale, assicuratagli dall’art. 3 del medesimo testo normativo 180 . Trattandosi di fenomeni che evocano il contenzioso di massa - tanto da indurre il legislatore ad intervenire con il D. Lgs. n. 63/2003 novellando l’art. 113, comma 178 In proposito, P.G. M ONATERI , I “mass torts”: dalla r.c. al contratto “politico”, in Resp. civ. e previd., 2003, p. 13 ss., osserva come tale danno rientri a pieno titolo nell’ambito dei mass torts. 179 Sugli aspetti generali delle class actions, v. P. RESCIGNO, Sulla compatibilità tra il modello processuale della “class action” ed i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, in Giur. it., 2000, V, p. 2224 ss. 180 La legge n. 281/98, infatti, riconosce alle associazioni dei consumatori e degli utenti inserite nell’art. 5 la legittimazione ad agire a tutela degli interessi collettivi, in particolare chiedendo all’autorità giudiziara ordinaria provvedimenti diretti ad inibire atti e comportamenti “lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti”. A favore del ricorso alla legge n. 281/98, si veda A. M ONTELERO, “Per qualche lira in più” o del danno al consumatore nei contratti a valle di un’intesa anticoncorrenziale, op. cit., pp. 348-351, secondo il quale, poiché in genere l’entità del danno subito dai consumatori è di importo limitato - poiché la differenza tra il prezzo pagato per effetto dell’intesa ed il prezzo concorrenziale non è solitamente elevata - il fondamento della domanda giudiziale sulla legge n. 281/98 risulterà più vantaggioso per il consumatore, in quanto, dato il basso valore della causa, il processo si svolgerà dinanzi al giudice di pace, con notevole risparmio di spese giudiziarie; in giurisprudenza, cfr. Giudice di Pace di Lecce, sentenza del 30 gennaio 2003, citata. Contra, M. LIBERTINI, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), in Danno e resp., n. 3/2005, p. 244, il quale contesta, attesa la specialità delle norme antitrust rispetto alle regole generali a tutela dei consumatori poste dalla legge n. 281/98, la possibilità di un ricorso alternativo del consumatore 181 2, c.p.c. - è infatti agevole cogliere il limite delle regole processuali civili ordinarie, le quali “non riescono a far fronte se non molto imperfettamente alla complessità delle situazioni processuali determinate dagli illeciti a grande scala”181 . La legge n. 281/98, difatti, riconoscendo in via generale la legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori e degli utenti, “sembra dunque aver aperto nuovi orizzonti alla tutela giurisdizionale di tali formazioni sociali anche in questo decisivo settore di conflittualità economica”182 . Ciò che il ricorso in via associata garantisce, diversamente dall’azione individuale, è difatti la possibilità di far fronte ai costi processuali ed alle difficoltà nell’assolvimento dell’onere probatorio che, di regola, costituiscono per il singolo consumatore un ostacolo insormontabile 183 . ad un’azione di risarcimento ex art. 33 legge n. 287/90 o ai sensi della legge n. 281/98 (con diversità di giudici competenti). 181 Le parole sono di P.G. M ONATERI , op. ult. cit., p. 19. 182 Così M. SCUFFI, Azione collettiva in difesa dei consumatori: legittimazione e tecniche processuali, in Dir. ind., 1999, p. 153. 183 Sul punto si deve inoltre considerare la modifica dell’art. 113 c.p.c. attuata con il già richiamato “decreto salvacompagnie”. Con l’esclusione del giudizio secondo equità del giudice di pace per le cause inerenti i contratti conclusi mediante moduli o formulari di cui all’art. 1342 cod. civ., viene infatti introdotto una sorta di “dissuasore” nei confronti dei consumatori dal far valere pretese risarcitorie. La non applicabilità dell’art. 339, comma 3, c.p.c. - che prevede l’inappellabilità delle sentenze del giudice di pace ove pronunciate secondo equità - e la conseguente introduzione di un ulteriore grado di giudizio per la cause menzionate, comporta infatti anche a carico dei consumatori ulteriori costi processuali. 182 CAPITOLO III CONCORRENZA E MERCATO: PROSPETTIVE EVOLUTIVE 1. La possibilità di una ricostruzione alternativa La difficoltà di individuare la natura del rapporto esistente tra infrazione anticoncorrenziale e contratto a valle e la conseguente divaricazione degli esiti dell’indagine relativa alla possibilità di estendere la nullità di cui all’art. 2, comma 3, della legge antitrust anche all’attività negoziale in cui l’illecita collusione trova concreta attuazione, ha esortato la ricerca di ulteriori possibili percorsi. L’insoddisfazione manifestata verso quelle ricostruzioni che individuano nel rimedio risarcitorio l’unica soluzione (a diverso titolo) possibile a tutelare la controparte debole dell’atto a valle e a garantire contestualmente il pieno funzionamento del regime concorrenziale, nasce in particolare dalla sensazione che una completa adesione alla logica parcellizzante che sembra caratterizzare le tesi esposte nel Capitolo II - nella pretesa di rivolgersi all’intesa restrittiva come ad un micro-cosmo completamente avulso dai suoi momenti attuativi (i contratti a valle) rischi di indurre a sottovalutare, nel timore di allontanarsi troppo dalle radici e dai principi della nostra tradizione giuridica, le peculiarità del diritto antitrust e dei fenomeni da esso regolati. Accanto all’orientamento (tuttora prevalente in dottrina, ma parzialmente disatteso dalla giurisprudenza di legittimità più recente 1 ) - caratterizzato da un particolare afflato sistematico e di cui non si discute la fondatezza e l’utilità - che nega la possibilità di ravvisare una qualunque interazione tra l’intesa ed il successivo 1 Si veda a riguardo Cass., SS. UU., 7 febbraio 2005, n. 2207, cui si dedicherà ampio spazio nei paragrafi che seguono. 183 contratto (e dunque la possibilità di una ricaduta dell’illecito anticoncorrenziale sui rapporti negoziali sottostanti in termini di invalidità) e che, contestando la possibilità di forzare il dato normativo sino al punto di configurare un qualche vizio del consenso, incentra il sistema di tutela del contraente a valle nel regime normativo del risarcimento del danno, si è infatti proposta una nuova e diversa ricostruzione del problema. La tendenza a circoscrivere il disegno cospiratorio al solo momento a monte, escludendo definitivamente la possibilità di ammettere che la nullità dell’accordo si propaghi alle singole fattispecie negoziali a valle - in adesione ad una visione fondata sul presupposto dell’impossibilità di ravvisare un vincolo giuridicamente rilevante tra l’intesa e le sue proiezioni comportamentali - comporta infatti, secondo alcuni autori, il rischio di allontanare l’analisi dal vero 2 . Muovendo dalla logica empirica e dalla impostazione di tipo economico che ispira l’analisi antitrust (tanto nazionale quanto comunitaria, sempre più vicina ai criteri di valutazione impiegati dalle Corti statunitensi3 ), si propone dunque di guardare all’interazione tra collusione e rapporti negoziali successivi alla stregua di una fattispecie complessa. Il dato su cui si riflette, in particolare, è che sovente, “… quello che si suole definire contratto a valle è in realtà ancora intesa vietata (…). L’intesa, alquanto rarefatta e difficilmente afferrabile nel mero scambio di informazioni private (in cui, nella fattispecie concreta, si incarnava l’illecito), trova sicura manifestazione 2 R. PARDOLESI , op. ult. cit.; C. LO SURDO, Il diritto della concorrenza tra vecchie e nuove nullità, cit.; con riguardo al caso RC Auto anche U. VIOLANTE, Illecito antitrust e azione risarcitoria, in Danno e resp., n. 1/2005, p. 15. In giurisprudenza si veda ancora Cassazione, SS.UU., n. 2207/05, citata. 3 La svolta radicale nella messa in opera della normativa comunitaria della concorrenza - interpretata ed applicata con il Regolamento n. 1/2003 tenendo presente principalmente l’impatto sul mercato delle situazioni e dei comportamenti considerati - è enunciata nelle già richiamate Linee direttrici per la valutazione degli accordi verticali, in cui si adotta espressamente un approccio economico: “Nell’applicare le regole di concorrenza comunitarie, la Commissione applica un’impostazione di tipo economico, basata sugli effetti sul mercato” (punto 7). Per un’analisi delle ultime tendenze evolutive nel diritto comunitario della concorrenza si veda: E. GENTILE , La svolta di inizio millennio del diritto comunitario della concorrenza: il nuovo approccio economico, la semplificazione delle norme, la cooperazione internazionale e la modifica del regolamento 17/62, in Contr. e impr./Eur., n. 2/2000, p. 557 ss., il quale sottolinea che con questo nuovo approccio la valutazione concorrenziale si 184 fenomenica nei contratti apparentemente a valle, in realtà essi stessi comportamento anticoncorrenziale” 4 . Superando la distinzione e separazione di piani lungo i quali la questione è stata sinora riguardata dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritarie, si sottolinea infatti che, “anche ammettendo, senza davvero volerlo concedere, che l’istituto contrattuale possa essere riguardato alla stregua di una monade separata rispetto alla realtà economica cui si rapporta, sarebbe a dir poco controintuitivo imporre una soluzione di continuità ad un livello, quello della cospiracy, che ha senso pratico e dispiega le sue conseguenze negative solo in quanto si traduca operativamente nei contratti di mercato che si vorrebbero separati, autonomi ed indifferenti alla matrice da cui originano” 5 . Il punto di partenza di questa lettura, ed il dato che si ritiene (a ragione) di non dover sottovalutare, è che l’intesa “non dà vantaggi immediati ad alcuna delle parti, ma attraverso la successiva attuazione, finisce indirettamente con l’avvantaggiare tutte le parti. In questo caso, la funzione del contratto non si esaurisce con l’esecuzione delle obbligazioni delle parti, la quale costituisce, invece, la premessa d’una attività ulteriore, la cui realizzazione rappresenta la finalità del contratto e l’interesse delle parti” 6 . La ricostruzione teorica è poi suffragata dall’analisi della prassi giurisprudenziale, la quale, in effetti, presenta casi in cui sembra difficile poter circoscrivere l’intesa quale realtà compiuta e definita rispetto alla successiva attività contrattuale, tanto da indurre alcuni autori a proporre una differenziazione dei casi in è spostata dalla lettera degli accordi ai loro effetti concreti, che devono essere valutati con criteri economic i analoghi a quelli introdotti nel diritto antitrust americano dalla Scuola di Chicago. 4 Così E. SCODITTI, Il consumatore e l’antitrust, cit., p. 1129. 5 Così, ancora, R. PARDOLESI , op. ult. cit., p. 471, il quale, critico nei confronti di un’ottica “risolutamente panprivatistica”, osserva che la problematica debba essere inquadrata nei termini di una pratica complessivamente illecita, “cui afferiscono come parte saliente - se si preferisce, proiezione comportamentale - i contratti attuativi del disegno cospiratorio, altrimenti destinato a rimanere confinato al livello delle prave intenzioni”. Nel mettere in luce la presenza di un legame di “strumentalità necessaria” tra intesa a monte e contratti a valle, l’Autore aggiunge infatti che “quanto più abbia a maturare il convincimento circa l’atteggiarsi del diritto antitrust a strumento di completamento del diritto civile, tanto più tenderà a rivelarsi sterile l’idea di scavare un solco tra dimensione negoziale e ricaduta effettuale, in termini antitrust, di un’intesa finalizzata a danneggiare il consumatore”. 6 G. GIOIA, Vecchie intese e nuove nullità, op. cit., p. 12. 185 cui l’illecita concordanza di comportamenti è ontologicamente distinguibile dal contratto singolo (o, più realisticamente, dalla serie di contratti che vi fanno seguito) da quelli in cui, al contrario, la vicenda negoziale e l’illecito antitrust possono configurarsi strutturalmente come un unicum, ovvero non come realtà separate ed autonome ma quali fasi costitutive e cronologicamente successive di una medesima fattispecie 7 . In queste ultime ipotesi, infatti, scindere la complessiva condotta dell’impresa in due momenti distinti da sottoporre eventualmente a due destini diversi, sembra costituire per alcuni autori, almeno in taluni casi, una forzatura lontana dalla realtà dei fatti8 . Lo sforzo ricostruttivo sotteso a questa ricostruzione ermeneutica, in particolare, viene sostenuto con l’intento di cogliere l’effettiva essenza di operazioni di mercato (quali le intese) estremamente complesse - in relazione alle quali il singolo contratto esprime solo parzialmente l’assetto di interessi concreto cui la singola impresa collusa mira - evidenziando al tempo stesso rispetto a quale situazione deve essere valutata l’esigenza di protezione del contraente debole e di apertura competitiva del mercato. 1.1. Il contratto a valle come elemento costitutivo della fattispecie anticoncorrenziale Sulla base di queste premesse viene quindi proposta una diversa impostazione del rapporto tra intesa a monte e contratto a valle (terminologia, questa, di cui peraltro dovrebbe postularsi il superamento, attesa la prospettazione di una condivisione di 7 Così, in particolare, C. LO SURDO, Il diritto della concorrenza tra vecchie e nuove nullità, cit., p. 175 ss. 8 Sotto questo aspetto, come evidenzia C. LO SURDO, Il diritto della concorrenza tra vecchie e nuove nullità, cit., p. 175 ss., devono considerarsi in particolare quelle ipotesi in cui le imprese non si limitano a concordare linee di azione comuni - da adottare poi individualmente nei rispettivi rapporti commerciali con la clientela, trasponendole nel contenuto dei contratti da stipulare con le proprie utenze - ma in cui l’illecito coordinamento delle imprese ha direttamente luogo per l’aggiudicazione del ruolo di parte negoziale. A questo proposito, si veda da ultimo il provvedimento AGCM del 13 giugno 2002, n. 10831, relativo al c.d. caso Buoni-pasto, in cui la violazione anticoncorrenziale contestata - come accade di sovente specie nel settore degli appalti pubblici - alle imprese ha ad 186 livello tra i due momenti, non disgiunti ma operanti su di un medesimo piano), fondata in particolare sul presupposto in base al quale è la stessa stipulazione dell’atto negoziale e la conseguente assunzione di impegni contrattuali a dover essere interpretata quale frutto dell’illecita collusione 9 . Il nesso tra determinazione a monte e vicenda negoziale a valle - che spesso si traduce, ancor prima che in un’alterazione del regolamento pattizio, in una distorsione del meccanismo di scelta del soggetto imprenditoriale con cui il cliente (sia esso consumatore o professionista) si trova ad interloquire in veste di controparte contrattuale - viene dunque ricostruito guardando ai due termini del problema alla stregua di un rapporto unitario 10 . I rapporti negoziali stabiliti dalle imprese concertanti con la rispettiva clientela vengono infatti intesi, in virtù di un vincolo di strumentalità necessaria, quale vera e propria parte integrante dell’infrazione concorrenziale: il contratto (o meglio, la serie di contratti per lo più standardizzati) che lega a valle l’impresa all’utente finale (consumatore o professionista) verrebbe in particolare a costituire lo strumento attraverso il quale la prima attualizza l’oggetto del programma concertato con i suoi pari e, nella misura in cui consente alle imprese concertanti di trarre concretamente i oggetto proprio l’alterazione della procedura di gara, finalizzata (per sua natura) a selezionare il contraente rivelatosi più idoneo all’aggiudicazione della fornitura dei buoni. 9 L’ipotesi di inquadrare intesa e contratti a valle quali parti di una pratica complessivamente illecita e dunque nulla sembra formulabile, anche secondo R. PARDOLESI , op. ult. cit., p. 471, proprio con riguardo ai c.d. fruit contracts, ovvero a quei contratti in cui una parte è costretta ad accettare condizioni che l’altra è in grado di imporre proprio sulla scorta di una precedente intesa o della posizione di dominanza di cui beneficia. 10 Sul punto, si veda F. BOCCHINI, Nozione di consumatore e modelli economici, cit., p. 27, il quale sottolinea appunto che la tutela del consumatore si svolge ormai verso prospettive più ampie rispetto al dispiegarsi della singola vicenda contrattuale, da cui pure aveva tratto le prime sollecitazioni: “il referente della tutela del consumatore è evoluto dal contratto al mercato”. Soggiunge di seguito l’Autore, “(…) l’azione di tutela del consumatore non può esaurirsi nella osservazione della singola operazione economica e dunque nell’atto di scambio, ma deve involgere la stessa attività economica di impresa, garantendo sia standards di sicurezza dei prodotti e dei servizi offerti, sia corrette strategie di marketing. (…) Il contatto con il consumatore è ricercato dal produttore attraverso la pubblicità, sicché è sull’attività dell’impresa di produzione, prima ancora che sullo scambio operato dal rivenditore, che bisogna incidere per una efficiente tutela del consumatore”. Queste considerazioni, del resto, sono riconducibili alla circostanza che, ormai, la prospettiva dell’atto rappresenta solo “uno spaccato della dinamica commerciale”, poiché le determinazioni dell’atto riflettono “i più generali equilibri che si realizzano nei rapporti di mercato” (p. 28). 187 frutti della propria strategia d’azione, finirebbe inevitabilmente per assorbirne la natura illecita11 . L’elemento su cui viene incentrata la lettura del problema è che l’attività negoziale a valle è di regola funzionale alla realizzazione dell’assetto di interessi determinato concordemente dalle imprese a monte, realizzazione che implica un grado di complessità ed articolazione tale da indurre ad inquadrare l’infrazione concorrenziale ed il successivo contratto a valle come due momenti reciprocamente connessi. In alcuni casi, come anticipato, si ritiene quindi errato concepire il contratto a valle quale monade separata dalla realtà e dalle scelte economiche in cui esso va complessivamente ad inserirsi. La sua esistenza, infatti, assumerebbe un senso proprio in quanto consente di tradurre a livello operativo quanto idealmente stabilito pattiziamente. Al contratto a valle, concepito quale “strumento che conclude tale percorso illecito” (i.e., l’intesa), si ritiene quindi di non poter attribuire “un rilievo giuridico diverso da quello della intesa che va a strutturare, giacché il suo collegamento funzionale con la volontà anticompetitiva a monte lo rende rispetto ad essa non scindibile. (…) Nella delineata prospettiva dunque il contratto cosiddetto ‘a valle’ costituisce lo sbocco della intesa, essenziale a realizzarne gli effetti”12 . Esso in realtà, come le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno avuto modo di osservare di recente, “oltre ad estrinsecarla, la attua”13 . 11 Il rapporto di necessaria strumentalità che si viene a creare in alcuni casi tra illecito concorrenziale a monte e realtà negoziale a valle è ravvisata anche con riguardo a fattispecie antitrust di altra natura. Si fa il caso, in particolare, dello scambio di informazioni, pratica ritenuta normalmente lecita quando consiste in scambi di opinioni, esperienze, ricerche di mercato e dati statistici non direttamente riferibili alla singola impresa, e considerata invece illecita quando, per le caratteristiche e le modalità di esecuzione, il tipo e la frequenza dei dati trasmessi ai concorrenti, assume un contenuto strumentale per verificare l’attuazione di politiche commerciali comuni. Quest’ultima circostanza come rileva A. FRISULLO, nota a Banca d’Italia, provv. 18 gennaio 2000, n. 31, in Foro it., 2000, III, p. 290 ss. - ricorre quando a costituire oggetto di scambio sono dati e notizie di carattere strategico, utili a definire anticipatamente la condotta altrui. Anche in questo caso, infatti, il vantaggio è destinato a tradursi in profitti sovra-competitivi. 12 Così, Cass. n. 2297/05, cui è dedicato ampio spazio nel par. 3 di questo Capitolo. Dello stesso avviso è pure M. SCHININÀ , La nullità delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 436. 13 Cfr., Cass. n. 2207/05, citata. 188 A sostegno di questa tesi viene inoltre richiamato il rischio, ove effettivamente intesa e contratto fossero posti su piani disgiunti e non comunicanti, di svuotare il precetto dell’art. 2 della legge antitrust di qualunque contenuto sostanziale e di privare di qualunque incidenza effettiva il principio del libero mercato. Questo baluardo della democrazia economica, si osserva, deve infatti essere tutelato non solo da quelle collusioni che portino nel loro grembo un carattere intrinsecamente illecito, ma anche da quegli accordi che, pur leciti ab origine o esentati ex art. 4, assumono un carattere antigiuridico proprio in forza delle ricadute effettuali che li caratterizzano 14 . In un’interpretazione dell’art. 2 (e dunque dell’art. 81 del Trattato) quale norma volta a vietare la realizzazione del risultato anticoncorrenziale, piuttosto che l’atto o la pratica concordata isolatamente considerati, si ritiene quindi più corretto ipotizzare un contrasto diretto tra la disposizione ed il negozio attuativo dell’intesa, in quanto parte della più vasta situazione anticoncorrenziale che produce il risultato vietato. Il singolo contratto a valle, esecutivo dell’intesa a monte, concorre infatti a determinare la situazione distorsiva della concorrenza vietata dall’art. 2, anzi talvolta comportando direttamente - anche in ragione dell’uniformità che lo accomuna ad altri contratti rientranti nel medesimo standard - l’effetto di alterazione della struttura competitiva del mercato. Il punto d’incontro tra quanto definito a monte ed il successivo contratto a valle viene infatti individuato nella circostanza che, secondo lo “strumentario antitrust”, l’indagine intorno all’intesa strictu sensu ed alla sua liceità deve essere svolta secondo parametri ed elementi esterni rispetto al contenuto della collusione: 14 La possibilità è paventata anche da P. FATTORI - M. TODINO, La disciplina della concorrenza in Italia, op. cit., pp. 433-434. Dello stesso avviso è anche C. LO SURDO, op. ult. cit., p. 191, secondo la quale negare per definizione che la nullità possa ritenersi estesa anche all’attività negoziale conseguente alla congiunta determinazione a monte, “ponendo di fatto l’autore dell’illecito almeno sotto tale profilo al riparo dalla reazione dei soggetti con cui è entrato in rapporto d’affari, potrebbe provocare un pericoloso ridimensionamento delle norme poste a presidio del libero gioco della concorrenza”. La nullità, quindi, atteso il carattere sanzionatorio che - come condiviso da più che autorevole dottrina - la connota, svolgerebbe (almeno con riguardo ai contratti che costituiscono strumento di diretta integrazione dell’intesa) una funzione efficace per l’enforcement privatistico del principio concorrenziale. 189 quest’ultima, pur potendo essere di per sé lecita (si rammenti infatti che la concertazione tra imprese concorrenti non è sempre e comunque illecita, ma solo là dove essa integri la fattispecie dell’art. 2 e non benefici della esenzione di cui all’art. 4), è per l’appunto suscettibile di ricadere nel divieto previsto dalla legge n. 287/90 proprio in ragione del risultato concretamente realizzato o realizzabile sulla realtà economica sottostante 15 . La valutazione in termini di liceità/illiceità del comune piano strategico definito da imprese altrimenti indipendenti viene quindi svolta avendo riguardo non al solo momento concertativo a monte, ma in ragione dell’intero contesto economico e giuridico nel quale l’accordo s’inserisce: si guarda dunque al grado di accessibilità del mercato ed al livello di saturazione dello stesso, verificando anche il modo in cui i contratti a valle incriminati (anche in ragione del loro carattere standardizzato o meno) contribuiscono alla realizzazione dell’effetto anticoncorrenziale 16 . Ciò fa sì, giova ripeterlo, che la causa di nullità dell’accordo concertativo, pur riguardando la pratica nel suo aspetto funzionale, assuma quale punto di riferimento 15 Come sottolinea M. MELI, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 135, le intese vietate per effetto, proprio in quanto presuppongono un’indagine relativa al risultato prodotto o producibile, ripropongono la questione relativa alla trasponibilità, nel nostro ordinamento, del criterio di ragionevolezza di matrice statunitense (rule of reason). 