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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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R.D. 19 ottobre 1930, n. 1398 (suppl. ord. G.U. 26 ottobre 1930, n. 251).
Approvazione del testo definitivo del codice penale.
TITOLO I
DELLA LEGGE PENALE
1. Reati e pene: disposizione espressa di legge.
Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato
dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite [Cost. 25, comma 2; disp. prel. c.c. 14;
c.p. 1889, 1]1.
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V. L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1 e Disp. prel. c.c. art. 14: Applicazione delle leggi penali ed eccezionali. Le leggi
penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati.
GIURISPRUDENZA
1. Questioni di legittimità costituzionale; 2. Il principio di legalità; 2.1. Profili generali; 2.2. Principio di legalità ed ordinamento comunitario; 3. Le leggi regionali; 3.1. Riserva di legge statale: fondamento; 3.2. Operatività della legge regionale in materia penale; 3.3. Edilizia; 3.4. Casistica; 4. Le sentenze della Corte costituzionale; 4.1. Fondamento; 4.2. Norme
penali di favore e previsioni normative che “delimitano” l’area di intervento di una norma incriminatrice. Differenze;
4.2.1. Le norme penali di favore; 4.2.2. Applicazioni; 4.3. Sentenze additive in malam partem della Corte Costituzionale;
4.4. Casistica; 5. Le norme penali in bianco; 6. Principio di determinatezza e tassatività della fattispecie; 6.1. Fondamento; 6.2. Le clausole elastiche; 6.2.1. Art. 14 comma 5-ter D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286; 6.2.1.1. “Giustificato motivo”:
legittimità costituzionale e interpretazione; 6.2.2. Onere della prova; 7. Il divieto di analogia in malam partem; 7.1
L’avviso di conclusione delle indagini di cui all’articolo 415-bis c.p.p.; 8. La rilevanze dell’interpretazione estensiva; 9.
Ammissibilità e limiti del sindacato del giudice penale sull’atto giuridico assunto come dato della fattispecie penale; 9.1.
Provvedimento legislativo; 9.2. Provvedimento amministrativo; 9.2.1. Reati edilizi; 9.2.2. Distruzione o deturpamento di
bellezze naturali; 9.2.3. Abusiva apertura di luoghi di pubblico spettacolo; 9.2.4. Reati ambientali; 9.2.5. Inottemperanza, da parte dello straniero, all’ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato, emessa ai sensi dell’art. 14, comma
5-bis, del t.u. sull’immigrazione emanato con D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286; 9.2.6. Art. 650 c.p.; 9.3. Atto negoziale
privato; 9.4. Provvedimento giudiziale; 10. Principio di legalità e determinazione della pena; 11. La legalità è necessaria
ma non sufficiente: il cd. principio di offensività; 12. Il principio di tassatività; 13. Profili processuali.
1. Questioni di legittimità costituzionale.
L’art. 66 comma 1 L. 24 novembre 1981, n. 689, il quale prevede la conversione della pena della
semilibertà e della libertà controllata in pene detentive, qualora sia violata da parte del condannato,
anche una delle prescrizioni stabilite per beneficiare delle pene sostitutive, non preclude al tribunale di
sorveglianza di valutare se le violazioni delle prescrizioni siano o non incompatibili con la prosecuzione
della sanzione sostitutiva da convertire; pertanto il cit. art. 66 comma 1 legge n. 689 del 1981, non è in
contrasto con l’art. 27 Cost. attesa l’idoneità del presupposto che il giudice di sorveglianza debba applicare la conversione delle pene sostitutive con criteri di automaticità, in caso di violazione di anche una sola
delle prescrizioni, in contrasto col principio della funzione rieducativa della pena. Corte cost., 28 aprile
1992, n. 199.
Non risponde al principio di legalità la norma penale che stabilisca, per un determinato reato, il
minimo della pena irrogabile e non anche il massimo o preveda un eccessivo divario fra il minimo ed il
massimo della pena, dovendo la discrezionalità giudiziale nella determinazione concreta della pena trovare un ragionevole limite nella legge; pertanto, è costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art.
25 comma 2 cost., l’art. 122 c.p.m.p., nella parte in cui, nel prevedere il reato di violata consegna da parte
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
di un militare preposto alla guardia di cosa determinata, commina, per tale reato, la pena della reclusione
militare non inferiore a due anni, consentendo così che il limite massimo della pena irrogabile sia di 24
anni, a norma dell’art. 26 cod. cit. Corte cost., 24 giugno 1992, n. 299.
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del secondo comma dell’art.
73 c.p. (che prevede che quando concorrono più delitti per ciascuno dei quali deve infliggersi la pena
della reclusione non inferiore a ventiquattro anni, si applica l’ergastolo) sollevata sul rilievo che tale norma contrasterebbe con i principi di legalità della pena e del fine rieducativo cui la stessa deve tendere,
rispettivamente garantiti, il primo, dal combinato disposto degli artt. 25, comma secondo, Cost. e 1 c.p. e,
il secondo, dall’art. 27, comma terzo, Cost. Non vi è infatti contrasto con il principio di legalità in quanto
la pena legale non è soltanto quella prevista per le singole fattispecie penali, bensì quella risultante dalla
applicazione delle varie disposizioni di legge che attraverso meccanismi diversi - quale, tra gli altri, il
cumulo giuridico di pene - incidono sul trattamento sanzionatorio. Egualmente insussistente è la violazione del disposto dell’art. 27 Cost., che si assume deriverebbe dal fatto che la comminazione della pena
perpetua renderebbe impossibile la rieducazione del condannato, giacché nel nostro ordinamento non
vige il principio della inderogabilità dell’integrale attuazione della pena, sicché anche i condannati all’ergastolo, trascorso un periodo di non molto superiore a quelli previsti per coloro che siano in espiazione
delle pene temporanee di più lunga durata, hanno diritto a che, verificandosi le condizioni poste dalle
norme sull’ordinamento penitenziario, si valuti se la quantità di pena già espiata abbia positivamente
assolto al suo fine rieducativo, con la rinuncia, condizionata o definitiva, da parte dello stato alla sua
ulteriore pretesa punitiva. Cass. 19 aprile 1991, n. 1074.
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’ultima parte del comma 2 dell’art. 195
c.p.m.p., che stabilisce una circostanza aggravante facoltativa dei reati di violenza contro un inferiore
mediante omicidio o mediante lesione personale gravissima o grave, sollevata in relazione all’art. 25
comma 2 Cost., per violazione del principio di legalità, in ragione della indeterminatezza della aggravante, nonché in relazione agli artt. 24 comma 2 Cost., per violazione del diritto di difesa ed art. 27 comma 1
Cost., per violazione del principio riguardante la personalità della responsabilità penale: come è dimostrato dall’esistenza dell’aggravante nel testo previgente, l’aumento di pena stabilito nell’ultima parte del
comma 2 dell’art. 195 c.p.m.p., di facoltativa applicazione dopo la novella recata dalla L., n. 689 del 1985,
si riferisce alla tutela del servizio e della disciplina, di tal che si palesano infondati i dubbi di costituzionalità, espressi, per una pretesa indeterminatezza della norma, in ordine alla violazione dei principi di legalità, di personalità della responsabilità penale e per violazione del diritto di difesa; ma, stabilito l’oggetto
della circostanza aggravante facoltativa, spetta al giudice l’individuazione della lesione rilevante dell’interesse alla disciplina militare ed è addossato all’accusa l’onere della contestazione degli elementi di fatto
idonei a concretare tale rilevante lesione. Corte cost. 13, maggio 1991, n. 203.
L’art. 2 comma 2 L. 21 febbraio 1990, n. 36 non è in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo che
esso irragionevolmente sottoporrebbe alla medesima sanzione la mancanza di porto d’arma comune da
sparo e quella del porto d’arma giocattolo, con canna non occlusa da un visibile tappo rosso, poiché, pur
essendo diversa la potenzialità offensiva del porto abusivo d’arma comune e del porto d’arma giocattolo
senza il prescritto dispositivo, di cui ci si può servire solo a fini intimidatori, è consentito al giudice di
graduare la sanzione fra un minimo ed un massimo ed è consentito al giudice stesso di diminuire la
pena fino a due mesi con il limite di sei mesi di reclusione, tenendo conto della qualità dell’arma. Corte
cost., 18 giugno 1991, n. 285.
È infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 71 72 e 72-quater, come mod. della L.
26 giugno 1990, n. 162 e corrispondenti agli artt. 73, 75 e 78 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sollevata in
riferimento all’art. 25 comma 2 Cost., nella parte in cui dette norme individuano la dose media giornaliera
mediante rinvio a provvedimento amministrativo, in quanto appare sufficientemente determinato il fatto
cui è riferita la sanzione penale, atteso che nel rinvio operato dal censurato art. 78 D.P.R. 9 ottobre 1990, n.
309 i parametri indicati rappresentano vincoli sufficienti a restringere le discrezionalità della p.a. nell’ambito di una valutazione strettamente tecnica da ritenersi idonea, nel pieno rispetto del principio di legalità,
alla precisazione del contenuto della norma incriminatrice. Corte cost., 11 luglio 1991, n. 333.
È manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3, 25 e 27 Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 20 e 29 c.p. che impongono l’interdizione dai pubblici uffici come pena accessoria ad alcune
ipotesi di condanna: a) perché non sussiste disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e privati, non
essendo irragionevole la scelta del legislatore intesa ad assicurare un corretto esercizio dell’amministrazione
pubblica; b) perché non risulta vulnerato il principio di legalità della pena che richiede soltanto la sua preventiva previsione mediante legge, ma non anche che quest’ultima ne specifichi i metodi di applicazione; c)
perché non risulta violato il principio di adeguatezza della pena, in quanto l’entità della pena accessoria è
direttamente collegata a quella della pena principale irrogata. Cass. 21 marzo 1990, n. 3995.
La modifica favorevole all’imputato di un atto dell’esecutivo, cui la norma penale si richiama, non
preclude la posizione della questione di legittimità costituzionale di quest’ultima, essendo precluso
all’esecutivo ogni ingerenza in ordine agli elementi essenziali del fatto penalmente rilevante, siano essi
sfavorevoli che favorevoli all’imputato. Corte cost., 14 giugno 1990, n. 282.
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In ordine alla delimitazione dei rapporti tra legge penale e fonti subordinate alla medesima, è
giurisprudenza costante di questa Corte il ritenere che il principio di legalità in materia penale è soddisfatto sotto il profilo della riserva di legge (art 25, 2 comma Cost) allorquando la legge determina con
sufficiente specificazione il fatto cui è riferita la sanzione penale. In corrispondenza della ratio garantista
della ratio garantista della riserva è infatti necessario che la legge consenta di distinguere tra la sfera del
lecito e quella dell’illecito, fornendo a tal fine un’indicazione normativa sufficiente ad orientare la condotta
dei consociati. In questo senso si è ritenuto non contrasti con il principio della riserva la funzione integrativa svolta da un provvedimento amministrativo rispetto ad elementi normativi del fatto, sottratti alla
possibilità di un’anticipata indicazione particolareggiata da parte della legge, quando il contenuto dell’illecito sia peraltro da essere definito (come accade per gli elenchi della sostanze psicotrope e stupefacenti
contenuti in un decreto ministeriale, correlati ad un divieto i cui essenziali termini normativi risultano
legalmente definiti) In ipotesi di questo tipo, infatti l’alternativa sarebbe quella di rimettere al giudice
l’apprezzamento dell’elemento normativo, ma ciò determinerebbe un significativo scandimento di certezza conseguente alle inevitabili oscillazioni applicative. Corte cost,. 14 giugno 1990, n. 282.
La determinatezza (in funzione di garanzia della libertà o in funzione della tutela dell’uguaglianza) è
un modo di essere delle norme (e dei loro elementi) come risultano dagli enunciati legislativi, dall’interpretazione dei medesimi e dal loro precisarsi attraverso l’applicazione: se ne deve concludere dichiarando che l’enunciato legislativo «misura rilevante» di cui all’art. 4 comma 1, n. 7 D.L., n. 429 del 1982
è, nei limiti indicati in motivazione, sufficientemente determinato. Conseguentemente va dichiarata non
fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 comma 1, n. 7 D.L., n. 429 del 1982 in relazione
agli artt. 3 e 25 Cost. Corte cost., 16 maggio 1989, n. 247.
Rientra nella discrezionalità del legislatore, sindacabile solo in caso di palese irrazionalità, stabilire la
minore o maggiore gravità delle ipotesi criminose, secondo valutazioni di politica criminale, pertanto,
l’art. 122 c.p.m.p., che punisce il reato di violata consegna da parte di un militare preposto alla guardia di
cosa determinata con la reclusione non inferiore a due anni, astrattamente estensibile fino a 24 anni, non
è incostituzionale per violazione degli art. 3 e 27 comma 1 e 3 cost., prevedendo una pena che non risulta
irrazionalmente sbilanciata rispetto a quello di violata consegna prevista dagli art. 118 e 120 stesso codice
ed essendo rimesso al prudente apprezzamento del giudice irrogare una pena soggettivamente ed oggettivamente proporzionata al fatto commesso, sicché l’eventualità di una pena estensibile fino a 24 anni
si presenta come mera ipotesi teorica. Corte cost., 4 aprile 1985, n. 102.
È manifestamente infondata in riferimento agli art. 25 comma 2, 24 comma 2 e 112 cost. - la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 1, L. 17 agosto 1942, n. 1150, come modificato dall’art. 8 L.
6 agosto 1967, n. 765. Ad avviso del giudice “a quo” la norma impugnata non determinerebbe in modo
tassativo la fattispecie penale, in quanto il termine “lottizzazione” sarebbe suscettibile di interpretazioni
divergenti, tali da comportare anche la violazione del diritto di difesa e il principio dell’obbligatorietà
dell’azione penale. La Corte costituzionale, per contro, con numerose pronunce ha ritenuto legittimo,
anche in riferimento alla materia edilizia, l’uso di espressioni di comune esperienza, quali “limitata entità”
e “limitate modificazioni”, osservando che le stesse non impongono al giudice alcun onere esorbitante
dal normale compito di interpretazione. È manifestamente infondata - in riferimento all’art. 25 comma 2
cost. - la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 comma 3 della L. 18 aprile 1975, n. 110 (in
relazione all’art. 23 stessa legge), nella parte in cui, per le armi ad aria compressa, sia lunghe sia corte,
attribuisce alla commissione consultiva, prevista dall’art. 6 della stessa legge, il potere di escludere, in
relazione alle caratteristiche proprie di tali armi, l’attitudine a recare offesa alla persona, già dichiarata non
fondata con sentenza, n. 108 del 1982 e manifestamente infondata con ordinanze, n. 232 e 238 del 1982;
58, 112, 211 del 1983. Nell’ordinanza di rimessione non vengono addotti argomenti nuovi, rispetto a
quelli già esaminati dalla Corte, mentre nessuna incidenza rivestono le modificazioni apportate all’art. 6
della L., n. 110 del 1975 dall’art. 2 della L. 16 luglio 1982, n. 432. Corte cost., 25 gennaio 1984, n. 5.
Non è fondata - in riferimento all’art. 25 comma 2 cost. - la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 4 comma 2 e 3 della L. 18 aprile 1975, n. 110. In base all’art. 4 comma 2 della legge cit. “senza
giustificato motivo, non possono portarsi fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa
bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene,
fionde, bulloni, sfere metalliche, nonché qualsiasi altro strumento non considerato espressamente come
arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla
persona”. Il successivo comma 3 irroga in proposito la sanzione. Si sostiene che la norma sarebbe in
contrasto con la riserva di legge in materia penale (ex art. 25 comma 2 cost.) per la sua astrattezza e
genericità suscettibile di ricomprendere indefinite attività concrete, non permettendo di distinguere i
comportamenti leciti da quelli vietati; essendo stato abbandonato il criterio della idoneità dell’offesa,
sostituito da quello della utilizzazione per l’offesa alla persona, avuto riguardo alle circostanze di luogo e
di tempo, un numero indefinito di oggetti vengono ad assumere attitudine potenziale a diventare armi
improprie; non dipendendo la commissione del reato dal comportamento dell’imputato, ma da una situazione posta in essere da altri o accidentale, o comunque estranea all’agente, e dalla relativa valutazione
compiuta in sede processuale, con violazione del principio di tipicità della fattispecie legale. Va osservato
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in contrario che la stretta riserva di legge di cui all’art. 25 comma 2 cost. postula la specificazione del fatto
previsto come reato e l’indicazione della pena, senza che si richieda un criterio di rigorosa descrizione del
fatto medesimo, che può risultare sommaria, e consistere nell’uso di espressioni meramente indicative,
estensive, esemplificative per realizzare, nel miglior modo possibile, l’esigenza di una previsione tipica
dei fatti costituenti reato, spettando all’interprete operare l’inserzione del caso concreto nella fattispecie
normativa (anche se molto ampia e non di agevole delimitazione). Lo scopo perseguito dal legislatore va
accertato con riguardo al bene tutelato, elemento essenziale della norma penale, che rispetto all’art. 4 in
esame è rappresentato dalla pacifica convivenza sociale. Tale articolo non può considerarsi di contenuto
non predeterminato perché chiaramente stabilisce specifici criteri di individuazione delle armi improprie:
idoneità degli strumenti all’offesa alla persona; non equivocità del proposito di arrecare tale offesa (desumibile dalle circostanze di tempo e di luogo, e dalla mancanza di motivi che giustificano il porto degli
strumenti fuori dalla propria abitazione o dalle appartenenze di questa). Spetta al giudice l’accertamento,
nei singoli casi, dei requisiti previsti dalla legge per l’applicabilità della norma e per la eventuale concessione dell’attenuante. Corte cost., 29 aprile 1982, n. 79.
2. Il principio di legalità.
2.1. Profili generali.
In tema di illeciti amministrativi sanzionabili, il principio generale di cui all’art. 3 della L., n. 689 del
1981, secondo il quale ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria,
sia essa dolosa o colposa, va coordinato con il principio, anch’esso fondamentale, di tipicità, con la
conseguenza che se la fattispecie prevista dalla norma sanzionatrice configura un’azione od omissione
che implichi necessariamente l’intenzionalità lesiva, nella quale si sostanzia il dolo, risulta inapplicabile la
regola dettata dalla predetta disposizione. Pertanto, poiché la norma della legge reg. delle Marche, n. 10
del 1997, che punisce l’abbandono degli animali da affezione, allo scopo di tutelare gli stessi e contenere
il fenomeno del randagismo, delinea una condotta caratterizzata da un’intenzionale derelictio (diversamente da quanto previsto dall’art. 672 c.p. e successive modifiche relativo allo smarrimento di animali,
che sanziona anche il malgoverno degli animali pericolosi, non custoditi con “le debite cautele”), va
cassata la sentenza del giudice di merito che, in caso di smarrimento di un animale domestico, abbia
ritenuto l’autore del fatto responsabile indifferentemente a titolo di dolo o di colpa. Cass. 19 gennaio
2006, n. 981.
compatibile con i principi costituzionali della riserva di legge in materia penale una norma di legge
che demanda ad una fonte normativa secondaria la mera specificazione, sul piano tecnico, di elementi
della fattispecie già essenzialmente delineati dalla legge. Cass., Sez. Un., 25 gennaio 2006, n. 3087.
Il principio di legalità della pena e quello di applicazione, in caso di successione di leggi penali, della
legge più favorevole, operano anche con riguardo alle pene accessorie, per cui anche l’eventuale applicazione illegale di tali pene avvenuta in sede di cognizione può essere rilevata, così come si verifica per le
altre, in sede di esecuzione, con adozione dei conseguenti provvedimenti (nella specie, alla luce di tali
principi, la Corte, ritenuta illegale l’applicazione dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici disposta dal
giudice di cognizione ai sensi dell’art. 317 bis c.p. nonostante che il fatto risalisse ad epoca anteriore all’entrata in vigore di tale norma e fosse quindi soggetto alla più favorevole disciplina all’epoca vigente, ha
annullato senza rinvio, disponendo essa stessa la sostituzione dell’interdizione perpetua con quella temporanea, l’ordinanza con la quale il giudice dell’esecuzione, richiamandosi all’irrevocabilità del giudicato, aveva respinto la richiesta del condannato volta ad ottenere detta sostituzione). Cass. 25 febbraio 2005, n. 9456.
L’art. 1 della legge n. 689 del 1981 sancisce il principio di legalità anche per l’illecito amministrativo, sicché in assenza di una norma specifica che consenta l’applicazione di detta sanzione retroattivamente (ex artt. 40 e 41 legge n. 689 del 1981), essendo stato costituzionalizzato il principio di irretroattività
solo per la materia penale dall’art. 25 Cost., la stessa non può essere applicata che per l’avvenire. Né può
invocarsi il terzo comma dell’art. 2 c.p., il quale concerne solo il rapporto tra due fattispecie penali incriminatrici e non prevede la successione di un illecito amministrativo ad un reato. Cass. 5617 del 3 maggio
1996, n. 5617.
La norma dell’art. 56 c.p. non fa esclusivo riferimento alla figura tipica del reato, ma anche a quella del
reato circostanziato, per cui l’estensione al tentativo delle circostanze previste per il corrispondente reato
consumato comporta un problema d semplice compatibilità logico-giuridica che non tocca il principio della
legalità. Infatti, ai fini della configurazione del tentativo di delitto aggravato, oltre al criterio della idoneità e
della univocità degli atti e dei mezzi che possono indicare un proposito criminoso riferibile a un delitto
aggravato, acquistano rilevanza e sono compatibili - e, dunque, estensibili al tentativo - tutte le circostanze,
aggravanti e attenuanti, che attengono ai fini dell’azione criminosa. Cass. 17 gennaio 1989, n. 4908.
La potestà regolamentare incontra una serie di limiti, tra i quali vi è quello della creazione di nuove
figure di reato e la comminatoria delle pene, riservate alla legge (art. 1 c.p. e 25, secondo comma, Cost.).
Tale limite si riconnette alla natura formale di atto amministrativo del regolamento che, come tale e in
quanto illegittimo, deve essere disapplicato dal giudice ordinario ai sensi dell’art. 5 legge 20 marzo 1865,
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n. 2248, allegato E). (Fattispecie relativa all’art. 11 punto 3 D.P.R. 15 aprile 1971, n. 322 di esecuzione della
legge 13 luglio 1966, n. 615, recante provvedimenti contro l’inquinamento atmosferico limitatamente al
settore delle industrie). Cass. 8 maggio 1981, n. 8075.
Il requisito della idoneità di cui all’art. 49 c.p. si correla al principio di legalità, dovendo accertarsi non
la semplice conformità del fatto al modello legale, ma la sua conformità sostanziale. (Nella specie è stata
annullata la decisione dei giudici di merito che, nel condannare per il delitto di favoreggiamento personale uno degli imputati, non avevano considerato alcune risultanze probatorie relative alla idoneità offensiva della condotta di cui verificavano la sola conformità esteriore alla previsione dell’art. 378 c.p.). Cass. 30
settembre 1981, n. 10132.
Le norme che prevedono cause di esclusioni oggettive dall’amnistia hanno carattere eccezionale e non
possono, pertanto, essere interpretate al di là della loro espressione letterale. Cass. 24 ottobre 1978, n. 1511.
le norme che prevedono esclusioni oggettive dell’amnistia sono di stretta interpretazione e non possono, perciò, estendersi a casi diversi da quelli espressamente considerati. Cass. 10 novembre 1978, n. 955.
L’art. 25 comma secondo della Costituzione va interpretato nel senso che il legislatore costituzionale ha inteso riservare esclusivamente allo Stato la potestà normativa penale oltre che con riguardo alla possibilità di configurare nuove ipotesi di reato, anche relativamente alla eventualità di
depenalizzazioni assolute o limitate, tali da rendere lecite azioni od omissioni già penalmente rilevanti
secondo l’ordinamento giuridico nazionale ovvero da trasformare fatti-reato, già come tali previsti e
sanzionati da leggi statali, in illeciti amministrativi punibili con sanzioni egualmente amministrative.
Cass. 24 ottobre 1975, n. 5155.
2.2. Principio di legalità ed ordinamento comunitario.
Nell’obbligare gli Stati membri a considerare taluni comportamenti come violazioni e a sanzionarli, l’art. 4 della direttiva 2005/35, in combinato disposto con l’art. 8 di quest’ultima, deve altresì rispettare il principio della legalità dei reati e delle pene (nullum crimen, nulla poena sine lege), che fa parte
dei principi generali del diritto alla base delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri (v.
sentenza 3 maggio 2007, causa C303/5, Advocaten voor de Wereld, Racc. pag. I3633, punto 49) e che
rappresenta una particolare espressione del principio generale della certezza del diritto. Il principio della
legalità dei reati e delle pene implica che le disposizioni comunitarie definiscano chiaramente i reati e le
pene che li reprimono. Questa condizione è soddisfatta quando il soggetto di diritto può conoscere, in
base al testo della disposizione rilevante e, se del caso, con l’aiuto dell’interpretazione che ne sia stata
fatta dai giudici, gli atti e le omissioni che chiamano in causa la sua responsabilità penale (v., in particolare, sentenza Advocaten voor de Wereld, cit., punto 50, nonché Corte eur. D.U., sentenza 22 giugno 2000,
Coëme e a.c. Belgio, Recueil des arrêts e décisions 2000VII, §145). Corte giust., 3 giugno 2008.
L’art. 2, n. 2, della decisione quadro relativa al mandato d’arresto europeo, nella parte in cui sopprime il controllo sulla doppia incriminazione, per i reati in esso menzionati, non è in contrasto con il
principio di legalità, in quanto la descrizione delle singole fattispecie è riservata alla legge dello Stato di
emissione e non rientra tra gli scopi della decisione quadro. Corte giust., 3 maggio 2007, n. 303.
La decisione quadro relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra gli
Stati membri (che ha in tal modo sostituito l’istituto dell’estradizione) non presenta aspetti che ne
infirmano la validità, con riferimento all’ordinamento comunitario. La decisione quadro trova il suo
fondamento nell’art. 31, n. 1, lett. a) e b), Tue, secondo cui l’azione comune nel settore della cooperazione
giudiziaria in materia penale è intesa rendere la stessa più agevole ed efficace e nulla consente di concludere che l’adozione di decisioni quadro dirette al ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari dei Paesi membri riguardi solo le norme penali nelle materie indicate nella lett. e) di tale articolo
(cioè: criminalità organizzata, terrorismo e traffico illecito di stupefacenti). La soppressione del controllo
sulla doppia incriminazione, introdotta dalla decisione quadro sul mandato d’arresto europeo, non contrasta né con il principio di uguaglianza e di non discriminazione né con il principio di legalità in materia
penale. Quanto al primo profilo, anche ritenendo paragonabili le situazioni di coloro che sono ricercati
sulla base dei reati indicati nella lista e per i quali è soppresso il controllo sulla doppia incriminabilità e
quelle di coloro che sono richiesti in consegna per reati con riferimento ai quali permane l’esigenza della
previsione bilaterale del fatto come reato la distinzione introdotta dalla decisione quadro appare giustificata: il reciproco riconoscimento delle sentenze straniere, la elevata fiducia tra gli Stati, l’entità della pena
comminata fa concludere che si tratta di reati che arrecano all’ordine e alla sicurezza pubblici un pregiudizio tale da giustificare la rinuncia al controllo sulla doppia incriminazione. Quanto al secondo profilo
nessuna violazione al principio di legalità è nella specie ravvisabile, posto che la definizione dei reati e la
determinazione della relativa pena sono quelli che risultano dalla legge dello Stato emittente (a sua volta
tenuto a rispettare il principio detto, sancito nell’art. 6 Tue che richiama la Convenzione europea dei diritti
dell’uomo). Corte giust., 3 maggio 2007, n. 303.
La normativa nazionale che vieta l’esercizio di attività di raccolta, di accettazione, di registrazione
e di trasmissione di proposte di scommesse, in particolare sugli eventi sportivi, in assenza di concessione o di autorizzazione di polizia rilasciate dallo Stato membro interessato, costituisce restrizione
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
alla libertà di stabilimento nonché alla libera prestazione dei servizi previste rispettivamente agli articoli
43 CE e 49 CE. Corte giust., 6 marzo 2007.
Ai sensi della sentenza 6 marzo 2007 della Corte giust. gli artt. 43 CE e 49 CE devono essere
interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale, quale quella di cui trattasi nelle cause
principali, che esclude e per di più continua ad escludere dal settore dei giochi d’azzardo gli operatori
costituiti sotto forma di società di capitali le cui azioni sono quotate sui mercati regolamentari. Gli
artt.43 CE e 49 CE devono essere interpretati nel senso che ostano ad una normativa nazionale, quale
quella di cui trattasi nelle cause principali, che impone una sanzione penale a soggetti quali gli imputati
nelle cause principali per avere esercitato un’attività di scommesse in assenza di concessione o di autorizzazione di polizia richieste dalla normativa nazionale allorché questi soggetti non hanno potuto ottenere
le suddette autorizzazioni a causa del rifiuto di tale Stato membro, in violazione del diritto comunitario, di
concederle loro A fronte di queste conclusioni non si può ulteriormente applicare ai casi come quello in
esame il regime sanzionatorio stabilito dall’art. 4 della legge 401/1989. Corte giust., 6 marzo 2007;
conforme Cass. 4 maggio 2007, n. 16928.
Ai sensi dell’art 5 comma 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, “ogni persona ha
diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, salvo che nei casi seguenti
e nei modi prescritti dalla legge”. In occasione dell’arresto del 27 luglio scorso (Zervudacki c. France) La
Corte Europea di Strasburgo coglie l’occasione per ribadire il proprio indirizzo ermeneutico afferente al
concetto di “legge” di cui alla norma succitata. Esso esprime il concetto di “rule of law” ovvero quello di
riserva di legislazione statale che garantisce termini, durata, diritti e modalità. Nell’affaire Z., la Corte
ravvisa un deficit di legalità poiché, all’atto del fermo di polizia (in attesa dei colloqui con il giudice)
nessuna norma interna regolamentava siffatta privazione della libertà strumentale al procedimento penale. Non sussisteva, cioè, una base legale a copertura del trattamento privativo della libertà personale. La
Corte, peraltro, non può che censurare le modalità della privazione; la donna era sorvegliata a vista senza
possibilità di riposarsi, lavarsi. Una situazione inconciliabile con lo Statuto internazionale dei diritti Dell’Uomo. Il Collegio di Strasburgo, infine, diagnostica un ulteriore strappo nel tessuto della Convenzione;
risulta violato l’art 5 comma IV, poiché la donna non disponeva di alcun rimedio interno per far valere
l’illegalità della detenzione (la norma recita; ogni persona privata dela libertà mediante arresto o detenzione ha il diritto di presentare un ricorso ad un tribunale, affinchè decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima. Corte dir. uomo, 27
luglio 2006.
In tema di attività organizzata per la accettazione e raccolta di scommesse, le disposizioni di cui all’art.
4 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, ed in particolare quelle di cui al comma 4 bis del citato articolo che
sanzionano lo svolgimento di attività organizzata per la accettazione e raccolta anche per via telefonica e
telematica di scommesse o per favorire tali condotte in assenza di concessione, autorizzazione o licenza
ai sensi dell’art. 88 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, non sono in contrasto con i principi comunitari della
libertà di stabilimento (art. 43 Trattato UE) e della libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione
europea (art. 49), atteso che la normativa nazionale persegue finalità di controllo per motivi di ordine
pubblico idonee a giustificare, ai sensi dell’art. 46 del Trattato, le restrizioni nazionali ai citati principi
comunitari. (Conf. Cass., Sez. Un., 26 aprile 2004, dep. 18 maggio 2004, n. 23272,Poce e, n. 23273). Cass.
Sez. Un., 26 aprile 2004, n. 23271.
I regolamenti della CEE hanno piena efficacia obbligatoria e sono direttamente applicabili nell’ordinamento dello Stato. Ne consegue che avendo il regolamento CEE, n. 986/89, con l’art. 1, abrogato a
decorrere dall’1 gennaio 1991, la norma (prima interna, ai sensi dell’art. 35 del D.P.R. 12 febbraio 1965, n.
162, e poi comunitaria, fissata nell’art. 1 del regolamento CEE, n. 1153-75) che rendeva obbligatorio
l’accompagnamento dei prodotti vitivinicoli con i documenti di cui ai moduli VA1, VA2, VA3 e VA4, a
decorrere da tale data falsificare «un documento di accompagnamento» non costituisce reato, non essendo più il documento richiesto al fine di provare qualità, quantità, ecc. dei vini in circolazione (con
riguardo al caso di specie la Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha escluso anche la
punibilità di falsità ideologiche e materiali commesse su documenti di accompagnamento anteriormente
alla suddetta data, in forza del disposto del secondo comma dell’art. 2 c.p.). Cass. 16 aprile 1991, n. 6012.
L’ordinamento comunitario e quello interno dello Stato sono distinti ed autonomi, pur se coordinati. Proprio in relazione alla distinzione tra i due orientamenti, la prevalenza della normativa comunitaria va
interpretata nel senso che la legge interna non interferisce nella sfera riservata alla normativa comunitaria
e da essa interamente attratta. Ne consegue che il giudice italiano, se accerta che la normativa comunitaria regola il caso deferito al suo esame, deve applicarne le disposizioni con esclusivo riferimento al sistema dell’ente sopranazionale che comporta l’immediata applicazione di esse: le statuizioni della legge
interna eventualmente in conflitto con la normativa comunitaria non possono in alcun modo ostacolare il
riconoscimento della «forza» e del «valore» che ciascun trattato conferisce ai regolamenti comunitari.
Corte cost., 8 giugno 1984, n. 170.
La “legalità delle pene” costituisce principio generale del diritto comunitario ed esige, in particolare,
che le previsioni sanzionatorie (anche amministrative) siano chiare e precise in modo da consentire agli
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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interessati di essere consapevoli dei diritti e degli obblighi che da esse derivano ed in modo da poter
agire in modo conseguente ed adeguato. Tale principio fa parte delle tradizioni costituzionali comuni
degli Stati membri: esso è sancito dall’art. 7 Cedu, nonché previsto in diversi trattati internazionali. Trib. I
grado C.E. 5 aprile 2006, n. 279.
3. Le leggi regionali.
3.1. Riserva di legge statale: fondamento.
Il principio di legalità, inteso come “riserva di legge statale” è espressamente costituzionalizzato,
in sede penale, dall’art. 25, secondo comma, Cost. Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364.
L’estensione alle leggi regionali del potere normativo penale contrasta con il fondamento politico
della riserva di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. Infatti, la Costituzione, nel riservare al legislatore le
scelte criminalizzatrici, impone criteri sostanziali di scelta e fissa precise direttive di politica criminale, è,
quindi, agevole ritenere la sede dei consigli regionali non idonea a valersi di tali criteri ed a realizzare le
predette direttive. Il diritto penale è, infatti, sistema che, nell’atto in cui autorizza la difesa sociale
attraverso le sanzioni più gravi per la libertà e dignità umana, limita la difesa stessa attraverso precise,
puntuali determinazioni di scopi, modalità e contenuti di fattispecie. Il diritto penale è, particolarmente
(e la Costituzione lo svela all’evidenza) sistema di limiti sostanziali al legislatore; ed è mirato, soprattutto,
al rispetto di questi ultimi il monopolio statale nella produzione della legge penale, la riserva di legge
penale. Ciò in quanto, la criminalizzazione comporta, anzitutto, una scelta tra tutti i beni e valori emergenti nell’intera società: e tale scelta non può esser realizzata dai consigli regionali (ciascuno per
proprio conto) per la mancanza d’una visione generale dei bisogni ed esigenze dell’intera società.
Corte cost., 25 ottobre 1989, n. 487.
La previsione delle cause di estinzione del reato è riservata alla legge statale, in quanto solo a quest’ultima spetta la potestà incriminatrice. Corte cost., 25 ottobre 1989, n. 487.
La fonte del potere punitivo risiede nella sola legislazione statale, e le regioni non hanno la potestà di
rimuovere o variare con proprie leggi la punibilità di fatti considerati reati e penalmente puniti da leggi
dello Stato. Non possono, in altri termini, rendere lecita un’attività che invece l’ordinamento statale
considera illecita e sanzionata penalmente, perché altrimenti sarebbe violato il principio della riserva
di legge statale in materia penale. Corte cost., 24 maggio 1991, n. 213.
La sola fonte del potere punitivo è la legge statale e le Regioni non dispongono di alcuna competenza
che le abiliti a introdurre, rimuovere o variare con proprie leggi le pene previste dalle leggi dello Stato in
tale materia; non possono in particolare considerare lecita un’attività penalmente sanzionata nell’ordinamento nazionale (tra le altre, si vedano le sentenze, n. 234 del 1995, n. 117 del 1991, n. 309 del 1990, n.
487 del 1989). Dalla riforma costituzionale del 2001, questo orientamento giurisprudenziale ha ricevuto
una esplicita conferma, giacchè è oggi positivamente previsto che la materia dell’ordinamento penale
di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., è di esclusiva competenza dello Stato.Resta aperto
l’ordine dei problemi sui quali questa Corte si è già in passato soffermata. La “materia penale”, intesa
come l’insieme dei beni e valori ai quali viene accordata la tutela più intensa, non è di regola determinabile a priori; essa nasce nel momento in cui il legislatore nazionale pone norme incriminatici e ciò può
avvenire in qualsiasi settore, a prescindere dal riparto di attribuzioni legislative tra lo Stato e le Regioni. Si
tratta per definizione di una competenza dello Stato strumentale, potenzialmente incidente nei più
diversi ambiti materiali ed anche in quelli compresi nelle potestà legislative esclusive, concorrenti o
residuali delle Regioni, le cui scelte potranno risultarne talvolta rafforzate e munite di una garanzia
ulteriore, talaltra semplicemente inibite. Di qui l’esigenza che l’esercizio della potestà statale in materia
penale sia sempre contenuto nei limiti della non manifesta irragionevolezza, non soltanto in ossequio al
criterio della extrema ratio, al quale, secondo la giurisprudenza di questa Corte (sentenze, n. 487 del
1989, n. 364 del 1988, n. 189 del 1987), deve essere sempre ispirata la repressione criminale. Alla stregua
del criterio anzidetto la compressione delle competenze legislative regionali è giustificata quando la legge nazionale sia protesa alla salvaguardia di beni, valori e interessi propri dell’intera collettività tutelabili
solo su base egalitaria. Corte cost., 24 giugno 2004, n. 185.
3.2. Operatività della legge regionale in materia penale.
Alle leggi regionali non è precluso concorrere a precisare, secundum legem, presupposti d’applicazione di norme penali statali (cfr., fra le altre, le sentenze di questa Corte, n. 210 del 1972 e, n. 142 del
1969) né concorrere ad attuare le stesse norme e cioè non è precluso realizzare funzioni analoghe a
quelle che sono in grado di svolgere fonti secondarie statali. Tutte le volte in cui non sia in gioco la
riserva di legge penale statale (nelle ipotesi, cioè, in cui ad es. la legge statale abbia già autonomamente
operato le scelte fondamentali sopra ricordate) disposizioni attuative di leggi statali ben possono esser
emanate da altre fonti ed in particolare dalle leggi regionali. Va, poi, ricordato come sia consentito alle
Regioni allorché dalle leggi statali si subordinino effetti incriminatori o decriminalizzanti ad atti amministrativi (o legislativi) regionali: in tal caso, nel determinare i presupposti dai quali sono condizionati
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
gli effetti penali (e, conseguentemente, nel modificare i presupposti stessi) le leggi regionali indirettamente, e per determinazione delle stesse leggi statali, incidono su fattispecie penali previste da leggi
statali. E va aggiunto che la tutela penale dei beni rientranti nelle materie regionali, “esclusive” o “concorrenti”, può ben esser autonomamente fornita, attraverso l’incriminazione di violazioni agli stessi beni,
dalla legge penale statale. Fra l’altro, comunemente si ammette che si diano casi di colpa per inosservanza di leggi regionali cautelari (sempre che si ritenga rispettato l’art. 25, secondo comma, Cost.) e che, in
alcune ipotesi di delitti contro la pubblica amministrazione, le leggi regionali possano concorrere a
definire elementi costitutivi (es. “dovere”, “atto d’ufficio” ecc.) delle fattispecie tipiche incriminate.
Corte cost., 25 ottobre 1989, n. 487.
3.3. Edilizia.
È costituzionalmente illegittimo l’art. 32 comma 26 D.L. 30 settembre 2003, n. 269, nel testo originario e
in quello risultante dalla legge di conversione 24 novembre 2003, n. 326, nella parte in cui non prevede che
la L. reg. possa determinare la possibilità, le condizioni e le modalità per l’ammissibilità a sanatoria di tutte
le tipologie di abuso edilizio di cui all’allegato 1 D.L., n. 269 del 2003. Premesso che, nei settori dell’urbanistica e dell’edilizia, i poteri legislativi regionali sono senz’altro ascrivibili alla nuova competenza di tipo
concorrente in tema di “governo del territorio”, e che, in riferimento alla disciplina del condono edilizio,
per la parte non inerente ai profili penalistici, integralmente sottratti al legislatore regionale, solo alcuni
limitati contenuti di principio possono ritenersi sottratti alla disponibilità dei legislatori regionali, cui
spetta il potere concorrente di cui al nuovo art. 117 cost., mentre per tutti i restanti profili deve riconoscersi al legislatore regionale un ruolo rilevante - ancor più ampio per le regioni a statuto particolare che,
in base ai rispettivi statuti, hanno competenza esclusiva in materia di urbanistica ed edilizia - di articolazione e specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale in tema di condono sul versante
amministrativo, la disposizione censurata contrasta con gli art. 117 e 118 cost. e con gli art. 4, n. 12 e 8
dello statuto speciale per il Friuli Venezia Giulia in quanto comprime l’autonomia legislativa delle regioni,
impedendo loro di fare scelte diverse da quelle del legislatore nazionale, ancorché nell’ambito dei principi
legislativi da questo determinati. Corte cost., 28 giugno 2004, n. 196.
Non sono fondate le q.l.c. dell’art. 32 D.L. 30 settembre 2003, n. 269, nel testo originario e in quello
risultante dalla legge di conversione 24 novembre 2003, n. 326, sollevate, in riferimento all’art. 3 cost.,
sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza, dalle regioni Campania, Emilia Romagna,
Friuli Venezia Giulia, Marche, Toscana e Umbria. Premesso che nella giurisprudenza costituzionale non è
mai stata affermata l’illegittimità costituzionale di ogni tipo di condono edilizio straordinario, e che tuttavia
occorre sottoporre la nuova disciplina ad uno stretto esame di costituzionalità, al fine di individuare un
ragionevole fondamento, nonché elementi di discontinuità rispetto ai precedenti condoni edilizi, dal comma 2 dell’art. 32 si desume che il condono edilizio straordinario ivi previsto, pur trattandosi di scelta nel
merito opinabile, trova giustificazione nelle contingenze particolari della recente entrata in vigore del
testo unico delle disposizioni in materia edilizia, nonché dell’entrata in vigore del nuovo titolo V della
seconda parte della Costituzione, che consolida ulteriormente nelle regioni e negli enti locali la politica di
gestione del territorio. Corte cost., 28 giugno 2004, n. 196.
È inammissibile, per sopravvenuta carenza di interesse, la q.l.c. dell’art. 2 comma 70 L. 24 dicembre
2003, n. 350, censurato, in riferimento agli art. 3, 117 e 119 cost., in quanto, disponendo l’abrogazione dei
commi 6, 9, 11 e 24 dell’art. 32 D.L. 30 settembre 2003, n. 269, conv., con modificazioni, in L. 24 novembre
2003, n. 326, determinerebbe il venir meno delle risorse da destinare alle regioni per interventi di riqualificazione dei nuclei interessati da fenomeni di abusivismo e per l’attivazione di un programma nazionale
di interventi di riqualificazione delle aree degradate. A seguito della sentenza, n. 196 del 2004, la disciplina contenuta nell’art. 32 D.L., n. 269 del 2003 ha subito una radicale modificazione, soprattutto attraverso
il riconoscimento alle regioni del potere di modulare l’ampiezza del condono edilizio in relazione alla
quantità e alla tipologia degli abusi sanabili, ferma restando la spettanza al legislatore statale della
potestà di individuare la portata massima del condono edilizio straordinario, sicché la ricorrente non
può più lamentare la mancata assegnazione, da parte dello Stato, delle risorse necessarie alla riqualificazione urbanistica, rientrando espressamente nel potere delle regioni determinare - entro limiti fissati dalla
legge statale - tipologie ed entità degli abusi condonabili, nonché incrementare sia la misura dell’oblazione, sia la misura degli oneri di concessione, al fine di fronteggiare i maggiori costi che le amministrazioni
comunali devono affrontare per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, e, in generale, per gli
interventi di riqualificazione delle aree interessate dagli abusi edilizi; potere, peraltro, già esercitato dalla
regione Emilia Romagna con L. reg. 21 ottobre 2004, n. 23. Corte cost., 11 febbraio 2005, n. 71.
Non sono fondate le q.l.c. dell’art. 1 commi 36 lett. c) 37 L., n. 308 del 2004. Pur se la difesa articolata
dall’Avvocatura dello Stato giustifica le norme impugnate quali espressione del potere legislativo statale
in materia di “tutela dei beni culturali”, di cui all’art. 117 comma 2 lett. s) cost., appare assorbente la
constatazione che la disciplina contenuta nei commi 36 e 37 dell’art. 1 L. 308/4 attiene strettamente al
trattamento penale degli abusi, il che induce a commisurare l’intervento legislativo statale, pur se relazionato alla materia dell’ambiente e dei beni culturali, al parametro dell’art. 117 comma 2 lett. l) cost. (“ordi-
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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namento penale”). Il potere di incidere sulla sanzionabilità penale spetta solo al legislatore statale, cui
va riconosciuta discrezionalità in materia di estinzione del reato o della pena, o di non procedibilità. La
considerazione del trattamento penale assume, d’altro canto, preminenza agli effetti delle competenze
legislative, pur nella generica riconducibilità ad altra materia delle norme precettive la cui violazione è
sanzionata (sentenza 384/5). L’irrilevanza penale dell’abuso non tocca gli aspetti urbanistici, per i quali le
regioni non vedono scalfita la loro competenza nella previsione delle sanzioni amministrative in materia
edilizia. Corte cost., 5 maggio 2006, n. 183.
Non sono fondate, in riferimento agli artt. 117 e 118 cost., le q.l.c. dell’artt. 1, commi 36, lettera c), e
37, L. 15 dicembre 2004, n. 308, i quali statuiscono l’irrilevanza penale di determinati abusi in zona paesaggistica, per il futuro (art. 1, comma 36, lettera c), e l’estinzione dei reati paesaggistici, per il passato
(art. 1, comma 37). Le censurate disposizioni attengono strettamente al trattamento penale degli abusi, il
che induce a commisurare l’intervento legislativo statale, pur se relazionato alla materia dell’ambiente e
dei beni culturali, al parametro dell’art. 117, comma 2, lett. l), cost. (ordinamento penale), e il previsto
parere di un organo statale, la Soprintendenza, ai soli fini del riscontro delle condizioni oggettive di
irrilevanza penale degli interventi in assenza o in difformità dell’autorizzazione paesaggistica, vale a garantire l’esigenza di uniformità di metodi di valutazione sul territorio nazionale, che è inerente al trattamento penale degli abusi, esigenza che è tale da giustificare la chiamata in sussidiarietà dello Stato nelle
funzioni amministrative; del resto, l’irrilevanza penale dell’abuso non tocca gli aspetti urbanistici, per i
quali le regioni non vedono scalfita la loro competenza nella previsione delle sanzioni amministrative
in materia edilizia, vigendo il principio dell’autonomia delle sanzioni amministrative rispetto a quelle
penali anche nella materia della tutela paesaggistica, mentre per gli abusi passati le sanzioni amministrative a tutela del paesaggio restano applicabili, pur se limitate alla tipologia pecuniaria, così come
sono applicabili, ove ne ricorrano i presupposti, le sanzioni a presidio di tutti gli altri valori che convergono sul territorio, in particolare quelle in materia edilizia, di competenza regionale (sentt., n. 487 del
1989, 149 del 1999, 327 del 2000, 196 del 2004, 70 e 384 del 2005). Corte cost., 5 maggio 2006, n. 183.
È costituzionalmente illegittimo - in riferimento agli artt. 3, 25, 70 e 117 Cost. - l’art. 10 comma 9 L. reg.
Abruzzo 13 luglio 1989, n. 52 («Norme per l’esercizio di poteri di controllo dell’attività urbanistica ed
edilizia, sanzioni amministrative e delega alle province delle relative funzioni»), in quanto, prevedono
l’estinzione del reato per la spontanea demolizione delle opere edilizie abusive, anche non conformi agli
strumenti urbanistici, incide sulla materia penale sottratta alla potestà legislativa regionale. Corte cost.,
18 gennaio 1991, n. 18.
3.4. Casistica.
La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 2, nonché degli artt.
3,4, 5, 6, 7 e 8 della legge della Regione Liguria 14 marzo 2006, n. 6 (Norme regionali in materia di
discipline bionaturali per il benessere a tutela dei consumatori), e, per conseguenza, della restante parte
della intera legge; nonchè dell’art. l, commi 3 e 4, dell’art. 2, dell’art. 3, comma 1, nonché degli artt. 4, 5,
6 e 7 della legge regionale del Veneto 6 ottobre 2006, n. 19 (Interventi per la formazione degli operatori di
discipline bio-naturali), e, per conseguenza, della restante parte della intera legge. La Corte osserva che
più volte, scrutinando la legittimità costituzionale di disposizioni di legislazione regionale aventi ad oggetto la regolamentazione di attività di tipo professionale, si è affermato che «la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle “professioni” deve rispettare il principio secondo cui l’individuazione
delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplina di quegli aspetti che
presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale. Tale principio, al di là della particolare
attuazione ad opera dei singoli precetti normativi, si configura infatti quale limite di ordine generale,
invalicabile dalla legge regionale» (sentenza, n. 153 del 2006, nonché, ex plurimis, sentenze, n. 57 del
2007, n. 424 del 2006). Da ciò deriva che non è nei poteri delle Regioni dar vita a nuove figure professionali. Corte cost., 20 luglio 2007, n. 300. Giova ribadire che la istituzione di un registro professionale e la
previsione delle condizioni per l’iscrizione ad esso, prescindendosi dalla circostanza - ancorché sottolineata da ambedue le difese resistenti - che tale iscrizione si caratterizzi o meno per essere necessaria ai fini
dello svolgimento della attività cui l’elenco fa riferimento, hanno, già di per sé, «una funzione individuatrice della professione», come tale preclusa alla competenza regionale. Corte cost., 20 luglio 2007, n. 300.
È infondata la q.l.c. dell’art. 1, comma 169, L., n. 311 del 2004, per violazione del principio di legalità
sostanziale, dal momento che la legge non detterebbe «alcuna disciplina di base idonea a circoscrivere il
potere normativo secondario». Corte cost., 31 maggio 2006, n. 134.
È costituzionalmente illegittima la L. reg. FVG 17 giugno 2002, n. 17. Premesso che la “materia penale, intesa come l’insieme dei beni e valori ai quali viene accordata la tutela più intensa, non è di regola
determinabile “ a priori” giacchè essa nasce nel momento in cui nel momento in cui il legislatore nazionale pone norme incriminatrici – il che può avvenire in qualsiasi settore, a prescindere dal riparto di attribuzioni legislative tra lo Stato e le regioni, trattandosi, per definizione di una competenza dello Stato strumentale, potenzialmente incidente nei più diversi ambiti materiali ed anche in quelli compresi nelle pote-
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
stà legislative esclusive, concorrenti o residuali delle Regione e che la compressione delle competenze
legislative regionali è quindi giustificata quando la legge nazione sia protesa alla salvaguardia di beni, valori
e interessi propri dell’intera collettività tutelabili solo su base egualitaria, la L. reg. disciplinato l’istituzione di
case da gioco nel territorio della regione Friuli Venezia Giulia, introduce una deroga al generale divieto di
gioco d’azzardo posto dall’art 718 c.p. e nel far ci invade la materia “ordinamento penale”, dell’art 117
comma 2) cost, riservata in via esclusiva allo Stato. Corte cost. 24 giugno 2004, n. 185.
Ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. l), cost., la competenza in materia penale spetta in via esclusiva
allo Stato. È pertanto illegittima e va annullata la L. reg. Friuli Venezia Giulia, n. 17 del 17 luglio 2002
(Istituzione di case da gioco nel Friuli - Venezia Giulia) poiché l’istituzione di case da gioco attraverso leggi
regionali si risolve in una deroga al divieto posto dall’art. 718 c.p. Corte cost. 24 giugno 2004, n. 185.
È infondata la q.l.c., in riferimento agli art. 3, 42 comma 2 e 44 comma 1 cost., dell’art. 20 comma 2 bis
L. reg. Umbria 17 maggio 1994, n. 14 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il
prelievo venatorio) come modificata dall’art. 2 L. reg. 19 luglio 1996, n. 18 (Norme per la protezione della
fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), nella parte in cui riconosce una indennità pari a
quattro volte il reddito dominicale da corrispondere dal titolare della concessione ai proprietari o conduttori dei terreni inclusi, senza il consenso di costoro, nel territorio della azienda faunistico venatoria Non
sono violati i principi di ragionevolezza e di proporzionalità in quanto la previsione dell’indennità si pone
quale prestazione sinallagmatica al sacrificio imposto al proprietario o al conduttore del fondo, tenendo
conto dei vantaggi che la previsione dell’istituto dell’inclusione coattiva offre ai soggetti interessati alla
costituzione dell’azienda faunistico venatoria, inclusione senza la quale non sarebbe possibile costituire
l’azienda, rimanendo così frustrate le finalità ambientali perseguite dal legislatore statale e regionale,
nonché l’interesse venatorio. Posto che la funzione sociale della proprietà può giustificare per l’interesse
pubblico anche ragionevoli limiti ablatori di certe utilità economiche, purché non assumano carattere
espropriativo, poiché l’interesse faunistico non è estraneo alla fattispecie “de quo” nè al principio della
funzione sociale della proprietà, per quanto attiene alla normazione conformativa del contenuto dei diritti
di proprietà allo scopo di assicurarne la funzione sociale, la riserva di legge stabilita dall’art. 42 cost. può
trovare attuazione anche in leggi regionali, nell’ambito, si intende, delle materie indicate dall’art. 117
(sent., n. 391 del 1989). Corte cost., 31 maggio 2000, n. 164.
4. Le sentenze della Corte costituzionale.
4.1. Fondamento.
Nessun soggetto, imputato di aver commesso un fatto del quale una norma penale abbia escluso
l’antigiuridicità, potrebbe venire penalmente condannato per il solo effetto d’una sentenza di questa
Corte, che dichiarasse illegittima la norma stessa. È un fondamentale principio di civiltà giuridica,
elevato a livello costituzionale dal secondo comma dell’art. 25 Cost. (e già puntualizzato - per ciò che
attualmente interessa - dal primo comma dell’art. 2 c.p.), ad esigere certezza ed irretroattività dei reati e
delle pene; né le garanzie che ne derivano potrebbero venire meno, se non compromettendo l’indispensabile coerenza dei vari dettati costituzionali, di fronte ad una decisione di accoglimento. Sebbene privata di efficacia ai sensi del primo comma dell’art. 136 Cost. (e resa per se stessa inapplicabile alla
stregua dell’art. 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953), quanto al passato la norma penale di favore
continua perciò a rilevare, in forza del prevalente principio che preclude la retroattività delle norme incriminatrici. Corte cost., 3 giugno 1983, n. 148.
Altro, è la garanzia che i principi del diritto penale-costituzionale possono offrire agli imputati,
circoscrivendo l’efficacia spettante alle dichiarazioni d’illegittimità delle norme penali di favore; altro è il
sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire zone franche del tutto
impreviste dalla Costituzione, all’interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile. Né giova replicare che un tale inconveniente è imposto dalla logica del processo costituzionale, vale a
dire dalla necessaria incidenza delle decisioni di questa Corte sugli esiti dei giudizi in cui siano stati
promossi gli incidenti di costituzionalità. Indipendentemente dalla sorte degli imputati, è indubbio che
nella prospettiva del giudice a quo, cioè del promotore degli incidenti in questione, anche le pronunce
concernenti la legittimità delle norme penali di favore influiscano o possano influire sul conseguente
esercizio della funzione giurisdizionale. Corte cost., 3 giugno 1983, n. 148.
4.2. Norme penali di favore e previsioni normative che “delimitano” l’area di intervento di una norma incriminatrice. Differenze.
Con riguardo ai criteri di identificazione delle norme penali di favore, questa Corte ha già avuto modo di
sottolineare come occorra distinguere fra le previsioni normative che “delimitano” l’area di intervento di una
norma incriminatrice, concorrendo alla definizione della fattispecie di reato; e quelle che invece “sottraggono”
una certa classe di soggetti o di condotte all’ambito di applicazione di altra norma, maggiormente comprensiva.
Solo a queste ultime si attaglia, in effetti - ove l’anzidetta sottrazione si risolva nella configurazione di un tratta-
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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mento privilegiato - la qualificazione di norme penali di favore; non invece alle prime, le quali si traducono in dati
normativi espressivi di «una valutazione legislativa in termini di “meritevolezza” ovvero di “bisogno” di pena,
idonea a caratterizzare una precisa scelta politico-criminale»: scelta cui la Corte non potrebbe sovrapporre «senza esorbitare dai propri compiti ed invadere il campo riservato dall’art. 25, secondo comma, Cost. al legislatore» - «una diversa strategia di criminalizzazione volta ad ampliare», tramite ablazione degli elementi stessi,
«l’area di operatività della sanzione» (sentenza, n. 161 del 2004). Inoltre, la nozione di norma penale di favore è
la risultante di un giudizio di relazione fra due o più norme compresenti nell’ordinamento in un dato momento: rimanendo escluso che detta qualificazione possa esser fatta discendere dal raffronto tra una norma
vigente ed una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell’area di rilevanza
penale o di mitigazione della risposta punitiva. In tal caso, difatti, la richiesta di sindacato in malam partem
mirerebbe non già a far riespandere la portata di una norma tuttora presente nell’ordinamento, quanto piuttosto
a ripristinare la norma abrogata, espressiva di scelte di criminalizzazione non più attuali: operazione, questa,
senz’altro preclusa alla Corte, in quanto chiaramente invasiva del monopolio del legislatore su dette scelte (sentenze, n. 330 del 1996 e, n. 108 del 1981; ordinanza, n. 175 del 2001). Corte cost., 23 novembre 2006, n. 394.
