PROSPETTIVE DI UNA PENALIZZAZIONE DEL «MOBBING»

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PROSPETTIVE DI UNA PENALIZZAZIONE
DEL «MOBBING»
di Marina Sansone
SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Il primo
espresso riconoscimento della rilevanza penale del mobbing
nella giurisprudenza del Tribunale di Torino. – 3. Il problema della rilevanza penale del mobbing a titolo di violenza
privata o lesioni nell’esperienza giurisprudenziale di merito
relativa al settore privato. – 4. Segue: l’applicabilità del reato
di maltrattamenti nella giurisprudenza di legittimità. – 5. Segue: la giurisprudenza relativa al settore pubblico. – 6. Le
proposte di disciplina legislativa. – 7. Le ragioni giustificative della previsione di forme di responsabilità penale. – 8.
Rilievi conclusivi.
1. Considerazioni introduttive. – Le trasformazioni sociali in atto hanno generato effetti a catena
in tutti gli spazi di relazione umana. Il significato
sociale del lavoro, in particolare, non è esente da
questo cambiamento sia a livello percettivo-proiettivo che cognitivo. Il lavoro, infatti, richiede interventi strutturali non soltanto per la realizzazione di
aspettative comuni di massima occupazione ma di
recupero delle sue valenze sociali. Il mobbing può
considerarsi come l’espressione dell’incapacità diffusa di gestire il disagio del nuovo sistema relazionale.
L’approccio sociologico allo studio del mobbing
in questo senso può coniugarsi con quello medico,
se la prospettiva adottata è quella che vede malessere e benessere individuale del lavoratore coincidere con quello dell’impresa: una prospettiva in cui
la realizzazione del successo sociale del benessere
individuale connoti di una nuova valenza il significato di ecologia sociale delle risorse umane (1).
Di tale avviso sembra il Parlamento europeo che
in una recente Risoluzione, nel ribadire la necessaria attenzione agli effetti devastanti del mobbing
sulla salute psico-fisica delle vittime nonché delle
loro famiglie (approccio medico), evidenzia tra le
cause del mobbing le carenze a livello di organizzazione lavorativa, di informazione e di direzione
(approccio sociologico) accentuandone le conseguenze negative in termini di redditività e produttività dell’impresa (2).
Lo scenario in cui il mobbing nasce è alimentato
da un’organizzazione del lavoro caratterizzata da
atteggiamenti di «competitività distruttiva» anziché
di «emulazione solidale», miope quanto alle conseguenze di lunga durata se non addirittura penalizzata da costi di ritorno delle pratiche mobbizzanti
(3).
L’indirizzo giurisprudenziale in Italia si è però
assestato sull’approccio medico, annoverando tra i
rischi che tradizionalmente causano alterazioni
della salute addebitabili al lavoro e cioè quelli fisici,
psichici, chimici, ambientali i rischi di nuova generazione definiti appunto «relazionali» o «interpersonali» (4).
I danni di natura psico-fisica che tali rischi comportano vanno dai più o meno lievi disturbi
dell’adattamento alla nota triade depressione, ansia,
panico che talvolta può condurre alla morte (suicidio, infarto da mobbing) (5).
Per l’azienda i danni diretti (produttività, redditività) e/o indiretti (così dovuti ad assenteismo, indennità ai lavoratori dimessi o licenziati) di natura
economica, placcano l’immagine interna ed esterna
(effetti su i sighted mobbers ovvero testimoni, e in
genere sugli stakeholders...) connotandone la mission aziendale (6).
Il fenomeno investe insomma più aree: la medicina come la sociologia e la psicologia del lavoro o
quella giudiziaria, denunciandone insieme agli effetti devastanti le pesanti ricadute sociali e giuridiche (7).
Già la denominazione del fenomeno mutuata
dall’etologia (to mob assalto del branco contro
l’animale isolato) connota la sua intrinseca negatività in quanto associa al comportamento animale la
corrispondente condotta umana seppure contestualizzandola al mondo del lavoro.
Sotto un profilo giuridico, il mobbing si sviluppa
intorno a tre distinte figure soggettive mobber o aggressore – mobbed o vittima – sighted mobber o
spettatore che, assumendo posizioni diverse, possono dar luogo alle tre tipologie di mobbing verticale, orizzontale e ascendente (8).
Il mobbing verticale è posto in essere dal datore
di lavoro o dai sovraordinati, quello orizzontale è
compiuto dai colleghi di pari grado mentre l’ascendente è messo in atto dagli inferiori gerarchici o/e
dai subordinati ai danni del loro superiore.
Una recente definizione del mobbing, che ci
sembra riassumere puntualmente tutte le precedenti, lo configura come una situazione lavorativa
di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono
fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare
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alla vittima danni di vario tipo e gravità (9). Il mobbizzato si trova nell’impossibilità di reagire adeguatamente a tali attacchi e a lungo andare accusa disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore che
possono portare anche a invalidità psicofisica permanente (10).
L’ambiente lavorativo, la frequenza, la durata, e
il tipo di azioni, le diverse posizioni dei soggetti
coinvolti, la necessità o meno dell’intento persecutorio costituiscono i parametri necessari per il riconoscimento del mobbing da parte dei giudici (11).
La tentazione di liquidare il mobbing identificandolo nel fisiologico conflitto sempre esistito tra impresa e lavoratore si scontra non solo con la centralità che l’argomento occupa nella legislazione
dell’Unione Europea, ma soprattutto con il progredire della «giuridica rilevanza» che la sofferenza
umana reclama come ineludibile, richiamo avvertito dai giudici, autentici interpreti della «coscienza
sociale» che in numerose sentenze hanno dato vita
ad una vera e propria norma giurisprudenziale in
tema di responsabilità da mobbing (12).
Probabilmente il modello di regolazione attualizzato per coniugare flessibilità e precarizzazione
dei rapporti di lavoro ne alimenta le incertezze e
contribuisce ad elevare la suscettibilità dei lavoratori a comportamenti datoriali poco ortodossi, laddove invece il tradizionale schema di rapporto di lavoro sempre meno blindato concede spazio a
pratiche più «etiche» per fini espulsivi (13).
Da qui l’inevitabile prioritaria ricerca di stigmatizzare le condotte pregiudizievoli alla salute e al lavoro come «vero» o «presunto» mobbing (14).
La psicologia del senso comune e le categorie
giuridiche possono però non coincidere e in questo
senso sono state denunciate ulteriori difficoltà di individuare fattispecie giuridiche nelle cause di mobbing (15).
Nella traduzione dei linguaggi, infatti, appare
evidente «l’assenza del distinguo tra azioni e realtà
psichica da parte del diritto». Si giustifica così il ricorso frequente alle concause cui si riferiscono i
medici legali nell’individuazione del danno psicologico da mobbing. Su questo piano, infatti, è particolarmente difficile individuare il nesso causale
tra condotta ed evento lesivo che può essere solo
parziale o inesistente o imputabile ad una predisposizione soggettiva fino all’ipotesi più eventuale di
evidente simulazione (16).
Alle concause viene sempre più diffusamente addebitato il danno psichico preesistente soprattutto
ad opera dei consulenti tecnici limitando per questa
via una responsabilità piena del mobber laddove invece è proprio la debolezza, la vulnerabilità psicologica innata, la peculiarità che fa del singolo lavoratore un bersaglio privilegiato per la riuscita del
mobbing (17).
L’approccio psicologico di gestione dei fenomeni psico-sociali, ai quali afferisce il mobbing, necessita dell’adozione di modelli di carattere «co-
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struttivistico-interpretativo» piuttosto che
consentire l’utilizzo di «paradigmi scientifici positivisti»: non vi è dubbio, infatti, che condizioni, elementi e persino eventi differenti possano produrre
gli stessi effetti e/o viceversa (18).
Il danno psicologico si fonda sui livelli di attribuzione di senso e significato costruiti nel rapporto
tra individuo e contesto e la sua causa va ricostruita
su un ideale percorso circolare più che lineare (19).
Il mobbing, afflitto dalla persistente assenza di
inquadramento giuridico della fattispecie, gode
però, di fatto, di una disciplina risultante dall’apporto di materie diverse (a tale definizione hanno
contribuito insieme giudici e avvocati, medici e psicologi) ma soprattutto da quel diritto senza leggi,
creato dalla giurisprudenza di cui si è detto (20).
La Corte costituzionale (con sentenza 19 dicembre 2003, n. 359) nel giudicare illegittima la L.R.
Lazio 11 luglio 2002, n. 16, contenente disposizioni
per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing
nei luoghi di lavoro, sotto il profilo della incompetenza della regione a fornire la nozione giuridica di
un fenomeno afferente all’ordinamento civile, ha
evidenziato che, pur in assenza di una specifica disciplina di legge, il mobbing è stato inserito in atti
interni statali e precisamente nel D.P.R. del 2003 di
approvazione del piano sanitario nazionale 20032005 e nella delibera della stessa data di accordo tra
il Ministro della salute, le regioni e le province autonome sul bando di ricerca finalizzata per l’anno
2003 per i progetti ex art. 12 bis D.L.vo 30 dicembre
1992, n. 502 (21).
Altro atto era la circolare dell’Inail n. 71 del 17
dicembre 2003, che trattava i disturbi da costrittività
organizzativa (cioè di mobbing) come malattia tabellata, non sottoposta, pertanto, alla procedura di
accertamento demandata alla commissione scientifica per l’elaborazione e la revisione periodica delle
tabelle ex artt. 3 e 211 D.P.R. 1124/65. Tale provvedimento è stato, però, annullato dal Tar Lazio
(sentenza 4 luglio 2005 n. 5454) in quanto connetteva l’insorgere di malattie psichiche o psicosomatiche a determinati fattori di nocività, prescindendo
dalla necessità di dimostrazione del nesso di causalità, la cui prova grava sul lavoratore (22).
2. Il primo espresso riconoscimento della rilevanza penale del mobbing nella giurisprudenza del
Tribunale di Torino. – Il primo espresso riconoscimento della rilevanza del mobbing, come fattispecie
normativa, si deve alle sentenze del Tribunale di
Torino, sez. lav., 16 novembre e 30 dicembre 1999,
da cui emergono i requisiti indispensabili per la sua
configurabilità: le condotte ripetute e costanti nel
tempo ed il fine.
Le sentenze hanno l’indubbio merito di avere affrontato il tema con una visione complessiva, riconducendo ad un concetto unitario il mobbing, quale
complesso di azioni pregiudizievoli i cui effetti ne-
gativi sulla salute del lavoratore sono ritenuti risarcibili (23).
Successivo è per il giudice il compito di individuare le disposizioni normative utilizzabili o adattabili per sanzionare la responsabilità del datore di
lavoro, nello specifico il combinato disposto di cui
agli artt. 2043 e 2087 c.c. e all’art. 32 Cost. (24).
Non può prescindersi, inoltre, dalla rilevanza del
nesso di causalità o quantomeno di concausalità tra
le vessazioni e le patologie insorte ricorrendo alla
consulenza tecnica d’ufficio o attribuendo rilevanza ai certificati medici prodotti (come è ribadito
nelle stesse pioniere sentenze) (25).