16 Lo stesso discorso è svolto da M. SCHININÀ, La nullità delle intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 421, con riguardo all’art. 81 del Trattato, rispetto al quale si osserva che il fondamento della declaratoria di nullità dell’intesa anticoncorrenziale non può essere ravvisato in un vizio intrinseco dell’atto, inerente alla sua struttura o al suo contenuto, ma nel fatto che l’atto, collocato in un determinato contesto di mercato e unitamente ad un insieme di elementi ad esso esterni, è idoneo a determinare la situazione distorsiva della concorrenza, producendo così il risultato vietato dall’art. 81. Con riguardo alla invalidità di derivazione comunitaria in generale ed alla rilevanza degli effetti che l’atto è in grado di produrre piuttosto che degli elementi attinenti alla sua struttura, si veda: N. LIPARI , Il ruolo del notaio nella nuova realtà delle nullità contrattuali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, p. 366, il quale sottolinea che “il controllo di legalità (ove rapportato all’atto di autonomia) non si esprime più nel raffronto tra il contenuto del contratto con il parametro legale, ma esige semmai di essere verificato a posteriori con riferimento al modo in cui gli effetti di quell’atto hanno inciso su sfere di interesse che l’ordinamento non può non tutelare”; V. SCALISI , Nullità e inefficacia nel sistema europeo dei contratti, op. cit., p. 498 ss., secondo il quale la nullità di derivazione comunitaria, affrancandosi dalla logica della fattispecie, “si atteggia fondamentalmente come nullità funzione, come nullità cioè che è e sta in diretto e immediato rapporto di congruenza e di corrispondenza con un determinato assetto di interessi, in ragione della natura degli stessi, della specifica posizione delle parti, dei beni e servizi negoziati”; P.M. PUTTI, voce “Nullità (nella legislazione di derivazione comunitaria), in Digesto, Disc. Priv., sez. civ., XVI, aggiorn., Torino, 2000, p. 685, il quale si sofferma sulla funzione della sanzione delle nullità di derivazione 190 elementi esterni e variabili rispetto al suo contenuto, tra cui si fanno ricadere quei contratti che, pur animati da una propria logica interna, costituiscono il mezzo attraverso il quale quanto statuito concordemente dalle imprese colluse si cala nella realtà economica sottostante a concretizzarne il programma. Il dato si ritiene evidente soprattutto con riguardo a quelle intese nelle quali il disegno concertato si traduce a valle nella stipulazione di una serie indefinita di rapporti negoziali i quali, se singolarmente considerati mostrano un’indole apparentemente innocua ed irrilevante sul piano antitrust, acquistano invece un rilievo non trascurabile ove il carattere standardizzato ed uniforme - e dunque l’impiego generalizzato presso la clientela di ogni singola aderente (si pensi soprattutto al settore assicurativo o a quello bancario) - conduca al c.d. effetto cumulativo. In altri termini, anche il singolo contratto a valle che, per sé considerato, non presenta alcun elemento significativo in un’ottica di competitività del settore di appartenenza, si ritiene possa, in ragione della particolare conformazione del mercato di riferimento, contribuire a determinare cumulativamente con gli altri contratti della medesima specie negoziale proprio l’effetto anticompetitivo (ad esempio la ripartizione del mercato) avuto di mira dalle aderenti al pactum vietato dall’art. 2 della legge n. 287/90, finendo quindi per soggiacere - alla stregua del dettato normativo che collega la medesima invalidità tanto alle intese aventi per oggetto quanto a quelle con effetto anticoncorrenziale - alla stessa sanzione 17 . comunitaria di colpire le attività in contrasto con l’obiettivo della realizzazione del libero mercato e della concorrenza”. 17 Cfr., ad esempio, Corte di Giustizia, 28 febbraio 1991, Delimitis, cit., p. 935, in cui la Corte afferma che “un contratto di fornitura di birra è vietato dall’art. 85, n. 1, del Trattato qualora ricorrano due condizioni cumulative. Occorre in primo luogo che, tenuto conto del contesto economico e giuridico del contratto oggetto della controversia, il mercato nazionale della distribuzione di birra nei pubblici esercizi sia difficilmente accessibile a concorrenti che potrebbero insediarsi in tale mercato o espandere ivi la loro quota di mercato. Il fatto che il contratto di cui trattasi faccia parte in tale mercato di un complesso di contratti analoghi, che producono un effetto cumulativo sul gioco della concorrenza, costituisce un fattore per valutare se un siffatto mercato sia effettivamente di difficile accesso. E’ necessario, in secondo luogo, che il contratto di cui trattasi contribuisca in modo significativo all’effetto di blocco prodotto dal complesso di questi contratti, nel loro contesto economico e giuridico. L’importanza del contributo del contratto individuale dipende dalla posizione delle parti contraenti sul mercato considerato e dalla durata del contratto”. Da qui nasce inoltre un interrogativo: come può un contratto nascere “sano” e divenire nullo per effetto di cause ad esso 191 In questo caso, infatti, “la causa di nullità si colloca, con tutta evidenza, al di fuori dell’oggettività del negozio. L’intesa è vietata, cioè, per il suo concreto effetto anticoncorrenziale o, quanto meno, per la sua idoneità a produrre un’alterazione della struttura concorrenziale del mercato, senza che, in alcun modo, rilevi la struttura del comportamento posto in essere o, addirittura, la volontà di produrre l’effetto distorsivo della concorrenza” 18 . A porsi direttamente in contrasto con la norma imperativa dell’art. 2 non è quindi la funzione anticoncorrenziale dell’atto in sé considerata, bensì “la situazione di fatto che consiste nel complesso dell’atto e di elementi ad esso esterni e che è legata al contesto geografico e di mercato nel quale l’atto si inserisce”19 . Logica conseguenza di questo ragionamento - del quale sembra opportuno tentare di definire i limiti in questa sede - è quindi un’applicazione estensiva al contratto a valle, in quanto atto esecutivo dell’intesa, del divieto di cui all’art. 2 della esterne e contingenti (la fissazione di un accordo a monte e la presenza di altri contratti di identico contenuto)? Al riguardo è stata proposta la soluzione della invalidità sopravvenuta, così come riferibile alle ipotesi di sopravvenienza di una legge che renda nulli i negozi precedentemente stipulati. La similitudine, rispetto alla nostra ipotesi, sarebbe ravvisabile nel fatto che in entrambi i casi il contratto a valle, al momento della sua formazione, presenta tutti i requisiti di validità; tuttavia esso finisce per rientrare nell’ambito di operatività di un divieto: nel primo caso per effetto di una legge sopraggiunta; nel secondo - che ci riguarda - in ragione di circostanze relative al mercato di riferimento ed al contesto in cui è inserito. Una similitudine, questa, che vale solo a precisare come il nostro ordinamento consenta la caducazione degli effetti di un contratto in dipendenza di fatti esterni o sopraggiunti rispetto alla sua stipulazione. Dato quindi che la lesione della concorrenza si può cogliere solo a livello di analisi del funzionamento dell’intero mercato rilevante, può accadere che nel corso della vita di un’intesa - che è, di regola, un contratto di durata - la lesione non si verifichi al momento iniziale, ma sopraggiunga nel corso dell’esecuzione del rapporto, anche per cause del tutto indipendenti dalla volontà delle aderenti. Così M. M ELI, L’abuso di posizione dominante attraverso comportamenti aventi carattere negoziale: il caso Telepiù, cit., p. 318 ss. L’ipotesi è testualmente prevista nel Regolamento n. 2790/1999 CE, in materia di intese verticali, con riguardo al richiamato “effetto cumulativo” di più intese verticali indipendenti, che porti alla paralisi degli accessi al mercato per eventuali nuovi entranti (si pensi ai contratti di approvvigionamento esclusivo per i distributori di carburanti e simili). In questo caso, si verifica un’ipotesi testuale di invalidità successiva del contratto. Il caso, anche se più raramente, può presentarsi anche nell’ambito dell’esecuzione di un singolo contratto, come nell’ipotesi di un accordo di distribuzione esclusiva (a favore del distributore) per il lancio di un nuovo prodotto. In questo caso, pur potendo il contratto esplicare un effetto positivo sulla dinamica concorrenziale, qualora il prodotto abbia un notevole e rapido successo, la clausola di esclusiva potrà divenire ben presto la base per comportamenti monopolistici e per alterazioni del gioco concorrenziale. In ipotesi di questo genere, si deve quindi estendere la qualificazione in termini di invalidità successiva dell’intesa (a riguardo il diritto comunitario prevede infatti la possibilità di una revoca dell’esenzione per fatti sopraggiunti). 18 Così, M. S CHININÀ , La nullità delle intese anticoncorrenziali, op. cit., pp. 422-423. 19 Così, ancora, M. SCHININÀ, op. ult. cit., p. 425. 192 legge n. 287/1990 e del relativo regime sanzionatorio, ossia della nullità di cui al comma 3. Il parametro normativo cui ancorare la soluzione in termini di nullità dell’attività negoziale intrattenuta dalle singole imprese colluse con i terzi ex 2, comma 3, della legge n. 287/90, viene nella specie individuato proponendo una rigorosa lettura della medesima disposizione e del rilievo da questa attribuito, nel vietare la conclusione di intese sensibilmente restrittive della concorrenza, al profilo effettuale del pactum cospiratorio 20 . La circostanza che il legislatore abbia inteso proibire non solo collusioni aventi quali oggetto una consistente costrizione del meccanismo competitivo, ma anche un effetto di questo genere (a prescindere dal contenuto dell’accordo) viene infatti 20 Come afferma G. OPPO, Costituzione e diritto privato nella “tutela della concorrenza”, op. cit., p. 546, l’antigiuridicità delle intese “non si coglie nella (sola) causa (a volte addirittura tipica e comunque non incompatibile con un giudizio di meritevolezza) ma nel concreto effetto (anticoncorrenziale) o meglio in una quantità dell’effetto”. M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., p. 446, sottolinea che della disposizione dell’art. 2 è stata data per decenni, in diritto comunitario, un’interpretazione piuttosto lata. In sostanza, l’effetto anticoncorrenziale è stato fatto coincidere con la limitazione della libertà di iniziativa della singola impresa (ad esempio a fronte di una clausola di esclusiva), e non necessariamente con l’esistenza di una restrizione della concorrenza effettiva a livello complessivo di mercato. La soluzione - precisa l’Autore - “ha retto” perché contemporaneamente l’art. 81, par. 3, del Trattato CE è stato lungamente interpretato come attributivo di un potere della Commissione di esentare dal divieto le intese “utili” con propri provvedimenti discrezionali costitutivi, così consentendone un largo uso. Questa interpretazione è peraltro, secondo l’Autore, destinata a venire meno a seguito dell’attuazione del Regolamento n. 1/2003, con il quale l’esenzione di cui al par. 3 (la cui applicazione sarà conferita anche alle autorità nazionali) assume carattere non più costitutivo ma meramente ricognitivo. L’intesa, quindi, sarà ab origine e ope legis estranea al divieto quando il suo effetto, pur formalmente restrittivo della libertà di iniziativa economica di una o più imprese, sia positivo (o anche solo neutro) per lo sviluppo della concorrenza effettiva nel mercato, sulla base di indici di valutazione resi nota dalla stessa norma. In questa prospettiva, l’ambito di incidenza - e dunque le estreme ricadute - della nullità è quindi destinato ad essere fortemente ridotto. In merito alla necessità di abbandonare un approccio eccessivamente formale, a vantaggio di una analisi economica delle problematiche antitrust, si veda pure G. BRUZZONE , Riforma della politica comunitaria in materia di intese verticali. Verso un maggiore utilizzo dell’analisi economica, in Mercato, concorrenza e regole, n. 1/2000, la quale osserva che “Da alcuni anni (…) il tradizionale trattamento delle intese verticali nel diritto comunitario della concorrenza è venuto ad essere oggetto di diffuse critiche, incentrate sul suo eccessivo formalismo e sulla insufficiente considerazione delle indicazioni dell’analisi economica (…). Per quanto concerne l’antitrust in senso stretto, è stato rilevato che la nozione di protezione della concorrenza utilizzata nell’applicazione dell’articolo 81.1 ha spesso fatto riferimento alle limitazioni intersoggettive della libertà di azione delle parti, piuttosto che sull’impatto esterno sul mercato (…). Il dibattito (seguito alla pubblicazione del Libro Verde) ha confermato l’esistenza di un diffuso consenso circa l’esigenza di un approccio meno formalistico che non si limiti a una ricognizione delle clausole contenute negli accordi ma si incentri sul loro effettivo impatto sulla concorrenza e sugli scambi fra Stati membri”. 193 interpretato quale segno della possibilità di ravvisare, in alcune fattispecie, il descritto rapporto di unitarietà tra i due momenti (accordo tra imprese e contratti a valle) 21 . Attraverso un attento esame della conformazione concreta e della funzione che l’intesa a monte è chiamata a svolgere dalle sue autrici, delle caratteristiche del mercato in cui essa si colloca, del contenuto dell’attività negoziale sottostante (standardizzata o meno), si ritiene infatti che non possa escludersi a priori la possibilità che i rapporti contrattuali a valle, attraverso cui trova concreta attuazione ed effettiva realizzazione il programma concertato, possano essere considerati alla stregua di un elemento costitutivo della fattispecie vietata dall’art. 2 della le gge antitrust 22 . E ciò perché, con riguardo alla illiceità per effetto, il dato discriminante idoneo a qualificare l’accordo collusivo in termini di antigiuridicità discende non dall’oggetto, e dunque dal contenuto di quanto uniformemente statuito in sede di concertazione, ma dal profilo effettuale, ovvero dalla potenzialità insita in una comune strategia di azione di tradursi sul piano concreto in una significativa compressione del gioco concorrenziale. La nullità antitrust, diretta ad ogni effetto a privare l’impresa di qualunque beneficio derivante dall’accordo illecito, verrebbe quindi a colpire - sulla base di una lettura estensiva della norma dell’art. 2 e a prescindere dal nesso intercorrente 21 In dottrina, il principio era riconosciuto già da P. A UTERI , Nullità e autorizzazione delle intese restrittive della concorrenza nella normativa antitrust nazionale, op. cit., p. 103, e da L.C. UBERT AZZI , Concorrenza e norma bancarie uniformi, op. cit., p. 101, il quale proponeva una “valutazione complessiva ed unitaria dell’accordo sulle n.b.u. e della serie di contratti uniformi”, entrambi quindi direttamente nulli ex art. 85 (ora 81) del Trattato. La preminenza di una valutazione di natura effettuale, sottolinea A. M IRONE, Standardizzazione dei contratti bancari e tutela della concorrenza, op. cit., pp. 111-116, si ravvisa in special modo con riguardo alle pratiche concordate, il cui addebito, attes ane la natura meramente fattuale, presuppone necessariamente l’attuazione del parallelismo di comportamenti. Non si addice cioè alle pratiche concordate un’anticoncorrenzialità predicata per lo scopo o per l’oggetto, bensì solamente per i suoi effetti, il che significa che ogni presunta sostituzione dei rischi della concorrenza con un consapevole parallelismo non può essere sanzionata se non solo dopo la sua effettiva messa in opera. Del resto, se funzione della figura è quella di sopperire alla mancanza di prove esplicite di una collusione negoziata, è evidente che il meccanismo occulto di coordinamento volontario va indirettamente svelato proprio a partire dalle caratteristiche anomale dei comportamenti di mercato. In questo senso anche Corte di Appello di Torino, 6 luglio 2000, in Danno e resp., n. 1/2001, p. 48 ss., con commento di S. BASTIANON . 22 Cfr. C. LO SURDO, op. cit. 194 tra le varie fasi di quella che è concepita come una medesima, più vasta sequenza di fatti (l’accordo tra le imprese, la stipulazione dei contratti, la loro esecuzione) l’intesa nel suo complesso ed in ogni sua parte, atto a valle compreso. Peraltro anche chi sostiene la possibilità di inquadrare il contratto a valle quale elemento costitutivo della fattispecie illecita, non disconosce che l’immaginare una nullità per effetto quale quella in questione sollevi qualche problema dal punto di vista della riconduzione alle categorie civilistiche tradizionali 23 . Ciò in quanto i parametri di riferimento su cui si basa una valutazione di liceità del contratto a valle fondata su presupposti del tipo descritto sono affidati all’analisi dei mercati e dunque ad elementi esterni rispetto a quelli deducibili dal contenuto dell’accordo tra imprenditore colluso e terzo (rispetto alla concertazione) contraente. Quest’ultimo atto negoziale verrebbe difatti in rilievo quale parte di una più ampia fattispecie complessa costituita, oltre che dal comune state of minds, anche dal mercato di riferimento e dai rapporti negoziali che in esso si svolgono 24 . Il rilievo si considera peraltro coerente con l’impostazione complessiva della normativa antitrust la quale, attraverso l’allargamento del divieto (non solo al momento più propriamente costitutivo del rapporto, ma) anche gli effetti, darebbe mostra proprio di voler impedire i fatti restrittivi della concorrenza, in una visione obiettiva dell’attività d’impresa, considerata nel suo profilo propriamente effettuale25 e non esclusivamente contenutistico. La prospettiva ermeneutica sembra del resto già “intravista” ed anticipata dalla emblematica sentenza 1° febbraio 1999, n. 827 (citata), con cui la Suprema Corte, precorrendo quanto anche la dottrina sarebbe andata negli anni riscontrando, enunciava alla stregua di un vero e proprio principio generale - ribadito, pur all’interno di un obiter dictum, dalla Cassazione, 20 giugno 2001, n. 8887 - che la nullità antitrust non investe (tendenzialmente) solo “l’eventuale negozio originario 23 Cfr. G. GIOIA, Vecchie intese e nuove nullità, op. cit. Favorevole a questa lettura, L. DI VIA, L’invalidità dei contratti degli imprenditori, in Trattato di dir. priv. eur., a cura di N. Lipari, Padova, 2003, p. 635 ss. 25 N. BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 1990, osserva come il passaggio dalla proclamazione di principio all’effettività, anche in punto di tutela, dei diritti costituisca il profilo distintivo ed il compito specifico di ogni moderna democrazia. 24 195 postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma tutta la più complessiva situazione, anche successiva al negozio originario”. Sarebbe quindi lo stesso “armamentario normativo antitrust” e, prima ancora, il principio di concorrenza effettiva26 che trova unanime riconoscimento, a segnalare quale ruolo cruciale rivesta il dualismo oggetto/effetti dell’intesa nell’ambito dei rapporti tra disciplina sostanziale ed apparato rimediale; binomio che, come già evidenziato, acquista un rilievo tale da giustificare da un lato, ove ricorrano le condizioni di cui all’art. 4, la concessione di temporanee esenzioni, dall’altro invece la previsione di trattamenti “aggravati” per quelle condotte imprenditoriali che rivelano un indole irrimediabilmente pregiudizievole per le dinamiche 27 concorrenziali e per questo vietate per se . 26 Sul punto si rinvia alle considerazioni di M. LIBERTINI , Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., p. 433 ss., il quale, criticando l’approccio della Scuola di Chicago (che intendeva la competizione tra imprese quale sinonimo di ottima allocazione delle risorse), sottolinea il fatto che la concorrenza (da intendere quale vero e proprio “bene giuridico”) debba essere ricostruita in senso dinamico, ovvero come processo, non come semplice situazione ottimale (la conferma si ritroverebbe nel riferimento al gioco concorrenziale di cui all’art. 2, nel richiamo all’immagine di un processo costantemente aperto e dagli esiti incerti). Da ciò consegue che, se si vuole tutelare la concorrenza effettiva, non è sufficiente garantire la libertà di iniziativa economica e di concorrenza (che, paradossalmente, potrebbero essere esercitate in direzione anticompetitiva), ma occorre una politica attiva di sostegno alla dinamica concorrenziale, che può usare strumenti tanto incentivanti quanto repressivi. Dello stesso avviso è anche G.M. BERRUTI, La concorrenza sleale nel mercato. Giurisdizione ordinaria e normativa antitrust, op. cit., p. 27, secondo il quale “il mercato …è realtà in movimento, nella quale i protagonisti competono adattandosi costantemente al cambiamento”. Simile affermazione, del resto, rileva A. TIZZANO, Le dimensioni internazionali della concorrenza¸ in La concorrenza tra economia e diritto, cit., p. 98, risulta conforme all’indirizzo comunitario. Anche alla nozione comunitaria di concorrenza, infatti, può attribuirsi un contenuto dinamico, quale effetto della strumentalità delle regole di concorrenza rispetto ai fini indicati dal Trattato e, a sua volta, causa di una prassi applicativa di quelle regole aperta alle esigenze del contesto economico-sociale in cui le stesse si inseriscono. Dello stesso avviso, N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 40. L’attenzione al profilo effettuale dell’illecito antitrust è confermato pure dal Regolamento n. 1/2003, in base al quale, lo si ricordi, l’intesa è estranea al divieto ope legis quando il suo effetto, pur formalmente restrittivo della libertà di iniziativa economica di una o più delle imprese coinvolte, sia positivo (o anche solo “neutro”) per lo sviluppo della concorrenza effettiva nel mercato, sulla base dei criteri di valutazione indicati nello stesso articolo. In questa nuova prospettiva, l’ambito di applicazione del rimedio della nullità è quindi destinato a ridursi in maniera significativa. La sanzione della nullità, infatti, non viene più dettata per ogni caso di intesa lesiva della libertà di concorrenza, ma solo per i casi in cui l’intesa abbia un oggetto o un effetto lesivo della concorrenza effettiva. 27 Come è già stato posto in luce nel Capitolo I, non si ritiene infatti da condividere l’affermazione secondo la quale, in presenza di un accordo dal contenuto intrinsecamente anticoncorrenziale, non è necessario procedere ad un esame delle conseguenze sul piano effettuale dell’intesa. L’illiceità dell’oggetto - come rilevato dagli autori richiamati in quella sede - serve infatti soltanto ad alleviare l’onere probatorio a carico di chi deve dimostrare l’infrazione (costituendo una sorta di “fumus” 196 Tra l’altro poi, come messo in evidenza dalla migliore dottrina, “(…) la dichiarazione di nullità dell’intesa di per sé (ove si considerasse il contratto a valle quale quid estraneo al torto concorrenziale che lo precede) non preclude la continuazione di fatto del comportamento anticoncorrenziale, da parte delle imprese interessate”28 , così che, attraverso l’attribuzione del dovuto significato all’espressa indicazione dell’effetto dell’intesa, quale elemento di valutazione della stessa illiceità della pratica, si potrebbe cogliere pienamente quella che è stata definita “la considerazione olistica del comportamento anticoncorrenziale”29 . Come osservano anche le Sezioni Unite, infatti, “(…) la previsione del risarcimento del danno sarebbe meramente retorica se si dovesse ignorare, considerandolo circostanza negoziale distinta dalla ‘cospirazione anticompetitiva’ e come tale estranea al carattere illecito di questa, proprio lo strumento attraverso il quale i partecipi alla intesa realizzano il vantaggio che la legge intende inibire. Se un’intesa fosse ancora luogo nelle intenzioni dei partecipi e non avesse dato ancora ad alcun effetto, mentre vi sarebbe spazio… per la proibizione e la sanzione da parte di AGCM (…), non vi sarebbe interesse da parte di alcuno ad una dichiarazione di nullità ai sensi dell’art. 33 della legge n. 287 del 1990, la cui ratio è di togliere alla volontà anticoncorrenziale ‘a monte’ ogni funzione di copertura formale dei comportamenti ‘a valle’”. dell’illiceità), senza assolutamente esonerare da un accertamento della ricaduta in termini effettuali che essa comporta. Il rilievo è confermato da una recente giurisprudenza: cfr., Cass., 11 giugno 2003, n. 9384, in Foro it., n. 3/2004, I, pp. 475-476, secondo cui “l’accertamento della condotta anticoncorrenziale non può prescindere dall’apprezzamento degli effetti della medesima sul mercato sia per quanto riguarda l’idoneità della stessa ad alterare il gioco concorrenziale, sia per verificarne concretamente la consistenza”. Autorevole dottrina puntualizza ricordando che gli effetti dell’intesa non rientrano fra i presupposti normativi per l’applicazione della sanzione (cfr. P. FATTORI , I poteri dell’Autorità garante in materia di intese ed abusi di posizione dominante: diffide e sanzioni, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1997, p. 877 ss.). Tuttavia, non può disconoscersi che gli effetti di distorsione della concorrenza prodotti dall’intesa rappresentano un importante parametro per determinare la gravità dell’infrazione (cfr. Tar Lazio, sez. I, 21 luglio 1993, n. 1157, in Foro it., 1994, III, p. 147). In dottrina, l’argomento è trattato ampiamente da I. VAN BAEL - J.F. BELLIS, Il diritto della concorrenza nella Comunità europea, op. cit., p. 796 ss., i quali evidenziano l’atteggiamento di estrema cautela della Commissione nell’uso del potere sanzionatorio in presenza di intese dichiarate illecite solo per l’oggetto (per un esempio di ammenda inflitta prescindendo dalla verifica degli effetti, si veda la decisione 14 ottobre 1998, British Sugar Plc, in G.U.C.E., 22 marzo 1999, L76, p. 1). 