4.2.1. Le norme penali di favore.
Il principio di legalità non preclude lo scrutinio di costituzionalità, anche “in malam partem”, delle cd. Norme
penali di favore, ossia delle norme che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico
più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni. In tal caso, la declaratoria di
illegittimità costituzionale della norma di favore comporta l’applicabilità anche ai processi in corso della norma
incriminatrice generale, se al momento della commissione del reato la norma di favore non era ancora vigente;
negli altri casi, spetterà al giudice valutare caso per caso quali siano gli effetti dell’abrogazione della norma penale
di favore. Corte cost., 23 novembre 2006, n. 394; conforme Corte cost., 3 giugno 1983, n. 148.
Il principio di legalità non preclude alla Corte di pronunciare decisioni ablative di norme che sottraggano determinati gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma comune o comunque più generale, accordando loro un trattamento più benevolo. In questi casi la riserva al legislatore
sulle scelte di criminalizzazione resta salva, perché l’effetto “in malam partem, derivante dalla riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria, costituisce una reazione naturale dell’ordinamento alla scomparsa della
norma incostituzionale. Corte cost., 23 novembre 2006, n. 394.
Nel mentre alla Corte costituzionale è precluso adottare pronunce “in malam partem” in materia
penale stante il principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, comma 2, cost., il quale, stabilendo
che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso”, rimette al solo legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, restando escluso che la Corte costituzionale possa creare nuove fattispecie criminose o estendere
quelle esistenti a casi non previsti, ovvero incidere “in peius” sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità, il principio di legalità non preclude lo scrutinio di costituzionalità,
anche “in malam partem”, delle c.d. norme penali di favore, e cioè delle norme che stabiliscano, per
determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni, per l’ineludibile esigenza di evitare la creazione di “zone franche” dell’ordinamento, sottratte al controllo di costituzionalità, con la precisazione che occorre distinguere fra le previsioni normative che “delimitano” l’area di intervento di una norma incriminatrice, concorrendo alla definizione della fattispecie di reato, e quelle che invece “sottraggono” una certa classe di soggetti
o di condotte all’ambito di applicazione di altra norma, maggiormente comprensiva, poiché solo a queste
ultime si attaglia - ove l’anzidetta sottrazione si risolva nella configurazione di un trattamento privilegiato
- la qualificazione di norme penali di favore. In tali casi l’effetto “in malam partem” non discende
dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte costituzionale, la quale si limita a rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali,
ma rappresenta una conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria. Il sindacato di costituzionalità sulle norme penali di favore è, inoltre, ammissibile anche sotto il profilo processuale, poiché le pronunce concernenti la legittimità di tali norme possono influire sull’esercizio della funzione giurisdizionale, sia incidendo sulle formule di proscioglimento, o, quanto meno, sui dispositivi
delle sentenze, sia perché anche le norme penali di favore fanno parte del sistema e lo stabilire in quale
modo il sistema potrebbe reagire al loro annullamento è problema che i singoli giudici devono affrontare caso per caso, sia perché non può escludersi che il giudizio della Corte si concluda con una sentenza interpretativa di rigetto (nei sensi indicati in motivazione) o con una pronuncia correttiva delle
premesse esegetiche su cui si fonda l’ordinanza di rimessione. Corte cost., 23 novembre 2006, n. 394.
4.2.2. Applicazioni.
È manifestamente inammissibile la q.l.c. del combinato disposto degli art. 460 comma 5 c.p.p. e 136
D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271, censurato, in riferimento all’art. 3 cost., nella parte in cui non prevedono,
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
quale limite all’effetto estintivo del decreto penale non opposto, l’essersi il condannato volontariamente
sottratto all’esecuzione della pena inflitta. Premesso che l’art. 460 comma 5 c.p.p., a prescindere dalla sua
collocazione, riveste indubbio carattere di norma sostanziale e non meramente processuale, in quanto
incide sulla stessa esistenza del reato determinandone l’estinzione, la richiesta del rimettente, che mira
ad estendere al rito monitorio la limitazione dell’effetto estintivo del reato già prevista, per l’applicazione
della pena su richiesta delle parti, dall’art. 136 D.Lgs. n. 271 del 1989, sollecita una pronuncia volta a
restringere l’effetto estintivo del reato previsto dalla norma medesima e, dunque, una pronuncia additiva
“in malam partem” in materia penale sostanziale, preclusa dal principio della riserva di legge sancito
nell’art. 25 comma 2 cost. Corte cost., 30 novembre 2007, n. 407.
Sono costituzionalmente illegittimi, in riferimento all’art. 3 cost., l’art. 100 comma 3 D.P.R. 30 marzo
1957, n. 361 (Approvazione del Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione della Camera dei
deputati), come sostituita dall’art. 1, comma 1, lett. a), della L. 2 marzo 2004, n. 61 (Norme in materia
di reati elettorali), nonché l’art. 90 comma 3 D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la
composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali), come sostituito dall’art. 1,
comma 2, lett. a), n. 1), della citata L., n. 61 del 2004 (la Corte, dopo aver richiamato la propria giurisprudenza in tema di sindacabilità delle norme penali di favore e dopo aver sottolineato le ragioni per le quali
le disposizioni censurate vanno ricomprese entro quella categoria normativa, ha passato in rassegna - a
fronte della previgente disciplina e di quella generale stabilita in materia di falso dal codice penale - i
diversi profili che rendono manifestamente irragionevole, anche in ragione dei beni protetti, la macroscopica differenza di trattamento sanzionatorio in favor, introdotta dalle disposizioni novellatrici oggetto di
impugnativa). Corte cost., 23 novembre 2006, n. 394.
4.3. Sentenze additive in malam partem della Corte Costituzionale.
È manifestamente inammissibile la q.l.c. dell’art. 4 L. 5 dicembre 2005, n. 251, censurato, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui - sostituendo l’art. 99 c.p. - limita la recidiva ai soli delitti non colposi,
escludendo così che gli aumenti di pena per essa previsti possano applicarsi a chi commetta una contravvenzione. Il rimettente, chiedendo di estendere l’ambito applicativo dell’istituto della recidiva - che implica una serie di effetti negativi per il reo - a casi che attualmente non vi rientrano (i reati contravvenzionali)
invoca una pronuncia additiva “in malam partem” in materia penale, e cioè un intervento precluso alla
Corte costituzionale dal principio della riserva di legge, sancito dall’art. 25, comma 2. Cost. Corte Cost, 8
maggio 2007, n. 164.
4.4. Casistica.
È dichiarata la manifesta inammissibilità della q.l.c. dell’art. 99, primo e comma 3, del codice penale, come sostituito dall’art. 4 L. 5 dicembre 2005, n. 251 sollevata, in riferimento agli art. 3, 25 e 27 cost.
poiché, ove non vi sia la possibilità di escludere l’applicazione della recidiva, la determinazione dell’aumento di pena relativo è effettuata a priori dal legislatore in misura fissa, sottraendola al prudente apprezzamento del giudice e astraendosi dalla concreta valutazione della recidiva nel caso di specie. La Corte
ritiene invece che si versi non in un’ipotesi di pena fissa, ma in un regime sanzionatorio che coniuga
articolazioni rigide ed elastiche, che concedono ampi spazi alla discrezionalità del giudice, nell’adeguare
la risposta punitiva alle singole e differenti fattispecie concrete. Nel caso di specie, il giudice, potendo
agire sulla pena detentiva, mantiene la possibilità di conformare la risposta punitiva alla particolarità del
singolo caso. Corte cost., 4 aprile 2008, n. 91.
Non sono fondate, in riferimento agli artt. 117 e 118 cost., le q.l.c. dell’artt. 1, commi 36, lettera c),
e 37, 1. 15 dicembre 2004, n. 308, i quali statuiscono l’irrilevanza penale di determinati abusi in zona
paesaggistica, per il futuro (art. 1, comma 36, lettera c), e l’estinzione dei reati paesaggistici, per il
passato (art. 1, comma 37). Le censurate disposizioni attengono strettamente al trattamento penale
degli abusi, il che induce a commisurare l’intervento legislativo statale, pur se relazionato alla materia dell’ambiente e dei beni culturali, al parametro dell’ari. 117, comma 2, letto l), costo (ordinamento
penale), e il previsto parere di un organo statale, la Sopraintendenza, ai soli fini del riscontro delle
condizioni oggettive di irrilevanza penale degli interventi in assenza o in difformità dell’autorizzazione paesaggistica, vale a garantire l’esigenza di uniformità di metodi di valutazione sul territorio nazionale, che è inerente al trattamento penale degli abusi, esigenza che è tale da giustificare la chiamata
in sussidiarietà dello Stato nelle funzioni amministrative; del resto, l’irrilevanza penale dell’abuso
non tocca gli aspetti urbanistici, per i quali le regioni non vedono scalfita la loro competenza nella
previsione delle sanzioni amministrative in materia edilizia, vigendo il principio dell’autonomia delle
sanzioni amministrative rispetto a quelle penali anche nella materia della tutela paesaggistica, mentre per gli abusi passati le sanzioni amministrative a tutela del paesaggio restano applicabili, pur se
limitate alla tipologia pecuniaria, così come sono applicabili, ove ne ricorrano i presupposti, le sanzioni a presidio di tutti gli altri valori che convergono sul territorio, in particolare quelle in materia
edilizia, di competenza regionale (sentt., n. 487 del 1989, 149 del 1999, 327 del 2000, 196 del 2004, 70
e 384 del 2005). Corte cost., 5 maggio 2006, n. 183.
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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In ordine all’assetto delle competenze nella materia concorrente della protezione civile ed al rispetto
da parte della Regione dei principi fondamentali posti dallo Stato, il legislatore statale, istituendo il Servizio nazionale della protezione civile (con la legge 24 febbraio 1992, n. 225), aveva già rinunciato ad un
modello centralizzato optando per un’organizzazione diffusa a carattere policentrico ed in tale logica,
nell’art. 2, comma 1, della legge citata, lo stesso legislatore aveva previsto tre diverse tipologie di “eventi”, correlativamente definendo competenze e responsabilità: a) eventi fronteggiabili mediante interventi
degli enti e delle amministrazioni competenti in via ordinaria; b) eventi che comportano l’intervento coordinato di più enti o amministrazioni competenti in via ordinaria; c) calamità naturali, catastrofi o altri
eventi che, per intensità ed estensione, richiedono mezzi e poteri straordinari. Non contrasta, pertanto,
con siffatta architettura costituzionale la legislazione regionale, in materia di protezione civile, la quale
abbia ad oggetto soltanto gli eventi calamitosi (incidenti comunque sul solo territorio regionale) fronteggiabili con gli interventi di cui alle lettere a) e b) dell’art. 2, comma 1, della legge n. 225 del 1992, e non
anche le calamità naturali, catastrofi o altri eventi destinati, per intensità ed estensione, ad essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari dello Stato (ex art. 2, comma 1, lettera c, della stessa legge). Corte
cost., 6 ottobre 2006, n. 323.
Sono inammissibili: a) la q.l.c. dell’art. 2621 commi 3 e 4 c.c., come sostituto dell’art. 1 D.Lgs. 11
aprile 2002, n. 61 (Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali a
norma dell’art. Il 1. 3 ottobre 2001, n. 366), sollevata, in riferimento agli art. 3,25, 76 e 117 costo ed all’art.
8 della convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997, nella parte in cui la sussistenza del reato viene
subordinata ad una alterazione “sensibile” della rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società e del gruppo di appartenenza, e nella parte in cui viene delineata una serie
di punibilità a carattere percentuale; b) la q.l.c. dell’art. l comma 1 lett. a), n. 1) 1. 3 ottobre 2001, n. 366
(Delega al Governo per la riforma del diritto societario), sollevata, in riferimento all’art. 76 cost., nella
parte in cui nel dettare i principi ed i criteri direttivi della riforma della disciplina penale delle società
commerciali, prescrive di introdurre, quanto alla nuova formulazione del reato di false comunicazioni
sociali, la previsione di generiche “soglie quantitative”, inidonea ad indirizzare l’attività normativa del
legislatore delegato (La Corte ha ritenuto inammissibile la questione sub a), in quanto, in contrasto con il
principio di riserva di legge in materia penale sancito dall’art. 25 comma 2 Cost., volta ad estendere
l’ambito di applicazione della norma incriminatrice di cui all’art. 2621 c.c. a fatti che attualmente non vi
sono compresi. Sono inammissibili, altresì, le censure di violazione dell’art. 76 Costo - riferite tanto alla
norma di delega, nella questione sub b), che alla norma delegata, nella questione sub a) - giacché, ove tali
censure fossero fondate, la Corte potrebbe solo rimuovere l’intera norma (di delega e delegata), con un
risultato opposto rispetto all’obiettivo di ampliare la sfera applicativa della fattispecie, perseguito dal
giudice “a qua”). Corte cost., 1 giugno 2004, n. 161.
Dal principio di stretta legalità discende che la delimitazione delle fattispecie incriminatrici rientra
nei compiti esclusivi del Parlamento quale organo costituzionale che più direttamente esprime la sovranità e la volontà popolare. Pertanto, le sentenze costituzionali con «portata manipolatrice», non vincolano
il giudice ordinario nella parte relativa alla integrazione della sanctio legis. (Applicazione in tema di reati
militari previsti dagli artt. 186 e 189 c.p.m.p., dichiarati costituzionalmente illegittimi nella parte sanzionatoria con la pronuncia, n. 103 del 1982 della Corte Costituzionale con la quale si era prospettata anche la
possibilità di applicare a tutte le fattispecie di insubordinazione militare le sanzioni previste dalla legge
penale comune). Cass., Sez. Un., 26 maggio 1984, n. 5655.
La circostanza che una determinata norma sia contraria a Costituzione, non può comunque comportare ¬come conseguenza della sua rimozione da parte della Corte- l’assoggettamento a pena, o a
pena o a pena più severa, di un fatto che all’epoca della sua commissione risultava, in base alla norma
rimossa, penalmente lecito o soggetto a pena più mite: derivandone, per tale aspetto, un limite al principio della privazione di efficacia della norma dichiarata costituzionalmente illegittima, enunciato dall’art.
136, primo comma, Costo e dall’art. 30, terzo comma, della legge Il marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale). Corte cost., 1983, n. 148.
5. Le norme penali in bianco.
Le norme penali “in bianco” sono caratterizzate dal riferimento, ai fini dell’integrazione del precetto,
a norme extrapenali anche di fonte amministrativa sicché l’omessa indicazione, nel decreto di citazione a
giudizio, delle stesse, ove non desumibili implicitamente dalla descrizione del fatto, risolvendosi in una
mancata individuazione del precetto violato, è causa di nullità del decreto medesimo. Cass. 16 gennaio
2008, n. 12148.
La fattispecie di cui all’art. 444 c.p. è norma penale in bianco, rivestita di contenuti in base a norme
extrapenali integratrici del precetto penale, che possono essere emanate anche da autorità amministrative o sovranazionali, le quali dettano disposizioni regolatrici od impongono divieti anche in base ad accertamenti scientifici relativi a situazioni storiche determinate; dal carattere eccezionale e dall’efficacia temporanea di tali disposizioni consegue che la punibilità della condotta non dipende dal momento in cui
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
viene emessa la decisione, ma dal momento in cui avviene l’accertamento, con esclusione dell’applicabilità del principio di retroattività della legge più favorevole. (Nel caso di specie, le disposizioni di un D.M.
integratrici del precetto prevedevano il divieto di commercializzazione di carne di bovino adulto, in base
ad accertamenti che avevano indicato come pericolose per la salute determinate condizioni di età dell’animale, legate a fatti contingenti; vincoli poi superati dal Regolamento comunitario, n. 1974 del 2005).
Cass. 16 maggio 2006, n. 19107.
L’art. 348 c.p., che punisce il reato di abusivo esercizio di una professione, ha natura di norma penale
in bianco, in quanto presuppone l’esistenza di altre disposizioni, integrative del precetto penale, che definiscono l’area oltre la quale non è consentito l’esercizio di determinate professioni. L’errore su tali norme,
costituendo errore parificabile a quello ricadente sulla norma penale, non ha valore scriminante in base
all’art. 47 c.p. (Fattispecie riguardante la normativa disciplinante l’attività sanitaria, in ordine alla quale si
assumeva da parte della difesa che l’imputato, biologo accusato del predetto reato per avere praticato un
prelievo di sangue venoso a fini di analisi, fosse incorso in errore). Cass. 6 dicembre 1996, n. 1632.
L’atto normativo del potere esecutivo (nella specie: decreto ministeriale) può costituire fonte mediata
di norme penali, stabilire cioè gli elementi costitutivi del fatto incriminato, solo in quanto una legge o un
atto equiparato, che costituiscono ex art. 25 cost. Le esclusive fonti delle norme penali, abbiano indicato
con sufficiente specificazione le condizioni ed i limiti dei provvedimenti dell’autorità non legislativa, alla
trasgressione dei quali è ricollegabile la sanzione penale. Invero, la riserva di legge, di cui all’art. 25
comma secondo cost., riguarda in modo assoluto la Determinazione della pena, mentre la riserva concernente il precetto deve essere interpretata in senso meno rigoroso purché, naturalmente, resti garantito il
principio di legalità. Cass. 16 febbraio 1988, n. 9548.
L’atto amministrativo rimane tale anche quando integra il precetto penale e, quindi, non è soggetto
a giudizio di legittimità costituzionale. (Fattispecie in tema di norma penale in bianco). Cass. 8 giugno
1987, n. 9781.
In tema di norme penali in bianco, è legittima la legge che, nel comminare una sanzione penale, si
rimette, per la specificazione di singoli elementi della fattispecie, ad atti non dotati di valore di legge,
quali anche gli atti della pubblica amministrazione. (Nella specie è stato affermato che il codice della
navigazione, che sia nell’art. 1164 sia nell’art. 1174 irroga la pena alternativa dell’arresto fino a tre mesi o
dell’ammenda sino a lire 400.000, è legge dello Stato, sicché il principio di legalità della pena è soddisfatto, nulla importando che i contrassegni di fatto siano delineati da un atto normativo di grado inferiore ordinanza della capitaneria di porto - e quest’ultimo sia successivo e rivolto ad una generalità di soggetti).
Cass. 8 giugno 1987, n. 9781.
Intanto la disposizione di un regolamento di esecuzione - cioè di un atto normativo del potere esecutivo, che presuppone una legge (o altro atto normativo avente tale forza) precedente alla quale si ricollega
e della quale detta le norme particolari concernenti la sua esecuzione - può costituire fonte, mediata, di
norme penali (ovviamente per quel che concerne esclusivamente la determinazione degli elementi del
fatto incriminato), in quanto la legge stessa - mediante una norma «delegatrice» (detta anche «autorizzatrice») che costituisce l’esclusiva fonte della norma penale - abbia conferito, in forma espressa e specifica, al governo la delegazione della potestà regolamentare in quella determinata materia, stabilendo essa
stessa direttamente la misura della sanzione o prefiggendo il massimo di pena con cui il potere esecutivo
potrà sanzionare i precetti così determinati. Cass. 5 novembre 1982, n. 4431.
Con l’espressione «legge penale in bianco» si suole indicare quella legge - o quell’atto avente forza di
legge - la quale faccia riferimento ad un atto normativo di grado inferiore per indicare tutti i contrassegni
di un fatto che la legge medesima (o l’atto avente tale forza) considera penalmente illecito. Cass. 5 novembre 1982, n. 4431.
Il principio di legalità è violato solo quando non sia una legge ad indicare con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell’autorità non legislativa, alla cui
trasgressione deve seguire la pena (sent. 61 del 1969); che, in particolare, nell’analogo precetto contenuto nell’art. 650 c.p. la materialità della contravvenzione è descritta tassativamente in tutti i suoi elementi
costitutivi (sent. 168 del 1971); e, infine, che la norma penale in bianco presuppone la legittimità dei
provvedimenti dati dall’autorità competente, spettando al giudice indicare, volta per volta, se il provvedimento sia stato emesso nell’esercizio di un potere-dovere previsto dalla legge (sent. 8 del 1956). Corte
cost., 12 marzo 1975, n. 58.
È inefficace una norma penale in bianco che si richiami ad un atto ad essa esterno, di qualsiasi
natura, non soggetto ad alcuna forma di pubblicazione, essendo la conoscenza delle norme penali,
nella loro interezza, canone fondamentale per la loro applicabilità. Cass. 31 marzo 1969, n. 925.
6. Principio di determinatezza e tassatività della fattispecie.
6.1. Fondamento.
Il principio di legalità, inteso come “riserva di legge statale” è espressamente costituzionalizzato, in
sede penale, dall’art. 25, secondo comma, Cost.: trattandosi dell’applicazione delle più gravi sanzioni
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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giuridiche, la Costituzione intende particolarmente garantire i soggetti attraverso la praevia lex scripta. I
principi di tassatività e d’irretroattività delle norme penali incriminatrici, nell’aggiungere altri contenuti
al sistema delle fonti delle norme penali, evidenziano che il legislatore costituzionale intende garantire
i cittadini, attraverso la “possibilità” di conoscenza delle stesse norme, la sicurezza giuridica delle
consentite, libere scelte d’azione. Corte cost., 24 marzo 1988, n. 364.
Le garanzie di cui agli artt. 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost., comportano il contemporaneo adempimento da parte dello Stato di altri doveri costituzionali: ed in prima, di quelli attinenti alla
formulazione, struttura e contenuti delle norme penali. Queste ultime possono essere conosciute solo
allorché si rendano “riconoscibili”. Il principio di “riconoscibilità” dei contenuti delle norme penali, implicato dagli artt. 73, terzo comma e 25, secondo comma, Cost., rinvia, ad es., alla necessità che il diritto
penale costituisca davvero la extrema ratio di tutela della società, sia costituito da norme non numerose, eccessive rispetto ai fini di tutela, chiaramente formulate, dirette alla tutela di valori almeno di
“rilievo costituzionale” e tali da esser percepite anche in funzione di norme “extrapenali”, di civiltà,
effettivamente vigenti nell’ambiente sociale nel quale le norme penali sono destinate ad operare. Corte
cost., 24 marzo 1988, n. 364.
6.2. Le clausole elastiche.
La formula «senza giustificato motivo» e formule ad essa equivalenti od omologhe - «senza giusta
causa», «senza giusto motivo», «senza necessità», «arbitrariamente», ecc. - compaiano con particolare
frequenza nel corpo di norme incriminatrici, ubicate tanto all’interno dei codici (cfr. artt. 616, 618 c.p.) che
in leggi speciali (cfr., ex plurimis, art. 89 del D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570; art. 6, comma 3, del D.Lgs. n.
286 del 1998).Dette clausole sono destinate in linea di massima a fungere da “valvola di sicurezza” del
meccanismo repressivo, evitando che la sanzione penale scatti allorché - anche al di fuori della presenza di vere e proprie cause di giustificazione - l’osservanza del precetto appaia concretamente “inesigibile” in ragione, a seconda dei casi, di situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo, di obblighi
di segno contrario, ovvero della necessità di tutelare interessi confliggenti, con rango pari o superiore
rispetto a quello protetto dalla norma incriminatrice, in un ragionevole bilanciamento di valori. Corte
cost. 13 gennaio 2004, n. 5.
Il carattere “elastico” della clausola utilizzata dal legislatore si connette, nella valutazione legislativa, alla impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a “giustificare” l’inosservanza del precetto. Una simile elencazione sconterebbe immancabilmente - a fronte della
varietà delle contingenze di vita e della complessità delle interferenze dei sistemi normativi - il rischio di
lacune: lacune che, peraltro, tornerebbero non a vantaggio, ma a danno del reo, posto che la clausola in
parola assolve al ruolo, negativo, di escludere la punibilità di condotte per il resto corrispondenti al tipo
legale. Rimane ferma, tuttavia, l’esigenza di accertare, in relazione al singolo contesto di utilizzo, che la
locuzione de qua - in quanto incidente, sia pure in negativo, sulla delimitazione dell’area dell’illiceità
penale - non ponga la norma incriminatrice in contrasto con il fondamentale principio di determinatezza, rimettendo di fatto all’arbitrio giudiziale la fissazione dei confini d’intervento della sanzione criminale. Deve essere peraltro di guida, in tale indagine, il criterio, reiteratamente affermato da questa Corte,
per cui la verifica del rispetto del principio di determinatezza va condotta non già valutando isolatamente
il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce. L’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito penale
di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero - come nella specie - di clausole generali o concetti “elastici”, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice - avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca - di stabilire il significato di
tale elemento, mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie
concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo (cfr., ex plurimis, sentenze, n. 34 del 1995;, n. 31 del 1995;, n. 122 del
1993;, n. 247 del 1989; v., altresì, sentenza, n. 263 del 2000; ordinanza, n. 270 del 1997). Corte cost. 13
gennaio 2004, n. 5.
Una fattispecie incriminatrice che contenga clausole elastiche, come ad esempio “senza giustificato motivo” o “senza giusta causa”, non è di per sè contraria al principio di determinatezza della norma
penale, ma può diventarlo soltanto quando non consenta al destinatario della norma di comprendere
in modo chiaro ed inequivoco quale sia la condotta vietata. Corte cost. 13 gennaio 2004, n. 5.
È manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, comma 2, e 27, comma 3, Cost., la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 5-bis e 5-ter, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, come
modificato della L. 30 luglio 2002, n. 189, il quale configura come illecito penale il trattenimento, senza
giustificato motivo, dello straniero sul territorio dello Stato in violazione dell’ordine del questore di allontanamento da esso entro cinque giorni. Premesso che la clausola «senza giustificato motivo» - alla luce
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
sia delle finalità dell’incriminazione (rendere effettivo il provvedimento di espulsione, rimovendo situazioni di illiceità o pericolo correlate alla presenza dello straniero nel territorio dello Stato); sia del quadro
normativo in cui tale finalità si innesta - deve ritenersi diretta ad escludere la configurabilità del reato in
presenza di situazioni ostative di particolare pregnanza, le quali - anche senza integrare delle cause di
giustificazione in senso tecnico - incidano sulla stessa possibilità, soggettiva od oggettiva, di adempiere
all’intimazione, escludendola ovvero rendendola difficoltosa o pericolosa, e che deve quindi escludersi
che la norma incriminatrice si presti a reprimere anche inottemperanze dovute a situazioni di impossibilità incolpevole - oggettiva e soggettiva - di adempimento del precetto, la clausola stessa, pur se
comprime, in fatto, le capacità di presa della norma incriminatrice, poiché l’ordine di allontanamento
dovrebbe essere emesso, in surroga dell’accompagnamento coattivo alla frontiera, proprio nelle situazioni in cui il destinatario versa in una situazione di rilevante difficoltà ad adempierlo, non viola gli
evocati parametri, rilevando la relativa previsione sul piano dell’opportunità delle scelte politico-criminali, e non su quello della legittimità costituzionale, mentre, in particolare, la dedotta lesione dell’art. 2 Cost. risulta priva di specifico supporto argomentativo. Corte cost., 21 novembre 2006, n. 386.
6.2.1. Art. 14 comma 5-ter D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286.
6.2.1.1. “Giustificato motivo”: legittimità costituzionale e interpretazione.
L’art. 14 comma 5-ter, D.P.R. 25 luglio 1998, n. 286, aggiunto dall’art. 13 della L. 30 luglio 2002, n. 189,
definisce pienamente la condotta omissiva incriminata, consistente nel mancato abbandono del territorio
dello Stato da parte dello straniero nei cinque giorni successivi alla ricezione dell’ordine di allontanamento impartito dal questore. La clausola di eccezione, concernente l’ipotesi in cui esista un giustificato
motivo per non ottemperare, non viola l’esigenza di determinatezza della fattispecie penale, posta
dall’art. 25 cost., poiché tale clausola ha riguardo a situazioni ostative di particolare pregnanza, che
incidono sulla stessa possibilità, soggettiva od oggettiva, di adempiere all’intimazione, escludendola ovvero rendendola difficoltosa o pericolosa. Tale clausola non implica una inversione dell’onere della
prova in danno dell’imputato, il quale ha un semplice onere di allegazione dei motivi non conosciuti nè
conoscibili dal giudice. Corte cost. 13 gennaio 2004, n. 5.
Non sono fondate, in riferimento agli art. 2, 3, 24, 25, 27 e 97 cost., le q.l.c. dell’art. 14 comma 5-ter
D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, aggiunto dall’art. 13 comma 1 L. 30 luglio 2002, n. 189, il quale punisce con
l’arresto da sei mesi ad un anno “lo straniero che senza giustificato motivo si trattiene nel territorio dello
Stato in violazione dell’ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis” del medesimo articolo.
Premesso che il dubbio di legittimità costituzionale per violazione del principio di determinatezza della
fattispecie penale può porsi con esclusivo riferimento alla clausola negativa, a carattere elastico, “senza
giustificato motivo”, risultando per il resto, e in positivo, la condotta omissiva pienamente definita sul
piano contenutistico, e che le clausole elastiche sono destinate in linea di massima a fungere da valvola
di sicurezza del meccanismo repressivo, evitando che la sanzione penale scatti allorché l’osservanza del
precetto appaia concretamente inesigibile, detta clausola, alla luce della finalità perseguita dall’incriminazione - che, mirando a rendere effettivo il provvedimento di espulsione, persegue l’obiettivo di rimuovere situazioni di illiceità o di pericolo correlate alla presenza dello straniero nel territorio dello Stato - e
del quadro normativo nel quale essa si innesta - collocandosi l’istituto dell’espulsione in un quadro
sistematico che vede regolati in modo diverso l’ingresso e la permanenza degli stranieri nel Paese, a
seconda che si tratti di richiedenti il diritto di asilo o rifugiati, ovvero di c.d. migranti economici - non
viola il principio di determinatezza, giacché essa, se pure non può essere ritenuta evocativa delle sole
cause di giustificazione in senso tecnico, ha tuttavia riguardo a situazioni ostative di particolare pregnanza, che incidono sulla stessa possibilità, soggettiva od oggettiva, di adempiere all’intimazione,
escludendola ovvero rendendola difficoltosa o pericolosa e non anche ad esigenze che riflettano la
condizione tipica del “migrante economico”. Ne consegue che la norma impugnata non delinea alcuna
ipotesi di responsabilità oggettiva, nè prefigura un trattamento irragionevolmente parificato di situazioni
eterogenee (quali quelle dello straniero che è in grado di adempiere all’intimazione e dello straniero che
non lo è), nè viola il diritto di difesa, mentre il principio del buon andamento della p.a., pur potendo
riferirsi anche all’amministrazione della giustizia, attiene esclusivamente alle leggi concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari e il loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo, ed è del tutto estraneo
all’esercizio della funzione giurisdizionale. Corte cost. 13 gennaio 2004, n. 5.
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, la
sussistenza o meno del «giustificato motivo» per cui lo straniero si è trattenuto nel territorio dello Stato in
violazione dell’ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis dello stesso art. 14, deve sostanziarsi in una «condizione di concreta inesigibilità dell’ottemperanza», trattandosi di un’esimente che deve
trovare la propria ragione, e al contempo, i propri limiti, in un ragionevole punto di equilibrio tra le esigenze di tutela sociale alle quali è preposto l’ordine del questore e i diritti fondamentali dello straniero,
garantiti dalle norme costituzionali. Ciò significa che non può assumere rilievo la mera difficoltà di
adempiere, reperendo i fondi necessari al titolo di viaggio, tipica della condizione in cui versano tutti i
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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“migranti economici”. Occorre che ci si trovi in presenza, invece, di una condizione di grave inesigibilità dell’adempimento, ossia di una condizione di oggettiva e indiscutibile indisponibilità dei mezzi
necessari e sufficienti per l’acquisto del titolo di viaggio per l’allontanamento «obbligato». L’accertamento di tale condizione deve essere condotta dal giudice di merito avendo riguardo: a) alla presumibile situazione economica dell’interessato, desumibile tanto dai proventi di qualsivoglia attività egli svolga od abbia svolto in Italia, quanto dal tempo di accertata presenza irregolare dello stesso sul territorio
nazionale e dalle condizioni personali di suo inserimento sociale; b) al costo presumibile per l’acquisto
del titolo di viaggio, tenendo presente che l’allontanamento deve avvenire non già, necessariamente,
con rimpatrio nel paese di origine, bensì, secondo la ragionevole previsione dell’art. 14, comma 5-bis,
D.Lgs. n. 286 del 1998, in direzione di qualunque altro luogo situato fuori del territorio dello Stato
italiano (ben potendo emergere che lo straniero possa avere collegamenti personali con tali luoghi).
Cass. 8 febbraio 2008, n. 8352.
Non costituiscono un giustificato motivo che, ai sensi dell’art. 14, com. 5-ter, D.Lgs. 296/1998, preclude la possibilità di adempiere all’ordine del Questore, le future nozze di un clandestino con una
cittadina italiana. Cass. sez., V, 12 febbraio 2008, n. 6605.
La convivenza “more uxorio” con una cittadina italiana non può costituire legittimo motivo ostativo all’espulsione, in quanto il divieto di espulsione di cittadino extracomunitario coniugato con cittadino
italiano o convivente con parenti entro il quarto grado di cittadinanza italiana risponde all’esigenza di
tutelare da un lato l’unità della famiglia e dall’altro il vincolo parentale che riguarda persone che si
trovano in una situazione di certezza di rapporti giuridici ed è invece assente nella convivenza “more
uxorio”, non risultando possibile estendere l’equiparazione tra famiglia legittima e famiglia di fatto
alla material dell’immigrazione clandestina. Cass. 22 maggio 2008, n. 24710.
Appare configurabile la esimente del giustificato motivo nella sussistenza di una condizione di
oggettiva ed indiscutibile indisponibilità dei mezzi necessari e sufficienti per l’acquisto del titolo di
viaggio per l’allontanamento “obbligato”. L’accertamento di tale condizione dovrà essere condotta dal
Giudice di merito avendo riguardo:1. alla presumibile situazione economica dell’interessato desumibile
tanto dai proventi di qualsivoglia attività egli svolga od abbia svolto in Italia, quanto dal tempo di accertata presenza irregolare dello stesso sul territorio nazionale e dalle condizioni personali di suo inserimento
sociale; 2. al costo presumibile per l’acquisto del titolo di viaggio, tenendo presente che l’allontanamento
deve avvenire non già, necessariamente, con rimpatrio nel paese di origine, bensì, secondo la ragionevole previsione dell’art. 14, comma 5-bis del citato T.U. in direzione di qualunque altro luogo situato fuori del
territorio dello Stato italiano, (ben potendo emergere che lo straniero possa avere collegamenti personali
con tali luoghi). Cass. 18 gennaio 2007, n. 4683.
Ai fini della sussistenza del “giustificato motivo”, idoneo ad escludere la configurabilità del reato di
inosservanza dell’ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato, è lo straniero che ha l’onere di
allegare le situazioni giustificanti non conosciute e non conoscibili dal giudice, il quale deve verificare
se il comportamento posto in essere dipenda da una scelta volontaria del soggetto, oppure dalla
mancanza di disponibilità dei documenti necessari per l’espatrio, mancanza non facilmente evitabile da
parte dello straniero. Cass. 26 maggio 2006, n. 19131.
In tema di immigrazione di cittadini extracomunitari, il rigetto dell’istanza di emersione ai sensi dell’art. 1 D.L., n. 195 del 2002, conv. nella L., n. 222 del 2002 integra ex se la condizione di carenza di un
valido titolo di soggiorno che legittima il prefetto ad adottare, a prescindere dalle ulteriori motivazioni
previste dall’art. 3 L., n. 241 del 1990, la misura espulsiva in base all’art. 13 comma 2 lett. b) D.Lgs. n. 286
del 1998, presupposto dell’ordine di allontanamento di competenza del questore, la cui inosservanza, in
assenza di giustificato motivo, dà luogo al reato contemplato dall’art. 14 comma 5-ter D.Lgs. n. 286 del
1998. Cass. 3 novembre 2005, n. 45431.
Non costituisce giustificato motivo idoneo ad escludere la configurabilità del reato di inosservanza
dell’ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato ai sensi dell’art. 14, comma 5-ter, D.Lgs. 286/
1998, come introdotto dall’art. 13 L. 189/2002 (modifica alla normativa in materia di immigrazione e di
asilo) l’essersi trattenuto in Italia al fine di poter presentare richiesta di sanatoria ai sensi dell’art. 1 D.L.
195/2002, conv. con L. 222/2002, in data posteriore a quella del provvedimento del questore, essendo
quest’ultimo ostativo alla successiva istanza di legalizzazione della posizione lavorativa dello straniero in
Italia. Cass. 20 novembre 2003, n. 48863.
6.2.2. Onere della prova.
In tema di immigrazione, ai fini della integrazione del giustificato motivo, la prova della assoluta impossidenza non può fondarsi sulla mancanza di documenti di identità, di una stabile dimora o
di una attività lavorativa certa, laddove non risulti sorretta da accertamenti inerenti le relazioni e le
disponibilità familiari, il tempo trascorso in Italia, il grado di inserimento nella realtà socioeconomica del Paese, nonché gli eventuali precedenti penali da cui desumere una capacità reddituale non
necessariamente lecita, il costo del viaggio in relazione alla capacità economica del soggetto. Cass.
7 aprile 2006.
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
In tema di inosservanza dell’ordine del Questore di lasciare il territorio dello Stato, ai fini della sussistenza del “giustificato motivo”, incombe in capo allo straniero l’onere di allegare i motivi non conosciuti né conoscibili dal giudicante, permanendo in capo al giudice il potere-dovere di rilevare, ove possibile, in maniera diretta le ragioni che legittimano l’inosservanza dell’ordine di allontanamento. Cass. sez.
I. 25 maggio 2006.
7. Il divieto di analogia in malam partem.
Integra il reato di inottemperanza all’ordine del questore di allontanamento dal territorio dello
Stato, di cui all’art. 14, comma 5-ter, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione) il fatto dello straniero che si sia visto negare il rinnovo del permesso
di soggiorno e, raggiunto dall’intimazione di lasciare il predetto territorio entro cinque giorni, vi si sia
trattenuto oltre detto termine, a nulla rilevando che solo la revoca o l’annullamento del permesso siano
previsti espressamente dalla legge come presupposti per la configurazione dell’ipotesi criminosa, in quanto
il diniego di rinnovo del permesso medesimo è ad essi equivalente. Cass. 6 novembre 2007, n. 45517.
Sulla natura giuridica della c.d. immunità giudiziale, può sostenersi che si tratta di una vera e propria
causa di giustificazione con ambito applicativo più vasto rispetto a quella prevista in via generale dall’art.
51 c.p.; di una immunità; di una causa di esclusione della sola antigiuridicità penale; di una causa di non
punibilità, in quanto viene esclusa solo l’applicazione della pena, ma non l’antigiuridicità del fatto. Prevale
ed è condivisa la tesi che riconduce l’immunità giudiziaria alle cause di non punibilità in senso stretto,
atteso che la disposizione in questione prevede che il giudice possa ordinare la soppressione o la cancellazione delle scritture offensive e assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del
danno non patrimoniale, disciplina che sembrerebbe diretta ad escludere la sola applicazione della pena,
ma non anche la antigiuridicità penale del fatto. Cass. 30 settembre 2005, n. 39934.
Agli artt. 51 e 598 c.p. vanno assegnati spazi applicativi distinti, in quanto la natura scriminante del
primo esclude qualsiasi conseguenza pregiudizievole per l’agente, mentre la causa di non punibilità in
cui si concreta l’art. 598 c.p. prevede la permanenza di conseguenze da reato diverse dalla pena. Ne
consegue che le offese cui si riferisce l’art. 598 c.p. nel momento in cui integrano gli estremi dell’illecito
penalmente rilevante, cui non segue alcuna pena, ma quelle altre conseguenze esaminate, sono da considerare sicuramente fuori dalla sfera di attuazione dell’esercizio di una facoltà legittima collegata all’esercizio del diritto di difesa. La ragione dell’immunità giudiziaria sta proprio nell’escludere la punibilità di
quelle espressioni pronunciate nel corso di una vicenda giudiziaria che, pur riguardando l’oggetto della
“causa”, siano esorbitanti rispetto alle necessità difensive, restino cioè estranee all’ambito dell’esercizio
della difesa. Diversamente, nel caso in cui le espressioni adoperate risultino strettamente conferenti all’esercizio del diritto di difesa allora troverà applicazione la causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p.
Volendo utilizzare una formula sintetica e semplificatoria, può dirsi che l’art. 51 c.p. ha ad oggetto la
diretta esplicazione del diritto di difesa, mentre l’art. 598 c.p. riguarda le modalità e i limiti di esplicazione
del medesimo diritto. In questO senso è corretta l’affermazione secondo cui l’ambito di azione dell’art.
598 c.p. è più vasto, ricomprendendo manifestazioni che altrimenti rimarrebbero fuori dall’esercizio del
diritto di difesa ex art. 51 c.p. Cass. 30 settembre 2005, n 39934.
Non è consentito invocare l’inesigibilità della condotta (in applicazione della teoria secondo la
quale verrebbe meno la colpevolezza, quando sia impossibile pretendere dal soggetto una condotta
conforme al precetto), sia perché nel nostro ordinamento penale, ispirato al principio di legalità, non
sono ipotizzabili cause di esclusione della punibilità diverse da quelle legislativamente previste, sia
perché gli stessi imputati non hanno dimostrato di avere fatto tutto quanto era nelle loro possibilità, per
evitare il comportamento illecito. Il principio della non esigibilità di una condotta diversa - sia che lo si
voglia ricollegare alla ratio della colpevolezza, riferendolo ai casi in cui l’agente operi in condizioni
soggettive tali da non potersi da lui umanamente pretendere un comportamento diverso, sia che lo si
voglia ricollegare alla ratio dell’antigiuridicità, riferendolo a situazioni in cui non sembri coerente ravvisare un dovere giuridico dell’agente di uniformare la condotta al precetto penale - non può trovare
collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate, in quanto le condizioni e i limiti di applicazione delle norme penali
sono posti dalle nome stesse, senza che sia consentito al giudice di ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l’analogia iuris (Cass. 31.5.1993, n. 973, ric. P.M., in proc. Bove. Vedi
pure, in proposito, Cass. 27 settembre 1985, n. 8271). Cass. 11 novembre 2004, n. 48402.
L’interpretazione estensiva è un criterio ermeneutico con il quale si attribuisce il più ampio significato
fra quelli possibili, ai termini che definiscono la norma, che trova, però il proprio limite invalicabile nella
stessa lettera della legge. L’analogia, invece, è un procedimento di astrazione logica, attraverso il quale
viene risolto un caso non previsto dalla legge, applicando la disciplina espressamente prevista per un caso
diverso, ma collegato a quello in esame da un rapporto di similitudine. In applicazione di questo principio,
è da escludersi che l’introduzione nel territorio dello Stato per farne commercio, di beni con marchi genuini,
ma senza il consenso del titolare del marchio, integri il reato previsto dall’art 474 c.p. il quale richiede che i
beni rechino un marchio o un altro segno distintivo contraffatto o alterato. Cass. 15 febbraio 2003.
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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L’art. 12-sexies della legge n. 898/1970, che in materia di divorzio prevede l’applicazione delle pene
di cui all’art. 570 c.p. per il coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto a
norma degli artt. 5 e 6 della stessa legge, non è suscettibile di applicazioni analogiche, ostandovi il disposto dell’art. 1 c.p. Ne consegue che la sanzione predetta non è applicabile all’inosservanza dell’ordinanza
emessa, a norma dell’art. 4 della legge citata, dal Presidente del Tribunale in via temporanea e urgente
nell’interesse dei coniugi e della prole, ma soltanto al mancato rispetto delle prescrizioni in materia disposte dal Tribunale con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del
matrimonio. Cass. 3 febbraio 1999, n. 2824.
A fronte dell’inequivoco elemento letterale contenuto nell’art. 443 c.p., l’assimilazione della detenzione per il commercio alla detenzione per la somministrazione non può non considerarsi preclusa dai
principi di legalità e tassatività della norma penale sanciti dagli art. 1 c.p. e 14 disp. prel. c.c., elevati a
rango costituzionale dall’art. 25 comma 2 cost. (è indubbio, infatti, che l’equiparazione fra le due situazioni si traduce nell’applicazione per via analogica della norma incriminatrice, in quanto nella fattispecie da
essa delineata viene inserito un caso che, benché accomunato dall’”eadem ratio” a quello espressamente previsto, resta, tuttavia, diverso e determina una estensione del campo di applicazione della sanzione
riferibile non alla legge, ma all’operazione interpretativa del giudice; in presenza di una fattispecie dai
contorni ben determinati e nettamente definiti, l’ampliamento dell’ambito di essa non può trovare base
giustificativa nell’oggettività giuridica del reato ossia nell’elemento, comune alle due ipotesi, dell’esposizione a pericolo dell’interesse all’incolumità e alla salute pubblica). Cass. 10 febbraio 1995, n. 4140.
Il principio di stretta legalità vigente in diritto penale impone al giudice di attenersi alla precisa
dizione della norma incriminatrice, senza indulgere a interpretazioni analogiche e, ove la norma del
tutto chiara non sia, di attenersi all’interpretazione giurisprudenziale imperante, che la abbia esplicitata, ad evitare diverse interpretazioni che espongano il cittadino a responsabilità di maggior contenuto
rispetto a quelle cui il cittadino medesimo, in base al principio di cui all’art. 1 c.p., era espressamente
chiamato dalla norma incriminatrice e dalla giurisprudenza al riguardo. (Nella specie, relativa ad annullamento senza rinvio perché il fatto non costituisce reato di sentenza di condanna per avere l’imputato
effettuato scarichi dai servizi civili, in un fosso adiacente alla propria fabbrica senza avere richiesto la
prescritta autorizzazione, la S.C. ha osservato che la coincidenza dell’epoca dell’accertamento dello scarico con quella del mutamento della giurisprudenza imperante, che non richiedeva l’autorizzazione, avrebbe
imposto come soluzione obbligata l’assoluzione dell’imputato, la quale, oltreché dettata dall’art. 5 c.p.
nella lettura fattane dalla Corte Costituzionale, è suggerita, prima ancora, dal principio di stretta legalità).
Cass. 6 ottobre 1993, n. 435.
La sanzione da applicare ad una fattispecie che ne sia priva non può essere rinvenuta attraverso
l’interpretazione analogica. In caso contrario l’interprete della legge si trasformerebbe in legislatore con
marcata incidenza negativa sia sul principio di certezza sia sulla stessa efficacia determinante delle disposizioni penali coinvolte in siffatta operazione interpretativa, diretta a correlare, con l’intervento del giudice, il comportamento del soggetto attivo del reato ad una pena non costituente oggetto di specifica
comminatoria legislativa. (Applicazione in tema di reati militari puniti dagli artt. 186 e 189 c.p.m.p. dichiarati costituzionalmente illegittimi nella parte sanzionatoria con la prospettazione della possibilità di applicare a tutte le fattispecie di insubordinazione militare le sanzioni previste dalla legge penale comune).
Cass., Sez. Un., 26 maggio 1984, n. 5655.
Contra: Non integra il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 la condotta
dello straniero che si sia trattenuto in Italia successivamente all’ordine del questore di lasciare il territorio
dello Stato entro cinque giorni emesso a seguito di rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno (In
motivazione, la S.C. ha evidenziato che il legislatore ha configurato l’ingiustificato trattenimento nel territorio dello Stato come contravvenzione nel caso di espulsione disposta perché il permesso di soggiorno
è scaduto da più di sessanta giorni e non ne è stato chiesto il rinnovo, sicchè risulterebbe irragionevole
inserire tra le più gravi fattispecie delittuose il caso, di rilievo minore avuto riguardo agli interessi tutelati
dalla normativa sull’immigrazione, in cui lo straniero si è attivato con la richiesta di rinnovo del permesso
di soggiorno, anche se non accolta). Cass. 7 dicembre 2007, n. 244.
Non integra il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 la condotta dello
straniero che si sia trattenuto in Italia successivamente all’ordine del questore di lasciare il territorio dello
Stato entro cinque giorni emesso a seguito di rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno. (In motivazione, la S.C. ha escluso che il provvedimento di rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno possa
essere equiparato a quello di revoca o di annullamento del medesimo in quanto tale interpretazione
sarebbe espressione di applicazione analogica e non puramente estensiva del precetto penale di cui alla
menzionata disposizione). Cass. 18 dicembre 2007, n. 1479.
Resta estranea all’art. 14, comma 5-ter, d.1gs 286/98, in virtù del principio di stretta legalità, e non è
conseguentemente punibile con l’arresto, !’ipotesi di permanenza dello straniero dopo l’espulsione disposta per rifiuto di rinnovo del permesso di soggiorno. La permanenza abusiva nello Stato dopo l’ingiunzione di allontanarsene è sanzionata penalmente dal citato articolo 14 comma 5ter, soltanto: 1) come
delitto, quando l’espulsione è disposta per ingresso illegale nello Stato, omessa richiesta del permesso di
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
soggiorno o revoca dello stesso; 2) come contravvenzione, quando mancata richiesta di rinnovo del
permesso di soggiorno entro 60 giorni dalla scadenza. Resta quindi estranea all’area del delitto l’ipotesi
qui in esame, di permanenza dopo espulsione disposta per rifiuto di rinnovo del permesso di soggiorno,
potendo semmai – secondo il giudice a quo – ravvisarsi l’ipotesi contravvenzionale che non consente
l’arresto. Il Pm ricorrente sostiene che la situazione in esame sarebbe sostanzialmente equivalente ad una
revoca di permesso, e quindi riconducibile all’ipotesi delittuosa di cui all’art 14 comma 5-ter primo periodo. A tale conclusione ostano peraltro il principio di stretta legalità e il conseguente divieto di analogia.
Né in contrario può invocarsi il disposto dell’art 5 comma 5 del D.Lgs. 386/ 98 secondo il quale, in caso di
rifiuto del rinnovo, il permesso di soggiorno è revocato. La norma, infatti, non può che intendersi riferita
all’ipotesi in cui il rifiuto interviene prima della scadenza di validità del permesso, e comunque distingue
nettamente il rifiuto di rinnovo dalla revoca (pure se consequenziale). Né infine può ritenersi contraria alla
ratio del sistema repressivo la sottrazione dell’area della condotta delittuosa della permanenza nello Stato dopo il rifiuto di rinnovo del permesso, poiché nei confronti del soggetto che ha ottenuto il permesso
di soggiorno la legge adotta criteri di favore, sanzionando solo come reato contravvenzionale la mancata
richiesta di rinnovo, sicchè, quando il rinnovo sia stato invece richiesto, ma non ottenuto, sarebbe irragionevole punire gravemente lo straniero. Cass. 21 settembre 2006, 3142.
7.1. L’avviso di conclusione delle indagini di cui all’articolo 415-bis c.p.p.
L’avviso di conclusione delle indagini di cui all’articolo 415-bis c.p.p. non costituisce atto interruttivo
della prescrizione del reato ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 160 c.p. Risulta, pertanto, preclusa
ogni operazione diretta ad integrare in malam partem la serie di atti indicati nell’art. 160 c.p., strutturalmente collegati con le scansioni del divenire procedimentale, e però in grado di incidere direttamente in
modo sfavorevole nei confronti dell’imputato, siccome inerenti ai tempi, ai limiti e dunque all’effettività
dell’esercizio dello ius puniendi. Cass., Sez. Un., 5 giugno 2007, n. 21833.
8. La rilevanza dell’attività interpretativa.
La lista di riferimento delle classi farmacologiche di sostanze dopanti e di metodi doping vietati,
recepita dalla legge n. 522/1995, indica, per ciascuna classe, alcune sostanze ad essa appartenenti, specificando però che si tratta di una mera esemplificazione e ponendo un riferimento di chiusura con l’espressione “e sostanze affini” (con formulazione che riproduce quella già contenuta nella lista adottata dal CIO
nell’aprile del 1989).L’affinità delle sostanze è determinata dalla struttura chimica e/o dagli effetti farmacologici delle stesse e produce la conseguenza di rendere le “sostanze affini” vietate anche se non espressamente incluse nella ripartizione in classi.Ne consegue che la ripartizione in classi operata dal decreto
ministeriale previsto dall’art. 2 della legge n. 376/2000 non è e non può essere tassativa, perché un
“elenco chiuso” di farmaci, sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e pratiche mediche, il
cui impiego è considerato doping non rispetterebbe le disposizioni della Convenzione di Strasburgo e le
indicazioni del Comitato internazionale olimpico – che consentono un’estensione in virtù della mera coincidenza degli effetti farmacologici e/o della composizione chimica – ed esorbiterebbe i limiti della delega
conferita dal 1º comma dello stesso art. 2.A riprova di ciò va rilevato che il riferimento alle “sostanze
affini” è contenuto in tutti i decreti ministeriali di ripartizione in classi succedutisi nel tempo.Né la situazione è cambiata con l’emanazione del D.M. 13 aprile 2005.Esso, pur non utilizzando le medesime parole,
evidenzia, nella premessa, “la necessità di armonizzare, entro il termine del 1º gennaio 2005, la lista dei
farmaci, delle sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e delle pratiche mediche, il cui impiego è considerato doping, alla lista internazionale di riferimento, ai sensi dell’art. 2, comma 3, della
legge 14 dicembre 2000, n. 376” e, a questo fine, inserisce nell’allegato I proprio la “lista adottata con
l’emendamento all’appendice della Convenzione contro il doping nello sport ratificata con la legge 29
novembre 1995, n. 522, in vigore dal 1º gennaio 2005”.Nell’allegato II stabilisce, poi, che “ove previsto
dalla lista internazionale di riferimento, devono intendersi comprese nelle varie classi tutte le sostanze
con struttura chimica simile a quelle espressamente indicate e/o capaci di espletare attività farmacologica
vietata per doping”.La lista internazionale di riferimento contiene appunto previsioni siffatte attraverso
plurimi richiami ad “altre sostanze con una struttura chimica simile o simili effetti biologici” [other substances with a similar chemical structure or similar biological effect(s)].Analoghe testuali espressioni si
rinvengono nella più recente lista predisposta dall’Agenzia mondiale contro il doping (The 2006 prohibited list international standard).cc) Nella prospettiva dianzi enunciata possono trarsi elementi di conferma
dallo svolgimento dei lavori preparatori relativi alla legge n. 376/00.Nel testo approvato dal Senato il 21
luglio 1992, infatti, l’art. 2, lº comma, prevedeva che “i farmaci, le sostanze farmacologicamente attive e le
pratiche terapeutiche, il cui impiego è considerato doping a norma dell’art. l, sono individuati in conformità alle disposizioni della Convenzione di Strasburgo, ratificata ai sensi della citata legge 29 novembre
1995, n. 522, ed alle indicazioni del Comitato internazionale olimpico (CIO) e degli organismi internazionali preposti al settore sportivo, in tabelle approvate con decreto del Ministro della sanità, d’intesa con il
Ministro per i beni e le attività culturali, su proposta della Commissione per la vigilanza ed il controllo sul
doping di cui all’art. 3”. Il confronto tra il testo approvato dal Senato il 21 luglio 1999 e il testo modificato
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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dalla Camera dei deputati il 19 luglio 2000 corrobora l’interpretazione secondo la quale l’intento del legislatore è stato quello di delegare al decreto ministeriale non l’individuazione dei farmaci, sostanze, pratiche mediche costituenti doping, bensì soltanto l’approvazione delle classi in cui siffatti farmaci, sostanze e pratiche mediche sono destinati a ripartirsi, il che costituisce un minus rispetto al precedente.
Cass., Sez. Un., 27 gennaio 2006, n. 3087.
La volontà del legislatore (da intendere non come l’intenzione del redattore del testo di legge, bensì
come la mens legis risultante dalla formulazione della norma), si distacca necessariamente dalle intenzioni dei suoi artefici, per inserirsi nell’ordinamento giuridico dello Stato, ed assumere vita propria. Cass.,
Sez. Un., 29 novembre 1958.
Soltanto nel caso in cui la formulazione della norma penale non risulti di per sé chiara ed univoca, ai
fini dell’interpretazione di essa può assumere rilevanza il pensiero di coloro che materialmente ne risultano artefici; se, al contrario, la formulazione della norma è chiara ed univoca, l’eventuale, contraria intenzione dei suoi artefici è priva di rilievo. Cass., Sez. Un., 10 dicembre 1957.
9. Ammissibilità e limiti del sindacato del giudice penale sull’atto giuridico assunto
come dato della fattispecie penale.
9.1. Provvedimento legislativo.
Nel caso in cui l’atto giuridico è un provvedimento legislativo, richiamato, come spesso accade, in
una fattispecie penale, non potendo il giudice disapplicare la legge (art. 101 secondo comma Cost.), esso
può essere sindacato solo in quanto se ne ravvisi un possibile contrasto con parametri costituzionali,
abilitandosi in tal caso il giudice (salva la percorribilità di una interpretazione costituzionalmente orientata) a sollevare incidente di costituzionalità (art. 1 1. cost. 9 febbraio 1948, n. 1; art. 23 1. 11 marzo 1953,
n. 87). Cass., Sez. Un., 15 maggio 2008, n. 19601.
9.2. Provvedimento amministrativo.
Nell’ipotesi in cui l’atto giuridico è rappresentato da un provvedimento amministrativo, esso può essere
incidentalmente sindacato dal giudice penale, in quanto illegittimo, come quando è la sua inosservanza a
costituire reato, come si è più volte affermato in giurisprudenza ad esempio con riferimento alla fattispecie
dell’art. 650 c.p., in tema di inosservanza dei provvedimenti dell’autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica o d’ordine pubblico o d’igiene, o a quella dell’art. 14 comma 5-ter D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286,
in tema di inosservanza dell’ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato, esclusa ogni rivalutazione
dei presupposti di fatto assunti a base del provvedimento (v., in tal senso, proprio a proposito dell’art. 650
c.p., Cass. 24 giugno 1992, Beltrami; Id., 1º giugno 1990, Beltramo; Cass. sez. Ili, 2 febbraio 1967, Capra;
nonché, a proposito dell’art. 14 comma 5-ter D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, fra le tante, Cass. 28 marzo 2006,
Hado), i quali, beninteso, devono essere correttamente individuati nel provvedimento amministrativo (v.
Cass. 22 giugno 2004, Conti). Cass., Sez. Un., 15 maggio 2008, n. 19601.
9.2.1. Reati edilizi.
Gli artt. 22 e 13 L., n. 47 del 1985 (le cui previsioni sono state trasfuse negli artt. 36 e 45 del t.u., n. 380
del 2001) vanno interpretati in stretta connessione ai fini della declaratoria di estinzione dei «reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti» e il giudice penale, pertanto, ha il potere-dovere di
verificare la legittimità della concessione edilizia rilasciata “in sanatoria” e di accertare che l’opera realizzata sia conforme alla normativa urbanistica. In mancanza di tale conformità la concessione non estingue
i reati ed il mancato effetto estintivo non si ricollega ad una valutazione di illegittimità del provvedimento
della pubblica amministrazione cui consegua la disapplicazione dello stesso ai sensi dell’art. 5 L., n. 2248
del 1865, all. E), bensì alla effettuata verifica della inesistenza dei presupposti di fatto e di diritto dell’estinzione del reato in sede di esercizio del doveroso sindacato della legittimità del fatto estintivo incidente
sulla fattispecie tipica penale. Cass. 12 gennaio 2007, n. 6415.