La mancanza di norme scritte incide anche sul
problema delle prove affrontato più volte dalla Cassazione; la domanda di risarcimento del lavoratore
è certamente gravata dal rigoroso onere della prova
ex art. 2697 c.c. Trovano applicazione anche in caso
di mobbing le regole generali sulla responsabilità
contrattuale ed extra-contrattuale: in caso di danno
biologico o alla salute inteso come violazione
dell’integrità psico-fisica ex art. 2087 c.c., secondo
le regole della responsabilità contrattuale, sarà necessaria la prova della sussistenza dei comportamenti illegittimi, del verificarsi dei danni e del
nesso di causalità tra condotte e danni; in caso di
danno ingiusto ex art. 2043 c.c., secondo le regole
della responsabilità extra-contrattuale, quella della
condotta che ha causato il danno, del nesso causale,
e della colpa o dolo di chi è ritenuto responsabile
(26).
Le successive sentenze riconoscono il diritto al
risarcimento del danno psichico da mobbing sotto
forma di danno esistenziale quale lesione della dignità e personalità morale del lavoratore, forse per
le oggettive difficoltà di quantificazione medico-legale del danno biologico (27).
Il ricorso alla categoria esistenziale derivante
dalla lesione della dignità umana e risarcibile secondo il combinato disposto dell’art. 2043 c.c. e
dell’art. 41, comma 2, Cost. viene poi ripreso in altre sentenze e studi. In particolare, nel rifiuto di
reintegrare il lavoratore è stato ravvisato danno da
lesione di diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti (28).
3. Il problema della rilevanza penale del mobbing a titolo di violenza privata o lesioni nell’esperienza giurisprudenziale di merito relativa al settore privato. – La giurisprudenza, che non a caso
costituisce il cosiddetto diritto vivente, ha colto per
tempo la necessità di ricorrere allo strumento
penale per reprimere il fenomeno mobbing. In
assenza di una fattispecie ad hoc e di fronte all’esigenza di salvaguardare beni giuridici fondamentali
quali la salute, la vita o, più in generale, la persona
umana, essa ha fatto, pertanto, ricorso ad alcune fattispecie già codificate che, a seconda dei casi concreti, meglio si prestavano a tutelare i beni aggrediti
dalle condotte mobbizzanti.
In sintesi anticipiamo che le tipologie di fattispecie finora prese in considerazione sono fondamentalmente quattro: e cioè, con riferimento ai contesti lavorativi privati, i reati di violenza privata,
lesioni e maltrattamenti, per vero con una tendenziale prevalenza di quest’ultimo; nell’ambito invece del mobbing nelle pubbliche amministrazioni,
il reato di abuso di ufficio.
Cominciando dall’esperienza applicativa nel
settore privato, riscontri giurisprudenziali relativi ai
reati di violenza privata e lesioni si registrano, per
quanto risulta, soltanto nella giurisprudenza di merito.
A) Un caso edito di applicazione dell’art. 610
c.p. è stato oggetto di una sentenza del Tribunale di
Taranto 7 marzo 2002, (29) avente precisamente ad
oggetto l’ipotesi di una società datrice subentrata, a
seguito di privatizzazione, nella gestione di un precedente stabilimento: nonostante l’impegno assunto di garantire la continuità di lavoro dei dipendenti facenti parte del precedente organico, il nuovo
datore di lavoro trasferì i lavoratori in questione in
una palazzina isolata, dove non ebbero modo di
svolgere un solo giorno di attività lavorativa e dove
veniva lesa la loro libertà e dignità di lavoratori.
Nella motivazione della relativa sentenza, il tribunale, anteponendo alla valutazione penalistica la
ricostruzione degli aspetti giuslavoristici incentrati
sulla ritenuta violazione dell’art. 2103 c.c. che statuisce la immodificabilità in pejus delle mansioni di
assunzione e sanziona di nullità ogni patto contrario, (30) (31) ha ritenuto che il tentativo di procedere al declassamento professionale dei lavoratori
inviati alla palazzina, già illegittimo sotto il profilo
del diritto del lavoro, rilevi ulteriormente – per le
modalità di attuazione e per lo scopo perseguito –
sotto il profilo penale nei termini di tentativo di violenza privata ex art. 610 c.p.
E invero, il giudice ha rilevato come alla mera
minaccia di essere inviati alla palazzina quale sorta
di girone dantesco contrassegnato dalla sistematica
frustrazione delle legittime aspirazioni lavorative –
qualora gli impiegati in esubero non avessero accettato il declassamento loro proposto, faceva sistematicamente seguito la coazione relativa, consistente nell’effettivo trasferimento alla palazzina;
condotte giudicate, entrambe, idonee a ledere la libertà di autodeterminazione delle vittime del reato.
B) La giurisprudenza ha altresì ammesso la rilevanza penale delle condotte vessatorie perpetrate a
danno del lavoratore, seppure non riferendosi
espressamente come nella menzionata pronuncia al
mobbing, in relazione al reato di lesioni personali
colpose: è ravvisato, precisamente, dal Tribunale di
Torino (32) nella condotta di un imprenditore ritenuto responsabile di aver causato, con una serie di
azioni vessatorie e di violenza psicologica, al proprio dipendente (guardia giurata) un infarto del
miocardio con relative lesioni insanabili. Nella sentenza i fatti relativi al capo di imputazione sono paRIVISTA PENALE 09/2006
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lesemente riconducibili al mobbing verticale, nella
cui nozione sono peraltro opportunamente ricomprese condotte vessatorie non necessariamente mirate all’estromissione del dipendente dall’apparato
organizzativo e produttivo dell’azienda (33).
Le argomentazioni in punto di diritto del Tribunale di Torino muovono, innanzi tutto, dall’analisi
del combinato disposto di due principi chiave del
nostro ordinamento, sanciti dalla Costituzione agli
artt. 32 e 41: la tutela del diritto alla salute, inteso
come generale difesa dello stato psicofisico della
persona e il limite posto alla libertà di iniziativa economica privata dell’utilità sociale.
Siffatta valorizzazione delle citate norme costituzionali – peraltro in linea con la dottrina e la giurisprudenza ampiamente maggioritarie – consente,
dunque, al Giudice di Torino di individuare nell’art.
2087 c.c. una vera e propria norma di chiusura del
sistema antinfortunistico (34) estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate in sede legislativa.
Con tali premesse l’organo giudicante afferma
che «il datore di lavoro si può rendere responsabile,
con il proprio comportamento omissivo, di eventuali patologie che, a differenza degli infortuni, dipendono da un’azione lesiva operante non con rapidità, bensì con gradualità».
Se ne fa discendere che il datore ha non solo il
dovere di adottare le misure di sicurezza, igiene e
protezione che sono imposte dalla legge o suggerite
dalle regole di esperienza o da specifiche conoscenze tecniche, ma avrà anche l’obbligo di attivarsi
per predisporre tutte quelle misure generiche di prudenza e diligenza che possano apparire necessarie
allo scopo di preservare il lavoratore nella sua integrità psicofisica.
Il datore di lavoro che, dunque, fosse inadempiente rispetto a siffatto obbligo specifico andrebbe
incontro a responsabilità civile ma, in ultima analisi,
anche a responsabilità penale. A tale proposito, infatti, il Tribunale di Torino mostra di condividere
quell’orientamento giurisprudenziale (35) secondo
cui la violazione della norma di cui all’art. 2087 c.c.
integrerebbe gli estremi della colpa specifica di cui
al comma 3 dell’art. 590 c.p.
4. Segue: l’applicabilità del reato di maltrattamenti nella giurisprudenza di legittimità. – Il
novero di fattispecie di reato utilizzabili al fine di
conferire rilevanza penale alle pratiche di mobbing,
lungi dall’esaurirsi a quelle già esaminate, è comprensivo di altri reati quali l’ingiuria, la diffamazione, gli abusi sessuali, la molestia o il disturbo alle
persone, l’istigazione al suicidio.
Ma, nel tentativo di superare le «rappresentazioni» parziali del mobbing cui i suddetti reati corrispondono, sembra assunto dalla giurisprudenza
come il più adeguato a fornirne, invece, una «rappresentazione» unitaria (36) del fenomeno il reato
di maltrattamenti. Siffatto reato, a carattere abituale
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e necessariamente doloso, si presta infatti a sussumere le multiformi pratiche vessatorie tipiche del
mobbing nelle condotte definite nella norma appunto «maltrattamenti». Anche se l’applicazione
della fattispecie in parola per altro verso rimane più
incerta sotto il profilo della sua astratta estensibilità
ai rapporti tra datore di lavoro e lavoratore, richiedendo tale operazione una forzatura interpretativa
del concetto, nella fattispecie incluso, di «persona
affidata per l’esercizio di una professione...»:
espressione che evoca tipologie di rapporti di lavoro
alquanto marginali (37).
La Cassazione (38) ha tuttavia ritenuto che integri il delitto di maltrattamenti la condotta del datore
di lavoro e dei suoi preposti che, nell’ambito di un
rapporto di lavoro subordinato, realizzino atti volontari, idonei a produrre uno stato di abituale sofferenza fisica e morale nei dipendenti, quando la finalità perseguita dagli agenti non sia la loro
punizione per episodi censurabili ma lo sfruttamento degli stessi per motivi di lucro personale
(39).
Le finalità perseguite dagli imputati non rientrano infatti, secondo la Corte, in quelle educative e
correttive proprie dell’uso dei mezzi di correzione,
in quanto neanche astrattamente ricollegabili a inadempimenti o errati adempimenti contrattuali, né a
infrazioni disciplinari da parte dei giovani lavoratori, ma solo rivolte alla realizzazione di lucro personale (40).
Sul piano dell’elemento soggettivo la Corte ha
chiarito che il dolo del reato in oggetto è generico
e consiste nella volontà cosciente di ledere l’integrità fisica e morale della vittima, ribadendo la necessaria unitarietà dell’intento criminoso (41).
In una successiva pronuncia di merito, (42) che
trae spunti argomentativi dalla giurisprudenza di legittimità, sono stati i preposti del datore di lavoro ritenuti colpevoli di maltrattamenti, precisamente per
avere realizzato condotte ostili, umilianti e lesive
della dignità personale dei dipendenti nell’ambito di
una precisa strategia aziendale concertata e condivisa da entrambi gli imputati. L’adozione di condotte solo verbali, per quanto reiterate, a differenza
di quelle del precedente processo consistite in violenze anche fisiche, incide, secondo il Tribunale di
Torino, sulla gravità concreta del reato commesso,
e giustifica una scelta sanzionatoria orientata ai minimi edittali.
5. Segue: la giurisprudenza relativa al settore
pubblico. – Quanto al settore pubblico la Cassazione, in una sentenza di condanna per abuso di ufficio di cui all’art. 323 c.p., pronunciata nel gennaio
2004, (43) ha invece fornito argomenti utili per la
verifica dell’applicabilità della fattispecie predetta
all’ipotesi di mobbing, laddove nella condotta che
sia rivolta ad arrecare un danno ingiusto a un subordinato (piuttosto che in quella diretta a far conseguire all’agente o a terzi intenzionalmente un van-
taggio patrimoniale) possano essere ravvisate
proprio quelle pratiche di mobbing che sempre più
frequentemente si registrano anche nelle pubbliche
amministrazioni (44).
La casistiva del mobbing, nel pubblico impiego
è destinata ad arricchire quella del settore privato,
rendendo necessaria, dunque, la verifica della sussistenza dell’ipotesi di abuso d’ufficio come reato
pertinente a tutta una serie di condotte tipiche del
mobbing, (45) che potrebbe concorre con altri reati,
quali lesioni, maltrattamenti, violenza privata, la
cui configurazione è già affermata in giurisprudenza (46).