28 M. LIBERTINI , Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, cit., p. 668. In senso conforme anche E. SCODITTI, Il consumatore e l’antitrust, cit., p. 1129. 197 2. Le recenti aperture della giurisprudenza amministrativa Di estremo interesse si rivela, nello svolgimento delle argomentazioni addotte a sostegno di questa ricostruzione – cui peraltro seguirà la dovuta analisi critica – il richiamo di alcune recenti sentenze del Tar del Lazio, in cui l’interpretazione del contratto a valle quale momento costitutivo della fattispecie “intesa” e la nullità conseguente ad una violazione diretta della norma imperativa dell’art. 2 da parte dell’atto negoziale (in quanto concepito appunto quale elemento della fattispecie illecita) sembra trovare (talvolta implicitamente) conforto. La questione che ci riguarda viene ad essere affrontata in primo luogo con riferimento (Tar Lazio, sez. I, 10 marzo 2003, n. 1790, Gemeaz e altri c. Autorità garante) ad una fattispecie di collusione illecita tra alcune società di ristorazione (Gemeaz Cusin, Sodexo Pass, Day Ristoservice, Ristomat, Qui! Ticket Service, Ristochef, Sagifi e La Cascina) sanzionata dall’Autorità garante con il provvedimento n. 10831 del 13 giugno 2002 30 e di cui sembra opportuno ripercorrere le tappe principali. Nel caso sottoposto all’attenzione del giudice amministrativo, l’addebito si sostanziava nella realizzazione da parte delle denunciate di un’intesa giudicata anticoncorrenziale dalla autorità di settore (nella specie, di una pratica concordata)31 , 29 Così, R. PARDOLESI , Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 471. Il testo del provvedimento è disponibile sul sito ufficiale dell’Autorità: www.agcm.it 31 Come ha avuto modo di evidenziare il Consiglio di Stato, sez. VI, nel pronunciarsi sulla questione con sentenza n. 926 del 27 gennaio 2004, nella pratica concordata, pur mancando un accordo espresso, vi è una forma di coordinamento fra imprese che sostituisce consapevolmente una pratica collaborazione fra le stesse ai rischi della concorrenza (a riguardo vedi anche: Corte di Giustizia, 8 luglio 1999, C-49/92P, Commissione/Anic; 14 luglio 1972, causa 48/69, Imperial Chemical Industries, in Racc., 1972, p. 619 e in Foro it., 1973, IV, p. 9; 16 dicembre 1975, cause riunite 40/73 a 48/74, 50/73, 54/73, 55/73, 56/73, 111/73, 113/73 e 144/73, Cooperative Vereniging “Suiker Unie” e a., in Racc., 1973, p. 1663 e in Foro it., 1976, IV, p. 118). Si è quindi in presenza di un comportamento costante, uniforme, parallelo di una pluralità di imprese, frutto di una concertazione che, pur non formalizzata in un accordo, emerge dalla univocità dei comportamenti concreti (Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1699/2001; n. 652/2001), insuscettibile quindi di una concreta spiegazione alternativa rispetto a quella collusiva. In particolare, come bene ha evidenziato M. SCUFFI, Orientamenti consolidati e nuove prospettive nella giurisprudenza italiana antitrust, in Riv. dir. ind., 2003, p. 109, nella gran parte dei casi le imprese, anziché addivenire ad un accordo formale, evitano di lasciare tracce scritte del proprio operato (il c.d. smoking gun), desumibile pertanto solo da prove indirette ricavate da comportamenti convergenti e concludenti, sufficienti a far supporre 30 198 avente ad oggetto ed effetto l’alterazione della concorrenza nella fornitura del servizio sostitutivo di mensa mediante buoni pasto al personale dipendente delle pubbliche amministrazioni nell’ambito di una gara bandita dalla Consip (Concessionaria Servizi Informativi Pubblici, interamente partecipata dal Ministero del Tesoro, oggi Economia e Finanze 32 ). L’infrazione contestata, in particolare, si sostanzia nell’individuazione concertata tra tutte le partecipanti all’intesa della composizione delle varie ATI (associazioni temporanee di impresa) e delle imprese destinate a presentarsi singolarmente 33 , nella l’esistenza di un’intesa. Ciò vale in particolar modo con riguardo alla pratiche concordate, le quali, ex se, assegnano in materia antitrust un ruolo di primo piano alla prova per presunzioni, purchè queste siano gravi, precise e concordanti secondo il dettato dell’art. 2729 cod. civ. 32 In merito ai problemi sollevati dalla riforma del sistema di approvvigionamento della pubblica amministrazione introdotta con l’art. 26 della legge 23 dicembre 1999, n. 488 (legge finanziaria per l’anno 2000), la quale prevede che il Ministero di Economia e Finanze (e, per suo conto, Consip Spa in qualità di società indirettamente controllata) stipuli convenzioni con imprese, tenute ad accettare, per le varie forniture e servizi, gli ordinativi delle amministrazioni interessate, si vedano L. FIORENTINO, Il modello Consip dopo la legge finanziaria per il 2004, in Gior. dir. amm., n. 3/2004, p. 269 ss. e F.M. NICOSIA, “Modello Consip” tra Stato e mercato (Lineamenti e prospettive evolutive), in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2002, p. 711 ss. 33 In primo piano, nel caso in esame, si pone la figura dell’ATI (figura di matrice prettamente socioeconomica), la cui problematicità attiene in particolare alla circostanza che il coordinamento temporaneo ed occasionale tra imprese - in cui l’istituto si sostanzia - si rivela potenzialmente (e spesso concretamente) in grado di restringere il grado di competitività di un determinato mercato, potendo essa tramutarsi facilmente in un efficace mezzo di elusione della disciplina antimonopolistica al pari di una qualunque intesa anticoncorrenziale. Nel caso di specie, si tratta di un raggruppamento di imprese di tipo orizzontale, caratterizzato quindi dalla presenza, in capo alle società di ristorazione riunite, di specializzazioni omogenee e dunque implicanti “una distribuzione meramente quantitativa del lavoro appaltato” (così, V. DE FALCO, Le associazioni temporanee di imprese: il raggruppamento di tipo orizzontale alla luce delle disposizioni del D. lgs. 19 dicembre 1991 n. 406. Aspetti e problemi, in Riv. giur. edil., 1995, II, p. 16, il quale distingue il tipo di raggruppamento richiamato da quello verticale, che ricorre “quando nell’esecuzione dell’appalto rimangono distinte le singole posizioni in ordine alle parti delle opere da eseguire, che vengono realizzate, nella maggior parte dei casi, dalla capogruppo che svolge anche compiti di coordinamento”). Sull’argomento si rinvia, in particolare, ad A. A RGENTATI, L’associazione temporanea tra imprese negli appalti pubblici e nella disciplina antitrust, in Riv. dir. comm., 2000, p. 283 ss., la quale evidenzia per prima cosa che la cooperazione temporanea ed occasionale nello svolgimento di una data attività (soprattutto attraverso la costituzione di joint ventures) risponde ad un’esigenza avvertita in maniera diffusa dalle imprese in conseguenza della globalizzazione e della inaugurazione di spazi dell’economia sempre più estesi, all’interno dei quali il grado di competitività e di visibilità sul mercato - oltre che di incidenza - è in parte assicurato dalle dimensioni dell’organizzazione imprenditoriale, la quale esplica un’efficacia positiva per le aderenti anche in ordine alla ripartizione del rischio insito nell’esecuzione dell’opera. I profili di problematicità principali della figura, prosegue l’Autrice, sono riconducibili alla mancanza di una disciplina ad hoc di carattere generale ed alla conseguente varietà di forme giuridiche che l’ATI tende quindi ad assumere (istituti societari o associativi tipici, atipici e forme consortili di diversa natura). Sul rapporto tra ATI, società consortili e mandato, si veda Cass., 4 gennaio 2001, n. 77, in Le Società, 2001, p. 1465 ss., con nota di A. DI M AJO, Associazioni temporanee di imprese e società consortili negli appalti pubblici; in Giust. civ., 2001, II, p. 1237 ss., con nota di G. VIDIRI , 199 fissazione congiunta dei livelli di sconto nella presentazione delle singole offerte e nella conseguente spartizione dei lotti. La rilevanza che la pronuncia assume nella definizione di una soluzione alternativa in merito al rapporto concretamente configurabile tra illecito antitrust e contratti a valle, emerge in particolare dalla circostanza che il giudice amministrativo - pur negando nella fattispecie concreta la sussistenza di un nesso sufficientemente rilevante tra la concertazione a monte e l’attività negoziale successiva all’aggiudicazione - lascia intravedere la possibilità che un legame del tipo enucleato tra i due momenti possa concretamente sussistere. Il Collegio ammette, infatti, una ricostruzione di questo tipo ogni qualvolta il contratto a valle costituisca lo strumento attraverso il quale quanto definito astrattamente a monte diviene concretamente operativo: in questo caso, infatti, il contratto a valle “difficilmente potrebbe sottrarsi ad una valutazione di illiceità della sua causa concreta”, così soggiacendo al destino invalidativo previsto dalla legge n. 287/90 34 . Associazioni temporanee di imprese, consorzi e società consortili nell’appalto di opere pubbliche). Caratteristiche tipiche della figura sono: 1) il fine, ovvero l’esecuzione congiunta di un’opera che, per complessità tecnica, organizzativa, finanziaria ovvero per i rischi connessi non potrebbe essere realizzata da una sola impresa; 2) la temporaneità ed occasionalità del vincolo, dal quale non scaturisce un soggetto autonomo e distinto dalle imprese associate e connesso anche alla mancanza di un’organizzazione esterna; 3) l’assenza di un fondo comune e di attività comuni. Campo elettivo di utilizzazione dell’istituto è costituito, in particolare, dalla costruzione delle grandi opere pubbliche, che coinvolgono quindi fortemente gli interessi della P.A. Sul punto si veda, altresì, A. DONATI, Recenti orientamenti della Corte di Cassazione in tema di associazioni temporanee di imprese, nota a Cass., 7 agosto 1997, n. 21652, in Giur. comm., 1998, II, pp. 181-184 e Cass., 24 febbraio 1985, n. 681, in Giur. comm., 1976, II, p. 780. Una delle questioni di maggior rilievo, anche ai fini del diritto antitrust, riguarda la configurabilità dell’ATI quale soggetto autonomo e distinto dalle singole partecipanti, oppure se queste ultime, secondo l’indirizzo prevalente, siano funzionalmente coordinate nella partecipazione all’appalto ma conservino la propria autonomia giuridica. In merito alla problematica delle ATI, si veda altresì, in generale, F. BENATTI, Associazioni temporanee di imprese, in Diz. dir. priv., a cura di N. Irti, I, Milano, 1980, p. 74 ss.; A. A STOLFI , Il contratto di joint venture. La disciplina giuridica dei raggruppamenti temporanei di impresa, Milano, 1981, p. 138 ss.; D. BONVICINI, Associazioni temporanee di imprese, in Enc. giur., vol. III, 1988, Roma. 34 Con riguardo al caso specifico, complicato dalla frapposizione tra l’intesa a monte e la stipulazione dei contratti di fornitura dei buoni di un procedimento di gara, si veda V. CERULLI IRELLI , L’annullamento dell’aggiudicazione e la sorte del contratto, commento a Tar Campania, Napoli, sez. I, 29 maggio 2002, n. 3177, in Giorn. dir. amm., n. 11/2002, p. 1197, secondo il quale la normativa che prescrive i procedimenti di evidenza pubblica e ne disciplina l’articolazione ha carattere imperativo, poichè “cura e protegge interessi pubblici di primario rilievo, che assurgono a veri e propri principi del diritto pubblico dell’economia vivente, in attuazione di valori essenziali dell’ordinamento, interno e comunitario”. In conseguenza, la loro violazione comporterebbe non già 200 Precisando condivisibilimente che gli argini dell’infrazione anticoncorrenziale “(…) non possono che dipendere dal contenuto proprio della singola intesa, abbracciando i soli comportamenti da questa previsti quali mezzi da porre in essere per la realizzazione dello scopo comune (il programma delineato dall’intesa)”, il giudice non sembra infatti escludere l’eventualità che, ponendo attenzione alle caratteristiche della singola fattispecie concreta, i confini dell’intesa possano essere estesi ad abbracciare i momenti cronologicamente successivi alla concertazione, la cui stipulazione rappresenta - ad un livello diverso da quello che vede per l’annullabilità (fondata sul fatto che gli atti amministrativi che devono precedere la stipulazione dei contratti “iure privatorum” della P.A. non sono altro che mezzi di integrazione della capacità e della volontà dell’ente pubblico, sicchè i loro vizi, traducendosi in vizi attinenti a tale capacità e volontà non possono che comportare l’annullabilità del contratto deducibile, in via di azione o di eccezione, su iniziativa del solo contraente pubblico), ma la nullità, ex art. 1418 cod. civ., del contratto stipulato in base all’aggiudicazione illegittima. F. CARINGELLA, Annullamento della procedura di evidenza a monte e sorte del contratto a valle: patologia o inefficacia?, nota a Consiglio di Stato, sez. IV, 27 ottobre 2003, n. 6666, in Corr. giur., n. 5/2004, p. 672, criticando la pronuncia annotata (che torna alla inefficacia relativa), attesa la “caratterizzazione imperativa delle prescrizioni violate e la funzionalizzazione di queste alla tutela dell’interesse delle imprese”, ritiene “plausibile” sia la tesi che ricostruisce l’invalidità del contratto quale ipotesi di nullità virtuale ex art. 1418, comma 1, cod. civ. (conf. anche Consiglio di Stato: sez. V, 5 marzo 2003, n. 1218; sez. VI, 5 maggio 2003, n. 2332, in Riv. giur. edil., 2003, I, p. 1598 ss., con nota di B. DE ROSA , Brevi note in ordine alla caducazione automatica del contratto a seguito dell’annullamento giurisdizionale del provvedimento di aggiudicazione) che quella che - in ossequio ad un rapporto di consequenzialità necessaria tra procedura di evidenza pubblica e contratto - sostiene la caducazione automatica degli effetti della stipulazione conseguente all’annullamento dell’atto di aggiudicazione presupposto. La tesi dell’annullabilità, si afferma inoltre, evidenzia un limite piuttosto consistente della nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di contratti ed una facile esclusione dell’effettività della tutela da parte dell’amministrazione, mediante la stipula del contratto pur in presenza di violazioni della par condicio e di illegittimità degli atti di gara. Altra parte della dottrina parla invece, a riguardo, di inefficacia sopravvenuta del contratto (si ricordi in proposito che, distinguendosi dalla nullità sopravvenuta - che colpisce immediatamente l’atto estendendo i suoi effetti anche alle prestazioni già eseguite che sull’atto si fondano - l’inefficacia successiva reagisce unicamente sugli effetti, operando anch’essa retroattivamente ma con un duplice limite: delle situazioni giuridiche costituite a favore dei terzi e, nei negozi di durata, delle prestazioni già eseguite). Sul tema, si vedano in linea generale anche N. LIPARI , L’annullamento dell’aggiudicazione e la sorte del contratto tra nullità, annullabilità ed inefficacia: la giurisdizione amministrativa e la reintegrazione in forma specifica, in Dir. e formaz., 2003, p. 245 ss.; L. VALLA, Annullamento degli atti della procedura di evidenza pubblica e contratto: due decisioni a confronto, in Urban. e app., 2004, p. 192. Per la tesi della nullità, da ultimo, il Tar Basilicata, 4 marzo 2004, n. 126. In dottrina, si veda M. M ONTEDURO , Illegittimità del procedimento ad evidenza pubblica e nullità del contratto di appalto ex art. 1418 comma 1 c.c.; una radicale svolta della giurisprudenza fra luci ed ombre, nota a Tar Campania, Napoli, 29 maggio 2002, n. 3177, in Foro amm.: T.a.r., 2002, p. 2591 ss., e A. M ASSERA, I contratti, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, Milano, 2000, Parte generale, vol. II, p. 1365 ss., il quale riporta una compiuta panoramica delle posizioni dottrinali sul tema. 201 protagoniste la imprese colluse - proprio la manifestazione effettuale delle finalità anticoncorrenziali preordinate a monte. Perché possa indagarsi sulla fondatezza dell’ipotesi formulata o, più esattamente, dei confini in cui può discorrersi di contratto a valle quale elemento costitutivo della fattispecie “intesa”, è peraltro necessario - osserva il Tar - definire preliminarmente cosa realmente può considerarsi effetto dell’accordo collusivo. In altre parole, il problema che deve essere preliminarmente risolto riguarda ancora prima della definizione delle conseguenze che l’accoglimento di una soluzione alternativa quale quella descritta può comportare - l’individuazione dei limiti entro i quali è possibile (da un punto di vista oggettivo) affermare la continuazione della illecita determinazione congiunta, ovvero l’attitudine della concertazione a monte a ricomprendere vicende e comportamenti (pur strutturalmente autonomi) successivi ad essa quali parti integranti della medesima fattispecie illecita (vietata dall’art. 2). Infatti, come correttamente evidenzia il Tar del Lazio nel ricostruire l’ iter consumativo dell’infrazione concorrenziale (ovvero interrogandosi se sia prospettabile una permanenza dell’illecito successivamente alla aggiudicazione, ad includervi anche l’erogazione della fornitura in esito alla gara), “il concetto di esecuzione dell’intesa (…) non potrebbe essere dilatato indefinitamente e senza controllo, fino ad inglobare tutti i processi causali che dall’intesa stessa comunque in qualche guisa siano scaturiti”. Tale concetto, invero, non può essere esteso indiscriminatamente a qualunque fenomeno successivo all’intesa, la quale quindi “reclama una propria concretezza di contorni (di cui abbisogna anche per esigenze di tassatività dei confini dell’illecito)”. Peraltro, rispondendo alle preoccupazioni relative alla individuazione dei confini (incerti) di ciò che debba essere qualificato come “intesa” e come sua “esecuzione”, il Tar del Lazio giunge ad affermare in linea generale che “il nesso che pure collega la prestazione del servizio finale all’antecedente intesa anticompetitiva (nesso il quale consiste in ciò, che le imprese, con le loro prestazioni, godono i frutti della 202 loro collusione) è un nesso giuridicamente solo mediato, che non forma una base sufficiente per affermare una corrispondente permanenza dell’illecito”. La posizione assunta dal Collegio, della quale è parso opportuno richiamare soltanto i passaggi essenziali ai nostri fini, stimola qualche considerazione di carattere generale. In primo luogo infatti l’osservazione che potrebbe svolgersi - ove si immagini per un istante di aderire alla ricostruzione che inquadra il contratto a valle quale elemento costitutivo della fattispecie “intesa” - è che nel diritto antitrust (attento più al dato sostanziale ed effettuale che a quello formale), ove si tratti di un’intesa anticoncorrenziale anche “per gli effetti”, non è possibile scindere questi ultimi dall’illecito affermando che l’infrazione non è più in atto nonostante continui a produrre sul mercato gli effetti anticoncorrenziali che la caratterizzano. L’intesa dovrebbe al contrario considerarsi attuale per tutto il periodo in cui “il comportamento degli interessati faccia implicitamente emergere l’esistenza degli elementi di concertazione e di coordinamento propri dell’intesa e pervenga al medesimo risultato voluto dall’intesa” 35 . Ciò, nella specie, in quanto il regime di concorrenza istituito dal Trattato (e, conseguentemente dalla legge antitrust nazionale) “attribuisce importanza alle conseguenze economiche degli accordi o di qualsiasi forma analoga di concertazione o di coordinamento, anziché alla loro forma giuridica” 36 . Come affermato (anche) dalla giurisprudenza comunitaria, nel valutare la liceità di un parallelismo di scelte strategiche da parte di più imprese indipendenti, si deve infatti tener conto degli effetti della concertazione rispetto al comportamento di mercato di quegli stessi soggetti, così concludendosi che l’infrazione perduri sino a che questi ultimi continuano ad operare sul mercato conformandosi a quanto da essi illecitamente concordato 37 . La persistenza degli effetti anticompetitivi di un’intesa 35 Così Corte di Giustizia, 15 giugno 1976, causa 96/75, EMI/CBS, p. 15. Corte di Giustizia, 3 luglio 1985, causa 283/83, Binon, p. 17. 37 Tribunale di Primo Grado, causa T-2/89, Petrofina, p. 212; causa T-327/94, Sca Holding, pp. 95-98 e cause riunite T-45/98 e T-47/98, Krupp, p. 181. 36 203 deve essere quindi interpretata – secondo questo orientamento - quale prova della permanenza del coordinamento collusivo tra le imprese 38 . Nel diritto della concorrenza (tanto nazionale quanto comunitario), si aggiunge, non pare concepibile l’idea di effetti anticoncorrenziali che non siano riconducibili ad un’intesa in atto, non potendosi operare una separazione – se non da un punto di vista meramente logico – tra l’intesa anticoncorrenziale e gli effetti che essa produce sul mercato e che concorrono ad identificarla 39 . Da questo punto di vista, difatti, la funzione sostanziale dell’intesa non si esaurisce nella sola ed astratta determinazione di strategie imprenditoriali comuni (che costituisce un mero strumento giuridico per conseguire un utile illecito), bensì nella effettiva spartizione del mercato e nella concreta alterazione della realtà economica sottostante all’accordo che si determina proprio attraverso la conclusione e l’esecuzione dei contratti a valle. Assumendo che, nella prospettiva del diritto della concorrenza, ciò che rileva sono i comportamenti delle imprese a prescindere dalla loro veste giuridico- formale e considerati piuttosto nel loro significato economico, si considera dunque erroneo dividere il coordinamento collusivo attuato a monte dalla distorsione permanente (o comunque duratura) del mercato “sottostante” determinata con la consapevole stipulazione ed attuazione dei contratti a valle. 38 In questo senso anche il Consiglio di Stato nel caso c.d. Latti artificiali, sez. VI, sentenza n. 4362/2002, Abbott ed altri, secondo il quale “(…) in presenza della prova dell’accordo e dell’evidenza del non utilizzo anche da parte delle altre imprese del canale della grande distribuzione, spettava alle appellanti (…) dimostrare che l’accordo era cessato per manifesta volontà delle parti in tal senso” (pp. 34 e 46). Sul punto si ricordi che anche la teoria economica, nell’analizzare le condizioni per cui un cartello ha maggiori o minori possibilità di rendimento e stabilità, parte dal presupposto che gli effetti dell’intesa - ad esempio in termini di maggiore profitto per le imprese colluse - intanto possono essere conseguiti, in quanto l’intesa stessa continui e siano facilmente identificabili eventuali deviazioni (i c.d. “scartellamenti”) da parte delle imprese. 