Il giudice penale non può disapplicare l’atto amministrativo, neanche conoscendone “incidenter
tantum”, a meno che esso non sia illecito o presenti macroscopici vizi di illegittimità. Cass. 21 ottobre
2004, n. 232.
In caso di concessione edilizia in sanatoria il giudice penale deve accertare la conformità dell’atto
agli strumenti urbanistici, in ossequio alla previsione degli art. 13 e 22 L. 28 febbraio 1985, n. 47, per i
quali la concessione in sanatoria estingue i reati urbanistici solo se le opere risultano conformi agli strumenti urbanistici, senza ricorrere all’istituto della disapplicazione del provvedimento ex art. 5 L. 20
marzo 1865, n. 2248 all. E. Cass. 23 febbraio 2003, n. 18764.
Il reato di cui all’art. 20 comma 1 lett. a) L. 28 febbraio 1985, n. 47, è configurabile nel caso di realizzazione di opere di trasformazione del territorio in violazione del parametro di legalità urbanistica ed edilizia, costituito dalle prescrizioni della concessione edilizia, richiamata dalla norma penale ad integrazione
descrittiva della fattispecie penale, nonché dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti
edilizi, ed - in quanto applicabili - da quelle della stessa legge. (La Cassazione ha escluso che, sussistendo
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
difformità dell’opera edilizia rispetto agli strumenti normativi urbanistici ovvero alle norme tecniche di
attuazione del piano regolatore generale, il giudice penale dovrebbe comunque concludere per la mancanza di illiceità penale nel caso in cui sia stata rilasciata la concessione edilizia, osservando che la
concessione non è idonea a definire esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio dell’opera realizzanda senza rinviare al quadro delle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle rappresentazioni grafiche
del progetto approvato, di tal che nella specie non si configura una non consentita disapplicazione da
parte del giudice penale dell’atto amministrativo concessorio). Cass., Sez. Un., 12 novembre 1993.
Contra: Nell’ipotesi di concessione edilizia in sanatoria il giudice penale deve accertare la conformità
dell’atto alle norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, anche in ossequio alla previsione
di cui all’art. 13 L., n. 47 del 1985, per il quale la concessione in sanatoria estingue i reati urbanistici solo se
le opere risultano conformi agli strumenti urbanistici; ne consegue che il giudice, esercitando il doveroso
sindacato di legittimità del fatto estintivo o incidente sulla fattispecie tipica penale, può disapplicare la
concessione illegittima ex art. 5 L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E. Cass. 15 febbraio 2005, n. 19236.
9.2.2. Distruzione o deturpamento di bellezze naturali.
Non può ritenersi sussistente il reato di cui all’art. 734 c.p. (distruzione o deturpamento di bellezze naturali)
quando l’intervento realizzato sui beni tutelati sia stato assentito da un’autorizzazione regolarmente rilasciata
dalla competente autorità, la quale non presenti vizi di legittimità e sfugga pertanto al potere - dovere di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi da parte del giudice penale. Cass. 17 febbraio 2004, n. 14433.
9.2.3. Abusiva apertura di luoghi di pubblico spettacolo.
In materia di abusiva apertura di luoghi di pubblico spettacolo o trattenimento è precluso al giudice
ordinario, mediante la disapplicazione dell’atto amministrativo, interferire con la scelta effettuata dall’amministrazione nell’esercizio del potere discrezionale sia con riferimento al rilascio dell’autorizzazione, sia
con riguardo al rinnovo della stessa. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto illegittima l’ordinanza del tribunale del riesame il quale, disapplicando il provvedimento amministrativo di diniego di
proroga della licenza di esercizio pubblico, aveva annullato il decreto di sequestro preventivo dei relativi
locali disponendone la restituzione agli aventi diritto). Cass. 1 dicembre 2000, n. 3757.
9.2.4. Reati ambientali.
L’ordinanza sindacale emanata in virtù dell’art. 12 D.P.R., n. 915 del 1982 (ora art. 13 D.Lgs. n. 22 del
1997), funge da causa di giustificazione del reato di discarica abusiva, e non costituisce autonomo titolo di
legittimazione alla apertura o alla gestione di una discarica di rifiuti solidi urbani, distinto e sostitutivo dell’autorizzazione regionale prevista dalla legge. Ne consegue che, in materia di poteri di sindacato del
giudice penale sulla legittimità della medesima, non viene in gioco la problematica della disapplicazione
dell’atto amministrativo illegittimo, essendo sempre nella facoltà del giudice penale di sindacare la sussistenza dei presupposti e delle condizioni di applicabilità di una esimente. Perché l’ordinanza prevista
dall’art. 12 D.P.R., n. 915 del 1982, possa considerarsi legittima e dunque possa valere ad escludere il reato
di discarica abusiva, debbono essere rispettati i presupposti di necessità, urgenza, temporaneità e tutela
degli interessi pubblici per la cui protezione è attribuita la facoltà di emanare provvedimenti “extra ordinem”, purché siano altresì valutate prevedibilità e prevenibilità del danno o del pericolo alla salute o all’ambiente nonché la possibilità di adottare misure diverse, rispettose della legge, costituenti precondizioni del
potere di deroga riconosciuto in via eccezionale e temporanea al sindaco. Cass. 19 settembre 2000.
9.2.5. Inottemperanza, da parte dello straniero, all’ordine del questore di lasciare il
territorio dello Stato, emessa ai sensi dell’art. 14, comma 5-bis, del t.u. sull’immigrazione emanato con D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286.
Il reato di inottemperanza, da parte dello straniero, all’ordine del questore di lasciare il territorio
dello Stato, emessa ai sensi dell’art. 14, comma 5-bis, del t.u. sull’immigrazione emanato con D.Lgs. 25
luglio 1998, n. 286 e successive modificazioni, presuppone la legittimità dell’ordine anzidetto, la quale è
da escludere (con conseguente potere dovere di disapplicazione del provvedimento da parte del giudice
penale), qualora esso non contenga esplicita, ancorché stringata, motivazione in ordine alle ragioni per le
quali non sia stato possibile eseguire immediatamente l’espulsione ovvero trattenere lo straniero in un
centro di permanenza temporanea. (Nella specie la Corte, pur enunciando il suddetto principio, ha tuttavia ritenuto che costituisce motivazione sufficiente quella costituita dal riferimento al provvedimento di
espulsione adottato dal Prefetto, accompagnata dall’affermazione che non era “possibile trattenere lo
straniero presso un centro di permanenza temporanea”. Cass. 15 ottobre 2004, n. 47682.
9.2.6. Art. 650 c.p.
Atteso l’obbligo di motivazione ora previsto per ogni provvedimento amministrativo ai sensi dell’art.
3 comma 1 L. 7 agosto 1990, n. 241, salvi i soli casi contemplati nel successivo comma 2 (atti normativi ed
atti a contenuto generale), deve ritenersi illegittimo, e quindi soggetto a disapplicazione, per mancanza di
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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detta motivazione, un invito a presentarsi presso un ufficio di polizia in cui, come ragione della convocazione, venga solo indicata quella “motivi che la riguardano”. In siffatti ipotesi, quindi, legittimamente
viene esclusa la configurabilità del reato di cui all’art. 650 c.p. nei confronti del soggetto rimasto inottemperante al suindicato invito. Cass. 29 marzo 1995, n. 4536.
9.3. Atto negoziale privato.
Se elemento della fattispecie è un atto negoziale privato (come nella ipotesi dell’art. 641 c.p.), il
giudice penale può escludere l’illiceità del fatto solo in presenza di un negozio nullo, ad esempio perché avente causa illecita, dato che in tal caso la relativa obbligazione non è idonea, in assoluto, a produrre
effetti giuridici, e quindi nemmeno una condotta incriminabile, non bastando che esso sia solo annullabile, dovendo il negozio ritenersi produttivo di effetti giuridici fino a che esso non sia annullato dal
giudice civile (v., a proposito dell’art. 641 c.p., Cass. 29 marzo 1972, Da Ponte; Cass. sez. III, 29 gennaio
1964, Sanzone). Cass., Sez. Un., 15 maggio 2008, n. 19601.
9.4. Provvedimento giudiziale.
Se l’elemento della fattispecie è un provvedimento giudiziale, il giudice penale non ha alcun potere di
sindacato, dovendo limitarsi a verificare l’esistenza dell’atto e la sua validità formale. Cass., Sez. Un., 15
maggio 2008, n. 19601.
10. Principio di legalità e determinazione della pena.
In tema di trattamento sanzionatorio del reato continuato, la pena destinata a costituire la base sulla
quale operare gli aumenti fino al triplo per i reati satelliti - qualunque sia il genere o la specie della loro
sanzione edittale - è esclusivamente quella prevista per la violazione più grave. (In applicazione di tale
principio la Corte ha ritenuto corretta la determinazione della pena effettuata dal giudice di merito il quale,
ritenuto reato più grave il delitto ed assunta come pena base la sola multa prevista per tale violazione,
aveva su di essa applicato l’aumento per la continuazione con riferimento al reato satellite consistente in
una contravvenzione punita anche con l’arresto, così complessivamente irrogando esclusivamente la
sanzione pecuniaria). Cass., Sez. Un., 3 febbraio 1998, n. 15.
Il principio di legalità della pena è vincolante non solo quando venga applicata una pena non
prevista o diversa da quella contemplata dalla legge, ma anche quando venga applicata una pena che
esula dalle singole fattispecie legali penali perché pena legale è anche quella risultante dalle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio, tra le quali rientrano le norme sulle circostanze aggravanti. (Affermando tale principio la Cassazione ha eliminato la pena della multa inflitta per il reato di
corruzione ai sensi dell’art. 24 comma secondo c.p. che consente l’aggiunta della pena della multa per i
delitti determinati da motivi di lucro puniti con la sola reclusione: all’uopo ha considerato che il reato
ascritto all’epoca dei fatti era punito con la pena congiunta della reclusione e della multa e che pertanto,
per il principio di legalità della pena, esso rimaneva fuori della previsione aggravatoria di cui al suddetto
articolo). Cass. 25 marzo 1994, n. 7505.
In tema di continuazione, ai fini dell’individuazione della violazione più grave da prendere come
base per il calcolo delle pene, occorre riferirsi alle valutazioni astratte compiute dal legislatore, ossia
occorre aver riguardo alla pena prevista dalla legge per ciascun reato, di tal che la violazione più grave va
individuata in quella punita dalla legge più severamente. Non essendovi, poi, dubbio che nel sistema del
nostro codice la distinzione tra delitti e contravvenzioni è poggiata sulla ritenuta maggiore gravità dei fatti
illeciti considerati quali delitti, deve ritenersi che nel concorso tra delitti e contravvenzioni violazione più
grave debba esser considerata quella costituente delitto, e ciò anche nel caso in cui la contravvenzione
sia punita edittalmente con una pena di maggior quantità rispetto a quella prevista per il delitto, il discorso quantitativo servendo come integratore solo allorquando si tratti di pene di egual specie, al fine di
decidere la maggior gravità dell’una o dell’altra violazione. Cass., Sez. Un., 27 marzo 1992, n. 4901.
La pena legale non è solo quella comminata dalle singole fattispecie penali, bensì anche quella risultante
dall’applicazione delle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio; tra tali disposizioni va ricompresa la normativa concernente il concorso formale di reati e il reato continuato. Cass. 11 gennaio 1984, n. 5503.
Il principio di legalità della pena (art. 1 c.p.) è violato qualora venga applicata una pena non prevista o
diversa da quella prevista dalla legge per un determinato reato. Rientra, tuttavia, nel concetto di legalità
anche la pena comminata dalle singole fattispecie penali, nonché quella risultante dalle varie disposizioni
incidenti sul trattamento sanzionatorio, nelle quali disposizioni, oltre le norme sulle circostanze (aggravanti o attenuanti) va ricompresa la normativa concernente il trattamento sanzionatorio previsto dall’art.
81 c.p. Cass., Sez. Un., 7 febbraio 1981, n. 5690.
11. La legalità è necessaria ma non sufficiente: il principio di offensività. (vedi anche sub artt. 49 c.p.).
“Il principio di necessaria offensività del reato è desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost., in
una lettura sistematica cui fa da sfondo «l’insieme dei valori connessi alla dignità umana» (sentenza, n.
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
263 del 2000). L’ampia discrezionalità che - per costante giurisprudenza della Consulta - va riconosciuta al
legislatore nella configurazione delle fattispecie criminose, si estende, infatti, anche alla scelta delle modalità di protezione penale dei singoli beni o interessi. Rientra, segnatamente, in detta sfera di discrezionalità l’opzione per forme di tutela avanzata, che colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio
della semplice esposizione a pericolo; nonché, correlativamente, l’individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva. Tali soluzioni debbono misurarsi, nondimeno, con l’esigenza di rispetto del principio di necessaria offensività del reato Corte cost., 20 giugno 2008, n. 225.
Spetta alla Corte - tramite lo strumento del sindacato di costituzionalità - procedere alla verifica dell’offensività «in astratto», acclarando se la fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto
offensivo; esigenza che, nell’ipotesi del ricorso al modello del reato di pericolo, presuppone che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id
quod plerumque accidit. Ove tale condizione risulti soddisfatta, il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa resta affidato al giudice ordinario, nell’esercizio del proprio potere ermeneutico (offensività «in concreto»). Esso - rimanendo impegnato ad una lettura
“teleologicamente orientata” degli elementi di fattispecie, tanto più attenta quanto più le formule verbali
impiegate dal legislatore appaiano, in sé, anodine o polisense - dovrà segnatamente evitare che l’area di
operatività dell’incriminazione si espanda a condotte prive di un’apprezzabile potenzialità lesiva. Se è
vero, quindi, che il diritto penale sanziona solo determinate condotte che aggrediscono un bene giuridico
e se è vero che queste condotte devono essere meritevoli di pena e quindi suscettibili di rieducazione,
allora è lecito affermare che debbano essere punite solo quelle condotte che rechino una offesa concreta
al bene giuridico stesso (conforme Corte cost. Sent., n. 333/1991). Corte cost., 20 giugno 2008, n. 225.
12. Il principio di tassatività.
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 727 c.p. per contrasto
con l’art. 25 della Costituzione, sollevata sotto il profilo della violazione del principio di determinatezza
della norma incriminatrice, in quanto la norma incriminatrice fa riferimento a concetti ormai di percezione
comune giacché entrati a far parte della sensibilità della comunistá. Cass. 13 novembre 2007, n. 175.
13. Profili processuali.
La violazione del principio di legalità della pena deve essere rilevata d’ufficio dal giudice dell’impugnazione, in applicazione analogica del principio fissato nell’art. 129 c.p.p., anche quando dipenda da una
riforma legislativa che modifichi il trattamento sanzionatorio, in senso favorevole all’imputato, dopo la
sentenza impugnata, ed a prescindere dalla prospettazione di specifiche doglianze sul punto nei motivi
dell’impugnazione o nel corso del relativo giudizio (Fattispecie nella quale la S.C. ha annullato la sentenza
d’appello che, pur dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, relativo alla
competenza penale del giudice di pace, non aveva d’ufficio rilevato l’applicabilità del più favorevole trattamento sanzionatorio previsto, per il reato di cui al comma 5 dell’art. 187 del codice della strada, in forza
dell’art. 64 comma 2 del citato decreto legislativo). Cass. 24 settembre 2002, n. 39631.
È compito del giudice controllare l’osservanza del principio di legalità della pena sancito dall’art. 1 c.p.
Conseguentemente, in analogia al disposto dell’art. 152 c.p.p. [ora art. 129 c.p.p.], in ogni stato e grado del
procedimento deve procedersi anche d’ufficio a tale controllo, e rilevare la nullità della sentenza che in violazione del menzionato principio abbia applicato pene che la legge non stabiliva all’epoca del commesso reato,
principali o accessorie che esse siano. Cass. 21 marzo 1985, n. 6280; conforme Cass. 22 gennaio 1988, n. 595.
È rilevabile anche in sede di esecuzione l’applicazione di una pena illegittima non prevista dall’ordinamento giuridico o eccedente per specie o quantità il limite legale, dato che il principio di legalità della
pena, enunciato dall’art. 1 c.p. ed implicitamente dall’art. 25, secondo comma, Cost. informa di sé tutto il
sistema penale e non può ritenersi operante solo in sede di cognizione. Tale principio, che vale sia per le
pene detentive sia per le pene pecuniarie, vieta che una pena che non trovi fondamento in una norma di
legge anche se inflitta con sentenza non più soggetta ad impugnazione ordinaria, possa avere esecuzione, essendo avulsa da una pretesa punitiva dello Stato. (Fattispecie relativa ad annullamento di ordinanza
che dichiarava inammissibile l’incidente di esecuzione col quale si rilevava l’applicazione di una pena
pecuniaria illegittima). Cass. 29 aprile 1985, n. 809.
2. Successione di leggi penali.
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso,
non costituiva reato [Cost. 25, comma 2; c.p. 1889, 2 comma 1].
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce
reato; e se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali [c.p.p. 673; c.p. 1889,
2 comma 2]1.
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena
pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135 [c.p. 1889, 2 comma 3]2.
Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica
quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza
irrevocabile [c.p.p. 648].
Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi
precedenti.
Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica
di un decreto-legge e nel caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti3 4 5.
1
In tema di responsabilità amministrativa da reato degli enti, v. l’art. 3, D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
Comma aggiunto dall’art. 14, L. 24 febbraio 2006, n. 85.
3
V., anche, art. 30, L. 11 marzo 1953, n. 87, che dispone: La sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale di una
legge o di un atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione, entro due giorni dal suo deposito in cancelleria, è
trasmessa, di ufficio, al Ministro di grazia e giustizia od al Presidente della Giunta regionale affinché si proceda immediatamente e, comunque, non oltre il decimo giorno, alla pubblicazione del dispositivo della decisione nelle medesime forme
stabilite per la pubblicazione dell’atto dichiarato costituzionalmente illegittimo.
La sentenza, entro due giorni dalla data del deposito, viene, altresì, comunicata alle Camere e ai Consigli regionali
interessati affinché, ove lo ritengano necessario, adottino i provvedimenti di loro competenza.
Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della
decisione.
Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna,
ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali.
4
La Corte costituzionale, con sentenza 19 febbraio 1985, n. 51, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del presente
comma, nella parte in cui rende applicabili alle ipotesi da esso previste le disposizioni contenute nel secondo e terzo comma.
V. art. 25 Cost.: Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.
V. art. 7 CEDU: 1. Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui fu commessa,
non costituiva reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non può del pari essere inflitta una pena
maggiore di quella che sarebbe stata applicata al momento in cui il reato è stato commesso.
2. Il presente articolo non vieterà il giudizio e la condanna di una persona colpevole d’una azione o d’una omissione che,
al momento in cui è stata commessa, era ritenuta crimine secondo i princìpi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.
V. art. 673 c.p.p.: Revoca della sentenza per abolizione del reato. 1. Nel caso di abrogazione o di dichiarazione di
illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto
penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti.
2. Allo stesso modo provvede quando è stata emessa sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere per
estinzione del reato o per mancanza di imputabilità.
2
GIURISPRUDENZA
1. Ratio e fondamento costituzionale del principio di irretroattività; 2. Ratio e fondamento normativo del principio di
retroattività della norma favorevole; 2.1. Profili di costituzionalità; 3. Nozione di successione e profili generali; 3.1.
Abolitio criminis (comma 2); 3.2. Modifica legislativa (comma 4); 4. Criteri distintivi fra comma 2 e comma 4 ed ipotesi
applicative. 4.1. Doppia punibilità in concreto; 4.1.1. Violenza sessuale; 4.2. Criterio del rapporto logico strutturale di
genere a specie; 4.2.1. Reati societari; 4.2.2. I reati fallimentari; 4.3. Criterio valutativo; 4.3.1. Oltraggio a pubblico
ufficiale; 4.3.2. Assunzione di lavoratori extracomunitari privi di autorizzazione al lavoro; 4.3.3. Reati tributari; 4.4. Abolitio criminis e sospensione condizionale della pena; 5. Identificazione della legge penale più favorevole; 6. La modifica
della norma extrapenale richiamata dalla disposizione incriminatrice; 6.1. Norme extrapenali integratrici della fattispecie penale e norme extrapenali non integratrici della fattispecie penale; 6.2. Consequenziale applicabilità dell’art. 2 c.p.;
6.3. Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, art. 12, comma 1, D.Lgs. 286/1998; 6.4. Violazione dell’art. 14,
comma 5-ter, D.Lgs. 286/1998, da parte del cittadino rumeno prima dell’adesione del Paese di appartenenza all’Unione
Europea; 6.5. Riformulazione della nozione di piccolo imprenditore con riferimento alle fattispecie di bancarotta; 6.6.
Truffa a danno di Ente poste; 6.7. Uso di bollo falso; 6.8. Varie; 7. Le norme penali in bianco; 7.1. Rifiuto di prestare il
servizio militare, art. 14 comma 2 L. 230/1998; 7.2. Art. 9 Legge 14 dicembre 2000, n. 376 (recante la disciplina delle
attività sportive e della lotta contro il doping); 7.3. Casistica; 8. I decreti-legge e le leggi di conversione; 9. Pronunce
costituzionali in malam partem e principio di irretroattività; 10. La nozione di effetti penali; 11. Rapporti con la depenalizzazione delle fattispecie; 12. I reati permanenti; 12.1. Ratio; 12.2. Inosservanza dell’ordine di allontanamento dal
territorio nazionale; 12.3. Casistica; 13. Reati a consumazione prolungata; 14. Continuazione; 15. Le sanzioni sostitutive
delle pene detentive brevi; 16. L’esecuzione della pena; 17. La sospensione condizionale della pena; 18. La disciplina
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2
LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
della prescrizione; 19. Le norme processuali: le regole in materia di competenza; 20. Le norme processuali: le misure
cautelari; 21. Le norme processuali: il giudizio abbreviato; 22. Le norme processuali: l’applicazione della pena su richiesta delle parti; 23. Le norme processuali: il decreto penale di condanna; 24. Le norme processuali: impugnazioni penali
riformate; 25. Le norme processuali: impugnazioni e inviolabilità del giudicato; 26. Le misure di sicurezza; 27. Le misure
di prevenzione; 28. La normativa in tema di ingiusta detenzione ed ingiusta custodia cautelare; 29. Rapporti con l’illecito
civile; 30. Abuso d’ufficio; 31. Reati edilizi. 32. Reati sessuali; 33. Oltraggio a pubblico ufficiale; 34. Reati finanziari e
tributari; 35. Reati attribuiti alla competenza del giudice di pace; 36. Sicurezza sul lavoro; 37. Casistica.
1. Ratio e fondamento costituzionale del principio di irretroattività.
Il principio di retroattività della norma più favorevole ha una valenza distinta rispetto al principio di
irretroattività della norma penale sfavorevole in quanto, mentre quest’ultimo si pone come essenziale strumento di garanzia del cittadino contro gli arbitri del legislatore, espressivo della esigenza di calcolabilità
delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale, il primo, invece, non ha alcun collegamento con tale libertà, in quanto la “lex
mitior” sopravviene alla commissione del fatto, al quale l’autore si era liberamente determinato in base al
pregresso panorama normativo. Perciò, mentre la irretroattività della norma sfavorevole trova diretto
riconoscimento nell’art. 25 comma 2 cost., non altrettanto può dirsi per la retroattività della legge favorevole, il cui fondamento va, invece, individuato nel principio di eguaglianza, che impone, in linea di massima, di
equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano
stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della “lex mitior”. Peraltro, il collegamento al principio di
eguaglianza segna anche il limite del principio stesso, che appare, perciò, a differenza della irretroattività
della norma penale sfavorevole, suscettibile di deroghe, legittime sul piano costituzionale ove sorrette da
giustificazioni oggettivamente ragionevoli. Corte cost., 23 novembre 2006, n. 394.
Il principio di irretroattività delle norme penali più severe - che è un principio comune a tutti gli
ordinamenti giuridici degli Stati membri e fa parte integrante dei principi generali del diritto di cui il
giudice comunitario deve garantire l’osservanza - impedisce l’applicazione retroattiva di una nuova interpretazione di una norma che descrive un’infrazione, nel caso in cui si tratti di un’interpretazione giurisprudenziale il cui risultato non era ragionevolmente prevedibile nel momento in cui l’infrazione è stata
commessa. Corte giust., 8 febbraio 2007, n. 3.
2. Ratio e fondamento normativo del principio di retroattività della norma favorevole.
Il regime giuridico riservato alla lex mitior, e segnatamente la sua retroattività, non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25, secondo comma, della Costituzione, in quanto la garanzia
costituzionale, prevista dalla citata disposizione, concerne soltanto il divieto di applicazione retroattiva
della norma incriminatrice, nonché di quella altrimenti più sfavorevole per il reo. Da ciò discende che
eventuali deroghe al principio di retroattività della lex mitior, ai sensi dell’art. 3 Cost., possono essere
disposte dalla legge ordinaria quando ricorra una sufficiente ragione giustificativa. L’individuazione dei
criteri in base ai quali operare questa valutazione non può prescindere dal considerare adeguatamente la
circostanza che tale principio non è affermato soltanto, come criterio generale, dall’art. 2 c.p., ma è
stato sancito sia a livello internazionale sia a livello comunitario; tale circostanza incide sul tipo di
sindacato che questa Corte deve operare quando ad esso la legge voglia derogare. In primo luogo,
merita di essere ricordato l’art. 15, primo comma, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici
adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, Il
medesimo principio, sancito nell’art. 15 del Patto di New York, è stato esplicitamente confermato dall’art.
49, comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre
2000 - la quale viene qui richiamata, ancorché priva tuttora di efficacia giuridica, per il suo carattere
espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei - secondo cui «se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima».Il
livello di rilevanza dell’interesse preservato dal principio di retroattività della lex mitior - quale emerge dal
grado di protezione accordatogli dal diritto interno, oltre che dal diritto internazionale convenzionale e dal
diritto comunitario - impone di ritenere che il valore da esso tutelato può essere sacrificato da una legge
ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo. Con la conseguenza che lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al reo deve
superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria
non sia manifestamente irragionevole. Corte cost., 23 novembre 2006, n. 393.
L’art. 6, comma secondo, del Trattato Istitutivo dell’Unione Europea assicura il rispetto, in quanto
principio generale del diritto comunitario, dei diritti fondamentali dell’uomo garantiti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri; tra essi, non rientra, peraltro, la retroattività della legge penale più
favorevole, poiché il valore da essa tutelato può essere sacrificato da una legge ordinaria in favore di
interessi di analogo rilievo (quali, ad esempio, quelli dell’efficienza del processo e della salvaguardia dei
diritti dei soggetti che in vario modo sono destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi od esigenze dell’intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali di rilievo prima-
– 56 –
TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
2
rio). (In applicazione del principio, la S.C. ha rigettato una richiesta ex art. 234 Trattato UE, di rimessione
della questione alla Corte giust. dell’Unione Europea). (Conf. Corte cost. n. 393 del 2006). Cass. 21 settembre 2007, n. 35257.
2.1. Profili di costituzionalità.
È dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 comma 547, L. 23 dicembre 2005, n. 266 nella
parte in cui stabilisce che, per le violazioni di cui all’art. 110, comma 9, del R.D. 18 giugno 1931, n. 773 e
successive modificazioni, commesse in data antecedente all’entrata in vigore della citata legge, si applicano le sanzioni penali previste al tempo delle violazioni stesse. La regola della retroattività della “lex
mitior” non è priva di fondamento costituzionale. Nel rispetto del principio di uguaglianza, la modifica
mitigatrice della legge penale deve valere anche per coloro che hanno posto in essere la condotta in un
momento antecedente la stessa, salvo che sussista una sufficiente ragione giustificativa, finalizzata a
preservare interessi contrapposti di analogo rilievo. Nel caso di specie, la deroga posta dall’art. 1 comma
547, L. 23 dicembre 2005, n. 266 non è collegata ad interessi che abbiano rilievo costituzionale analogo
all’interesse che il soggetto vanterebbe a non vedersi esposto alle conseguenze penali di condotte ormai
sanzionate come semplice illecito amministrativo. Corte cost., 18 giugno 2008, n. 215.
In presenza di un fenomeno di successione di leggi nel tempo, la dichiarazione di incostituzionalità
della disposizione sopravvenuta attinge, in tutto od in parte, il nuovo contenuto precettivo della disposizione, fermo restando l’effetto abrogativo della precedente, salvo che la prima non sia affetta da un
radicale vizio del procedimento legislativo, nel qual caso la norma dichiarata incostituzionale non solo
“cessa di avere efficacia” (art. 136, comma 1, cost.), ma perde anche l’idoneità ad abrogare la disciplina
precedente, che rivive. Soltanto in presenza di una dichiarazione di incostituzionalità che caduchi interamente una disposizione avente come contenuto unicamente quello di abrogare altra precedente disposizione, è ipotizzabile la reviviscenza di quest’ultima, poiché la pronuncia caducatoria fa venir meno l’unico
contenuto normativo della disposizione caducata, producendo l’effetto di far rivivere la previgente disposizione Cass. 18 aprile 2007, n. 19037.
È costituzionalmente illegittimo l’art. 10, comma 3, L. 5 dicembre 2005, n. 251, limitatamente alle
parole “dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché”. Premesso che il regime giuridico riservato alla “lex mitior”, e segnatamente la sua
retroattività, non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25, comma 2, cost., in quanto
la garanzia costituzionale, prevista dalla citata disposizione, concerne soltanto il divieto di applicazione
retroattiva della norma incriminatrice, nonché di quella altrimenti più sfavorevole per il reo, e che eventuali deroghe al principio di retroattività della “lex mitior”, ai sensi dell’art. 3 cost., possono essere disposte dalla legge ordinaria quando ricorra una sufficiente ragione giustificativa, con la conseguenza che lo
scrutinio di costituzionalità ex art. 3 cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale
più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente
che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole, la norma censurata – la quale dispone la
inapplicabilità dei nuovi, più brevi, termini di prescrizione ai reati per i quali sia intervenuta, in primo
grado, la dichiarazione di apertura del dibattimento - introduce una deroga ingiustificata alla regola della
retroattività della norma penale più favorevole al reo di cui all’art. 2, comma 4, c.p., risultando la scelta del
legislatore di individuare nel momento della dichiarazione di apertura del dibattimento il discrimine temporale per l’applicazione della nuova disciplina nei processi in corso di svolgimento in primo grado alla
data di entrata in vigore della L. n. 251 del 2005 priva di ragionevolezza: la dichiarazione di apertura del
dibattimento, infatti, non è idonea a correlarsi significativamente ad un istituto di carattere generale come
la prescrizione e al complesso delle ragioni che ne costituiscono il fondamento, poiché non connota
indefettibilmente tutti i processi di primo grado, in particolare i riti alternativi, né è inclusa fra gli incombenti ai quali il legislatore attribuisce rilevanza ai fini dell’interruzione del decorso della prescrizione ex
art. 160 c.p. Corte cost., 23 novembre 2006, n. 393.
È manifestamente infondata, in riferimento agli art. 3, 25 comma 2, 27 e 111 cost., la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 10 comma 3 L. n. 251 del 2005, nella parte in cui non prevede che i più
brevi termini di prescrizione previsti dalla indicata legge siano applicabili ai processi già pendenti in
primo grado, ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, ai processi pendenti in grado di
appello ed ai processi pendenti dinanzi alla Corte di cassazione, dal momento che è scelta legislativa
ragionevole quella di non vanificare, attraverso l’applicazione retroattiva della legge più favorevole, l’attività processuale già espletata secondo la legge del tempo; il principio di retroattività della legge più
favorevole non è costituzionalizzato come emanazione diretta del principio di legalità, e ben può essere
derogato da norme di legge; l’evenienza che, nel caso in cui si proceda separatamente a carico di più
coimputati, i tempi di trattazione dei relativi processi possano condurre all’applicazione della legge più
favorevole solo in uno di essi non contrasta con il principio della presunzione d’innocenza; la prescrizione, quale causa di estinzione del reato, non è strumento idoneo ad assicurare la ragionevole durata del
processo, ma, al contrario, è quest’ultima che dovrebbe scongiurare il decorso dei termini di prescrizione. Cass. 4 maggio 2006, n. 33435.
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2
LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 comma terzo c.p.
in relazione all’art. 24 Cost., nella parte in cui ritiene la formazione del giudicato preclusiva all’applicazione della legge penale successiva più favorevole: i diritti di azione di difesa non implicano che il
condannato possa contestare in ogni tempo la sentenza di condanna, posto che l’ordinamento sancisce
l’intangibilità del giudicato. (Nella fattispecie la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso avverso ordinanza che aveva respinto l’istanza diretta al giudice dell’esecuzione volta a rideterminare la pena inflittagli per
i delitti di cui agli artt. 71 e 74 legge n. 685/1975, previa concessione dell’attenuante di cui all’art. 73
comma settimo D.P.R. n. 39/1990, introdotta con legge successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna). Cass. 8 aprile 1994, n. 1490.
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 comma terzo c.p.
in relazione all’art. 3 Cost., nella parte in cui ritiene la formazione del giudicato preclusiva all’applicazione
della legge penale successiva più favorevole. L’applicazione delle disposizioni penali più favorevoli al reo
può, infatti, secondo quanto ha stabilito la Corte costituzionale (sent. n. 74/1980) subire limitazioni e
deroghe da parte del legislatore ordinario, purché razionalmente giustificabili. La lamentata disparità di
trattamento trova razionale giustificazione nell’esigenza di salvaguardare la certezza dei rapporti giuridici
esauriti, quali debbono ritenersi quelli coperti da giudicato, nulla rilevando che la fase esecutiva di tali
rapporti non sia ancora conclusa. (Nella fattispecie la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso avverso
ordinanza che aveva respinto l’istanza diretta al giudice dell’esecuzione volta a rideterminare la pena
inflittagli per i delitti di cui agli artt. 71 e 74 legge n. 685/1975, previa concessione dell’attenuante di cui
all’art. 73 comma settimo D.P.R. n. 39/1990, introdotta con legge successiva al passaggio in giudicato
della sentenza di condanna). Cass. 8 aprile 1994, n. 1490.
3. Nozione di successione e profili generali.
L’art. 2 c.p. pone nei commi che lo costituiscono una sequenza di regole tra loro collegate in modo
che si chiariscono a vicenda: perché operi la regola del terzo comma deve essere esclusa l’applicabilità
sia del primo, sia del secondo comma. Ciò significa, da un lato, che in una vicenda di successione di
leggi penali, perché un fatto rimanga punibile, occorre non solo che sia tale in base alla nuova legge
ma anche che la nuova fattispecie costituisse reato già in base alla legge precedente (altrimenti, come
si è detto, si avrebbe un’applicazione retroattiva della nuova legge, in contrasto, oltre che con l’art. 2,
comma 1, c.p., anche con l’art. 25, comma 2, Cost.) e, dall’altro, che i fatti commessi in precedenza e
rimasti fuori del perimetro della nuova fattispecie non sono più punibili “e se vi è stata condanna ne
cessano l’esecuzione egli effetti penali” (art. 2, comma 2, c.p.). Il primo e il secondo comma dell’art. 2
c.p. individuano un rapporto diretto tra norma e fatto, rimanendo da stabilire quali siano gli aspetti di
questo rilevanti, se solo quelli descritti dalla fattispecie incriminatrice o anche quelli che siano frutto di
qualificazioni esterne, cioè se rilevi o meno una successione di leggi richiamate da elementi normativi.
Esempio ricorrente in giurisprudenza è quello della calunnia, per la quale si pone la questione se è o
meno applicabile la regola dell’art. 2, comma 2, c.p. nel caso in cui sia abrogata la disposizione che
prevedeva come reato il fatto oggetto dell’incolpazione (v., da ultimo 21 maggio 1999.). Il terzo comma
invece, che non a caso parla di reato e non di fatto, individua un rapporto prima tra le norme e solo
dopo tra queste e il commesso reato. Cass., Sez. Un., 26 marzo 2003, n. 25887.
3.1. Abolitio criminis (comma 2).
Per aversi abolitio criminis a seguito di successione di legge penale nel tempo, ai fini dell’art. 2
comma terzo c.p. e dell’art. 673 comma primo c.p.p., è necessaria l’eliminazione, oltre che del titolo del
reato, anche dell’intera fattispecie di rilievo penale. Non è invece rilevante, a tal fine, la modifica, l’introduzione o l’eliminazione di elementi accidentali o accessori del reato, quali sono le circostanze. (Nella
fattispecie la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso avverso ordinanza che aveva respinto l’istanza
diretta al giudice dell’esecuzione volta a rideterminare la pena inflittagli per i delitti di cui agli artt. 71 e 74
legge n. 685/1975, previa concessione dell’attenuante di cui all’art. 73 comma settimo D.P.R. n. 39/1990,
introdotta con legge successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna). Cass. 8 aprile
1994, n. 1490.
3.2. Modifica legislativa (comma 4).
Quando viene espressamente abrogata una disposizione incriminatrice con la contestuale emanazione di un’altra disposizione incriminatrice, dal solo dato dell’abrogazione non può dedursi che tutte le
condotte precedentemente realizzate e rientranti in quella disposizione sono divenute non punibili, ma
occorre stabilire, ai sensi dell’art. 2 c.p., se la condotta oggetto del giudizio continui a costituire reato
anche per la legge posteriore: solo in caso negativo infatti essa deve essere ritenuta non punibile ai sensi
del comma 2 dell’art. 2 c.p., mentre in caso positivo deve trovare applicazione il comma 3 dello stesso
articolo. Il giudice quindi è tenuto a stabilire in primo luogo se il fatto addebitato all’imputato rientri
nella nuova norma incriminatrice e poi se la fattispecie che forma oggetto di questa costituisse reato
anche in base alla norma abrogata. In caso positivo, a norma dell’art. 2 comma 3 c.p., il giudice deve
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
2
applicare la legge più favorevole. (Fattispecie in cui la Corte di cassazione, in materia di emissione di
assegno senza provvista, ha ritenuto che tra l’art. 116 R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736 e l’art. 2 L. 15
dicembre 1990, n. 386 si è verificato un fenomeno di successione di leggi a norma dell’art. 2 comma 3
c.p.). Cass. 15 maggio 1992.
4. Criteri distintivi fra comma 2 e comma 4 ed ipotesi applicative.
4.1. Criterio della doppia punibilità in concreto.
Per stabilire se c’è o meno continuità normativa occorre verificare se esiste la doppia punibilità in
concreto e dunque se il fatto punito dalla legge anteriore è punito anche da quella posteriore (“prima
punibile, dopo punibile, quindi punibile”). Cass., Sez. Un., 26 marzo 2003, n. 25887.
4.1.1. Violenza sessuale.
La disposizione di cui all’art. 1 L. 15 febbraio 1996, n. 66 (Norme contro la violenza sessuale), che
recita: “Il capo I del titolo XII del libro II del c.p. e gli articoli sono abrogati”, va interpretata nel senso che
le condotte, realizzate nella vigenza delle precedenti statuizioni, non sono depenalizzate, quando coincidono con quelle introdotte dalla nuova normativa ovvero con quelle comuni, già disciplinate in altre
ipotesi tipiche del codice penale. In tal caso si verifica una successione di leggi penali nel tempo, regolata,
per l’assenza di norme transitorie, dai criteri dettati dall’art. 2 c.p. Cass. 1 luglio 1996, n. 2851.
4.2. Criterio del rapporto logico strutturale di genere a specie.
La fattispecie della legge successiva comprende in tutto o in parte fatti rientranti nella previsione
della legge sostituita o abrogata, ne consegue che tra le fattispecie incriminatrici che si susseguono
esista un rapporto logico - strutturale di genere a specie (o viceversa). Perché dunque non vi sia una totale
abolizione del reato previsto dalla disposizione formalmente sostituita (oppure abrogata con la contestuale
introduzione di una nuova disposizione collegata alla prima) occorre che la fattispecie prevista dalla legge
successiva fosse punibile anche in base alla legge precedente, rientrasse cioè nell’ambito della previsione
di questa, il che accade normalmente quando tra le due norme esiste un rapporto di specialità, tanto nel
caso in cui sia speciale la norma successiva quanto in quello in cui speciale sia la prima. Però se è la norma
successiva ad essere speciale ci si trova in presenza di un’abolizione parziale, perché l’area della punibilità riferibile alla prima viene ad essere circoscritta, rimanendone espunti tutti quei fatti che pur rientrando nella norma generale venuta meno sono privi degli elementi specializzanti. Si tratta di fatti che per la
legge posteriore non costituiscono reato e quindi restano assoggettati alla regola del secondo comma
dell’art. 2 c.p., anche se tra la disposizione sostituita e quella sostitutiva può ravvisarsi una parziale continuità. Perciò per questi fatti non opera il limite stabilito dall’ultima parte del terzo comma dell’art. 2 c.p. e
quando è stata pronunciata una condanna irrevocabile il giudice dell’esecuzione deve provvedere a revocarla a norma dell’art. 673 c.p.p. Cass., Sez. Un., 26 marzo 2003, n. 25887.
4.2.1. I reati societari.
Il residuo reato di false comunicazioni sociali è oggi articolato in due distinte ipotesi, disegnate una
(quella del nuovo art. 2621 c.c.) come figura contravvenzionale, l’altra (quella del nuovo art. 2622 c.c.)
come figura delittuosa. La condotta e l’elemento psicologico sono identiche; la differenza è costituita
dal danno patrimoniale in pregiudizio dei soci e dei creditori, richiesto solo nella previsione delittuosa,
che però è punibile solo a querela della persona offesa. Per quanto riguarda l’oggettività della fattispecie,
elementi differenziali rispetto alla formulazione del precedente art. 2621 c.c. sono: a) l’esclusione dei
promotori e dei soci fondatori dal novero dei soggetti attivi; b) la riduzione delle comunicazioni sociali
rilevanti ai fini del reato: alla formula “nelle relazioni sociali, nei bilanci o in altre comunicazioni sociali” è
sostituita quella “nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette
ai soci o al pubblico”; c) l’esposizione deve riguardare fatti “materiali non rispondenti al vero, ancorché
oggetto di valutazioni”, e non più semplicemente “fatti non rispondenti al vero”; d) alla condotta positiva
del mendacio è accomunata quella dell’omissione di informazioni la cui comunicazione è imposta dalla
legge, in luogo di quella del nascondimento in tutto o in parte di fatti concernenti le condizioni economiche della società; e) l’oggetto del mendacio o dell’omissione è costituito dalla situazione economica,
patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene anziché dalla costituzione
ovvero dalle condizioni economiche della società; vi è, poi, un’estensione della punibilità al caso in cui le
informazioni riguardino beni posseduti od amministrati dalla società per conto di terzi; f) la condotta deve
essere anche decettiva, ossia idonea ad indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione, requisito
non espressamente previsto dal vecchio dettato normativo; g) quanto alla componente soggettiva, la
locuzione avverbiale “fraudolentemente” è sostituita dalla previsione della “intenzione di ingannare i soci
o il pubblico e al fine di conseguire per sè o per altri un ingiusto profitto”. Dunque, una doppia previsione
di dolo: al dolo specifico, ritenuto implicito nella vecchia fisionomia di reato e oggi esplicitato e tipizzato,
se ne aggiunge uno intenzionale o rafforzato. Infine, deve ricordarsi la differenza dipendente dall’introdu-
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
zione delle soglie di punibilità, che sono configurate in modo assai articolato (artt. 2621, commi 3 e 4, e
2622 commi 5 e 6 c.c.) e segnano l’aspetto maggiormente caratterizzante della nuova normativa. L’area
della punibilità del vecchio art. 2621 c.c. risulta, da un lato, fortemente circoscritta, attraverso le novità
indicate, e, dall’altro, articolata nelle disposizioni degli artt. 2621 c.c. e 2622 c.c. Ne consegue che, nell’ambito di una fattispecie alquanto ampia, specie nell’interpretazione che ne aveva dato la giurisprudenza, sono state ritagliate fattispecie molto più circoscritte e assai più blandamente punite, ma deve
riconoscersi che i fatti rientranti nelle nuove previsioni erano punibili anche in base al precedente testo
dell’art. 2621 c.c., e deve perciò concludersi, in applicazione dei criteri precedentemente indicati, che i
fatti commessi sotto il vigore della precedente legge, nei limiti in cui rientrano nelle previsioni della
nuova legge, rimangono punibili, a norma dell’art. 2 comma 3 c.p., mentre gli altri non costituiscono
più reato, per un effetto abolitivo delle nuove disposizioni che a norma dell’art. 2, comma 2, c.p. travolge anche il giudicato di condanna. Cass., Sez. Un., 26 marzo 2003, n. 25887.
Nel giudizi di legittimità costituzionale degli artt 2621 e 2622 c.c. come sostituiti dall’art 1 D.Lgs. 61/
2002 proposti in riferimento agli artt 3, 10, 11, e 117 Cost, nonché all’art 6 della direttiva 68/151/CEE del 9
marzo 1968 del Consiglio (c.d. prima direttiva in materia di società) e all’art 5 del Trattato CEE (ora art 10
Trattato CEE), deve disporsi la restituzione degli atti ai giudici rimettenti per effetto dello ius superveniens,
costituito dalla legge 28 dicembre 2005, n. 262 il cui art 30 ha modificato le norme censurate. Avuto
riguardo anche al particolare parametro evocato (l’asserita contrarietà al disposto dell’art 6 della direttiva
68/151/CEE) il quale postula una valutazione di “adeguatezza “ di risposte sanzionatorie non predefinite,
spetta, infatti, ai giudici rimettenti verificare se- anche alla luce dei principi in tema di successioni delle
leggi penali (concernendo i giudizi principali fatti commessi sotto il vigore dell’originaria disciplina di cui
all’art 2621 numero 1 c.c. e dunque in epoca anteriore ad entrambi gli interventi novativi succedutesi nel
tempo) le questioni sollevate restino o meno rilevanti alla luce dello ius superveniens. La ventilata “riviviscenza” del’originario art 2621 c.c. non può comunque discendere dalla rimozione delle norme intermedie di cui agli artt 2621 e 2622 c.c. come sostituti dal D.Lgs. n. 61/2002 proprio perché nel frattempo è
intervenuta una successiva legge che ha introdotto un ulteriore testo delle norme denunciate, sulla base
dell’attuale quarto comma dell’art 2 c.p. Alla luce di tali considerazioni e a prescindere, altresì, da ogni
rilievo circa le possibili manchevolezze delle ordinanze di rimessione in punto di motivazione sulla rilevanza, si impone la restituzione degli atti ai giudici de quibus. Corte cost. 14 giugno 2007, n. 196.
In tema di reati societari, la nuova formulazione delle norme che prevedono i delitti di false comunicazioni sociali (articoli 2621 e 2622 c.c.) ad opera dell’art. 1 del D.Lgs. n. 61 del 2002 non ha determinato l’abolizione totale dei reati precedentemente contemplati ma una successione di leggi con effetto
parzialmente abrogativo in relazione ai fatti, commessi prima dell’entrata in vigore del predetto D.Lgs. n.
61 del 2002, non riconducibili alle nuove fattispecie criminose. La Corte di cassazione - al fine di stabilire
se gli elementi richiesti dalla legge sopravvenuta per la persistente configurabilità del fatto come reato
abbiano costituito oggetto di accertamento giudiziale - deve fare riferimento alla decisione impugnata e
qualora, come nella fattispecie, il giudice di merito non abbia eseguito gli accertamenti necessari a stabilire se la condotta concretamente tenuta dall’imputato integri la nuova fattispecie astratta introdotta dalla
nuova disciplina, determinandosi per l’assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come
reato, deve rigettare il ricorso proposto dal P.M. per saltum, considerato che tale accertamento non può
essere effettuato in sede di rinvio, bensì necessariamente innanzi al giudice di secondo grado. Cass. 4
novembre 2004, n. 4899.
Sussiste successione di leggi meramente modificativa, ex art. 2, comma terzo, c.p., tra la fattispecie
di cui all’art. 134 D.Lgs. n. 385 del 1993 e quella contenuta nell’art. 2638 c.c., introdotta dal D.Lgs. n. 61 del
2002, in quanto la nuova normativa non ha comportato l’abolizione generalizzata delle anteriori fattispecie criminose, ma soltanto la successione di nuove norme incriminatrici che hanno parzialmente modificato il contenuto delle fattispecie di reato, allargando l’ambito della punibilità e modificando l’entità della
pena. Ne deriva che ai fatti commessi nella vigenza dell’art. 134 D.Lgs. n. 385 del 1993 è applicabile la
disciplina contenuta nel vigente art. 2638 c.c., che prevede un trattamento più favorevole. (In applicazione di tale principio la S.C. ha ritenuto integrata la fattispecie, di cui al vigente art. 2638 c.c., nella condotta
- già sanzionata dal previgente art. 134 succitato - di colui che, nella qualità di direttore di Banca, abbia
comunicato alla Banca d’Italia fatti non veri, omettendo di indicare perdite conseguenti ad una data operazione, al fine di ostacolare, e di fatto ostacolando, l’esercizio delle funzioni di vigilanza. In motivazione la
S.C. ha, inoltre, evidenziato che sia la norma previgente che quella vigente descrivono un reato di pericolo che ha per oggetto l’esposizione, da parte dell’autore, di fatti materiali non rispondenti al vero, ancorché oggetto di valutazione, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria dei sottoposti alla vigilanza; che nel testo previgente era prevista l’omissione mediante «nascondimento», la quale costituisce
un’ipotesi di «omissione fraudolenta», prevista nel nuovo testo ed, infine, che comune alle ipotesi contemplate nelle due fattispecie è l’elemento soggettivo che nel prevedere il fine «di ostacolare le funzioni di
vigilanza» integra un’ipotesi di dolo specifico). Cass. 11 marzo 2004, n. 2106.
La nuova figura di reato prevista dall’art. 2636 c.c. (illecita influenza sull’assemblea), pur differenziandosi sotto vari profili, attinenti tanto alla condotta quanto all’elemento soggettivo, dalla precedente,
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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analoga previsione di cui all’art. 2630, comma primo, n. 3, c.c., rimane contenuta all’interno di detta più
ampia previsione, per cui può dirsi che vi sia tra l’una e l’altra una continuità normativa, con la conseguenza
che, tra le due norme, va applicata quella più favorevole, sicuramente individuabile nell’attuale art. 2636,
sempre che, di fatto, nella contestazione siano contenuti tutti gli elementi caratteristici della nuova fattispecie. (Nella specie, in applicazione di tali principi, la Corte ha ritenuto che erroneamente fosse stata esclusa
«a priori» la persistente configurabilità del reato in un caso in cui, secondo l’accusa, l’imputato, con l’artifizio
consistito nello stipulare, senza oggettiva necessità, pochi giorni prima della convocazione dell’assemblea
societaria, un contratto di mutuo personale con un istituto di credito, costituendo in pegno la sua quota di
partecipazione alla società, sì da consentire al suddetto istituto di esercitare il diritto di voto, aveva in tal
modo impedito che venisse raggiunta la maggioranza necessaria all’approvazione di una proposta di azione di responsabilità nei di lui confronti). Cass. 20 febbraio 2004, n. 19102.
La nuova figura di reato del falso in prospetto, prevista dall’art. 2623 c.c., nel testo introdotto dall’art.
1 del D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, si pone in rapporto di continuità normativa con quella di false comunicazioni sociali, quale delineata dall’art. 2621 c.c. nel testo antecedente all’entrata in vigore del citato
D.Lgs. n. 61 del 2002, atteso che la condotta attualmente qualificabile come falso in prospetto ben poteva
costituire, in precedenza, modalità di attuazione del reato di false comunicazioni sociali. Cass. 13 gennaio
2004, n. 10438.
La nuova formulazione delle norme che prevedono i delitti di false comunicazioni sociali (artt. 2621
e 2622 c.c.) e di bancarotta fraudolenta impropria «da reato societario» (art. 223, comma 2, n. 1, R.D. 16
marzo 1942, n. 267), ad opera, rispettivamente, degli articoli 1 e 4 del decreto legislativo 11 aprile 2002, n.
61 non ha comportato l’abolizione totale dei reati precedentemente contemplati, ma ha determinato
una successione di leggi con effetto parzialmente abrogativo in relazione a quei fatti, commessi prima
dell’entrata in vigore del citato decreto legislativo, che non siano riconducibili alle nuove fattispecie
criminose. Cass., Sez. Un., 26 marzo 2003, n. 25887.
In tema di false comunicazioni sociali, la nuova formulazione del reato, introdotta dall’art. 1 del R.D.
16 marzo 1942, n. 267, comporta che, per i fatti pregressi giudicati con sentenza irrevocabile, spetta al
giudice dell’esecuzione, sulla base dello schema procedimentale dell’art. 666, comma quinto, c.p.p., accertare se sussistano nella fattispecie, già giudicata, i requisiti previsti dalla nuova disciplina (quali, ad
esempio, il superamento delle soglie di punibilità). In ipotesi di accertamento negativo, si determinano gli
effetti dell’»abolitio criminis», in quanto il fatto non è più previsto dalla legge come reato, con conseguente possibilità di revoca della sentenza definitiva, ai sensi degli artt. 2, comma secondo, c.p. e 673 c.p.p.
Cass. 6 novembre 2002, n. 11345.
In tema di false comunicazioni sociali (art. 2621 c.c.), a seguito della modifica apportata all’incriminazione dal D.Lgs. n. 61 del 2002, al giudice dell’esecuzione è demandato di valutare, nello schema procedimentale di cui all’art. 666 comma 5 c.p.p., se continuano a sussistere i presupposti della rilevanza
penale del fatto così come contestato e ritenuto a carico dell’imputato. Sicché, se risulta l’irrilevanza
penale dei fatti commessi alla stregua della nuova disciplina, il giudice deve revocare la sentenza definitiva di condanna, dichiarando l’abolizione del reato, in relazione a quei fatti per i quali ha puntualmente e
specificamente verificato l’insussistenza dei requisiti ora richiesti per l’integrazione della fattispecie criminosa. (Fatti specie nella quale, essendo irrisori i valori percentuali delle effettive falsificazioni contabili, il
giudice dell’esecuzione aveva disposto la revoca della sentenza di condanna per intervenuta “ abolitio
criminis “). Cass. 6 novembre 2002, n. 11345.
4.2.2. I reati fallimentari.
La nuova formulazione delle norme che prevedono i delitti di false comunicazioni sociali (art. 2621 e
2622 c.c.) e di bancarotta fraudolenta impropria “da reato societario” (art. 223 comma 2, n. 1 R.D. n. 267
del 1942), operata, rispettivamente, dagli art. 1 e 4 D.Lgs. n. 61 del 2002, non ha comportato l’abolizione
totale dei reati precedentemente contemplati, ma ha determinato una successione di leggi con effetto parzialmente abrogativo in relazione a quei fatti, commessi prima dell’entrata in vigore delle modifiche legislative, che non siano riconducibili alle nuove fattispecie criminose. Cass., Sez. Un., 26 marzo 2003, n. 25887.
Tra l’originario art. 223 L. fall. e quello novellato va riconosciuto un fenomeno di successione di
norme con parziale effetto abrogativo, in quanto l’ulteriore dato postulato da tale disposizione - rappresentato dal nesso di causalità tra la condotta e il fallimento - si palesa quale elemento specializzante
rispetto alla fattispecie precedente, nella quale il fallimento non doveva necessariamente porsi come
conseguenza della condotta; analogo fenomeno sussiste tra l’originario art. 2621 c.c. ed i novellati art.
2621 e 2622 c.c. nell’ambito del quale la nuova disciplina si pone in rapporto di specialità con quella
precedente, risultando la fattispecie astratta originariamente delineata dal legislatore ricompresa in quella attuale che contiene elementi specializzanti in senso stretto (ossia specifici) e in senso lato (ossia per
aggiunta) (nella specie, la corte ha tuttavia ritenuto che, in base al principio della necessaria correlazione
tra accusa e sentenza, i requisiti che condizionano la tipicità della nuova incriminazione avrebbero dovuto
costituire oggetto di specifica contestazione, ed ha, pertanto, mandato esente da pena l’imputato). Cass.
8 ottobre 2002, n. 36859.
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
In tema di successione di leggi penali nel tempo, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2, comma 2, c.p.,
sono norme extrapenali integratrici solo quelle che determinano, o concorrono a determinare, il contenuto del precetto penale. Tali non sono, con riguardo ai reati fallimentari, le norme civilistiche (art. 10
e 11 R.D. 16 marzo 1942, n. 267 Disciplina del fallimento, applicabili anche al socio illimitatamente responsabile di società fallita, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, n. 66 del 1999), che disciplinano i limiti temporali entro cui deve intervenire la pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, elemento costitutivo del reato, con la conseguenza che le vicende relative alle predette norme
restano ininfluenti rispetto al fatto di reato anteriormente commesso. Cass. 26 settembre 2002, n. 41499.
4.3. Criterio valutativo.
Il criterio valutativo ricerca una continuità tra le leggi attraverso valutazioni concernenti il bene
giuridico e le modalità dell’offesa e può essere considerato sia alternativo al criterio strutturale, sia
cumulativo, cioè tale da operare attraverso una verifica ulteriore, dopo il superamento del vaglio logico strutturale, aggiungendo così all’impiego dei criteri formali quello di criteri di tipo sostanziale o valutativo.
Cass., Sez. Un., 26 marzo 2003, n. 25887.
4.3.1. Oltraggio a pubblico ufficiale.
In tema di oltraggio, l’abrogazione degli art. 341 e 344 c.p., disposta dall’art. 18 L. 25 giugno 1999, n.
205, integra un’ipotesi di “abolitio criminis” disciplinata dall’art. 2 comma 2 c.p., con la conseguenza
che, se vi è stata condanna, ne cessano esecuzione ed effetti penali e la relativa sentenza deve essere
revocata, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., dal giudice dell’esecuzione, al quale non è consentito modificare
l’originaria qualificazione o accertare il fatto in modo difforme da quello ritenuto in sentenza, riqualificando come ingiuria aggravata dalla qualità del soggetto passivo (art. 594 e 61, n. 10 c.p.) la condotta contestata come oltraggio e rideterminando, in relazione alla nuova fattispecie penale, la pena già irrogata.
Cass., Sez. Un., 27 giugno 2001, n. 29023.