Nel caso di specie, l’imputato, nella qualità di
Direttore, aveva adottato un ordine di servizio di revoca di tutti gli incarichi svolti dalla dipendente,
senza il preventivo e necessario nulla osta del Dirigente Generale ed in violazione della normativa in
materia, allo scopo di danneggiarla per una testimonianza resa dalla stessa contro di lui in un procedimento penale.
Si è ritenuto dai giudici di merito che la condotta
suddetta integrasse gli estremi del reato di cui
all’art. 323 c.p.: ma avverso la sentenza di condanna l’imputato ricorreva chiedendone l’annullamento per supposti vizi motivazionali relativi alla
valutazione del danno e alla ricostruzione del dolo
intenzionale e per la lamentata mancata verifica del
requisito della violazione di legge, necessario ai fini
della configurabilità del reato di abuso.
Sennonché la S.C. esclude la natura solo patrimoniale del danno relativo al reato in oggetto, affermando che il danno può derivare anche dall’aggressione ingiusta alla sfera della personalità,
tutelata dalle norme costituzionali (47).
Quanto al dolo, la Corte, rifacendosi a quella
giurisprudenza di legittimità che restringe l’operatività del momento soggettivo al dolo di evento, riconosce nel comportamento dell’imputato un mero
intento vendicativo.
Infine, la censura sulla mancata individuazione
delle norme di legge e di regolamento violate non
viene accolta poiché l’ordine di servizio era stato
considerato dal giudice di prime cure un provvedimento cautelare «abnorme» di sospensione retribuita dal servizio, non previsto né ammesso da alcuna
norma attinente alla regolamentazione dei procedimenti disciplinari, e confliggente per la sua carenza
motivazionale con le norme di cui alla legge 7 agosto 1990 n. 241 sulla trasparenza degli atti amministrativi, e infine arbitrario rispetto alla direttiva
interna 23 febbraio 1996 (48).
Comunque, più in generale va rilevato che la
nuova formulazione dell’art. 323 c.p., introdotta
dalla legge 17 luglio 1997, n. 234, prospetta più ordini di motivi che ne rendono non facile l’applicabilità a pratiche di mobbing in ambito pubblico.
Intanto, la norma violata (legge o regolamento),
ora necessaria per l’integrazione del reato, non può
intendersi come genericamente strumentale alla re-
golarità dell’attività amministrativa, ma deve
espressamente prevedere le regole di comportamento, la cui violazione costituisce illecito punibile.
Il delitto di abuso di ufficio va considerato, dopo
la riforma del 1997, come reato di evento il cui elemento soggettivo si configura in termini di dolo intenzionale, onde è da escludere la rilevanza del dolo
eventuale. Il danno ingiusto al dipendente o eventualmente l’ingiusto vantaggio necessari per la configurabilità della fattispecie (alternativamente o
congiuntamente), se riconducibili al mobbing, non
potranno essere conseguenze accessorie della condotta del pubblico ufficiale o incaricato del pubblico servizio, ma dovranno costituire l’effetto direttamente perseguito col compor tamento
mobbizzante (49).
6. Le proposte di disciplina legislativa. – Sebbene autorevoli giuristi (50) abbiano ripetutamente
sottolineato la scarsa opportunità di un intervento
legislativo che introduca un’apposita disciplina del
fenomeno mobbing, evidenziando il fatto che
l’ordinamento sarebbe già dotato di efficaci strumenti di tutela in favore dei lavoratori vittime di
violenza psicologica nell’ambiente di lavoro, il
legislatore italiano, non ha dato ascolto a siffatte
istanze conservatrici, ma si è posto in una prospettiva di riforma, prediligendo quel diverso orientamento dottrinale che, saldandosi ad un diffuso moto
d’opinione, rimarca la necessità di predisporre
nuovi e più efficaci strumenti di prevenzione e
repressione del mobbing.
Del resto, se è vero, come da più parti si afferma,
– che il mobbing costituisce la malattia sociale del
nostro tempo (51) (affermazione che sembra trovare un’indiscutibile conferma nei dati sconcertanti
offerti dalle più recenti ricerche statistiche) – il legislatore, sia pure tra le inevitabili difficoltà dovute
al fatto che il mobbing rappresenta per l’Italia una
scoperta recente, non poteva sottrarsi al compito di
progettare una disciplina legale del fenomeno.
Nel corso delle ultime legislature sono, dunque,
proliferati i progetti e le proposte di legge in materia
(provenienti, peraltro, da esponenti di forze politiche diverse, quasi a sottolineare la trasversalità del
fenomeno e il suo forte e variegato impatto sociale)
che hanno rispettivamente tentato un diverso approccio al fenomeno, suggerendo o una tutela di
tipo privatistico, consistente per lo più nell’annullamento degli atti vessatori, nel risarcimento del
danno patito dalla vittima in via equitativa, nella responsabilità disciplinare del mobber o dei lavoratori responsabili di mobbing inverso o ascendente
etc., (52) ovvero l’irrogazione di sanzioni penali,
detentive o pecuniarie, corredate da pene accessorie
quali l’interdizione dai pubblici uffici.
Non sembra, però, necessaria né opportuna una
drastica opzione tra sanzioni risarcitorie di tipo civilistico, sanzioni amministrative o penali-amminiRIVISTA PENALE 09/2006
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strative e sanzioni penali. Per combattere in modo
significativo il mobbing l’eventuale introduzione di
forme di tutela di tipo penale non dovrebbe, infatti,
escludere un efficace impianto civilistico e giuslavoristico di più immediata tutela per il lavoratore.
6.1. – Gli ultimi progetti – e cioè quelli che
mirano a riconoscere una piena rilevanza penale al
mobbing – destano particolare interesse poiché –
come si avrà modo di evidenziare nel prosieguo –
essi si collocano sulla falsariga delle soluzioni adottate già da tempo in Svezia (primo Paese a elaborare
una complessa strategia preventivo-repressiva del
fenomeno) e, più di recente in Francia, dove la legge
di modernizzazione sociale del 17 gennaio 2002 n.
73 ha inserito nel codice penale, agli artt. 222-33-2,
il delitto di molestie morali: il quale sanziona
espressamente le molestie realizzate con comportamenti ripetuti aventi per oggetto o per effetto una
degradazione delle condizioni di lavoro potenzialmente lesiva dei diritti soggettivi individuali o della
dignità personale del lavoratore mobbizzato, ovvero
anche in grado di alterare o pregiudicare la sua
salute fisica o mentale, o infine di compromettere
temporaneamente o definitivamente il suo avvenire
professionale. L’integrazione del reato richiede una
partecipazione psicologica qualificata dell’agente
che non potrà risponderne a titolo di mera colpa, ma
soltanto a titolo di dolo, specificamente differenziato in ragione degli effetti che devono o almeno
possono derivare dalla condotta adottata (53).
Due le proposte elaborate nel corso della XIII legislatura e decadute allo scadere del mandato parlamentare, che hanno cominciato a prospettare in
Italia la repressione penale del mobbing: la AC
1813/96 «Norme per la repressione del terrorismo
psicologico nei luoghi di lavoro» e la AC 6667/00
«Disposizioni per la tutela delle persone da violenze
morali e persecuzioni psicologiche».
La prima consta di un solo articolo e richiede che
la condotta «tesa ad instaurare una forma di terrore
psicologico nell’ambiente di lavoro», la quale deve
realizzarsi attraverso minacce, molestie, calunnie,
ed ogni altro atteggiamento vessatorio, produca un
danno al lavoratore conducendolo «all’emarginazione, alla diseguaglianza di trattamento economico
e di condizioni lavorative, all’assegnazione di compiti o funzioni dequalificanti».
La proposta di legge AC 1813/96, dunque, struttura il delitto di terrorismo psicologico sul posto di
lavoro come un reato di danno a dolo generico: occorre, in altre parole, che la condotta vessatoria si
traduca effettivamente in un danno (per es., l’emarginazione o l’assegnazione a funzioni dequalificanti) e che vi sia la decisione volontaria del mobber
di provocarlo.
Per contro, la proposta AC 6667/00 adotta, da un
lato, una più ampia nozione di mobbing, comprensiva non soltanto delle ipotesi conclamate di violenza psicologica ma anche di tutti quei comporta-
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menti che ad essa appaiono «comunque
riconducibili»; dall’altro, pone con forza l’accento
sulla necessità di tutelare mediante il ricorso allo
strumento penale quei diritti inerenti alla dignità e
allo sviluppo della persona che trovano riconoscimento nella Costituzione e nella normazione internazionale. Il dolo richiesto non è generico ma specifico e consiste nell’aver posto in essere
comportamenti integranti ipotesi di violenza psicologica «inequivocalmente e strumentalmente finalizzati a provocare un danno» al soggetto che ne risulta destinatario (54).
La proposta in esame, che è senz’altro più articolata della precedente, prevede un reato di condotta che si realizza a prescindere dall’evento dannoso in capo al lavoratore, fermo restando che il
verificarsi del danno psico-fisico o materiale-economico comporta un aumento di pena. La sanzione
pecuniaria ipotizzata alternativamente a quella penale, soprattutto nelle ipotesi di bossing, è concepita
come deterrente ulteriore nei confronti di quei soggetti aziendali che attuino forme terroristiche ai
danni dei lavoratori (55).
6.2. – I progetti in esame, sebbene decaduti –
come poc’anzi ricordato – hanno costituito il fertile
terreno di coltura su cui, nel corso della XIV legislatura, dopo ben otto disegni di legge che privilegiavano il ricorso a sanzioni civilistiche di tipo
risarcitorio e ripristinatorio, è maturato quel disegno
di legge (AS 1290/02) recante il titolo di «Norme
generali contro la violenza psicologica nei luoghi di
lavoro» che, ad oggi, costituisce la proposta giuridica più avanzata di repressione penale delle condotte cosiddette «mobizzanti».
A) Il disegno di legge in esame contiene, innanzi
tutto, una definizione specifica dei diversi atti in cui
si sostanzia il mobbing lavorativo.
Sotto il profilo oggettivo la condotta, penalmente
rilevante di violenza psicologica nell’ambiente di
lavoro viene descritta come «ogni complesso d’atti,
caratterizzati da ripetitività e durata di medio-lungo
periodo», posti in essere, nell’ambito lavorativo, da
chiunque ai danni di chiunque vi si trovi per svolgere le proprie mansioni lavorative.
Il carattere sistematico, duraturo e intenso, opportunamente ribadito, delle azioni mobbizzanti è
presente in tutti i disegni di legge inclusi quelli non
ipotizzanti figure di reato, volendosi per questa via
contenere pericolose applicazioni estensive della
fattispecie. Nella prassi, peraltro, il vero mobbing,
quando inizia, non solo difficilmente rientra da solo
ma si connota di atti sempre più gravi. La condotta
richiesta all’agente per essere penalmente rilevante
a fortiori non può essere integrata da un singolo atto
o da un atteggiamento isolato (56).