39 Nel caso Buoni-pasto, in particolare, anche il Tar sembra rendersi conto di questo profilo ammettendo che, dopo l’aggiudicazione dei contratti per i singoli lotti, l’intesa “non era formalmente estinta ma, più semplicemente, aveva già realizzato la funzione sostanziale per la quale era nata (…)” (p. 74). Il che vuol dire che, anche dopo l’aggiudicazione dei contratti relativi ai diversi lotti della gara, l’intesa tra le otto imprese era ancora perdurante. Ciò anche per l’evidente ragione che un cartello avente per scopo la spartizione del servizio tra imprese concorrenti al fine di conseguire extra-profitti per tutta la durata dei contratti messi a gara, non può dirsi cessato addirittura prima che detto obiettivo abbia iniziato a realizzarsi, ossia prima che i contratti per la fornitura dei buoni pasto abbiano cominciato ad avere esecuzione e le imprese abbiano iniziato ad incassare i relativi extra profitti. 204 In ragione delle peculiarità delle infrazioni antitrust, la consumazione dell’illecito da parte delle singole imprese è, sulla base di queste premesse, individuata proprio nella conclusione e lungo tutta la durata dei rapporti negoziali instaurati da ciascuna con la rispettiva clientela, per mezzo dei quali si garantisce la realizzazione di quell’extra-profitto che rappresenta proprio l’obiettivo (e l’incentivo economico a fronte del rischio di essere scoperti e sanzionati) della concertazione 40 . Queste considerazioni inducono quindi questa linea di pensiero a ritenere che, almeno in alcuni casi, la fissazione congiunta di condotte uniformi tra le imprese non costituisca in sé il fine, ma solo il mezzo attraverso il quale incidere sul mercato alterandone il corretto funzionamento allo scopo di potersi assicurare utili non perseguibili attraverso un leale confronto concorrenziale. E poiché è solo con la successiva esecuzione dei contratti a valle, che le imprese si assicurano il godimento effettivo delle ambite utilità economiche, si ritiene allora che la consumazione dell’illecito (e quindi ciò che deve essere inteso come “intesa”) non debba essere confinata al mero coordinamento in sede di accordo, ma estesa e valutata alla stregua di quegli atti negoziali che, pur strutturalmente autonomi e in sé perfetti e leciti, ne costituiscono la continuazione e la concretizzazione effettuale 41 . Pur evidenziando l’opportunità di definire il limite oltre il quale è da negarsi una propagazione effettuale dell’accordo collusivo, il giudice amministrativo pare quindi affermare che la possibilità di configurare la nullità dei contratti attuativi dell’intesa 40 Del resto, se così non fosse, si dovrebbe arrivare alla conclusione paradossale che un’intesa tra più imprese consistente nella spartizione del mercato realizzata attraverso contratti a lunga scadenza, avrebbe una durata limitata per ipotesi ad un singolo giorno in cui risulta che le imprese si siano incontrate per concordare le comuni modalità di azione. 41 La circostanza che la stessa gravità dell’illecito, cui consegue una diversa commisurazione della sanzione inflitta dall’Antitrust, debba essere misurata alla luce della persistente volontà delle imprese di conformare le proprie scelte a quanto stabilito concordemente a monte, pare confermare il ruolo che il profilo effettuale riveste nella valutazione dell’infrazione e della sua estensione. In altri termini, la circostanza che dopo l’accordo e conformemente ad esso le aderenti procedano alla effettiva conclusione ed esecuzione dei contratti a valle, rende evidente la ferma volontà di coordinarsi al fine di poter conseguire un extra-profitto. In caso contrario, infatti, le imprese - attraverso il c.d. ravvedimento operoso rilevante per la riduzione della sanzione - ben potrebbero uscire dal cartello denunciando la pratica illecita all’Antitrust. 205 in quanto partecipanti del piano effettuale che ne giustifica l’illiceità e dunque l’invalidità, non possa essere esclusa in maniera incondizionata e perentoria. Negare nel modo più assoluto e generalizzato, alla stregua di un dogma inconfutabile, che l’attività negoziale successiva alla definizione concordata dell’assetto di mercato (che si verrà a creare proprio a seguito della stipulazione dei contratti a valle) possa in alcuni casi concreti interagire con quanto la precede tanto da ricadere nella medesima fattispecie normativa potrebbe infatti rivelarsi, nella visione del Giudice, astrattamente scorretto (diverse essendo però le argomentazioni da addurre in ordine al piano della opportunità di una simile soluzione). Ciò in ragione della necessaria considerazione della realtà economico-sociale entro cui gli illeciti anticoncorrenziali concretamente si inseriscono e verso cui lo stesso allineamento consapevole di condotta è proteso. Escludere in via assoluta la possibilità di ravvisare un legame del genere tra intesa a monte e contratti a valle, ammettendo la possibilità di includere questi ultimi nella fattispecie illecita di cui all’art. 2 finirebbe - come rilevato pure dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella già menzionata sentenza n. 2207/05 - per introdurre uno strumento di elusione della normativa antitrust, ossia una sorta di “copertura contrattuale” in base alla quale, ogni qualvolta l’attuazione di un’intesa viene trasfusa in un contratto stipulato con un soggetto terzo, allora e per ciò solo l’attuazione dell’accordo non costituisce più la continuazione dell’illecito, perdendo, grazie al contratto, la sua antigiuridicità e divenendo un comportamento lecito. Su di un diverso piano, tuttavia, si ritiene di dover collocare – pur volendo aderire a tali premesse – il discorso relativo alle conseguenze che discendono dal fatto che il contratto, di per sé strutturalmente autonomo e compiuto, si ponga a valle della fissazione di standard comportamentali giudicata illecita ai sensi dell’art. 2 della legge antitrust. Alla stregua delle categorie generali del diritto – che, per quanto il diritto antitrust voglia rivendicarne una certa indipendenza, non possono essere trascurate – pare infatti che le ricadute sull’atto negoziale debbano essere riguardate in termini di 206 responsabilità, cui conseguirebbe semmai una fattispecie risarcitoria, non anche di nullità. Di questi profili si tenterà una descrizione a margine della soluzione ermeneutica “annunciata” dalla sentenza delle Sezioni Unite, alla cui analisi pertanto si rinvia. La possibilità di ravvisare in concreto un legame tra contratti a valle e torto concorrenziale del tipo poc’anzi enucleato (e dunque di ricondurli entrambi entro la fattispecie dell’art. 2), viene poi offerta anche da un altro (recente) pronunciamento del Tar del Lazio, ossia dalla sentenza n. 8638 del 3 settembre 2004, emessa a seguito della contestata liceità dell’approvazione e diffusione di tariffari relativi all’attività di amministrazione di condominio da parte di alcune associazioni di categoria e della raccomandazione del Consiglio nazionale dei geometri ai Collegi provinciali relativa all’adozione della nuova tariffa professionale. Nella pronuncia, infatti, il giudice di prime cure pone in primo piano - nel sindacato di legittimità del provvedimento antitrust e del comportamento da esso sanzionato - proprio il profilo effettuale e consequenziale dell’infrazione. Il Collegio - riprendendo nuovamente l’indirizzo inaugurato dalla sentenza n. 827/99 della Corte di Cassazione - ribadisce, quale elemento determinante per considerare il comportamento del Consiglio nazionale dei geometri (pur anteriore all’entrata in vigore della legge n. 287/90) quale intesa anticoncorrenziale, il fatto che esso sia “chiaramente orientato al futuro”. L’art. 2 della legge antitrust, ricorda il Tar, “ha la funzione di proibire il fatto della distorsione della concorrenza, quando rappresenti la conseguenza del perseguito obiettivo di coordinare, verso un comune interesse, le attività economiche di vari operatori”42 , realizzato anche attraverso comportamenti “non 42 Dalle considerazioni svolte emerge quindi che l’art. 2 si pone in linea di perfetta continuità rispetto all’art. 81 del Trattato CE. A riguardo, M. SCHININÀ, La nullità di intese anticoncorrenziali, op. cit., p. 412, osserva che l’art. 81 non mira a colpire l’atto in sé considerato, ma la situazione distorsiva della concorrenza che risulta dall’insieme dell’atto e di elementi ad esso esterni (tra cui un mercato avente determinate caratteristiche, un certo contesto geografico, l’influenza esercitata sul mercato dalle imprese coinvolte nell’intesa in relazione alla loro forza economica o alle caratteristiche dell’attività svolta). In questo senso anche Corte di Giustizia, sentenza 12 dicembre 1967, causa C23/67, Brasserie/De Haecht, in Racc., 1967, p. 480 ss.; B. LIBONATI, Intese orizzontali e aperture in tema di concorrenza e di mercato nella giurisprudenza della Cassazione, cit., p. 1225 s.; L. DELLI 207 contrattuali” o “non negoziali” e dunque anche attraverso il ricorso a schemi giuridici meramente unilaterali. La norma, prosegue il Collegio, nello stabilire la nullità delle intese, “non intende dar rilevanza esclusivamente all’eventuale negozio giuridico originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione, anche successiva, che realizzi un ostacolo all’operare della libera concorrenza”. L’accento viene quindi fatto consapevolmente cadere sul rilievo (primario) riconosciuto all’intera progressione comportamentale, al dipanarsi della concorde statuizione a monte in un arco temporale allargato ad abbracciare tutta la complessiva situazione che la succede la quale, comprensiva dell’attività negoziale conseguente al pactum vero e proprio, si staglia come una figura geometrica estesa ma conchiusa. Anche in questo caso, quindi, si riconosce che l’operazione economica in cui si attualizza ciò che il dato testuale dell’art. 2 concepisce in termini di “intesa”, può avvolgere momenti dalla natura eterogenea, con ciò non cessando di definirsi quale realtà unitaria e composita, tesa, proprio nel suo essere un unicum, a realizzare - e dunque a concretizzare - per via negoziale un freno od un impedimento alla libera competizione tra le imprese. La lucida consapevolezza manifestata dal Collegio amministrativo nel porre mente al piano effettuale dell’illecito, potrebbe quindi corroborare la tesi favorevole ad una lettura - sempre ancorata al caso concreto - dei contratti a valle quale momento costitutivo dell’intesa, che contribuirebbe in maniera sostanziale ed effettiva al fatto della conseguente alterazione del gioco competitivo. Preso atto di queste recenti tendenze giurisprudenziali (tanto in sede ordinaria quanto amministrativa) - caratterizzate da una certa apertura verso la possibilità di accogliere la ricostruzione che colloca i contratti a valle nella più ampia fattispecie “intesa” e dunque direttamente entro la norma dell’art. 2 - si muove quindi ad analizzare sotto altri aspetti (atteso che, in ordine al profilo del nesso PRISCOLI, La dichiarazione di nullità dell’intesa anticoncorrenziale da parte del giudice ordinario, 208 intesa/contratto, si è già provveduto a menzionare nel paragrafo precedente i punti in cui il giudice di legittimità paventa “tra le righe” la possibilità di una ricaduta della nullità dell’accordo in termini di invalidità degli atti negoziali successivi) quella che a tutti gli effetti può essere considerata come una pietra miliare nell’orizzonte giurisprudenziale in materia di diritto della concorrenza: la sentenza 4 febbraio 2005, n. 2207, delle SS. UU. della Corte di Cassazione. 3. La sentenza 4 febbraio 2005, n. 2207 delle SS. UU. della Corte di Cassazione L’importanza di questa pronunc ia - giunta in esito al vasto dibattito articolatosi intorno alla interpretazione ed ai confini applicativi dell’art. 33 della legge n. 287/90 e di cui si sono, per opportunità d’indagine, richiamati alcuni aspetti nel paragrafo che precede - si estende in realtà ben al di là della questione che ci occupa (ovvero dei termini in cui la nullità di un’intesa concorrenziale può “rinfrangersi” su contratti a valle), involgendo profili di natura tanto processuale (in materia di competenza e giurisdizione) quanto sostanziale (affrontati partendo da un inquadramento generale della legge antimonopolistica comunitaria e nazionale per poi specificare quali interessi siano da considerare rilevanti e meritevoli di tutela in un’ottica di piena competitività del mercato), dei quali si ritiene opportuno dare brevemente conto, delineando i passaggi fondamentali del percorso argomentativo della Corte. Con la sentenza n. 2207/05 le Sezioni Unite hanno infatti (innanzitutto) fissato un punto fermo in merito al giudice competente a pronunciare della nullità dell’infrazione antitrust e della relativa risarcibilità del danno subito dai consumatori per il maggior esborso versato per le polizze in esito ad un’intesa involgente alcune delle più grandi imprese assicuratrici italiane. cit., p. 230. 209 Con la pronuncia - intervenuta a seguito della ordinanza di rimessione della Terza sezione civile della Corte di Cassazione n. 15538/03 43 - il giudice di legittimità statuisce in primo luogo, a sopire gli animi, la competenza in unico grado della Corte d’Appello (non del giudice di pace) territorialmente competente, anche ove a lamentare il danno non siano gli imprenditori - concorrenti o comunque terzi rispetto alle imprese colluse - ma i consumatori, i quali, alla stregua di “figli di un Dio minore” 44 , si sono visti sino ad ora preclusa la via dell’azione risarcitoria ex art. 33, comma 2, della legge antitrust 45 . L’allargamento della sfera dei soggetti abilitati ad invocare i rimedi civilistici approntati dalla legge antitrust costituisce per vero il risultato di una corretta enucleazione del fondamento della normativa antimonopolistica nel suo complesso (ossia tanto comunitaria quanto, e di riflesso, nazionale), enucleazione per mezzo della quale il Collegio si spinge - pur muovendosi nel “cerchio” del sindacato di pura legittimità che gli compete - a considerare la posizione dei consumatori a valle che, terzi rispetto alla concertazione, risentono comunque in maniera diretta della distorsione provocata nel funzionamento dei meccanismi di mercato e sui presupposti del suo virtuoso operare. Le due questioni, quella relativa alla legittimazione ad agire e quella relativa alla posizione giuridica dei soggetti partecipi dei contratti conclusi a valle dell’accordo illecito, costituiscono infatti, a ben vedere, aspetti del medesimo problema e come tali devono essere esaminati. 43 In Foro it., I, 2003, p. 2938 ss., secondo cui, rimettendo in discussione alcuni degli snodi decisivi della sentenza n. 17475/2002: 1) ai sensi dell’art. 33, comma 2, la competenza della Corte d’appello in unico grado è stabilita ratione materiae e non con riguardo ai soggetti; b) l’omessa motivazione nella disposizione dei soggetti legittimati ad agire non appare idonea di per sé solo ad escludere i consumatori dalla cerchia di coloro i quali possono aver subito in concreto un pregiudizio dall’illecito antitrust. 44 R. PARDOLESI , Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 473. 45 Con la sentenza n. 17475/02, citata, la Corte di Cassazione aveva infatti escluso, ritenendo che la legge antitrust assumesse quale prospettiva privilegiata ed esclusiva quella dell’imprenditore, la possibilità per i consumatori di invocare la tutela dell’art. 33, comma 2, atteso che la norma predisporrebbe, nella visione della Sezione (disattesa dalle Sezioni Unite), uno “strumento il quale non può non lasciare presupporre esso stesso una tipologia di danni strettamente connessa alle tematiche dell’impresa e della sua presenza sul mercato”. 210 Ciò in quanto la posizione giuridica del terzo estraneo all’intesa - sia esso consumatore o imprenditore - che afferma di aver subito un danno specifico dal turbamento dell’equilibrio concorrenziale del settore, ne determina la legittimazione ad agire. Ricostruendo l’iter genetico della legge antitrust - che vanta una stretta parentela con le prime sistemazioni d’oltreoceano della materia - e ravvisando nella disciplina della concorrenza sleale un prossimo ma pur diverso e meno ampio “antenato” della disciplina antimonopolistica nazionale 46 , le Sezioni Unite tornano innanzitutto a ribadire il ruolo centrale rivestito a riguardo dalla legislazione europea. Quest’ultima, infatti, ha col Trattato CE conferito al mercato, alla logica competitiva ed alla tutela strutturale dei due fattori il “vessillo” di luoghi deputati alla stregua del principio dell’art. 2 della Costituzione - a garantire, attraverso il libero esercizio dell’attività d’impresa, la pretesa di autoaffermazione economica della persona, ove essa si dipani secondo modelli comportamentali leciti. All’inverso, quindi, “ogni comportamento di mercato che riduce tale competitività perché diminuisce la possibilità per chiunque di esercitare liberamente la propria pretesa di autoaffermazione, è illecito”. 46 La disciplina della concorrenza sleale, infatti, ribadisce la Corte, è imperniata essenzialmente sulla tutela dell’imprenditore dalla scorretta attività del concorrente. Benché la protezione codicistica si sia nel tempo evoluta, a perdere l’impronta deontologica ed endocorporativa che la denotava alle origini secondo un processo di “oggettivazione” evidenziato da diversi autori (cfr. C. SANTAGATA, Concorrenza sleale e interessi protetti, op. cit.; G.M. BERRUTI, La concorrenza sleale nel mercato. Giurisdizione ordinaria e normativa antitrust, op. cit., pp. 115 ss.; e, da ultimo, R. PARDOLESI , Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, op. cit., p. 473; P. M ARCHETTI - L.C. UBERT AZZI , op. cit., p. 1740), essa continua comunque a conservare il carattere fondamentale di strumento di tutela del corretto rapporto di concorrenza tra le parti che controvertono dinanzi al giudice. Quest’ultimo rapporto in particolare - sebbene si sia nel frattempo preso atto della nozione costituzionale del mercato come luogo della libertà d’impresa, “che attribuisce un rilievo pubblico anche al conflitto interindividuale” - rappresenta tuttora il presupposto della sua operatività “e mantiene pertanto la dimensione essenzialmente interindividuale dei conflitti. La normativa che difende l’imprenditore dalla concorrenza sleale, dunque, ancorché la si possa ritenere consapevole della dimensione necessariamente concorrenziale del mercato, provvede pur sempre alla riparazione dello squilibrio che ad uno specifico rapporto di concorrenza viene cagionato dalla scorrettezza di un concorrente”. La diversità ed i limiti della disciplina della concorrenza sleale rispetto alla legge antitrust sono evidenziati pure da A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 263, il quale sottolinea l’insufficienza della tutela accordata dal sistema della concorrenza sleale nell’assicurare una efficace protezione a tutti i soggetti potenzialmente interessati alla violazione e da essa danneggiati. 211 In altri termini, il fatto che le imprese, al pari di qualunque soggetto che interagisce sulla scena del mercato, siano titolari della libertà di agire secondo il principio di razionalità economica il cui esercizio si estrinseca nella realizzazione di un’intesa, fa sì che se quest’ultima non produce effetti anticoncorrenziali l’esercizio della libertà da parte dell’impresa rimane nell’ambito del lecito giuridico; se invece l’intesa produce effetti tali da compromettere in maniera significativa il grado di competizione del settore riguardato, così limitando l’esercizio dell’altrui libertà d’agire (e di scegliere, da parte di coloro che sono estranei all’intesa), essa viene colpita dal divieto dell’art. 2 il quale, peraltro, va ad incidere non sulla situazione di libertà, ma sull’attività giuridica che sulla base di essa si è estrinsecata. La Corte, superando le passate opzioni (miopamente ed angustamente inquadrative degli eventi perturbativi del mercato e della concorrenza come agenti esclusivamente al livello operativo dell’imprenditore, come se essi non penetrassero in alcun modo nella successiva attività negoziale) indica quindi quale oggetto di tutela e ristoro immediato della legge n. 287/90 non solo - o non tanto - il pregiudizio subito dal concorrente per effetto di una strategia anticompetitiva, quanto piuttosto la protezione di un “più generale bene giuridico” che, muovendo dalla realtà imprenditoriale, si allarga ad abbracciare tutti coloro i quali occupano nel vasto palcoscenico degli scambi un ruolo attivo e centrale. Un’accorta protezione del bene-concorrenza, inteso nella sua accezione dinamica ed effettiva, si inquadra infatti tra gli interessi primari di quanti trovano nel mercato la soddisfazione dei propri bisogni, non solo di produzione e distribuzione, ma altresì di consumo 47 . Andando al di là del problema di natura esclusivamente processuale, la questione viene quindi affrontata in una prospettiva attenta a cogliere insieme al profilo 47 Sul concetto di concorrenza dinamica, intesa come vero e proprio bene giuridico, si rinvia nuovamente a M. LIBERTINI , Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, op. cit., p. 433 ss. a favore di quest’ultimo indirizzo ermeneutica - che allarga l’azione ex art. 33, comma 2, anche ai consumatori - divergendo dal precedente di legittimità n. 17475/2002, si vedano: Tribunale di Locri, 5 ottobre 2004, inedita, nonché Tribunale di Torre Annunziata, 26 luglio 2004, inedita, ove si legge che la disposizione non lascia “alcuno spazio alla possibilità di distinguere tra un’ordinaria azione di responsabilità, esperibile dal consumatore finale secondo le regole generali, e un’azione speciale di responsabilità, esperibile dalle imprese escluse dalla pratica anticoncorrenziale”. 212 (motivo della rimessione determinata con la ormai nota ordinanza) relativo ai rimedi esperibili avverso la violazione delle norme antitrust, anche la problematica di fondo attinente alla selezione degli interessi rilevanti in un’ottica pro-concorrenziale. Dopo aver evidenziato “La diversità di ambito e di funzione tra la tutela codicistica della concorrenza sleale e quella (…) della legge antitrust”, la Corte afferma infatti che, “Contrariamente a quanto ritenuto da Cass. 17475 del 2002, la legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere” 48 . Diversamente dalla disciplina del codice civile - per sua natura deputata a dare ordine e regola ai rapporti privatistici tra soggetti legati da uno specifico rapporto di concorrenza - la normativa antitrust è diretta infatti a determinare a livello pubblicistico (con ciò riferendosi al macrocosmo “mercato”), le modalità e le condizioni attraverso cui le relazioni tra i soggetti economici possono legittimamente svolgersi, senza che si diano interferenze da parte dell’azione pubblica sulle scelte dei soggetti stessi e sugli esiti cui queste scelte danno luogo 49 . In altri termini, lo scopo della legge n. 287/90 deve essere, secondo l’impostazione accolta dalla Corte, individuato principalmente nella garanzia di un principio organizzativo delle relazioni di mercato, teso ad assicurare nella misura più ampia possibile la libertà economica e di scelta di tutti gli attori che in esso 48 Come osserva correttamente anche A. ZITO, Attività amministrativa e rilevanza dell’interesse del consumatore nella disciplina antitrust, Torino, 1998, p. 25, “il non riuscire a predicare la rilevanza dell’interesse di questo soggetto (i.e., il consumatore) nell’ambito della disciplina antitrust, di una disciplina cioè che assume ad oggetto un dato di realtà (il mercato) del quale il consumatore è attore necessario, finisce per apparire quanto meno strano se non addirittura paradossale”. 49 Con tale affermazione le Sezioni Unite sciolgono quindi l’equivoco in cui sembra incorsa la Sezione semplice della sentenza n. 17475/2002 là dove, erroneamente equiparando la ratio degli artt. 2595 ss. cod. civ. e quella antitrust, ritiene che l’asserita esclusione della legittimazione attiva dei consumatori ai sensi dell’art. 33 viene a “porsi in linea di più generale continuità con le caratteristiche strutturali della disciplina codicistica della concorrenza (sleale) così come riletta, nel tempo alla luce della Costituzione; disciplina la quale non contempla la legittimazione attiva dei singoli consumatori finali”. Dello stesso avviso è anche M. LIBERTINI , Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), in Danno e resp., n. 3/2005, p. 237 ss., specie p. 242, secondo cui le leggi antitrust, diversamente dalla disciplina corporativa in materia di concorrenza sleale, sono nate storicamente proprio per tutelare interessi esterni a quelli delle imprese destinatarie dei divieti. 