A seguito dell’intervenuta abrogazione degli art. 341 e 344 c.p., disposta dall’art. 18 L. 25 giugno
1999, n. 205, i fatti precedentemente commessi e già contestati come oltraggio a pubblico ufficiale o a
pubblico impiegato possono essere riqualificati dal giudice della cognizione, sussistendone i presupposti, come ingiuria aggravata dalla qualità del soggetto passivo (art. 594 e 61, n. 10 c.p.), fermo
restando, quanto alla condizione di procedibilità, che non può trovare applicazione in tali ipotesi la disposizione transitoria di cui all’art. 19 della predetta L. n. 205 del 1999, che ha introdotto nuovi termini per la
presentazione della querela esclusivamente con riferimento a quei delitti che sono divenuti perseguibili
ad istanza di parte per effetto della medesima legge. Cass., Sez. Un., 27 giugno 2001, n. 29023.
4.3.2. Assunzione di lavoratori extracomunitari privi di autorizzazione al lavoro.
L’assunzione di lavoratori extracomunitari privi di autorizzazione al lavoro non è più prevista dalla
legge come reato dopo l’abrogazione espressa dell’art. 12, comma 2, L. 30 dicembre 1986, n. 943, disposta dall’art. 46 comma 1, lett. c), L. 6 marzo 1998, n. 40 (riprodotta dall’art. 47, comma 2, lett. c), D.Lgs. 25
luglio, n. 286) e l’introduzione della nuova ipotesi di reato di assunzione di lavoratori extracomunitari privi
di permesso di soggiorno ad opera dell’art. 22, comma 10, del citato D.Lgs., giacché si è in presenza di
una “abrogatio criminis” per la mancanza di continuità del tipo di illecito e per il mutamento del bene
giuridico oggetto di tutela. Cass., Sez. Un., 11 settembre 2001, n. 33539.
4.3.4. Reati tributari.
In tema di reati tributari, tra la contravvenzione di omessa presentazione delle dichiarazioni ai fini
delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, già prevista dall’art. 1, comma 1, D.L. 10 luglio 1982, n.
429, convertito con L. 7 agosto 1982, n. 516, ed il delitto di omessa dichiarazione, introdotto dall’art. 5
D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, non sussiste, stante la disomogeneità strutturale fra le due fattispecie,
alcuna continuità di illecito, con la conseguenza che, a seguito dell’abrogazione disposta dall’art. 25 del
medesimo D.Lgs. n. 74/2000, le condotte sanzionate dalla contravvenzione predetta non assumono più,
in applicazione del principio di cui all’art. 2, secondo comma, c.p. in tema di successione nel tempo delle
norme incriminatrici, alcun rilievo penale. Cass., Sez. Un., 13 dicembre 2000, n. 35.
4.4. Abolitio criminis e sospensione condizionale della pena.
Le precedenti condanne relative a fatti non più costituenti reato per “abolitio criminis” (nella specie
emissione di assegni a vuoto) non sono preclusive della concessione del beneficio della sospensione
condizionale della pena. Cass. 3 gennaio 2008, n. 18.
5. Identificazione della legge penale più favorevole.
In sede di ricorso per cassazione, va tenuto conto dello “ius superveniens” introdotto con l’art. 1
bis D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, conv., con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, che ha
modificato in senso favorevole al reo le pene previste per il reato di cui all’art. 73, comma 1, D.P.R. 9
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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ottobre 1990, n. 309 (riduzione dei minimi edittali: sei anni di reclusione, in luogo degli otto anni precedentemente previsti), pur quando la pena irrogata non sia stata applicata nel minimo, giacché nella dosimetria della pena il giudice ha il compito di stabilire una sanzione che, pur ritenuta congrua, in termini
assoluti, nel caso concreto, normalmente tiene conto, nell’ambito dei limiti edittali, anche di quello minimo. (La Corte, per l’effetto, tenuto conto del nuovo, più favorevole trattamento sanzionatorio, ha annullato la sentenza rinviando sul punto al giudice di merito). Cass. 23 gennaio 2008, n. 15219.
L’art. 73 comma 5-bis D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, introdotto dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 272,
conv., con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, prevede che il giudice, nel caso in cui il fatto sia
di “lieve entità”, se il reato è commesso da tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o
psicotrope, possa applicare, in luogo della pena detentiva e pecuniaria, su richiesta dell’imputato e sentito il p.m., quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’art. 54 D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, secondo le
modalità ivi previste. L’art. 73 comma 5-bis e l’art. 54 D.Lgs. n. 274 del 2000 stabiliscono un “sistema
compiuto”, che può oggi essere applicato anche a reati commessi prima della riforma del 2006, la
quale ha introdotto l’anzidetto trattamento sanzionatorio di maggior favore per l’imputato, ai sensi
dell’art. 2 c.p. (Da queste premesse, la Corte ha annullato la sentenza limitatamente al trattamento sanzionatorio, giacché il giudice di merito avesse ritenuto di non poter applicare il nuovo, più favorevole
trattamento sanzionatorio anche ai fatti pregressi, sostenendo erroneamente che mancasse la relativa
disciplina regolamentare; la Cassazione, in proposito, ha invece richiamato, a conferma della compiutezza del sistema e della conseguente immediata applicabilità dello stesso, il decreto 26 marzo 2001 del
Ministro della giustizia che ha individuato le tipologie dei lavori di pubblica utilità e ha stabilito le modalità
di esecuzione). Cass. 22 gennaio 2007, n. 8363.
Agli illeciti disciplinari dei magistrati non si applica il principio di retroattività della “lex mitior”, di
cui all’art. 2, commi 2 e 3, c.p. Né tale principio può ritenersi codificato dall’art. 32 bis D.Lgs. 23 febbraio
2006, n. 109 (inserito dall’art. 1, comma 3, lett. q, L. 24 ottobre 2006, n. 269), giacché tale disposizione
transitoria, nel prevedere (al comma 1) l’applicabilità della nuova normativa solo ai procedimenti disciplinari promossi a decorrere dalla sua entrata in vigore, ha (al comma 2) il significato di rendere applicabile
- ma limitatamente ai procedimenti disciplinari promossi successivamente, ed aventi ad oggetto fatti
commessi in epoca anteriore - la normativa precedente, contenuta negli art. da 17 a 38 del R.D.Lgs. 31
maggio 1946, n. 511, solo se più favorevole. Ne deriva che i procedimenti disciplinari promossi in epoca
precedente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 109 del 2006 restano sottratti alla disciplina di cui al citato art.
32 bis. Cass. civ., Sez. Un., 7 febbraio 2007, n. 2685.
Il principio di irretroattività delle norme penali più severe - che è un principio comune a tutti gli
ordinamenti giuridici degli Stati membri e fa parte integrante dei principi generali del diritto di cui il
giudice comunitario deve garantire l’osservanza - impedisce l’applicazione retroattiva di una nuova
interpretazione di una norma che descrive un’infrazione, nel caso in cui si tratti di un’interpretazione
giurisprudenziale il cui risultato non era ragionevolmente prevedibile nel momento in cui l’infrazione è
stata commessa. Corte giust. 8 febbraio 2007, n. 3.
La somministrazione di sostanze dopanti espressamente vietate dal D.M. 15 ottobre 2002 - di attuazione dell’art. 2, L. 14 dicembre 2000, n. 376 - è punibile a norma dell’art. 9 della stessa L. n. 376 del
2000; mentre la medesima condotta, se commessa prima dell’entrata in vigore della disciplina antidoping
del 2000, è punibile, in applicazione dell’art. 2, comma 4, c.p., quale disciplina più favorevole, dall’art. 1,
comma 1, seconda parte, L. 13 dicembre 1989, n. 401, laddove è sanzionato il delitto di frode in competizioni sportive e, segnatamente, la condotta sostanziantesi nel compimento di “altri atti fraudolenti” finalizzati al raggiungimento di un risultato diverso da quello conseguente al leale e corretto svolgimento
della competizione sportiva; parimenti, anche dopo il “novum” normativo del 2000, la condotta, volta a
soddisfare l’anzidetta finalità di alterazione del risultato di una competizione sportiva, di somministrazione di sostanze non comprese nell’elenco ministeriale, come ad esempio la somministrazione “off label”
di specialità medicinali e di sostanze non vietate, è comunque tuttora sanzionabile dall’art. 1, comma 1,
seconda parte, L. n. 401 del 1989, giacché la somministrazione di tali sostanze si risolve in uno dei possibili modi in cui può realizzarsi l’atto fraudolento volto allo scopo di alterare il risultato di una competizione
sportiva. Cass. 29 marzo 2007, n. 21324.
L’art. 6, comma 2, del trattato istitutivo dell’Unione Europea assicura il rispetto, in quanto principio
generale del diritto comunitario, dei diritti fondamentali dell’uomo garantiti dalle tradizioni costituzionali
comuni degli Stati membri; tra essi, non rientra, peraltro, la retroattività della legge penale più favorevole, poiché il valore da essa tutelato può essere sacrificato da una legge ordinaria in favore di interessi di
analogo rilievo (quali, ad esempio, quelli dell’efficienza del processo e della salvaguardia dei diritti dei
soggetti che in vario modo sono destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi
od esigenze dell’intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali di rilievo primario). (In applicazione del principio, la S.C. ha rigettato una richiesta “ex” art. 234 trattato UE, di rimessione della questione
alla Corte giust. dell’Unione Europea). (Conf. Corte cost. n. 393 del 2006). Cass. 16 maggio 2007, n. 35257.
In tema di successione di leggi penali, deve applicarsi quella che prevede il trattamento sanzionatorio
ritenuto più favorevole al reo, anche quando la legge posteriore, che l’ha modificata, abbia ripristinato
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
le pene più severe previste da altra legge anteriore che la stessa aveva a sua volta modificato. (Fattispecie in tema di guida in stato di ebbrezza consumata prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 274 del
2000, che aveva attribuito alla competenza del g.d.p. il reato, ma giudicato dopo l’entrata in vigore del
D.L. n. 151 del 2003 conv. nella L. n. 214 del 2003, che ha invece ripristinato l’originaria competenza del
g.o.). Cass. 21 settembre 2007, n. 38548.
In tema di applicabilità dei benefici penitenziari in favore dei collaboratori di giustizia, la più rigida
disciplina dettata dalla L. n. 45 del 2001 trova applicazione anche nei confronti dei soggetti la cui collaborazione abbia avuto inizio sotto la vigenza della più favorevole normativa dettata dall’abrogato art. 13 ter
D.L. n. 8 del 1991, non vertendosi in materia di leggi sostanziali e non trovando, quindi, applicazione il
principio di irretroattività stabilito, per quelle più sfavorevoli, dall’art. 2 c.p. Cass. 8 ottobre 2007, n. 43660.
L’inammissibilità originaria del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza dei motivi non
consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e, pertanto, preclude la possibilità di applicare la legge penale più favorevole (da queste premesse, la Corte ha escluso l’applicabilità dello “ius
superveniens” più favorevole, introdotto dall’art. 4 bis D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, conv. con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, che ha ridotto da anni otto ad anni sei di reclusione il minimo
edittale previsto per il reato di cui all’art. 73 comma 1 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309). Cass. 5 aprile 2006, n.
15184.
In sede di ricorso per cassazione, non può trovare applicazione lo “ius superveniens” introdotto
con l’art. 4 bis D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, conv., con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49,
che pure ha modificato in senso favorevole al reo le pene previste per il reato di cui all’art. 73 comma 1
D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (riduzione dei minimi edittali), allorquando l’impugnazione sia inammissibile,
anche per manifesta infondatezza dei motivi, giacché deve ritenersi formato il giudicato che preclude la
possibilità di applicare la disciplina più favorevole al reo. Cass. 4 dicembre 2006, n. 27.
Le “disposizioni più favorevoli al reo”, delle quali l’art. 2 c.p. prevede l’applicabilità retroattiva, sono
non soltanto le norme contenenti fattispecie incriminatrici, ma anche tutte le norme che apportino
modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla
prescrizione del reato.Corte cost., 23 novembre 2006, n. 393.
Nel novero delle norme integratrici della legge penale, cui è applicabile il principio di retroattività
della legge più favorevole, ai sensi dell’art. 2 comma 3 c.p., debbono ricomprendersi tutte quelle che
intervengano nell’area di rilevanza penale di un fatto umano, escludendola, riducendola o comunque
modificandola in senso migliorativo per l’agente; e ciò quand’anche la nuova norma non rechi testuale
statuizione in tal senso ma, comunque, regoli significativamente il fatto in termini incompatibili con la precedente disciplina penalistica ovvero incidenti, per il nuovo caso regolato, nella struttura della norma incriminatrice o, quanto meno, sul giudizio di disvalore in essa espresso. (Nella specie, in applicazione di tale
principio, la Corte ha ritenuto che potesse valere ad escludere la configurabilità del reato di violazione di
domicilio - addebitato ad un esponente di un’associazione per la tutela degli animali per essersi egli introdotto e trattenuto, per dichiarate finalità ispettive, contro la volontà del proprietario, in un locale privato
adibito a canile - la sopravvenuta emanazione di una norma regionale che imponeva ai gestori di strutture di
ricovero per animali di consentire l’accesso, senza bisogno di speciali procedure o autorizzazioni, ai responsabili locali delle associazioni protezionistiche o animalistiche). Cass. 4 febbraio 2005, n. 8045.
In materia di successione nel tempo di leggi penali, una volta individuata la disposizione complessivamente più favorevole, il giudice deve applicare questa nella sua integralità, ma non può combinare
un frammento normativo di una legge e un frammento normativo dell’altra legge secondo il criterio del
“favor rei”, perché in tal modo verrebbe ad applicare una terza fattispecie di carattere intertemporale non
prevista dal legislatore, violando così il principio di legalità. (Da queste premesse, se ne è dedotto che
l’applicabilità da parte del g.o., nella specie, dello strumentario sanzionatorio previsto nel processo penale del giudice di pace importasse, in uno con le più favorevoli sanzioni di cui all’art. 52 D.Lgs. 28 agosto
2000, n. 274, anche l’applicabilità del divieto della sospensione condizionale della pena ex art. 60 dello
stesso decreto). Cass. 28 ottobre 2005, n. 47339.
In virtù del principio del favor rei stabilito nell’art. 2, comma terzo, c.p., il trattamento sanzionatorio in
concreto più favorevole, con riguardo al reato di guida in stato di ebbrezza (art. 186, comma secondo,
cod. str.), commesso prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 274 del 2000 che attribuisce detto reato alla
competenza del giudice di pace, è quello previsto dall’art. 52, comma secondo, lett. c) del citato D.Lgs. n.
274 del 2000, il quale deve essere applicato nella sua integralità, anche se il reato sia stato giudicato da un
giudice diverso da quello di pace. Ne deriva che, in tal caso, è illegittima l’applicazione della previsione
sanzionatoria originaria del codice della strada, in quanto la pena detentiva, ad essa connessa, è, in ogni
caso, meno favorevole di quella pecuniaria, anche se applicata unitamente al beneficio della sospensione
condizionale della pena, la quale, peraltro, una volta individuata la disposizione più favorevole nell’art. 52
citato, non può trovare applicazione, giusta l’espressa previsione di cui all’art. 60 D.Lgs. n. 274 del 2000.
Cass. 3 giugno 2004, n. 39069.
In materia di successione di leggi penali, l’art. 2 comma terzo c.p. prende in considerazione tutti i
mutamenti legislativi intervenuti, stabilendo che deve applicarsi la legge le cui disposizioni sono più
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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favorevoli al reo; pertanto una volta che sia entrata in vigore una legge più favorevole, questa deve
essere sempre applicata anche se, successivamente, il legislatore ritenga di modificarla in senso meno
favorevole. (Principio applicato dalla Corte in una fattispecie relativa al reato di guida in stato di ebbrezza, previsto dall’art. 186 comma secondo cod. strad., commesso prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 28
agosto 2000, n. 274, che ha attribuito tale contravvenzione al giudice di pace, con conseguente applicazione delle nuove sanzioni paradetentive della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità, e
giudicato dal tribunale dopo le modifiche apportate dal D.L. 27 giugno 2003, n. 151, convertito nella
Legge 1 agosto 2003, n. 214, con cui è stata ripristinata la competenza del giudice ordinario, con la
previsione della pena dell’arresto). Cass. 18 marzo 2004, n. 23613.
In tema di successione di leggi penali, ai fini dell’individuazione della normativa di favore per il reo,
non si può procedere a una combinazione delle disposizioni più favorevoli della nuova legge con quelle
più favorevoli della vecchia, in quanto ciò comporterebbe la creazione di una terza legge, diversa sia da
quella abrogata, sia da quella in vigore, ma occorre applicare integralmente quella delle due che, nel suo
complesso, risulti, in relazione alla vicenda concreta oggetto di giudizio, più vantaggiosa al reo. (Fattispecie relativa ai delitti previsti dall’art. 4, comma primo, lett. d) della legge 7 agosto 1982, n. 516 e dall’art. 2
D.Lgs. 3 ottobre 2000, n. 74 in tema di dichiarazioni fraudolente mediante uso di fatture inesistenti, in
relazione alla quale la Corte ha ritenuto più favorevole la normativa abrogata, in quanto dalla sua applicazione integrale discendeva l’intervenuta prescrizione del reato). Cass. 10 febbraio 2004, n. 23274.
L’individuazione, tra una pluralità di disposizioni succedutesi nel tempo, di quella più favorevole al
reo, va eseguita non in astratto, sulla base della loro mera comparazione, bensì in concreto, mediante il
confronto dei risultati che deriverebbero dall’effettiva applicazione di ciascuna di esse alla fattispecie
sottoposta all’esame del giudice. (Nella specie, relativa al reato di violazione del divieto di accesso ai
luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive - qualificato come contravvenzione e punito con pena
esclusivamente detentiva dall’art. 6 della legge n. 401 del 1989 nel suo testo originario, ma configurato
come delitto punito con pena detentiva della stessa durata, alternativa a quella pecuniaria, nella versione
di tale articolo modificata dal D.L. n. 336 del 2001, convertito con modificazioni nella legge n. 377 del 2001
-, la Corte ha giudicato corretto l’operato del giudice di merito che aveva ritenuto in concreto più favorevole al reo l’applicazione della precedente normativa, la quale configurava il reato come contravvenzione,
ma senza prevedere la pena pecuniaria alternativa a quella detentiva). Cass. 2 ottobre 2003, n. 40915.
In tema di successione di leggi penali nel tempo, la punibilità di un fatto commesso nel vigore di una
norma generale, che sia stata sostituita da una norma speciale, non costituisce applicazione retroattiva di questa, ma piuttosto ne esclude l’efficacia abolitrice per la porzione della fattispecie prevista dalla
norma generale che coincide con quella della norma successiva, salvo che il legislatore con la medesima
legge speciale stabilisca, in deroga alla disposizione dell’art. 2, terzo comma, c.p., la non punibilità dei
reati in precedenza commessi. Cass., Sez. Un., 26 marzo 2003, n. 25887.
In tema di successione di leggi penali, perché sia applicabile la regola del terzo comma dell’art. 2 c.p.,
occorre che il fatto costituente reato secondo la legge precedente sia tuttora punibile secondo la nuova
legge, mentre non sono più punibili i fatti commessi in precedenza e rimasti fuori del perimetro della nuova
fattispecie. Tale situazione va verificata in base al criterio di coincidenza strutturale tra le fattispecie previste dalle leggi succedutesi nel tempo, senza che sia necessario, di regola, fare ricorso ai criteri valutativi del
bene tutelato o delle modalità di offesa. L’art. 2 c.p. infatti, pone, nei commi che lo costituiscono, una
sequenza di regole tra loro collegate in modo che si chiariscono a vicenda: perché operi la regola del terzo
comma deve essere esclusa l’applicabilità del primo e del secondo comma. Ne consegue che un fatto è
punibile se, astrattamente considerato e sulla base dei criteri enunciati, rientra nell’ambito normativo di
disposizioni che si sono succedute nel tempo e, quando ciò accade e nei limiti in cui accade, non opera
l’effetto abolitivo della disposizione successiva. Cass., Sez. Un., 26 marzo 2003, n. 25887.
In tema di successione della legge nel tempo, qualora la normativa posteriore trasformi la previsione della sola pena detentiva in quella di pena alternativa, quest’ultima deve ritenersi comunque più
favorevole anche se accompagnata dalla previsione di una pena accessoria non presente nella fattispecie incriminatrice sostituita, in quanto la pena detentiva, ancorché in astratto soggetta a sostituzione,
conserva maggiore carattere afflittivo (Fattispecie relativa a contravvenzione in tema di alimenti, per violazione dell’art. 5, lett. E della legge 30 aprile 1962, n. 283,come sostituito dal decreto legislativo 30
dicembre 1999, n. 507, che ha altresì introdotto nella legge citata l’art. 12 bis contenente la pena accessoria della chiusura dell’esercizio commerciale). Cass. 5 luglio 2001, n. 34394.
L’ultrattività delle leggi penali militari di guerra, sancita dall’art. 23 c.p.m.g., non impedisce quando
dette leggi non contengano specifiche disposizioni derogatorie rispetto a quelle della legge penale comune l’operatività della disciplina ordinaria stabilita dall’art. 2, comma terzo, c.p. in materia di successione di
leggi penali nel tempo. Ne consegue che, pur con riguardo a fatto punibile in base alla legge penale
militare di guerra (nella specie, eccidio delle Fosse ardeatine) e commesso anteriormente all’entrata in
vigore dell’art. 2 del D.Lgs. 14 settembre 1944, n. 288, con il quale fu introdotto l’art. 62bis c.p., non vi è
ostacolo giuridico all’applicazione delle attenuanti generiche previste da detta ultima disposizione normativa. Cass. 16 novembre 1998, n. 12595.
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
In caso di successione di leggi nel tempo, per «legge» più favorevole ai sensi dell’art. 2, terzo comma,
c.p. deve intendersi la singola norma che, per giudizio di comparazione, risulti in concreto più favorevole. È
pertanto più favorevole l’art. 116 del R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736, rispetto all’art. 2 della legge 15 dicembre 1990, n. 386 quando, con la concessione delle attenuanti generiche, equivalenti o prevalenti sull’aggravante contestata di caso grave, si debba applicare quale pena principale la sola multa. Tuttavia nel caso in
cui, in concreto, possa applicarsi, nella stessa predeterminata misura, la pena pecuniaria (alternativa per
l’art. 2 della legge 15 dicembre 1990, n. 386) anche secondo la legge successiva, questa è più favorevole per
il regime delle pene accessorie previsto dall’art. 5, dal momento che l’art. 116 R.D. 1763/33 implica entrambe le pene accessorie, nonostante l’applicazione dell’art. 69 c.p. Cass. 23 ottobre 1997, n. 10919.
Nel caso di successione di norme incriminatrici nel tempo, tra due disposizioni, delle quali la prima
prevede la pena detentiva e la seconda la pena alternativa, è sempre più favorevole quest’ultima, consentendo l’inflizione della sola pena pecuniaria, perché la conversione, ex art. 53 legge 24 novembre
1981, n. 689, della pena detentiva inflitta necessariamente per effetto della prima norma, pur potendo in
concreto condurre ad una pena pecuniaria (sostitutiva) meno elevata, oltre ad essere eventuale, in quanto sempre discrezionale, sarebbe comunque esposta al rischio della revoca ai sensi del successivo art.
72, ricorrendone le condizioni. È pacifico, infatti, che le cause di revoca contemplate in tale norma si
riferiscono a tutte le pene sostitutive, ivi compresa quindi quella pecuniaria, giacché consistono nel verificarsi di quelle condizioni che, se sussistenti al momento della sostituzione, sarebbero state ostative alla
stessa. Cass. 4 dicembre 1996, n. 1058.
Il giudice nel valutare in concreto la norma più favorevole deve considerare non solo le modificazioni
concernenti la pena ma anche l’incidenza sulla prescrizione, quando quest’ultima, in seguito all’applicazione della nuova disciplina sopravvenuta, sia applicabile, ed, in genere, sugli altri effetti penali quali la non
iscrivibilità sul casellario giudiziale, ove non venga applicato il beneficio ex art. 163 c.p., ipotesi in cui il
termine prescrizionale non era ancora decorso e l’intervenuta modificazione della sanzione (da pena alternativa a solamente pecuniaria) ed il sensibile aumento del minimo edittale determinano anche una consistente diminuzione del termine massimo prescrizionale (da quattro anni e sei mesi a tre anni) e la non
iscrivibilità della condanna nel certificato giudiziale, sicché, in assenza di esplicita richiesta di applicazione
del beneficio ex art. 163 c.p., l’irrogazione di una pena pecuniaria di poco superiore a quella stabilita precedentemente in via alternativa costituisce ipotesi più favorevole). Cass. 16 gennaio 1996, n. 1797.
In materia di successione di leggi penali nel tempo e di applicazione del principio del “favor rei”, la
disciplina più favorevole va individuata sulla base di un raffronto oggettivo fra le norme applicabili,
ossia facendo riferimento alla disciplina complessiva risultante dalle norme precettive e sanzionatorie,
senza tenere conto di singole disposizioni più favorevoli. Cass. 28 maggio 1996, n. 8907.
In tema di individuazione della norma più favorevole al reo da applicare in caso di successione di
leggi nel tempo la disciplina più favorevole va individuata sulla base di un raffronto oggettivo fra le
norme applicabili e non già in considerazione della convenienza che ne deriverebbe all’imputato all’esito di una valutazione discrezionale del giudice. Quando, però una norma prevede la pena dell’ammenda e quella successiva quella dell’arresto convertibile astrattamente in una pena pecuniaria di entità
minore dell’ammenda prevista dalla precedente normativa, è comunque da applicarsi la norma precedente che non contemplava la pena detentiva, Cass. 4 luglio 1995, n. 9234.
In tema di falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale o impiegato in atto pubblico (art. 479 e
493 c.p.), non danno luogo a successioni di leggi penali i mutamenti di regime giuridico che hanno via via
interessato l’Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato (L. n. 210/85) e poi in società per azioni (delibera CIPE 12 agosto 1992, in esecuzione della L. n. 35/92 e L. n. 359/92). L’applicazione del principio di
retroattività della legge penale più favorevole, sancito dall’art. 2 comma 3 c.p., presuppone una modifica
in via generale - e non in via particolare, riferita al caso concreto - della fattispecie incriminatrice, cioè di
quelle norme che definiscono il reato nella sua struttura essenziale e circostanziata, comprese le norme
extrapenali che la integrano. Esula quindi dall’istituto la successione di atti o fatti amministrativi che, pure
influendo sulla punibilità o meno di determinate condotte, non implica una modifica della norma incriminatrice anche integrativa. Le trasformazioni che hanno interessato l’Azienda Autonoma delle Ferrovie
dello Stato non hanno modificato la fattispecie incriminatrice descritta negli art. 479 e 493 c.p. Cass. 10
luglio 1995, n. 9927.
Il rilascio di autorizzazioni allo scarico in deroga ai parametri di cui alla tabella C, ai sensi della muova
normativa introdotta dalla L. 17 maggio 1995, n. 172, comporta il venir meno anche del reato di scarico
precedentemente commesso violando i parametri della tabella predetta, trovando applicazione la disciplina stabilita dall’art. 2 comma 2 c.p. Cass. 20 ottobre 1995, n. 457.
Il principio della retroattività della norma più favorevole posto dall’art. 2 comma terzo c.p., che assicura al cittadino il trattamento penale più mite tra quello previsto dalla legge penale vigente al momento del
fatto e quello previsto dalle leggi successive, purché precedenti la sentenza definitiva di condanna, opera
solo con riferimento all’ipotesi della successione tra fattispecie incriminatrici, accertabile in base al criterio della continenza, e non è estensibile al caso della successione di norma che degradi un fatto previsto come illecito penale a illecito amministrativo. Cass., Sez. Un., 16 marzo 1994, n. 7394.
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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Ai fini dell’applicazione delle disposizioni di legge sopravvenute, ai sensi dell’art. 2 c.p., non è sufficiente che queste siano più favorevoli all’imputato in astratto, ma occorre che lo siano altresì in concreto,
ossia non soltanto sulla base della mera comparazione fra le due normative succedutesi nel tempo, ma
anche confrontando i risultati che deriverebbero dalla effettiva applicazione di esse alla fattispecie concreta; tale valutazione in concreto è necessaria specie quando la nuova norma, per il suo contenuto, non
opera automaticamente in maniera più favorevole nei confronti della normativa in vigore al tempo del
commesso reato, ma fa dipendere tale risultato, che è comunque eventuale, da un giudizio affidato ai
poteri discrezionali del giudice e dalla verifica dei dati presupposti. Sicché, se è vero che in caso di
successione di leggi penali si deve applicare integralmente quella che risulta più favorevole all’imputato,
valutata nel suo complesso, non è men vero che tale principio va calato in ciascuna fattispecie concreta,
in relazione all’interesse specifico dell’imputato, senza inframmettenze astratte e sia pure con divieto di
applicazione simultanea di vecchie e nuove disposizioni. (Alla stregua di tale principio la Corte ha annullato la sentenza pretorile la quale aveva applicato ad un fatto pregresso la pena pecuniaria, sostitutiva di
quella detentiva, in ragione del nuovo e più gravoso criterio di ragguaglio introdotto dalla legge 5 ottobre
1993, n. 42, sul presupposto che quest’ultima dovesse considerarsi comunque norma più favorevole per
l’ampliata possibilità di applicazione della sospensione condizionale della pena, che, nella fattispecie, non
risultava tuttavia né concessa né richiesta). Cass. 18 maggio 1994, n. 2336.
L’art. 2, terzo comma, c.p. prevede le ipotesi in cui una legge posteriore al tempo del commesso
reato modifichi la fattispecie incriminatrice anteriore, senza abolire l’incriminazione né crearne di nuove, e fissa il principio dell’applicabilità della disposizione più favorevole all’imputato, cioè dell’irretroattività delle modificazioni sfavorevoli e della retroattività di quelle favorevoli. Ai fini della determinazione
della legge più favorevole, il giudizio di comparazione tra leggi susseguentesi nel tempo deve avere
come unico oggetto il raffronto tra le disposizioni che disciplinano la stessa materia, vale a dire il reato
contestato e le sue circostanze, e non può essere influenzato da elementi estranei, quali l’interesse
personale dell’imputato all’applicazione di una data disposizione di legge. Non può, pertanto, trovare
applicazione ai sensi dell’art. 2, terzo comma, c.p., nel giudizio di cassazione relativo di detenzione e
cessione di sostanze stupefacenti (art. 72 legge 22 dicembre 1975, n. 685), l’art. 61, n. 4 c.p., modificato
dalla legge 7 febbraio 1990, n. 19 - nel caso in cui non abbia formato oggetto di richieste o di decisione nel
corso dei primi due gradi di giudizio, in quanto tale norma non prevede, neanche nella nuova formulazione, una circostanza attenuante di carattere «speciale» con riferimenti ai reati in materia di stupefacenti,
ma una attenuante «comune». Cass. 31 maggio 1990, n. 13348.
La norma di cui all’art. 2, comma terzo, c.p. riguardante l’applicazione della legge più favorevole al
reo, in caso di successione di leggi nel tempo, deve essere applicata d’ufficio. Ciò, però, nel presupposto che ne ricorrano le condizioni di fatto, rispetto alle quali l’imputato, domandando l’applicazione dello
jus novum a lui più favorevole, ha l’onere dell’allegazione, quando tali condizioni non risultano dagli
atti del processo. Cass. 12 dicembre 1989, n. 10414.
La valutazione volta ad accertare se una disposizione di legge sopravvenuta sia più favorevole
rispetto a quella preesistente deve essere fatta in concreto e non in astratto, specialmente quando la
nuova norma, per il suo contenuto, non opera automaticamente in maniera più favorevole nei confronti
della normativa in vigore al tempo del commesso reato, ma fa dipendere tale risultato eventuale da un
giudizio affidato ai poteri discrezionali del giudice e dalla verifica di tali presupposti. (Nella specie non è
stata ritenuta più favorevole la disposizione di cui all’art. 2, primo comma della legge 23 dicembre 1986,
n. 898, in quanto, per le concesse attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, la pena della reclusione per il ritenuto reato di truffa in danno dell’AIMA era uguale a quella detentiva prevista per il suddetto
delitto di cui al menzionato articolo di legge). Cass. 10 aprile 1987, n. 9816.
Qualora un fatto perda il carattere di illecito penale a seguito di una modifica legislativa, intervenuta
successivamente, che concerna la disciplina normativa extra-penale di riferimento, per attribuire la qualità
di soggetto attivo di un reato proprio, si applica il principio di retroattività della legge più favorevole affermato dall’art. 2 c.p. perché per legge incriminatrice deve intendersi il complesso di tutti gli elementi rilevanti
ai fini della descrizione del fatto tra cui, nei reati propri è indubbiamente compresa la qualità del soggetto attivo. (Nella fattispecie è stata ritenuta non più ravvisabile l’ipotesi del reato di peculato nella condotta di
un dipendente di una cassa di risparmio perché è stata esclusa, a seguito di novatio legis, l’attribuibilità allo
stesso della qualifica di pubblico ufficiale). Cass., Sez. Un., 23 maggio 1987, n. 8342.
6. La modifica della norma extrapenale richiamata dalla disposizione incriminatrice.
6.1. Norme extrapenali integratrici della fattispecie penale e norme extrapenali non
integratrici della fattispecie penale.
Nell’ambito della fattispecie penale le norme extrapenali non svolgono tutte la stessa funzione e,
nel caso delle norme penali in bianco, possono addirittura costituire il precetto, anche se in questo
caso, vista la funzione che svolgono, si parla forse impropriamente di norme extrapenali; perciò occorre
operare una distinzione tra le norme integratrici della fattispecie penale e quelle che tali non possono
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2
LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
essere considerate. È una distinzione alla quale si ricorre anche nell’applicazione del terzo comma dell’art. 47 c.p., per decidere se un errore su una legge diversa da quella penale escluda o meno la punibilità,
e non è questa la sede per stabilire se ai fini dell’art. 2 e dell’art. 47 c.p. la qualificazione di una norma
extrapenale debba essere la stessa; qui è sufficiente considerare che nell’art. 47 c.p. il legislatore ha
riconosciuto l’esistenza di leggi diverse da quelle penali, alle quali ha ricollegato un diverso trattamento
dell’errore, e non è arbitrario pensare che anche agli effetti dell’art. 2 c.p. le leggi diverse da quelle penali
possano avere trattamenti diversi. Cass., Sez. Un., 16 gennaio 2008, n. 2451.
6.2. Consequenziale applicabilità dell’art. 2 c.p.
La retroattività, mentre per le norme penali di favore rappresenta la regola (art. 2, commi 2, 3 e 4,
c.p.), anche se può subire deroghe (Corte cost., 23 novembre 2006, n. 393), per le norme diverse da
quelle penali costituisce un’eccezione (art. 11 disposizioni sulla legge in generale), sicché una nuova
legge extrapenale può avere, di regola, un effetto retroattivo solo se integra la fattispecie penale,
venendo a partecipare della sua natura, e ciò avviene, come nel caso delle disposizioni definitorie, se la
disposizione extrapenale può sostituire idealmente la parte della disposizione penale che la richiama.
Cass., Sez. Un., 16 gennaio 2008, n. 2451.
Oltre che rispetto alle norme integratrici di quelle penali, l’art. 2 c.p. può trovare applicazione
rispetto a norme extrapenali che siano esse stesse, esplicitamente o implicitamente, retroattive, quando nella fattispecie penale non rilevano solo per la qualificazione di un elemento ma per l’assetto
giuridico che realizzano, come può accadere per le norme penali richiamate dalla norma incriminatrice
(e da considerare perciò alla stregua di norme extrapenali, nel senso di norme esterne a quella penale
descrittiva del reato). Cass., Sez. Un., 16 gennaio 2008, n. 2451.
L’indagine sugli effetti penali della successione di leggi extrapenali va condotta facendo riferimento alla fattispecie astratta e non al fatto concreto: non basta riconoscere che oggi il fatto commesso
dall’imputato non costituirebbe più reato, ma occorre prendere in esame la fattispecie e stabilire se la
norma extrapenale modificata svolga in collegamento con la disposizione incriminatrice un ruolo tale da
far ritenere che, pur essendo questa rimasta letteralmente immutata, la fattispecie risultante dal collegamento tra la norma penale e quella extrapenale sia cambiata e in parte non sia più prevista come
reato. In questo caso ci si trova in presenza di un abolitio criminis parziale. Cass., Sez. Un., 16 gennaio
2008, n. 2451.
La successione avvenuta tra norme extrapenali non incide sulla fattispecie astratta, ma comporta
più semplicemente un caso in cui in concreto il reato non è più configurabile, quando rispetto alla
norma incriminatrice la modificazione della norma extrapenale comporta solo una nuova e diversa
situazione di fatto. Cass., Sez. Un., 16 gennaio 2008, n. 2451.
L’istituto della successione delle leggi penali (art. 2 c.p.) riguarda la successione nel tempo delle
norme incriminatrici, ovvero di quelle norme che definiscono la struttura essenziale e circostanziata del
reato. Nell’ambito di operatività dell’istituto in esame non rientrano, invece, le vicende successorie di
norme extra-penali che non integrano la fattispecie incriminatrice nè quelle di atti o fatti amministrativi
che, pur influendo sulla punibilità o meno di determinate condotte, non implicano una modifica della
disposizione sanzionatoria penale, che resta, pertanto, immutata e quindi in vigore. Ne consegue che la
successione di norme extra-penali determina esclusivamente una variazione del contenuto del precetto con decorrenza dalla emanazione del successivo provvedimento e che, in tale ipotesi, non viene
meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso. (Fattispecie relativa ad esercizio di attività
venatoria vietata da una L. reg. al momento della commissione del fatto, e successivamente consentita in
virtù di abrogazione della medesima legge). Cass. 19 marzo 1999, n. 5457.
L’istituto della successione delle leggi penali riguarda la successione nel tempo delle norme incriminatrici, cioè di quelle norme che definiscono la struttura essenziale e circostanziale del reato, comprese le norme extrapenali che integrano la fattispecie incriminatrice. Esula quindi da questo la successione di atti o fatti amministrativi che, pure influendo sulla punibilità o meno di determinate condotte, non implica una modifica della norma incriminatrice in quanto comporta non una abrogazione della
disposizione sanzionatoria penale, che resta immutata e quindi in vigore, ma esclusivamente una variazione del contenuto del precetto con decorrenza dalla emanazione del successivo provvedimento della
pubblica amministrazione. (Fattispecie relativa a rigetto di ricorso avverso condanna per messa in vendita
di carne bovina a prezzo superiore a quello massimo determinato dal comitato internazionale dei prezzi.
La S.C. ha ritenuto che la deliberazione 13 luglio 1993 dello stesso comitato, con cui veniva liberalizzato il
prezzo di vendita della carne in questione, non può assumere valore di esimente per i comportamenti
temporalmente precedenti). Cass. 16 febbraio 1996, n. 758.
6.3. Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, art. 12. comma 1, D.Lgs. 286/1998.
Il delitto previsto dall’art. 12, comma 1, D.Lgs. n. 286/98 (favoreggiamento dell’immigrazione clandestina) commesso ai danni di cittadini rumeni, prima della ratifica del Trattato di adesione della
Romania all’Unione Europea, è rimasto inalterato nel contenuto offensivo derivante dalla situazione di
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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sfruttamento dell’essere umano in condizioni di particolare debolezza. L’adesione successiva del Paese dì
appartenenza all’Unione Europea non implica una modifica della disposizione sanzionatoria, bensì determina una variazione della rilevanza penale del fatto per le violazioni commesse successivamente a tale evento,
con la conseguenza che a tale fattispecie non è applicabile l’art. 2 c.p. Cass. 12 giugno 2007, n. 29728.
Il delitto previsto dall’art. 12, comma 1, D.Lgs. n. 286/98 (favoreggiamento dell’immigrazione clandestina) criminalizza le condotte dirette a procurare l’ingresso illegale dall’Italia in altro Paese confinante, del
quale lo straniero non è cittadino o nel quale non ha titolo di residenza, ed è reato di pericolo che si
perfeziona per il solo fatto di compiere atti diretti a favorire l’ingresso in altro Stato, senza che abbia
alcuna rilevanza la durata della permanenza o la destinazione finale, a meno che non risulti provato che lo
straniero clandestino sia diretto al proprio Paese dì origine. Tale prova non può consistere nelle sole
dichiarazioni dei trasportati, sorpresi in transito nel territorio italiano ai confini con l’Austria, bensì deve
essere valutata in relazione ad elementi che dimostrino la finalità del viaggio e i motivi del viaggio (ad
esempio, i titoli di viaggio per il successivo percorso), con conseguente onere di allegazione per l’imputato. Cass. 12 giugno 2007, n. 29728.
La successiva adesione all’Unione europea dello Stato di appartenenza dei soggetti che sono stati
fatti entrare nel territorio dello Stato illegalmente non fa venire meno il disvalore penale delle condotte di
favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che conserva pertanto penale rilevanza al pari del reato
di associazione per delinquere finalizzata proprio al favoreggiamento illegale dell’ingresso clandestino
nel territorio dello Stato. Cass. 11 gennaio 2007, n. 5875.
La successiva adesione all’Unione europea dello Stato di appartenenza dei soggetti che sono stati
fatti entrare nel territorio dello Stato illegalmente non fa venire meno il disvalore penale della condotta di
favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che conserva pertanto penale rilevanza. Cass. 11 gennaio 2007, n. 1815.
6.4. Violazione dell’art. 14, comma 5-ter, D.Lgs. 286/1998, da parte del cittadino
rumeno prima dell’adesione del Paese di appartenenza all’Unione Europea.
Le norme che hanno modificato lo status dei rumeni, facendoli diventare cittadini dell’Unione Europea, non possono, come si è detto, considerarsi integratrici della norma penale, né possono operare
retroattivamente. L’adesione di uno Stato all’Unione Europea non costituisce un dato formale ma giunge
al termine di un percorso di non breve periodo che lo Stato candidato è tenuto a compiere sotto il
controllo dell’Unione per adeguare le proprie strutture economiche, sociali e ordinamentali ai parametri
stabiliti. E l’adesione a sua volta è produttiva di rilevanti effetti, uno dei quali è costituito dalla libertà, per
i cittadini dello Stato, di circolare all’interno dell’Unione. Perciò non può ritenersi che i cittadini rumeni, ai
fini penali, vadano trattati come se fossero sempre stati cittadini dell’Unione e che i reati commessi
quando essi per il nostro ordinamento erano stranieri siano divenuti non punibili in forza dell’art. 2,
comma 2, c.p. La situazione di fatto e di diritto antecedente all’adesione e quella successiva sono
diverse e richiedono quindi logicamente trattamenti, anche penali, diversi. Se si dovesse ritenere il
contrario, rispetto ai cittadini degli Stati in attesa di entrare a far parte dell’Unione Europea si verificherebbe una situazione paradossale, che darebbe luogo a procedimenti penali inutili, per reati destinati a venire meno nel momento in cui diventerebbe efficace l’adesione. Inoltre, come è stato giustamente rilevato,
“la consapevolezza dell’agente che di lì a breve il proprio Stato entrerà nella CE lo indurrebbe a trasgredire senza timore alcuno l’art. 14, comma 5-ter, D.Lgs. 286 del 1998, confidando poi nella successiva abolitio criminis”. Cass., Sez. Un., 16 gennaio 2008, n. 2451.
La fattispecie di cui all’art. 14, comma 5-ter D.Lgs. 286 del 1998 anche dopo l’ingresso della Romania
nell’Unione Europea è rimasta immutata, avendo questa solo reso lecita la permanenza in Italia. Deve
escludersi, pertanto, che l’adesione della Romania all’Unione Europea abbia determinato l’abolizione del
reato previsto dall’art. 14, comma 5-ter, D.Lgs. n. 286/98, commesso dai cittadini rumeni prima del 1
gennaio 2007, giorno di entrata in vigore del trattato di adesione. Cass., Sez. Un., 16 gennaio 2008, n.
2451; conforme Cass. 28 marzo 2008, n. 15585.
Le norme che hanno modificato lo status dei cittadini romeni, a seguito dell’ingresso della Romania
nell’Ue, non si possono considerare integratrici della norma penale (nella specie l’art. 14 comma 5-ter
D.Lgs. n. 286 del 1998) né possono operare retroattivamente, pertanto non hanno determinato l’abolizione del reato di ingiustificata permanenza nel territorio italiano in violazione dell’ordine del questore, commesso da tali cittadini prima dell’1 gennaio 2007. Cass., Sez. Un., 27 settembre 2007, n. 2451.
6.5. Riformulazione della nozione di piccolo imprenditore con riferimento alle fattispecie di bancarotta.
Non può essere condiviso l’orientamento prevalso nella più recente giurisprudenza di legittimità, a
seguito della modifica apportata dagli artt. 2 e 3 c.p.p. alla disciplina delle questioni pregiudiziali, secondo
cui la sentenza dichiarativa di fallimento non ha efficacia di giudicato nel processo penale e lo status di
“imprenditore” (fallibile), in quanto richiamato dalle fattispecie di bancarotta, andrebbe accertato autonomamente dal giudice penale. A ben leggere gli artt. 216 e 217 L. fall., appare chiaro che in essi il termine
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
“imprenditore” non rileva di per sé ma solo in quanto individua il soggetto “dichiarato fallito”: esso
compone cioè un’endiadi che ha lo stesso valore connotativo del più breve riferimento al “fallito” contenuto
nell’art. 220 L. fall., del tutto analogo alla espressione “società dichiarate fallite” usata negli artt. 223 e 224 1.
fall, per il caso dei “reati commessi da persone diverse dal fallito”; e nessun indizio logico-giuridico può
desumersi da dette fattispecie acchè possa a ragione ritenersi che al giudice penale sia demandato il compito di accertare in capo all’imputato la veste di “imprenditore” ovvero, per la ipotesi di bancarotta impropria, di sindacare la veste societaria assunta dalla fallita. Cass., Sez. Un., 15 maggio 2008, 19601.
L’”imprenditore” evocato dalle fattispecie in questione altri non è, dunque, che il “soggetto dichiarato
fallito”, giacché nel nostro ordinamento la dichiarazione di fallimento è inscindibilmente legata all’esercizio di una impresa, e la norma penale, ponendo a dato strutturale della fattispecie l’esistenza di una
dichiarazione di fallimento, non può che richiamarsi a quella condizione soggettiva (“imprenditore”) che
la dichiarazione di fallimento implica necessariamente.
Lo status di fallito non rappresenta, infatti, una “questione pregiudiziale” da cui dipende la decisione
sui reati di bancarotta, perché questo status è diretto effetto della sentenza dichiarativa di fallimento, che
non è sindacabile dal giudice penale. Cass., Sez. Un., 15 maggio 2008, 19601.
Il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 e seguenti della legge
fallimentare non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento non solo quanto al presupposto
oggettivo dello stato di insolvenza della impresa ma anche quanto ai presupposti soggettivi inerenti alle
condizioni previste dall’art. 1 L. fall. per la fallibilità dell’imprenditore; pertanto, le modifiche apportate
all’art. 1, L. fall., prima dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 e poi dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169, non esercitano influenza, ai sensi dell’art 2 c.p., sui procedimenti penali in corso. Cass.,
Sez. Un., 15 maggio 2008, 19601.
Contra: In tema di reati fallimentari, posto che la sentenza dichiarativa di fallimento non fa stato nel
processo penale, per cui spetta al giudice penale il potere - dovere di verificare autonomamente, tra
l’altro, se l’imputato possa o meno essere considerato piccolo imprenditore, non soggetto, come tale, a
fallimento, ed avuto altresì riguardo al fatto che la dichiarazione di fallimento rappresenta un elemento
costitutivo del reato di bancarotta, per cui le modifiche normative incidenti sui relativi presupposti assumono rilevanza ai fini dell’applicabilità della disciplina dettata dall’art. 2 c.p. in materia di successione di
leggi penali nel tempo, deve ritenersi che, anche nel caso in cui la suddetta qualità di piccolo imprenditore sia stata esclusa dal tribunale fallimentare, in applicazione della disciplina transitoria dettata dall’art.
150 D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, sulla base della originaria formulazione dell’art. 1 R.D. 16 marzo 1942, n.
267, il giudice penale debba ciononostante far riferimento, invece, alla nuova e più favorevole formulazione di tale norma, introdotta dall’art. 1 del cit. D.Lgs. n. 5 del 2006 ed escludere, quindi, la configurabilità
del reato ove, secondo tale formulazione, la qualità di piccolo imprenditore debba essere riconosciuta.
Cass. 18 ottobre 2007, n. 43076.
In tema di reati fallimentari, alle procedure concorsuali e penali avviate prima della data di entrata in
vigore della L. n. 5 del 2006, che ha modificato la nozione di piccolo imprenditore contenuta nell’art. 1,
comma 2, L. fall., resta applicabile la L. fall. previgente, anche per quanto attiene alla identificazione del
soggetto assoggettabile al fallimento ed alla nozione di piccolo imprenditore, considerato che l’art. 150 L.
n. 5 del 2006 detta una chiara disciplina transitoria per la quale “i ricorsi per dichiarazione di fallimento e
le domande di concordato fallimentare depositate prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 5 del 2006,
nonché le procedure di fallimento e di concordato fallimentare pendenti alla stessa data, sono definiti
secondo la legge anteriore”. Cass. 17 maggio 2007, n. 19297.
6.6. Truffa a danno di Ente poste.
L’Ente Poste Italiane, a seguito della sua trasformazione in società per azioni, ha perduto la sua connotazione pubblicistica e, pertanto, la truffa eventualmente commessa in suo danno non potrebbe più ritenersi aggravata ai sensi del comma 2, n. 1 art. 640 c.p. Cass. 5 febbraio 2004, n. 8694.
6.7. Uso di bollo falso.
In tema di falsità in valori di bollo, la legge sul bollo integra un elemento della norma incriminatrice
solo per quanto riguarda la individuazione dei valori suddetti e non anche i casi in cui ne è richiesto l’uso;
ne consegue che la modifica o la abrogazione di norme che disciplinano tali casi, non incidendo sulla
struttura essenziale del reato ma comportando soltanto una variazione del contenuto del precetto, non
configurano successione di leggi penali nel tempo, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2 c.p. (Fattispecie
relativa all’uso di bollo contraffatto di tassa di concessione governativa per la patente, la cui apposizione
sul documento di guida non è più richiesta dalla legge). Cass. 13 maggio 2002, n. 18068.
6.8. Varie.
In tema di successione di leggi penali, la modificazione della norma extrapenale richiamata dalla
disposizione incriminatrice esclude la punibilità del fatto precedentemente commesso solo se tale norma è integratrice di quella penale oppure ha essa stessa efficacia retroattiva. Da ciò deriva che l’adesione
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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della Romania all’Unione europea, con il conseguente acquisto da parte dei rumeni della condizione di
cittadini europei, non ha determinato la non punibilità del reato di ingiustificata inosservanza dell’ordine
del questore di allontanamento dal territorio dello Stato commesso dagli stessi prima dell’1 gennaio
2007, data di entrata in vigore del trattato di adesione, in quanto quest’ultimo e la relativa legge di ratifica
si sono limitati a modificare la situazione di fatto, facendo solo perdere ai rumeni la condizione di stranieri, senza che tuttavia tale circostanza sia stata in grado di operare retroattivamente sul reato già commesso. Cass. 28 marzo 2008, n. 15585.
In materia di illeciti disciplinari, in difetto di una norma analoga a quella dettata dall’art. 2 comma 3
c.p., va applicata la legge vigente al tempo in cui l’infrazione è stata commessa e non la disciplina posteriore più favorevole. Conseguentemente, il comportamento disciplinarmente rilevante del notaio in materia di illecita concorrenza (nella specie mediante riduzione di onorari), commesso prima dell’entrata in
vigore dell’art. 2 comma 1 D.L. n. 223 del 2006, conv. dalla L. n. 248 del 2006 - che ha abrogato le
disposizioni legislative e regolamentari prevedenti la fissazione di tariffe obbligatorie fisse o minime per
le attività libero professionali e intellettuali - deve essere valutato in base al disposto dell’art. 147 seconda
ipotesi L. 16 febbraio 1913, n. 89 (legge notarile), nel testo anteriore alla nuova formulazione di cui all’art.
30 D.Lgs. 1 agosto 2006, n. 249, e del par. a. 3.1 della deliberazione del Consiglio nazionale del notariato
24 febbraio 1994, n. 1188. Cass. civ. 18 marzo 2008, n. 7274.
L’illecito disciplinare del professionista (nella specie, notaio) è soggetto alle norme vigenti al tempo
in cui fu commesso, a nulla rilevando che successivamente tali norme siano state abrogate o modificate
in senso favorevole all’incolpato. Di conseguenza l’abrogazione delle norme che stabiliscono tariffe professionali fisse o minime, disposta dall’art. 2, comma 1 D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (conv. dalla L. 4 agosto
2006, n. 248), non vale di per sé a rendere lecita l’attività del notaio che, prima della suddetta abrogazione, abbia svolto attività di illecita concorrenza, esigendo in modo non saltuario onorari inferiori a quelli
minimi. Cass. civ. 18 marzo 2008, n. 7274.
In caso di trasformazione di illeciti penali in illeciti amministrativi, a seguito dell’entrata in vigore del
D.Lgs. n. 507 del 1999, per fatti commessi nel vigore della precedente disciplina trova applicazione, ai
sensi dell’art. 100 del citato D.Lgs.; la sanzione amministrativa. (Nella fattispecie, la S.C. ha ritenuto corretta la decisione del g.d.p. che aveva respinto l’opposizione dell’interessato avverso l’irrogazione di una
sanzione amministrativa per il comportamento di “incauto affidamento” di un autoveicolo ad un soggetto
privo di patente, commesso prima della depenalizzazione dell’illecito). Cass. 12 ottobre 2007, n. 21483.
L’art. 7 D.Lgs. n. 215 del 2001, così come l’art. 1 comma 6 L. 14 novembre 2000, n. 331 devono essere
considerati norme integratrici del precetto penale. Con riferimento alle situazioni da essi disciplinate
trova applicazione l’art. 2 comma 4 c.p., sicché la sospensione del servizio di leva comporta la non
punibilità della condotta di chi, in precedenza, essendo obbligato a tale servizio, ha rifiutato di prestarlo. La sospensione del servizio militare di leva, previsto dall’art. 7 D.Lgs. n. 215 del 2001, non ha determinato la totale abolizione del servizio militare obbligatorio, che continua ad essere previsto in riferimento a
specifiche situazioni e a determinati casi eccezionali riferibili anche al tempo di pace ai sensi dell’art. 2 L.
14 novembre 2000, n. 331. Ne consegue, da un lato, la manifesta infondatezza della q.l.c. del citato art. 7
in relazione all’art. 52 cost. e, dall’altro, che alla fattispecie di reato di mancata chiamata alle armi, di cui
agli art. 151 e 154 c.p.m.p., non essendo stata essa abolita, si applica il quarto e non il comma 2 dell’art.
2 c.p., secondo cui “se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si
applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza
irrevocabile”. Cass. 2 maggio 2006, n. 16228.
In tema di infortuni sul lavoro, poiché le norme che disciplinano gli obblighi dei soggetti cui è affidato
il compito di tutelare la salute dei lavoratori non hanno funzione integratrice del precetto penale, ma
quella di individuazione delle persone alle quali incombe il dovere di osservare e far osservare le regole
di cautela, la loro modificazione nel senso di rimodulazione degli obblighi di tutela non ricade sotto la
disciplina della successione delle leggi penali nel tempo e non può quindi avere come effetto quello di
rendere legittima una condotta precedentemente vietata in vista della valutazione della responsabilità
penale dell’imputato. (Nella specie il coordinatore per la progettazione e l’esecuzione dei lavori, al quale
era stata contestata la violazione dell’obbligo di assicurare l’osservanza del piano di sicurezza a norma del
D.Lgs. n. 494 del 1996, pretendeva, in relazione ad infortunio occorso prima delle modifiche introdotte al
citato decreto con D.Lgs. n. 528 del 1999, che si applicasse l’art. 5 di quest’ultimo, secondo il quale non è
più previsto l’obbligo di “assicurare”, ma solo quello di “verificare” l’applicazione delle disposizioni impartite dagli appaltatori). Cass. 25 ottobre 2006, n. 2604.
Nel novero delle norme integratrici della legge penale, cui è applicabile il principio di retroattività
della legge più favorevole, ai sensi dell’art. 2, comma terzo, c.p., debbono ricomprendersi tutte quelle che
intervengano nell’area di rilevanza penale di un fatto umano, escludendola, riducendola o comunque
modificandola in senso migliorativo per l’agente; e ciò quand’anche la nuova norma non rechi testuale
statuizione in tal senso ma, comunque, regoli significativamente il fatto in termini incompatibili con la
precedente disciplina penalistica ovvero incidenti, per il nuovo caso regolato, nella struttura della norma
incriminatrice o, quanto meno, sul giudizio di disvalore in essa espresso. (Nella specie, in applicazione di
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2
LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
tale principio, la Corte ha ritenuto che potesse valere ad escludere la configurabilità del reato di violazione
di domicilio - addebitato ad un esponente di un’associazione per la tutela degli animali per essersi egli
introdotto e trattenuto, per dichiarate finalità ispettive, contro la volontà del proprietario, in un locale privato
adibito a canile - la sopravvenuta emanazione di una norma regionale che imponeva ai gestori di strutture di
ricovero per animali di consentire l’accesso, senza bisogno di speciali procedure o autorizzazioni, ai responsabili locali delle associazioni protezionistiche o animalistiche). Cass. 4 febbraio 2005, n. 8045.
Il provvedimento legislativo che ha disposto la trasformazione dell’E.N.E.L. in una società di diritto
privato non ha introdotto una regolamentazione nuova e diversa da quella precedentemente esistente in
ordine al regime di perseguibilità del reato di truffa aggravata né, trattandosi di tipica legge-provvedimento e quindi di atto sostanzialmente amministrativo, ha modificato la norma incriminatrice di cui all’art. 640
c.p.: la fattispecie penale è rimasta immutata, sia nei suoi elementi sostanziali che in quelli circostanziati
(ivi compresa la circostanza aggravante del fatto commesso in danno di ente pubblico), sia, infine, nelle
sue condizioni di procedibilità. Di conseguenza l’art. 15, comma primo, D.L. 11 luglio 1992, n. 333, convertito in legge 8 agosto 1992, n. 359 che ha operato la trasformazione suddetta non configura una
successione di leggi penali e neppure di leggi processuali; ne deve essere pertanto esclusa una sua
efficacia retroattiva come legge più favorevole al reo e, nulla essendo cambiato anche in ordine alla
configurazione ed alla qualificazione giuridica dell’E.N.E.L. precedente alla privatizzazione, i fatti commessi in suo danno prima di tale momento sono stati compiuti in pregiudizio di un ente pubblico. Cass.