I mobbers vengono individuati in «una o più persone nella loro qualità di lavoratori pubblici o privati, sopraordinati o sottordinati contro altri lavoratori di livello rispettivamente inferiore o superiore e
che comportano la sistematica non attribuzione
d’incarichi adeguati o l’assegnazione di compiti
squalificanti, la formulazione di continue critiche
alle prestazioni od alle capacità professionali anche
con atti di rilevanza esterna al luogo di lavoro, l’irrogazione di censure prive d’effettiva motivazione
o con motivazione scarna e lacunosa, la compromissione dell’immagine professionale e personale
sul luogo di lavoro ed altre conseguenze negative
sul soggetto colpito». Altri progetti (n. 942, 1242...)
includono più puntualmente le collaborazioni, tipologie di lavoro ormai diffusamente presenti sia nei
rapporti di lavoro privati che con pubbliche amministrazioni, e prescindono dalla natura, mansione e
grado.
Integra, inoltre, parimenti la violenza psicologica nell’ambiente di lavoro ogni comportamento
di persona lavorativamente sopraordinata o sottordinata, che arbitrariamente ed ingiustificatamente,
nonché in assenza di fondate ragioni obiettive determini nei confronti di lavoratori singoli o di
gruppi di lavoratori una lesione di diritti riconducibili a demansionamento professionale, che a sua
volta può dar luogo ad una pluralità di pregiudizi incidenti sulla potenzialità economica nonché sull’intera vita professionale e di relazione degli interessati, con particolare riguardo alla lesione del diritto
fondamentale alla libera esplicazione della loro personalità nel luogo di lavoro. Le misure di contrasto
ai suddetti comportamenti sono concepite come riflesso dei principi costituzionali inerenti al diritto
alla salute e alla dignità del lavoratore come limite
alla libertà di iniziativa economica, e richiamano il
contenuto della norma di cui all’art. 2087 c.c. nella
sua più intima, ma poco valorizzata dalla giurisprudenza, vocazione a tutelare i valori della persona
nel rapporto di lavoro (57).
Per quanto concerne l’elemento soggettivo la
normativa, limitandosi a richiedere una generale intenzionalità, rimanda al dolo generico; in ciò differenziandosi dalla precedente proposta AC 6667/00
la quale imperniava l’ipotesi delittuosa su di una
partecipazione psicologica integrante gli estremi
del dolo specifico.
Il mobbing, qualificato «delitto di violenza psicologica sul lavoro», viene nella proposta normativa in esame attratto del tutto, con la sua espressa
e ben definita contestualizzazione al lavoro,
nell’area del diritto penale del lavoro, rifiutandosi
le prospettazioni più estensive contenute nei disegni di legge precedenti.
Viene poi configurata come circostanza aggravante l’ipotesi di istigazione al mobbing e al bossing solo determinata da una strategia aziendale mirante a provocare dimissioni o licenziamenti di uno
o più lavoratori per ridurre o ridistribuire più facilmente il personale.
La norma fa poi salve tutte le ipotesi che integrino reati più gravi rispetto alla nuova fattispecie
configurata di violenza psicologica, e prevede
espressamente responsabilità per danno erariale nel
caso di reati o comunque d’illeciti commessi per
violenza psicologica nell’ambiente lavorativo
d’amministrazioni pubbliche. La responsabilità per
danno erariale potrebbe essere certamente integrata
nei casi di svuotamento totale o parziale di mansioni, con un eventuale paradossale concorso di
fatto del lavoratore mobbizzato se ritenuto colpevole dell’acquiscenza (in realtà motivata dal terrore
psicologico) all’azzeramento o alla residua esiguità
dei compiti contrattuali dovuti (58).
L’estensione dell’operatività delle tutele anti
mobbing nell’ambito delle attività dei partiti politici
e delle associazioni non riconosciute, l’istituzione
di due «sportelli contro gli abusi» uno per i pubblici
dipendenti presso la Presidenza del Consiglio dei
Ministri e uno per i dipendenti delle aziende private
presso il Ministero del lavoro, in uno con la richiesta di adeguata campagna di informazione e prevenzione di qualsiasi forma di violenza psicologica,
chiudono significativamente il quadro normativo
prospettato.
B) Il successivo disegno di legge n. 2420, dal titolo «Tutela dalle pratiche di mobbing» configura
anche una forma di tutela penale. Un punto di forza
aggiuntivo, quanto all’efficacia della tutela, è certamente rinvenibile nella previsione dell’inversione
dell’onere della prova a favore del lavoratore che
agisse in giudizio per la tutela dei suoi diritti. Il testo progettato, infatti, esige che il presunto mobber
convenuto in giudizio dovrà dimostrare non solo
l’inesistenza della condotta addebitata o delle vessazioni lamentate, ma anche la legittimità dei comportamenti adottati e, nel caso sia il datore di lavoro
in persona, l’adeguatezza delle misure di prevenzione o di repressione impiegate, naturalmente solo
laddove il lavoratore abbia fornito, però, indizi sufficienti per lasciar presumere l’esistenza di una
forma di mobbing ai suoi danni (59).
I comportamenti presuntivi di mobbing, fino a
prova contraria, vengono individuati dettagliatamente ribadendosi, ancora una volta, la necessità
che si tratti di comportamenti reiterati. Altra proposta significativa del progetto riguarda il rafforzamento dell’azione giudiziaria del singolo lavoratore, riconoscendo alle associazioni, portatrici di
interessi diffusi, la facoltà di esercitare autonomamente un’azione inibitoria collettiva, attraverso la
quale denunciare situazioni di bossing all’autorità
giudiziaria competente, chiedere controlli all’interno dei luoghi di lavoro, impedire comportamenti
di bossing o mobbing come politica aziendale.
Le associazioni legittimate ad agire in giudizio
dovrebbero essere inserite in un elenco pubblico e
nazionale istituito ad hoc presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, solo se in possesso di
rigorosi e puntualmente definiti requisiti.
La tutela penale nella proposta riferita, non è,
ovviamente, assimilabile a quella precedentemente
commentata contenuta nel disegno n. 1290 che ipoRIVISTA PENALE 09/2006
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tizzava l’introduzione del «delitto di mobbing» poiché limitata ad apprestare una ulteriore tutela tra le
tutele prioritariamente individuate.
7. Le ragioni giustificative della previsione di
forme di responsabilità penale. – In una prospettiva
de iure condendo, che valga anche da suggerimento
per il legislatore venturo, occorre, a questo punto,
chiedersi quali siano le vere ragioni di opportunità
che – impermeabili alla suggestione del momento –
militano in favore dell’eventuale introduzione del
delitto di violenza psicologica sul lavoro nel sistema
penale italiano.
Dal punto di vista politico-criminale, e più precisamente delle sue tipiche finalità di tutela, (riservando a dopo le valutazioni di carattere precipuamente socio-politico) appare evidente come il
diritto penale, sebbene alcuni autori segnalino da
tempo lo stato di dissoluzione o disfacimento del
suo sistema sanzionatorio, (60) costituisca pur sempre la branca del diritto che in via primaria assolve
al compito di proteggere la persona umana nella società. Il diritto penale è, infatti, «un potente fattore
di socializzazione: non soltanto con la minaccia
delle sanzioni e la relativa intimidazione, ma anche,
e soprattutto, con la rappresentazione dei confini
della libertà di agire che diffonde e l’adeguamento
spontaneo che suggerisce, esso codetermina e rafforza in generale l’atteggiamento di conformità al
diritto e alle esigenze della vita associata» (61).
A nostro avviso, una normativa in materia di
mobbing che intendesse sortire effetti reali, vale a
dire una normativa che mirasse effettivamente a
contrastare il fenomeno, frenandone la crescita
esponenziale ed anzi invertendone la tendenza, non
potrebbe accontentarsi di sanzioni di natura meramente amministrativa o di pene (sia pure nell’accezione atecnica del termine) di tipo civilistico, quali
il risarcimento del danno. Dovrebbe necessariamente spingersi oltre, ricorrendo al più intenso intervento sanzionatorio possibile, ovvero all’extrema
ratio della sanzione penale.
Sennonché, l’introduzione di una nuova fattispecie incriminatrice ad opera del legislatore non sarebbe ammissibile, come ha puntualmente sottolineato autorevole dottrina, qualora si prescindesse da
quel complesso «di precetti, in forma di principi o
criteri, destinati a guidare la decisione legislativa
nello stabilire se ricorrere alla tutela penale e – in
caso affermativo – nello scegliere il modo di articolare la tutela medesima» (62).
In primo luogo, sebbene il paradigma del bene
giuridico (in senso costituzionale e no) non sia in
grado di funzionare da solo come criterio rigorosamente selettivo dell’area del penalmente rilevante,
occorre egualmente individuare, all’interno dell’attuale sistema costituzionale, alcuni parametri sulla
scorta dei quali ricostruire l’oggetto della tutela apprestabile da una fattispecie di reato che incrimini le
condotte «mobbizzanti».
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Orbene, in proposito non è dubbio che, dalla lettura combinata degli artt. 2, 3, 4, 32 e 41 Cost.,
emerge l’obbligo per qualsiasi soggetto di rispettare
la persona che lavora, quale essere umano che attraverso il lavoro realizza sé stesso, senza discriminazioni di alcun tipo, riservando una particolare attenzione al benessere psico-fisico, e senza che gli
interessi e le politiche di impresa prevalgano,
schiacciandole, sulle esigenze di tutela sociale del
lavoratore.
Tuttavia il riferimento ad un bene giuridico da
tutelare non può considerarsi di per sé sufficiente a
giustificare la creazione di una nuova fattispecie incriminatrice, dovendo il legislatore, come abbiamo
già anticipato, verificare la necessità di ricorrere
allo strumento penale, nonché la possibilità di farlo
senza violare i canoni di proporzione e ragionevolezza.
La condotta che si presume penalmente rilevante
potrebbe, infatti, non aggredire l’interesse tutelato
con una tale intensità da giustificare il ricorso alla
sanzione penale. E ancora, pur essendo la condotta
meritevole di pena, potrebbero non sussistere i presupposti, da accertare invero sul terreno delle
scienze empiriche, che giustifichino la necessità o il
bisogno di pena.
Nell’ipotesi che ci occupa, tuttavia, la meritevolezza di pena delle condotte vessatorie in cui il mobbing si concreta, trova conferma nelle indagini mediche di settore che hanno evidenziato quanto
profondamente le condotte discriminatorie, di
emarginazione, di dequalificazione siano in grado
di perturbare l’equilibrio psico-fisico delle vittime,
alterandone, spesso in modo irreparabile, i rapporti
sociali e familiari.
Allo stesso tempo la crescente casistica giurisprudenziale, nel porre in luce l’inadeguatezza delle
tipologie di sanzione oggi disponibili a contenere
l’espansione del fenomeno, conferma l’esigenza di
ricorrere allo strumento penale, peraltro ritenendosi
da una parte della magistratura che le condotte di
terrorismo psicologico ed isolamento possano addirittura essere sin da ora ricondotte – sussistendone
i relativi presupposti – a fattispecie di reato già codificate.
In quest’ottica, non deve allora trascurarsi che il
diritto penale potrebbe anche assolvere a una funzione propulsiva o promozionale di valori meritevoli di protezione. Ed invero, aderendo ad una concezione meno stringente della sussidiarietà, la
sanzione penale sarebbe comunque da preferire anche nei casi di non strettissima necessità, tutte le
volte in cui la funzione stigmatizzante propria della
pena in senso stretto risulti utile ai fini di una più
forte riprovazione del comportamento criminoso e,
di conseguenza, di una più energica riaffermazione
dell’importanza del bene tutelato. Il diritto penale,
infatti, come puntualizzato da autorevole dottrina,
«ben può provvedere a sottolineare con la minaccia
di pena il particolare disvalore della lesione di un
bene e in questo senso contribuire a segnalarne a
diffonderne il valore, promuovendone un rafforzamento» (63).