213 agiscono, non risolvendosi semplicemente (e limitatamente) nella tutela dei concorrenti, ma estendendosi a tutti i soggetti del mercato, dunque anche ai consumatori50 : “la centralità della libertà di concorrenza attribuisce una nuova valenza all’autonomia negoziale, atteso che la tradizionale accezione della stessa come capacità di determinare autonomamente il testo del contratto è venuta meno. La disciplina della concorrenza, pur nella diversità con la disciplina del mercato, è, quindi, strumento per garantire la libertà di scelta che ormai rappresenta il vero contenuto dell’autonomia negoziale” 51 . Come enunciato da autorevole dottrina nel distinguere la fattispecie oggetto della disciplina codicistica da quella avuta invece di mira dalla legislazione di settore, “(…) l’effetto distorsivo, ancorché certo, per determinare l’intervento dell’Autorità Garante deve influire patologicamente su di un certo mercato, cosiddetto rilevante. Non basta che danneggi il concorrente in quanto tale. Occorre che danneggi il mercato”52 , assumendo quella consistenza che costituisce il presupposto della reazione punitiva dell’ordinamento. Come evidenziato nel Capitolo II, all’atto od al comportamento che determina la lesione del principio concorrenziale deve essere infatti certamente riconosciuta una capacità plurioffensiva, in quanto esso finisce per danneggiare gli interessi di una molteplicità di soggetti. Ciò non toglie, tuttavia, che questa plurioffensività possa essere sempre scomposta in una pluralità di interessi individuali, i quali reclamano tutela a fronte di quelle condotte che, alterando la possibilità di un’opzione in merito alla direzione cui orient are le proprie scelte economiche (tanto produttive quanto di consumo), frustrano la libertà d’agire (anche) del consumatore secondo un criterio razionale, libertà che risulta protetta e garantita proprio nella misura in cui il mercato si atteggi in forma concorrenziale 53 . 50 Nello stesso senso anche A. ZITO, Attività amministrativa e rilevanza dell’interesse del consumatore nella disciplina antitrust, op. cit., p. 8 s. 51 L. DI VIA, L’invalidità nei contratti tra imprenditori, op. cit., p. 743. 52 Così G.M. BERRUTI, op. ult. cit., p. 29. 53 La circostanza che le imprese del settore definiscano in maniera concordata la propria strategia commerciale, fa sì, infatti, che il prodotto offerto sul mercato (in ipotesi, il contratto a valle) sia assolutamente omogeneo nelle caratteristiche e nei contenuti, tanto da comprimere sino al punto estremo di annullare qualunque possibilità di scelta tra opzioni alternative da parte dei soggetti cui 214 Con ciò si comprende per quale ragione deve cogliersi nelle maglie della normativa antitrust il riconoscimento della rilevanza giuridica attribuita anche all’interesse dei consumatori i quali, anello conclusivo della filiera che si apre con la produzione del bene ed arbitri di quel gioco che dovrebbe assicurare, attraverso la scelta, la selezione dell’imprenditore più meritevole, ben possono essere incisi direttamente dalla illecita determinazione delle imprese colluse. Infatti, “La funzione illecita di una intesa si realizza (…) con la sostituzione del suo diritto di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una scelta apparente. E ciò (come già rilevato nel paragrafo precedente) quale che sia lo strumento che conclude tale percorso illecito”54 . l’offerta è destinata. Sul punto si rinvia alle considerazione esposte nel Capitolo I. Dello stesso avviso anche M. LIBERTINI, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), op. cit., p. 237 ss., specie p. 241, secondo il quale “l’interesse dei consumatori finali è dunque direttamente tutelato dalle norme antitrust, sia come interesse a compiere scelte libere e consapevoli, sia come interesse ad ottenere il massimo risultato di soddisfazione al minimo prezzo possibile (sotto ambedue i profili, si tratta di interessi matrimonialmente valutabili)”. 54 Del resto, l’importanza ed il ruolo attribuito alla libertà di scelta dei consumatori quale fattore che si intreccia e combina con la tutela del principio concorrenziale, discende direttamente dai Trattati comunitari. Il moderno orientamento comunitario, cui il nostro sistema deve conformarsi in virtù dell’espresso vincolo sancito dall’art. 1, comma 4, della legge n. 287/90, pone infatti un accento particolare sulla consapevolezza della scelta dei consumatori, specie attraverso lo strumento della informazione. A riguardo è opportuno richiamare la Comunicazione della Commissione – Una politica della concorrenza proattiva per un’Europa competitiva [COM (2004) 293 - 20 aprile 2004], in cui si afferma che “un elemento su cui sarà fondato il nuovo regime di concorrenza dell’Unione europea è la migliore integrazione degli interessi dei consumatori nel dispositivo di regolamentazione della concorrenza (…). La nuova regolamentazione agevolerà inoltre l’applicazione diretta del diritto comunitario della concorrenza da parte dei tribunali nazionali aditi dai consumatori e dalle imprese danneggiate da pratiche restrittive. Le imprese e i consumatori finali dovrebbero sentirsi incoraggiati a far valere i loro diritti dinanzi ai tribunali nazionali (…). Occorre dunque procedere ad un’analisi approfondita degli ostacoli materiali e giuridici o amministrativi alla concorrenza che danneggiano maggiormente i consumatori ed il libero gioco della concorrenza nel mercato interno (…). Le intese causano un pregiudizio diretto e grave sia ai consumatori che alle industrie che utilizzano il prodotto oggetto dell’intesa come fattore di produzione (…)”. Come osservano G. GHIDINI - C. CERASANI, Consumatore (tutela del) (diritti civili), in Encicl. del dir., aggiorn., V, Milano, 2001, p. 266, “l’insieme delle normative specifiche suggerisce che l’interesse tipico del consumatore (…) è quello di non subire alcun pregiudizio fisico e/o patrimonia le, e/o alla libertà di scelta economica, in ragione del suo operare come acquirente potenziale o attuale di beni o servizi. E dunque (…) può dirsi che l’ordinamento considera meritevole di tutela l’interesse del consumatore a ricevere, nel mercato e dal mercato, libertà ed efficienza, e cioè, da un lato, ad autodeterminarsi liberamente (e quindi, pure, senza inganni) e, dall’altro, a conseguire prestazioni rispettose della sua integrità fisica e patrimoniale”. Per un raffronto tra gli attuali principi ispiratori del quadro normativo comunitario e la considerazioni precorritrici di Tullio Ascarelli, si veda M. BARELA, Teoria della concorrenza e libertà del consumatore: l’insegnamento di Tullio Ascarelli, op. cit., p. 909 ss. 215 Senza ripercorrere i passaggi che toccano più da vicino le questioni attinenti ai contratti a valle (di cui si è discorso nelle pagine che precedono), pare quindi di potersi arguire che con tale affermazione la Corte abbia voluto indicare inequivocabilmente come al consumatore spetti una generale libertà di agire secondo un criterio di razionalità economica che, fondato sulla garanzia della sussistenza delle condizioni necessarie per una scelta di consumo maturata in un contesto indenne da fatti perturbativi, è, a ben guardare, esattamente il medesimo che muove e guida l’azione degli imprenditori (della cui garanzia e tutela sino ad oggi nessuno ha mai seriamente dubitato). La Corte di conseguenza - aderendo a quella visione che intende il mercato quale “luogo del contraddittorio ad armi pari” 55 - non solo si discosta dalla posizione assunta dalle Sezioni semplici - le quali, non ravvisando una qualsivoglia soglia di interesse giuridicamente rilevante, escludevano in via assoluta la legittimazione attiva all’azione risarcitoria ex art. 33, comma 2, “in testa a soggetti che non siano essi stessi partecipi di quello stesso livello operativo, e rivestano invece la mera veste di consumatori finali, non potendo in alcun modo reagire su di essi l’esistenza in sé delle intese” – ma, passando dal piano sostanziale a quello più propriamente processuale, giunge a riconoscere in capo a tutti soggetti portatori di un interesse processualmente rilevante la legittimazione a ricorrere ai rimedi giudiziali previsti dalla legge n. 287 56 . Sulla base delle esposte premesse, il Collegio ritiene infatti di dover escludere “che si possa negare la legittimazione alla azione davanti al G.O. ai sensi dell’art. 33 n. 2 della legge n. 287 del 1990, al consumatore, terzo estraneo alla intesa”. La situazione giuridica soggettiva che si assume violata e che rileva ai fini della proposizione di un’azione risarcitoria non è quindi soltanto quella dell’imprenditore, ma, a prescindere dalla qualificazione giuridico- formale attribuibile all’agente - o, 55 Così F. M ERUSI , Democrazia e autorità indipendenti, Bologna, 2000, p. 36, secondo il quale la parità delle armi, intesa come “pari possibilità di contendere, data a soggetti economici in uno spazio operativo chiamato mercato”, è divenuta l’immagine prima del principio di eguaglianza. 56 Il ruolo del consumatore non è più quindi “chiamato (…) ad esaurirsi nella sollecitazione dell’esercizio dei loro poteri da parte degli organi individuati dalla stessa legge n. 287/90”, così come 216 per ricorrere alla terminologia impiegata dalla Cassazione del 2002, indipendentemente dal livello operativo in cui il soggetto leso si colloca 57 - quella di chiunque lamenti di aver subito uno specifico pregiudizio per effetto dell’alterato funzionamento del gioco concorrenziale. Di conseguenza, aderire alla tesi restrittiva - che limita agli imprenditori concorrenti la sfera degli interessi tutelati dalla legislazione antimonopolistica “potrebbe essere sostenuta solo sulla base di una concezione statica e corporativa della concorrenza, in cui la ‘clientela’ sarebbe vista come massa passiva, destinata solo ad essere ripartita fra competitori”58 . Già la dottrina, infatti, osservava l’opportunità di affidare “l’arsenale sanzionatorio” al soggetto che costituisce l’ultimo anello della catena della traslazione del danno - ovvero (al) “l’unico, tra i vari attori che si muovono sul mercato, incapace di difendersi trasferendo su altri il danno patito”59 - atteso che l’attribuzione “dell’arma” di cui all’art. 33 ai soli imprenditori concorrenti rischierebbe sostanzialmente per vanificare l’efficacia deterrente dell’azione risarcitoria. Riservare per intero la legittimazione ad agire a quegli imprenditori che, ancorché terzi rispetto all’intesa, assai spesso intrattengono relazioni commerciali con i singoli autori dell’illecito (potenziali destinatari della sanzione civile) appare infatti sotto un profilo pratico alquanto ingenuo, rischiando di tradursi in concreto in un “buco nell’acqua”60 . asserito dalla Cassazione n. 17475/2002, ma diventa un ruolo attivo e propulsivo, potendo egli attivare la domanda risarcitoria di cui all’art. 33. 57 Subordinando la facoltà di valersi della tutela risarcitoria approntata dalla legge antitrust alla qualifica imprenditoriale del soggetto leso - a rimarcare dunque, sulla scorta della impostazione della concorrenza sleale, il carattere pubblicistico della disciplina antimonopolistica - la precedente giurisprudenza di legittimità escludeva infatti i consumatori dal novero dei legittimati all’azione. 58 M. LIBERTINI, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), op. cit., p. 242, secondo il quale, tra l’altro, è da escludere qualunque alternatività tra l’azione di cui all’art. 33 della legge n. 287/90 ed il ricorso alla legge n. 281/98, attesa la specialità della prima disciplina rispetto alle norme generali a tutela dei consumatori. L’Autore ritiene invece limitata ai soli imprenditori la tutela risarcitoria da abuso di dipendenza economica di cui all’art. 9 della legge n. 192/98. In questo caso, tra l’altro, la competenza seguirà le regole ordinarie (doppio grado di giudizio). 59 Così L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, op. cit., p. 1455 s. 60 Cfr. A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, op. cit., pp. 320-321. Tra l’altro, come osserva da ultimo U. VIOLANTE, Illecito 217 L’attribuzione anche al singolo consumatore - che può dirsi direttamente inciso dalle strategie collusive definite a monte dalle imprese e realizzate attraverso la scelta di uno strumento finale quale può essere il contratto che assorbe ed attua il contenuto ed il fine cui l’accordo tende finalisticamente - della legittimazione a fare ricorso al rimedio risarcitorio come previsto dalla legge antitrust, si staglia quindi, con quest’ultima pronuncia della Suprema Corte, a tutti gli effetti quale esito e sbocco naturale della costante evoluzione e della pressante (per quanto non sempre convinta) tensione al riconoscimento anche a questo soggetto del ruolo che giustamente (e naturalmente) gli spetta all’interno di quella dimensione (il mercato) che lo vede innegabilmente come arbitro e protagonista 61 . Come efficacemente osservato da un autorevole Voce dei nostri tempi, “concorrenza delle imprese e preferenza dei consumatori sono lati dello stesso fenomeno”62 . antitrust e azione risarcitoria, op. cit., p. 15, nel momento in cui si esclude l’accessibilità degli strumenti di tutela di cui all’art. 33, comma 2, ai consumatori finali con riguardo ad un cartello tra imprese, si dà ingresso ad un’inaccettabile disparità di trattamento rispetto all’abuso di posizione dominante. Sul punto cfr. anche S. BASTIANON , Antitrust e tutela civilistica: anno zero, op. cit., p. 393 ss. 61 Un passaggio importante in questo processo evolutivo è da attribuire alla enunciazione della Corte di Giustizia la quale, nella nota sentenza Courage più volte richiamata, ha ribadito che “la piena efficacia dell’art. 81 del Trattato (da cui discende il nostro art. 2) e, in particolare, l’effetto utile del divieto sancito dal n. 1 di detto articolo sarebbero messi in discussione se chiunque non potesse chiedere il risarcimento del danno causatogli da un contratto o da un comportamento che possano restringere o falsare il gioco della concorrenza (…). In quest’ottica, le azioni di risarcimento danni innanzi ai giudici nazionali possono contribuire sostanzialmente al mantenimento di un’effettiva concorrenza nella Comunità”. L’evoluzione rispetto alla prassi precedente è, infatti, in questo caso particolarmente evidente: il principio della competenza esclusiva dei giudici nazionali a concedere nei singoli casi concreti il risarcimento dei danni non viene messo in discussione; ciò che viene precisato è invece che la risarcibilità del danno antitrust, ovvero il riconoscimento in capo ai singoli del diritto di invocare una tutela a contenuto risarcitorio in caso di violazione degli artt. 81 e 82 ha il suo presupposto nelle stesse norme del Trattato, la cui piena efficacia risulta assicurata anche per il tramite delle azioni di risarcimento esperite dinanzi ai giudici nazionali. 62 N. IRTI, Persona e mercato, cit., p. 94. Il legame tra i due profili si coglie peraltro anche nella legge “Dei diritti dei consumatori e degli utenti” (l. 31 luglio 1998, n. 281), la quale, nel riconoscere alcuni diritti fondamentali - quale quello all’informazione, alla corretta pubblicità, alla correttezza e trasparenza nei rapporti contrattuali - mette in luce come una lesione di tali diritti, incidendo sulla libertà di scelta dei consumatori, avrebbe mediatamente ripercussioni negative sulla strutturazione del mercato, che invece il legislatore mira a tutelare in via primaria. L’attribuzione ai consumatori di un diritto all’informazione e alla trasparenza nei rapporti economici appare, infatti inserirsi a pieno titolo nel processo di elaborazione del diritto del mercato come diritto improntato al principio della libertà di scelta e dunque dell’autoresponsabilità. A riguardo, si veda N. IRTI, Teoria generale del diritto e problema del mercato, in Riv. dir. civ., 1999, I, p. 1 ss. 218 Alterare il percorso formativo della scelta operata dal consumatore attraverso la determinazione congiunta di condizioni negoziali “artificiali” implica infatti non solo un turbamento del percorso interiore che conduce ad un’autodeterminazione consapevole (con ciò che ne consegue in termini di accrescimento della situazione di asimmetria informativa in cui il consumatore versa di per sé), ma anche (e tenendo sempre da conto il carattere standardizzato ed uniforme dei modelli negoziali in cui la concertazione a monte si cala) ad una distorsione nel funzionamento del mercato di riferimento idonea a cagionarne il fallimento 63 . La libertà di scelta dei consumatori presuppone infatti (come evidenziato in altri termini nel Capitolo I) la pluralità dell’offerta, ossia la presenza di una molteplicità di prodotti (beni, servizi, contratti) diversificati sia per le caratteristiche intrinseche dei beni che per il trattamento giuridico riservato all’acquirente, ciò che costituisce un necessario presupposto perché quest’ultimo possa operare una comparazione tra offerte differenziate, maturare la propria preferenza e dunq ue esercitare il potere di scelta: “Laddove, infatti, nel mercato di un determinato bene o servizio, si sia in presenza di formulari, che, sebbene predisposti da diverse imprese concorrenti, contengano clausole dal contenuto uniforme e pregiudizievole degli interessi dei consumatori, rimarrebbe preclusa a questi ultimi la possibilità di effettuare una valutazione comparativa delle proposte provenienti dalle imprese operanti nel settore, risultando con ciò compromessa la stessa finalità della concorrenza” 64 . 63 Di questo avviso anche R. CALVO , Diritto antitrust e contratti esecutivi dell’intesa vietata (contributo allo studio dei Folgevertrage), in I Contratti, n. 2/2005, p. 188, secondo il quale “l’ostacolo artificialmente frapposto dal cartello alla razionalità delle scelte economiche individuali diventa un fattore impeditivo dello sviluppo della personalità umana in campo patrimoniale”, aggiungendo poi, che il contratto, in quanto atto di autodeterminazione, “non può tollerare che esso assuma la fisionomia dell’atto di vessazione o di annichilimento della personalità umana. E’ dunque compito del sistema combattere tale degenerazione, sia quando derivi dall’isolato abuso del singolo, sia allorché partecipi della natura di uso abusivo del potere monopolistico. In questa direzione affermeremo che la legislazione antitrust diventa complementare alla salvaguardia della libertà contrattuale”. 64 Così M. BARELA, op. cit., p. 956. 219 Il consumatore, pertanto, ha un precipuo ed autonomo interesse alla conservazione di un regime realmente competitivo, poiché “la garanzia del bene della vita di cui è portatore è affidata al corretto funzionamento del mercato”65 . Peraltro, questi ultimi passaggi - gravidi di implicazioni, anche in merito alla natura dell’interesse che il consumatore potrebbe vantare al fine di una eventuale impugnazione del provvedimento antitrust, che per opportunità e coerenza di indagine pare in questa sede doversi trascurare - muovono a svolgere alcune considerazioni che, lungi dal potersi esaurire nella presente occasione, sollecitano un ritorno (futuro) ai fenomeni in discussione che tenga conto di queste ultime tendenze evolutive della giurisprudenza, senza dubbio destinate ad aprire scenari di grande interesse. Di queste riflessioni si tenterà quindi di dare qui di seguito una sia pure essenziale esposizione. L’attribuzione anche ai consumatori (oltre che ai concorrenti) danneggiati del diritto di agire ex art. 33, se da un lato sembra soddisfare valutazioni finalizzate ad un corretto e pieno dispiegamento da parte dell’azione risarcitoria di una funzione di indiretta deterrenza nei confronti delle imprese, sembra infatti fortemente indebolita ove la si subordini all’onere da parte del soggetto inciso di dar prova dello specifico pregiudizio subito in conseguenza della compressione del grado di competitività del mercato conseguente all’infrazione antitrust. Se infatti una soluzione di questo tipo può risultare soddisfacente ove il consumatore vanti una relazione diretta con la singola impresa partecipante al momento collusivo, alla stregua della quale l’assolvimento del detto onere probatorio potrebbe costituire un’impresa non impossibile, lo stesso non pare potersi dire con riguardo a quei casi in cui il consumatore finale rappresenta l’ultimo anello di una lunga catena al cui apice o nel mezzo della quale si colloca l’infrazione antitrust. La struttura economica moderna, infatti, (come osservato nel Capitolo I) si presenta estremamente articolata, involgendo un elevato numero di imprese che, a 65 E. SCODITTI, Il consumatore e l’antitrust, op. cit., p. 1127 ss.; U. VIOLANTE, Illecito antitrust e 220 diversi livelli, si ripartiscono tanto la fase produttiva quanto quella distributiva. La possibilità che il torto concorrenziale si attesti su uno qualunque dei piani lungo cui si dipana l’attività d’impresa fa sì, quindi, che il consumatore possa risentire da ultimo - secondo il noto meccanismo del passing-on - dell’esito di quanto concordemente statuito a ben altro livello, così trovandosi concretamente nella difficoltà estrema di dimostrare che il danno subito a causa del prezzo sovraconcorrenziale è effettivamente riconducibile all’intesa. Come hanno infatti cura di ricordare le Sezioni Unite nella pronuncia, “(…) innanzi alla Corte d’Appello deve essere allegata un’intesa di cui si chiede la dichiarazione di nullità, ed altresì il suo effetto pregiudizievole, il quale rappresenta l’interesse ad agire dell’attore secondo i principi del processo, da togliere attraverso il risarcimento”. Se dunque il consumatore può dirsi legittimato - come espressamente riconoscono le Sezioni Unite nella sentenza da ultimo menzionata - ad esperire l’azione risarcitoria ex art. 33 della legge antitrust ove il danno subito costituisca la conseguenza immediata e diretta dell’infrazione a monte (nesso di causalità che il consumatore dovrà pur sempre provare), è da chiedersi - in linea con la teoria della indirect purchase doctrine statunitense 66 - se la medesima soluzione possa essere accolta anche in quelle ipotesi in cui il consumatore finale veda riflettersi su di sé (o meglio, sul proprio patrimonio) non le conseguenze dirette della pratica illecita, ma l’effetto della traslazione a suo carico del maggior costo subito dall’intermediario (ad esempio il distributore) suo dante causa, a sua volta vittima della concertazione a monte. azione risarcitoria, op. cit., p. 15. 66 Nel tratteggiare i confini della legittimazione ad agire (per tutti, non solo per i consumatori), la Corte Suprema ha infatti stabilito che essa non spetti ai c.d. indirect purchasers (acquirenti indiretti), ai quali il danno è stato trasferito nella catena distributiva di un bene. Nel pensiero della Corte, la indirect purchase doctrine, che esclude la legittimazione per i danneggiati indiretti, viene giustificata dalla preoccupazione di evitare il rischio di un pagamento doppio del risarcimento e dalla necessità di eliminare le difficoltà ed i costi istruttori legati alle indagini relative alla misura del danno che si è prodotto e fermato all’intermediario, anello della catena di produzione/distribuzione, e quella che invece è transitata sino all’acquirente finale (cfr. Hanover Shoe, Inc. v. United Shoe Machinery Corp., 392 U.S. 481, 1968; Illinois Brick Co. V. Illinois, 431 U.S. 720, 1977). 