21 settembre 1993, n. 9505.
In caso di successione nel tempo di norme incriminatrici, si ha un’ipotesi di successione modificativa, rilevante ai sensi del disposto di cui all’art. 2, comma 3 c.p., quando una norma speciale venga
abrogata ed una norma generale preesistente espanda il proprio campo di applicazione, fino a ricomprendere la fattispecie considerata dalla norma speciale; ovvero quando venga abrogata una norma di
carattere generale e ne subentri una che, conservandone i lineamenti essenziali, si limiti ad introdurre
uno o più elementi specializzanti. Si verifica, invece, una vera e propria abrogazione dell’incriminazione
precedente, con contestuale introduzione di una nuova, autonoma, figura di reato, con conseguente
applicazione del disposto di cui all’art. 2, comma 2, c.p., quando le due leggi succedutesi nel tempo
presentino tra loro requisiti eterogenei e manifestino diversità negli elementi costitutivi tipici che disegnano l’identità del fatto. Trib. Milano, 15 maggio 2002.
7. Le norme penali in bianco.
7.1. Rifiuto di prestare il servizio militare, art. 14 comma 2 L. 230/1998.
La sospensione del servizio militare di leva, previsto dall’art. 7 D.Lgs. n. 215 del 2001, non ha
determinato la totale abolizione del servizio militare obbligatorio, che continua ad essere disciplinato,
in riferimento a specifiche situazioni e a determinati casi eccezionali riferibili anche al tempo di pace, ai
sensi dell’art. 2 L. 14 novembre 2000, n. 331. Ne consegue che alla fattispecie di reato di mancata chiamata alle armi, di cui agli artt. 151 e 154 c.p.m.p., non essendo stata essa abolita, si applica il quarto e non
il secondo comma dell’art. 2, c.p., secondo cui «se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le
posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata
pronunciata sentenza irrevocabile”. (Nel caso di specie, la S.C. ha confermato la decisione del giudice
dell’esecuzione che aveva rigettato l’istanza di revoca della condanna per «abolitio criminis»). Cass. 11
aprile 2006, n. 21823.
La nuova normativa non ha comportato la totale e generalizzata eliminazione del servizio militare
obbligatorio, dal momento che, anzi, esso continua ad essere previsto in riferimento a specifiche situazioni e a determinati casi eccezionali riferiti anche al tempo di pace (L. n. 331 del 2000, art. 2). Di qui il
richiamo che questo Collegio ritiene di dover fare, in materia di successione di leggi penali, all’art. 2 c.p.,
comma 4 (e non già al comma 2 di tale norma, come è stato ritenuto da questa stessa Sezione nella
sentenza, n. 12316 del 10 febbraio 2005. Cass. 6 giugno 2007, n. 25812.
Contra A seguito dell’istituzione del servizio militare professionale, realizzata dalla L. 14 novembre
2000, n. 331, entrata definitivamente a regime il 31 ottobre 2005, deve ritenersi abolito il servizio militare
obbligatorio in tempo di pace e, di conseguenza, abrogato il delitto di rifiuto a prestare lo stesso da parte
dei cittadini ad esso tenuti per chiamata di leva, ai sensi dell’art. 14 comma 2 L. n. 230 del 1998, con il
duplice corollario, ai sensi dell’art. 2 comma 2 c.p., che, da un lato, non è punibile la condotta di chi in
precedenza, quando detto servizio era obbligatorio, ha rifiutato di prestarlo e, dall’altro, vengono a cessare l’esecuzione e gli effetti penali della condanna eventualmente subita. (Nel caso di specie la Corte,
nell’enunciare tale principio, ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna dell’imputato “perché il
fatto non è previsto dalla legge come reato”). Cass. 2 marzo 2006, n. 7628.
L’intervenuta sospensione del servizio militare di leva ridisegna la fattispecie penale del delitto di
rifiuto della relativa prestazione eliminando il disvalore sociale della condotta incriminata. Ne consegue
che il D.Lgs. n. 215 del 2001, art. 7, così come la L. 14 novembre 2000, n. 331, art. 1, comma 6 (“Le Forze
armate sono organizzate su base obbligatoria e su base professionale secondo quanto previsto dalla
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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presente legge”), devono essere considerati norme integratrici del precetto penale e che, con riferimento
alle situazioni da essi disciplinate, trova applicazione l’art. 2 c.p., comma 4 (“se la legge del tempo in cui
fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli
al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”); sicchè la sospensione del servizio di leva
comporta la non punibilità della condotta di chi in precedenza, essendo obbligato a tale servizio, ha
rifiutato di prestarlo. Cass. 28 aprile 2006.
7.2. Art. 9 Legge 14 dicembre 2000, n. 376 (recante la disciplina delle attività sportive e della lotta contro il doping).
Le ipotesi di reato previste dall’art. 9 Legge 14 dicembre 2000, n. 376 (recante la disciplina delle attività
sportive e della lotta contro il doping) sono configurabili anche per i fatti commessi dalla sua entrata in
vigore e prima della emanazione, in data 15 ottobre 2002, del decreto del Ministro della Salute, con il quale,
in applicazione dell’art. 2 stessa legge, sono stati ripartiti in classi i farmaci, le sostanze biologicamente o
farmacologicamente attive e le pratiche mediche il cui impiego è considerato doping, e ciò in quanto la
ripartizione in classi demandata al D.M. non può escludere farmaci, sostanze e pratiche mediche già vietati
dalla Convenzione di Strasburgo contro il doping, ratificata con Legge 29 novembre 1995, n. 522, e dalle
Organizzazioni sportive internazionali competenti. Cass., Sez. Un., 29 novembre 2005, n. 3087.
7.3. Casistica.
La fattispecie di cui all’art. 5 lett. h) L. n. 283 del 1962 è norma penale in bianco, giacché rinvia, al
fine di adeguare gli obblighi di legge all’evoluzione anche scientifica del contesto cui la legge stessa
intende riferirsi, a disposizione proveniente da fonte diversa da quella penale; dal carattere eccezionale e
dall’efficacia temporanea di tali disposizioni consegue che la punibilità della condotta non dipende dal
momento in cui viene emessa la decisione, ma dal momento in cui avviene l’accertamento, con esclusione dell’applicabilità del principio di retroattività della legge più favorevole. (Nel caso di specie il limite di
tolleranza relativo alla presenza, vietata per legge, di residui di bromopropilato negli alimenti, stabilito da
un D.M., era stato, successivamente al fatto, innalzato sino a superare il valore riscontrato nelle mele
vendute dall’imputato). Cass. 16 ottobre 2007, n. 43829.
La circostanza che la Polonia sia entrata a far parte dell’Unione Europea dal 2004, con la conseguente libera circolazione dei cittadini polacchi nell’ambito dei Paesi aderenti, non ha alcuna influenza
sulle condotte criminose commesse in data antecedente alla ratifica del Trattato di adesione, in quanto
l’art. 12 D.Lgs. n. 286 del 1998 può considerarsi norma penale in bianco solo in relazione alla definizione
di alcune connotazioni della condotta, ma non nella parte in cui assume come mero presupposto della
condotta incriminata la qualifica di straniero extracomunitario, con la conseguenza che, in caso di mutazione di tale «status» dopo la commissione del reato, non si verifica una successione di norma penali
integratrici della condotta e non trova applicazione la disciplina prevista dall’art. 2, commi secondo e
quarto, c.p. Cass. 11 gennaio 2007, n. 5875.
In tema di infortuni sul lavoro, poiché le norme che disciplinano gli obblighi dei soggetti cui è affidato il compito di tutelare la salute dei lavoratori non hanno funzione integratrice del precetto penale, ma
quella di individuazione delle persone alle quali incombe il dovere di osservare e far osservare le regole
di cautela, la loro modificazione nel senso di rimodulazione degli obblighi di tutela non ricade sotto la
disciplina della successione delle leggi penali nel tempo e non può quindi avere come effetto quello di
rendere legittima una condotta precedentemente vietata in vista della valutazione della responsabilità
penale dell’imputato. (Nella specie il coordinatore per la progettazione e l’esecuzione dei lavori, al quale
era stata contestata la violazione dell’obbligo di assicurare l’osservanza del piano di sicurezza a norma del
D.Lgs. n. 494 del 1996, pretendeva, in relazione ad infortunio occorso prima delle modifiche introdotte al
citato decreto con D.Lgs. n. 528 del 1999, che si applicasse l’art. 5 di quest’ultimo, secondo il quale non è
più previsto l’obbligo di «assicurare», ma solo quello di «verificare» l’applicazione delle disposizioni impartite dagli appaltatori). Cass. 25 ottobre 2006, n. 2604.
Sono pubblici ufficiali i funzionari di vertice di un’azienda municipalizzata che hanno concorso a
formarne la volontà e a certificarne le spese e la complessiva gestione finanziaria. (Fattispecie relativa a
reato di corruzione propria ascritto a dirigente dell’ACEA, in relazione alla quale la Corte ha ritenuto che la
successiva trasformazione dell’azienda in società per azioni non potesse spiegare effetti, ai sensi dell’art.
2 c.p., ai fini dell’esclusione del reato, esulando dall’ambito dell’applicazione di quest’ultima norma la
successione di fatti o atti amministrativi che, senza modificare la norma incriminatrice o comunque influire su di essa, agiscano, modificandoli, sugli elementi di fatto, sì da non renderli più sussumibili sotto
l’astratta fattispecie normativa). Cass. 26 settembre 2006, n. 38698.
La fattispecie di cui all’art. 444 c.p. è norma penale in bianco, rivestita di contenuti in base a norme
extrapenali integratrici del precetto penale, che possono essere emanate anche da autorità amministrative o sovranazionali, le quali dettano disposizioni regolatrici od impongono divieti anche in base ad accertamenti scientifici relativi a situazioni storiche determinate; dal carattere eccezionale e dall’efficacia temporanea di tali disposizioni consegue che la punibilità della condotta non dipende dal momento in cui
– 73 –
2
LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
viene emessa la decisione, ma dal momento in cui avviene l’accertamento, con esclusione dell’applicabilità del principio di retroattività della legge più favorevole. (Nel caso di specie, le disposizioni di un D.M.
integratrici del precetto prevedevano il divieto di commercializzazione di carne di bovino adulto, in base
ad accertamenti che avevano indicato come pericolose per la salute determinate condizioni di età dell’animale, legate a fatti contingenti; vincoli poi superati dal Regolamento comunitario, n. 1974 del 2005).
Cass. 16 maggio 2006, n. 19107.
L’istituto della successione delle leggi penali nel tempo riguarda le norme che definiscono la struttura
essenziale e circostanziata del reato; pertanto, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2 c.p., si deve tenere conto
anche di quelle fonti normative subprimarie che, pur non ricomprese nel precetto penale, ne integrano
tuttavia il contenuto. (Nel caso di specie, relativo al reato di esercizio di attività venatoria nei parchi, la
Corte ha ritenuto che la riperimetrazione della riserva naturale ad opera di un provvedimento amministrativo della Regione Sicilia avesse eliminato il disvalore penale del fatto commesso, in quanto era venuta
successivamente a mancare la qualifica di parco dell’area di svolgimento dell’attività venatoria, elemento
costitutivo della condotta punibile). Cass. 1 febbraio 2005, n. 9482.
Nell’abuso di ufficio connesso a una violazione di legge, questa si pone come mero presupposto di
fatto per l’integrazione del delitto, e lo specifico contenuto della regola violata non si incorpora nella
norma penale e non va ad integrare la relativa fattispecie. Ne consegue che la sussistenza di tale requisito
di fatto deve essere ricercata nel momento stesso del reato e la valutazione del giudice non può che
essere rapportata al contenuto che quella regola possedeva al tempo in cui il reato fu commesso, con
l’effetto ulteriore che, in caso di modificazione successiva di tale regola, non trova applicazione l’art. 2
c.p., in quanto la nuova legge di riferimento non introduce alcuna differente valutazione in relazione alla
fattispecie legale astratta disegnata dalla norma incriminatrice e al suo significato di disvalore (rimanendo
immutato il presupposto della «violazione di legge»), ma modifica una disposizione extrapenale che si
limita ad influire, nel caso singolo, sulla concreta applicazione futura della stessa norma incriminatrice,
nel senso che la sussistenza del requisito della «violazione di legge» va verificata alla luce della nuova
regola. (Nella specie, in cui l’abuso era consistito nell’adozione, da parte di dirigenti di un Ente ospedaliero, di delibere che avevano posto a carico dell’Ente medesimo le spese legali per la difesa, in un processo
per concussione, di un primario chirurgo e di un’infermiera, in violazione dell’art. 41 D.P.R. n. 270 del
1987, la sopravvenienza, nel corso del processo, di una disposizione meno rigorosa - quella dell’art. 26
C.C.N.L. della dirigenza medica del S.S. N. - aveva indotto il giudice di merito ad applicare l’art. 2, comma
secondo, c.p., sia pure limitatamente alla posizione del medico; la Corte, nell’enunciare il principio sopra
trascritto, ha posto in evidenza come anche la disposizione sopravvenuta, al pari della precedente, subordinasse l’obbligo dell’Ente alla riferibilità ad esso del fatto del dipendente, che era esclusa in ogni caso
dalla condotta concussiva di entrambi i ricorrenti, pur restando intangibile la statuizione assolutoria del
chirurgo in mancanza di ricorso del P.M.). Cass. 15 gennaio 2003, n. 10656.
Non integra il reato di esercizio abusivo di una professione la condotta del praticante avvocato,
abilitato al patrocinio, il quale abbia assunto la difesa di un minore nell’udienza di convalida dell’arresto
tenuta dal g.i.p. del tribunale per i minorenni, in quanto, nei limiti in cui tale attività difensionale è consentita dalla norma sopravvenuta di cui all’art. 7, L. 16 dicembre 1999, n. 47, la modifica della norma extrapenale si riflette sulla struttura stessa del precetto penale ed opera, dunque, il principio di retroattività della
legge penale più favorevole. Cass. 9 dicembre 2002, n. 1751.
La disciplina relativa alla successione delle leggi penali (art. 2 c.p.) si applica qualora la disposizione
richiamata da una “norma penale in bianco” sia modificata o abrogata, ovvero nell’ipotesi in cui venga
modificata una norma “definitoria” - ossia una disposizione attraverso la quale il legislatore chiarisce il
significato di termini usati in una o più disposizioni incriminatrici, concorrendo a individuare il contenuto
del precetto penale - oppure, infine, nel caso in cui una disposizione legislativa commini una sanzione
penale per la violazione di un precetto contenuto in un’altra disposizione legislativa, che venga abrogata
in tutto o in parte. (Fattispecie in cui la Corte ha confermato l’affermazione di penale responsabilità di un
sindaco in ordine al delitto di cui all’art. 323 e ha escluso l’applicabilità dell’art. 2 c.p. alla luce dell’abrogazione, ad opera dell’art. 136 D.P.R. n. 380 del 2001, dell’art. 7 L. n. 47 del 1985 e della previsione,
contenuta nell’art. 31 del citato D.P.R. n. 380 del 2001, secondo la quale il soggetto titolare del poteredovere di provvedere in merito alle ingiunzioni di demolizione, rimozione, ripristino non è il sindaco, ma
il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale). Cass. 2 dicembre 2003, n. 4296.
La disciplina relativa alla successione delle leggi penali (art. 2 c.p.) non si applica alla variazione nel
tempo delle norme extra-penali e degli atti o fatti amministrativi che non incidono sulla struttura
essenziale e circostanziata del reato, ma si limitano a precisare la fattispecie precettiva, delineando la
portata del comando, che viene a modificarsi nei contenuti a far data dal provvedimento innovativo; in
detta ipotesi, rimane fermo il disvalore ed il rilievo penale del fatto anteriormente commesso, sicché il
relativo controllo sanzionatorio va effettuato sulla base dei divieti esistenti al momento del fatto (principio
affermato in tema di responsabilità per la gestione di centri trasfusionali con riguardo al reato di cui all’art.
17 della legge 4 marzo 1990, n. 107, configurato per inosservanza di norme regolamentari contenute nel
D.M. 27 dicembre 1990, poi sostituito dal D.M. 25 gennaio 2001). Cass. 12 marzo 2002, n. 18193.
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
2
L’istituto della successione delle leggi penali (art. 2 c.p.) riguarda la successione nel tempo delle
norme incriminatrici, ovvero di quelle norme che definiscono la struttura essenziale e circostanziata
del reato. Nell’ambito di operatività dell’istituto in esame non rientrano, invece, le vicende successorie
di norme extra-penali che non integrano la fattispecie incriminatrice né quelle di atti o fatti amministrativi che, pur influendo sulla punibilità o meno di determinate condotte, non implicano una modifica
della disposizione sanzionatoria penale, che resta, pertanto, immutata e quindi in vigore. Ne consegue
che la successione di norme extra-penali determina esclusivamente una variazione del contenuto del
precetto con decorrenza dalla emanazione del successivo provvedimento e che, in tale ipotesi, non viene
meno il disvalore penale del fatto anteriormente commesso. (Fattispecie relativa ad esercizio di attività
venatoria vietata da una legge regionale al momento della commissione del fatto, e successivamente
consentita in virtù di abrogazione della medesima legge). Cass. 19 marzo 1999, n. 5457.
Per norma incriminatrice si intende la norma che definisce la struttura essenziale e circostanziale del
reato, comprese le fonti extrapenali che contribuiscono ad integrare la fattispecie penale. Pertanto qualsiasi modifica delle fonti integratrici comporta un mutamento della norma incriminatrice, mutamento
che è disciplinato dai principi stabiliti dall’art. 2 c.p. (Fattispecie in tema di liberalizzazione del prezzo di
vendita del pane operato con la delibera Cipe del 3 agosto 1993, che ha così modificato il contenuto
precettivo dell’art. 14 del D.Lgs.C.p.S. 15 settembre 1947, n. 896, che punisce gli esercenti che pongono
in vendita merci a prezzi superiori a quelli stabiliti). Cass. 29 gennaio 1998, n. 4176.
In tema di successione di leggi penali gli atti aventi natura meramente amministrativa, sia pure di
portata generale ed integranti precetti penalmente sanzionati, non fanno venire meno il commesso reato, determinando semplicemente una variazione di quelle integrazioni del precetto, che sono previste
come mutevoli, e la cui decorrenza non può che coincidere con l’emanazione del relativo provvedimento
della p.a. (Fattispecie nella quale era stata deliberata la sospensione sperimentale del regime del prezzo
amministrativo del pane dopo la consumazione del reato di cui all’art. 14 D.Lgs.C.P.S. 15 settembre 1947,
n. 896 - vendita a prezzo superiore a quello imposto dal Cip). Cass. 17 febbraio 1998, n. 4720.
L’art. 2 c.p. che regola la successione nel tempo della legge penale, riguarda quelle norme che definiscono la natura sostanziale e circostanziale del reato, comprese quelle norme extrapenali richiamate
espressamente ad integrazione della fattispecie incriminatrice nonché le leggi costituenti indispensabile
presupposto o comunque concorrenti ad individuare il contenuto sostanziale del precetto. Esula da tale
normativa la successione di atti o fatti amministrativi che, senza modificare la norma incriminatrice o
comunque su di essa influire, agiscano sugli elementi di fatto - modificandoli - sì da non renderli più
sussumibili sotto l’astratta fattispecie normativa. (Fattispecie in tema di rigetto di eccepita inapplicabilità
dell’art. 468 c.p., alla contraffazione dei sigilli posti sulla calotta del contatore elettrico per non essere più
l’ENEL, a seguito della legge n. 395 del 1992, ente pubblico economico). Cass. 25 febbraio 1997, n. 4114.
Le norme tecniche per costruzioni in zone sismiche, stabilite nei decreti interministeriali di cui agli
art. 1 e 3 L. 2 febbraio 1974, n. 64, integrano la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 20 della stessa legge.
Pertanto, la modifica di tali norme tecniche configura una successione temporale di leggi, che è disciplinata dall’art. 2 c.p. (Nella specie, relativa ad annullamento con rinvio di sentenza con la quale il pretore
aveva escluso l’applicabilità delle nuove norme tecniche in materia antisismica stabilite con D.M. 16
gennaio 1996 - nella considerazione che le modificazioni delle norme integratrici di una norma penale in
bianco - com’è quella dell’art. 20 della L. n. 64 del 1974 - non configurano un’ipotesi di successione di
leggi nel tempo disciplinata dall’art. 2 c.p., la Corte ha ritenuto che, in applicazione del principio sopra
enunciato, il pretore doveva verificare se la condotta contestata all’imputato era - ancora - in contrasto
con le norme tecniche stabilite con il D.M. 16 gennaio 1996 e se, quindi, configurava il reato di cui all’art.
20 della citata L. n. 64 del 1974). Cass. 27 maggio 1997, n. 9131.
L’art. 14 D.Lgs.C.p.S. n. 896 del 1947 costituisce una norma penale in bianco, contenente la sanzione
di un precetto emanato di volta in volta dall’autorità amministrativa in relazione a situazioni particolari e
contingenti. Pertanto, il provvedimento della stessa autorità che modifichi una sua precedente determinazione, liberalizzando il prezzo di vendita di merce prima sottoposta a “calmiere”, non determina una
ipotesi di successione di legge, consistendo questa in una plurima produzione normativa dalla quale
promanino conseguenze giuridico-penali di diversa portata. Cass. 16 febbraio 1996, n. 758.
Quando la legge punisce condotte contrarie a prescrizioni poste con atto amministrativo, che influisce su singoli casi, l’emanazione di nuovi atti, o il mutamento del loro contenuto, non costituiscono
novazione legislativa rilevante ex art. 2 comma secondo c.p., in quanto non si prospetta alcuna modificazione di regole generali di condotta. Invero tale atto amministrativo (che, nel caso in esame, prevedeva i
limiti di accettabilità degli scarichi valevoli per l’insediamento dell’imputato) integra il precetto penale in
un elemento normativo della fattispecie; cioè l’atto amministrativo è il presupposto di fatto della legge
penale incriminatrice, la quale ne sanziona la trasgressione. Ne deriva che il mutamento dell’atto amministrativo non comporta una differente valutazione della fattispecie legale astratta, bensì determina la
modifica del precetto e l’instaurazione di una nuova fattispecie incriminatrice, sicché, regolando le due
norme fatti storicamente diversi, non sorge problema di successione di leggi. (Nella specie, relativa a
rigetto di ricorso, era stata dedotta violazione dell’art. 2 c.p. per non avere la Corte di merito ritenuto
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2
LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
applicabile la regola della retroattività della legge più favorevole; ciò in quanto il valore dei solventi
organici era conforme ai nuovi, e più permissivi, limiti fissati dal consorzio interprovinciale successivamente alla commissione del reato). Cass. 24 settembre 1996, n. 9163.
La successione di norme giuridiche integrative di una norma penale in bianco o anche soltanto di
un elemento normativo della norma penale di per sé non dà luogo ad una successione di leggi penali e
tanto meno determina una ipotesi di abolitio criminis, occorrendo accertare se tale successione comporti o meno, rispetto al «fatto», quella effettiva immutatio legis, che è la ratio giustificatrice del principio
di retroattività della legge più favorevole sancito dall’art. 2, comma secondo, c.p. (Fattispecie in tema di
pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale (art. 684 c.p.) in cui la Corte di cassazione, sulla
base del principio di diritto di cui in massima, ha annullato la sentenza di merito che aveva escluso la
configurabilità del reato sul rilievo che l’art. 114 del nuovo c.p.p., a differenza dell’art. 164 c.p.p. 1930, non
contempla più tra gli atti protetti dal divieto di pubblicazione quello conclusivo della fase processuale
antecedente al dibattimento, che sostituisce l’ordinanza di rinvio a giudizio del giudice istruttore). Cass. 9
marzo 1994, n. 6864.
Va compresa fra le disposizioni che integrano la legge penale la norma - ai fini dell’indagine sulla
sussistenza del reato di falso ideologico commesso da notaio nell’autenticazione di firma - della legge
notarile in base alla quale il notaio, nell’autenticare sottoscrizioni apposte su scritture private, deve dichiarare che le medesime sono apposte in sua presenza da persone previamente identificate mediante
valutazione di ogni elemento utile. Cass. 7 ottobre 1987, n. 2945.
In tema di successione di leggi penali, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2 c.p. deve tenersi conto anche
di quelle norme che, pur non ricomprese nel precetto penale, ne costituiscono tuttavia indispensabile
presupposto o concorrono, comunque, a determinarne il contenuto. Diversa, peraltro, è l’ipotesi in cui la
disposizione extrapenale costituisce solo mero, anche se necessario, presupposto per l’emanazione di
un atto amministrativo la cui validità, ai fini penali, rimane integra fino a quando il venir meno di quel
presupposto non ne possa determinare la revoca. Ne consegue che la soppressione, di cui alla legge n.
327 del 1988, dell’istituto della diffida da parte del questore, che costituiva uno dei presupposti per la
sospensione della patente da parte del prefetto, se conferisce all’interessato il diritto di essere reintegrato
nella licenza di guida, non esclude l’immanente validità di quel provvedimento prefettizio, sino alla sua
revoca, e, quindi, l’illiceità di ogni pregressa condotta antecedente che ad esso non si sia uniformata.
Cass. 23 ottobre 1989, n. 96.
8. I decreti-legge e le leggi di conversione.
La regola di cui all’art. 2 comma 2 c.p., secondo la quale nessuno può essere punito per un fatto che,
secondo una legge posteriore, non costituisce più reato, trova applicazione anche nel caso in cui l’irrilevanza penale del fatto derivi dalla sopravvenienza di un D.L. che poi non sia stato convertito o sia stato
conv. con modificazioni. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto che fosse da
escludere la configurabilità del reato di cui all’art. 25 comma 1 D.P.R. 24 maggio 1988, n. 203 - previsto per
la mancata, tempestiva presentazione della domanda di autorizzazione alla prosecuzione dell’attività di
impianti suscettibili di produrre emissioni inquinanti all’atmosfera - dal momento che l’imputato aveva
presentato detta domanda entro il termine prorogato con D.L. n. 215/1990, poi non convertito in legge).
Cass. 21 febbraio 2001, n. 13992.
Una volta decaduto il decreto-legge contemplante un’ipotesi di reato, la condotta illecita posta in
essere nel periodo della sua vigenza non può essere più perseguita e sanzionata, a nulla rilevando che
la norma che ne prevedeva l’illiceità, sanzionandola penalmente, sia stata reiterata in successivo decretolegge o che una legge successiva abbia regolamentato i rapporti sorti sulla base di decreti-legge non
convertiti, facendone salvi gli effetti, stante il divieto di retroattività della legge incriminatrice stabilito
dall’art. 25, comma secondo, Cost. (Fattispecie relativa a revoca in executivis di condanna inflitta per il
reato previsto dall’art. 7 della legge n. 39 del 1990 e successive modificazioni, a seguito di mancata
conversione del decreto-legge n. 477 del 1996). Cass. 22 aprile 1999, n. 3209.
Una volta decaduto il decreto – legge contemplante un’ipotesi di reato, la condotta illecita posta in
essere nel periodo della sua vigenza non può essere più perseguita e sanzionata, a nulla rilevando che la
norma che prevedeva l’illiceità, sanzionandola penalmente, sia stata reiterata in successivo decreto-legge o che una legge successiva abbia regolamentato i rapporti sorti sulla base di decreti-legge non convertiti, stante il divieto di retroattività della legge incriminatrice stabilito dall’art. 25, comma secondo, Cost.
Cass. 16 dicembre 1997, n. 7058.
In caso di successione di decreti legge in continuità, presupposto per la revoca della sentenza emessa per fatto commesso in vigenza di previsione sanzionatoria è che la successiva abrogazione della norma incriminatrice, contenuta in uno dei detti decreti sia attuale. Per altro il D.L. non convertito non ha
effetti nella successione di leggi penali ex art 2, secondo e comma 3, c.p. a seguito della sentenza della
Corte costituzionale, n. 51/85, pur regolando i fatti commessi sotto la sua vigenza. La clausola di salvezza
degli effetti dei decreti legge non convertiti, contenuta nella legge di conversione, n. 172/1995, che chiudeva la serie di decreti legge in materia di inquinamento delle acque, ha la funzione di ripristinare un
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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“continuum” normativo facendo risalire nel tempo la nuova disciplina all’originaria disposizione decaduta
e consolidandola negli effetti, così da assicurare la permanenza dei medesimi senza soluzione di continuità. (Nella specie il “continuum” normativo traeva origine dalla L. 10 maggio 1976, n. 319, che prevedeva
come reato lo scarico da insediamento produttivo con superamento dei limiti, e l’anomalia era stata
introdotta dal D.L. 15/7/1994, n. 449, e dal successivo D.L. 17/9/1994, n. 537, cui avevano fatto seguito i
D.L. 629/94, 9/95 e 79/95 nuovamente prevedenti il fatto come reato, con la previsione finale incriminatrice ex L. 17 maggio 1995, n. 172, ed il fatto era stato commesso antecedentemente alla depenalizzazione
temporanea operata con il D.L. 449/94). Cass. 19 novembre 1997, n. 3922.
A seguito della mancata conversione dei decreti legge n. 489 del 1995 e, n. 22 e 136 del 1996, la disciplina dell’espulsione degli stranieri è tornata ad essere disciplinata per intero dal D.L. 30 dicembre 1989, n. 416
(conv. in L. 28 febbraio 1990, n. 39) e dalle modifiche introdotte in quella normativa dal D.L. 14 giugno 1993, n.
187, conv. in L. 12 agosto 1993, n. 296. Perciò l’espulsione degli stranieri che si trovino nelle condizioni previste
dall’art. 7 comma 12bis della L. 39/1990 è possibile, a meno che non sussistano «inderogabili esigenze processuali», senza che il giudice debba verificare se «le esigenze cautelari per le quali è stata applicata la custodia
possano essere soddisfatte da tale misura e non sussistano inderogabili esigenze processuali», secondo la
formulazione adottata nel decreto legge 18 novembre del 1995, n. 489, poi reiterato per tutto il corso del 1996
(reiterazioni che contenevano alcune modifiche, anche relative alla formulazione sopra riportata, non ripresa
negli ultimi due tentativi) ed infine non convertito. Cass. 14 febbraio 1997, n. 620.
In tema di tutela dell’igiene del lavoro, la pena originariamente fissata dal D.Lgs. 15 agosto 1991, n.
277 era l’ammenda da quindici a cinquanta milioni; tale pena è stata modificata dall’art. 27 del D.Lgs. 19
dicembre 1994, n. 758 con la previsione dell’arresto da tre a sei mesi o dell’ammenda da dieci a cinquanta
milioni. Sebbene il minimo della pena pecuniaria sia nella nuova previsione più bassa, deve in ogni caso
ritenersi norma più favorevole al reo quella contenuta nella prima formulazione, che prevede tra l’altro un
termine di prescrizione più breve. Cass. 13 maggio 1997, n. 5744.
In caso di successione di decreti legge in continuità presupposto per la revoca della sentenza emessa per fatto commesso in vigenza di previsione sanzionatoria è che la successiva abrogazione della norma incriminatrice, contenuta in uno dei detti decreti sia attuale. Per altro il D.L. non convertito non ha
effetti nella successione di leggi penali ex art 2, secondo e comma 3, c.p. a seguito della sentenza della
Corte costituzionale, n. 51/85, pur regolando i fatti commessi sotto la sua vigenza. La clausola di salvezza
degli effetti dei decreti legge non convertiti, contenuta nella legge di conversione, n. 172/1995, che chiudeva la serie di decreti legge in materia di inquinamento delle acque, ha la funzione di ripristinare un
“continuum” normativo facendo risalire nel tempo la nuova disciplina all’originaria disposizione decaduta
e consolidandola negli effetti, così da assicurare la permanenza dei medesimi senza soluzione di continuità. (Nella specie il “continuum” normativo traeva origine dalla L. 10 maggio 1976, n. 319, che prevedeva
come reato lo scarico da insediamento produttivo con superamento dei limiti, e l’anomalia era stata
introdotta dal D.L. 15/7/1994, n. 449, e dal successivo D.L. 17/9/1994, n. 537, cui avevano fatto seguito i
D.L. 629/94, 9/95 e 79/95 nuovamente prevedenti il fatto come reato, con la previsione finale incriminatrice ex L. 17 maggio 1995, n. 172, ed il fatto era stato commesso antecedentemente alla depenalizzazione
temporanea operata con il D.L. 449/94). Cass. 19 novembre 1997, n. 3922.
Fra diversi D.L. non esaminati dal Parlamento e succedutisi nel tempo sulla stessa materia senza
soluzioni di continuità, si verifica, ferma restando la loro precarietà, il fenomeno della c.d. successione di
leggi nel tempo, regolata dall’art. 2 c.p. Infatti i principi affermati dalla Corte costituzionale con la sent. 22
febbraio 1985, n. 51 riguardano decreti divenuti inefficaci per mancata conversione in legge decisa dal
Parlamento con apposito voto negativo, ma non possono ancora ritenersi applicabili alla diversa ipotesi
di D.L. reiterati per mancato esame di essi da parte del Parlamento. Cass. 22 maggio 1996.
Una volta decaduto il decreto legge contemplante una ipotesi di reato, la condotta illecita posta in
essere nel periodo della sua efficacia non costituisce titolo per la condanna, a nulla rilevando la reintroduzione della norma incriminatrice in un successivo decreto-legge, che non può avere efficacia retroattiva. (Fattispecie relativa al reato di soggiorno nel territorio dello Stato senza autorizzazione, introdotto con
il decreto-legge 18 gennaio 1996, n. 22 non convertito in legge). Cass. 6 novembre 1996, n. 10821.
La mancata conversione, entro il termine fissato dall’art. 77 Cost., di un decreto legge contenente
una previsione di reato comporta il venir meno della punibilità di quest’ultimo, anche qualora al decreto legge non convertito faccia seguito, senza soluzione di continuità, un altro contenente analoga
previsione. Tale principio rimane valido anche a fronte della sentenza della Corte costituzionale 21 marzo
1996, n. 84, essendosi la Corte, con tale pronuncia, limitata ad affermare soltanto la permanente validità
della propria investitura in ordine ad una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto una
disposizione successivamente sostituita da altra di identico contenuto; il che non incide sulla invalidità ex
tunc, in base al disposto di cui al citato art. 77, comma terzo, Cost., del decreto legge non convertito, e
sulla conseguente impossibilità giuridica, ai sensi dell’art. 2, comma primo, c.p., di continuare a considerare punibili, in base ad esso, fatti commessi durante la sua vigenza, pur quando la previsione di essi
come reato sia ripresa dal nuovo decreto legge, giacché quest’ultimo, come qualsiasi norma di carattere
penale, non può disporre che per l’avvenire. Cass. 22 maggio 1996, n. 3506.
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2
LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
Qualora la legge di conversione di un decreto legge introduca una pena accessoria non prevista da
quest’ultimo, l’emendamento che aggiunge una pena accessoria assente nel decreto legge costituisce
innovazione dal punto di vista sanzionatorio ed ha efficacia ex nunc vale a dire dall’entrata in vigore
della legge di conversione. Cass. 17 aprile 1996, n. 5113.
A seguito della mancata conversione in legge di un decreto legge, le norme contenenti ipotesi di
reato perdono efficacia fin dall’inizio, dando luogo ad un fenomeno di abolitio criminis rispetto ai fatti
concomitanti. Tuttavia resta applicabile a questi ultimi la previsione criminosa specificamente abrogata
dal suddetto decreto legge non convertito e nel cui precetto potrebbero in astratto rientrare il fatto contestato, poiché venuta meno ex tunc l’efficacia del decreto legge non convertito si riestende di conseguenza l’efficacia della legge penale preesistente, fino a ricomprendere i fatti commessi sotto il vigore del
decreto legge non convertito. (Fattispecie relativa al reato di cui all’art. 7-bis del D.L. n. 419 del 1989
convertito in legge n. 39 del 1990 e successivamente modificato dal D.L. n. 107 del 1993 non convertito in
legge). Cass. 7 marzo 1995, n. 724.
Fra diversi decreti legge non esaminati dal Parlamento e succedutisi nel tempo sulla stessa materia
senza soluzioni di continuità si verifica, ferma restando la loro precarietà, il fenomeno della cosiddetta
successione di leggi nel tempo, regolato dall’art. 2 c.p. e ad essi deve ritenersi applicabile la norma di cui al
comma quinto di questo. (Nella specie relativa ad annullamento senza rinvio di sentenza di condanna, perché
il fatto non era dalla legge previsto, come reato, la S.C. ha osservato che all’epoca del giudizio di primo grado
era in vigore il D.L. n. 449 del 1994 che aveva depenalizzato il fatto di reato ascritto ai ricorrenti (scarico
effettuato, senza osservare le prescrizioni del provvedimento di autorizzazione in quanto eccedente i limiti
tabellari), sicché costoro avevano acquisito il diritto alla applicazione della norma di cui all’art. 22 legge n. 319
del 1976, come modificata dall’art. 4 del detto decreto legge, sebbene il medesimo fatto fosse stato considerato illecito penale con decreto legge n. 537 del 1994 e altri successivi). Cass. 27 febbraio 1995, n. 3489.
Una volta decaduto il decreto-legge contemplante un’ipotesi di reato, la condotta illecita posta in
essere nel periodo di sua efficacia non costituisce titolo per la condanna, a nulla rilevando la reintroduzione, in successivo decreto-legge, della norma che prevede efficacia ex tunc a norma dell’art. 77 della
Costituzione né il secondo può avere efficacia retroattiva, stante il divieto posto dall’art. 25 Cost. (Fattispecie relativa al reato p. e p. dall’art. 7bis della legge 39 del 1990, introdotta dal D.L. n. 107 del 1993, non
convertito, e reintrodotta dal D.L. n. 187 del 1993, convertito nella legge n. 296 del 1993). Cass. 30 novembre 1993, n. 5209.
Il sequestro di beni (nella specie titoli C.C.T.), disposto in base all’art. 1 del D.L. 20 novembre 1992, n.
450, non convertito in legge, si è risolto di diritto allo scadere del sessantesimo giorno dalla pubblicazione del decreto, per l’effetto caducatorio ex tunc determinato dalla mancata conversione (art. 77, comma
terzo, prima parte, della Cost.). I successivi reiterati decreti-legge (nn. 14/93, 73/93, 153/93 e 244/93,
anche essi tutti decaduti per mancata conversione), aventi tutti lo stesso contenuto di quello summenzionato, non possono avere alcuna efficacia per il mantenimento di un sequestro ormai «dissolto», producendo essi effetti soltanto per il futuro e potendo solo legittimare l’adozione di altri provvedimenti di
sequestro. (Nella specie la Corte di cassazione ha annullato senza rinvio l’ordinanza del G.I.P. impositiva
del sequestro e l’ordinanza del tribunale che aveva respinto l’istanza di dissequestro, rilevando che il
decreto-legge era stato tempestivamente e ripetutamente reiterato dal Governo, con successivi decretilegge emessi senza soluzione di continuità, e ritenendo preclusa all’autorità giudiziaria la disapplicazione
di tale produzione normativa). Cass. 25 ottobre 1993, n. 3006.
La circostanza che, decaduto un decreto-legge, ne venga emanato uno di contenuto analogo (ma
non identico), successivamente convertito in legge, non vale a far rivivere il testo normativo decaduto,
con la conseguenza che i comportamenti illeciti tenuti durante le vigenza provvisoria del decreto decaduto non sono punibili, in quanto, a norma dell’art. 77 Cost., la mancata conversione comporta la perdita di
efficacia ex tunc del decreto-legge. (Applicazione del principio con riferimento al reato previsto dall’art.
7bis del D.L. 13 aprile 1993, n. 107). Cass. 5 ottobre 1993, n. 3884.
La mancata conversione di un decreto legge contenente una norma incriminatrice comporta, in
applicazione del principio di cui all’art. 77, comma terzo, Cost., la perdita di efficacia, fin dall’inizio, di
detta norma, per cui il fatto in essa previsto non può più essere considerato come reato, quando sia stato
commesso nel periodo di vigenza del medesimo decreto legge, nulla rilevando che quest’ultimo sia
stato, alla scadenza, sostituito da altro decreto legge, poi convertito, contenente analoga disposizione.
(Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto non più applicabile l’art. 8 del D.L. 13
aprile 1993, n. 107, non convertito nei termini, con il quale era stato introdotto l’art. 7bis del D.L. 30
dicembre 1988, n. 416, conv. con modif. in legge 28 febbraio 1990, n. 39, in materia di ingresso e soggiorno nel territorio nazionale di cittadini extracomunitari). Cass. 4 ottobre 1993, n. 3869.
Qualora un decreto-legge che abbia introdotto una nuova e più grave normativa in tema penale sia
convertito in legge con emendamenti di natura meramente modificativa, non incidenti sull’oggetto e la
ratio delle originarie disposizioni sottoposte a convalida parlamentare, rimangono applicabili, anche per
il tempo intermedio fra decreto e legge le disposizioni definitivamente fissate in sede di conversione.
Cass. 11 aprile 1987, n. 9501.
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
2
Il decreto legge convertito con emendamenti non perde efficacia ex tunc in ogni caso in cui la legge
di conversione non rappresenti una completa, totale, ricezione e riproduzione testuale delle norme emanate con la decretazione di urgenza. Al riguardo occorre una diversificazione che trae origine e giustificazione nel contenuto degli emendamenti, da individuare caso per caso: questi possono essere distinti in
sostitutivi (o innovativi), soppressivi e modificativi. L’emendamento soppressivo e quello sostitutivo, in
quanto totalmente incidenti sulla decretazione di urgenza, che viene annullata e ristrutturata ex novo,
determinano chiaramente l’inefficacia ex tunc. L’emendamento soltanto modificativo, consistendo in un
semplice ritocco della norma emanata d’urgenza, la quale conserva il suo fondamentale precetto, cioè il
suo schema e la sua ratio che vengono recepiti e convalidati, non può dirsi sostanzialmente incidente
sulla oggettiva validità del decreto che deve essere considerato convertito sul punto, anche se inserito,
con il ritocco, in un più organico contesto. Ne discende che la materia già regolata dalla vecchia legge,
modificata con la decretazione di urgenza, è disciplinata, anche nel tempo intermedio fra decreto e legge
di conversione, dalle disposizioni definitivamente fissate da quest’ultima, non potendo riconoscersi all’emendamento modificativo l’effetto di far rivivere, sia pure in minima parte, la normativa preesistente.
(Nella fattispecie è stato ritenuto che la legge 18 maggio 1978, n. 191 nel convertire il D.L. 21 marzo 1978,
n. 59 e nel fissare da un minimo di anni 25 a un massimo di anni 30 la pena per il sequestro di persona a
scopo di estorsione, al posto di quella unica di anni 30 prevista dal decreto legge convertito, aveva
apportato un emendamento modificativo e che pertanto il trattamento sanzionatorio applicabile nel periodo di tempo intercorrente fra l’emanazione del decreto legge e l’entrata in vigore della legge di conversione era quello previsto da quest’ultima e non quello di cui alla legge 14 ottobre 1974, n. 497 vigente
prima dell’emanazione del citato decreto-legge). Cass. 13 novembre 1984, n. 1681.
9. Pronunce costituzionali in malam partem e principio di irretroattività.
Nel mentre alla Corte costituzionale è precluso adottare pronunce “in malam partem” in materia
penale stante il principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, comma 2, cost., il quale, stabilendo
che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto
commesso”, rimette al solo legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, restando escluso che la Corte costituzionale possa creare nuove fattispecie criminose o estendere
quelle esistenti a casi non previsti, ovvero incidere “in peius” sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità, il principio di legalità non preclude lo scrutinio di costituzionalità,
anche “in malam partem”, delle c.d. norme penali di favore, e cioè delle norme che stabiliscano, per
determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni, per l’ineludibile esigenza di evitare la creazione di “zone franche” dell’ordinamento, sottratte al controllo di costituzionalità, con la precisazione che occorre distinguere fra le previsioni normative che “delimitano” l’area di intervento di una norma incriminatrice, concorrendo alla definizione della fattispecie di reato, e quelle che invece “sottraggono” una certa classe di soggetti
o di condotte all’ambito di applicazione di altra norma, maggiormente comprensiva, poiché solo a queste
ultime si attaglia - ove l’anzidetta sottrazione si risolva nella configurazione di un trattamento privilegiato
- la qualificazione di norme penali di favore. In tali casi l’effetto “in malam partem non discende dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte costituzionale, la quale si limita a rimuovere la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali, ma rappresenta una conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo
stesso legislatore, al caso già oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria. Il sindacato di
costituzionalità sulle norme penali di favore è, inoltre, ammissibile anche sotto il profilo processuale,
poiché le pronunce concernenti la legittimità di tali norme possono influire sull’esercizio della funzione
giurisdizionale, sia incidendo sulle formule di proscioglimento, o, quanto meno, sui dispositivi delle sentenze, sia perché anche le norme penali di favore fanno parte del sistema e lo stabilire in quale modo il
sistema potrebbe reagire al loro annullamento è problema che i singoli giudici devono affrontare caso
per caso, sia perché non può escludersi che il giudizio della Corte si concluda con una sentenza interpretativa di rigetto (nei sensi indicati in motivazione) o con una pronuncia correttiva delle premesse esegetiche su cui si fonda l’ordinanza di rimessione. Corte cost., 23 novembre 2006, n. 394.
10. La nozione di effetti penali.
Gli effetti penali della condanna (dei quali le pene accessorie costituiscono una species) vanno individuati in tutte quelle conseguenze giuridiche di carattere afflittivo che conseguono alla condanna penale. Tali conseguenze, peraltro, non possono individuarsi esclusivamente in quelle che derivano ope iuris
dalla sentenza affermativa della responsabilità, rientrando, invece, tra esse anche ogni altra sanzione o
privazione di benefici che possa prodursi in modo non automatico, ma che trovi nella sentenza di condanna il suo necessario ed indefettibile presupposto. Cass. 30 novembre 2001, n. 2081.
Gli effetti penali della condanna, dei quali il codice penale non fornisce la nozione né indica il criterio
generale che valga a distinguerli dai diversi effetti di natura non penale che pure sono in rapporto di
effetto a causa con la pronuncia di condanna, si caratterizzano per essere conseguenza soltanto di una
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2
LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
sentenza irrevocabile di condanna e non pure di altri provvedimenti che possono determinare quell’effetto; per essere conseguenza che deriva direttamente, ope legis, dalla sentenza di condanna e non da
provvedimenti discrezionali della pubblica amministrazione, ancorché aventi la condanna come necessario presupposto; per la natura sanzionatoria dell’effetto, ancorché incidente in ambito diverso da quello
del diritto penale sostantivo o processuale. Cass., Sez. Un., 20 aprile 1994, n. 7.
Non è applicabile in Cassazione la legge penale più favorevole, conseguente alla riduzione dei
minimi edittali della pena della reclusione prevista per il reato di cui all’art. 73, comma 1, D.P.R. 9
ottobre 1990, n. 309 (si veda il D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, conv., con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, con cui si è fissato in sei anni, al posto dell’originaria misura di otto anni, il limite minimo
della pena detentiva), allorquando (come nella specie) la pena per il reato di cui al citato art. 73 sia stata
applicata solo a titolo di continuazione come aumento della pena prevista per il reato più grave (nella
specie, quello di cui all’art. 74 D.P.R. 309/1990). Ciò in quanto nel reato continuato, ai fini del computo
della pena, non assume concreta rilevanza la pena stabilita per i reati satelliti, essendo l’aumento di pena
per tali reati determinato solo in relazione alla pena del reato più grave e sulla base di una valutazione di
equità che tiene conto della gravità del reato secondo i parametri di cui all’art. 133 c.p. e che non necessita di apposita motivazione. Cass. 21 aprile 2006, n. 22824.
11. Rapporti con la depenalizzazione delle fattispecie.
La disciplina relativa alla successione delle leggi penali (art. 2 c.p.) si applica qualora la disposizione richiamata da una «norma penale in bianco» sia modificata o abrogata, ovvero nell’ipotesi in cui
venga modificata una norma «definitoria» - ossia una disposizione attraverso la quale il legislatore chiarisce il significato di termini usati in una o più disposizioni incriminatrici, concorrendo a individuare il
contenuto del precetto penale - oppure, infine, nel caso in cui una disposizione legislativa commini una
sanzione penale per la violazione di un precetto contenuto in un’altra disposizione legislativa, che
venga abrogata in tutto o in parte. (Fattispecie in cui la Corte ha confermato l’affermazione di penale
responsabilità di un sindaco in ordine al delitto di cui all’art. 323 e ha escluso l’applicabilità dell’art. 2 c.p.
alla luce dell’abrogazione, ad opera dell’art. 136 del D.P.R. n. 380 del 2001, dell’art. 7 della legge n. 47 del
1985 e della previsione, contenuta nell’art. 31 del citato D.P.R. 380/2001, secondo la quale il soggetto
titolare del potere-dovere di provvedere in merito alle ingiunzioni di demolizione, rimozione, ripristino
non è il sindaco, ma il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale). Cass. 2 dicembre
2003, n. 4296.
In tema di tutela penale del diritto di proprietà industriale, deve escludersi che vi sia stata depenalizzazione del reato previsto dall’art. 88 del R.D. 29 giugno 1939, n. 1127 ad opera dell’art. 20 della Legge
21 febbraio 1989, n. 70. Ne consegue che sussiste continuità normativa tra la fattispecie penale prima
prevista dall’art. 88 del R.D. n. 1127 del 1939 e la nuova fattispecie penale di cui all’art. 127 del D.Lgs. 10
febbraio 2005, n. 30, in quanto entrambe descrivono la condotta penalmente punibile in termini sostanzialmente identici, avendo di mira la produzione ed il commercio “in frode” o “in violazione” del titolo di
proprietà industriale. (Fattispecie relativa alla produzione e vendita abusiva del “sildenafil citrato”, principio attivo del farmaco afrodisiaco brevettato, denominato “Viagra”). Cass. 10 ottobre 2007, n. 46859.
In forza del principio di specialità stabilito dall’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ai fatti
previsti e sanzionati penalmente dall’art. 171-octies della legge 22 aprile 1941, n. 633 (come introdotto
dall’art. 17 della legge 18 agosto 2000, n. 248), in tema di protezione del diritto di autore e di altri diritti
connessi al suo esercizio, si applicano le sole sanzioni amministrative di cui all’art. 6 D.Lgs. 15 novembre
2000, n. 373 (di attuazione della direttiva CEE 98/84), sempre che le condotte tipiche contemplate dal
predetto art. 171-octies risultino sovrapponibili o sostanzialmente assimilabili per la coincidenza dell’elemento oggettivo e stante la maggiore ampiezza di quello soggettivo previsto dalle fattispecie di cui al
citato decreto legislativo rispetto a quello disciplinato dalla legge n. 633 del 1941 a quelle indicate nell’art.
4 dello stesso decreto. Cass., Sez. Un., 18 dicembre 2002, n. 8545.
L’assunzione di lavoratori extracomunitari privi di autorizzazione al lavoro non è più prevista dalla
legge come reato dopo l’abrogazione espressa dell’art. 12, comma 2, L. 30 dicembre 1986, n. 943, disposta dall’art. 46 comma 1, lett. c), L. 6 marzo 1998, n. 40 (riprodotta dall’art. 47, comma 2, lett. c), D.Lgs. 25
luglio, n. 286) e l’introduzione della nuova ipotesi di reato di assunzione di lavoratori extracomunitari privi
di permesso di soggiorno ad opera dell’art. 22, comma 10, del citato D.Lgs., giacché si è in presenza di
una “abrogatio criminis” per la mancanza di continuità del tipo di illecito e per il mutamento del bene
giuridico oggetto di tutela. Cass., Sez. Un., 9 maggio 2001, n. 33539.
In tema di oltraggio, l’abrogazione degli art. 341 e 344 c.p., disposta dall’art. 18 L. 25 giugno 1999, n. 205,
integra un’ipotesi di “abolitio criminis” disciplinata dall’art. 2 comma 2 c.p., con la conseguenza che, se vi è stata
condanna, ne cessano esecuzione ed effetti penali e la relativa sentenza deve essere revocata, ai sensi dell’art.
673 c.p.p., dal giudice dell’esecuzione, al quale non è consentito modificare l’originaria qualificazione o accertare
il fatto in modo difforme da quello ritenuto in sentenza, riqualificando come ingiuria aggravata dalla qualità del
soggetto passivo (art. 594 e 61, n. 10 c.p.) la condotta contestata come oltraggio e rideterminando, in relazione
alla nuova fattispecie penale, la pena già irrogata. Cass., Sez. Un., 27 giugno 2001, n. 29023.
– 80 –
TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
2
Il principio del “favor rei” stabilito dall’art. 2 c.p. non comporta che, in caso di depenalizzazione con
trasformazione del reato in illecito amministrativo e conseguente previsione di trasmissione degli atti
all’autorità amministrativa, allorché la causa estintiva della prescrizione sia maturata dopo la depenalizzazione del fatto debba procedersi alla dichiarazione di estinzione del reato per decorso del tempo. Cass. 26
ottobre 2000, n. 3952.
Il giudice è tenuto a dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato in caso di abolitio
criminis anche quando sussista una causa estintiva del reato stesso. Qualora, invece, la legge abolitrice
trasformi il reato in illecito amministrativo, il giudice deve dichiarare l’estinzione del reato se la relativa
causa sia precedente all’entrata in vigore della legge di depenalizzazione. (Fattispecie in tema di reato
di ubriachezza, depenalizzato e punito con sanzione amministrativa dall’art. 54 del D.Lgs. 30 dicembre
1999). Cass. 29 novembre 2000, n. 11405.
Allorché un fatto, già sanzionato amministrativamente, non abbia perduto il carattere di illiceità, ma
lo abbia visto aggravarsi, assurgendo al rango di illecito penale, mentre non può tenersi conto del più
grave regime sanzionatorio (penale) introdotto successivamente alla sua realizzazione, va applicata a
tale violazione la sanzione amministrativa. Infatti vige in tale materia, il principio tempus regit factum, in
virtù del quale è del tutto irrilevante che norme successivamente entrate in vigore abbiano eliminato o
modificato tali sanzioni. (Fattispecie in tema di detenzione per la vendita di carni bovine trattate in modo
da variarne la composizione naturale, già sanzionata amministrativamente ex art. 3 D.Lgs. 118 del 1992,
ed ora illecito penale ex art. 32 D.Lgs. 336 del 1999). Cass. 19 aprile 2000, n. 6490.
Nel caso di trasformazione del fatto-reato in illecito amministrativo, il giudice, qualora successivamente all’abolitio criminis è intervenuta una causa di estinzione del reato medesimo, è tenuto a dichiarare
che il fatto non è previsto dalla legge come reato, con conseguente trasmissione degli atti all’autorità
amministrativa competente. (Fattispecie di possesso di licenza di porto d’armi per l’uso di caccia ed
omesso pagamento della tassa annuale di concessione governativa, ritenuta in precedenza configurare
l’ipotesi contravvenzionale ex art. 699 c.p., e punita ora con la sola sanzione amministrativa dall’art. 6
della legge 21 febbraio 1990, n. 36). Cass. 15 giugno 1990, n. 12659.
L’art. 68 comma 4 cod. strada previgente, presuppone la violazione del monopolio dello Stato e non
riguarda la condotta di chi, per ovviare alla mancanza di targa, circoli con una targa “palesemente fittizia”
perché composta con cartone e pennarello o con lettere e numeri autoadesivi. L’uso di tale targa, non
realizzata in violazione del monopolio statale, è penalmente irrilevante, costituendo un mero espediente
per tentare di sfuggire alla sanzione prevista per l’unica condotta illecita riscontrabile nella specie: la
circolazione senza targa, di cui all’art. 66, comma 3 (trattandosi di targa ripetitrice) e 8, D.P.R. n. 393/59.
Tale condotta, peraltro, integra ora, ai sensi degli art. 100 comma 4 e 11 del nuovo codice stradale, un
semplice illecito amministrativo. Ne consegue che nei procedimenti in corso per i reati di cui all’art. 66 del
previgente codice deve trovare applicazione il comma 2 dell’art. 2 c.p. Cass. 15 febbraio 1996, n. 4815.
Allorché un fatto preveduto dalla legge come reato sia successivamente depenalizzato da altra
disposizione di legge, cessano tutti gli effetti penali della eventuale condanna: essa quindi, anche se
iscritta al certificato penale, non può essere presa in considerazione ai fini della concessione del beneficio
della sospensione condizionale della pena. Cass. 18 aprile 1985, n. 6185.
Nel caso di trasformazione del reato in illecito amministrativo per effetto della depenalizzazione,
l’accertamento dell’abolitio criminis con la dichiarazione che il fatto non è preveduto come reato e la
conseguente trasmissione degli atti all’autorità competente non può avvenire se è già intervenuta l’estinzione del reato. (Fattispecie di abolitio criminis di fatto-reato estinto per precedente intervenuta amnistia). Cass. 17 gennaio 1985, n. 2130.
La legge 24 novembre 1981, n. 689, non si è limitata a prevedere una mera “abolitio criminis”
rispetto ai reati punibili con la pena della multa o dell’ammenda, ma ha trasformato gli anzidetti reati
in illeciti amministrativi, soggetti alla sanzione del pagamento di una somma di danaro, come si desume, con sufficiente chiarezza, dall’art. 41 della stessa legge, secondo cui l’autorità giudiziaria, se non deve
pronunciare decreto di archiviazione o sentenza di proscioglimento, dispone la trasmissione degli atti
all’autorità competente. Ne deriva che, allorquando ricorrano le condizioni per la pronuncia del decreto di
archiviazione o della sentenza di proscioglimento, comprensiva, quest’ultima, di qualsiasi causa di improcedibilità e quindi anche della intervenuta estinzione del reato, non è operativo il meccanismo indicato nel citato art. 41 della legge n. 689 del 1981 e consistente nella declaratoria della “abolitio criminis” con
trasmissione degli atti all’autorità competente per la irrogazione delle sanzioni amministrative. Cass.,
Sez. Un., 22 gennaio 1983, n. 3802.
In tema di responsabilità disciplinare dei magistrati, le sanzioni disciplinari, sebbene applicate da un
organo titolare di poteri giurisdizionali, costituiscono pur sempre sanzioni amministrative, alle quali non
sono automaticamente riferibili i principi propri delle sanzioni penali, e che restano quindi sottoposte, in
via generale, al principio di legalità ed irretroattività, il quale comporta l’assoggettamento della condotta
alla legge in vigore al tempo del suo verificarsi, con la conseguenza che, in mancanza di un’espressa
previsione, non può trovare applicazione il principio di retroattività della legge successiva più favorevole.