Per quanto concerne le motivazioni politico-sociali sottese ad una possibile criminalizzazione del
fenomeno mobbing, deve rilevarsi come nel contesto imprenditoriale contemporaneo la persona
umana (ovvero, con espressione infelice, la risorsa
umana) abbia assunto un ruolo sempre più significativo. Il riferimento obbligato è ai cosiddetti modelli di qualità: ovvero, per intenderci meglio, alle
peculiari precauzioni pre-assuntive, alla trasparenza effettiva nella valutazione delle prestazioni
lavorative, al contenimento e alla prevenzione dei
conflitti introaziendali, nonché al monitoraggio dei
comportamenti soggettivi e relazionali dei lavoratori.
Non v’è chi non veda, allora, come l’acquisita
centralità della persona umana all’interno del
mondo del lavoro favorisca – e quasi suggerisca –
un parallelismo con il sistema punitivo del moderno
Stato di diritto, che soprattutto nella tutela della persona umana trova la sua più importante funzione.
Peraltro, associando all’intervento punitivo dello
Stato la predisposizione di un forte quadro civilistico e giuslavoristico volto a favorire la riparazione
nei confronti del mobbizzato, finirebbe per recuperarsi il valore aggiuntivo connesso all’obiettivo
della prevenzione.
Il processo di depenalizzazione delle sanzioni
previste per la violazione delle norme poste a tutela
dei lavoratori, in corso già da alcuni anni, non ha
del resto riguardato la sanzionabilità penale dei
comportamenti del datore di lavoro ritenuti particolarmente gravi e pericolosi per la salute del lavoratore, in sintonia con la tendenza del nostro ordinamento di utilizzare le sanzioni penali a tutela
della persona (64).
Nella prospettiva della tutela penale riservata ai
beni più rilevanti del lavoratore quali la sua integrità psico-fisica e la sua dignità, potrebbe coerentemente collocarsi l’incriminazione del mobbing
che lede proprio questi stessi beni, dal momento che
anche l’emarginazione dal lavoro ingiustamente attuata attraverso il depotenziamento e la demotivazione del singolo lavoratore può essere idonea a costituire una situazione rilevante sotto il profilo sia
medico che legale.
Nell’ambito della pubblica amministrazione,
inoltre, l’attività persecutoria posta in essere da detentori di poteri decisionali caratterizzati da troppo
ampia discrezionalità, che comportino ingerenze
nella sfera giuridica altrui, costituiscono, se provati,
atti illeciti di deviazione del buon andamento della
P.A. per i quali l’ordinamento giuridico non può
non predisporre la necessaria sanzione.
Il Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia,
d’altra parte, raccomanda di non irrigidire ulteriormente i rapporti tra datori e lavoratori già troppo
presidiati da regole che finiscono per non assicurare
adeguate garanzie e rischiano di creare dislivelli di
qualità del lavoro a livello europeo, e di privilegiare
invece «buone pratiche», le quali si traducono nella
promozione delle c.d. soft laws, che dovrebbero limitarsi ad orientare i destinatari al raggiungimento
di un ben individuato obiettivo, ma senza indicazioni puntuali sul comportamento da assumere per
raggiungerlo.
Il testo unificato dei disegni di legge in materia
di tutela dei lavoratori dal fenomeno del mobbing in
discussione in Senato nell’ultima legislatura, sembra orientato a dare una prima concreta attuazione
alle suddette proposte del Libro Bianco.
Ma la preoccupazione, per certi versi condivisibile, di evitare un prevedibile massiccio ricorso alla
giurisdizione per reprimere ogni tipo di condotta,
realmente o presuntivamente, mobbizzante, sembra
prevalere, in realtà, sull’esigenza di giustizia sostanziale, cui risponderebbe meglio, a nostro avviso, la previsione del reato di mobbing, in linea peraltro con le legislazioni di altri Paesi dell’Unione
Europea (65). Il testo unificato risente in tutte le sue
parti di una impostazione soft: infatti adotta coerentemente una definizione elastica, che affida alla
presenza dell’elemento oggettivo (la continuità e sistematicità di atti e comportamenti persecutori tenuti in ambito lavorativo) e dell’elemento teleologico (la finalizzazione specifica di tali atti a
danneggiare l’integrità psico-fisica del lavoratore)
la individuazione della fattispecie del mobbing,
piuttosto che elencare dettagliatamente e più o
meno esaustivamente atti e comportamenti ostili a
prescindere dalla finalità che lo ispirano come in altri disegni di legge è stato fatto; estende genericamente a tutte le tipologie di lavoro, pubblico e privato, le disposizioni laddove il bossing ossia il
mobbing perpetrato dai dirigenti o dai funzionari direttivi specialmente nelle amministrazioni pubbliche richiederebbe un’attenzione normativa più specifica (66); individua rimedi preventivi e di
accertamento definiti dallo stesso relatore necessariamente «duttili», ma li affida, di fatto, ai più probabili mobbers (e cioè datori di lavoro o committenti pubblici o privati) che potranno ricorrere a
forme di consultazione dei lavoratori dell’area interessata e provvedere all’accertamento dei fatti denunciati predisponendo misure idonee al loro superamento, solo se ne ravvisino la necessità; affida gli
aspetti repressivi alla generica responsabilità disciplinare specificando però con più attenzione che in
essa incorre chi (presumibilmente il presunto mobbizzato) «denuncia consapevolmente atti o comportamenti persecutori inesistenti al fine di trarre vantaggio per sè o per altri»; incentra la tutela
giudiziaria su tre piani distinti (inibitoria-risarcitoria e annullabilità degli atti illeciti con finalità persecutoria), escludendo però l’inversione dell’onere
della prova ritenuta in altri disegni di legge indispensabile anche in forza della esperienza legislativa in materia di tutela antidiscriminatoria tra sessi
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nel lavoro, che ha rafforzato per questa via l’efficacia della tutela (legge 125/91); viene espressamente
valorizzato il ruolo delle cosiddette soft laws e della
contrattazione collettiva con il conferimento ai soggetti che stipulano i contratti collettivi nazionali di
lavoro della facoltà di adottare codici antimolestie,
e in particolare codici volti alla prevenzione degli
atti e comportamenti persecutori posti in essere sul
lavoro anche mediante procedure di carattere conciliativo e tecniche incentivanti, piuttosto che limitare l’intervento della contrattazione collettiva alla
disciplina, per ciascun settore, di aspetti secondari o
integrativi della disciplina generale che attengono
all’ambito specifico in cui si svolge il rapporto di lavoro; (67) infine anche le disposizioni di copertura
finanziaria confermano la «leggerezza» dell’intervento, specificando che l’attuazione delle norme di
prevenzione, accertamento e informazione devono
gravare nei limiti degli ordinari stanziamenti di bilancio per le P.A. e da essi non possono derivare
nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
8. Rilievi conclusivi. – Come già osservato una
strategia di contrasto il più possibile efficace dei
fenomeni di mobbing dovrebbe, a nostro avviso,
comportare l’introduzione anche nel nostro ordinamento di una specifica fattispecie di reato.
Nel riconoscere una tale esigenza, siamo peraltro
ben lungi dall’ignorare i problemi di tecnica legislativa connessi alla progettazione di una nuova incriminazione. Ma, a ben vedere, queste difficoltà
non sorgono in questo caso per la prima volta, né in
maniera sproporzionalmente più accentuata che in
altre occasioni in cui il legislatore si è trovato a dover afferrare con i «guanti di legno» del diritto penale fenomeni complessi, ambigui e sfuggenti della
realtà: se il legislatore si dovesse arrendere di fronte
alle difficoltà di tipicizzazione del fatto punibile, il
diritto penale sarebbe destinato a fare preventivamente bancarotta in non pochi ambiti della realtà
contemporanea.
In effetti, fuori da preoccupazioni preconcette, la
difficoltà di tipicizzare le forme di mobbing più intollerabili non sembra rilevantemente maggiore di
quella abitualmente incontrata nel disciplinare non
poche altre fattispecie del diritto penale, caratterizzate da clausole generali o concetti aperti di tipo
normativo-sociale o valutativo. E, come sempre accade quando si tratta di bilanciare esigenze contrapposte, lo stesso principio penalistico di precisione e
tassatività della incriminazione non può essere assolutizzato e irrigidito in un senso fortemente ideologico da vetero-illuminismo ingenuo: anch’esso
piuttosto deve fare i conti con la inevitabile «porosità» dello stesso linguaggio legislativo, che non
può a sua volta che essere concepito come una struttura aperta sotto diversi aspetti destinata ad essere
concretizzata e specificata dall’apporto ermeneutico degli interpreti.
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Alla stregua di queste premesse generali le più
volte manifestate perplessità nei confronti della penalizzazione del mobbing (68) sembrano destinate a
ridimensionarsi. Ed è possibile accostarsi con maggior realismo critico alle proposte finora emerse nel
nostro paese di forma di tutela penale.
A nostro avviso, le direttrici guida da privilegiare
a livello politico-criminale e di tecnica legislativa
dovrebbero essere le seguenti.
Sarebbe innanzitutto opportuno che il legislatore
penale definisse i termini generali il nucleo di disvalore del mobbing, in modo da identificare il volto
dell’illecito a prescindere da una elencazione casistica delle forme di condotta da reprimere. A questo
scopo occorrerebbe mettere in evidenza il triplice
carattere di sistematicità, durata e intensità delle
azioni mobbizzanti meritevoli di essere represse: e
questo triplice carattere dovrebbe essere sin da subito funzionalizzato a connotare sul piano definitorio il mobbing punibile, trattandosi di, per dir così
costanti criminologiche del fenomeno.
Dal necessario carattere di sistematicità derivano
non solo l’irrilevanza penale di episodi di disturbo
scarsi o isolati nel tempo, ma anche il significato
unitario del fenomeno, che non può che desumersi
dalla presenza di una volontà deliberatamente finalizzata all’obiettivo di mobbizzazione, ragion per
cui il mobbing si atteggia a reato necessariamente
abituale e necessariamente doloso.
Invero sarebbe troppo generoso ammettere che le
proposte di incriminazione finora prospettate a livello di progettazione legislativa nel contesto italiano si adeguino in maniera appagante ai diversi
criteri che il legislatore dovrebbe osservare in sede
di definizione penalistica dell’illecito.
Così ad esempio l’art. 2 del disegno di legge n.
1290 prima citato, nel proporre di elevare a reato la
«violenza psicologica» esercitata negli ambiti di lavoro, intende il relativo concetto secondo l’amplissima definizione fornita in generale dall’art. 1: una
definizione cioè di violenza psicologica caratterizzata da un ambito di comprensione molto esteso,
che non solo fa riferimento non solo a forme di condotta molto eterogenee tra di loro, ma anche le descrive in termini eccessivamente generici e in larga
parte estranei allo stile del linguaggio penalistico.
Comparativamente meno criticabile, sotto questo profilo, appare – almeno a prima vista – la tecnica legislativa utilizzata nella diversa proposta di
incriminazione di cui all’art. 6 del disegno di legge
2420. In termini più sintetici rispetto alla proposta
precedentemente accennata l’art. 6 in parola prospetta una descrizione del reato nei termini seguenti: «chiunque sul luogo di lavoro rechi a taluno
molestia o disturbo attraverso comportamenti di
mobbing ripetuti e sistematici, aventi per oggetto o
per effetto una degradazione delle condizioni di lavoro suscettibili di ledere i suoi diritti e la sua dignità, di alterare la sua salute fisica o mentale o di
compromettere il suo avvenire professionale o la
sua immagine, è punito con l’arresto fino a sei mesi
o la multa di 15.000 euro».