221 In quest’ultimo caso, infatti, la soluzione più congeniale per il consumatore finale sembrerebbe non tanto (o non solo) l’azione dinanzi al giudice di secondo grado (e in unico grado rationae materiae) ex art. 33, quanto il ricorso agli strumenti ordinari (con in più l’aggiunta del doppio grado di giurisdizione) di cui agli artt. 1469- bis ss. cod. civ. 67 (ovvero all’art. 9 della legge n. 192/98 in materia di subfornitura industriale ove si tratti di altro imprenditore), da esperire contro il suo diretto dante causa, il quale potrebbe a sua volta avere un interesse concreto e giuridicamente rilevante a ricorrere alle sanzioni civili previste dalla disposizione antitrust. In altri termini, il problema che si pone con riguardo all’art. 33, legge n. 287/90, non è solo un problema riguardante la legittimazione attiva, ma anche (e forse in maniera ancora più problematica) la selezione del soggetto passivo dell’azione. Ciò in quanto, sotto il profilo tecnico, il danno subito dal consumatore è non solo oggettivamente diverso da quello subito dall’intermediario, ma gode altresì di una propria autonomia anche sul piano causale, “laddove la volontarietà della condotta dell’intermediario è solo apparente perché egli è un propalatore obbligato del sovraprezzo (…): e in questa ‘coazione a danneggiare’ deve ravvisarsi la spia più significativa della persistenza del nesso di causalità”68 . Un aspetto fondamentale nella soluzione della questione della traslazione del danno riguarda quindi da un lato il ruolo svolto dai soggetti che operano ai piani intermedi della catena produttivo-distributiva (vittima o complice) 69 , e dall’altro la misura in cui essi hanno in concreto trasferito a valle le conseguenze dannose della pratica illecita realizzata ad un livello superiore. 67 In questo senso, R. CALVO , op. cit., p. 186, secondo il quale la protezione dei soggetti che aderiscono al contratto a valle dell’infrazione antitrust è assicurata non già dalla nullità (derivata o virtuale) dei primi, ma dalla regola dell’inefficacia parziale delle clausole vessatorie di cui all’art. 1469-quinquies cod. civ. In giurisprudenza, favorevole a questa ricostruzione del problema era già il Tribunale di Alba, 12 gennaio 1995, cit. 68 L. NIVARRA, op. ult. cit., p. 1456. 69 A riguardo si vedano le tre situazioni enucleate da A. TOFFOLETTO, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, op. cit., p. 327 s. A riguardo M. LIBERTINI, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), op. cit., p. 244, osserva che il distributore potrà essere ritenuto corresponsabile solo se imputabile, con l’autore dell’intesa, di concorso attivo nell’illecito antitrust. 222 Nei casi in cui il dante causa riesca a trasferire per intero al consumatore finale l’entità dell’extra-profitto realizzato dall’impresa collusa con l’aumento concertato dei prezzi, non pare infatti legittimo riconoscere al primo una qualsivoglia azione risarcitoria (salvo che questi dimostri di aver sofferto un danno diverso ed ulteriore 70 ), rimettendo invece al secondo l’esperimento dei rimedi ordinari atti bilanciare lo squilibrio negoziale venutosi a creare per effetto (mediato) dell’intesa71 . 3.1. Osservazioni critiche L’esame di queste ultime pronunce pone quindi in evidenza una prima apertura delle Corti - in merito agli effetti che la nullità di un’intesa antitrust esplica sui contratti a valle - verso il riconoscimento della astratta possibilità di configurare soluzioni 70 A riguardo L. NIVARRA, La tutela civile: profili sostanziali, in Diritto antitrust italiano, op. cit., p. 1455, ritiene che, a prescindere dalla circostanza che il rivenditore riesca o meno a trasferire sugli acquirenti posteriori il sovraprezzo, un danno a suo carico si produrrà comunque, o attraverso una diminuzione delle vendite, o tramite la mancata percezione dell’aumento di prezzo che il mercato si è in concreto rivelato capace di assorbire. Ciò crea, peraltro, il rischio di un uso improprio del mezzo risarcitorio e di una moltiplicazione delle azioni giudiziarie e delle somme rimborsate; rischio, questo, superato nell’esperienza americana attraverso l’obbligo per l’intermediario che eserciti la treble damages action di dedurre il danno eventualmente trasmesso al consumatore finale. In ogni caso, si ricordi che, a seguito della sentenza comunitaria Courage, la legittimazione ad esperire l’azione risarcitoria per violazione dell’art. 81 è estesa anche al soggetto che pur essendo parte di un’intesa illecita non abbia avuto una responsabilità significativa nella distorsione della concorrenza, ossia a colui il quale, ancorché partecipe del piano illecito, abbia sostanzialmente subito il potere negoziale della controparte”. 71 Secondo quest’ultimo Autore, l’affermazione di questo principio passa per il riconoscimento nel nostro ordinamento sia di un diritto degli operatori economici (quindi non solo ai consumatori) a veder praticati soltanto prezzi concorrenziali, che del conseguente dovere giuridico in capo ai medesimi soggetti (specie agli imprenditori) a tenere sotto controllo il mercato al fine di agevolare la repressione di tutti i comportamenti che ostacolano il raggiungimento di questo obiettivo e di astenersi dal praticare, in ogni situazione, un prezzo diverso da quello concorrenziale: “ogni imprenditore si deve nella sostanza fare carico, in virtù del maggiore e più qualificato flusso di informazioni di cui dispone in merito ai mercati a monte di quello in cui egli opera, della protezione della propria clientela dagli effetti di eventuali violazioni”. Un ruolo determinante ai fini del riconoscimento di un diritto al prezzo concorrenziale è quindi attribuito all’art. 82, lett. a), del Trattato ed all’art. 3, lett. a) della legge n. 287/90, che vieta alle imprese in posizione dominante di imporre alle loro controparti contrattuali prezzi e, più in generale, condizioni negoziali non eque (secondo la locuzione impiegata nel Trattato) o ingiustificatamente gravose (secondo la locuzione impiegata dalla legge nazionale). Il principio sotteso alla fattispecie dell’abuso di posizione dominante è infatti ritenuto estensibile anche alle intese, alla stregua della previsione dell’art. 81, lett. a),del Trattato e dell’art. 2, comma 2, lett. a) della legge n. 287/90, ove si fa divieto di di ogni comportamento che determini la fissazione di prezzi ed altre condizioni contrattuali. Di questo avviso anche V. M ELI, Lo sfruttamento abusivo di posizione dominante mediante imposizione di prezzi “non equi”, Milano, 1989, p. 7 s. 223 ricostruttive ed ermeneutiche sotto alcuni aspetti divergenti da quelle descritte nel Capitolo II, almeno quante volte “la situazione considerata si presta (…) ad essere inquadrata nei termini di una pratica complessivamente illecita, cui afferiscono come parte saliente – se si preferisce come proiezione comportamentale – i contratti attuativi del disegno cospiratorio” 72 . L’indirizzo giurisprudenziale inaugurato con le sentenze richiamate nei paragrafi che precedono si presenta difatti quale prodromo di una lettura del problema che, divincolata da un metodo rigorosamente formalistico, sembra muoversi in sintonia con l’approccio tipico (e del tutto peculiare) del ragionamento antitrust il quale, pur scontando le problematiche e per certi versi ancora non chiare interazioni tra le ferme categorie concettuali della tradizione civilistica e la dinamica realtà del diritto dell’economia, procede nelle sue analisi fedele soprattutto al dato empirico 73 . Un simile orientamento non sembra però esente da rilievi critici ed obiezioni, che, nell’ottica del civilista attento a cogliere le interazioni tra dinamiche di mercato e realtà negoziale, inducono a prenderne parzialmente le distanze e a limitarne la portata dirompente. L’approccio interpretativo da ultimo descritto - meno legato al profilo strettamente formale e teso piuttosto a valorizzare l’aspetto sostanziale degli illeciti antitrust e dei comportamenti che ne consentono l’attuazione concreta sul mercato se da un lato merita il riconoscimento di alcuni pregi - quante volte induca ad analizzare i temi del mercato con un occhio attento alle implicazioni di carattere economico che lo svolgimento dell’attività negoziale comporta - dall’altro richiede infatti (e forse impone) che se ne definiscano severamente i limiti di operatività. La scelta di un metro di giudizio aderente alle peculiarità del diritto della concorrenza – appunto attento più alle ricadute fattuali delle scelte d’impresa che alla qualificazione dogmatica delle condotte incriminate – ed all’approccio seguito 72 Così R. PARDOLESI , Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 472. Cfr., prima ancora della Cassazione, SS. UU., 4 febbraio 2005, n. 2207, Cass, 1° febbraio 1999, n. 827 e, in senso conforme, le ordinanze della Corte d’Appello di Milano, sez. I, 3 giugno 2004 e 20 luglio 2004, in Corr. Giur., n. 1/2005, p. 77 ss., con nota di M. NEGRI , Pericolo di esclusione dal mercato e sospensione cautelare dell’aggiudicazione al concorrente. Tra vecchie questioni e nuovi problemi. 73 224 dai giudici comunitari – i quali, anch’essi, sembrano attribuire un rilievo primario al profilo effettuale delle relazioni economiche che si svolgono sul mercato imponendo determinati assetti concreti74 - e che si dichiara funzionale alla tutela dell’assetto di mercato ed alla sua stabilità, non può dirsi difatti esentato tanto dal misurarsi con le categorie concettuali della tradizione civilistica, ai cui strumenti pur ci si appella (in ciò che “il diritto della concorrenza non contiene in sé stesso gli strumenti volti alla soluzione delle controversie per le quali è stato elaborato”)75 , quanto con una ponderata e responsabile valutazione delle ricadute applicative cui un’integrale adesione alla lettura dei contratti a valle quale elemento costitutivo della fattispecie illecita “intesa” di cui all’art. 2 della legge antitrust (ed alla conseguente nullità di cui al comma 3) inevitabilmente esporrebbe. In ordine al primo profilo - ovvero alla riconducibilità nell’alveo delle categorie dogmatiche su cui poggia il nostro sistema giuridico della tesi che vuole l’accordo collusivo tra le imprese ed i successivi contratti a valle partecipi della medesima fattispecie infrattiva - si offrono alcune considerazioni. La prima notazione riguarda in linea generale la possibilità di ravvisare tra l’accordo a monte ed il contratto a valle - pur volendo accogliere l’idea di superare la distinzione di piani tra le due realtà (quella di mercato e quella, più ristretta, negoziale) - la presenza di un legame giuridicamente rilevante in base al quale 74 La Corte di Giustizia, come noto, procede con un approccio di tipo casistico e rifugge dalle categorie dogmatiche generali. In questo senso, cfr. anche Tribunale di Primo grado, sentenza 15 settembre 1998, cause riunite T-374/94, T-375/94, T-384/94 e T-388/94, European Night Services e a./Commissione, in Racc., 1998, I-3141, par. 136, secondo cui “(…) la valutazione di un accordo ai sensi dell’art. 85, n. 1, deve tenere conto dell’ambito concreto nel quale esso produce i suoi effetti, in particolare del contesto economico e giuridico nel quale operano le imprese interessate, della natura dei servizi contemplati dall’accordo, nonché delle effettive condizioni di funzionamento della struttura del mercato interessato”. Come rileva pure G. D’A MICO, Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto, cit., p. 39, continuare a ragionare con gli strumenti del codice civile non è più possibile. In tutte le economie avanzate, infatti, si è da tempo avviata una fase (tuttora in corso) di “adeguamento” e di “ammodernamento” del diritto contrattuale, con l’obiettivo di rendere la regolamentazione di questo fondamentale settore delle relazioni economiche e sociali adeguata ai tempi. In particolare, è la Comunità europea ad essersi assunta il compito di promuovere tale ammodernamento, individuando nella disciplina del contratto l’elemento centrale di una nuova politica di “strutturazione” del mercato. Come osserva anche F. LUCARELLI, Solidarietà e autonomia privata, 1970, Napoli, p. 11, “Le istituzioni privatistiche non sono isolabili da un certo momento storico e politico, ma costituiscono l’espressione di un bagaglio secolare di cultura ed esperienza”. 75 L. DI VIA, L’invalidità nei contratti tra imprenditori, op. ult. cit., p. 641. 225 estendere la nullità normativamente prevista per il vincolo (negoziale o meramente comportamentale) tra le imprese colluse anche agli atti, strutturalmente validi e causalmente autonomi, che di quello stesso pactum si vorrebbero intendere come mero momento attuativo ed esecutivo. Come già osservato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 17475/2002 (dalla quale pare peraltro doversi dissentire - condividendo la lettura offerta dalla sentenza delle Sezioni Unite - quanto alle statuizioni in merito alla estensibilità dei rimedi di cui all’art. 33 anc he ai consumatori), i contratti stipulati da ciascuna impresa aderente alla determinazione della comune strategia commerciale costituiscono infatti “fenomeni che, pur attenendo alla vita del mercato, si pongono solo a valle, in quanto mediati dal concreto comportamento tenuto dalle singole imprese nella gestione di singoli e specifici rapporti intessuti direttamente con i singoli consumatori”. Rapporti, quindi, non incisi dall’infrazione concorrenziale sullo sfondo, in quanto “già presidiati in quanto tali dalla loro logica giuridica interna”76 . Perché quest’ultima possa essere scalfita - limitandoci in questa sede a richiamare le argomentazioni offerte da quanti contestano la possibilità di inquadrare il rapporto tra i due elementi della vicenda in termini di invalidità derivata (per cui si rinvia al Capitolo II) - e si possa quindi ragionare in termini di “operazione economica” - ovvero di “una sequenza unitaria e composita che comprende in sé il regolamento, tutti i comportamenti che con esso si collegano per il conseguimento dei risultati voluti, e la situazione oggettiva nella quale il complesso delle regole e gli altri comportamenti si collocano, poiché anche tale situazione concorre nel definire la rilevanza sostanziale dell’atto di autonomia privata”77 - è infatti necessario che tra i due momenti (accordo a monte e contratto a valle) possa individuarsi un nesso giuridicamente qualificabile in termini di collegamento negoziale 78 . 76 Di questo avviso, da ultimo, anche R. CALVO , op. cit., p. 184. E. GABRIELLI , Il contratto e le sue classificazioni, in Riv. dir. civ.,1997, I, p. 719. 78 Di questo avvis o anche L. DI VIA, L’invalidità nei contratti tra imprenditori, op. ult. cit., p. 637 ss. Il collegamento negoziale, rileva M. NUZZO nel commentare la norma dell’art. 1469-quinquies, op. ult. cit., pp. 318-319, verrebbe in tal modo impiegato non solo per la valutazione della funzione 77 226 Le Sezioni Unite, per questa ragione, qualificano il legame tra contratto a valle ed infrazione a monte in termini di collegamento funzionale, per la cui sussistenza, tuttavia, giova ribadirlo, è in linea generale necessario che sussista l’elemento della unitarietà dell’interesse perseguito, ossia che i diversi rapporti negoziali tra i quali si crede di cogliere tale nesso tendano a realizzare un fine pratico unitario. Perché possa discorrersi in termini di collegamento funzionale - pur superando l’elemento soggettivo della coincidenza di tutte le parti coinvolte nei diversi rapporti (non ritenuto essenziale ai fini del collegamento negoziale) 79 - deve infatti potersi affermare che i singoli rapporti - che peraltro nel caso di specie potrebbero assumere le sembianze di una semplice pratica comportamentale - perseguono un interesse immediato strumentale rispetto all’interesse finale dell’operazione: “questo interesse finale concorre a determinare la causa concreta del contratto poiché è l’interesse che il contratto è diretto a realizzare” 80 . Quest’ultimo peraltro, come già messo in luce nel Capitolo I, non pare ravvisabile con riguardo alla fattispecie in esame la quale, anche a voler cogliere un qualche nesso tra intesa e contratti a valle, non pare in alcun modo integrare gli estremi del collegamento 81 . I rapporti negoziali che seguono la definizione concordata di una comune strategia d’azione si presentano infatti, condividendo l’affermazione di cui alla sentenza n. 17475/2002, dominati da una propria interna ragion d’essere, che vale a renderli autonomi ed indifferenti, nella realizzazione del combinato assetto di complessiva dell’operazione in termini di liceità-illiceità, ma anche per individuare effetti non ricollegabili ai singoli contratti fra loro collegati e derivanti direttamente dalla fattispecie di collegamento che risulta dal considerarli complessivamente. In quest’ottica, quindi, chi è terzo rispetto al singolo negozio ma parte dell’operazione complessiva, diviene destinatario degli effetti derivanti dalla fattispecie di collegamento, tutti a lui egualmente opponibili. 79 C. M. BIANCA, Il contratto, op. cit., p. 483. 80 C. M. BIANCA, Il contratto, op. cit., p. 482. 81 Di questo avviso, da ultimo, è anche M. LIBERTINI, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), op. cit., p. 246, secondo il quale l’invalidità potrebbe essere predicata - richiamando la distinzione operata dalla dottrina tedesca tra Ausfuhrungsvertrage e Folgevertrage – solo con riguardo ai casi in cui il contraente a valle è chiamato a svolgere una funzione di concorso attivo nell’illecito concorrenziale. Al di fuori di questa ipotesi, infatti, il contratto presenta una sua funzione economica ben distinta e priva di profili anticoncorrenziali, tale per cui “appare arduo individuare fra l’intesa e il contratto a valle un collegamento negoziale di tipo civilistico” (così P. FATTORI e M. TODINO, op. cit., p. 433). 227 interessi che in essi si esprime, alla manifestazione di una volontà cospiratoria da parte delle imprese colluse. Pur potendo dare concreta attuazione a quanto statuito a monte, i contratti a valle non paiono infatti in alcun modo tendere alla realizzazione di un interesse immediato strumentale o parziale rispetto ad un qualsivoglia interesse unitario. Sebbene posti in essere dall’imprenditore per realizzare il risultato economico perseguito attraverso l’intesa, i contratti attuativi dell’accordo anticoncorrenziale godono infatti, rispetto a quest’ultimo, di una loro piena autonomia causale, svolgendo una propria funzione economica a prescindere dal collegamento con la concertazione vietata. Pure in una nozione di causa come ragio ne pratica del contratto, il negozio esecutivo dell’intesa, infatti - come già ampiamente osservato - “continua ad avere, almeno nell’ottica di ciascuna delle controprati dell’imprenditore, il senso che gli è proprio indipendentemente dal programma di attività a monte e dunque continua a conservare la funzione pratica caratteristica del tipo posto in essere” 82 . Ciò detto, sembra quindi non condivisibile - alla luce delle (già illustrate) argomentazioni addotte dalla migliore dottrina, incline a negare qualsivoglia rapporto di tal fatta tra i due momenti della vicenda in esame - quanto apoditticamente affermato dalla sentenza n. 2207/05 sul punto. L’esclusione della soluzione invalidativa pare pure confermata alla luce della giurisprudenza comunitaria - sostanziale punto di riferimento dell’interprete nazionale - la quale - pur rinviando al diritto interno dei singoli ordinamenti la soluzione normativa relativa alle conseguenze di natura civilistica dell’illecito antitrust -, nella nota e già menzionata sentenza Courage prospetta, anche per l’imprenditore che abbia partecipato al piano collusivo con la stipulazione di un contratto di distribuzione, il solo rimedio risarcitorio. 82 Così G. GUIZZI, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, op. cit., p. 67. 228 Che la via da percorrere sia quella risarcitoria pare inoltre sostenibile anche alla luce di quella distinzione tra reato-contratto e reato in contratto che, d’uso nella terminologia penalistica, sembra adattarsi proficuamente alla fattispecie in analisi83 . La bipartizione - fondata sulla distinzione tra atto e comportamento e tra regole di validità e regole di responsabilità 84 - intende in particolare per reati-contratto, quelli “commessi nella conclusione di un contratto e mediante i quali si incrimina il 83 L’elaborazione della classificazione si deve specialmente a F. M ANTOVANI, Diritto penale, Parte speciale, Delitti contro il patrimonio, Padova, 1992, p. 53 ss. Secondo questa ripartizione, l’incidenza della violazione della norma penale sul contratto varia a seconda che il divieto sia diretto a sanzionare il comportamento di uno dei contraenti nella fase di conclusione del contratto o la stessa conclusione del contratto. Solo in questa seconda ipotesi sarebbe, in particolare, configurabile la sanzione della nullità quale conseguenza della violazione della norma penale, il divieto vietando proprio la stipulazione del contratto. La condotta unilaterale penalmente rilevante di una delle parti, invece, non inciderebbe necessariamente sulla liceità del negozio, potendo piuttosto determinare una diversa reazione dell’ordinamento o, al limite, il solo obbligo risarcitorio a carico dell’autore del reato. Nella categoria dei reati in contratto rientrano soprattutto i reati mediante i quali viene incriminata non la conclusione in sé del contratto, ma il comportamento (violento, fraudolento, profittatorio) tenuto durante tale fase. Così M. RABITTI, Contratto illecito e norma penale, op. cit., pp. 12-13, nota 16. 84 Definito il comportamento come “l’insieme dei contegni volontari che danno vita all’atto e ne fanno una realtà distinta”, e l’atto come “l’insieme degli elementi rilevanti che costituiscono il tipo di atto, ossia l’insieme dei presupposti necessari all’applicabilità della norma che individua il tipo di atto”, si rileva in dottrina come, al di là delle formule definitorie, la distinzione è essenziale per comprendere e limitare l’ambito di operatività di due diversi gruppi di regole caratterizzanti l’intero sistema del libro IV del codice civile: quelle dirette a verificare la conformità allo schema legale dell’assetto negoziale realizzato, che si risolvono in un giudizio di rilevanza e di validità dell’atto, e quelle dirette a verificare la liceità o illiceità della condotta posta in essere dai contraenti, la quale, collocandosi sul piano del fatto materiale e costituendo il presupposto dell’atto, se illecita può costituire fonte di risarcimento del danno, ma non produce alcun effetto sul piano della validità (cfr. M. RABITTI, op. ult. cit., p. 63). Richiama la distinzione tra atto e comportamento anche M. NUZZO, Utilità sociale e autonomia privata, op. cit., p. 134 ss. Coglie il progressivo e crescente superamento - nell’ottica del diritto privato europeo - della distinzione tra regole di validità e regole di comportamento implicanti responsabilità e il progressivo spostamento del principio di buona fede contrattuale sul terreno della validità, N. LIPARI , Il ruolo del notaio nella nuova realtà delle nullità contrattuali, op. cit., pp. 371-372, secondo il quale è da registrare “un progressivo processo di osmosi che conduce ad intendere il giudizio di nullità come un giudizio complesso nel quale non entrano soltanto profili di struttura, ma anche indici di segno comportamentale”. Un esempio di questa tendenza, osserva l’Autore, è da cogliere proprio nella disciplina della nullità degli atti in violazione della normativa antitrust, nella quale la sanzione invalidativa è stabilita non in ragione di indici di struttura, bensì nella prospettiva degli effetti che l’atto è idoneo a produrre e quindi degli interessi sui quali è in condizione di incidere. Ulteriori esempi in cui la “sanzione di nullità acquista carattere di imperatività solo in presenza di determinate condizioni esterne al contratto” possono cogliersi: nell’art. 3, n. 4, della legge 25 ottobre 1987, n. 67 (c.d. legge sull’editoria), dove si prevede che gli atti di cessione, i contratti di affidamento in gestione di testate nonché il trasferimento tra vivi di azioni, partecipazioni o quote di società sono nulli se, per effetto della loro conclusione, uno stesso soggetto raggiunga la posizione dominante; nell’art. 15, n. 2, della legge 6 agosto 1990, n. 223, relativo ai contratti aventi per effetto l’assunzione di posizioni dominanti nel settore radiotelevisivo e nell’art. 127, comma 2, del Testo unico in materia bancaria e creditizia (D. lgs. 1° settembre 1993, n. 229 fatto stesso della conclusione del contratto”; per reati in contratto, invece, quelli “mediante i quali viene incriminata non la conclusione in sé del contratto ma il comportamento tenuto durante la medesima”. Ai fini che ci riguardano, in particolare, è quest’ultima fattispecie - all’interno della quale la dottrina inscrive il reato di truffa - a venire in rilievo, caratterizzata dal sanzionare non la conclusione del contratto in sé, ma l’illecito perpetrato nella fase della conclusione del contratto, ossia il comportamento tenuto da un contraente in danno dell’altro nell’esercizio dell’attività negoziale. L’illecito in questo caso, secondo la qualificazione dei reati in contratto offerta dalla dottrina, non penetra all’interno della fattispecie negoziale e quindi non incide direttamente né sugli elementi strutturali né funzionali dell’atto, non producendo alcun effetto sul piano della validità e rilevando quale mera causa risarcitoria. Anche le indagini sui cosidetti vizi incompleti del contratto - già richiamati nel Capitolo II - inducono la dottrina a distinguere i comportamenti dei contraenti che attraverso le loro dichiarazione negoziali penetrano nel tessuto del regolamento pattizio incidendone la validità da quei comportamenti che, al contrario, pur giuridicamente rilevanti, rimangono esterni alla fattispecie. Questi ultimi, nella specie, “non penetrando nell’autoregolamento costruito dalle parti, restano irrilevanti ai fini del giudizio di validità del contratto, ma possono continuare a rilevare, ove siano stati posti in essere in violazione del dovere di lealtà e correttezza nella fase delle trattative e del procedimento di formazione del contratto, ai fini del giudizio di responsabilità precontrattuale”85 . La ragione del parallelismo riscontrabile con la figura dei reati in contratto è da cogliere quindi nel fatto che la fissazione di standard comportamentali illeciti sul piano antitrust da parte della singola impresa che, collusa con le sue pari, stipula a valle una serie uniforme di contratti con la propria clientela, si colloca, alla stregua della fattispecie di stampo penalistico, in un momento che precede il 385), che, pur revedendo fattispecie di nullità che possono essere fatte valere solo dal cliente, le fa spesso dipendere da circostanze esterne alla struttura dell’atto. 85 M. RABITTI, op. ult. cit., p. 64. 