Tale principio, in particolare, non è invocabile, in riferimento al nuovo regime della responsabilità discipli-
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2
LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
nare introdotto dal D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, in virtù della disciplina transitoria di cui all’art. 32-bis,
inserito dall’art. 1, comma 3, lett. q), L. 24 ottobre 2006, n. 269, il quale, nel far salvo il principio che la
nuova normativa si applica solo ai procedimenti disciplinari promossi a decorrere dalla sua entrata in
vigore, si limita a stabilire che per i procedimenti promossi successivamente, ma aventi ad oggetto fatti
commessi in epoca anteriore, continua ad applicarsi la normativa precedente, solo se più favorevole. Le
sanzioni disciplinari a carico di magistrato costituiscono sanzioni amministrative, alle quali non sono
automaticamente riferibili i principi propri delle sanzioni penali, restando invece soggette, in via generale,
al principio di legalità e di irretroattività, che comporta l’assoggettamento della condotta considerata alla
legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina successiva più favorevole. Cass. civ., Sez. Un., 20 dicembre 2006, n. 27172.
12. I reati permanenti.
12.1. Ratio.
Nel reato permanente la consumazione si protrae per un tratto di tempo per volontà cosciente dell’agente sicché più che di un momento può parlarsi di un periodo consumativo. Ne consegue che, in caso
di successione di leggi penali più severe, qualora la permanenza continui sotto l’impero della nuova
legge, è questa soltanto che deve trovare applicazione, in quanto sotto il suo vigore è commesso il
reato con la realizzazione di tutti gli elementi costitutivi. Cass. 11 aprile 1987, n. 9501.
12.2. Inosservanza dell’ordine di allontanamento dal territorio nazionale.
Nella condotta del reato di ingiustificata inosservanza dell’ordine di allontanamento del questore
dal territorio dello Stato cominciata prima, e protrattasi dopo, la modifica di cui alla legge n. 271 del
2004 - che ha trasformato il citato reato da contravvenzione in delitto inasprendo la pena - è configurabile
l’ipotesi contravvenzionale, allorché il provvedimento del questore non contenga l’indicazione delle conseguenze penali della trasgressione, che costituisce requisito sostanziale del provvedimento medesimo.
Cass. 1 aprile 2008, n. 13659.
Il reato di violazione dell’ordine di allontanamento dal territorio nazionale emesso dal Questore,
iniziato sotto la vigenza della L. n. 189 del 2002, che lo sanzionava a titolo di contravvenzione, si pone in
rapporto di continuità con la protrazione della condotta dopo l’entrata in vigore della L. n. 271 del 2004,
che lo configura come delitto, ma qualora l’ordine contenga solo la previsione delle conseguenze penali
relative alla contravvenzione, trattandosi di presupposto della fattispecie incriminatrice, l’imputato potrà
essere giudicato solo per la parte di condotta rientrante nella fattispecie configurata come contravvenzione. Cass. 23 maggio 2006, n. 18012.
La modifica introdotta dalla legge 12 novembre 2004, n. 271 alla fattispecie di reato prevista dall’art. 14, commi 5-ter e 5-quinquies, D.Lgs. 286 del 1998, consistente nella trasformazione dello stesso
da contravvenzione a delitto, ha determinato da un lato un forte inasprimento sanzionatorio e dall’altro
una parziale «abolitio criminis», essendo ora la fattispecie punibile solo se commessa con dolo. Per effetto di tale modifica si è verificata una successione di norme penali che si pongono in rapporto di continuità
e, poiché il reato di inottemperanza all’ordine di allontanamento emesso dal Questore è reato permanente, è conforme a legge una sentenza di condanna che abbia applicato la pena più severa sopravvenuta,
qualora la condotta, iniziata sotto la vigenza della norma più favorevole, sia proseguita sotto quella meno
favorevole. Cass. 1 febbraio 2006, n. 39991.
12.3. Casistica.
In tema di divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, la condotta consistente nell’esecuzione di mere prestazioni di manodopera integra il reato prima previsto dagli artt. 1 e 2 L.
23 ottobre 1960, n. 1369 (oggi sostituito dagli artt. 4 e 18 D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276), atteso che tra
le due fattispecie è ravvisabile un’ipotesi di “continuità normativa”. Cass. 18 aprile 2007, n. 21789.
La sopravvenuta depenalizzazione dei reati-fine di un’associazione per delinquere fa venire meno «ex
tunc» la rilevanza penale dello stesso fatto associativo, perché, ferma restando l’autonomia del reato di
associazione, è necessario che il relativo programma abbia carattere criminale. (Nella fattispecie la Corte
ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna per il reato di associazione finalizzata esclusivamente
alla sofisticazione vinicola, per l’intervento «medio tempore» del D.Lgs. n. 507 del 1999 di depenalizzazione delle ipotesi criminose costitutive del programma associativo). Cass. 9 marzo 2005, n. 13382.
L’applicabilità dell’art. 416 bis c.p. si estende anche a condotte che, obiettivamente inquadrabili nelle
previsioni di detta norma, siano state poste in essere prima della sua entrata in vigore e proseguite in
epoca successiva, senza che ciò comporti violazione dell’art. 2 c.p., non verificandosi in tal caso il fenomeno della retroattività ma solo quello della naturale operatività della nuova specificante qualificazione di
una medesima condotta la quale, altrimenti, per la parte pregressa, rimarrebbe autonomamente sanzionabile, con svantaggio per l’imputato, in base alla più generica norma incriminatrice preesistente, costituita dall’art. 416 c.p. Cass. 30 gennaio 1992, n. 6992.
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
2
13. Reati a consumazione prolungata.
Il reato di truffa in danno degli enti previdenziali per ricezione di indebite prestazioni di emolumenti e previdenze maturate periodicamente non è un reato permanente né un reato istantaneo ad effetti
permanenti, bensì un reato a consumazione prolungata, giacché il soggetto agente sin dall’inizio ha la
volontà di realizzare un evento destinato a protrarsi nel tempo. (Con riferimento alla prescrizione la Corte
ha precisato che il momento consumativo, e il “dies a quo” del termine, coincidono con la cessazione dei
pagamenti, perdurando il reato - ed il danno addirittura incrementandosi - fino a quando non vengano
interrotte le riscossioni). Cass. 3 marzo 2005, n. 11026.
Poichè, a seguito delle modifiche introdotte dalla L. 7 marzo 1996, n. 108, si deve ritenere che il reato di
usura sia annoverabile tra i delitti a “condotta frazionata” o a “consumazione prolungata”, concorre nel
reato previsto dall’art. 644 c.p. solo colui il quale, ricevuto l’incarico di recuperare il credito usurario, sia
riuscito a ottenerne il pagamento; negli altri casi, l’incaricato risponde del reato di favoreggiamento personale o, nell’ipotesi di violenza o minaccia nei confronti del debitore, di estorsione, posto che il momento
consumativo del reato di usura rimane quello originario della pattuizione. Cass. 13 ottobre 2005, n. 41045.
14. Continuazione.
La disciplina della continuazione attiene a un istituto di diritto sostanziale e, come tale, soggiace, in
caso di sopravvenienza di disposizioni diverse, alle regole di cui all’art. 2 c.p. e non a quelle del diritto
processuale, espresse nella formula “tempus regit actum”, a nulla rilevando che la sua applicazione avvenga in sede esecutiva. Ne consegue che, una volta ritenuta l’unicità del disegno criminoso tra fatti commessi
tutti in data anteriore all’entrata in vigore dell’art. 5 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (modifiche al c.p. in
materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione, di usura e recidiva), secondo il
quale l’aumento della quantità di pena per i reati satelliti in caso di più violazioni commesse da soggetti ai
quali sia stata applicata la recidiva reiterata non può essere comunque inferiore a un terzo della pena
stabilita per il reato più grave, il giudice dell’esecuzione deve applicare la più favorevole disciplina previgente che non fissa alcun limite minimo di aumento della pena per le violazioni meno gravi. (Nella specie, il
giudice di merito aveva applicato la più severa normativa sopravvenuta, pervenendo a una pena finale
coincidente con il cumulo materiale delle pene inflitte per i vari reati in continuazione, in quanto il criterio di
calcolo fissato dal citato art. 5 avrebbe condotto a una pena complessivamente superiore e quindi irrogata
in violazione dell’art. 671, comma secondo, c.p.p.). Cass. 19 dicembre 2007, n. 2095.
15. Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi.
Poiché le sanzioni sostitutive di pene detentive brevi previste dall’art. 53 legge 24 novembre 1981,
n. 689 hanno natura di vere e proprie pene, le norme che le disciplinano hanno natura sostanziale e, in
caso di successione di leggi nel tempo, sono soggette alla disciplina di cui all’art. 2, comma terzo, c.p. Ne
consegue che la legge sopravvenuta più favorevole (nel caso di specie, legge 12 giugno 2003, n. 134) non
può essere applicata dal giudice dell’esecuzione, non potendo estendersi analogicamente il potere riconosciuto al giudice dell’esecuzione dall’art. 671 c.p.p. ai casi previsti dall’art. 673 c.p.p. Cass. 25 maggio
2005, n. 24652.
Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, previste dall’art. 53 L. 24 novembre 1981, n. 689,
per il loro carattere afflittivo, per la loro convertibilità, in caso di revoca, nella per sostituita residua, per lo
stretto collegamento esistente con la fattispecie penale cui conseguono, hanno natura di vere e proprie
pene e non di semplici modalità esecutive della pena detentiva sostituita: le disposizioni che le contemplano, pertanto, hanno natura sostanziale e sono soggette, in caso di successioni di leggi nel tempo,
alla disciplina di cui all’art. 2 comma 3 c.p., che prescrive l’applicazione della norma più favorevole per
l’imputato. Ne consegue che il principio del “favor rei” trova attuazione, per i fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge, anche con riferimento ai nuovi criteri di ragguaglio fra pena pecuniaria
e pena detentiva introdotti dalla L. 5 ottobre 1993, n. 402, di modifica dell’art. 135 c.p., in base ai quali si
effettua, in virtù del richiamo a quest’ultima disposizione operato dal suddetto art. 53 L. n. 689 del 1981,
il calcolo della sanzione sostitutiva. Cass., Sez. Un., 25 ottobre 1995, n. 11397.
16. L’esecuzione della pena.
Le precedenti condanne relative a fatti non costituenti più reato per abolitio criminis (nella specie
emissione di assegni a vuoto) non sono preclusive della concessione del beneficio della sospensione
condizionale della pena. Cass. 27 novembre 2007, n. 18.
Nel caso di partecipazione del paese di appartenenza dell’autore del fatto alla UE, successiva alla
violazione della norma incriminatrice, si tratta di vicenda successoria di norme extrapenali che non integrano la fattispecie incriminatrice e tantomeno implicano una modifica della disposizione sanzionatoria
penale, bensì determinano esclusivamente una variazione della rilevanza penale del fatto con decorrenza
dall’emanazione del successivo provvedimento normativo di adesione del nuovo paese al UE, limitatamente ai casi che possono rientrare nel nuovo provvedimento, senza far venir meno il disvalore penale
del fatto anteriormente commesso. Non si tratta di un’ipotesi di abolitio criminis poiché la fattispecie non
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2
LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
ha subito modificazioni in conseguenza di una successione di leggi penali che non vi è mai stata. Cass. 11
gennaio 2007, n. 1815.
Le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e pertanto (in assenza di una specifica
disciplina transitoria), soggiacciono al principio “tempus regit actum”, e non alle regole dettate in materia
di successione di norme penali nel tempo dall’art. 2 c.p., e dall’art. 25 cost. (In applicazione di tale principio, le sezioni unite hanno ritenuto che, in un caso in cui vi era stata condanna per il delitto di violenza
sessuale, la sopravvenuta inclusione di tale delitto, per effetto dell’art. 15 L. 6 febbraio 2006, n. 38, tra
quelli previsti dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario in quanto tali, e non più soltanto come reatifine di un’associazione per delinquere, comportasse l’operatività, altrimenti esclusa, del divieto della sospensione dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 656 comma 9 lett. a) c.p.p., non essendo ancora esaurito il
relativo procedimento esecutivo al momento dell’entrata in vigore della novella legislativa). Cass., Sez.
Un., 30 maggio 2006, n. 24561.
Poiché le norme afferenti l’esecuzione della pena e le misure ad esse alternative non hanno natura
sostanziale, le stesse sono soggette al principio del “tempus regit actum” e, pertanto, in mancanza di una
disciplina transitoria, sono immediatamente applicabili le disposizioni contenute nella legge n. 251 del
2005. Cass. 13 luglio 2007, n. 31436.
Il divieto di sospensione dell’esecuzione delle pene detentive brevi, stabilito dall’art. 656, comma
nono, lett. c), c.p.p. (nel testo innovato dall’art. 9 della L. 5 dicembre 2005, n. 251), non ha natura di norma
penale sostanziale e non è, pertanto, soggetto, in assenza di disposizioni transitorie o intertemporali, alla
disciplina dettata dall’art. 2 c.p., ma soggiace alla regola del «tempus regit actum». (Nella specie, in
applicazione di tale principio, la Corte, rilevato altresì che la recidiva risultava concretamente «applicata»,
essendovi stato giudizio di equivalenza con le attenuanti generiche, ha ritenuto che correttamente fosse
stata negata la sospensione dell’esecuzione). Cass. 14 luglio 2006, n. 29508.
In tema di applicabilità dei benefici penitenziari in favore dei collaboratori di giustizia, l’art. 16nonies Legge n. 45 del 2001 trova applicazione anche nei confronti dei soggetti la cui collaborazione
abbia avuto inizio sotto la vigenza della più favorevole normativa dettata dall’abrogato art. 13ter D.L. n.
8 del 1991, non vertendosi in materia di leggi penali sostanziali e non trovando, quindi, applicazione il
principio di irretroattività stabilito, per quelle sfavorevoli, dall’art. 2 c.p. Cass. 12 luglio 2005, n. 34283.
In virtù del principio tempus regit actum, la normativa dettata dalla legge 27 maggio 1998, n. 165 in
tema di sospensione dell’esecuzione della pena ha efficacia operativa immediata e si applica, quindi,
anche all’esecuzione di tutti gli ordini di carcerazione, compresi quelli che siano stati formati prima della
sua entrata in vigore, ma non abbiano avuto esecuzione durante la vigenza della precedente disciplina
dell’art. 656 c.p.p. e invero le norme che regolano l’esecuzione della pena e le misure ad essa alternative
non hanno contenuto di diritto penale sostanziale e, come tali, non sono soggette al principio, di rango
costituzionale, sancito dall’art. 2 c.p., che fa divieto alla legge posteriore di operare con efficacia retroattiva. (Sulla base di tale premessa, la S.C. ha anche ritenuto manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 656 c.p.p., come novellato dalla legge n. 165 del 1998, dedotta per
preteso contrasto con gli artt. 3, 24 e 25 Cost.). Cass. 11 febbraio 2000, n. 999.
Le norme che attengono alla esecuzione della pena e alle misure a questa alternative, comprese le
condizioni per la loro applicazione, non sono annoverabili tra quelle penali sostanziali per le quali sole
vale il principio di irretroattività della legge più sfavorevole. (La Corte ha precisato, in merito alle condizioni di applicabilità dell’art. 4bis Ordinamento Penitenziario, che la sentenza, n. 504 del 1995 della Corte
Costituzionale non ha messo in discussione - per l’ipotesi in cui la misura alternativa o premiale non sia in
corso di fruizione - il principio di cui alla massima, riferibile, nella fattispecie, all’eccepita inapplicabilità
dell’art. 15 D.L. 8 giugno 1992, n. 306 convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356 per essere la condanna
divenuta definitiva prima della sua entrata in vigore). Cass. 14 gennaio 1997, n. 172.
Le misure alternative alla detenzione, eccezion fatta per la liberazione anticipata, possono essere
concesse ai condannati per delitti indicati nell’art. 4bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 solo se risulti
prestata attività di collaborazione ex art. 58ter della stessa legge. Ciò vale anche se la condanna è intervenuta prima dell’entrata in vigore di tali restrizioni, introdotte con il D.L. n. 306 del 1992, convertito nella
legge n. 356 del 1992, non operando in materia il principio dell’irretroattività della legge penale più sfavorevole, riferibile solo a leggi penali sostanziali, tra le quali non sono annoverabili le norme che attengono
all’esecuzione della pena e alle misure a questa alternative, comprese le condizioni per la loro applicazione. Cass. 20 settembre 1995, n. 4421.
L’art. 58-quater dell’ordinamento penitenziario, che prevede, tra l’altro, il divieto di concessione di
benefici nei confronti di condannati per determinati delitti quando costoro abbiano posto in essere una
condotta punibile ai sensi dell’art. 385 c.p. (evasione), non è qualificabile come norma che preveda effetti
penali della condanna per il reato di evasione, disciplinando esso soltanto il rapporto esecutivo ed applicandosi, perciò, a tutte le esecuzioni in corso. Non costituisce, pertanto, applicazione retroattiva di norma
penale più sfavorevole, vietata dall’art. 2, comma terzo, c.p., quella che si sostanzi nel diniego dei suddet-
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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ti benefici per il più lungo termine di cinque anni, previsto dall’attuale ultimo comma del citato art. 58quater, introdotto dall’art. 14 del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, conv., con modificazioni, in legge 7 agosto 1992,
n. 356, nei confronti di soggetto che abbia posto in essere la condotta prevista dalla norma in epoca
antecedente all’entrata in vigore del suddetto decreto-legge. Cass. 5 luglio 1994, n. 3308.
In tema di benefici penitenziari, a seguito dell’abrogazione dell’art. 13ter della legge 15 marzo 1991,
n. 82 da parte dell’art. 7 della legge 13 febbraio 2001, n. 42, trova applicazione, anche nei confronti dei
collaboratori di giustizia sottoposti a speciale trattamento di protezione durante la previgente disciplina,
la più rigida disciplina dettata dall’art. 16 nonies (introdotto dalla legge 42/2001) della legge 82/1991 e, in
particolare, dal quarto comma di detto articolo con riguardo al limiti temporali di minima detenzione in
carcere. Le norme che attengono all’esecuzione della pena e alle misure a questa alternative, comprese le
condizioni per la loro applicazione, non sono, infatti, annoverabili tra quelle penali sostanziali per le quali
sole vale il principio di irretroattività della legge più sfavorevole e di ultrattività di quella, pur se abrogata,
più favorevole. Cass. 3 dicembre 2003, n. 8721.
In tema di divieto di concessione per tre anni di taluni benefici previsti dall’ordinamento penitenziario,
stabilito dal comma secondo dell’art. 58quater per alcune ipotesi in cui si sia fatto luogo a revoca di una
misura alternativa, l’art. 4, comma secondo, D.L. 13 maggio 1991, n. 152, conv. in legge 12 luglio 1991, n.
203, statuisce che il divieto suddetto si applica ai condannati nei cui confronti la revoca della misura alternativa sia stata disposta dopo l’entrata in vigore del decreto stesso. Ne deriva che determinante ai fini del
divieto in questione è solamente la data del predetto provvedimento di revoca, irrilevanti essendo tanto la
data della sentenza di condanna che quella di consumazione del reato. Né la eventualità, che ne consegue,
che il divieto venga ad operare anche con riferimento a condotte poste in essere anteriormente all’entrata in
vigore del decreto succitato, importa la violazione del divieto di irretroattività della legge penale di cui agli
artt. 25, comma secondo, Cost. e 2 c.p., riferendosi detto principio unicamente alle norme penali sostanziali
contenenti la comminatoria delle sanzioni e non anche a quelle che ne disciplinano l’esecuzione o dispongono l’applicabilità di misure alternative o di benefici in favore del condannato, la cui disciplina resta affidata
ai poteri discrezionali del legislatore ordinario. Cass. 11 aprile 1994, n. 1623.
Le norme che disciplinano l’esecuzione della pena e delle misure a queste alternative e le condizioni per la concessione di queste ultime non possono essere ritenute di natura penale sostanziale, perché non prevedono una nuova ipotesi di reato, né modificano ipotesi di reato già previste da altre disposizioni di legge penale. Esse, invece, tendono ad assicurare il miglior conseguimento del fine rieducativo
della pena, anche mediante misure a queste alternative. Ne consegue che le norme che disciplinano
l’esecuzione della pena, le misure a queste alternative e le condizioni per la loro concessione, non essendo leggi penali sostanziali, non sono soggette al principio della irretroattività previsto dagli artt. 2 c.p. e
25 della Costituzione. (Conforme in relazione alle modifiche, in senso restrittivo, alle disposizioni dell’ordinamento penitenziario relative all’applicabilità di misure alternative, introdotte dal D.L. 8 giugno 1992,
n. 306, conv. con modif., in legge 7 agosto 1992, n. 356). Cass. 8 ottobre 1993, n. 4013.
Ai sensi del combinato disposto degli artt. 4bis dell’ordinamento penitenziario, 2 del D.L. n. 152/91
(conv. con modif. in legge n. 203/91) e 15 del D.L. n. 306/92 (conv. con modif. in legge n. 356/92), il
beneficio della liberazione condizionale, al pari dei benefici penitenziari indicati nel citato art. 4bis dell’ordinamento penitenziario, può essere concesso a chi sia stato condannato per taluno dei delitti indicati
in detto ultimo articolo (nella specie trattavasi di sequestro di persona a scopo di estorsione), solo a
condizione che risulti prestata attività di collaborazione ai sensi dell’art. 58ter del medesimo ordinamento.
Ciò vale anche nel caso di condanna pervenuta prima dell’entrata in vigore della suddetta normativa, non
operando, in materia, il principio di irretroattività dalla legge penale più sfavorevole, giacché tale principio riguarda solo le leggi penali sostanziali, tra le quali non possono farsi rientrare le norme che disciplinano l’esecuzione della pena e le misure a queste alternative, ivi comprese le condizioni per la loro
applicazione. Detta disciplina manifestamente non si pone in contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione, dato che il trattamento più favorevole assicurato al collaboratore di giustizia trova giustificazione nel
fatto obiettivo della collaborazione, che il legislatore ha inteso incentivare; e per tale motivo lo stesso
trattamento di favore non avrebbe potuto essere assicurato a chi non avesse comunque collaborato,
indipendentemente dal fatto che tale mancata collaborazione dipendesse da scelta volontaria o da impossibilità oggettiva. Cass. 18 febbraio 1993, n. 685.
Ai sensi dell’art. 2, terzo comma c.p., la legge sopravvenuta si applica ai reati commessi in precedenza se contiene disposizioni più favorevoli all’imputato, tranne che sia stata pronunciata sentenza
irrevocabile. Pertanto, la legge sopravvenuta più favorevole al reo non costituisce elemento nuovo di
prova ex art. 630, lett. c) c.p.p. per stabilire se sia ammissibile la revisione, il cui presupposto è l’irrevocabilità della condanna, che preclude l’applicazione della legge nuova. Cass. 5 febbraio 1993, n. 388.
17. La sospensione condizionale della pena.
Le precedenti condanne relative a fatti non più costituenti reato per “abolitio criminis” (nella specie
emissione di assegni a vuoto) non sono preclusive della concessione del beneficio della sospensione
condizionale della pena. Cass. 27 novembre 2007, n. 18.
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
La nuova e più favorevole disciplina in tema di sospensione condizionale della pena detentiva non
superiore a due anni, anche se congiunta a pena pecuniaria (art. 163 c.p., così come modificato dalla L.
13 giugno 2004, n. 145), non può essere chiesta né concessa in sede esecutiva in relazione a una
sentenza divenuta irrevocabile prima dell’entrata in vigore della L. n. 145 del 2004, ostandovi il disposto dell’art. 2, comma quarto, c.p. e il divieto di applicazione analogica delle norme concernenti i poteri di
intervento «in executivis» sul giudicato. (Fattispecie in cui la Corte ha confermato il provvedimento del
giudice dell’esecuzione che aveva rigettato la richiesta di concessione, in sede esecutiva, del beneficio
della sospensione condizionale della pena - formulata alla luce della sopravvenuta L. 13 giugno 2004, n.
145, modificativa dell’art. 163 c.p. in relazione alla pena di due anni di reclusione ed euro ottomila di multa
applicata all’imputato per il delitto di continuata violazione dell’art. 73 D.P.R. 309/1990 con sentenza pronunziata ex art. 444, divenuta irrevocabile prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina). Cass. 1
febbraio 2006, n. 18465.
Non deve procedersi alla revoca delle sospensioni condizionali precedentemente concesse con riferimento a condanne per fatti non più previsti dalla legge come reato, in quanto l’”abolitio criminis” fa
cessare l’esecuzione e gli effetti penali della condanna, tra i quali deve annoverarsi l’attitudine della medesima a costituire precedente ostativo alla reiterazione della sospensione condizionale della pena. (Fattispecie in cui il p.m. aveva chiesto la revoca della sospensione condizionale riguardante precedenti
condanne per fatti di emissione di assegni a vuoto, reato depenalizzato con il D.Lgs. n. 507 del 1999).
Cass. 4 luglio 2005, n. 28714.
In tema di sospensione condizionale della pena nei confronti di persona che ne abbia già usufruito,
la disposizione dell’art. 165 comma 2 c.p., introdotta dall’art. 2 comma 1 lett. a) L. 11 giugno 2004, n. 145,
può, nonostante la sua natura sostanziale, essere applicata retroattivamente, ai sensi dell’art. 2 comma 3
c.p., anche in relazione a fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della nuova disciplina, siccome previsione più favorevole per l’imputato, il quale, a differenza che in passato, può scegliere che il
beneficio sia subordinato ad una condizione da lui ritenuta meno gravosa di ciascuna di quelle che il
giudice, ai sensi della legge previgente, avrebbe dovuto altrimenti obbligatoriamente applicare. (Fattispecie in tema di nuova concessione, ai sensi dell’art. 165 comma 2 c.p., come modificato dall’art. 2 comma
1 lett. a) L. n. 145 del 2004, della sospensione condizionale della pena, già in precedenza applicata,
subordinata alla prestazione di attività non retribuita in favore della collettività per un periodo di tempo
determinato, per fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 145 del 2004). Cass. 30
novembre 2005, n. 47291.
In tema di sospensione condizionale della pena, le precedenti condanne relative a fatti non più costituenti reato per “abolitio criminis” non sono preclusive della concessione del beneficio, che può essere
riconosciuto anche dal giudice di legittimità, il quale deve esaminare la ostatività dei precedenti penali
alla quale i giudici di appello si sono richiamati nel motivare il rigetto della richiesta di applicazione della
sospensione condizionale della pena. Cass. 5 marzo 2004, n. 15018.
La disciplina introdotta dall’art. 1 della legge 26 marzo 2001, n. 128 - secondo cui il giudice dell’esecuzione provvede alla revoca della sospensione condizionale della pena quando rileva l’esistenza delle
condizioni di cui al terzo comma dell’art. 168 c.p. - ha valenza sostanziale e comporta per il condannato un
trattamento deteriore, sicché essa non può essere applicata al beneficio concesso con sentenza divenuta
irrevocabile prima della sua entrata in vigore. Cass. 8 ottobre 2004, n. 47706.
L’art. 168 c.p., che prevede i casi di revoca della sospensione condizionale della pena, ha natura di
norma sostanziale e non processuale, per cui, ove intervenga una modifica in senso peggiorativa, quale
è quella costituita dall’avvenuto inserimento, per effetto dell’art. 1 della legge 26 marzo 2001, n. 128, del
comma terzo di detto articolo, recante nuove ipotesi di revoca del beneficio, deve trovare applicazione la
disciplina più favorevole vigente al momento della commissione del fatto (nella specie, in applicazione di
tale principio, la Corte ha ritenuto illegittima la revoca disposta in sede esecutiva, ai sensi dell’art. 674
comma 1-bis c.p.p.). Cass. 12 novembre 2002, n. 4345.
In tema di sospensione condizionale della pena, la presenza di plurime condanne costituisce elemento ostativo ad una nuova concessione anche nell’ipotesi che si tratti di condanne per reati poi depenalizzati, posto che la cessazione di tutti gli effetti penali della condanna non può influire sul giudizio
prognostico negativo di ravvedimento effettuato presuntivamente dalla legge (Nell’affermare tale principio la Corte ha precisato che ai fini della prognosi per il futuro il fatto che il soggetto ha più volte violato
i precetti penali, per quanto successivamente interessati da una modifica legislativa che ha abrogato la
norma incriminatrice, fa ritenere poco probabile che egli si astenga da commettere nuovi reati). Cass. 5
luglio 2001, n. 35176.
Tra gli effetti penali della condanna destinati a cessare in caso di abolitio criminis va compreso
anche quello che pone un limite alla reiterazione del beneficio della sospensione condizionale della
pena. Ne consegue che delle condanne per reati poi depenalizzati non può tenersi conto ai fini dell’ulteriore concessione della sospensione condizionale della pena. Cass. 24 settembre 1987, n. 726.
La disposizione dell’art. 164 c.p., secondo cui la sospensione della pena può essere concessa non
più di due volte, non è preclusiva di nuova concessione del beneficio allorché la sospensione di condan-
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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na intermedia sia relativa a contravvenzione successivamente depenalizzata, giacché, a norma dell’art. 2,
secondo comma, c.p., quando vi sia stata condanna per un fatto che secondo una legge posteriore non
costituisce reato, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali. Cass. 12 febbraio 1985, n. 3490.
Secondo una lettura costituzionalmente orientata del dettato dell’art. 673 c.p.p., il giudice dell’esecuzione ha la facoltà di concedere il beneficio della sospensione condizionale della pena quando la rideterminazione della pena entro i limiti di concedibilità del beneficio consegua, in fase esecutiva, al riconoscimento degli effetti di un’intervenuta “abolitio criminis”. In contrario l’interpretazione risulterebbe non
compatibile con dettato costituzionale, e più specificatamente con gli art. 3, 25 comma 2, 24 commi 1 e 2,
27 comma 3. Trib. Milano, 15 maggio 2002.
18. La disciplina della prescrizione.
Con la decisione in esame, in una fattispecie nella quale la permanenza del reato contestato di gestione non autorizzata di rifiuti era cessata all’atto del sequestro dell’area disposto dall’A.G., la Corte torna
nuovamente a pronunciarsi sulla disciplina transitoria introdotta dall’art. 10 della L. 7 dicembre 2005, n.
251, come interpretato a seguito della declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza, n. 393/2006. In
particolare, la Corte - preso atto che la sentenza di primo grado era emessa in data 7 dicembre 2005
(ovvero il giorno precedente all’entrata in vigore della L. n. 251 del 2005), che il deposito della motivazione era intervenuto a distanza di circa un mese e che l’appello era stato depositato tempestivamente – ha
escluso che, ai fini dell’applicabilità della disciplina transitoria di cui all’art. 10 L. n. 251 del 2005, il momento della “pendenza” del giudizio di appello coincida con quello della presentazione dell’atto di impugnazione, affermando il principio che, in base ad un’esegesi complessiva del sistema, tale momento deve
ritenersi coincidente con quello della iscrizione del processo nel registro della Corte d’Appello, in quanto
il momento centrale e fondamentale del passaggio da una fase processuale all’altra è rappresentato,
rispettivamente, dalla trasmissione e dalla ricezione del fascicolo. Cass. 16 giugno 2008, n. 24330.
L’art. 10, comma 3, della L. n. 251 del 2005, nella parte in cui esclude l’applicazione dei termini più
brevi ai processi pendenti in appello e in sede di legittimità, dev’essere interpretato in senso unitario,
sicché l’esclusione riguarda tutte le disposizioni che comportino un’abbreviazione dei termini, compresa
quella che impone un limite alla sospensione del termine di prescrizione non superiore ai sessanta giorni.
Pertanto, l’imputato di un reato contravvenzionale, commesso prima dell’entrata in vigore della L. n. 251,
non può chiedere contemporaneamente l’applicazione dei termini di prescrizione di cui alla previgente
normativa, in quanto più favorevoli, e l’applicazione della nuova disciplina dei termini di sospensione
della prescrizione in caso di impedimento del difensore. Cass. 25 giugno 2008, n. 25714.
In tema di disciplina della prescrizione del reato, la Corte ha affermato che, dopo l’intervento della corte
costituzionale (sent. n. 393 del 2006), il limite per l’applicazione delle norme più favorevoli di cui alla L. n.
251 del 2005 deve essere individuato nella sentenza di primo grado. Cass. 28 marzo 2008, n. 13350.
È manifestamente infondata, in riferimento agli art. 3, 25 comma 2, 101, 27 e 111 cost., la q.l.c.
dell’art. 10 comma 3 L. 5 dicembre 2005, n. 251, nella parte in cui non prevede che i più brevi termini di
prescrizione previsti dalla suddetta legge siano applicabili ai processi pendenti dinanzi alla Corte di cassazione. Infatti, con riferimento all’art. 3 cost., il principio di retroattività della legge penale successiva favorevole all’imputato, sancito dall’art. 2 comma 3 c.p., rileva solo nel caso in cui sia intervenuto un mutamento favorevole nella valutazione legislativa del fatto tipico oggetto del giudizio, mentre il legislatore
può razionalmente graduare nel tempo e differenziare in relazione ai diversi stati e gradi dei procedimenti
e dei processi pendenti l’applicazione di nuovi, più favorevoli termini di prescrizione dei reati, senza per
questo violare il canone dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale. Non è violato, inoltre,
l’art. 25 comma 2 cost. in quanto la disposizione transitoria censurata non investe le norme incriminatrici
destinate ad essere applicate nel giudizio dinanzi alla Corte di cassazione e non si pone, pertanto, in
contrasto con il principio costituzionale per cui “nessuno può essere punito se non in forza di una legge
che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Nemmeno è violato l’art. 101 cost., in quanto l’art. 10
L. n. 251 del 2005 dispone al comma 2 che il giudice non deve applicare nei procedimenti e nei processi
pendenti i nuovi termini di prescrizione che risultino più lunghi di quelli previgenti, mentre al comma 3
fissa una netta linea di demarcazione, precludendo al giudice l’applicazione dei termini di prescrizione
che risultino più brevi solo nei “processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di
apertura del dibattimento” nonché nei “processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di
cassazione”. Infine, non sussiste la violazione dell’art. 27 cost., con riguardo alla disciplina della recidiva,
in quanto si tratta di scelte che rientrano nella discrezionalità del legislatore e, d’altro canto, il carattere
afflittivo della misura detentiva e, quindi, anche il suo inasprimento è compatibile con la funzione rieducativa della pena; né rileva l’art. 111 cost., sotto il profilo dell’incompatibilità della ragionevole durata del
processo con le nuove norme sulla prescrizione, posto che la disciplina innovativa non è applicabile nella
presente vicenda. Cass. 25 gennaio 2006, n. 9601.
È manifestamente infondata, in riferimento agli art. 3, 25 comma 2, 27 e 111 cost., la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 10 comma 3 L. n. 251 del 2005, nella parte in cui non prevede che i più
brevi termini di prescrizione previsti dalla indicata legge siano applicabili ai processi già pendenti in
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2
LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
primo grado, ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, ai processi pendenti in grado di
appello ed ai processi pendenti dinanzi alla Corte di cassazione, dal momento che è scelta legislativa
ragionevole quella di non vanificare, attraverso l’applicazione retroattiva della legge più favorevole, l’attività processuale già espletata secondo la legge del tempo; il principio di retroattività della legge più
favorevole non è costituzionalizzato come emanazione diretta del principio di legalità, e ben può essere
derogato da norme di legge; l’evenienza che, nel caso in cui si proceda separatamente a carico di più
coimputati, i tempi di trattazione dei relativi processi possano condurre all’applicazione della legge più
favorevole solo in uno di essi non contrasta con il principio della presunzione d’innocenza; la prescrizione, quale causa di estinzione del reato, non è strumento idoneo ad assicurare la ragionevole durata del
processo, ma, al contrario, è quest’ultima che dovrebbe scongiurare il decorso dei termini di prescrizione. Cass. 4 maggio 2006, n. 33435.
La disciplina transitoria prevista dall’art. 10, comma terzo, L. n. 251/5, secondo la quale le “nuove
disposizioni” non si applicano “ai processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di
apertura del dibattimento nonché ai processi pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di Cassazione” si riferisce anche alle nuove disposizioni sul reato continuato, sicché per il computo dei termini Il caso
in cui alla data di entrata in vigore della stessa risulti già definito il giudizio di primo grado occorre riferirsi
al momento di cessazione della continuazione, secondo quanto previsto dall’art. 158 c.p. formulazione
antecedente alla predetta riforma. Cass. 19 maggio 2006, n. 17462.
In tema di prescrizione del reato, il dubbio sulla data esatta del reato non può risolversi se non con
l’applicazione del principio del “favor rei”, ritenendosi il reato consumato, fra più date compatibili con il
periodo indicato nel capo di imputazione, alla data più risalente. (Fattispecie nella quale, a fronte di una
contestazione relativa al periodo aprile - maggio 1990, non più specificatasi in seguito, si è ritenuto il
reato consumato in data 1 aprile 1990). Cass. 24 ottobre 1997, n. 11984.
La disposizione di cui all’art. 160 comma secondo c.p., così come modificata dall’art. 239 disp. coordinamento c.p.p. (D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271), avendo carattere di norma penale sostanziale (e non
processuale), è soggetta, per quanto riguarda l’ambito temporale della sua applicazione, al regime dettato dall’art. 2 comma terzo c.p. (In applicazione di detto principio nella fattispecie, trattandosi di reato
commesso nel dicembre 1985 e non essendosi verificati atti interruttivi sino al dicembre 1990 - non
potendosi ritenere in base all’originario testo dell’art. 160 comma secondo atto idoneo ad interrompere la
prescrizione e la richiesta di rinvio a giudizio del gennaio 1987 - questa Corte ha dichiarato l’estinzione del
reato per avvenuta prescrizione). Cass. 26 novembre 1992, n. 67.
19. Le norme processuali: le regole in materia di competenza.
La competenza per materia, in relazione al reato di guida in stato di ebbrezza commesso in data
anteriore alla data di entrata in vigore del D.L. n. 151 del 2003 convertito nella L. n. 214 del 2003, in
assenza di un apposita norma transitoria e in applicazione del principio “tempus regit actum” che governa la successione delle leggi nel tempo delle norme processuali, va determinata sulla base della normativa in vigore al momento in cui viene emesso il decreto di citazione a giudizio. Cass., Sez. Un., 31
gennaio 2006, n. 3821.
In tema di successione di leggi penali (art. 2, comma terzo, c.p.), con riguardo ai reati attribuiti alla
competenza del giudice di pace (nella specie delitto di lesioni), non può applicarsi il trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 52 del D.Lgs. n. 274 del 2000, ancorché in linea di principio più favorevole,
qualora sia stata concessa la sospensione condizionale della pena, in quanto il successivo art. 60, escludendo esplicitamente la concessione del beneficio della pena sospesa, rende in concreto le nuove disposizioni meno favorevoli all’imputato. Cass. 26 gennaio 2006, n. 7215.
In applicazione del principio «tempus regit actum» che governa la successione nel tempo delle norme
processuali, la competenza per materia in relazione al reato di guida in stato di ebbrezza va determinata sulla base della normativa in vigore al momento in cui il P.M. esercita l’azione penale e la competenza
così determinata rimane ferma in forza dell’ulteriore principio della «perpetuatio iurisdictionis», anche in
caso di sopravvenuta modifica della normativa, a meno che la nuova legge non introduca una specifica
disciplina transitoria. Resta peraltro salva l’applicazione da parte del giudice competente delle disposizioni sanzionatorie più favorevoli al reo, in considerazione della data di consumazione del reato, ai sensi
dell’art. 2, comma terzo, c.p. (Fattispecie in tema di modifiche introdotte all’art. 186 C.d.S. dal D.L. n. 151
del 2003 conv. in L. n. 214 del 2003). Cass. 2 marzo 2005, n. 12148.
Allorché la modifica della competenza per materia sia posta in maniera autonoma dalla nuova legge
- e non indirettamente come nel caso di diversa determinazione della sanzione edittale - la relativa norma
è di carattere processuale e non sostanziale, e pertanto trova immediata applicazione in virtù del principio
generale vigente in materia processuale tempus regit actum, onde non ci si può riferire, al fine di stabilire
la competenza per materia, all’art. 2, comma terzo, c.p., che riguarda un profilo di diritto sostanziale e non
di diritto processuale. (Fattispecie in tema di reato di omissione di atti di ufficio contestato come permanente, con inizio della condotta in data anteriore all’entrata in vigore della legge n. 286 del 1990). Cass. 2
dicembre 1997, n. 6789.
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
2
In tema di competenza penale vige, in linea generale il principio tempus regit actum in forza del quale
- intervenuta una legge modificatrice ratione materiae della competenza prevista al momento della commissione del reato - vanno applicate le regole sulla competenza con riferimento al tempo in cui una determinata
attività di giurisdizione deve essere esercitata, col contemperamento del principio della perpetuatio iurisdictionis nell’ipotesi in cui il procedimento sia pervenuto alla fase del dibattimento. In materia di reati di esercizio abusivo di attività di giuoco o di scommessa, la legge 13 dicembre 1989, n. 401 è meno favorevole
rispetto all’art. 718 c.p., essendo prevista la pena della reclusione da sei mesi a tre anni (art. 4) a fronte della
pena da tre mesi ad un anno di arresto e dell’ammenda non inferiore a lire quattrocentomila prevista dall’art.
718 c.p. Tale nuova legge ha riflessi che appartengono, in quanto tali, alla cognizione del tribunale non
essendo prevista la sola pena della multa o dell’ammenda (art. 10 legge 31 luglio 1984, n. 400); in tal caso
peraltro si verte in ipotesi di successione di leggi penali regolata dall’art. 2 c.p.: ne consegue che, per i fatti
previsti dall’art. 4 legge 13 dicembre 1989, n. 401, commessi prima dell’entrata in vigore della legge stessa,
resta applicabile la regola generale (artt. 4 e 7 c.p.p.) della competenza del giudice che l’aveva al tempo del
commesso reato, e cioè il Pretore. Cass. 18 gennaio 1994, n. 280.
In presenza di una successione di norme le quali comportino modifiche della competenza per materia, il principio tempus regit actum, anche nei casi in cui il legislatore non abbia emanato norme di diritto
transitorio, incontra un limite nel principio di precostituzione del giudice sancito dall’art. 25 Cost., in tutti
quei casi in cui la competenza si sia già radicata al momento dell’entrata in vigore della legge di modifica.
(Nella specie gli imputati erano stati citati a comparire dinanzi al pretore per l’udienza del 19 aprile 1990,
antecedente l’entrata in vigore della legge 26 aprile 1990, n. 86 modificativa, tra l’altro, dell’art. 323 c.p.
che veniva in rilievo nella procedura de qua). Cass. 5 novembre 1991, n. 4131.
20. Le norme processuali: le misure cautelari.
Una volta che il giudice, in presenza di leggi penali sostanziali succedutesi nel tempo, abbia individuato la norma più favorevole per il reo da applicare nel caso concreto, deve derivare da detta scelta tutte
le implicazioni che ne conseguono in campo processuale, non limitandosi meccanicamente a privilegiare
la norma processuale applicabile sulla sola scorta dell’entità della pena massima ricavata da quella sostanziale per valutarla come la più favorevole tra quelle prese in considerazione. Ne consegue che, ai fini
della determinazione della pena edittale agli effetti dell’applicazione della misura custodiale, il giudice
deve esaminare, ai sensi dell’art. 278 c.p.p., la struttura della norma prescelta e valutare se l’entità della
pena da essa prevista si identifica con quella determinata dal legislatore per il reato non circostanziato
ovvero con quella stabilita per il reato aggravato da circostanze ad effetto speciale (nel primo caso prendendo in considerazione, ai fini della suddetta determinazione, la pena massima stabilita per il reato non
circostanziato e nel secondo tenendo, invece, conto di quella massima prevista per la presenza della
circostanza ad effetto speciale). (Fattispecie relativa a sequestro di persona aggravato dalla circostanza
del conseguimento dell’intento, all’epoca dei fatti non considerata ad effetto speciale, e pertanto non
valutabile ai fini di cui all’art. 278 c.p.p.). Cass. 6 luglio 1999, n. 4701.
Le norme che disciplinano l’applicazione di misure cautelari hanno carattere processuale, ma, per
la loro influenza immediata sullo status libertatis, hanno rilevanza sostanziale, con la conseguenza
che, in tale materia, si applicano le norme sulla successione di leggi nel tempo proprie delle disposizioni sostanziali. Pertanto, in caso di norme più favorevoli introdotte con decreto legge non convertito, si
applicano le disposizioni vigenti nel momento della commissione del fatto, per effetto dell’art. 77, comma
terzo, Cost. e della sentenza della Corte costituzionale 19 febbraio 1995, n. 51, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 2, comma quinto, c.p., nella parte in cui rende applicabili, nel caso di decreto legge non
convertito, le disposizioni dei commi secondo e terzo dello stesso articolo. (I principi anzidetti sono stati
affermati in una fattispecie relativa all’art. 2 del decreto legge 14 luglio 1994, n. 440, non convertito, che
aveva introdotto il comma 3bis nell’art. 275 c.p.p., con il quale si era inibita l’adozione di provvedimenti di
custodia cautelare per delitti diversi da quelli indicati nel comma 3 dello stesso articolo e dell’art. 380
c.p.p.: la Corte ha conseguentemente valutato corretta la soluzione dei giudici di merito che non avevano
ritenuto caducati gli effetti di una misura cautelare per effetto della entrata in vigore del decreto-legge
citato). Cass. 19 febbraio 1998, n. 595.
L’applicabilità ai procedimenti in corso della sospensione dei termini di custodia cautelare prevista
dall’art. 1, commi terzo e quarto, D.L. n. 355 del 1996 - avente ad oggetto disposizioni in tema di incompatibilità dei magistrati - non viola né il canone di irretroattività in materia penale, trattandosi di disposizione
processuale che obbedisce al principio tempus regit actum, né la legge-delega per l’emanazione del
codice di procedura penale, essendo contenuta in norma del tutto autonoma e non emanata in attuazione
della delega, né la convenzione internazionale dei diritti dell’uomo, in punto «congruità dei tempi del
processo», posto che l’applicazione immediata di norme che modificano in peius la durata della custodia
cautelare non è vietata dalle disposizioni di detta convenzione relative alla durata del processo, peraltro di
natura programmatica. Cass. 8 aprile 1997, n. 2550.
Ai fini della individuazione dei termini di fase della custodia cautelare, fino alla pronuncia della
sentenza di condanna di primo grado, dovendosi far riferimento, ai sensi del combinato disposto degli
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
artt. 278 e 303 comma 1 lett. a) e b) c.p.p., alla “pena stabilita della legge”, detta espressione, attesa la
onnicomprensività del termine “legge”, va intesa nel senso che deve aversi riguardo non solo (come
avviene abitualmente), ai limiti edittali indicati nella norma incriminatrice, ma anche a quelli eventualmente ricavabili da altre norme di cui debbasi obbligatoriamente tener conto (salvo quanto previsto nella
seconda parte del citato art. 278 c.p.p.) in quanto destinate ad avere necessariamente incidenza nella
determinazione non in concreto (cioè nella futura valutazione del giudice), ma in astratto, del trattamento
sanzionatorio applicabile nella fattispecie legale per cui si procede. (Nella specie, in applicazione di tali
principi, la Corte ha ritenuto che correttamente, essendo stato rubricato il reato di cui all’art. 73 del t.u. in
materia di stupefacenti approvato con D.P.R. n. 309/90, per un fatto commesso anteriormente all’entrata
in vigore del detto D.P.R., si fosse fatto riferimento, come pena massima, tenendo conto della regola
dettata dall’art. 2 comma 3 c.p., non a quella prevista dal detto art. 73, ma a quella, inferiore, prevista dal
previgente art. 71 L. n. 685/75). Cass. 7 aprile 1995, n. 2144.
Ai fini del calcolo del termine di durata massima della custodia cautelare occorre fare riferimento
esclusivamente alla contestazione contenuta nel capo d’imputazione e non della eventuale diversa
quantificazione della pena conseguente a modifiche normative; infatti il principio del favor rei contenuto
nell’art. 2, comma primo, non si estende al diritto processuale ed in particolare alle norme che disciplinano le materie delle misure cautelari. (Nel caso di specie all’indagato era stata contestata la violazione
dell’art. 73 D.P.R. del 9 ottobre 1990, n. 309 ed il ricorrente sosteneva che in particolare all’epoca di
commissione del reato, doveva applicarsi l’art. 71 legge 22 dicembre 1975, n. 685. La Corte ha rigettato il
ricorso affermando che solo all’atto del giudizio si sarebbe potuto individuare la norma più favorevole da
applicare anche con riferimento alla eventuale applicazione delle attenuanti speciali previste dall’art. 73,
n. 5 e, n. 7 legge 9 ottobre 1990, n. 309). Cass. 30 maggio 1995, n. 2181.
La disciplina delle misure cautelari ha carattere processuale e perciò, in linea di massima, nella fase
delle indagini preliminari il giudice non può discostarsi dalla contestazione mossa dal Pubblico Ministero
e non gli è consentita alcuna valutazione sul suo contenuto. Tuttavia, quando risulti con evidenza, in base
alla sola data del commesso reato così come precisata nell’imputazione, che debba essere applicata
all’indagato, in base all’art. 2 del c.p., una normativa più favorevole inequivocabilmente individuabile
raffrontando la disciplina sanzionatoria precedente e quella indicata nella contestazione, è alla prima che
il giudice dovrà fare riferimento nel computare i termini di durata massima della custodia cautelare non
potendosi trascurare il carattere sostanziale dell’afflittività delle misure cautelari personali e la tutela dello
status libertatis con le relative implicazioni di carattere costituzionale che lo presidiano. (La Corte ha
ritenuto che giustamente il Tribunale avesse accolto il ricorso con il quale si chiedeva la scarcerazione per
scadenza dei termini massimi di custodia cautelare in un caso in cui all’indagato era stata contestata la
violazione dell’art. 73 D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ma dalla data di commissione del reato emergeva con
evidenza che la norma applicabile era quella prevista dall’art. 71 della legge 22 dicembre 1975, n. 685 che,
ai fini della durata massima della custodia cautelare, prevede un termine più breve che era già scaduto).
Cass. 24 marzo 1995, n. 1783.
La modifica dell’art. art. 275, comma 3, c.p.p., operata dall’art. 1 del decreto legge 9 settembre 1991,
n. 292, in seguito alla quale, per taluni più gravi delitti ove sussistano gravi indizi di colpevolezza, è
disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non si
ravvisano esigenze cautelari, trova applicazione anche per le misure cautelari ordinate in base alla normativa precedentemente vigente che siano ancora pendenti, per le quali cioè non siano ancora scaduti i
termini di fase, o quelli massimi. (Nella fattispecie la Corte Suprema di Cassazione ha ritenuto legittimo il
provvedimento della Corte di Assise di Palermo che aveva disposto il ripristino della custodia cautelare in
carcere, per effetto dell’entrata in vigore del D.L. 9 settembre 1991, n. 292, a carico di un imputato che in
precedenza era stato posto agli arresti domiciliari). Cass., Sez. Un., 27 marzo 1992, n. 8.
Le norme che disciplinano le misure cautelari, essendo, come tutte le norme processuali, strumentali rispetto alle norme penali, perché dirette ad assicurare l’applicazione della sanzione comminata da queste ultime, hanno natura processuale e non sono soggette al principio della irretroattività della legge penale previsto dagli artt. 2 c.p. e 25, comma secondo, Cost. Ne consegue che le misure
cautelari sono disciplinate dalle norme vigenti al momento della loro attuazione e non da quelle vigenti
al momento in cui il reato è stato commesso. Cass. 12 gennaio 1994, n. 127; conforme Cass. 12 maggio
1992, n. 1075.
21. Le norme processuali: il giudizio abbreviato.
In tema di giudizio abbreviato, poiché è qualificabile come disposizione di interpretazione autentica
quella dell’art. 7, comma 1, D.L. 24 novembre 2000, n. 341, convertito in legge 19 gennaio 2001, n. 4 con la quale si è disposta la sostituzione della pena dell’ergastolo a quella dell’ergastolo con isolamento
diurno per gli imputati cui quest’ultima pena fosse stata applicata o fosse applicabile e che avessero
presentato richiesta di accesso al rito speciale -, è legittima la condanna alla pena perpetua resa, all’esito
del giudizio medesimo, nei confronti di imputato dichiarato colpevole di più delitti, uno dei quali punibile
con l’ergastolo, a nulla rilevando che la richiesta di definizione della procedura con il rito speciale fosse
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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stata presentata in un momento antecedente all’entrata in vigore del citato art. 7, e cioè allorché la norma
in vigore prevedeva, in favore di chi avesse optato per il rito abbreviato, la sostituzione alla pena dell’ergastolo di quella di trenta anni di reclusione. Cass. 6 maggio 2003, n. 23455.
Poiché le norme che riguardano i presupposti per l’ammissibilità al rito abbreviato sono di natura
processuale e soggiacciono, conseguentemente, al principio tempus regit actum, esse valgono soltanto per l’avvenire e, in assenza di diverse disposizioni transitorie, non hanno effetto retroattivo. Ne consegue che non è consentita l’applicazione in cassazione della normativa sopravvenuta con legge n. 479 del
1999, nella parte in cui, rendendo obbligatoria l’adozione del rito a richiesta dell’imputato, comporta
automaticamente la riduzione di un terzo della pena. (Nella fattispecie, in cui l’udienza preliminare e il
giudizio, sia di primo, sia di secondo grado, si erano svolti prima dell’entrata in vigore della legge n. 479
del 1999, essendo stato negato l’accesso al rito abbreviato, la S.C. ha ritenuto che il motivo di ricorso
relativo a tale diniego e alla conseguente mancata concessione della diminuente di cui all’art. 442 c.p.p.,
dovesse essere esaminato alla luce della disciplina vigente nel momento in cui erano stati celebrati udienza
preliminare e dibattimenti di primo e secondo grado, e, considerando immune da censure detto diniego,
ha escluso che potesse darsi riconoscimento alla riduzione di pena in cassazione sulla base del diritto
sopravvenuto, stante la stretta e inscindibile derivazione di tale riduzione dall’applicazione del rito). Cass.
17 gennaio 2000, n. 3173; conforme Cass. 5 giugno 2000, n. 7385.
In tema di giudizio abbreviato, la riduzione di pena di cui all’art. 442, comma secondo, c.p.p. ha
natura processuale e non sostanziale in quanto essa non attiene al fatto reato, non ne costituisce componente materiale o soggettiva, non contribuisce a determinarne la quantità criminosa, non è soggetta a
giudizio di comparizione con circostanze aggravanti, non influisce sui termini prescrizionali. Essa ha natura puramente premiale di una specifica scelta processuale dell’imputato, mirata alla abbreviazione degli
adempimenti del giudizio, con favorevoli riflessi generali in tema di speditezza e di semplificazione. Ne
consegue l’inapplicabilità dell’art. 2, comma terzo, c.p. a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 442, comma secondo, c.p.p. (sent. n. 176/1991 Corte cost.). Cass. 5 giugno 1991, n. 8124.
22. Le norme processuali: l’applicazione della pena su richiesta delle parti.
L’art. 73 comma 5-bis D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, introdotto dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 272,
conv., con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, prevede che il giudice, nel caso in cui il fatto sia
di “lieve entità”, se il reato è commesso da tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o
psicotrope, possa applicare, in luogo della pena detentiva e pecuniaria, su richiesta dell’imputato e sentito il p.m., quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’art. 54 D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, secondo le
modalità ivi previste. L’art. 73 comma 5-bis e l’art. 54 D.Lgs. n. 274 del 2000 stabiliscono un “sistema
compiuto”, che può oggi essere applicato anche a reati commessi prima della riforma del 2006, la quale
ha introdotto l’anzidetto trattamento sanzionatorio di maggior favore per l’imputato, ai sensi dell’art. 2
c.p. (Da queste premesse, la Corte ha annullato la sentenza limitatamente al trattamento sanzionatorio,
giacché il giudice di merito avesse ritenuto di non poter applicare il nuovo, più favorevole trattamento
sanzionatorio anche ai fatti pregressi, sostenendo erroneamente che mancasse la relativa disciplina regolamentare; la Cassazione, in proposito, ha invece richiamato, a conferma della compiutezza del sistema e della conseguente immediata applicabilità dello stesso, il decreto 26 marzo 2001 del Ministro della
giustizia che ha individuato le tipologie dei lavori di pubblica utilità e ha stabilito le modalità di esecuzione). Cass. 22 gennaio 2007, n. 8363.
Allorché, successivamente alla sentenza che abbia applicato la pena su richiesta delle parti con riferimento a una pluralità di fatti legati dal vincolo della continuazione, decada, per mancata conversione, il
decreto-legge che aveva previsto come reato quei fatti, viene meno il fondamento della richiesta di patteggiamento nei termini in cui essa è stata formulata. Ne consegue che, in mancanza di specificazione, in
sentenza, della violazione ritenuta più grave, ne va disposto l’annullamento con rinvio per la rideterminazione della pena con riferimento ai residui reati. (Fattispecie relativa a pena patteggiata in relazione, tra l’altro,
anche al reato di volontaria sottrazione dello straniero al provvedimento di espulsione dal territorio dello
Stato introdotto dal D.L. 13 aprile 1993, n. 107, non convertito nei termini). Cass. 22 febbraio 1994, n. 916.
La norma di cui all’art. 444 del nuovo c.p.p., che prevede, nell’ultimo inciso del primo comma, la
possibilità di applicare le misure sostitutive anche in presenza di pene congiunte, assume il contenuto
ed il valore di una norma sostanziale. Ne consegue che in virtù di tale norma l’applicazione di dette
misure può trovar luogo in presenza di pene congiunte anche nel caso in cui ai sensi dell’art. 248, comma
quarto, delle disposizioni transitorie del nuovo codice, debbano continuare ad osservarsi le disposizioni
di cui agli abrogati artt. 77 - 80 della legge n. 689 del 1981. Cass. 17 ottobre 1990, n. 2585.
In base all’art. 444 del nuovo codice di procedura penale l’applicazione della pena su richiesta delle
parti è consentita anche ove con la pena detentiva concorra una pena pecuniaria; questa norma, pur
essendo contenuta in una legge processuale, ha valore di disposizione sostanziale perché riguarda il
merito della applicazione delle pene. Perciò, in base all’art. 2, terzo comma del codice penale, questa
disposizione, che costituisce legge più favorevole, trova applicazione anche nei procedimenti pendenti
alla data di entrata in vigore del nuovo codice. Cass. 2 maggio 1990, n. 9086.
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2
LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
In base all’art. 444 del nuovo codice di procedura penale, l’applicazione della pena su richiesta delle
parti è ammessa anche per le pene pecuniarie. Tale norma, anche se contenuta in una norma processuale, ha valore di legge sostanziale perché oltre ad essere collegata ad un accordo tra imputato e pubblico
ministero, riguarda il merito di applicazione della pene e, quindi, rientra nell’ambito dell’art. 2, terzo comma, c.p. Ne consegue che, per il principio della legge più favorevole, si applica anche nei procedimenti,
pendenti alla data di entrata in vigore del nuovo codice, nei quali, ai sensi dell’art. 248, quarto comma, I
parte disp. trans. continua ad osservarsi la disciplina di cui agli artt. 77-85 legge 24 novembre 1981, n.