A sua volta la definizione di mobbing contenuta
nell’art. 1 dello stesso disegno di legge esplicita che
esso va inteso come «una situazione in cui la persona viene sistematicamente maltrattata moralmente o comunque vessata in circostanze legate al
lavoro, con la conseguenza di un’esplicita o implicita minaccia alla sua sicurezza, alla sua salute e al
suo patrimonio professionale».
Ad un esame più attento, tuttavia, neppure il modello di incriminazione suddetto risulta appagante
alla stregua dei principi che dovrebbero sorreggere
un’accettabile tecnica di incriminazione. Ma il vero
punto da mettere in evidenza è che, prima ancora
della tecnica legislativa, dovrebbe costituire oggetto di maggiore approfondimento la scelta delle
direttrici politico-criminali giustificative della
nuova figura di reato: in altri termini, si dovrebbe
fare maggiore chiarezza nell’individuare quegli
aspetti di disvalore del mobbing che legittimano e
rendono necessarie forme di risposta penale.
Da questo punto di vista, dovrebbero costituire
oggetto di maggiore approfondimento la possibilità
di equiparare – così come viene fatto nelle proposte
sinora elaborate – nell’ottica della rilevanza penale
effetti pregiudizievoli del mobbing che afferiscono
però a piani eterogenei: per un verso la salute psicofisica del lavoratore, per altro verso i diritti più
direttamente riferibili alla dignità personale e, per
altro verso ancora i profili attinenti all’avvenire
professionale. Con ciò non è che si vuole sostenere
che sul terreno penalistico non possano avere cittadinanza profili di danno o di pericolo che trascendono la dimensione fisio-psichica e che coinvolgono piuttosto la personalità morale: si tratta
piuttosto, da un lato, di verificare se le possibili
conseguenze negative del mobbing su beni o interessi giuridici eterogenei del lavoratore siano inglobati senza ledere il principio di proporzione
nell’ambito di una stessa unità di disvalore sotteso
alla fattispecie incriminatrice da creare; e, dall’altro, se il legislatore sia in grado di cogliere gli
aspetti più impalpabili di dannosità, (quali quelli riconducibili civilisticamente alla nuova categoria
del danno così detto esistenziale) traducendoli in requisiti di fattispecie minimamente afferrabili in termini penalistici. In questa prospettiva, andrebbe ulteriormente approfondito il problema della
verificabilità empirica di un nesso di causalità penalmente rilevante tra le condotte di mobbing da
considerare tipiche e i probabili effetti pregiudizievoli (fisico-materiali e/o morali) ai danni del lavoratore mobbizzato: il che vuol dire, nello stesso
tempo, decidere se orientare l’incriminazione secondo il modello rispettivamente dell’illecito di effettiva lesione o dell’illecito di pericolo.
Nel ribadire la nostra preferenza per forme di tutela anche di tipo penalistico, non possiamo dunque
che auspicare un dibattito assai più ampio e appro-
fondito tra gli stessi studiosi del diritto penale. Diversamente, incombe concretamente il rischio che
siano compiute scelte politico-criminali discutibili
nel merito e poco controllate sotto il profilo, non
meno importante, delle tecniche legislative di incriminazione.
Marina Sansone
(1) Il termine ecologia sociale dal punto di vista epistemologico si associa alla Scuola di Chicago, ma il filone più significativo è riconducibile ad Hawley, che con
i suoi lavori ha fortemente contribuito al rilancio dell’approccio ecologico in sociologia. A.H. HAWLEY, Human
Ecology: a theoreticol essay, Chicago Original Paperback, 1950.
(2) Cfr. la Risoluzione del Parlamento europeo sul
mobbing A5-0283/2001. Sul punto v. A. RUSSO, Problemi e prospettive nelle politiche di idealizzazione del personale, Giuffrè, Milano, 2004. Sostengono la tesi secondo cui il mobbing «non conviene alle aziende» A.
ASCENZI, G.L. BERGAGIO, Il mobbing. Il marketing sociale come strumento per combatterlo, Giappichelli, Torino, 2000, p. 60; e degli stessi autori Il mobbing: riflessioni sulla pelle, Giappichelli, Torino, 2002, p. 91. Sul
tema si veda anche il contributo di P.G. MONASTERI, M.
BONA e U. OLIVA, Mobbing, vessazioni sul lavoro, Giuffrè, Milano, 2000, pag. 1-334, i quali sono dell’avviso
che il mobbing è innanzitutto inefficiente, e ne illustrano
il «costo sociale» con riferimento alla dispersione di risorse e al «peggioramento esistenziale», collettivo prima
ancora che individuale, quale «somma di ripercussioni
relazionali» di segno negativo per le gravose rinunce ad
un facere e quale «compressione di attività areddituali».
(3) D. DE MASI, Intervento al Convegno sul tema
Mobbing. Un fenomeno anche italiano, Roma, 8 febbraio
2000, in Atti pubblicati dal Centro studi e ricerche Europee, p. 70.
(4) V. CUPELLI, In tema di mobbing. Il punto di vista
del medico del lavoro, in Il Mobbing, a cura di P. TOSI,
Giappichelli, Torino, 2004, pp. 129-136.
(5) Ibid., p. 158; G. GULOTTA, Aspetti psicogiuridici
del mobbing, in Il Mobbing, cit., pp. 97-127.
(6) Gli interventi organizzativi devono coesistere con
quello che è stato definito, con un termine di chiara provenienza psicologica (utilizzato per la prima volta dallo
psicologo E.H. Schein), una sorta di «contratto psicologico» che si stipula tra tutti i partecipanti all’organizzazione, dove il consenso collettivo ed il vincolo emotivo
fanno da collante. In assenza di obbligazioni contrattuali
sul coinvolgimento organizzativo dei lavoratori agli interventi organizzativi, sarà il vincolo emotivo, lo spessore
del commitment, la pervasività dei valori e della mission,
a formalizzare il rapporto di lavoro come scambio sociale. Cfr. M. SANSONE-L. FERRANTE, Ecologia sociale delle
risorse umane, Palumbo, Palermo, 1997, p. 96.
(7) Cfr. F. CARINCI, Un fantasma si aggira tra le aule
giudiziarie, in Il Mobbing, cit., pp. 89-96 il quale sostiene
che, mutando l’approccio di analisi, cambia la valutazione della fattispecie: se essa viene considerata come un
caso patologico-organizzativo, l’elemento «soggettivo»
(intenzionale abuso del modello relazionale da parte del
superiore) sarà rilevante e lo scopo coltivato sarà l’eliminazione del guasto nel funzionamento del sistema; se invece la valutazione della fattispecie ricade su un caso patologico-medico, l’elemento «oggettivo» sarà l’effetto
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negativo prodotto sul lavoratore e il fine conseguente
l’eliminazione dell’effetto e il risarcimento del danno prodotto.
(8) H. LEYMANN, The definition of mobbing at work,
in The mobbing Encyclopaedia, in http//www.leymann.se;
H. EGE, Il mobbing in Italia. Introduzione al Mobbing
culturale, Pitagora Editrice, Bologna, 1997, passim.
(9) H. EGE, La valutazione peritale del Danno da
mobbing, Milano, 2002, passim. H. LEYMANN, The definition of mobbing at work, in The mobbing Encyclopaedia, in http//www.leymann.se, definisce il mobbing sul lavoro «una forma di terrorismo psicologico che implica un
atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma
sistematica e non occasionale o episodica – da una o più
persone, eminentemente nei confronti di un solo individuo il quale, a causa del mobbing, viene a trovarsi in una
condizione indifesa e fatto oggetto di una serie di iniziative vessatorie e persecutorie. Egli pone l’accento sulla
necessaria distinzione tra «conflitto» sul lavoro e mobbing che a suo avviso non consiste su «ciò» che viene inflitto alla vittima e sul «come» viene inflitto, ma piuttosto
sulla «frequenza» e la «durata» di qualsivoglia trattamento vessatorio venga inflitto. Si veda anche di H. EGE, di
recente pubblicazione, Oltre il mobbing. Straining,
stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro,
Franco Angeli, 2005. Per la configurazione dello straining (stress forzato sul lavoro) caratterizzato, a differenza
del mobbing, da una serie di condotte ostili e frequenti nel
tempo, è sufficiente una singola azione vessatoria con effetti duraturi nel tempo (come un demansionamento o un
trasferimento disagevole) a danno di persona in persistente inferiorità, e sempre in maniera discriminante. Cfr.
Trib. civ. Bergamo, che con sentenza 20 giugno 2005 n.
286 ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno
alla professionalità, del danno biologico e del danno morale ad una lavoratrice vittima di una condotta raffigurante straining (configuratasi nel caso specifico solo in demansionamento perpetuatosi per anni).
(10) H. EGE, Il mobbing in Italia: Introduzione al
mobbing culturale, Pitagora Editrice, Bologna, 1997,
passim.
(11) L. GRECO, Danno biologico e mobbing nel rapporto di lavoro, in I Supplementi di Guida al Lavoro, Il
Sole 24 Ore, Pirola, 2003, pp. 3-90.
(12) S. MAZZAMUTO, Un’introduzione al mobbing:
obbligo di protezione e condotte plurime d’inadempimento, in Il Mobbing, a cura di P. TOSI, Giappichelli, 2004, pp.
12-63; P. TOSI, Il Mobbing: una fattispecie in cerca d’autore, in ADL, 1/2003, pp. 651-664.
(13) L’eticità dell’ambiente lavorativo si riflette sul
piano della tutela del livello di competenze dei singoli
prestatori, attenuandone in questi termini la differenziazione tra clima sociale e clima professionale che sta alla
base della concezione dualistica del clima aziendale. A.
RUSSO, Problemi e prospettive nelle politiche di idealizzazione del personale, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 260268, che tratta anche il tema della strategia di valorizzazione della persona aperta con la «riforma Biagi» del mercato del lavoro.
(14) F. CARINCI, Un fantasma si aggira tra le aule giudiziarie: il mobbing, in Il mobbing, a cura di P. TOSI, op.
cit., pp. 89-96.
(15) R. RUGGIERI, I. PETRUCCELLI, Il Mobbing: danno
e valutazione, in ADL, 1/2004, pp. 333-349.
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(16) M. BONA, Mobbing e categorie di danno tra etichette e sostanza, in Il Lavoro nella giurisprudenza, n. 4/
2003, pp. 310-315.
(17) M. B ONA , ult. cit., p. 313; R. R UGGIERI , I.
PETRUCCELLI, op. cit., 342. Cfr. sul punto R. DEL PUNTA,
Il mobbing: l’illecito e il danno, in Il Mobbing, a cura di
P. TOSI, op. cit., pp. 65-82 che al contrario evidenzia il paradosso di non poter risarcire il danno da mobbing subìto
da un lavoratore «perfettamente impassibile e integro di
fronte agli attacchi esterni», qualora il danno da mobbing
fosse fatto rientrare in quello biologico.