230 perfezionamento dei rapporti negoziali a valle, rilevando quale comportamento illecito inscritto nella fase che precede la stipulazione del contratto. L’eventuale alterazione dell’equilibrio negoziale e delle condizioni cui il contratto sarebbe stato altrimenti stipulato è quindi da riportare alla condotta illecita che l’impresa assume a danno della controparte, condotta che rimane esterna rispetto all’atto a valle - in sé strutturalmente e funzionalmente perfetto - e pertanto fonte non di un giudizio di validità del contratto o di singole clausole, ma semmai di responsabilità. Anche volendo superare le considerazioni di ordine concettuale e dogmatico che già di per sé sembrano comunque impedire di discorrere con riguardo ai contratti che si pongono quale precipitato del programma d’azione concertato in termini di nullità - non pare potersi negare che alla soluzione invalidativa osti pure la semplice (e forse più elementare) considerazione delle ricadute effettuali (a voler assumere quella stessa prospettiva pragmatica da cui pure la tesi in discorso dichiara di voler muovere) di una simile opzione interpretativa. Anche là dove si voglia astrattamente immaginare (con le Sezioni Unite) la nullità dei contratti a valle quale sanzione diretta a privare l’impresa dei frutti dell’illecito, deve infatti riflettersi sul fatto che, in ogni caso, la caducazione dei rapporti negoziali si rivelerebbe inadeguata ed anzi dannosa rispetto all’obiettivo avuto di mira, ovvero alla tutela della controparte dell’impresa collusa, terza e non partecipe dell’infrazione. Come evidenziato dalla dottrina già richiamata nel Capitolo II - ove si sono proposte le diverse soluzioni argomentative poste a suffragio della nullità dei contratti a valle e, a fronte, le critiche – la nullità dei contratti (pur) attuativi dell’intesa produrrebbe nei fatti ripercussioni catastrofiche: “azzerare rapporti che hanno per intero dispiegato i propri effetti metterebbe capo ad un’avventura improponibile e capricciosa”86 . Come osservato dal Tar Lazio nella sentenza n. 1790/03 (per la quale si rinvia nuovamente al Capitolo II), infatti, il carattere normalmente occulto, per i terzi, della 231 causa determinatrice della ipotizzata nullità a cascata ed il rigore che permea la disciplina normativa della nullità, esporrebbe il contraente non partecipe del momento collusivo, al di fuori di ogni consapevolezza e possibilità di controllo ed anche a distanza di tempo, all’alea di una possibile vanificazione retroattiva dei rapporti contrattuali di cui è titolare, con un effetto devastante sulla sicurezza delle relazioni giuridiche e sulla stessa tutela del mercato. Per questa ragione, anche chi ha postulato la possibilità di dare soluzione alla problematica in esame inquadrando la serie contrattuale a valle quale elemento costitutivo della concertazione a monte, ipotizzando di sottoporre la prima al medesimo esito previsto dall’art. 2, comma 3, con riguardo all’accordo collusivo stricto sensu, conclude osservando che “Il riscatto per la vittima del fruit contract non alligna (e non può allignare) nel terreno dell’invalidità negoziale”87 . Altro è, infatti, immaginare in linea teorica ed astratta una soluzione tanto drastica come la nullità quale strumento idoneo a ripristinare lo status quo ante e dunque ad azzerare (con la nullità assoluta) o a ridimensionare (con la nullità parziale) non solo l’illecito, ma soprattutto gli effetti concreti che di quello attualizzano il programma, ristabilendo le condizioni di una leale competizione tra le paciscenti, altro è, invece, ragionare in termini di stabilità del mercato e di certezza degli scambi, valutando le ripercussioni pratiche a cui la formula immaginata potrebbe dare adito. La distinzione tra concorrenza e mercato diviene infatti rilevante (e forse determinante) allorché si avvertono le conseguenze concrete che una soluzione pure astrattamente condivisibile ai fini della rimozione degli effetti di pratiche distorsive della competizione potrebbe cagionare nel generale equilibrio di mercato e nella protezione degli interessi di cui i vari soggetti che in quella scena si muovono ed agiscono si fanno portatori. 86 Così ancora, ma in senso critico, R. PARDOLESI , Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit., p. 475. 87 R. PARDOLESI , op. loc. cit. 232 La tutela del consumatore (ed in generale della controparte a valle dell’impresa collusa), quale oggetto della specifica disciplina del mercato (e non solo della concorrenza), opera infatti anche prima ed al di fuori del regime concorrenziale. Ciò risulta chiaramente confermato dai criteri di cui si deve tener conto ai fini dell’esenzione di cui all’art. 4 della legge n. 287/90, alla stregua dei quali il beneficio dei consumatori assume valore pregnante nella temporanea autorizzazione di situazioni anticompetitive (per un’analisi dei quali si rinvia al Capitolo I), come pure, all’inverso, dalla circostanza che fattispecie vietate dalla legge antitrust come i prezzi predatori giovano di per sé, almeno nel breve periodo (altrimenti incidendo sulla qualità dei prodotti offerti), a quegli stessi soggetti. Con questo non si intende certo negare che la libera concorrenza costituisca generalmente la condizione ottimale affinchè ai consumatori sia consentito di esercitare liberamente e consapevolmente il proprio potere di scelta e di autodeterminazione economica, ma che tutela della concorrenza e tutela del mercato, per quanto termini necessariamente convergenti e connessi, possono assumere significati e direzioni non coincidenti. Anche volendo condividere la soluzione invalidativa cui le Sezioni Unite (e la precedente giurisprudenza amministrativa) sembrano voler lasciare spazio, ancorate ad una lettura delle norme antitrust fedele al contesto in cui il sistema antimonopolistico è inserito, si deve quindi precisare che la tutela del terzo estraneo all’intesa – che rappresenta la ragione fondante dello stesso contendere giudiziale non necessariamente può essere soddisfatta attraverso una rigida (e miope) applicazione delle disposizioni del diritto della concorrenza. Mentre la sanzione della nullità di cui all’art. 2, comma 3, della legge n. 287/90, ha come obiettivo la conformazione (e, nelle ipotesi di una divergenza, la riconduzione) dell’azione delle imprese alla scelta economico-politica del modello di mercato concorrenziale assunto (se non dal nostro legislatore Costituente, certamente) dai Trattati europei, il regime di validità o di invalidità che riguarda i contratti a valle alligna nel terreno della tutela del mercato, che, pur (giova ribadirlo) 233 individuando nell’assetto concorrenziale il modello economico in astratto ottimale, è tesa alla protezione ed alla composizione di interessi eterogenei e confliggenti. Una responsabile politica di mercato, quindi, non sembra ammettere né consentire, in ragione delle conseguenze pratiche che una soluzione come la nullità potrebbe determinare sulla stabilità dell’intero sistema economico e sull’appagamento delle dialettiche esigenze che sul mercato si confrontano, una lettura dei contratti a valle in chiave antitrust quale quella descritta. Come osservato da autorevole dottrina, difatti, “Se la prestazione acquisita dal contraente gli è utile, e la sua volontà, perché viziata, ha consentito all’assunzione di un sacrificio eccessivo, il diritto trova sempre il modo di convalidare il contratto rettificandolo: e ciò non già per una economia di mezzi, ma perché sarebbe nocivo negare al contraente, vittima di un sopruso, la prestazione di cui ha bisogno. Non dimentichiamo che l’addebito di un danno pari al superprezzo stipulato mediante un abuso è sostanzialmente una rettifica dei termini del contratto”88 . Pur cogliendo l’importanza ed il pregio delle considerazioni svolte da ultimo dalla Suprema Corte in merito al rapporto che, privilegiando l’ottica antitrust, si ritiene di poter cogliere astrattamente tra il piano ideale concordato dalle imprese e lo strumento negoziale attraverso il quale la strategia anticoncorrenziale trova concreta attuazione – inquadrando in linea generale i contratti successivi all’accordo quali negozio-mezzo e non come negozio-a valle (per riprendere nuovamente la terminologia adoperata dal Tar del Lazio nella sentenza n. 1790/03) - si ritiene dunque che l’unica soluzione ragionevolmente prospettabile – alla luce delle considerazioni dogmatiche e fattuali esposte – sia quella che poggia le basi sulla convinzione che “Il contratto diventa mero elemento di una fattispecie di responsabilità aquiliana”89 , dunque ravvisando nel rimedio risarcitorio (secondo i termini in cui lo definisce la sentenza n. 2207/05) la sola via percorribile al fine di 88 89 Così R. SACCO - G. DE NOVA , Il contratto, op. cit., p. 626. R. PARDOLESI , Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, cit. 234 riparare il danno arrecato ai contraenti a valle per effetto dell’alterazione delle condizioni di mercato 90 . Che il rimedio risarcitorio - ora, alla luce della sentenza n. 2207/05 - costituisca ancora il rimedio più funzionale alla tutela del terzo, concorrente o consumatore, controparte dell’atto negoziale a valle, pare inconfutabile anche alla stregua di un’interpretazione sistematica della ratio antimonopolistica proposta dalle Sezioni Unite. L’espressa affermazione che vuole la legge n. 287/90, in armonia con quanto stabilito dal legislatore del Trattato, deputata a tutelare con i soggetti del mercato (tanto consumatori quanto imprenditori) “un più generale bene giuridico”, ossia la competitività ed insieme la stabilità delle relazioni economiche, conferma infatti, come poc’anzi argomentato, che il sistema non può tollerare quelle soluzioni interpretative che, prospettando a vario titolo l’invalidità dei contratti a valle, finiscono da un lato per paralizzare gli scambi, con buona pace per i contratti già conclusi - i quali, validi sino ad un certo momento, sarebbero colpiti da invalidità sopravvenuta a seguito della dichiarazione di nullità dell’intesa - e dall’altro per arrecare al terzo contraente un danno (la perdita della prestazione contrattuale) superiore al sovrapprezzo in ipotesi versato in conseguenza dell’illecito aumento dei prezzi. L’azione risarcitoria, attraverso la sua funzione riparatoria e compensativa, pare infatti in linea generale in grado di salvaguardare la posizione dei soggetti danneggiati dagli effetti della distorsione anticoncorrenziale, al tempo stesso 90 Individua nell’imposizione a carico dell’impresa della responsabilità extracontrattuale e nel risarcimento del danno uno strumento “particolarmente idoneo a tutelare le situazioni giuridiche soggettive dei singoli lesi dal comportamento anticoncorrenziale” anche M. SCHININÀ, Responsabilità per attività d’impresa, in Trattato di diritto privato europeo, a cura di N. Lipari, vol. IV, Padova, 2003, p. 605. L’Autrice osserva, in particolare, la maggiore efficacia del rimedio extracontrattuale rispetto a quello della nullità, dalla quale discenderebbero a carico dell’impresa meri obblighi restitutori, inadeguati a tutelare il concorrente o il consumatore che abbiano subito pregiudizi economici ulteriori rispetto alla stipulazione del contratto nullo. Nello stesso senso anche A. FRIGNANI - M. WALBROECK, op. cit., p. 367. Anche la Commissione europea, nella Comunicazione concernente la cooperazione tra la Commissione e le autorità garanti della concorrenza degli Stati membri per l’esame dei casi disciplinati dagli articoli 85 e 86 del Trattato CE, pubblicata in G.U.C.E., 15 ottobre 1997, n. C313, si sofferma sulla particolare efficacia dei rimedi di carattere extracontrattuale, evidenziando l’effetto dissuasivo prodotto dal rischio di condanne al risarcimento dei danni da parte dei giudici nazionali (punto 16). 235 conservando l’utilità che la stipulazione del contratto a valle esercita e costituendo una sanzione sufficientemente grave ed onerosa da scoraggiare le imprese dal seguire condotte concertate e dal dare ad esse effettiva attuazione 91 . L’opportunità di ricorrere allo strumento risarcitorio - in grado, di per sé, di rafforzare (come evidenziato dalla Corte di Giustizia nella sentenza CourageCrehan richiamata) l’ enforcement antimonopolistico – emerge pure da una corretta considerazione del richiamo al profilo effettuale contenuto nel disposto dell’art. 2, comma 2, della legge antitrust. Come bene evidenziato nella sentenza n. 2207/05, infatti, la valutazione del momento effettuale e dunque della concretizzazione reale sul mercato del programma di concertazione astrattamente stabilito a monte dalle imprese, assume un senso logico non al fine di ipotizzare (per quanto ciò sia immaginabile alla stregua delle categorie concettuali e dei principi di teorie generale del diritto) una caducazione dei contratti a valle alla luce del comma 3 dell’art. 2, ma proprio della proposizione dell’azione risarcitoria. In altri termini, una rigorosa lettura dell’art. 2 della legge antitrust induce a ritenere che l’espressa distinzione tra piano contenutistico e piano effettuale dell’intesa assume rilievo proprio nel momento in cui si passa dalla valutazione dell’Antitrust - abilitata a sanzionare collusioni che abbiano anche semplicemente una potenzialità anticoncorrenziale, presentando un oggetto contrastante con il principio della libera competizione non giustificabile alla stregua dell’art. 4 - a quella del giudice ordinario (in unico grado) in chiave risarcitoria. Diversamente dall’Autorità garante, infatti, “il giudice, che dirime controversie e non si occupa di fenomeni, può essere officiato solo in presenza o in vista almeno di un pregiudizio. Dunque innanzi alla Corte d’appello deve essere allegata un’intesa di cui si chiede la dichiarazione di nullità, ed altresì il suo effetto 91 G. DE NOVA , Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. crit. dir. priv., 1985, p. 446, ritiene che in materia debba operare il c.d. criterio del minimo mezzo, per cui la nullità “deve essere esclusa se l’esigenza perseguita dal legislatore mediante la previsione della specifica sanzione (civilistica, amministrativa, o penale) sia compiutamente realizzata con la relativa irrogazione, mentre deve essere ammessa in caso contrario”. 236 pregiudizievole, il quale rappresenta l’interesse ad agire dell’attore secondo i principi del processo, da togliere attraverso il risarcimento”92 . In mancanza di un effetto pregiudizievole, e dunque di una proiezione sulla realtà economica del disegno collusivo (in ipotesi rappresentato dalla conclusione a condizioni alterate di contratti a valle), viene infatti a mancare qualunque interesse concreto ed attuale ad agire per le vie ordinarie per sentir dichiarare nulla l’intesa e ad esperire il rimedio del risarcimento del danno 93 . La soluzione favorevole al rimedio risarcitorio, con l’esclusione di qualunque profilo o ricaduta in termini di nullità dell’atto negoziale a valle trova tra l’altro conforto, come anticipato, nella giurisprudenza comunitaria la quale, anticipando i presupposti sostanziali cui le Sezioni Unite hanno poi ancorato il riconoscimento anche al consumatore che lamenti uno specifico pregiudizio il diritto ad invocare la tutela di cui all’art. 33, individua con Courage proprio nel risarcimento del danno lo strumento idoneo a reagire alla restrizione provocata dall’intesa alle condizioni di mercato ed alla compressione della libertà di agire dei soggetti che in esso operano. Il grado di responsabilità (significativa o meno) nella distorsione della concorrenza diviene infatti, nelle parole della Corte europea, il discrimine in base al quale il giudice nazionale è chiamato ad ammettere all’azione risarcitoria il soggetto che, ancorché partecipe del programma collusivo, abbia sostanzialmente subito, in ragione della posizione di inferiorità grave in cui si colloca, il potere della controparte 94 . Lo squilibrio tra le posizioni dei soggetti coinvolti nell’intesa - ove si pensi di poter accogliere anche il contratto a valle nella fattispecie dell’art. 2 della legge antimonopolistica nazionale, allargando anche al terzo non direttamente coinvolto 92 Cass., n. 2207/05. In altri termini, “(…) se l’intesa non è attuata, non c’è azione di danni in capo ai consumatori; se l’intesa è attuata, c’è azione di danni in capo ai consumatori”, così M. LIBERTINI , Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), op. cit., p. 242. 94 Nella fattispecie esaminata dalla Corte si trattava, infatti, di un pregiudizio arrecato non ad un terzo, concorrente o consumatore, ma alla stessa controparte dell’intesa, nulla di pieno diritto ex art. 81. A riguardo, peraltro, G. ROSSI , “Take Courage”! La Corte di giustizia apre nuove frontiere per la risarcibilità del danno da illeciti antitrust, cit., p. 91, osserva che la pronuncia “avvia un processo di comunitarizzazione delle regole in tema di risarcimento del danno antitrust, dai presupposti e dagli esiti inevitabilmente ancora incerti”. 93 237 nell’accordo collusivo la sia pur inconsapevo le partecipazione all’illecito concorrenziale - diventa quindi, ove uno di questi (il più debole) abbia subito un danno per effetto dell’avervi preso parte, motivo di legittimazione di quest’ultimo ad ottenere tutela risarcitoria quante volte la sua libertà negoziale e, prima ancora, la possibilità di orientare liberamente la propria condotta sia compromessa seriamente sino ad essere annullata95 . A questo deve poi aggiungersi un’ulteriore osservazione, propriamente attinente al piano della efficacia del rimedio risarcitorio di cui si è detto. Una specifica riflessione, alla quale peraltro è possibile dedicarsi in questa sede in maniera soltanto sommaria, ruota infatti attorno all’opportunità che, anche in Italia, si introducano strumenti di tutela di categoria con riguardo a tutte quelle ipotesi in cui, come nel caso di specie, il numero di soggetti che hanno subito un danno di modesta entità è particolarmente elevato. In questi casi sembra che le azioni collettive costituiscano difatti l’unico strumento di tutela davvero efficace, consentendo la trattazione di più cause concernenti la lesione di una molteplicità di posizioni di vantaggio di carattere individuale in maniera simultanea ed unitaria, 95 La Corte di Giustizia afferma infatti che il diritto nazionale non deve ostacolare il ricorso alle azioni private, poiché esse aumentano il grado di effettività delle disciplina antitrust, nell’interesse generale, oltre che dei singoli danneggiati. L’azione privata può infatti, aggiunge G. ROSSI , op. ult. cit., p. 97, egregiamente servire da strumento di tutela dell’interesse generale, che non è più monopolio delle autorità antitrust. La sentenza Courage, quindi, impone di riconoscere la possibilità di una funzionalizzazione dell’azione alla tutela (anche) di interessi esterni rispetto a quelli del danneggiato e di natura generale, ampliando l’accesso al rimedio risarcitorio a soggetti che, sulla base delle norme nazionali, ne resterebbero esclusi. Il problema diventa allora, osserva l’Autore, quello di selezionare i soggetti legittimati a proporre l’azione, non potendosi estendere la tutela senza alcun limite, “e dovendosi piuttosto ricercare un delicato punto d’equilibrio tra la necessità di aumentare l’effettività dei divieti antitrust tramite le azioni risarcitorie private, e la non meno rilevante necessità di evitare di conferire tutela ad interessi che una corretta interpretazione dei divieti antitrust impedisce di tutelare”. La necessità che gli strumenti di protezione accordati dalla normativa antimonopolistica nazionale si muovano in una direzione conforme a quella seguita dagli organi comunitari è pure ribadita, come si osservava nel Capitolo I, dal Regolamento n. 1/2003, il quale, prevedendo espressamente la necessità di concedere il ristoro risarcitorio alle parti danneggiate da infrazioni antitrust (cfr. recital 7), ha imposto alla Commissione, alle Autorità amministrative ed ai giudici nazionali di evitare orientamenti contrastanti nell’applicazione del diritto della concorrenza nell’ottica di una sua armonizzazione, per consentire agli operatori economici di poter fare affidamento su un quadro giuridico certo ed uniforme e per migliorare il mercato interno. 238 eliminando l’eventualità di giudicati contrastanti e coagulando in capo ad un unico collegio giudicante la cognizione di una molteplicità di pretese seriali 96 . Perché il diritto antitrust possa veramente svolgere un ruolo determinante quale strumento di libertà dei cittadini e di giustizia sociale 97 , di estrema opportunità si rivelerebbe pertanto - come da più parti osservato - il riconoscimento nel nostro ordinamento (ad esempio attraverso l’inserimento nel tessuto della legge n. 281/98 di una norma che riconosca alle associazioni legittimate la possibilità di esperire non solo, secondo la previsione vigente, rimedi di natura inibitoria e restitutoria, ma 96 In tal senso, A. TOFFOLETTO - A. STABILINI , Tutela giurisdizionale collettiva dei diritti dei consumatori e legge antitrust, op. cit., p. 242. Va segnalato, a riguardo, come già prima dell’entrata in vigore di tale legge fosse stata comunque sostenuta la possibilità di esperire i rimedi previsti dalla legge antitrust da parte delle associazioni dei consumatori, argomentando dall’art. 2601 cod. civ. in tema di concorrenza sleale - ai sensi del quale “Quando gli atti di concorrenza sleale pregiudicano gli interessi di una categoria professionale, l’azione per la repressione della concorrenza sleale può essere promossa anche dalle associazioni professionali e dagli enti che rappresentano la categoria” estendendo la nozione di “associazioni professionali” a quelle dei consumatori, oltre che degli imprenditori. Sul punto, si vedano: V.P.G. JAEGER, Intervento, in A A.VV., Antitrust: le sanzioni, Milano, 1996, p. 131 ss; G. GHIDINI, Della concorrenza sleale, in Commentario al codcie civile, a cura di P. Schlesinger, Milano, 1991, p. 388 ss., il quale argomenta invece dal principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost. 97 Le Sezioni Unite, nell’affermare che la funzione illecita delle intese si realizza con la sostituzione del diritto del consumatore di una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una “scelta apparente”, sembra infatti aderire a quella impostazione professata da tempo dalla dottrina che pone la protezione della libertà di scelta degli operatori e degli utilizzatori finali al centro degli scopi perseguiti dal diritto antitrust, il quale è concepito quale “(…) espressione della democrazia economica e deve perciò essere vissuto come un luogo di attiva partecipazione del cittadino nella ricerca e determinazione del suo modo di vivere e del suo benessere” (così G. ROSSI , Antitrust e teoria della giustizia, cit., p. 7). 