689. Cass. 31 ottobre 1989, n. 17444.
23. Le norme processuali: il decreto penale di condanna.
L’art. 460, comma 5, c.p.p., nel testo introdotto dall’art. 37, comma 2, lett. b), della legge 16 dicembre
1999, n. 479 - in base al quale nel caso di condanna inflitta con decreto penale divenuto esecutivo il reato
è estinto se, entro i termini previsti, l’imputato non commette altri reati - deve essere considerata «norma
sostanziale», in quanto ha introdotto una nuova causa di estinzione del reato, con la conseguenza dell’applicabilità del principio del «favor rei», posto dall’art. 2, comma 3 c.p., in materia di successione di leggi
penali del tempo, anziché del principio «tempus regit actum» stabilito per la disciplina processuale. Cass.
24 gennaio 2003, n. 9898.
24. Le norme processuali: impugnazioni penali riformate.
Ai fini dell’individuazione del regime applicabile in materia di impugnazioni, allorché si succedano
nel tempo diverse discipline e non sia espressamente regolato, con disposizioni transitorie, il passaggio
dall’una all’altra, l’applicazione del principio tempus regit actum impone di far riferimento al momento di
emissione del provvedimento impugnato e non già a quello della proposizione dell’impugnazione. Cass.,
Sez. Un., 29 marzo 2007, n. 27614.
25. Le norme processuali: impugnazioni ed inviolabilità del giudicato.
L’inammissibilità originaria del ricorso per cassazione anche per manifesta infondatezza dei motivi,
non consente l’applicazione della legge penale più favorevole, conseguente alla riduzione dei minimi
edittali della pena della reclusione prevista per il reato di cui all’art. 73 comma 1 D.P.R. 9 ottobre 1990, n.
309 (introdotta con l’art. 4 bis D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, conv., con modificazioni, dalla L. 21 febbraio
2006, n. 49), giacché deve ritenersi formato il giudicato che preclude la possibilità di applicare la disciplina più favorevole al reo. Cass. 19 settembre 2006, n. 35415.
Quando intervenga “abolitio criminis” dopo una sentenza assolutoria di primo grado, con la formula “perché il fatto non sussiste”, il giudice di appello di fronte alla non evidenza dell’innocenza dell’imputato, legittimamente pronuncia l’assoluzione con la formula “perché il fatto non è previsto dalla legge
come reato”, non potendosi compiere ulteriori indagini in ordine ad un fatto divenuto privo di rilevanza
penale. Cass. 16 maggio 2002, n. 22334.
26. Le misure di sicurezza.
Il principio di irretroattività della legge penale, sancito dagli artt. 2 c.p. e 25, comma secondo, Cost., è
operante nei riguardi delle norme incriminatrici e non anche rispetto alle misure di sicurezza, sicché la
confisca può essere disposta anche in riferimento a reati commessi nel tempo in cui non era legislativamente prevista ovvero era diversamente disciplinata quanto a tipo, qualità e durata. (Fattispecie in tema
di confisca facoltativa di beni costituenti il profitto di reati - per i quali era intervenuta sentenza di applicazione della pena - commessi anteriormente alla modifica dell’art. 445 c.p.p. ex L. n. 134 del 2003). Cass. 8
novembre 2007, n. 7116.
Il principio di irretroattività della legge penale, sancito dagli artt. 2 c.p. e 25, comma secondo, Cost., è
operante nei riguardi delle norme incriminatrici ma non rispetto alle misure di sicurezza, sicché la confisca
può essere disposta anche in riferimento a reati commessi nel tempo in cui essa non era legislativamente
prevista ovvero era diversamente disciplinata quanto a tipo, qualità e durata. Cass. 1 marzo 2006, n. 9269.
Il disposto dell’art. 200 comma 1 c.p. - secondo cui le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in
vigore al momento della loro applicazione - va interpretato nel senso che non potrà mai applicarsi una
misura di sicurezza per un fatto che, al momento della sua commissione non costituiva reato, mentre è
possibile, fermo quanto sopra in ordine al presupposto, la suddetta applicazione per un fatto di reato per
il quale originariamente non era prevista la misura; deve invero considerarsi che il principio di irretroattività della legge penale, di cui agli art. 25 comma 2 cost. e 2 comma 1 c.p., riguarda le norme incriminatrici, ossia le disposizioni in forza delle quali un fatto è previsto come reato e non invece le misure di
sicurezza. Cass. 29 settembre 1995, n. 3391.
27. Le misure di prevenzione.
Premesso che il reato previsto dall’art. 9 L. 1423 del 1956, consistente nella condotta di colui che
venga sorpreso in compagnia di pregiudicati, si consuma nel momento in cui cessa la condotta abituale
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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di frequentazione, ne consegue che la modifica apportata all’art. 9 dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, che
ha trasformato la contravvenzione in delitto, è applicabile anche se solo una parte della condotta è stata
posta in essere dopo l’entrata in vigore della legge più sfavorevole, in quanto l’art. 2, comma quarto, c.p.
fa riferimento al tempo in cui è stato commesso il reato e cioè a quello in cui si è consumato. (Rigetta,
Trib. lib. Catania, 28 novembre 2005). Cass. 11 maggio 2006, n. 20334.
In costanza di espiazione di pena conseguente a condanna definitiva, la misura di prevenzione non può essere
predisposta se non sia acquisita la prova certa che la formazione di risocializzazione propria del trattamento penitenziario non ha esercitato alcun effetto sul condannato, né ha eliminato la sua pericolosità sociale; è compito del
giudice di merito procedere ai necessari accertamenti, in quanto non si può far luogo a misura di prevenzione se la
pericolosità sociale non sia sussistente al momento della formazione del giudizio. Cass. 5 novembre 2003, n. 44151.
L’art. 2 c.p. si riferisce alle pene inflitte per un determinato fatto-reato e non alle misure di prevenzione applicate in conseguenza della pericolosità sociale desunta da tutto l’anteatto comportamento tenuto dal soggetto proposto. Ne consegue che l’immediata applicazione della legge n. 646 del 1982 a colui
che è stato proposto per una misura di prevenzione, relativamente a fatto anteriore alla legge stessa, non
viola la norma di diritto penale sopra indicata, stante il chiaro disposto dell’art. 200, secondo comma,
c.p., né l’art. 25 Cost., il quale non pone limiti di irretroattività alle misure di sicurezza e quindi, stante il
parallelismo tra le due categorie, nemmeno alle misure di prevenzione. Cass. 17 maggio 1984, n. 1193.
28. La normativa in tema di ingiusta detenzione ed ingiusta custodia cautelare.
L’applicazione di sopravvenute norme più restrittive in tema di benefici penitenziari non dà luogo alla
violazione del principio di irretroattività della legge penale, stabilito dall’art. 25, comma 2, cost. e dall’art.
2 c.p., atteso che tale principio si riferisce unicamente alle norme penali sostanziali e non anche a
quelle inerenti alle modalità di esecuzione della pena e all’applicazione dei suddetti benefici la cui disciplina resta affidata ai poteri discrezionali del legislatore ordinario. Cass. 23 ottobre 2007, n. 40453.
È configurabile il diritto ad un’equa riparazione per la custodia cautelare subita in relazione al delitto
di cui all’art. 323 c.p., commesso antecedentemente all’entrata in vigore della legge 16 luglio 1997, n.
234, qualora, per effetto della coesistenza dei due distinti istituti della successione delle leggi penali e
dell’”abolitio criminis”, il fatto contenga gli elementi costitutivi del reato sia secondo la vecchia che secondo la nuova formulazione e, in ragione della continuità e dell’omogeneità tra le due norme, sia sottoposto all’applicazione della norma penale più favorevole. Cass. 11 dicembre 2002, n. 5927.
I nuovi criteri di liquidazione della indennità di riparazione della ingiusta detenzione trovano applicazione anche nei procedimenti in corso, essendo lo ius superveniens applicabile anche d’ufficio in sede
di legittimità quando la relativa questione sia ancora sub indice, e ciò a prescindere dall’opzione in ordine
alla natura civilistica o pubblicistica dell’azione indennitaria. Cass. 3 maggio 2000, n. 2721; conforme
Cass. 22 giugno 2000, n. 3747.
Non può riconoscersi efficacia retroattiva all’art. 15, comma 1, lett. a), della legge 16 dicembre 1999, n. 479
che, modificando l’art. 315, comma 2, c.p.p., ha elevato da lire 100 milioni a lire un miliardo il limite massimo della
riparazione per ingiusta detenzione. La normativa sull’ingiusta detenzione, infatti, ha natura sostanziale ma non
penale, per cui non può trovare applicazione la disciplina dettata dall’art. 2, comma terzo, c.p. per il caso di
sopravvenienza di legge penale più favorevole, ma deve invece applicarsi la regola generale dell’irretroattività
stabilita dall’art. 11 delle preleggi, facendo riferimento al momento genetico del diritto alla riparazione, da individuarsi esclusivamente in quello dell’indebita detenzione subita e non in quello della pronuncia di assoluzione o
di archiviazione, cui deve attribuirsi natura meramente dichiarativa. Cass. 9 maggio 2000, n. 1894.
29. Rapporti con l’illecito civile.
La revoca della sentenza di condanna per «abolitio criminis» (art. 2, comma secondo, c.p.) - conseguente alla perdita del carattere di illecito penale del fatto - non comporta il venir meno della natura di
illecito civile del medesimo fatto, con la conseguenza che la sentenza non deve essere revocata relativamente alle statuizioni civili derivanti da reato, le quali continuano a costituire fonte di obbligazioni efficaci
nei confronti della parte danneggiata. Cass. 20 dicembre 2005, n. 4266.
Nella ipotesi di revoca della sentenza di condanna per “abolitio criminis” (art. 2 c.p. e 673 c.p.p.), la
perdita del carattere di illecito penale del fatto non comporta altresì il venir meno della natura di illecito
civile del fatto medesimo. Ne consegue che non deve essere revocata la sentenza relativamente alle
statuizioni civili derivanti da reato, le quali continuano a dare vita ad obbligazioni pienamente efficaci nei
confronti della parte danneggiata. (Fattispecie concernente la modifica della disposizione criminosa dell’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), nella quale è stato inserito il requisito della “violazione di norme di legge o
di regolamento”). Cass. 30 settembre 2002, n. 43581.
Al diritto del danneggiato al risarcimento del danno, non si applicano i principi attinenti la successione nel tempo delle leggi penali, fissati dall’art. 2 c.p., ma il principio stabilito dall’art. 11 delle preleggi,
e pertanto il diritto risarcimento permane anche a seguito di abolitio criminis, nulla rilevando successive
modifiche legislative, che non abbiano espressamente disposto sui diritti quesiti. Cass. 21 gennaio 1992,
n. 2520.
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2
LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
30. Abuso d’ufficio.
Nell’abuso di ufficio connesso a una violazione di legge (art. 323 c.p.), questa si pone come mero
presupposto dì fatto per l’integrazione del delitto, e lo specifico contenuto della regola violata non si
incorpora nella norma penale e non va ad integrare la relativa fattispecie. Ne consegue che, in caso di
abrogazione o di modificazione successiva della legge violata, non trova applicazione l’art. 2 c.p., riguardando esse una disposizione extrapenale, per cui il fatto sopravvenuto rileva esclusivamente per il futuro.
(Nella specie, l’abuso consisteva, da parte di incaricati del servizio di custodia di veicolo sottoposto a
sequestro giudiziario o amministrativo, nella pretesa e nell’ottenimento, da diversi proprietari di veicoli in
sequestro e in violazione dell’art. 691 c.p.p. (ora abrogato), di somme di danaro di varia entità, al cui
versamento i predetti incaricati subordinavano la restituzione dei veicoli, quando le spese di custodia
erano invece a carico dello Stato, riscuotendo, inoltre, somme superiori a quelle stabilite nella tariffa in
vigore). Cass. 15 gennaio 2007, n. 4637.
Nell’abuso d’ufficio connesso a violazione di legge, la violazione si pone come mero “presupposto di
fatto” per l’integrazione del reato e lo specifico contenuto del precetto violato non si incorpora nella
norma penale e non assume portata integrativa della relativa fattispecie. Da ciò consegue che la sussistenza di tale requisito di fatto deve essere ricercata con riferimento al tempo del commesso reato e con
riferimento al contenuto della norma all’epoca stessa, senza che sull’apprezzamento relativo possano
incidere le eventuali modificazioni successive della norma: ciò in quanto, trattandosi di norma extrapenale, non può trovare applicazione la disciplina di cui all’art. 2 c.p. Cass. 9 novembre 2006, n. 41365.
La disciplina prevista dall’art. 2, commi 2 e 3, c.p. trova applicazione nei casi in cui viene modificata
non la disposizione di legge penale ma quella c.d. integratrice, a condizione che la modifica della legge
richiamata incida sulla struttura della norma incriminatrice ovvero sul giudizio di disvalore in essa espresso (nella specie, si è ritenuto che la modifica legislativa concernente la competenza ad emettere il provvedimento amministrativo non incide sulla descrizione della condotta vietata dall’art. 323 c.p. e non affievolisce in alcun modo il disvalore delle avvenute violazioni). Cass. 2 dicembre 2003.
Nell’abuso di ufficio connesso a una violazione di legge, questa si pone come mero presupposto di
fatto per l’integrazione del delitto, e lo specifico contenuto della regola violata non si incorpora nella
norma penale e non va ad integrare la relativa fattispecie. Ne consegue che la sussistenza di tale requisito
di fatto deve essere ricercata nel momento stesso del reato e la valutazione del giudice non può che
essere rapportata al contenuto che quella regola possedeva al tempo in cui il reato fu commesso, con
l’effetto ulteriore che, in caso di modificazione successiva di tale regola, non trova applicazione l’art. 2
c.p., in quanto la nuova legge di riferimento non introduce alcuna differente valutazione in relazione alla
fattispecie legale astratta disegnata dalla norma incriminatrice e al suo significato di disvalore (rimanendo
immutato il presupposto della “violazione di legge”) ma modifica una disposizione extrapenale che si
limita ad influire, nel caso singolo, sulla concreta applicazione futura della stessa norma incriminatrice,
nel senso che la sussistenza del requisito della “violazione di legge” va verificata alla luce della nuova
regola. (Nella specie, in cui l’abuso era consistito nell’adozione, da parte di dirigenti di un ente ospedaliero, di delibere che avevano posto a carico dell’Ente medesimo le spese legali per la difesa, in un processo
per concussione, di un primario chirurgo e di un’infermiera, in violazione dell’art. 41 D.P.R. n. 270 del
1987, la sopravvenienza, nel corso del processo, di una disposizione meno rigorosa - quella dell’art. 26
c.c. n.l. della dirigenza medica del S.S. N. - aveva indotto il giudice di merito ad applicare l’art. 2 comma
2 c.p., sia pure limitatamente alla posizione del medico; la Corte, nell’enunciare il principio sopra trascritto, ha posto in evidenza come anche la disposizione sopravvenuta, al pari della precedente, subordinasse
l’obbligo dell’Ente alla riferibilità ad esso del fatto del dipendente, che era esclusa in ogni caso dalla
condotta concussiva di entrambi i ricorrenti, pur restando intangibile la statuizione assolutoria del chirurgo in mancanza di ricorso del p.m.). Cass. 15 gennaio 2003, n. 10656.
In tema di abuso di ufficio (art. 323 c.p.), il principio di specialità bilaterale tra norme, cui occorre
riferirsi per risolvere i problemi di diritto intertemporale, impone di ritenere che, dopo l’entrata in vigore
dell’art. 1 L. 16 luglio 1997, n. 234, possono assumere rilevanza penale, anche se commessi in data
anteriore, soltanto gli abusi consistenti in violazione di legge o di regolamento, ovvero quelli dai quali sia
derivato un vantaggio patrimoniale o un danno (entrambi ingiusti). Cass. 26 aprile 1999, n. 8191.
In tema di abuso di ufficio, a seguito della nuova formulazione dell’art. 323 c.p. ad opera della legge
16 luglio 1997, n. 234, occorre verificare, in base all’art. 2 c.p., riguardante la successione delle leggi
penali nel tempo, se le condotte contestate all’imputato sulla base della fattispecie previgente siano tali
da integrare reato anche in base al nuovo testo del predetto articolo; e ciò tenendo presente che la nuova
fattispecie, al fine di realizzare una maggiore tipicizzazione della condotta del pubblico ufficiale, richiede
specificatamente: a) che questi abbia agito intenzionalmente in violazione di leggi o di regolamenti; b)
che essa configura ora un reato di evento, postulando che il comportamento del pubblico ufficiale abbia
determinato un ingiusto vantaggio patrimoniale per sè o per altri ovvero un danno ingiusto per altri; c)
che essa contempla la sussistenza del carattere patrimoniale del vantaggio ingiusto, mentre tale carattere, prima della novella, valeva solo a contraddistinguere l’ipotesi più grave di cui al comma secondo
dell’art. 323 c.p. previgente. Cass. 14 gennaio 1998, n. 2328.
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
2
In materia di abuso di ufficio, con riferimento alla nuova formulazione dell’art. 323 c.p. di cui alla L. n.
234 del 1997, le questioni di diritto transitorio vanno risolte facendo ricorso al principio di specialità
“bilaterale”, in quanto ciascuna delle fattispecie posta a confronto presenta elementi specializzanti. Di
conseguenza deve escludersi che assumano rilievo penale gli abusi non consistenti in violazioni di legge
o di regolamenti, ovvero dai quali non sia derivato un vantaggio patrimoniale, o un danno, ingiusti. Cass.
17 febbraio 1998, n. 4075.
In tema di abuso in atti d’ufficio, i problemi di diritto intertemporale posti dalla modifica introdotta
nell’art. 323 c.p. dalla legge 16 luglio 1997, n. 234 vanno risolti applicando il principio della specialità
reciproca dal momento che le ipotesi previste dalla nuova formulazione non necessariamente sono comprese in quella precedente. La novella infatti, contrariamente alla formulazione dell’articolo come risultante dalla precedente modifica introdotta con L. 26 aprile 1990, n. 86, riduce l’ambito della rilevanza penale
delle condotte, focalizza l’attenzione sull’elemento oggettivo e non su quello soggettivo, richiede la violazione di norma di legge o di regolamento (a parte le ipotesi di violazione dell’obbligo di astensione) e
ipotizza un reato di evento, caratterizzato però dal dolo intenzionale e non da quello specifico. Tuttavia,
in ragione del più lieve regime sanzionatorio previsto nella legge del 1997, dovrà in ogni caso applicarsi
la sanzione prevista da questa. Cass. 17 dicembre 1997, n. 2875.
In tema di abuso di ufficio, la successione di leggi nel tempo determinatasi a seguito dell’entrata in
vigore della L. 16 luglio 1997, n. 234 - che ha, tra l’altro, ridisegnato la fattispecie criminosa di cui all’art.
323 c.p. - va inquadrata nell’ambito dell’art. 2 comma 3 c.p., giacché nelle due figure di illecito previste,
rispettivamente, dal testo anteriore e da quello posteriore, è disciplinata la medesima materia dell’abuso
funzionale del pubblico ufficiale, sia pure in base a una struttura normativa che configura uno schema
comportamentale del tutto diverso. Tra le due differenti discipline, più favorevole al reo è la norma nella
formulazione introdotta con la L. n. 234 del 1997, sia per l’ampio ventaglio di situazioni oggettive escluse
dal suo ambito di operatività (condotta posta in essere in violazione di legge o di regolamento o di
espresso obbligo di astensione, conseguimento di un ingiusto vantaggio patrimoniale), sia per il più mite
trattamento sanzionatorio. Ne consegue che, per i fatti di abuso commessi prima dell’entrata in vigore
della L. n. 234 del 1997, va applicata quest’ultima nella sua interezza. (Fattispecie nella quale è stato
ritenuto sussistente il reato di abuso d’ufficio, sul rilievo della realizzazione, da parte degli imputati, di un
vantaggio di carattere patrimoniale conseguente all’assunzione di deliberazione in violazione del dovere
di astensione e di precise norme regolamentari). Cass. 24 ottobre 1997, n. 11984.
In tema di abuso di ufficio, a seguito della nuova fattispecie di cui all’art. 323 c.p. introdotta con la
legge 16 luglio 1997, n. 234, trova applicazione l’art. 2, comma terzo, c.p., secondo cui il giudice, nella
valutazione comparativa della norma abrogata e di quella nuova, disciplinanti la medesima materia dell’abuso funzionale del pubblico ufficiale, deve individuare e applicare quella più favorevole al reo, essendogli inibito di «costruire» una terza disposizione che contenga gli elementi più favorevoli dell’una e
dell’altra norma. Al riguardo, non vi è dubbio che la nuova formulazione normativa sia più favorevole al
reo, in quanto, a parte il più mite trattamento sanzionatorio, essa riduce grandemente l’area dell’illecito penale rispetto al passato, sia perché l’abuso di ufficio può commettersi ora solo attraverso più limitate condotte (violazione di legge o di regolamento o mancata astensione in caso di interesse proprio o di
un congiunto), sia perché la fattispecie è ora strutturata come un reato di evento, che si consuma solo
con la realizzazione di un ingiusto vantaggio patrimoniale dell’agente o di altri o di un danno ingiusto di
altri. Inoltre, quanto all’elemento soggettivo, non è più richiesto il dolo specifico (fine di procurare un
ingiusto vantaggio o di arrecare un ingiusto danno) ma semplicemente il dolo generico (consapevolezza
e volontà di procurare un ingiusto vantaggio o di arrecare un ingiusto danno), mentre l’espressione
«intenzionalmente» esclude che l’evento possa essere attribuito all’agente a titolo di dolo eventuale.
Cass. 22 dicembre 1997, n. 1192.
La nuova fattispecie di abuso di ufficio risultante dalla L. 15 luglio 1997, n. 234 costituisce legge più
favorevole in quanto restringe l’area dei comportamenti sanzionati alle violazioni di legge o di regolamento ovvero alle ipotesi di mancata astensione in presenza di un interesse personale; costituisce una fattispecie di reato di danno, essendo necessario il conseguimento, per sè o per altri, di un vantaggio ingiusto;
restringe l’ingiusto vantaggio a quello di natura patrimoniale; prevede un trattamento sanzionatorio più
mite, e trova pertanto applicazione anche ai fatti commessi sotto il vigore della precedente normativa.
(Fattispecie relativa ad una delibera comunale di approvazione di una gara “informale” a trattativa privata,
per la realizzazione di addobbi natalizi nelle strade comunali, intervenuta dopo che i lavori erano già stati
commissionati ed eseguiti). Cass. 18 novembre 1997, n. 11520.
Nel delitto di abuso d’ufficio derivante da violazione di legge, questa rappresenta un mero presupposto di fatto ai fini della sussistenza del reato de quo, posto che la norma violata non contribuisce a
delineare il contenuto del precetto penale e ad individuarne il relativo disvalore, con la conseguenza che
l’integrazione di tale elemento oggettivo del reato deve essere valutata con esclusivo riferimento alla
normativa extrapenale vigente all’epoca del fatto, rimanendo prive di rilevanza le sopravvenute modifiche od abrogazioni della predetta normativa (fattispecie in cui il giudicante, richiamando integralmente la
costante giurisprudenza della Corte di cassazione, ha ritenuto irrilevanti, ai fini dell’integrazione del reato
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
di cui all’art. 323 c.p., le sopravvenute modifiche normative concernenti le aree sottoposte a vincoli aeroportuali). Trib. Milano, 31 dicembre 2005.
Intervenendo in relazione al delitto di abuso d’ufficio, la L. n. 234 del 1997 non ha abrogato in modo
generale l’art. 323 c.p. e neppure si è limitata a sanzionare diversamente le ipotesi criminose in detta
norma previste. Essa è stata ispirata, infatti, dall’intento di descrivere meglio gli abusi della funzione o del
servizio suscettibili di acquisire rilievo penale, disconoscendo la valenza di certe condotte già costituenti
il reato e mantenendo la stessa, invece, rispetto ad altre. Ne consegue che, onde evitare che taluno venga
punito per un fatto non più perseguibile alla stregua della legge successiva, il giudice deve procedere ad
una valutazione comparativa tra l’ipotesi delittuosa in origine contestata e quella attuale prevista dal
legislatore, sì da poter stabilire se il fatto in precedenza commesso sia sussumibile o meno anche sotto la
nuova normativa. App. Firenze, 10 dicembre 1997.
Secondo la nuova formulazione della norma, per il configurarsi di un abuso penalmente rilevante, è
necessaria la violazione di specifiche disposizioni di legge o di regolamento, con il che resta escluso il
semplice eccesso o sviamento di potere; il requisito dell’ingiustizia del vantaggio o del danno determina
una più incisiva delimitazione della condotta punibile in quanto esclude dall’ambito della rilevanza penale
le ipotesi in cui si verifichi una perfetta coincidenza tra l’interesse pubblico e quello privato (nella specie,
si è ritenuto che la scelta degli assegnatari dei finanziamenti da erogare a beneficio dei c.d. cantieri
lavoro, previsti da una L.reg. allo scopo di incentivare la lotta alla disoccupazione, pur se operata senza
tenere conto di alcun criterio di massima, non integri il reato di abuso d’ufficio per la constatata assenza
di precise norme di legge che regolino la suddetta attività, precisando altresì che, nel caso concreto,
faceva pure difetto il requisito dell’ingiustizia del vantaggio arrecato ai beneficiari delle sovvenzioni per il
concomitante perseguimento del pubblico interesse). Trib. Palermo, 3 dicembre 1997.
31. Reati edilizi.
In tema di condono edilizio previsto dall’art. 32 del D.L. 30 settembre 2003, n. 269 (conv. con mod. in
L. 30 novembre 2003, n. 326), ove il reato sia stato accertato in data successiva al 31 marzo 2003, termine
utile ai fini della condonabilità dell’opera, è onere dell’imputato che invoca l’applicazione della speciale
causa estintiva provare che l’opera sia stata ultimata entro il predetto termine, fermo restando il potere dovere del giudice di accertare la data effettiva del completamento dell’opera abusivamente eseguita.
Cass. 20 febbraio 2008, n. 12918.
In tema di reati edilizi ed urbanistici, il diverso assetto sistematico delle norme contenute nell’attuale Titolo IV D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, il cui Capo I non contiene le norme sulle sanzioni, prima
contenute nel corrispondente Capo I della L. 28 febbraio 1985, n. 47, non comporta alcuna depenalizzazione delle condotte le cui sanzioni sono contenute nel Capo II del nuovo decreto (art. 44). Cass. 4
dicembre 2007, n. 4527.
L’entrata in vigore dell’art. 1, comma sesto, legge 21 dicembre 2001, n. 443, poi superato, a far data
dal 30 giugno 2003, dall’analogo disposto dell’art. 22 D.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. dell’edilizia), ha consentito la effettuazione, previa semplice denuncia di inizio di attività in alternativa a concessioni e autorizzazioni edilizie, a scelta dell’interessato, delle ristrutturazioni comprensive di demolizione e ricostruzione
con la stessa volumetria e sagoma, ma non ha sottratto al regime concessorio le opere di ristrutturazione
di un preesistente fabbricato che abbiano comportato la modificazione dei prospetti. Queste ultime integrano il reato in caso di mancato conseguimento della concessione edilizia, ai sensi dell’art. 44 comma
primo, lett. b) D.P.R. n. 380 del 2001, e, se relative a fatti antecedenti all’entrata in vigore del T.U. dell’edilizia, sono punibili, ex art. 2, comma terzo, c.p., in base alle sanzioni poste dalla legge n. 47 del 1985, più
favorevole. (In motivazione la Corte ha specificato che gli interventi di ristrutturazione edilizia, come
definiti dall’art. 31 lett. d) legge 5 agosto 1978, n. 457, qualora abbiano comportato la modificazione dei
prospetti, non sono stati sottratti al regime concessorio a differenza di quanto verificatosi, per effetto
degli artt. 48 legge n. 457 cit. e 7 D.L. 23 gennaio 1982, n. 9, per le opere di manutenzione straordinaria di
cui alla precedente lett. b), degli interventi di restauro e risanamento conservativo di cui alla lett. c),
nonchè delle opere interne, assoggettate, dall’art. 26 legge n. 47 del 1985 e 4 D.L. 5 ottobre 1993, n. 398
e successive modifiche, alla sola denuncia di inizio attività purchè non comportassero modifiche dei
prospetti). Cass. 26 aprile 2005, n. 23668.
In tema di paesaggio, la disposizione di cui all’art. 181, comma primo ter, del D.Lgs. 22 gennaio
2004, n. 41, introdotta dall’art. 1, comma terzo lett. c), della legge 15 dicembre 2004, n. 308, ai sensi del
quale le sanzioni penali previste dal comma primo dello stesso art. 181 non si applicano qualora l’autorità amministrativa accerti la compatibilità paesaggistica di quanto realizzato, si applica, in presenza
delle condizioni prescritte, anche ai fatti pregressi, ai sensi dell’art. 2, comma secondo, c.p. Cass. 12
aprile 2005, n. 18205.
In tema di reati edilizi, la breve vigenza - dal 1 al 9 gennaio 2002 del T.U. delle disposizioni legislative
e regolamentari, introdotto con D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, la cui entrata in vigore è stata differita dalla
legge 31 dicembre 2001, n. 463, pubblicata in G.U. il 9 gennaio 2002 salvi poi gli ulteriori riferimenti - non
comporta l’abrogazione definitiva del reato previsto dall’art. 20 della legge n. 47/1985 in quanto, nel testo
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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unico, tale abrogazione è coessenziale all’introduzione della nuova fattispecie incriminatrice (art. 44 del
T.U.) e finché l’efficacia della nuova norma resta sospesa rivive la disposizione previgente. Cass. 27 marzo
2003. n. 22943.
Costituisce una successione di disposizioni integratrici della norma penale (art. 20, lett. b), della legge
n. 47 del 1985), rilevante ai sensi dell’art. 2 c.p., il mutamento della disciplina relativa alla costruzione di
parcheggi in area pertinenziale esterna ad un fabbricato (art. 17, comma 90, della legge n. 127 del 1997)
che esclude la necessità della concessione per siffatte opere. Cass. 25 maggio 2000, n. 9893.
32. Reati sessuali.
Le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione,
non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive
della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e pertanto (in assenza di una specifica
disciplina transitoria), soggiacciono al principio “tempus regit actum”, e non alle regole dettate in materia
di successione di norme penali nel tempo dall’art. 2 c.p., e dall’art. 25 della Costituzione. (In applicazione
di tale principio, le Sez. Un. hanno ritenuto che, in un caso in cui vi era stata condanna per il delitto di
violenza sessuale, la sopravvenuta inclusione di tale delitto, per effetto dell’art. 15 della legge 6 febbraio
2006, n. 38, tra quelli previsti dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario in quanto tali, e non più soltanto come reati-fine di un’associazione per delinquere, comportasse l’operatività, altrimenti esclusa, del
divieto della sospensione dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 656, comma nono lett. a), c.p.p., non essendo
ancora esaurito il relativo procedimento esecutivo al momento dell’entrata in vigore della novella legislativa). (Annulla senza rinvio, Trib. Trento, 12 marzo 2005). Cass., Sez. Un., 30 maggio 2006, n. 24561.
La circostanza aggravante del delitto di omicidio prevista dall’art. 576 comma 1, n. 5 c.p. (avere posto
in essere il fatto nell’atto di commettere taluno dei delitti previsti dagli art. 519, 520 e 521, che contemplavano, rispettivamente, la violenza carnale, la congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di pubblico ufficiale e gli atti di libidine violenti) è configurabile con riferimento a tutti i delitti di violenza sessuale di
cui agli art. 609 bis e ss. c.p., come introdotti dalla L. 15 febbraio 1996, n. 66 (recante norme contro la
violenza sessuale), a nulla rilevando che tale legge abbia disposto l’espressa abrogazione dei citati art. 519,
520 e 521 c.p., in quanto il richiamo a questi ultimi nell’art. 576 rientra nella figura del rinvio formale e non di
quello recettizio, sicché tale abrogazione non ha comportato una “abolitio criminis”, ma solo un ordinario
fenomeno di successione di leggi penali incriminatrici nel tempo e il mancato adeguamento della formulazione di quest’ultima norma è ascrivibile a mero difetto di coordinamento legislativo. (Fattispecie concernente il delitto di violenza sessuale di gruppo di cui all’art. 609 octies c.p., con riferimento al quale la Corte,
dopo avere argomentatamente escluso che la sua autonoma configurazione di figura delittuosa plurisoggettiva e a concorso necessario lo ponga in rapporto di discontinuità con la normativa previgente, ha ritenuto la sua piena sovrapponibilità alle ipotesi criminose già previste dagli art. 110 e 519-521 c.p., queste ultime
unificate nel nuovo art. 609 bis stesso codice). Cass. 28 gennaio 2005, n. 6775.
In tema di procedibilità di ufficio per reati sessuali commessi da pubblico ufficiale (o incaricato di
pubblico servizio), l’art. 609septies c.p., a differenza dell’abrogato art. 542 c.p. per il quale era sufficiente
la qualifica soggettiva, richiede che il fatto sia perpetrato nell’esercizio delle proprie funzioni. Tale configurazione è indipendente e priva di connessione con l’aggravante di cui all’art. 61, n. 9 stesso codice
(commissione del fatto con abuso dei poteri o violazione dei doveri propri della funzione) che può contestualmente sussistere o meno. Pertanto, nel giudizio di rinvio dopo annullamento da parte della Suprema Corte, la valutazione circa la ricorrenza nel caso di specie della contestualità dell’esercizio delle pubbliche funzioni non è preclusa dal passaggio in giudicato del punto relativo alla esclusione dell’aggravante anzidetta, atteso che la preclusione derivante dall’effetto devolutivo dell’appello (nella specie interposto dal solo imputato) concerne esclusivamente i punti della sentenza e cioè le statuizioni autonome
della decisione, contenuti nel dispositivo, e non gli elementi logico-argomentativi prospettati in motivazione. (Nella specie la Corte di Cassazione ha ritenuto irrilevante che il giudice di primo grado, ritenendo
la procedibilità di ufficio ex art. 542 all’epoca vigente ed escludendo, con statuizione sul punto non impugnata, l’aggravante del 61, n. 9, avesse accennato al fatto che l’agente al momento del fatto non era più in
servizio). Cass. 30 maggio 2000, n. 8029.
Diviene improcedibile per mancanza di querela l’azione promossa nei confronti di un sergente maggiore dell’esercito che compia atti di libidine nei confronti di militari a lui subordinati all’interno della
caserma se, pur vivendo in caserma, sia in licenza di convalescenza perché temporaneamente inidoneo
al servizio al momento del fatto poiché, per la procedibilità d’ufficio, ora la legge richiede non solo che
l’atto sia compiuto da un pubblico ufficiale, ma che questi sia «nell’esercizio delle sue funzioni» secondo quanto previsto dall’art. 609septies comma 4, punto 3, c.p. Cass. 12 marzo 1997, n. 3850.
Nel caso in cui la pena per il delitto - nella specie ritenuto tentato - di atti di libidine violenti, di cui
all’art. 521 c.p., non sia stata fissata nei limiti minimi, non viene in discussione l’applicazione della legge
15 febbraio 1996, n. 66 (Norme contro la violenza sessuale): in tal caso il raffronto tra la normativa abrogata e quella sopravvenuta deve essere risolto nell’applicare la disposizione del 1930, che, con riferimento ai massimi edittali irrogabili, è più favorevole. Cass. 23 gennaio 1997, n. 2074.
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
Se la congiunzione carnale avvenuta prima dell’entrata in vigore della legge 15 febbraio 1996, n. 66
si sia verificata con persona malata di mente (nella specie: schizofrenica) oppure menomata psichicamente o fisicamente mediante induzione all’atto sessuale del soggetto passivo con abuso della condizione d’inferiorità, deve considerarsi più favorevole la norma attuale di cui all’art. 609bis c.p. rispetto al
previgente art. 519 c.p., poiché essa ha introdotto elementi di qualificazione della condotta (induzione ed
abuso) non previsti dalla precedente disciplina con la quale era presunta in via assoluta la colpevolezza di
chi si congiungeva con malato di mente o in stato di menomazione. Se, invece, non siano ravvisabili i
predetti elementi introdotti dall’art. 609bis c.p. (induzione ed abuso) è applicabile la previgente normativa, poiché il principio del favor rei di cui all’art. 2 c.p. è applicabile con riferimento alle diverse discipline
che si succedono nel tempo intese nel complesso di ciascuna di esse, senza che possa tenersi conto di
singole disposizioni più vantaggiose in ciascuna contenute. Cass. 3 dicembre 1997, n. 4114.
Il regime di procedibilità d’ufficio per i reati di violenza sessuale previsto dall’art. 609 septies c.p.,
introdotto dalla L. 15 febbraio 1996, n. 66, non può produrre effetti sui fatti commessi prima della sua
entrata in vigore. Il problema dell’applicabilità dell’art. 2 c.p., in caso di mutamento del regime della
procedibilità a querela, va positivamente risolto alla luce della natura mista, sostanziale e processuale, di
tale istituto, che costituisce nel contempo condizione di procedibilità e punibilità. Infatti, il principio dell’applicazione della norma più favorevole al reo opera non soltanto al fine di individuare la norma di diritto
sostanziale applicabile al caso concreto, ma anche in ordine al regime della procedibilità che inerisce alla
fattispecie dato che è inscindibilmente legata al fatto come qualificato dal diritto, specie quando il legislatore in una determinata materia modifichi profondamente fattispecie, pene, denominazione dei delitti,
come è avvenuto in quella dei reati di violenza sessuale, sottratti all’area della moralità pubblica e concepiti come reati contro la persona. (Nella specie, relativa a rigetto di ricorso del p.m. avverso rigetto di
appello contro diniego di applicazione di custodia cautelare in carcere, la S.C. ha osservato altresì che la
rilevante portata dell’intervento innovativo e la mancanza di norme transitorie, certamente non dovuta a
disattenzione, denotano inequivocabilmente che si è voluto dare alla normativa, che ha introdotto un
regime di maggiore afflittività per chi commette abusi sessuali, operatività con esclusivo riferimento a
condotte poste in essere dopo la sua entrata in vigore, sicché il peggioramento del regime di procedibilità
per talune ipotesi di reato non può produrre effetti su preesistenti situazioni la cui perseguibilità e punibilità erano rimesse alla volontà della persona offesa dal reato). Cass. 8 luglio 1997, n. 2733.
Il reato di ratto a fine di libidine non è stato depenalizzato dalle disposizioni della L. 15 febbraio 1996,
n. 88 (Norme contro la violenza sessuale), ma le condotte da esso previste sono sussumibili nella fattispecie prevista dall’art. 605 c.p., da ritenersi normativa meno sfavorevole, per gli effetti di cui all’art. 2 c.p., in
caso di irrogazione di una sanzione superiore al minimo edittale. Cass. 28 maggio 1996, n. 8907.
In tema di atti di violenza sessuale in danno di minori, non può ritenersi più favorevole al reo la
disciplina introdotta con l’art. 4 legge 15 febbraio 1996, n. 66 rispetto a quella di cui al previgente art. 521
c.p. se la pena inflitta in concreto non è quella minima prevista da quest’ultima norma, mentre è tale (più
favorevole al reo) se la pena sia stata inflitta nel minimo edittale, potendo essere ritenuta prevalente, ove
applicabile, l’attenuante della minore gravità di cui all’art. 609bis c.p. introdotto con l’art. 3 legge 15
febbraio 1996, n. 66. (Questione esaminata d’ufficio in occasione di dichiarazione di inammissibilità del
ricorso dell’imputato). Cass. 10 giugno 1996, n. 2561.
La fattispecie di reato di atti di libidine violenti, di cui all’art. 521 c.p., contestata in danno di minore
degli anni quattordici, è ora regolata dagli artt. 3 e 4 legge 15 febbraio 1996, n. 66, che ha rispettivamente
introdotto gli artt. 609bis e 609ter c.p., con i quali le ipotesi di violenza carnale e di atti di libidine sono stati
unificati in un’unica figura di reato: più precisamente detta fattispecie è regolata dal combinato disposto
di cui agli artt. 609bis e 609ter, n. 1 (violenza sessuale aggravata nei confronti di persona che non ha
compiuto gli anni quattordici). Poiché il trattamento sanzionatorio per la nuova figura di reato è molto più
grave (reclusione da sei a dodici anni, a fronte di una reclusione da due a sei anni e otto mesi), a norma
del terzo comma dell’art. 2 c.p. si deve applicare la disposizione più favorevole dell’art. 521 c.p. ora
abrogata. Analogamente per la fattispecie di cui all’art. 519, secondo comma, n. 2 c.p. - congiunzione
carnale abusiva contro minore degli anni sedici - che è ora regolata dall’art. 609bis, n. 1 c.p.: poiché la
pena edittale prevista da quest’ultima norma è più grave di quella prevista dalla norma precedente (reclusione da cinque a dieci anni, a fronte di una reclusione da tre a dieci anni), ai sensi del predetto terzo
comma dell’art. 2 c.p., si deve applicare quella ora abrogata dell’art. 519 c.p. (La S.C. ha osservato che per
entrambe le fattispecie il trattamento sanzionatorio previsto dalla legge n. 66 del 1996 diverrebbe più
favorevole solo nel caso - non ricorrente nella specie - in cui il giudice ritenesse i fatti di «minore gravità»,
essendo allora applicabile una diminuzione sino a due terzi della pena base (ultimo comma dell’art. 609
bis c.p.). Cass. 19 giugno 1996, n. 8564.
In tema di reato di corruzione di minorenne, secondo l’art. 609 quinquies c.p., introdotto dall’art. 6 L.
15 febbraio 1996, n. 66 (Norme contro la violenza sessuale), è punito “chiunque compie atti sessuali in
presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla assistere”: scompare, quindi, dalla previsione normativa della nuova corruzione di minorenne, la precedente ipotesi degli atti di libidine commessi su persona minore degli anni sedici. Quando il minorenne non fa semplicemente da spettatore, ma egli
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
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stesso è destinatario delle attenzioni dell’agente, e cioè subisce gli atti sessuali, non si potrà più ipotizzare
il delitto di “corruzione di minorenne”, ma la diversa figura criminosa prevista dall’art. 609 quater (Atti
sessuali con minorenne), sempre che ne sussistano le condizioni, e cioè che il minore non abbia compiuto gli anni quattordici oppure che egli, avendoli compiuti, ma non essendo ancora sedicenne, sia legato
da un particolare vincolo (di parentela o di familiarità) all’agente. (Nella specie, relativa ad annullamento
senza rinvio perché il fatto contestato sub art. 530 c.p. non è previsto dalla legge come reato, la S.C. ha
osservato che la minorenne aveva quindici anni all’epoca dei fatti e nessun rapporto tra quelli indicati
dall’art. 609 quater, comma 1, n. 2, c.p. - la legava all’imputato, per cui il comportamento a questi addebitato, e cioè di essersi congiunto carnalmente con lei - non ricorrendo ipotesi di violenza sessuale, in
quanto la stessa era consenziente - deve considerarsi decriminalizzato, non essendo più previsto dalla
legge come reato, poiché, in assenza di norme transitorie, deve applicarsi il disposto dell’art. 2, comma 2,
c.p., che stabilisce il principio dell’effetto retroattivo dell’”abolitio criminis” ovvero della non ultrattività
della norma incriminatrice). Cass. 29 ottobre 1996, n. 1032.
33. Oltraggio a pubblico ufficiale.
L’art. 18 della legge 25 giugno 1999, n. 205, abrogando l’art. 341 c.p., ha dato luogo ad una vera e
propria abolitio criminis, nel senso che il fatto costituente il reato di oltraggio non è più previsto dalla
legge come reato, dovendosi escludere che il bene giuridico già protetto dalla norma abrogata sia lo
stesso che continua a trovare protezione nella perdurante vigenza delle norme penali che puniscono
l’ingiuria e la minaccia, ancorché aggravate dalla circostanza di cui all’art. 61, n. 10 c.p.; ipotesi di reato,
queste, rispetto alle quali l’oltraggio a pubblico ufficiale andava considerato come fattispecie assorbente
e non speciale. Rimane quindi esclusa l’operatività della disciplina dettata, per il caso della successione di
leggi penali, dall’art. 2, comma terzo, c.p., dovendo invece trovare applicazione il disposto di cui al precedente comma secondo del medesimo articolo, relativo appunto al caso della sopravvenuta abolitio criminis; il che si traduce, in sede esecutiva, nella necessità di dar luogo alla revoca della sentenza definitiva di
condanna, ai sensi dell’art. 673 c.p.p. Cass. 10 marzo 2000, n. 1803.
A seguito della entrata in vigore dell’art. 18 della legge 25 giugno 1999, n. 205, che ha espressamente abrogato l’art. 341 c.p., qualora il procedimento penda davanti alla Corte di cassazione, deve
essere annullata la sentenza di condanna per tale reato, in applicazione dei principi della successione
della legge penale nel tempo. Peraltro, considerata la natura di reato composto in senso lato del reato di
oltraggio, il fatto residuo va qualificato come minaccia aggravata dalla qualità di pubblico ufficiale - ex art.
61, n. 10, c.p. - della persona offesa dal reato, e, così modificata l’originaria imputazione, l’annullamento
deve essere pronunciato senza rinvio per improcedibilità dell’azione penale per mancanza di querela,
ove questa non sia stata proposta. Cass. 26 novembre 1999, n. 3946.
Poiché il delitto di oltraggio è stato abolito dall’art 18 della legge 25 giugno 1999, n. 205 e poiché esso
tutelava alternativamente il prestigio o l’onore del pubblico ufficiale, la sua abrogazione non rende applicabile l’ipotesi criminosa ex art 594 c.p. (ingiuria), la quale viceversa tutela l’onore e il decoro della persona offesa. Invero, le due fattispecie criminose non sono legate dal mero principio di specialità, dovendosi
piuttosto parlare di assorbimento del reato di ingiuria in quello di oltraggio (dal momento che il reato
assorbente, pur regolando fatti altrimenti previsti da una fattispecie astratta affine più generica, prevede
però, anche fatti non punibili in base alla seconda norma); nel caso di specie, pertanto, la abrogatio
criminis non dà luogo ad una ipotesi di successione di leggi nel tempo. Cass. 14 ottobre 1999, n. 13349.
In tema di oltraggio a pubblico ufficiale, a seguito dell’abolitio criminis di cui all’art. 18 della legge 25
giugno 1999, n. 205, il fatto, originariamente qualificato come oltraggio a norma dell’art. 341 c.p., può
eventualmente essere nuovamente qualificato come ingiuria o minaccia, a norma degli artt. 594 e 612
c.p. In tale ipotesi, tuttavia, in mancanza di querela, non può essere fatta applicazione dell’art. 19 della
predetta legge, che prevede una sorta di riapertura dei termini per la sua proposizione, con interpello
della persona offesa, poiché tale disposizione si riferisce esclusivamente ai reati, come il furto semplice,
originariamente perseguibili di ufficio e divenuti perseguibili a querela in forza della stessa legge, e non,
quindi, al reato di oltraggio, che è stato invece abrogato. Ne consegue che, nel giudizio di cassazione, la
sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché l’azione penale non può essere proseguita per
mancanza di querela. Cass. 13 luglio 1999, n. 11518.
34. Reati finanziari e tributari.
In tema di riforma dei reati tributari, di cui al D.Lgs. n. 74/00, le ipotesi di dichiarazione fraudolenta
con l’indicazione di elementi passivi fittizi inferiore a trecento milioni delle vecchie lire e quella di emissione di fatture false sempre per lo stesso importo, sono reati autonomi e non circostanze attenuanti ad
effetto speciale; pertanto alle condotte delittuose che li integrano, pur se commesse sotto il vigore della
vecchia normativa, si applicherà la nuova legge perché più favorevole in concreto al reo. Cass. 6 marzo
2008, n. 23064.
In tema di reati tributari, non è più soggetta a sanzione la condotta consistente nella sottrazione
all’imposta di consumo di oli lubrificanti non destinati ad essere utilizzati come carburanti o combustibili,
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
prima prevista come reato dall’art. 40, D.Lgs. 26 ottobre 1995, n. 504, in quanto tale imposta è stata
soppressa dall’art. 6, comma primo, D.L. 28 dicembre 2001, n. 452 (conv.con mod., in L. 27 febbraio 2002,
n. 16), con espressa abrogazione delle “relative sanzioni penali ed amministrative”. (In motivazione la
Corte, nell’enunciare il predetto principio, ha ulteriormente affermato che l’imposta in questione non è
stata sostituita dal cosiddetto contributo di riciclaggio e risanamento ambientale, in quanto si tratta di
imposte di natura diversa). Cass. 18 dicembre 2007, n. 5795.
In tema di reati tributari, non sussiste continuità normativa tra il reato di utilizzazione di costi fittizi in
dichiarazione (prima previsto dall’art. 4, lett. f), del D.L. 10 luglio 1982, n. 516, conv., con mod., in Legge 7
agosto 1982, n. 516) e la nuova fattispecie di dichiarazione fraudolenta (oggi prevista dall’art. 2, D.Lgs. 10
marzo 2000, n. 74) ove le fatture per operazioni inesistenti siano utilizzate in sede di dichiarazione annuale
IVA, in quanto l’abrogata fattispecie puniva unicamente le condotte aventi ad oggetto la dichiarazione dei
redditi e non anche la dichiarazione IVA (Conforme: 30 settembre 2004, Rizzoli, non massimata; Contra:
8 marzo 2002, n. 15210 e 4 febbraio 2002, Pisciotta, non massimate). Cass. 25 ottobre 2007, n. 1996.
L’abolizione delle barriere doganali, dovuta alla creazione a far data dal 1º gennaio 1993 del mercato
unico europeo, non ha fatto venir meno la punibilità delle condotte di contrabbando commesse anteriormente, permanendo comunque il debito derivante dall’obbligazione tributaria già evasa. (Fattispecie in
tema di evasione dell’IVA all’importazione di metalli non ferrosi destinati al mercato nazionale). Cass. 11
maggio 2006, n. 21197.
In virtù dell’abrogazione (ad opera dell’art. 7, comma 3, L. 19 marzo 2001, n. 92), dell’art. 2 L. n. 50 del
1994 - il quale prevedeva come reato l’introduzione, la detenzione e la messa in vendita in misura superiore ai 15 Kg. di tabacco lavorato estero, costituente una fattispecie autonoma di reato e non una circostanza aggravante del reato di contrabbando di cui all’art. 282 D.P.R. n. 43 del 1973; e dell’introduzione, ex
art. 1, comma 1, lett. a) L. n. 92 del 2001 nel testo del D.P.R. n. 43 del 1973, dell’art. 291 bis, che sanziona
le condotte di contrabbando di t.l.e. aventi ad oggetto quantitativi superiori a Kg. 10 con la multa e la
reclusione, si è determinata una successione di norme meramente modificativa. Ne consegue l’applicabilità, per i fatti di reato commessi anteriormente alla vigenza della nuova normativa, del trattamento sanzionatorio previsto dalla normativa previgente in quanto più favorevole ex art. 2, comma 3, c.p. Cass. 6
febbraio 2003, n. 14456.
Ricorre il concorso tra il reato di contrabbando doganale generico e quello di contrabbando di
tabacco lavorato estero punito dall’art. 2 della L. 18 gennaio 1994, n. 50, laddove tale norma - sebbene
abrogata dall’art. 7, comma 3 della legge 19 marzo 2001, n. 92 - sia applicabile nella fase transitoria in
quanto norma più favorevole (art. 2, comma terzo c.p.) giacché, mentre a fronte dell’inasprimento delle
pene introdotto con la novella legislativa, non è più configurabile il concorso tra i due reati, l’individuazione del sistema sanzionatorio più favorevole ne comporta l’applicazione integrale, esclusa ogni possibilità di commistione di elementi favorevoli di norme vigenti e di norme abrogate. Cass. 27 marzo
2003, n. 22945.
Sussiste l’abolitio criminis del reato di contrabbando doganale (art. 282 D.P.R. n. 43 del 1973) consistente nell’omissione del pagamento del dazio ad valorem del 6% gravante sull’alluminio in pani proveniente dalla Repubblica Federale Yugoslavia in virtù della sopravvenienza del regolamento comunitario,
n. 2007 del 2000, integrato e modificato dal regolamento, n. 2563 del 2000 che ha sottratto tale merce ai
diritti di confine sulla stessa gravanti, in quanto le norme impositive del dazio costituiscono norme extrapenali integratrici del precetto penale ed, in quanto tali, rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 2
c.p. Cass. 4 febbraio 2003, n. 14329.
Vi è piena continuità normativa, ai sensi dell’art. 2, comma 3, c.p., tra l’ipotesi di emissione o utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, di cui all’art. 4, comma 1, lett. d), L. n. 516 del 1982 di conversione del D.L. n. 429 del 1982 e l’ipotesi di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti di
cui all’art. 8 D.Lgs. n. 74 del 2000. L’emissione di fatture per operazioni inesistenti, finalizzata all’evasione
fiscale da parte dei terzi, di cui alla disposizione attualmente vigente, non richiede, infatti, ai fini della
configurabilità del reato, in modo analogo alla previsione della norma abrogata, l’effettiva indicazione
degli elementi fittizi in una delle dichiarazioni annuali, che riguarda, invece, la diversa ipotesi di utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. L’applicazione del comma 3 dell’art. 8 per determinare la pena da infliggere all’imputato è perfettamente coerente con il principio del “favor rei” di cui
all’art. 2, comma 3, c.p., trattandosi di disposizione più favorevole al reo, in considerazione dell’importo
della fattura emessa che è inferiore a lire 300 milioni. Cass. 21 febbraio 2002, n. 14287.
In tema di reati doganali, l’art. 562, lett. e) del regolamento CEE del 4 maggio 2001, n. 993, che ha
esteso a 18 mesi il periodo di tempo durante il quale le imbarcazioni da diporto iscritte nei registri navali
dei paesi, non facenti parte della Comunità Europea, possono restare nel territorio doganale comunitario
una volta ammesse all’istituto della temporanea importazione per uso privato, previsto dalla Convenzione di Ginevra del 18 maggio 1956, ratificata e resa esecutiva con legge 3 novembre 1961, n. 1553, è
norma integratrice di un elemento normativo della fattispecie di cui all’art. 216 T.U. n. 43 del 1973, la cui
modifica non può essere sottratta all’applicazione del principio della successione delle leggi penali posto
dall’art. 2 c.p. Cass. 26 giugno 2002, n. 33934.
– 100 –
TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
2
In tema di contrabbando di tabacco lavorato estero, l’intervenuta abrogazione, disposta dall’art. 7,
comma 3, della legge 19 marzo 2001, n. 92, dell’art. 2 della legge 18 gennaio 1994, n. 50 (che prevedeva
come reato punibile con la reclusione da uno a quattro anni il contrabbando di tabacco lavorato estero in
quantità superiore ai 15 chilogrammi), non incide sulla persistente applicabilità di detta norma incriminatrice per i fatti commessi durante la sua vigenza, atteso che la stessa legge n. 92 del 2001 ha introdotto, in
sua sostituzione, disposizioni più articolate nell’individuazione delle fattispecie e più severe nel trattamento sanzionatorio quali, in particolare, quelle di cui agli artt. 291 bis e 291 ter del T.U. delle disposizioni
doganali approvato con D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43. Cass. 20 marzo 2002, n. 17712.
Per stabilire quale sia la disciplina più favorevole al reo tra la fattispecie di cui all’art. 4, lett. f), L. n. 516
del 1982 e quella di cui all’art. 8 D.Lgs. n. 74 del 2000, occorre considerare l’insieme delle disposizioni
contenute nei due testi di legge ed applicare nel suo complesso, l’uno o l’altro provvedimento legislativo,
visto che l’art. 2, comma 3 c.p. fa riferimento alla legge più favorevole, senza che sia concesso applicare
parte dell’una e parte dell’altra disposizione. Cass. 19 settembre 2001, n. 37833.
Le violazioni tributarie a monte della dichiarazione (omesse fatturazioni o annotazioni in contabilità
di corrispettivi ovvero annotazioni nelle scritture contabili di fatture con corrispettivi superiori a quelli
reali, ossia di spese o altri componenti negativi di reddito in misura diversa da quell’effettiva utilizzando
documenti attestanti fatti materiali non corrispondenti al vero) già incriminate dalla L. n. 516 del 1982,
attualmente non costituiscono più reato e non possono più essere perseguite ai sensi dell’art. 2 comma
2 c.p. Si tratta, pertanto, di condotte meramente prodromiche o strumentali rispetto alla fraudolenta
indicazione di elementi passivi fittizi in dichiarazione, che non sono più, di per sè, penalmente rilevanti,
le quali non possono essere ricondotte nella previsione della più recente disposizione incriminatrice
che individua nella presentazione della dichiarazione annuale la condotta tipica della fattispecie ed il
momento in cui si verifica la lesione dell’interesse erariale all’integrale riscossione delle imposte. Cass.
30 ottobre 2001, n. 1146.
Sussiste continuità normativa tra l’ipotesi di frode fiscale commessa mediante l’utilizzazione di fatture
relative a operazioni inesistenti di cui all’art. 4 comma 1 lett. d) L. n. 516/82 e la nuova fattispecie criminosa di “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” prevista dall’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000, purché sia comprovato che l’utilizzazione dei documenti in questione sia
effettivamente servita di supporto per la alterazione del risultato finale della dichiarazione dei redditi,
derivandone che la condotta, ancorché commessa nella vigenza della precedente normativa, non ha
perso la sua connotazione di illiceità penale e viene quindi assoggettata a sanzione secondo quanto
stabilito dall’art. 2 c.p., nè può rilevare che nella imputazione all’epoca contestata non fosse stato fatto
espresso riferimento alla circostanza della indicazione degli elementi fittizi nella dichiarazione dei redditi,
non importando una tale omissione la violazione del principio di corrispondenza tra imputazione contestata e sentenza. Cass. 27 aprile 2000, n. 6228.
In tema di violazioni tributarie, le condotte di omessa o irregolare tenuta o conservazione delle
scritture contabili, già previste come reato dall’art. 1, comma 6, D.L. 10 luglio 1982, n. 429, convertito con
L. 7 agosto 1982, n. 516, a seguito dell’abrogazione di tale disposizione ad opera dell’art. 25 D.Lgs. 10
marzo 2000, n. 74, non assumono più, di per sé, alcun rilievo penale, non trovando esse corrispondenza
in nessuna delle nuove ipotesi criminose introdotte con il medesimo D.Lgs. n. 74/2000. Cass., Sez. Un.,
13 dicembre 2000, n. 35.