(18) G. CORBETTA, Metodologie e tecniche della ricerca sociale, Bologna 1999, passim; L. MANETTI, Strategie di ricerca in psicologia sociale, Roma, 2002, passim. La giurisprudenza ha peraltro già più volte operato la
riconducibilità al mobbing di atti che potrebbero essere
considerati legittimi se singolarmente presi (ad esempio,
le ripetute visite mediche di controllo domiciliare...). Si
veda, in proposito, (Cass. n. 475/99, in Orient. giur. lav.,
1999, p. 295; Cass., sez. lav., n. 8267/97; Cass., sez. lav.,
n. 7768/95), e la mancata qualificazione, quale mobbing,
di atti «illegittimi» come il demansionamento (Trib. lav.
Milano, sent. n. 1411/2002 e n. 2592/2002; Trib. Monza,
in Riv. Crit. Dir. Lav. n. 4, 2001, p. 967 e ss.).
(19) K. WATZALAWICK, J.H. BEAVIN, D.D. JACKSON,
Pragmatica della comunicazione umana, Roma, 1971,
passim.
(20) M. MISCIONE, Mobbing-norma giurisprudenziale, in Lav. Giur., 2003, n. 4, p. 305.
(21) Le stesse «fonti normative» vengono riconsiderate dalla Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza 23
marzo 2005, n. 6326, in Foro it., 2005, n. 12, pp. 33563362, con nota di A.M. PERRINO, che avanza perplessità
sulla categoria «danno da mobbing», sostenendo che la
Cassazione, nella sentenza in oggetto, implicitamente riconosce l’equivalenza tra i fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno da mobbing e quelli del diritto al risarcimento del danno biologico.
(22) Vd. inoltre L. Reg. (Umbria) 28 febbraio 2005 n.
18; L. Reg. (Friuli-Venezia Giulia) 8 aprile 2005 n. 7;
C.C.N.L. febbraio 2003 comparto ministeri, che prevede
la costituzione di un «comitato paritetico» e di «sportelli
di ascolto» sul fenomeno del mobbing.
(23) Nelle citate sentenze è stata individuata l’applicazione del principio del «fatto notorio», di cui all’art.
115 del c.p.c., che consiste nel fondare la decisione senza
bisogno di prove sulle nozioni di fatto che rientrano nella
comune esperienza. Cfr. Guida al lavoro, in I supplementi
di guida al lavoro, Il Sole 24 ore, Pirola, 2003, n. 2, pp.
3-90.
(24) M. BONA, Mobbing e categorie di danno tra etichette e sostanza, in Lav. Giur., 2003, pp. 310-315, che ritiene atipica la tutela del lavoratore ai sensi di questa norma sostenendo che la responsabilità non può che
dipendere dalla verifica della violazione della clausola di
cui all’art. 2087 c.c., che tutela dei beni specificamente individuati (salute e personalità morale) senza richiamare
condotte quale presupposto dell’an debeatur. Il lavoratore dunque dovrebbe pertanto dimostrare la violazione della clausola generale di responsabilità del mobbing.
(25) P.G. MONASTERI, M. BONA e U. OLIVA, Il nuovo
danno alla persona, Giuffrè, Milano, 1999; e degli stessi
autori, Mobbing: vessazione sul lavoro, Giuffrè, Milano,
2000.
(26) Cass. 8 gennaio 2000 n. 143, in Foro it., 2000, I,
p. 1554, con nota di L. DE ANGELIS; Cass. 2 maggio 2000
n. 5491, in Lav. Giur., 2000, p. 830 con nota di R. RUNIN,
Mobbing onere della prova e risarcimento del danno.
(27) Trib. Pisa 6 ottobre 2001, in Riv. crit. dir. e lav.,
n. 2/2001; Trib. Milano sent. n. 2245/2000; Trib. Forlì,
sent. 15 marzo 2001, in Riv. crit. dir. lav., n. 2/2001, p.
967 e ss.
(28) Trib. Pistoia 23 settembre 2001, in Riv. crit. dir.
lav., n. 4 ott.-dic. 2001, p. 993; U. OLIVA, Il mobbing:
quale risarcimento?, in Danno e Responsabilità, 2000,
pp. 27-34.
(29) Trib. Taranto, sez. II, 7 marzo 2002, in Riv. pen.,
n. 7-8, 2002, p. 700.
(30) Il danno da dequalificazione professionale o derivato dalla sottrazione delle mansioni con conseguente
inoperosità del lavoratore, si sostanzierebbe, oltre che
nelle eventuali perdite economiche, in un pregiudizio alla
«vita professionale e di relazione dell’interessato». Il pregiudizio si aggrava allorché il demansionamento non sia
giustificato da una valutazione delle capacità professionali del lavoratore, ma da motivazioni attinenti alla sua
sfera personale. Cfr. L. NOGLER, Danni personali e rapporto di lavoro: oltre il danno biologico?, in Riv. it. dir.
lav., 2002, n. 3, pp. 287-310. Vd. Cass. 12 dicembre 1995
n. 12705; Cass. 8 giugno 2001 n. 6856; Cass. 2 gennaio
2002 n. 10; Cass. 6 novembre 2000 n. 1443.
(31) Cfr. in tal senso Cass., Sez. lav. 5 ottobre 2001,
Perna c. RAI Radio Televisione Italiana spa, che ha stabilito come la condizione di inattività nella quale si costringe il prestatore di lavoro sia lesiva «del fondamentale
diritto al lavoro inteso come mezzo di estrinsecazione
della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente ineluttabilmente mortificata dal mancato esercizio delle prestazioni
tipiche della qualifica di appartenenza».
(32) Il testo della sentenza è riprodotto su Diritto e
Pratica del Lavoro n. 42, 2002, p. 2735 e ss., con nota di
P. RAUSEI, Persecuzioni psicologiche e stress sul lavoro:
l’infarto come lesione da mobbing.
(33) P. RAUSEI, Persecuzioni psicologiche, cit., pp.
2735-2744.
(34) Fra le disposizioni antinfortunistiche si ricordano, in particolare, quelle contenute nel D.L.vo 19 settembre 1994, n. 626, che ha dato attuazione ad alcune direttive europee riguardanti il miglioramento della sicurezza
e della salute dei lavoratori durante il lavoro.
(35) Cfr. Cass. pen. 13 gennaio 1989, in Giust. pen.
1989, II, col. 684; Cass. pen. 8 febbraio 1979, in Mass.
giur. lav., 1980, p. 306.
(36) C. PERINI, La tutela penale del mobbing, in Quaderni del diritto del lavoro e delle relazioni industriali.
Mobbing, Organizzazione e Malattia professionale, Utet,
2006, n. 29, pp. 155-169.
(37) Tribunale di Torino, 3 maggio 2005, in Foro it.
2005, n. 12, p. 664; Cass. pen., sez. VI, 18 marzo 1997,
n. 2609 in C.E.D. Cassazione rv. 207527, ha ritenuto che
si configuri il reato di maltrattamenti con riguardo ai datori di lavoro di una persona extracomunitaria cui davano
alloggio, ritenendosi, solo per questa circostanza, configurabile l’affidamento.
(38) Cass. pen., sez. VI, 22 gennaio 2001.
(39) La S.C. ha invece escluso la configurabilità del
reato di cui all’art. 571 c.p. (abuso di mezzi di correzione
e disciplina), prospettato dalla difesa nel caso che ci occupa, e cioè che il comportamento fosse riconducibile ad
improprio uso se non proprio abuso del potere disciplinare (potere che in uno con il potere direttivo caratterizza
il rapporto di lavoro subordinato ma è compresso in rigorosi limiti normativi da cui è naturalmente escluso
l’uso di qualsivoglia forma di violenza da parte del contraente forte del rapporto di lavoro).
(40) Nel rapporto di lavoro subordinato la dipendenza
gerarchica dei collaboratori dell’imprenditore, riconosciuta dall’ordinamento, si limita a quella tecnico-funzionale per l’organizzazione dell’impresa (artt. 2082, 2086
c.c.) anche se, di fatto, può implicare il coinvolgimento
della persona del lavoratore dipendente in quanto soggetto debole nel rapporto e sul mercato. Da qui la necessità
di un sistema protettivo del lavoratore subordinato, su cui
è, infatti, impiantato l’ordinamento giuslavoristico vigente, affinché l’iniziativa economica privata non si svolga
in contrasto con l’utilità sociale o possa pregiudicare la
sicurezza, la libertà e la dignità umana (art. 41, comma 2,
Cost.).
(41) Sull’unitarietà del dolo nel reato di maltrattamenti la Cassazione penale si è espressa chiarendo che
questa non viene meno se la coscienza e volontà di sottoporre la vittima a uno stato di abituale sofferenza fisica
e/o morale non è presente in ogni singolo atto e l’elemento soggettivo si realizza in modo graduale al di fuori di un
preciso e preventivo disegno necessariamente presente in
ogni episodio. Cfr. Cass. pen., sez. VI, 16 marzo 1995 n.
2800; Cass. pen., sez. VI, 19 novembre 1994 n. 3965.
(42) Tribunale di Torino 3 maggio 2005, in Foro it.,
2005, n. 12, p. 664.
(43) Trattasi della sentenza 15 gennaio 2004 n. 56,
con la quale la Sesta Sezione della Corte Suprema ha rigettato il ricorso del Direttore del Laboratorio di Igiene e
Profilassi della Provincia di Ragusa, avverso la sentenza
di condanna della Corte di Appello di Catania del 29 gennaio 2003, che confermava quella del Tribunale di Ragusa del 3 dicembre 1999 per il reato di abuso di ufficio
di cui all’art. 323 c.p.
(44) Per «abuso d’ufficio e lesioni personali gravi»
sono stati denunciati tutti i componenti in carica del Consiglio superiore della magistratura insieme a «chiunque
altro ritenuto responsabile» nell’ottobre 2000, alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza per
il grave danno alla salute subìto da un giudice in seguito
alla rimozione e trasferimento per incompatibilità ambientale, ex art. 2 del regio decreto legislativo 31 maggio
1946 n. 511 (Guarentigie della magistratura), dall’ufficio di giudice per le indagini preliminari alla I sezione penale. Con ulteriroe diverso provvedimento il CSM deliberava pure la non promozione a magistrato di Corte
d’Appello dello stesso giudice. La vicenda va ricollegata
inoltre, secondo la ricostruzione dello stesso giudice, al
fatto che il CSM aveva anche esercitato pressioni sul
Consiglio giudiziario presso la Corte d’Appello di Lecce,
fino ad indurre tale organo a rivedere, in senso negativo,
il precedente unanime parere favorevole di riassegnazione all’ufficio di GIP. Tutti gli atti erano stati ritenuti dal
ricorrente riconducibili a «premeditata attività di mobbing» concretizzatasi in danno alla salute con consequenziale diritto al risarcimento dei danni patrimoniali, non
patrimoniali e morali. La Corte costituzionale, con ordinanza n. 309 del 2001, ha poi dichiarato inammissibile il
ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato,
ma il caso, anche se non nel merito, può comunque avvalorare l’astratta configurabilità, come fattispecie di
mobbing, del reato di cui all’art. 323 c.p.
(45) Nell’ordinamento francese la molestia sessuale
sanzionata dalla legge è esclusivamente quella esercitata
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mediante abuso di potere (disposizione introdotta nell’art.
21 codice del lavoro nel 1992). Cfr. criticamente, J.