239 anche di natura risarcitoria) 98 di uno strumento assimilabile (ma con i dovuti adeguamenti) alle class actions statunitensi99 . Queste ultime, come è noto, si caratterizzano per il fatto che la proposizione di un’azione giudiziaria da parte di alcuni soggetti anziché produrre effetto soltanto inter partes, si ripercuote, sulla base di un meccanismo peraltro estraneo al nostro 98 A riguardo devono segnalarsi due proposte di legge della Camera dei Deputati del 27 marzo 2003, n. 3838 e 3839, che costituiscono, per espressa previsione delle relazioni illustrative, una risposta legislativa proprio alla sentenza 9 dicembre 2002, n. 17475, con cui la Cassazione ha escluso la legittimazione dei consumatori a far valere pretese risarcitorie per i danni cagionati dall’illecito Rc Auto, ampiamente richiamato. Le due proposte sono dirette rispettivamente ad inserire all’interno dell’art. 3, comma 1, della legge n. 281/98 l’azione di gruppo e l’azione di classe e a prevedere la legittimazione ad agire per conto e nell’interesse della classe (o del gruppo) alle associazioni di consumatori iscritte nell’elenco tenuto presso il Ministero delle Attività Produttive. La proposta n. 3838, in particolare, prevede la possibilità per le associazioni di consumatori iscritte di proporre azioni risarcitorie e restitutorie di gruppo, aventi ad oggetto somme di denaro (dovute direttamente ai singoli consumatori e agli utenti), derivanti dalla commissione da parte del professionista (nell’ambito dei rapporti giuridici nascenti da contratti conclusi secondo le modalità previste dall’art. 1342 cod. civ.) di atti illeciti plurioffensivi (mass torts), di inadempimenti e violazioni dei diritti di una pluralità di consumatori. 99 Sul punto si vedano, ad esempio, P. FAVA , L’importabilità delle class actions in Italia, in Contr. e impr., n. 1/2004, p. 166 ss. e ID., Class actions all’italiana: “Paese che vai, usanza che trovi” (l’esperienza dei principali ordinamenti giuridici stranieri e le proposte di legge n. 3838 e n. 3839), in Corr. Giur., n. 3/2004, p. 397 ss. Anche in Europa, peraltro, pur non riscontrandosi esperienze processuali analoghe a quelle statunitensi, si registra un crescente interesse verso le “class actions”, finalizzato alla predisposizione di efficaci strumenti processuali specificamente rivolti alla tutela in forma aggregata di situazioni controverse di natura seriale caratterizzate da questioni di fatto o di diritto simili o comuni. Tra gli Stati europei, il primo a munirsi di una disciplina compiuta in materia (peraltro più flessibile di quella statunitense), adeguando le proprie regole processuali alle peculiarità del contenzioso seriale tipico delle moderne economie dei paesi industrializzati, è stato il Regno Unito, con le riforme del 1998 (c.d. Woolf Reform) e del 2000 (relativa al c.d. GLO, Group Litigation Order). Per un inquadramento generale del problema dell’accesso dei consumatori alla giustizia ed una panoramica sui provvedimenti adottati dalle istituzioni comunitarie in materia, si veda C.M. VERARDI, Accesso alla giustizia e tutela collettiva dei consumatori, in Il diritto privato dell’Unione europea, a cura di A. Tizzano, vol. II, Torino, 2000, p. 1331 ss. Particolarmente interessante a riguardo si rivela il progetto elaborato dalla Commissione europea a favore del progressivo sviluppo degli strumenti di risoluzione extragiudiziale delle controversie che vedono coinvolti i consumatori, consistente nella creazione di una Rete europea extragiudiziale (EEJ-net). Creata nell’ottobre 2001 sulla scorta delle indicazioni fornite dalla risoluzione del Consiglio del 25 maggio 2000, in G.U.C.E., C155, 1, la rete si configura come una struttura di informazione e sostegno a disposizione di tutti i consumatori del paesi dell’UE e del SEE, a cui ricorrere per comporre le vertenze commerciali con le imprese residenti in un altro Stato membro partecipante al progetto. A questo fine, l’EEJ -net mette in collegamento i diversi organismi di risoluzione extragiudiziale delle vertenze in materia di consumo operanti negli Stati membri dell’UE e del SEE. In tema di risoluzione alternativa delle controversie (ADR, Alternative Dispute Resolution), si veda soprattutto il Libro Verde della Commissione [doc. COM (2002)196 def. del 19 aprile 2002]. Le esigenze di tutela collettiva dei consumatori di fronte all’introduzione di modelli di produzione e distribuzione di massa sono posti in risalto da M. BESSONE, Interesse collettivo dei consumatori e regolazione giuridica del mercato. I lineamenti di una politica del diritto, in Giur. it., 1986, IV, p. 294 ss.; B. CAPPONI - M. GASPARINETTI - C.M. 240 sistema processuale (ex art. 2909 cod. civ.), nei confronti di tutti coloro i quali, appartenendo ad una medesima categoria (o classe), non abbiano esercitato la facoltà di restarne esclusi (c.d. opt-out)100 . Senza ripercorrere il dibattito relativo alla distinzione tra interessi diffusi ed interessi collettivi - che richiederebbe ben altra analisi e competenza - molto importante ed incisiva si rivelerebbe, con riguardo al caso di specie ed alla luce delle considerazioni svolte in merito alla natura dei soggetti economici ed al carattere per lo più standardizzato dei contratti in cui l’abuso collettivo si sostanzia, l’attribuzione all’interesse individuale della possibilità di trovare protezione nel fattore associativo. All’interno del gruppo organizzato la tutela invocata dalla singola posizione soggettiva incisa (nel caso di specie, quella del consumatore che ha dovuto pagare un sovraprezzo per effetto dell’alterazione concordata delle condizioni di mercato) troverebbe infatti un momento di grande potenziamento 101 . VERARDI (a cura di), La tutela collettiva dei consumatori, Napoli, 1995, ivi ampi richiami bibliografici.. 100 Come ricorda P. FAVA , op. ult. cit., p. 399, nel sistema statunitense (che disciplina le class actions nella Rule 23 delle Federal Rules of Civil Procedure), perché uno o più membri di una classe possano citare o essere citati in giudizio come parti rappresentative di tutti gli altri, è necessario che sussistano innanzitutto cumulativamente tutti gli elementi del tipo a), ossia numerosity, commonality, typicality, fairness and aequacy: il primo requisito postula, per la formazione di una classe, la presenza di una moltitudine di persone danneggiate da una pratica di mercato illecita; la commonality, invece, richiede che le pretese implichino la soluzione di questioni di fatto o di diritto comuni a tutti i membri della classe; in base alla typicality, la pretesa dell’attore rappresentativo deve essere “tipicamente” quella di un altro membro della classe, nel senso che deve essere proprio quella che farebbe valere un class member. Difatti, se l’attore rappresentativo ha sofferto un danno diverso o ha interessi differenti rispetto ai soggetti rappresentati, tale requisito non può dirsi soddisfatto; l’ultimo requisito (fair and adequate representation), richiede invece che l’attore rappresentativo (ma anche il suo avvocato) sia in grado di rappresentare la classe con lealtà, senza conflitti di interesse, in maniera tecnicamente ed economicamente adeguata, agendo nel miglior modo possibile a tutela degli interessi dell’intera classe. In presenza di tutti i requisiti sub a), il giudice rilascerà la certificazione della classe, alla quale dovranno poi aggiungersi in via alternativa i requisiti indicati dalla Rule 23, lett. b), delle Federal Rules of Civil Procedure, al fine di individuare il tipo di azione esperibile. A riguardo si veda anche C. CONSOLO, Class actions fuori dagli USA? (Un’indagine preliminare sul versante della tutela dei crediti di massa: funzione sostanziale e struttura processuale minima), in Riv. dir. civ., 1993, p. 609 ss.; A. GIUSSANI, Studi sulle “class actions”, Padova, 1996. 101 Nel descriverne le caratteristiche salienti, C.M. VERARDI, Accesso alla giustizia e tutela collettiva dei consumatori, op. cit., p. 1348 s., ricorda che le class actions si caratterizzano unicamente per il fatto che non è necessario che tutti i membri della classe siano citati in giudizio o anche conosciuti (…). Tale strumento realizza, dunque, un’opportuna semplificazione di natura processuale, facilitando la possibilità di risarcimento dei danni negli affari individuali di scarso valore, in quanto consente di ridurre le spese processuali e di ottenere risultati più efficaci, mettendo in comune ai consumatori interessati le informazioni rilevanti ed i mezzi finanziari necessari. La nozione di azione di classe non appartiene alle tradizioni giuridiche degli Stati membri dell’Unione; il modello non è 241 Come osservato con riguardo al sistema statunitense, infatti, le class actions hanno riscosso un grande successo assicurando ad ogni cittadino danneggiato l’accesso alla giustizia con modalità efficienti ed economiche anche per pretese di modesto ammontare (le c.d. small claims), tra l’altro svolgendo funzioni di deterrenza nello stimolare comportamenti migliorativi da parte degli operatori i quali, non avvertendo il rischio di potenziali iniziative giudiziarie, avrebbero altrimenti una debole motivazione a rispettare la legge e ad improntare la propria condotta al principio di lealtà e correttezza nelle relazioni economiche. Un rimedio di questo tipo - il quale non potrebbe comunque, in ragione della incompatibilità sostanziale tra le class actions del modello nordamericano con il nostro sistema processuale, essere trasposto tale e quale 102 - renderebbe dunque certamente più efficace ed incisiva l’azione risarcitoria, cui il singolo spesso è in concreto indotto a rinunciare ove chiamato ad affrontare costi di giustizia più elevati rispetto all’ipotetico ristoro. L’attuale sistema normativo italiano, peraltro, non prevede ancora questa eventualità, atteso che la legge n. 281/98 - che pure estende (art. 3) per la tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti la legittimazione ad agire in giudizio a quelle associazioni che possiedono una determinata rappresentatività sul territorio nazionale (art. 5) - contempla la possibilità di un’azione collettiva esclusivamente al fine di chiedere al giudice: 1) di inibire la condotta lesiva; 2) di adottare misure di correzione o di eliminazione degli effetti dannosi cagionati dalle violazioni accertate; 3) di disporre la pubblicazione su uno o più quotidiani a diffusione nazionale del provvedimento, ove la pubblicazione sia in grado di contribuire ad eliminare o correggere gli effetti della violazione. L’estensione della legittimazione processuale ad una categoria indistinta di soggetti, per mezzo della relativa associazione di categoria, non riguarda dunque la facilmente trasponibile nel sistema comunitario anche perché molti aspetti della pratica giudiziaria americana non sono prospettabili nei paesi europei (…)”. 102 Contrario alla introduzione nel nostro sistema di un istituto processuale che operi in modo analogo alle class actions statunitensi per un insuperabile contrasto con le garanzie riconosciute dall’art. 24 Cost. è P. RESCIGNO, Sulla compatibilità tra il modello processuale della “class action” ed i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, in Giur. it., 2000, p. 2224 ss. 242 richiesta di ristoro economico dei danni patrimoniali subiti, che resta quindi possibile solo ai singoli individui in base alle regole processuali generali. Un simile adeguamento, in un’ottica di compensazione del danno concorrenziale, pare quindi utile affinchè il diritto antitrust possa davvero essere “espressione della democrazia economica e (…) perciò vissuto come un luogo di attiva partecipazione del cittadino nella ricerca e determinazione del suo modo di vivere e del suo benessere. Ciò spiega (infatti) la meritevolezza costante delle sue finalità ed il loro continuo adeguamento alla necessità del benessere collettivo”103 . 4. Considerazioni conclusive Nello sforzo di raccogliere, in esito alle osservazioni da ultimo sviluppate, le conclusioni finali sull’argomento, non sembra fuori luogo, allargando l’angolo di osservazione dal tema specifico dell’interazione intesa a monte/contratto a valle, svolgere alcune considerazioni in merito al metodo di analisi adottato dagli studiosi del diritto antitrust, atte a motivare le ragioni della perdurante oscillazione di tendenze e soluzioni interpretative suggerite con riguardo a quelle fattispecie vietate dalla legge n. 287/90 che, come quella oggetto del presente studio, involgono tematiche e questioni di “stretto” diritto civile più da vicino ed in maniera più penetrante. Il criterio d’indagine assunto dal diritto della concorrenza - orientato massimamente a valutare gli effetti che l’infrazione antitrust è in grado di produrre sulla struttura di mercato, piuttosto che i soli comportamenti mediante i quali tali effetti vengono in essere - ric hiede infatti un atteggiamento pragmatico ed analitico il quale, disancorato dalle “strettezze” dogmatiche definite dalla tradizione ed ispirato dall’approccio economico richiamato nelle ultime Comunicazioni europee e 103 Così G. ROSSI , Antitrust e teoria della giustizia, op. cit., p. 7. 243 largamente impiegato dalle corti statunitensi, si spinge a dare rilievo preminente al dato sostanziale piuttosto che a quello formale 104 . Qualunque sforzo ricostruttivo che non sappia tenere conto di tali circostanze, pare di conseguenza destinato, da questo punto di vista ed in virtù del vincolo ermeneutico di cui al comma 4 dell’art. 1 della legge n. 287/90 - che impone alle autorità nazionali di interpretare ed applicare il diritto della concorrenza in conformità ai principi sanciti dagli atti normativi e dalla giurisprudenza comunitari a risolversi inevitabilmente in uno sterile esercizio dogmatico privo di qualsiasi utilità pratica. Ciò induce quindi a riconoscere alla ricostruzione interpretativa da ultima esposta - nutrita della più ampia considerazione dei vincoli interpretativi ed applicativi che l’appartenenza all’Unione europea impone ed attento all’approccio economicistico che il diritto antitrust fa proprio e suffragata dalla più recente giurisprudenza di legittimità - un grande valore, specie per l’attenzione e la costanza 104 Che l’utilizzo di strumenti economici al fine di valutare i concreti effetti delle intese sul mercato di riferimento sia un dato ormai acquisito anche per la Commissione è del resto confermato dai già menzionati Regolamenti CE in materia di accordi di ricerca e sviluppo (n. 2659/00) e specializzazione (n. 2658/00), nei quali l’abbandono della precedente impostazione (basata su un elenco di clausole esentate) a vantaggio di una definizione delle categorie di accordi esentati che faccia riferimento al potere di mercato è giustificato sulla base della coerenza con “un’impostazione di tipo economico intesa a valutare le ripercussioni degli accordi sul mercato”. Sottolinea quali effetti negativi possa comportare una valutazione rigidamente formalistico-contrattuale delle intese, senza l’ausilio di alcuna analisi economica, anche G. D’A TTORRE , Una “ragionevole” concorrenza: il ruolo della “rule of reason” dopo la riforma del diritto antitrust comunitario, op. cit., p. 93, che richiama a sua volta F. GHEZZI, Verso un diritto antitrust comune?, cit., p. 517. A riguardo si vedano anche: G. BERNINI, op. cit., p. 178 e, con riguardo alle operazioni di concentrazione, V. M ANGINI G. OLIVIERI , op. cit., p. 81; C. A NGELICI , in Diritto commerciale. Istituzioni di diritto, Roma-Bari, 2002, p. 106, il quale sottolinea proprio il fatto che, da un punto di vista “concorrenziale”, non interessano il significato statico di situazione di mercato, e neppure i risultati economici; ciò che assume rilievo primario, infatti, è il significato di “processo, quello appunto caratterizzato da un adeguato grado di effettività di tali libertà”; M. LIBERTINI, Autonomia privata e concorrenza nel diritto italiano, cit., p. 438, secondo il quale la necessità di ricorrere a criteri empirici nella politica della concorrenza è dettata dall’opportunità di intendere la concorrenza come bene giuridico ricostruito in senso dinamico, ovvero come processo, non come situazione ottimale, che richiede una valutazione della liceità delle condotte imprenditoriali attenta al mutare del relativo assetto di mercato, della durata della condotta e degli effetti da essa prodotti nel tempo. La tendenza è tra l’altro confermata dal menzionato Libro bianco del 1999 sulla modernizzazione con il quale la Commissione europea, anticipando la svolta realizzata dal Consiglio con il successivo Regolamento n. 1/2003, ha espressamente ribadito che “l’attuazione della riforma si inserirà nel contesto di un approccio rigorosamente economico dell’applicazione dell’art. 81” (cfr. par. 75). In questo senso, giova ribadirlo, si muovono anche le già richiamateLinee direttrici in materia di accordi verticali, che adottano un criterio del tutto simile a quello delle corti statunitensi. 244 con cui rimanda, nella lettura della ratio antimonopolistica e degli strumenti di cui questa si avvale, alla normativa ed alla giurisprudenza comunitaria 105 . L’approccio del diritto antitrust, peraltro, non può indurre a trascurare o a superare con “leggerezza” né il dato normativo né, tantomeno, le categorie concettuali consegnateci dalla nostra tradizione civilistica, che inducono a ridimensionare fortemente le conclusioni cui una miope ed asettica applicazione del diritto antitrust sembrerebbe condurre. In tale contesto, il compito affidato a dottrina e giurisprudenza non è quindi affatto agevole: se un’actio finium regundorum appare - prima ancora che opportuna - necessaria, è altrettanto chiaro che l’analisi del rapporto ravvisabile tra i contratti cosiddetti a valle e l’intesa a monte non può in nessun caso prescindere dalla peculiarità della materia e degli interessi (generali e particolari) tutelati106 . Per questa ragione, richiamando le parole di un noto giurista dei nostri tempi, si deve affermare con forza che “la repressione e la eliminazione dell’infrazione non possono coinvolgere i rapporti contrattuali nei quali si sia già svolta l’intesa. In presenza di consimili rapporti, l’iniziativa di investirli allegando la illiceità dell’intesa non può essere che della controparte del soggetto dell’intesa medesima, ma dell’ammissibilità e dell’esito di una simile iniziativa – sia pure in presenza di un’accertato comportamento anticoncorrenziale – è a giudicarsi, in coordinamento con la normativa antitrust, secondo il diritto dei contratti” 107 . 105 Dinanzi ad un fenomeno di vasta portata come il mercato - informato alla luce dei Trattati dai principi della piena integrazione e della libertà di circolazione e degli scambi - è infatti imprescindibile assumere come punto di riferimento costante l’ordinamento comunitario (del quale la protezione del consumatore rappresenta uno degli aspetti più qualificanti) in quanto, proprio in virtù del rapporto di integrazione che lo pone in posizione di prevalenza rispetto all’ordinamento interno (primato tra l’altro costituzionalmente riconosciuto dall’art. 117 Cost. a seguito della riforma del Titolo V), esso produce sul nostro sistema conseguenze giuridiche di grande rilievo, la cui mancata considerazione rischia di inficiare la correttezza e l’esattezza della ricostruzione proposta in ordine alla disciplina interna. 106 Come specifica F. SILVA , Efficienza e politica antitrust, in Antitrust between EC law and national law (Antitrust fra diritto nazionale e diritto comunitario), a cura di E.A. Raffaelli, Milano, 1998, p. 238, nota 28, la diversità di posizione tra economisti e giuristi in ordine ad un medesimo concetto si inquadra in una più generale diversità di prospettiva: mentre il ragionamento economico valuta le azioni sulla base del risultato, il diritto, al contrario, valuta i comportamenti sulla base della loro liceità, mosso da un criterio di giustizia, ossi di rispetto della legge. 107 G. OPPO, Costituzione e diritto privato nella “tutela della concorrenza”, op. cit., pp. 552-553. 245 Alla luce di ciò pare dunque più opportuno - sulla base delle ragioni analiticamente esposte nel paragrafo che precede - abbandonare quelle soluzioni ermeneutiche del problema della ripercussione della nullità di un’intesa anticoncorrenziale sui contratti sottostanti che, privilegiando un approccio di stampo economicistico, discorrono della questione in termini invalidativi. Simili ricostruzioni infatti, come già osservato, appaiono, ad un esame più attento, funzionalmente inidonee a garantire la tutela dell’interesse dalla cui cura si è supposto voler muovere. La difesa della controparte negoziale della singola impresa collusa - interesse assolutamente preminente anche in un’ottica di stabilità ed efficienza del mercato invoca infatti strumenti efficienti e funzionali in grado di ripristinare il funzionamento virtuoso (o almeno tendenzialmente tale) del sistema- mercato senza mortificare l’interesse privato del singolo soggetto inciso a non vedersi privato del bene di scambio. Un ruolo chiave ricopre quindi il rimedio risarcitorio, applicato in conformità allo statuto delineato dal disposto combinato dell’art. 2043 cod. civ. e dell’art. 33 della legge antitrust, secondo il recente dettato giurisprudenziale delle Sezioni Unite. Nell’ottica complessivamente descritta, particolarmente significativo (come rilevato poc’anzi) si rivelerebbe poi, ai fini della congiunta ed utile applicazione del diritto antitrust e della protezione del soggetto debole del contratto a valle (rientrante, per lo più, in uno standard negoziale) la previsione di uno strumento processuale (accompagnato dagli aggiustamenti che un “trapianto” nel nostro ordinamento comunque richiede) assimilabile alle class actions statunitensi. Nel quadro dell’evoluzione delle relazioni economiche verso rapporti di massa, che vedono consumatori, utenti, investitori, risparmiatori contrapposti a forti operatori economici dall’identità sempre più spesso multinazionale ed associata, l’opportunità concreta dei primi di intervenire attivamente a tutela dei propri interessi in forma aggregata è infatti affidata alla possibilità offerta da strumenti come le azioni di classe di innestare quel fenomeno di bilanciamento tra poteri 246 privati che nelle società evolute rappresenta il più potente antidoto nei confronti di poteri forti quale quello imprenditoriale. La crisi del diritto degli individui e la sua sostituzione con il diritto delle categorie, innestata dall’apertura dei mercati e dalla creazione di spazi dell’economia sempre più vasti, accresce quindi l’utilità che un meccanismo di tutela aggregata del tipo richiamato rivestirebbe in relazione all’obiettivo di garantire il soddisfacimento delle pretese risarcitorie avanzate - come nel caso che ci riguarda - da moltitudini massificate di consumatori, al tempo stesso disincentivando il ricorso da parte delle imprese a strategie collusive e dunque a favorire il mantenimento od il ripristino del regime concorrenziale. Come risulta ormai più che evidente secondo le linee e le prospettive sinora descritte, il tema che ci ha qui interessato più da vicino e l’indagine svolta a tal fine, superando la necessità (e l’obiettivo) di formulare una personale risposta in ordine alle problematiche sollevate dal discusso e multiforme rapporto “interattivo” tra realtà economica e di mercato e sottostante microcosmo negoziale, finiscono - a modesto avviso di Chi scrive - per rivelare e dischiudere orizzonti di studio di grande ampiezza e complessità, involgenti profili di analisi non ristretti a semplici riflessioni accademiche, ma profondamente calati nel quotidiano, espressione della vita concreta del nostro Paese, costantemente richiamato dall’essere ormai parte a tutti gli effetti del sistema- Europa a rispondere in maniera sempre più efficiente ed efficace alla sfida della competitività 108 . 108 A riguardo si veda, da ultimo, il decreto c.d. “competitività” (D. l. 14 marzo 2005, n. 35, “Disposizioni urgenti nell’ambito del piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale”, in G.U., 16 marzo 2005, n. 62). 247 Riferimenti bibliografici AA . 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