In tema di reati fiscali, in seguito all’introduzione della nuova ipotesi criminosa di dichiarazione fraudolenta ad opera dell’art. 2 D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 ed all’abolitio criminis disposta dal successivo art. 25,
le condotte di utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, già punite dall’art. 4, lett.
d), D.L. 10 luglio 1982, n. 429, convertito il L. 7 agosto 1982, n. 516, in quanto meramente prodromiche o
strumentali rispetto alla fraudolenta indicazione di elementi passivi fittizi in una delle dichiarazioni annuali
relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto non sono più, di per sé, penalmente rilevanti, non
potendo in alcun modo essere ricondotte nella previsione della più recente disposizione incriminatrice che
individua nella presentazione della dichiarazione annuale la condotta tipica della fattispecie ed il momento
in cui si verifica la lesione dell’interesse erariale all’integrale riscossione delle imposte; tuttavia, qualora i
dati delle fatture o degli altri documenti per operazioni inesistenti siano stati recepiti dal contribuente nella
dichiarazione annuale dei redditi, della quale costituiscano il supporto fraudolento per la mendace indicazione di componenti negativi in misura diversa da quella effettiva, tale condotta già sanzionata dall’art. 4,
lett. f), D.L. 10 luglio 1982, n. 429, convertito il L. 7 agosto 1982, n. 516 rimane interamente compresa nella
nuova ipotesi criminosa e conserva, pertanto, rilievo penale, con l’ulteriore conseguenza che, in applicazione della disciplina sulla successione di leggi penali nel tempo di cui al terzo comma dell’art. 2 c.p., il trattamento sanzionatorio per i fatti anteriormente commessi deve essere individuato in quello più favorevole al
reo. (Nell’occasione la Corte ha precisato che la previsione di cui all’art. 4, lett. f), D.L. 10 luglio 1982, n. 429,
convertito il L. 7 agosto 1982, n. 516 si atteggia come lex mitior rispetto a quella di cui all’art. 2, comma 1,
D.Lgs. n. 74 del 2000 sotto il profilo dell’entità della sanzione e del termine prescrizionale, a meno che non
ricorra l’ipotesi attenuata di cui al successivo comma 3 del medesimo articolo). Cass., Sez. Un., 7 novembre
2000, n. 27; conforme Cass. 10 dicembre 2004, n. 1994.
– 101 –
2
LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
L’ipotesi criminosa di cui all’art. 1, comma 1, della legge 516 del 1982 (omessa presentazione della
dichiarazione annuale al fisco) non risulta trasfusa nella previsione dall’art. 5 del D.Lgs. n. 74 del 2000,
con conseguente assenza di rilievo penale, atteso che quest’ultima disposizione contempla ora un delitto i cui elementi costitutivi sono dati dal dolo specifico, consistente nel fine di evadere le imposte, e dalla
volizione, da parte dell’agente, di una evasione dell’imposta superiore a lire centocinquanta milioni, che
postulano la contestazione di un fatto materiale (danno per l’erario superiore a 150 milioni)non compreso
nella precedente fattispecie. Cass. 5 luglio 2000, n. 10346.
In tema di reati tributari, l’omessa presentazione da parte di chi vi sia obbligato di una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, pur continuando ad essere prevista
come reato dall’art. 5 D.Lgs. n. 74/2000, non può ritenersi in rapporto di continuità normativa con l’abrogato art. 1 D.L. 10 luglio 1982, n. 429, poi conv. con L. 7 agosto 1982, n. 516, in quanto diversa è la
configurazione giuridica tra le due norme incriminatrici, la più recente delle quali è formulata come delitto
a dolo specifico a differenza di quella abrogata, formulata come ipotesi contravvenzionale. Ne consegue
che se il fatto contestato risale all’epoca della vigenza della precedente normativa, stante l’avvenuta
abrogazione del principio di ultrattività delle disposizioni penali delle leggi finanziarie ad opera dell’art. 24
D.Lgs. n. 507/1999, il giudice deve concludere nel senso che il fatto non è più previsto dalla legge come
reato. Trib. Benevento, 9 maggio 2006, n. 313.
Poiché la prescrizione dei reati ha natura sostanziale, le norme che ne regolano la durata e ne fissano
la decorrenza sono soggette alla disciplina dell’art. 2 comma 3 c.p. Ne consegue che anche per stabilire
se debba applicarsi la prescrizione “tributaria” disciplinata dalla L. n. 516 del 1982 o quella ordinaria,
come imposta dalla riforma del 2000 il giudice dovrà applicare quella che è in concreto la disciplina più
favorevole al reo. Anche per i reati di frode fiscale e di emissione di fatture per operazioni inesistenti,
commessi anteriormente all’entrata in vigore del decreto di riforma va applicata la prescrizione prevista
dall’art. 157 c.p. in tutte le ipotesi in cui realizzi una ipotesi più favorevole rispetto a quella prevista dall’abrogato art. 9 L. n. 516 del 1982. Trib. Trani, 22 gennaio 2002.
L’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, che integrava il delitto di frode fiscale previsto
dall’art. 4 comma 1 lett. d) L. 7 agosto 1982, n. 516 e successive modificazioni, ha perso rilevanza penale
in seguito all’entrata in vigore del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, recante la nuova disciplina dei reati tributari, configurandosi come attività strumentale e prodromica non più punibile di per sè, neppure a titolo di
tentativo, ancorché finalizzata alla realizzazione dell’illecito costituito dalla presentazione di una dichiarazione fraudolenta. Nel caso però in cui il contribuente non si sia limitato ad utilizzare le fatture false,
annotandole nella contabilità dell’impresa, ma si sia servito di esse quale supporto fraudolento per l’indicazione di elementi passivi fittizi nella relativa dichiarazione dei redditi, il fatto conserva ancora rilevanza
penale ed integra l’ipotesi di frode fiscale di cui all’art. 4 comma 1 lett. f) L. n. 516 del 1982, ovvero quella
di dichiarazione fraudolenta prevista dall’art. 2 D.Lgs. n. 74 del 2000, a seconda della norma che risulterà
in concreto più favorevole al reo. Trib. Milano, 16 gennaio 2001.
Per i fatti commessi dopo l’entrata in vigore della L. n. 92 del 2001 in tema di contrabbando di tabacco
le condotte sussumibili nella norma speciale - in applicazione del principio generale dettato dall’art. 15
c.p. - sono esclusivamente regolate dalle norme speciali, con conseguente restrizione dell’ambito applicativo di quelle generali. Trib. Napoli, 11 maggio 2001.
Nel caso di successione di leggi penali nel tempo, per stabilire se si sia di fronte ad un’”abolitio
criminis” o ad una mera modificazione di una fattispecie incriminatrice tuttora sanzionata penalmente
non basta fare riferimento ad uno dei criteri alternativamente individuati, ovvero quello dell’identità del
bene giuridico protetto dalla norma, della specialità e del cd. rapporto strutturale, ma occorre considerare
i detti criteri congiuntamente ed insieme alle comuni regole ermeneutiche. Quanto, in particolare, al
D.Lgs. n. 74 del 2000, occorre tenere conto anche delle disposizioni transitorie contenute nel progetto
preliminare, anche se non riprodotte nel testo definitivo. In sede di esecuzione, giusto il disposto dell’art.
2 comma 3 c.p., il giudicato rimane travolto dall’”abolitio criminis”, mentre costituisce li mite insuperabile
nel caso di modificazione in senso più favorevole, che non può operare. Trib. Genova, 28 settembre 2000.
Il fatto del legale rappresentante di una società a responsabilità limitata cui sia contestato di aver indicato nella dichiarazione dei redditi elementi attivi di reddito in misura inferiore a quella effettiva, quando
l’imposta evasa è risultata superiore a lire 200.000 (con riferimento alla singola imposta) e l’ammontare
complessivo dell’attivo sottratto all’imposizione è risultato superiore al dieci per cento del complesso dell’attivo indicato in dichiarazione, non costituiva reato ai sensi dell’art. 1 comma 2 lett. a) e b) L. n. 516 del
1982. Nel vigore della suddetta legge, l’elemento costitutivo del reato “de quo” era rappresentato dall’infedele annotazione nelle scritture contabili obbligatorie. L’unica ipotesi nella quale era sanzionata la dichiarazione infedele di per sè era il caso di redditi non soggetti a contabilizzazione obbligatoria, secondo il disposto dell’art. 1 comma 2 lett. c). La nuova fattispecie penale di cui all’art. 4 D.Lgs. n. 74 del 2000, incentrata
sulla dichiarazione dei redditi, non è applicabile al caso in oggetto secondo il disposto dell’art. 2 c.p. poiché
contiene elementi diversi ed ulteriori rispetto alla norma abrogata. Trib. Sondrio, 14 luglio 2000.
Premessa la continuità normativa fra la disposizione prevista dall’art. 4, lett. d) L. n. 516 del 1982 - che
sanzionava penalmente la condotta di chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore
– 102 –
TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
2
aggiunto o al fine di conseguire un indebito rimborso ovvero di consentire l’evasione o l’indebito rimborso di terzi, avesse utilizzato fatture o altri documenti per operazioni in tutto o in parte inesistenti - e quella
introdotta con l’art. 2 D.Lgs. n. 74 del 2000 - che richiede, invece, la presentazione di una dichiarazione
annuale mendace nella quale ci si avvalga della fattura o del documento per la falsa indicazione di elementi passivi fittizi - qualora, (come nella specie), la norma più favorevole sia quella originariamente
contestata (art. 4 lett. d) L. n. 516 del 1982) non si deve procedere alla modifica delle imputazioni sollevate
nei confronti dell’imputato. Uff. ind. Prel. Milano, 27 giugno 2000.
Il D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 ha abrogato espressamente l’art. 2 L. 7 agosto 1982, n. 516, senza
introdurre alcuna ipotesi criminosa che riguardi le condotte del sostituto di imposta: venuto meno il
principio di ultrattività delle norme penali finanziarie, anche i fatti pregressi non possono più essere
penalmente sanzionati. Trib. Milano, 15 giugno 2000.
35. Reati attribuiti alla competenza del giudice di pace.
L’oblazione facoltativa è applicabile anche alle contravvenzioni punite con pena alternativa attribuite alla competenza del giudice di pace, anche se commesse prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n.
274 del 2000. (Fattispecie riguardante la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza). Cass. 21 settembre 2007, n. 38540.
In tema di successione di leggi penali (art. 2, comma 3, c.p.), con riguardo ai reati attribuiti alla competenza del giudice di pace (nella specie delitto di lesioni), non può applicarsi il trattamento sanzionatorio
previsto dall’art. 52 del D.Lgs. n. 274 del 2000, ancorché in linea di principio più favorevole, qualora sia
stata concessa la sospensione condizionale della pena, in quanto il successivo art. 60, escludendo esplicitamente la concessione del beneficio della pena sospesa, rende in concreto le nuove disposizioni meno
favorevoli all’imputato. Cass. 26 gennaio 2006, n. 7215.
È legittimo il diniego della sospensione condizionale della pena qualora si tratti di reato attribuito alla
competenza del giudice di pace (nella specie delitto di lesioni personali), commesso prima della data di
entrata in vigore del D.Lgs. n. 274 del 2000 e giudicato dal giudice togato, in quanto, in tal caso, trovano
applicazione, in base alla disciplina transitoria prevista dal combinato disposto degli articoli 63, comma
primo e sessantaquattresimo, le nuove sanzioni indicate dall’art. 52 del suddetto D.Lgs., poiché più favorevoli, in virtù dell’art. 2, comma terzo, c.p. (La Corte ha osservato al riguardo che la mancata previsione
della sospensione condizionale delle pene irrogate dal giudice di pace, ex art. 60 D.Lgs. n. 274 del 2000,
non determina un trattamento in concreto più sfavorevole per l’imputato, considerato che il beneficio
può essere revocato e che, comunque, è precluso al giudice combinare un frammento normativo di una
legge e un frammento normativo dell’altra legge secondo il criterio del «favor rei», perché in tal modo si
applicherebbe una terza fattispecie di carattere intertemporale non prevista dal legislatore, violando così
il principio di legalità. Cass. 8 febbraio 2006, n. 7225.
In base al principio dell’applicazione della legge sopravvenuta più favorevole (art. 2 comma 3 c.p.),
nel caso di reati attribuiti, in assenza di aggravanti, alla competenza del giudice di pace, ai sensi dell’art. 4
D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, qualora gli stessi siano stati commessi prima dell’entrata in vigore di detto
D.Lgs. e, pur essendo aggravati, l’effetto delle aggravanti sia stato neutralizzato dall’avvenuto riconoscimento di circostanze attenuanti, la sanzione applicabile dev’essere quella, più favorevole, prevista dalla
normativa sopravvenuta (principio affermato in tema di diffamazione). Cass. 18 maggio 2004, n. 28006.
In materia di successione nel tempo di leggi penali, è incontroverso che, una volta individuata la
disposizione complessivamente più favorevole, il giudice deve applicare questa nella sua integralità,
senza poter combinare un frammento normativo di una legge e un frammento normativo dell’altra legge
secondo il criterio del favor rei, perché in tal modo verrebbe ad applicare una terza fattispecie di carattere
intertemporale non prevista dal legislatore, violando così il principio di legalità. (Nella specie, la Corte ha
annullato senza rinvio la sentenza del Tribunale che, giudicando del reato di guida in stato di ebbrezza ex
art. 186, comma secondo, C. S., in epoca successiva all’entrata in vigore del D.Lgs 2000, n. 274 - e prima
della legge 1 agosto 2003, n. 214 -, pur applicando il trattamento sanzionatorio più favorevole previsto
per i reati divenuti di competenza del giudice di pace,aveva tuttavia ritenuto di applicare il beneficio della
sospensione condizionale della pena, nonostante il relativo divieto). Cass. 4 giugno 2004, n. 36757.
Per i reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace, commessi prima della data di entrata in vigore
del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 e giudicati in secondo grado dal giudice di appello, devono applicarsi,
in base alla disciplina transitoria prevista dal combinato disposto degli art. 64 e 63 comma 1 cit. D.Lgs., le
nuove sanzioni indicate dall’art. 52 stesso D.Lgs. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza con
cui il giudice di appello aveva applicato, per il reato di guida in stato di ebbrezza, la sola pena pecuniaria,
in sostituzione di quella detentiva a norma dell’art. 53 L. 24 novembre 1981, n. 689, ritenendola illegale a
seguito dell’introduzione del nuovo e più favorevole regime sanzionatorio previsto dall’art. 52 D.Lgs. n.
274 del 2000). Cass. 1 aprile 2004, n. 36725.
Per i reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace, commessi prima della data di entrata in
vigore del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 e giudicati dal giudice togato, trovano applicazione, in base alla
disciplina transitoria prevista dal combinato disposto degli artt. 63 comma 1 e 64 D.Lgs. cit., le nuove
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2
LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
sanzioni indicate dall’art. 52 dello stesso D.Lgs., in quanto più favorevoli, ai sensi dell’art. 2 comma 3 c.p.,
dovendo escludersi che la mancata previsione della sospensione condizionale delle pene irrogate dal
giudice di pace (art. 60 D.Lgs. cit.) determini un trattamento in concreto più sfavorevole per l’imputato,
tenuto conto che il beneficio stesso può essere revocato (l’imputazione riguardava i reati di modificazione
dello stato dei luoghi e di invasione dei terreni, previsti rispettivamente dagli artt. 632 e 633 comma 1
c.p.). Cass. 13 giugno 2003, n. 31057.
Nell’individuazione della norma più favorevole, ai sensi dell’art. 2, comma 3 c.p.p., per l’applicazione
del trattamento sanzionatorio, la pena che incide sulla sfera patrimoniale dell’imputato deve ritenersi
meno gravosa della permanenza domiciliare di cui all’art. 53 D.Lgs. 274/2000, in quanto quest’ultima
comporta una privazione della libertà personale. Cass. 29 aprile 2003, n. 25946.
Nell’individuazione della norma più favorevole, ai sensi dell’art. 2, comma 3 c.p., per l’applicazione
del trattamento sanzionatorio, rimane precluso al giudice, al fine del giudizio in «favor rei», di comparare il trattamento sanzionatorio complessivo previsto nelle due norme in successione temporale, ma
deve considerare esclusivamente l’eventuale limite più favorevole al reo contenuto nella norma incriminatrice quanto alla sola pena pecuniaria (Fattispecie in cui la Corte aveva applicato la sanzione pecuniaria
introdotta dal D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 superiore a quella originariamente prevista, in via alternativa,
dall’art. 635, comma 1 c.p.). Cass. 5 maggio 2003, n. 25304.
36. Sicurezza sul lavoro.
Con la decisione in questione, la Corte si è soffermata sul rapporto tra la nuova disciplina normativa
in materia di tutela dei lavoratori contro il rischio amianto, introdotta dal D.Lgs. 25 luglio 2006, n. 257, e la
disciplina prima contemplata dal Capo III del D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, capo interamente abrogato
dall’art. 5 del D.Lgs. n. 257 del 2006. In particolare, la Corte, preso atto che la condotta oggetto di contestazione era sanzionata dall’art. 34, comma quarto, D.Lgs. n. 277 del 1991 (inosservanza del piano di
lavoro o delle prescrizioni imposte con il medesimo), ha ritenuto che la stessa si ponga in rapporto di
continuità normativa con la nuova disciplina, oggi contemplata da due diverse disposizioni (artt. 59 septies, lett. d), e 59 quaterdecies D.Lgs. n. 257 del 2006). Operando, infine, il raffronto ex art. 2, comma
quarto, c.p. tra la precedente disciplina sanzionatoria, contemplata dall’abrogato art. 50, comma primo,
lett. a), del D.Lgs. n. 277 del 1991 e quella oggi prevista dall’art. 89, lett. a), del D.Lgs. n. 626 del 1994
(come modificato dall’art. 3 del D.Lgs. n. 257 del 2006), la S.C. ha affermato che la nuova disciplina
normativa è più favorevole all’imputato in quanto, pur essendo rimasta identica la pena detentiva, è stata
notevolmente ridotta quella pecuniaria. Cass. 19 dicembre 2007, n. 47076.
In tema di protezione dei lavoratori contro i rischi connessi all’esposizione ad amianto, la disciplina
penale prevista dall’art. 89, comma 2, lett. b) e lett. b-ter) del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 per i reati
di omessa presentazione ed omessa predisposizione del piano di lavoro (art. 59 duodecies) deve ritenersi
più favorevole rispetto a quella prima contemplata dall’abrogato art. 34 del D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277,
in quanto inferiore è la pena pecuniaria prevista dalla nuova disciplina sanzionatoria. (In motivazione la
Corte, nell’enunciare il predetto principio, ha altresì precisato che il reato di omessa presentazione rimane assorbito in quello di omessa predisposizione del piano). Cass. 11 ottobre 2007, n. 40196.
In tema di protezione dei lavoratori contro i rischi connessi all’esposizione ad amianto, è ravvisabile
un rapporto di continuità normativa tra le disposizioni degli artt. 34, commi da 1 a 6, e 50, comma primo,
lett. a) D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277 e quelle di cui agli art. 59 duodecies, commi da 1 a 4, D.Lgs. 25 luglio
2006, n. 257 ed 89, comma secondo, lett. a) D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, tutte riguardanti i lavori di
demolizione o rimozione dell’amianto. (In motivazione la Corte ha, altresì, precisato che le nuove disposizioni introducono un trattamento sanzionatorio più favorevole rispetto al previgente, contemplato dal
D.Lgs. n. 277 del 1991). Cass. 19 giugno 2007, n. 32261.
In tema di infortuni sul lavoro, poiché le norme che disciplinano gli obblighi dei soggetti cui è affidato
il compito di tutelare la salute dei lavoratori non hanno funzione integratrice del precetto penale, ma quella di
individuazione delle persone alle quali incombe il dovere di osservare e far osservare le regole di cautela, la loro
modificazione nel senso di rimodulazione degli obblighi di tutela non ricade sotto la disciplina della successione
delle leggi penali nel tempo e non può quindi avere come effetto quello di rendere legittima una condotta
precedentemente vietata in vista della valutazione della responsabilità penale dell’imputato. (Nella specie il coordinatore per la progettazione e l’esecuzione dei lavori, al quale era stata contestata la violazione dell’obbligo di
assicurare l’osservanza del piano di sicurezza a norma del D.Lgs. n. 494 del 1996, pretendeva, in relazione ad
infortunio occorso prima delle modifiche introdotte al citato decreto con D.Lgs. n. 528 del 1999, che si applicasse
l’art. 5 di quest’ultimo, secondo il quale non è più previsto l’obbligo di “assicurare”, ma solo quello di “verificare”
l’applicazione delle disposizioni impartite dagli appaltatori). Cass. 25 ottobre 2006, n. 2604.
Le condotte vietate di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, previste come
reato dagli artt. 1 e 2 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, sono riconducibili alla nuova fattispecie criminosa di cui agli artt. 4 e 18 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, che ha abrogato ex art. 85 la citata legge
n. 1369, vertendosi non in ipotesi di «abolitio criminis», bensì di successione di leggi nel tempo ex art. 2
c.p. Cass. 28 gennaio 2005, n. 12336.
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
2
La fattispecie di cui all’art. 1 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369 (esecuzione di prestazioni lavorative
mediante impiego di manodopera assunta dall’appaltatore ma di fatto operante alle dipendenze del committente) resta punibile ai sensi dell’art. 18 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (cosiddetta riforma Biagi),
in quanto qualificabile come somministrazione di manodopera esercitata da soggetto non abilitato o fuori
dei casi consentiti. Cass. 13 maggio 2004, n. 30581.
Anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 18 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, deve ritenersi non
abrogata la disposizione di cui all’art. 1 della legge n. 1369 del 1960, che punisce il committente e l’appaltatore che ricorrono a qualsiasi esecuzione di prestazioni lavorative mediante impiego di manodopera
assunta dall’appaltatore, ma di fatto operante alle dipendenze del committente: infatti il citato decreto
legislativo riproduce formalmente il regime sanzionatorio già previsto dalla precedente legislazione, distinguendo tra la somministrazione irregolare (art. 18, comma terzo) e quella abusiva (art. 18 commi
primo e secondo); l’interpretazione abrogatrice risulta anche in contrasto con la legge delega, la quale ha
indicato al legislatore delegato la sanzione penale quale previsione da adottare per le ipotesi di esercizio
abusivo di intermediazione privata. Cass. 28 maggio 2004, n. 30136.
La fattispecie di illecita mediazione nella fornitura di manodopera punita dall’art. 27 della legge n. 264
del 1949 e quella di cui all’art. 1 legge n. 1369 del 1960 (la quale puniva sia il committente che l’appaltatore che ricorressero a qualsiasi esecuzione di prestazioni lavorative mediante impiego di manodopera
assunta dall’appaltatore, ma di fatto operante alle dipendenze del committente) sono abrogate solo parzialmente dalla fattispecie di esercizio abusivo della intermediazione ex art. 18, comma primo, del decreto legislativo, n. 276 del 2003 (che punisce chiunque eserciti attività non autorizzate di somministrazione
di lavoro e l’utilizzatore che ricorra alla somministrazione di lavoro fornita da soggetti non autorizzati o
comunque al di fuori dei casi previsti dalla legge), in quanto l’area dell’intermediazione abusiva era molto
più ampia quando la legittima intermediazione era monopolio degli uffici ministeriali di collocamento,
mentre è divenuta più ristretta a seguito dell’attribuzione dell’intermediazione tra domanda ed offerta di
lavoro a soggetti privati debitamente autorizzati. Ne consegue che la condotta di intermediazione posta in
essere da soggetti privati non formalmente autorizzati, e di somministrazione di lavoro da parte di soggetti non abilitati o al di fuori dei casi consentiti, è ancora punibile e ad essa va applicata la legge in
concreto più favorevole ai sensi dell’art. 2 c.p., comma secondo. Cass. 11 novembre 2003, n. 2583.
37. Casistica.
Sussiste l’antigiuridicità della condotta integrante il reato di occupazione irregolare di lavoratore straniero, (pur se) proveniente da uno Stato che – successivamente al fatto criminoso – abbia aderito all’Unione europea. Cass. 21 febbraio 2007, n. 12467.
In materia di apparecchi e congegni da intrattenimento, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1,
comma 86, L. 27 dicembre 2006, n. 296, non può ritenersi implicitamente abrogata la disposizione dell’art. 1, comma 547, L. 23 dicembre 2005, n. 266 (che sancisce la ultrattività delle sanzioni penali previste
dall’art. 110, comma nono, T.U.L.P.S. per i fatti commessi antecedentemente al 1º gennaio 2006) per
effetto della mancata riproduzione di tale ultima disposizione nel nuovo testo, in quanto la disposizione
contenuta nella L. n. 266 del 2005 non è parte integrante di quella contenuta nell’art. 110 T.U.L.P.S., non è
stata modificata dalla disposizione della L. n. 296 del 2006 né, infine, si pone in contrasto con le modifiche
apportate da tale ultima legge all’art. 110, commi quinto e nono, T.U.L.P.S. Cass. 20 marzo 2007, n. 16002.
In materia di ultrattività della norma penale che comporta la punibilità delle condotte di utilizzo di
apparecchi per il gioco automatico tenute anteriormente alla depenalizzazione conseguente alla modifica
all’art. 110 TULPS da parte della legge finanziaria 2006 (art. 1, commi 543 e 547 L. 23 dicembre 2005, n.
266), è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma per contrasto con
l’art. 10 della Costituzione in relazione alle disposizioni sull’applicazione della legge posteriore più favorevole contenute nell’art. 15 del Patto internazionale per i diritti civili e politici concluso a New York il 16
dicembre 1966, posto che questa disposizione già faceva parte del nostro ordinamento giuridico attraverso le previsioni dell’art. 2 c.p. e che tale ultima disposizione, avente forza di legge ordinaria, può essere
derogata da altra norma ordinaria che operi per i processi in corso e non incida sulla certezza dei rapporti
giuridici. (In motivazione la Corte ha fatto riferimento a plurime decisioni della Corte costituzionale, dalle
ordinanze nn. 108 e 150 del 2002 e dalla sentenza, n. 376 del 2001, riferite all’art. 3 Cost., alle decisioni, n.
153 del 1987 e 323 del 1989 riferite all’art. 10 della Costituzione). Cass. 20 marzo 2007, n. 17265.
La somministrazione di sostanze dopanti espressamente vietate dal D.M. 15 ottobre 2002 - di attuazione dell’art. 2, L. 14 dicembre 2000, n. 376 - è punibile a norma dell’art. 9 della stessa L. n. 376 del 2000;
mentre la medesima condotta, se commessa prima dell’entrata in vigore della disciplina antidoping del
2000, è punibile, in applicazione dell’art. 2, comma 4, c.p., quale disciplina più favorevole, dall’art. 1,
comma 1, seconda parte, L. 13 dicembre 1989, n. 401, laddove è sanzionato il delitto di frode in competizioni sportive e, segnatamente, la condotta sostanziantesi nel compimento di “altri atti fraudolenti” finalizzati al raggiungimento di un risultato diverso da quello conseguente al leale e corretto svolgimento
della competizione sportiva; parimenti, anche dopo il “novum” normativo del 2000, la condotta, volta a
soddisfare l’anzidetta finalità di alterazione del risultato di una competizione sportiva, di somministrazio-
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2
LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
ne di sostanze non comprese nell’elenco ministeriale, come ad esempio la somministrazione “off label”
di specialità medicinali e di sostanze non vietate, è comunque tuttora sanzionabile dall’art. 1, comma 1,
seconda parte, L. n. 401 del 1989, giacché la somministrazione di tali sostanze si risolve in uno dei possibili modi in cui può realizzarsi l’atto fraudolento volto allo scopo di alterare il risultato di una competizione
sportiva. Tra l’art. 1, comma primo, ultima parte, L. n. 401 del 1989 (che prevede e punisce il reato di frode
sportiva “generica”), e l’art. 9 L. n. 376 del 2000 (che prevede e punisce il reato di doping) non sussiste
continuità normativa, in difetto della necessaria coincidenza strutturale, essendo diverse le condotte disciplinate (la frode sportiva “generica” è reato a forma libera, l’altra fattispecie è a forma vincolata), il bene
giuridico protetto (nel primo caso, la correttezza e la lealtà dello svolgimento delle competizioni sportive
disciplinate dall’art. 1 della legge n. 401 del 1989, nell’altro la lotta al doping, a tutela delle persone che
praticano lo sport) e l’ambito di applicazione (la legge n. 376 del 2000 è in parte più ampia, riguardando
tutte le competizioni sportive, e non soltanto quelle del CONI etc., ed in parte meno ampia, punendo
esclusivamente la somministrazione, l’assunzione etc. di sostanze dopanti). Ne consegue che i fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 376 del 2000, concernenti somministrazione di sostanze
dopanti espressamente vietate dal D.M. 15 ottobre 2002 (che ha ripartito in classi i farmaci e le sostanze
il cui impiego è considerato doping) - oggi punibili ai sensi dell’art. 9, L. n. 376 del 2000 - rimangono
punibili ai sensi dell’art. 1, L. n. 401 del 1989, quale legge più favorevole; al contrario, la somministrazione
di sostanze non ricomprese nell’elenco ministeriale resta punibile ai sensi dell’art. 1, comma primo, L. n.
401 del 1989, che non è stato implicitamente abrogato dalla norma sopravvenuta. Cass. 29 marzo 2007,
n. 21324; conforme Cass., Sez. Un., 25 gennaio 2006, n. 3087.
L’art. 73 comma 5-bis D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, introdotto dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 272,
conv., con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, prevede che il giudice, nel caso in cui il fatto sia
di “lieve entità”, se il reato è commesso da tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o
psicotrope, possa applicare, in luogo della pena detentiva e pecuniaria, su richiesta dell’imputato e sentito il p.m., quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’art. 54 D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, secondo le
modalità ivi previste. L’art. 73 comma 5-bis e l’art. 54 D.Lgs. n. 274 del 2000 stabiliscono un “sistema
compiuto”, che può oggi essere applicato anche a reati commessi prima della riforma del 2006, la quale
ha introdotto l’anzidetto trattamento sanzionatorio di maggior favore per l’imputato, ai sensi dell’art. 2
c.p. (Da queste premesse, la Corte ha annullato la sentenza limitatamente al trattamento sanzionatorio,
giacché il giudice di merito avesse ritenuto di non poter applicare il nuovo, più favorevole trattamento
sanzionatorio anche ai fatti pregressi, sostenendo erroneamente che mancasse la relativa disciplina regolamentare; la Cassazione, in proposito, ha invece richiamato, a conferma della compiutezza del sistema e della conseguente immediata applicabilità dello stesso, il decreto 26 marzo 2001 del Ministro della
giustizia che ha individuato le tipologie dei lavori di pubblica utilità e ha stabilito le modalità di esecuzione). Cass. 22 gennaio 2007, n. 8363.
In tema di violazioni alle norme del c. strad., con riferimento all’illecito previsto dall’art. 126 bis,
comma 2, nella formulazione risultante dalla sentenza della Corte cost. 24 gennaio 2005, n. 27 il fatto si
configura quale illecito istantaneo, in quanto il termine di adempimento dell’obbligo, nell’una e nell’altra
specifica formulazione, è unico, cioè finale e non iniziale, sì che, una volta decorso, l’obbligato non è più
in condizione di tenere utilmente la condotta imposta; - di conseguenza, nella configurazione di detto
illecito non possono influire non solo le cause di estinzione o di non punibilità dell’illecito presupposto,
successivamente riconosciute dalla competente autorità giudiziaria, ma neppure eventuali modifiche legislative incidenti sulla definizione di quest’ultimo, compresa la stessa “abolitio criminis”. Cass. 8 agosto
2007, n. 17348.
La sospensione del servizio militare di leva, previsto dall’art. 7 D.Lgs. 8 maggio 2001, n. 215, non ha
determinato la totale abolizione del servizio militare obbligatorio, che continua a essere previsto in riferimento a specifiche situazioni e a determinati casi eccezionali riferibili anche al tempo di pace ai sensi
dell’art. 2 L. 14 novembre 2000, n. 331. Ne consegue che alla fattispecie di reato di mancanza alla chiamata alle armi, di cui all’art. 151 c.p.m.p., non essendo stata essa abolita, si applica il comma 4 e non il
comma 2 dell’art. 2 c.p., secondo cui “se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori
sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile” (da queste premesse, la Corte ha rigettato il ricorso proposto dal procuratore
militare della Repubblica avverso il provvedimento con il quale il tribunale militare, in funzione di giudice
dell’esecuzione, aveva rigettato l’istanza del medesimo p.m., volta a ottenere, ai sensi dell’art. 673 c.p.p.,
la dichiarazione di revoca della sentenza di condanna pronunciata nei confronti di un soggetto, condannato per il reato di mancanza alla chiamata alle armi, per intervenuta “abolitio criminis”). Cass. 26 giugno
2007, n. 35353.
La sospensione della chiamata obbligatoria alla leva, introdotta con L. n. 331 del 2000 e successive
integrazioni, non ha abolito il servizio di leva militare obbligatoria, ma ne ha limitato l’operatività a specifiche situazioni e a casi eccezionali riferiti anche al tempo di pace, sicchè il reato di rifiuto del servizio
militare per motivi di coscienza non è stato abrogato, ma è stato modificato il contenuto del precetto, che
non ricomprende più la condotta penalmente sanzionata dalle precedenti disposizioni legislative, con la
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
2
conseguenza che per i fatti anteriormente commessi, sempre che non sia stata pronunciata sentenza di
condanna irrevocabile, deve farsi applicazione delle nuove più favorevoli disposizioni, per le quali la
condotta di rifiuto non è più reato. Cass. 9 marzo 2007, n. 12363.
Nel reato concorsuale, ai fini dell’applicazione dell’art. 2 c.p., ciò che conta per l’individuazione del
“tempus commissi delicti” è la data in cui si è verificata l’ultima condotta criminosa, senza che rilevi chi
sia il concorrente che l’abbia materialmente realizzata, perché il reato concorsuale è una realtà unitaria,
sicché tutti i partecipi rispondono a ogni effetto penale della condotta degli altri, che essi si sono rappresentata e hanno voluto, contribuendo a un determinato risultato. (Affermazione resa in una vicenda in cui
la Corte ha ritenuto correttamente applicata la disciplina di cui all’art. 322 ter c.p., anche se la specifica
condotta posta in essere dal ricorrente si era integralmente svolta prima dell’entrata in vigore della relativa previsione sanzionatoria). Cass. 5 giugno 2007, n. 31690.
In tema di tutela penale del diritto di proprietà industriale, deve escludersi che vi sia stata depenalizzazione del reato previsto dall’art. 88 del R.D. 29 giugno 1939, n. 1127 ad opera dell’art. 20 della Legge
21 febbraio 1989, n. 70. Ne consegue che sussiste continuità normativa tra la fattispecie penale prima
prevista dall’art. 88 del R.D. n. 1127 del 1939 e la nuova fattispecie penale di cui all’art. 127 del D.Lgs. 10
febbraio 2005, n. 30, in quanto entrambe descrivono la condotta penalmente punibile in termini sostanzialmente identici, avendo di mira la produzione ed il commercio “in frode” o “in violazione” del titolo di
proprietà industriale. (Fattispecie relativa alla produzione e vendita abusiva del “sildenafil citrato”, principio attivo del farmaco afrodisiaco brevettato, denominato “Viagra”). Cass. 10 ottobre 2007, n. 46859.
In tema di ricettazione, la provenienza da delitto dell’oggetto materiale del reato è elemento definito
da norma esterna alla fattispecie incriminatrice, di tale che l’eventuale abrogazione o le modifiche di tale
norma non assumono rilevanza ai sensi dell’articolo 2 c.p., e la rilevanza del fatto, sotto il profilo in
questione, deve essere valutata con esclusivo riferimento al momento in cui è intervenuta la condotta
tipica di ricezione della cosa o di intromissione affinché altri la ricevano. (Fattispecie in cui è stata ritenuta
la sussistenza della ricettazione relativamente ad assegni emessi senza l’autorizzazione del trattario e
senza provvista, giacché, all’epoca della condotta incriminata, si trattava di fatti ancora penalmente illeciti). Cass. 2 ottobre 2007, n. 45200.
In tema di delitti contro il sentimento per gli animali, sussiste un rapporto di continuità normativa tra
le nuove fattispecie contemplate dal Titolo IX bis del libro II del c.p., inserito dalla L. 20 luglio 2004, n. 189,
e le condotte prima contemplate dall’art. 727 c.p. (contravvenzione che oggi punisce il solo abbandono di
animali), sia con riferimento al bene protetto sia per l’identità delle condotte. (In motivazione la Corte ha
ulteriormente precisato che norma penale più favorevole è quella contemplata dal previgente art. 727
c.p., trattandosi di contravvenzione, diversamente dalle nuove fattispecie che configurano tutte ipotesi
delittuose). Cass. 24 ottobre 2007, n. 44822.
In virtù dell’art. 671 c.p.p. - come modificato dall’art. 4 vicies D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, conv.
nella L. 21 febbraio 2006, n. 49 - lo stato di tossicodipendenza, per i reati ad esso collegati e dal medesimo dipendenti, può considerarsi come collante, idoneo a giustificare la unitarietà del disegno criminoso,
purché sussistano anche gli altri elementi di fatto, sintomatici della sussistenza della continuazione. Cass.
14 febbraio 2007, n. 7190.
In tema di inquinamento atmosferico, sussiste continuità normativa tra la fattispecie criminosa di cui
all’abrogato art. 25 D.P.R. 24 maggio 1988, n. 203 e la nuova fattispecie prevista dall’art. 279, comma
primo, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (omessa presentazione della domanda di autorizzazione, nel termine
prescritto, per l’esercizio di un impianto esistente). Cass. 11 dicembre 2007, n. 4536.
In tema di inquinamento atmosferico, si verifica immutazione sostanziale, e quindi violazione del
principio della correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza, nel caso in cui l’imputato,
tratto a giudizio per rispondere del reato di omessa comunicazione dei dati relativi alle emissioni (art. 24,
comma terzo, D.P.R. 24 maggio 1988, n. 203, oggi sostituito dall’art. 279, comma quarto, D.Lgs. 3 aprile
2006, n. 152), sia invece condannato per il reato di inosservanza delle prescrizioni dell’autorizzazione (art.
24, comma quarto, D.P.R. n. 203 del 988, oggi sostituito dall’art. 279, comma secondo, D.Lgs. n. 152 del
2006), non ravvisandosi alcun rapporto di continenza tra gli stessi in quanto il fatto ritenuto in sentenza è
più ampio di quello contestato. Cass. 16 novembre 2007, n. 47081.
La disposizione, contenuta nell’art. 4-septies della legge n. 49 del 2006, modificativo dell’art. 90 D.P.R.
9 ottobre 1990, n. 309 (testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope), la quale consente la sospensione dell’esecuzione della pena pecuniaria nei confronti del tossicodipendente che debba espiare una pena detentiva, anche residua e congiunta a pena pecuniaria, ha
natura processuale; ne consegue che essa non trova applicazione nei confronti del condannato per il
quale, al momento della sua entrata in vigore, l’esecuzione della pena detentiva abbia già avuto luogo.
Cass. 6 dicembre 2007, n. 3950.
In tema di sanzioni amministrative, con riferimento alle ipotesi di depenalizzazione degli illeciti previsti come reato, in particolare per le infrazioni alla normativa sui rifiuti, la violazione degli obblighi di
regolare tenuta ed annotazione del registro di carico e scarico, commessa in un tempo in cui costituiva
reato, non è rimasta priva di sanzione, in quanto la sua trasformazione in illecito amministrativo ne com-
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
porta la punibilità con la sanzione per esso prevista. D’altro canto, la disciplina transitoria prevista dall’art.
40 L. 24 novembre 1981, n. 689 - secondo cui le disposizioni dettate in materia di sanzioni amministrative
si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore della legge di depenalizzazione quando il relativo procedimento non sia stato definito - deve trovare applicazione anche nel caso
di altre successive depenalizzazioni, esprimendo detto articolo 40, indipendentemente dalla sua collocazione, una regola di diritto transitorio di ordine generale, peraltro coerente con l’art. 1 della stessa legge,
del quale si limita a precisare e delimitare la portata. (Nella specie, era stata contestata la violazione
dell’art. 9 octies D.L. 9 settembre 1988, n. 397, conv. nella L. 9 novembre 1988, n. 475, che successivamente all’instaurarsi del procedimento penale, veniva depenalizzato per effetto del D.Lgs. 5 febbraio
1997, n. 22, il cui articolo 52, comma 2, ne ha previsto la punibilità con la sanzione amministrativa: sulla
base dell’enunciato principio, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza del tribunale che, in virtù del
richiamato principio di irretroattività, aveva accolto la opposizione alla relativa ordinanza ingiunzione).
Cass. 18 gennaio 2007, n. 1078.
In tema di illeciti disciplinari non trova applicazione il principio di cui all’art. 2, commi 2 e 3, c.p.,
restando applicabile la legge vigente al tempo del verificarsi dell’infrazione disciplinare e non la disciplina
posteriore più favorevole per l’incolpato. Pertanto, in materia di responsabilità disciplinare dei professionisti sanitari, resta applicabile la legge n. 175 del 1992, vigente al tempo del verificarsi dell’infrazione, a
nulla rilevando la sopravvenuta abrogazione della norma. Cass. 30 novembre 2006, n. 25494.
L’art. 5 della legge 24 febbraio 2006, n. 85 ha modificato l’art. 292 c.p., prevedendo per l’ipotesi
aggravata di vilipendio alla bandiera una pena più mite, sicché, attesa la sostanziale continuità strutturale
delle fattispecie criminose disciplinate dalle leggi penali succedutesi nel tempo, il più favorevole regime
sanzionatorio è applicabile ai sensi dell’art. 2, comma quarto, c.p. nei processi pendenti in relazione a fatti
commessi nel vigore della precedente normativa. Cass. 6 giugno 2006, n. 22891.
Rientrano nella categoria dei videogiochi vietati non solo ai sensi dell’art. 110, comma sesto, T.U.L.P.S.,
ma anche dell’art. 22 della Legge 27 dicembre 2002, n. 289 gli apparecchi e congegni automatici, semiautomatici ed elettronici che utilizzano un sistema di gioco, un meccanismo di scommessa ed un criterio di
combinazioni vincenti del tutto simili a quello del poker, in cui l’elemento aleatorio è preponderante e la
prova di abilità è solo fittizia. (Fattispecie in cui la Corte ha confermato la pronunzia dei giudici di merito
che hanno escluso l’applicabilità dell’art. 2, comma terzo, c.p., ritenendo che, anche alla luce della recente normativa introdotta con l’art. 22 della Legge 289/2002, tali tipi di apparecchi rientrano nella categoria
dei videogiochi vietati). Cass. 7 aprile 2004, n. 19074.
In tema di riduzione in schiavitù, tra la vecchia e la nuova fattispecie esiste un rapporto di successione
di leggi penali ex art. 2, comma 3, c.p., posto che, sia che si consideri il rapporto strutturale tra le fattispecie, sia che si fondi l’accertamento sulla continuità del tipo di illecito, la nuova norma ha semplicemente
precisato l’ambito della precedente incriminazione. Cass. 23 novembre 2004, n. 81.
In tema di assegni bancari, la nuova disciplina relativa all’inosservanza delle sanzioni amministrative
accessorie, introdotta dal D.Lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, non ha depenalizzato le violazioni dei divieti
commesse nella vigenza della normativa antecedente, atteso che l’art. 7 della legge 15 dicembre 1990, n.
386, come sostituito dall’art. 32 del citato D.Lgs., conserva immutata la sua «ratio» in relazione al permanere della previsione di illiceità penale della medesima condotta, consistente nella inottemperanza al
divieto temporaneo di emettere assegni; pertanto, con riferimento alle condotte trasgressive del divieto
di emettere assegni, poste in essere in epoca antecedente all’entrata in vigore della nuova disciplina di
cui al D.Lgs. 507 del 1999, trova applicazione il delitto previsto dall’art. 389 c.p., in luogo di quello punito
più gravemente dall’art. 7 della legge n. 396 del 1990 e ciò in forza del principio del «favor rei» di cui all’art.
2 comma terzo c.p. Cass. 24 settembre 2003, n. 44733.
In forza del principio di specialità stabilito dall’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ai fatti
previsti e sanzionati penalmente dall’art. 171 octies della legge 22 aprile 1941, n. 633(come introdotto
dall’art. 17 della legge 18 agosto 2000, n. 248), in tema di protezione del diritto di autore e di altri diritti
connessi al suo esercizio, si applicano le sole sanzioni amministrative di cui all’art. 6 D.Lgs. 15 novembre
2000, n. 373(di attuazione della direttiva CEE 98/84), sempre che le condotte tipiche contemplate dal
predetto art. 171 octies risultino sovrapponibili o sostanzialmente assimilabili per la coincidenza dell’elemento oggettivo e stante la maggiore ampiezza di quello soggettivo previsto dalle fattispecie di cui al
citato decreto legislativo rispetto a quello disciplinato dalla legge n. 633 del 1941 a quelle indicate nell’art.
4 dello stesso decreto. Cass., Sez. Un., 18 dicembre 2002, n. 8545.
In tema di omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale, l’intervenuta abolizione del reato
presupposto, a seguito di intervento legislativo, non incide sulla configurabilità del delitto di cui all’art.
361 c.p., dovendosi escludere l’applicabilità del principio stabilito dall’art. 2 comma 2 c.p. (fattispecie in
cui era intervenuta l’»abrogatio criminis» della contravvenzione di cui all’art. 221 T.U.L.P.S. la cui denuncia
era stata omessa dal pubblico ufficiale). Cass. 5 giugno 2002, n. 28124.
In tema di successione di leggi penali nel tempo in relazione al trasporto di oli minerali, vi è continuità
tra il reato previsto dagli art. 5 e 15 D.L. 5 maggio 1957, n. 271, convertito nella L. 2 luglio 1957, n. 474 abrogato dall’art. 68 D.Lgs. 26 ottobre 1995, n. 504 - e quello introdotto dall’art. 49 comma 1 del medesi-
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TITOLO I - DELLA LEGGE PENALE
2
mo decreto legislativo, che ugualmente sanziona il trasporto di prodotti soggetti ad accisa - ivi compresi
quelli petroliferi - in caso di carenza, falsificazione o irregolarità della documentazione di accompagnamento; ne consegue, ai fini dell’individuazione della norma più favorevole, che, essendo il delitto attualmente configurato quale reato di danno, dovendosene escludere la sussistenza in difetto di una reale
evasione fiscale, e non più di pericolo, come nella previgente fattispecie incriminatrice, nella sostanziale
identità di disposizioni precettive ed a parità di sanzioni penali comminate, va applicata la disposizione
incriminatrice attuale. Cass. 9 ottobre 2001, n. 40887.
L’assunzione di lavoratori extracomunitari privi di autorizzazione al lavoro non è più prevista dalla
legge come reato dopo l’abrogazione espressa dell’art. 12, comma 2, legge 30 dicembre 1986, n. 943,
disposta dall’art. 46 comma 1, lett. c) legge 6 marzo 1998, n. 40 (riprodotta dall’art. 47, comma 2, lett. c,
D.Lgs. 25 luglio, n. 286) e l’introduzione della nuova ipotesi di reato di assunzione di lavoratori extracomunitari privi di permesso di soggiorno ad opera dell’art. 22, comma 10,del citato decreto legislativo,
giacché si è in presenza di una abrogatio criminis per la mancanza di continuità del tipo di illecito e per il
mutamento del bene giuridico oggetto di tutela. Cass., Sez. Un., sent., 9 maggio 2001, n. 33539.
In tema di tutela delle acque dall’inquinamento, lo scarico di acque reflue industriali superiore ai limiti
di legge, qualora riguardi sostanze inquinanti non comprese nella tabella 5 dell’allegato 5, cui fa rinvio
l’art. 59, comma 5, del D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, non integra più la condotta, penalmente illecita,
prevista dalla disposizione dell’art. 21 della legge 10 maggio 1976, n. 319, con la quale la più recente
disciplina non ha rapporto di continuità normativa. (In applicazione di tale principio, la Corte ha disposto
la revoca della sentenza di condanna, previo annullamento del provvedimento del giudice dell’esecuzione reiettivo della relativa istanza). Cass., Sez. Un.,19 dicembre 2001, n. 3798.
La disciplina della revoca della patente prevista dal nuovo codice della strada è più favorevole
all’imputato di quella precedente in quanto, mentre nella vigenza del codice della strada abrogato spettava alla discrezionalità del giudicante individuare i casi di particolare gravità che consentivano la revoca
dell’autorizzazione alla guida, l’art. 222, comma terzo, Decreto Legislativo 30 aprile 1992, n. 285, prevede
la possibilità della revoca detta esclusivamente nell’ipotesi di recidiva reiterata specifica verificatasi entro
il periodo di cinque anni a decorrere dalla data della condanna definitiva per la prima violazione. Cass. 28
giugno 2000, n. 3881.
Sussiste continuità normativa valutabile, dopo l’abrogazione del principio di ultrattività penale
(art. 24, comma 1, D.Lgs. n. 507 del 1999), alla luce dell’art. 2 c.p., tra il reato di irregolarità nella circolazione (art. 49 D.Lgs 26 ottobre 1995, n. 504) ed il reato di trasporto di oli minerali senza il prescritto
certificato di provenienza (art. 15 legge n. 474 del 1957), avuto riguardo sia alla natura di Testo Unico del
D.Lgs. n. 504 del 1995 nonché alla permanente continuità di tutela del bene protetto dalla fattispecie
originaria, sia alla corrispondenza del fatto contestato a quello che costituisce oggetto della nuova disciplina, sia alla immutata valutazione legislativa della fattispecie. Cass. 9 maggio 2000, n. 8352.
In tema di induzione, agevolazione e sfruttamento della prostituzione, per effetto della novella di cui
alla legge 3 agosto 1998, n. 269 che ha inserito nel codice penale l’art. 600bis si è verificato un fenomeno
di successione di leggi penali nel tempo per le ipotesi in cui il soggetto passivo sia persona al di sotto
di una certa età; se antecedentemente alla modifica predetta, infatti, la condotta criminosa era aggravata
ove posta in essere ai danni di soggetto minore degli anni ventuno, attualmente essa, qualora riguardi
una persona minore degli anni diciotto, realizza un’ipotesi autonoma di reato, mentre rimane disciplinata
dall’art. 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75 l’azione rivolta avverso chi abbia età compresa fra i diciotto
ed i ventuno anni. Ne deriva, ai fini dell’applicazione dell’art. 2 c.p., che, qualora il soggetto passivo sia di
età minore degli anni diciotto, la condotta precedentemente punita rientra nella nuova previsione criminosa e che, quanto al trattamento sanzionatorio, continua ad applicarsi ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della riforma quello di cui agli artt. 3 e 4 della legge n. 75 del 1958 il quale, alla luce
del minimo edittale, si palesa più favorevole rispetto all’attuale. Cass. 4 aprile 2000, n. 7198.
Il regolamento CE, n. 3274/93 del 29 novembre 93, istitutivo del divieto di fornitura di taluni beni e
servizi alla Libia, norma extrapenale integratrice del precetto penale, costituisce un complesso di norme
eccezionali, in quanto derogatrici al principio della libertà di commercio tra gli Stati e temporanee, cioè
destinate ad operare per un tempo determinato, e pertanto rientra nella disciplina dettata dal quarto
comma dell’art. 2 c.p. Costituisce pertanto reato, indipendentemente dalla vigenza nel tempo del suddetto embargo, sospeso con il regolamento CE, n. 863/99, l’esportazione in Libia, in violazione del
divieto comunitario, di merce di cui era vietata l’esportazione verso detto Stato, sanzionata a norma
dell’art. 11 R.D.L. 14 novembre 1926, n. 1923. Cass. 22 febbraio 2000, n. 3905.
Il D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152 (Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento) ha modificato la precedente disciplina della L. 10 maggio 1976, n. 319 ed ha distinto (art. 59) tra scarico di acque
reflue industriali ed immissione occasionale. Il primo deve avvenire tramite condotta (art. 2 lett. bb) e
cioè a mezzo di qualsiasi sistema stabile - anche se non esattamente ripetitivo e non necessariamente
costituito da una tubazione - di rilascio delle acque predette, il secondo ha il carattere dell’eccezionalità
collegata con la menzionata “occasionalità”. Ne deriva che questo secondo comportamento non è più
previsto come reato con riferimento alla mancanza di autorizzazione, mentre è ancora tale in relazione al
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LIBRO PRIMO - DEI REATI IN GENERALE
superamento dei limiti d’accettabilità, poiché espressamente disciplinato (art. 59 comma 5). Il giudice di
merito, nel caso in cui l’imputato assuma che l’immissione sia stata occasionale, ha, pertanto, il dovere di
verificare tale estremo anche in relazione ai fatti commessi prima della vigenza della nuova disciplina, che è
ad essi applicabile, essendo disposizione più favorevole (art. 2 c.p.). Nell’ipotesi in cui la menzionata “occasionalità” risulta dal testo della sentenza impugnata deve essere la Corte di cassazione ad annullare senza
rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non è previsto come reato. Cass. 3 settembre 1999, n. 2774.
Poiché il D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152, in tema di disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento, pur elencando nell’art. 63 una serie di atti normativi dichiarati in modo espresso abrogati, si colloca in
posizione di sostanziale continuità rispetto ad essi, quantunque preveda in parte un regime sanzionatorio
più mite, ai fini della configurabilità come reato e della punibilità di condotta posta in essere prima della sua
entrata in vigore occorre accertare in via prioritaria l’eventuale sua depenalizzazione e, successivamente, la
possibilità di applicare il comma 3 dell’art. 2 c.p. (Fattispecie relativa al reato di scarico non autorizzato di
acque reflue industriali con superamento dei limiti di accettabilità, per il quale la S.C. ha ritenuto il diritto
sopravvenuto meno favorevole della L. n. 319 del 1976). Cass. 16 giugno 1999, n. 9739.
Lo scarico in mare di sostanze comprese nell’allegato alla legge n. 979 del 1982, effettuato da nave
italiana in acque internazionali secondo le prescrizioni della convenzione MARPOL (intendendosi con tale
espressione sia la Convenzione principale, sia gli annessi, sia gli allegati, sia il protocollo) non costituisce
reato, in quanto le norme di detta convenzione, entrate in vigore successivamente a quelle della citata
legge n. 979 del 1982, hanno introdotto una causa di liceità, in grado di incidere sullo stesso fatto tipico
descritto negli artt. 16 e 17 di quest’ultima, che può realizzarsi solo ove il versamento delle sostanze
nocive venga effettuato non ottemperando alle procedure previste dalla convenzione. (In motivazione, la
S.C. ha osservato che, anche a voler ritenere astrattamente possibile l’opposta soluzione interpretativa,
essa presenterebbe un tale tasso di irragionevolezza da porsi in contrasto con l’art. 3 della Costituzione,
tanto che un’eventuale adesione ad essa renderebbe ineludibile la denuncia di illegittimità costituzionale
degli artt. 16, 17 e 20 della legge n. 979 del 1982). Cass., Sez. Un., 24 giugno 1998, n. 8519.
Antecedentemente all’entrata in vigore della L. 23 dicembre 1993, n. 547 (in tema di criminalità informatica),
che ha introdotto in materia una speciale ipotesi criminosa, la condotta consistente nella cancellazione di dati
dalla memoria di un computer, in modo tale da rendere necessaria la creazione di nuovi, configurava un’ipotesi
di danneggiamento ai sensi dell’art. 635 c.p. in quanto, mediante la distruzione di un bene immateriale, produceva l’effetto di rendere inservibile l’elaboratore. (Nell’affermare detto principio la Corte ha precisato che tra il delitto
di cui all’art. 635 c.p. e l’analoga speciale fattispecie criminosa prevista dall’art. 9 L. n. 547 del 1993 - che ha
introdotto l’art. 635-bis c.p. sul danneggiamento di sistemi informatici e telematici - esiste un rapporto di successione di leggi nel tempo, disciplinato dall’art. 2 c.p.). Cass., Sez. Un., 9 ottobre 1996, n. 1282.
3. Obbligatorietà della legge penale.
La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio
dello Stato [4 comma 2], salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno [c.nav. 1080
comma 2]1 o dal diritto internazionale [c.p. 1889, 3].
La legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che, cittadini o stranieri si trovano all’estero, ma limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale2.
1
V. L. cost. 11 marzo 1953, n. 1, art. 5: I giudici della Corte costituzionale non sono sindacabili, né possono essere
perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.
2
Tra le eccezioni previste dal diritto internazionale, ricordiamo quella relativa alla persona del Sommo Pontefice (artt. 8,
10, 11, 19, 21, 22, Trattato 11 febbraio 1929 fra la Santa Sede e l’Italia, reso esecutivo con L. 27 maggio 1929, n. 810); quella
relativa ai rappresentanti delle Nazioni Unite (artt. IV, V, VII, Convenzione sui privilegi e le immunità delle Nazioni Unite,
approvata a New York il 16 febbraio 1946 e resa esecutiva con L. 20 dicembre 1957, n. 1318); quella prevista per i membri
delle istituzioni specializzate (artt. V e VI, Convenzione sui privilegi e le immunità delle istituzioni specializzate, approvata a
New York il 21 novembre 1947 e resa esecutiva con L. 24 luglio 1951, n. 1740); quella relativa al Consiglio d’Europa (artt. 10,
14 e 18, Accordo generale sui privilegi e le immunità del Consiglio d’Europa, adottato a Parigi il 2 settembre 1949 e reso
esecutivo con L. 27 ottobre 1951, n. 1578); quella per i militari o stranieri di stanza in Italia, appartenenti alle forze N.A.T.O.
(Convenzione di Londra del 19 giugno 1951 e resa esecutiva con L. 30 novembre 1955, n. 1335); quella relativa agli agenti
diplomatici e consolari, adottata a Vienna il 18 aprile 1961 e artt. 43, 45, 53-55, Convenzione sulle relazioni consolari,
adottata a Vienna il 24 aprile 1963, entrambe rese esecutive con L. 9 agosto 1967, n. 804); quella per i membri del Parlamento Europeo (art. 9, Protocollo sui privilegi e sulle immunità delle Comunità Europee, firmato a Bruxelles l’8 aprile 1965 e reso
esecutivo con L. 3 maggio 1966, n. 437).
GIURISPRUDENZA
1. Questioni di legittimità costituzionale; 2. Il principio di territorialità nell’applicazione della legge penale; 3. Le immunità; 3.1. Di diritto internazionale; 3.2. Di diritto interno; 4. Questioni processuali.
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