HIRIGOYEN, Molestie morali. La violenza perversa nella
famiglia e nel lavoro, Torino, 2000. Sulla risarcibilità del
danno da mobbing solo nell’ipotesi che il comportamento
del datore di lavoro costituisca un vero e proprio reato,
cfr. Trib. Napoli, 8 marzo 2000, FN, 2000, p. 148.
(46) Le condotte che possono configurare i reati di ingiuria, (anche nella sua forma più subdola del silenzio negante legittime aspettative, che si traduce nel programmare e perseguire «l’indifferenza istituzionale») o di
diffamazione (la cui perseguibilità a querela di parte è
però compressa dal termine di tre mesi, che poco si adatta
ai tempi lunghi richiesti invece per il mobbing) sono per
la Corte idonee a concorrere all’accertamento dei comportamenti causativi di eventi lesivi della persona riconducibili al mobbing. Per la sussistenza di tali condotte appare, ad avviso della S.C., sufficiente il dolo generico
anche in forma di dolo eventuale, in relazione al rapporto
di lavoro subordinato, in quanto esse superano i confini
del necessario esercizio bidirezionale (fondato per il lavoratore, secondo la Corte di Cassazione, sul diritto ex art.
21 Cost. di libera manifestazione del pensiero e per il datore espressione naturale del potere direttivo e gerarchico)
del diritto di critica. I comportamenti mobbizzanti, riconosciuti causa di danno alla salute nella sentenza resa dal
Tribunale di Torino il 16 novembre 1999 (causa ErriquezErgom/Materie plastiche spa), valutati potenzialmente
idonei a configurare altresì ipotesi di reato (artt. 590, 594,
595, 323, 600, c.p.) hanno comportato, ad esempio, la trasmissione degli atti da parte dell’estensore della sentenza
alla Procura della Repubblica.
(47) Nel caso in esame, a parte la perdita dell’incremento dello straordinario, derivante dai turni di disponibilità, emergeva il danno subìto dalla lavoratrice in conseguenza della perdita di prestigio e di decoro nei
confronti dei propri colleghi di lavoro, danno strettamente
connesso all’ordine di servizio emesso nei suoi confronti
dall’imputato.
(48) La suddetta direttiva stabiliva che tutte le disposizioni interne al servizio, adottate dagli organi gerarchici,
compresi quelli apicali, dovevano essere previamente
munite di nulla osta e/o presa d’atto del Direttore Generale, in ottemperanza alle disposizioni di cui all’art. 3 della L. 30 dicembre 1992 n. 502 sul riordino della disciplina
in materia sanitaria. Inoltre, si riteneva violato l’art. 10 del
D.P.R. 7 agosto 1984 n. 821, recante norme sul S.S.N.
(49) Nel settore sanitario, dove si registrano più numerose le lamentele di abusi nei rapporti interpersonali,
proprio per i motivi sopra esposti, relativi alla interferenza
della logica aziendalistica con la corretta gestione amministrativa, affidata ad una eccessiva discrezionalità dagli
effetti talvolta aberranti, la S.C. si è pronunciata in tema
di abuso di ufficio per vessazioni ed emarginazione di
pubblici dipendenti con argomenti pertinenti al mobbing.
V. Cass. pen., sez. VI, 16 marzo 1995 n. 2745; Cass. pen.,
sez. V, 12 febbraio 1999 n. 3704.
(50) P.G. MONATERI, M. BONA, U. OLIVA, Mobbing:
vessazioni sul lavoro, Giuffrè, Milano, 2000, p. 132.
(51) Per tutti A. e R. GILIOLI, Cattivi capi, cattivi colleghi: come difendersi dal mobbing e dal nuovo capitalismo selvaggio, Mondadori, Milano, 2000.
(52) Disegni di legge n. 4265 del 1999 e n. 4314 del
1999, n. 6410 del 1999 e n. 4512 del 2000.
(53) P. RAUSEI, Il mobbing sarà reato? in Diritto &
Pratica del Lavoro, 2002, n. 30, pp. IV a XIV.
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(54) Cfr. M. GELARDI, Il dolo specifico, Cedam, Padova, 1996; P. RICOTTI, Il dolo specifico, Giuffrè, Milano,
1993; che per dolo specifico fanno riferimento ai reati nella cui struttura l’oggetto del dolo non appartiene integralmente al fatto oggettivo tipico.
(55) Censurabile è nella norma la richiesta presenza di
uno stato di necessità cui ricondurre la soggezione agli atti
di violenza psicologica da parte del mobbizzato. Di tale
avviso è P. RAUSEI, Il mobbing sarà reato?, in Diritto e
Pratica del lavoro, 2002, n. 30, pp. IV-XIV.
(56) La questione se i comportamenti «mobbizzanti»
vadano presi in considerazione singolarmente o rappresentino un unico illecito contrattuale, sotto il profilo penale rileva ai fini della configurazione dell’illecito come
reato permanente. Sulla questione della decorrenza della
prescrizione per il diritto al risarcimento del danno, cfr.
Trib. Milano, 2 novembre 1999, DL, 2000, p. 373 con
nota di C. TOFFOLETTO.
(57) C. LAZZARI, Il mobbing fra norme vigenti e prospettive d’intervento legislativo, in Riv. giur. del lav. e
della prev. soc., 2001, n. 1, pp. 59-73.
(58) L’ente pubblico è, per altro verso, solidalmente
responsabile ex art. 28 Cost. con il proprio dipendente
mobber, e quanto dovuto in ottemperanza a una sentenza
di condanna al risarcimento del danno del mobbizzato costituisce danno erariale ovvero «ingiusta lesione di un interesse economicamente valutabile di pertinenza dello
Stato» (Cass., Sez. un., 4 gennaio 1980 n. 2) con la conseguente obbligatoria azione di regresso per il recupero
delle somme da parte della P.A. nei confronti del proprio
dipendente.
(59) La L. 125/91, sulla quale successivamente è intervenuto il D.L.vo 196/2000, sulla tutela paritaria della
donna nel lavoro, già introdotta dalla L. 903/77, che promuove le azioni positive per garantire non solo la parità
ma anche le pari opportunità sin dalla fase di accesso al
lavoro, prevede lo stesso tipo di rafforzamento della tutela
sul piano probatorio. Tenuto conto delle difficoltà per la
donna di provare il trattamento discriminatorio, l’onere,
seppure non completamente eliminato, viene dalla legge
125 notevolmente attenuato: il lavoratore o la lavoratrice
dovranno infatti fornire soltanto elementi di fatto desumibili anche da dati statistici, idonei a fondare, «in termini
precisi e concordanti», la presunzione della discriminazione per sesso; l’onere dalla prova definitiva della non
discriminazione ricadrà poi sul convenuto.
(60) Per tutti, T. PADOVANI, La disintegrazione attuale
del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il
problema della comminatoria edittale, in Riv. it. dir. e
proc. pen., 1992, pp. 419 ss.
(61) Così M. ROMANO, Commentario sistematico del
codice penale, vol. 1, Milano, 1995.
(62) G. FIANDACA e G. DI CHIARA, Un’introduzione al
sistema penale. Per una lettura costituzionalmente orientata, Napoli, 2003, p. 126.
(63) M. ROMANO, Op. ult. cit., pre-art. 1, n. 25. A questo proposito non possiamo, tuttavia, sottacere il rischio –
di cui siamo ben consapevoli – di una deriva eticizzante
del diritto penale. Sebbene, infatti, il ruolo fortemente
simbolico del diritto penale – con il quale gli operatori del
diritto sono chiamati a confrontarsi – sia un dato, in certa
misura, incontrovertibile, altrettanto vero è, però, che una
sua eccessiva valorizzazione – come osservano con la
consueta puntualità G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, 4 ed., Bologna, p. 30 – «non deve
sfociare nella convinzione che sussista un nesso di impli-
cazione necessaria tra la scelta della sanzione penale e la
qualità del rango o del bene tutelato: ciò porterebbe anche
inconsapevolmente, al ribaltamento dell’assunto iniziale
che l’eventuale rilievo costituzionale del bene non si traduce in un obbligo di penalizzazione a carico del legislatore ordinario».
(64) In seguito alla legge delega 6 dicembre 1993 n.
449, il Governo, con una serie di decreti legislativi, ha
provveduto a riformare l’apparato sanzionatorio in materia di lavoro, trasformando in illeciti amministrativi alcuni illeciti penali ritenuti non gravi in tema di assunzione dei lavoratori, sicurezza ed igiene del lavoro, tutela del
lavoro minorile, delle lavoratrici madri e dei lavoratori a
domicilio, omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, trasformazione delle contravvenzioni in
materia di lavoro punite con la sola ammenda in illeciti
amministrativi. È rimasta penalmente rilevante l’adibizione al lavoro dei bambini e degli adolescenti a lavori insalubri o pericolosi, l’adibizione al lavoro delle gestanti
e delle puerpere a lavori considerati nocivi per la salute
della madre o del bambino, e comunque la loro adibizione al lavoro nel periodo di astensione obbligatoria, l’utilizzazione di lavoro a domicilio per attività che comportino l’uso di sostanze nocive o pericolose alla salute.
(65) La Francia con la legge di modernizzazione sociale n. 73 del 2002, nel recepire i moniti delle istituzioni
comunitarie, ed in particolare la risoluzione 2001/2339
del Parlamento europeo, all’art. 170 ha creato ex novo
una figura di reato, introdotta nel codice penale (artt. 22233-2): la molestia morale. È stato suggerito, qualora si
opti per l’esclusione di una tutela penalistica specifica, di
prefigurare opportunamente una disciplina analoga a
quella prevista nell’ordinamento francese – similmente
anche a quanto disposto nella legge n. 146 del 1990, relativa allo sciopero nei servizi pubblici essenziali – imperniata sulla ripetizione giornaliera della sanzione diversa da quella penale, fino a quando non cessi il
comportamento illecito.
(66) La diffusione di atteggiamenti discriminatori nel
mondo della pubblica amministrazione è stata favorita da
quello che è stato definito un «vizio genetico» della vigente legislazione che richiede un intervento legislativo
riparatore: un esempio per tutti i casi di mobbing proliferati nei confronti dei segretari comunali dopo le recenti
leggi di riforma della categoria. Altri disegni di legge prevedono l’istituzione di uno sportello unico presso la Presidenza del Consiglio dei ministri contro gli abusi
nell’ambiente di lavoro delle amministrazioni pubbliche
con funzioni di tutela e di osservazione del fenomeno
mobbing.
(67) Non è stata ignorata in altri disegni di legge l’incidenza della pressione proveniente da organizzazioni
sindacali in cui viene configurato il mobbing esterno
(Proposta Eufemi n. 1290-2002).
(68) AA.VV., Il Mobbing, a cura di P. TOSI, Giappichelli, Torino, 2004; ivi in particolare S. MAZZAMUTO,
Un’introduzione al mobbing: obbligo di protezione e
condotte plurime d’inadempimento, cit., pp. 1-63; B.
ROMANO, Il mobbing: ai confini del diritto penale?, in
Riv. trim. dir. pen. dell’econom., n. 1-2, 2004, pp. 167180. Con maggiori aperture P. RAUSEI, Il mobbing sarà
reato?, in Diritto & Pratica del Lavoro, 2002, n. 30, pp.
IV-XIV; C. PERINI , La tutela penale del mobbing, in
Mobbing. Organizzazione, Malattia Professionale, Quaderni di Diritto del Lavoro e delle Relazioni industriali,
Utet, 2006, n. 29, pp. 155-169.
RIVISTA PENALE 09/2006
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