PLATONE ED EPICURO

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PLATONE ED EPICURO: DUE PROGETTI DI VITA A CONFRONTO
Platone: il progetto di vita
Simposio: la contemplazione della bellezza
Fedone: vivere per morire
Epicuro: il progetto di vita
Lettera a Meneceo: vivere senza paure
Massime: l’amicizia
Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica
PLATONE: IL PROGETTO DI VITA
Platone – Simposio: la contemplazione della bellezza
Nel Simposio Platone immagina che un gruppo di amici si riunisca in casa del
poeta tragico Agatone per festeggiare con un banchetto la sua vittoria
nell'agone tragico. Per trascorrere il tempo conversando, ciascuno dei
commensali pronuncia a turno un discorso sull'amore. A raccontare ciò che fu
detto quella sera è Apollodoro il quale non era presente, ma ne era al corrente
perchè ne era stato informato da Aristodemo e Socrate.
Apollodoro:
E va bene, ti racconterò più o meno cosa si disse. Ma forse è meglio che parta
dall'inizio e cerchi di rifare per voi, a mia volta, il racconto di Aristodemo.
Incontrai Socrate, mi disse, che usciva dal bagno e si era messo dei sandali, contro
le sue abitudini. Gli domandai dove andasse, visto che si era fatto così bello. E lui
mi rispose:
"Vado a cena da Agatone. Ieri alla festa in onore della sua vittoria me ne son
venuto via, perché mi dava fastidio tutta quella gente. Ma ho accettato di andar da
lui oggi e così mi son fatto bello: voglio esser bello per andare da un bel giovane. E
tu? Che ne pensi di venire anche se non sei stato invitato?"
Io risposi:
"Ai tuoi ordini!"
.... Dopo aver cenato e dopo aver fatto le libagioni, i canti in onere del dio e le
cerimonie d'uso, ci si preparò a bere. Fu Pausania, allora, a prendere la parola per
dire più o meno così:
"Carissimi, come si fa adesso a bere senza star male? io, ve lo dico subito, non mi
sento troppo bene dopo la festa di ieri, perché ho bevuto un po' troppo e vorrei
andarci piano stasera; del resto voi dovreste essere più o meno tutti nelle mie
condizioni, perché c'eravate anche voi ieri. Allora, come possiamo fare per bere
senza star male? Tu che ne dici, Agatone, hai ancora la forza di bere?"
"Per nulla, rispose, non ce la faccio proprio".
"A quanto sembra, disse Erissimaco, è proprio una fortuna per tutti - per me, per
Aristodemo, per Fedro, per tutti quanti - che voi, i migliori bevitori, dobbiate
adesso rinunciare, perché noi non ce la faremmo a starvi dietro. Farei un'eccezione
1
per Socrate: è tanto bravo a bere che a non bere, per lui andrà sempre bene,
qualunque cosa decidiamo" ...
Queste parole furono ascoltate e all'unanimità si decise che non si sarebbe passata
la serata ad ubriacarsi e che ciascuno avrebbe bevuto quanto si sentiva.
"E dunque, riprese Erissimaco, visto che siamo d'accordo che ciascuno beva quanto
vuole, senza nessun obbligo, io proporrei adesso di congedare la nostra giovane
flautista che è appena entrata, noi, invece, passeremo la serata chiacchierando. Di
cosa possiamo parlare? Io quasi quasi un'idea ce l'avrei, se volete ve la dico .... Se
siete d'accordo potremmo fare tutti un elogio a Eros, avremmo così un argomento
senza alcun dubbio davvero assai interessante con cui passare il nostro tempo.
Potremmo, cominciando da sinistra verso destra, fare un elogio dell'Eros, il più
bell'elogio di cui siamo capaci. Fedro parlerà per primo, perché è al primo posto ed
è allo stesso tempo il padre di quest'idea".
Giunto il momenti di Socrate, questi non espone con un lungo discorso
continuo la propria opinione su che cosa sia l'amore. Egli preferisce fare
riferimento ad una conversazione da lui avuta in passato con una donna di
Mantinea, Diotima, una sacerdotessa che lo ha iniziato da giovane ai misteri
d'amore. Il richiamo alla sacerdotessa, all'idea di rivelazione e di iniziazione fa
assumere al discorso di Socrate un tono religioso: amare significa accedere, per
misteriose vie, alla sfera del sacro, significa aspirare all'immortalità e tentare la via
che ci porta al divino. Nel brano qui riprodotto viene descritto il percorso
dialettico attraverso il quale un giovane può essere guidato sulla via dell'Eros
all'acquisizione della virtù, acquistando la capacità di contemplare la bellezza. Il
percorso dialettico è descritto nei termini di una vera e propria iniziazione
religiosa, in coerenza con il tono complessivo del Simposio e con il discorso di
Diotima, per cui Eros è un demone, creatura intermedia tra gli uomini e gli dèi,
capace di elevare l'uomo alla contemplazione della realtà superiore. Il senso
complessivo di questo cammino è che, se ben guidato, l'uomo è capace di elevarsi a
una regione diversa e più pura dell'essere, alla verità, la cui contemplazione è virtù;
si tratta di ben educare un giovane, anzi di educare un giovane al Bene. L’Eros,
spingendo l'uomo alla conoscenza della Bellezza (carattere fondamentale del Bene
in quanto armonia e giusta proporzione), è quindi una via privilegiata di accesso
alle realtà superiori.
Diotima:
Ecco, Socrate, le verità sull'amore alle quali tu puoi certamente essere iniziato. Ma le
rivelazioni più profonde e la loro contemplazione - il fine ultimo della ricerca su Eros non so se sono alla tua portata1. Voglio però parlartene egualmente,senza diminuire
il mio sforzo. Cerca di seguirmi, almeno finché puoi. Chi inizia il cammino che può
portarlo al fine ultimo, sin da giovane deve essere attento alla bellezza fisica. In primo
luogo, se chi lo dirige2 sa indirizzarlo sulla giusta strada si innamorerà di una sola
1
Da questo punto del suo discorso Diotima cambia registro linguistico e metodo espositivo, per
avvicinarsi al linguaggio proprio delle iniziazioni ai Misteri religiosi, come segnalato dall'uso del termine
«rivelazioni». Il fatto che Diotima dubiti delle capacità di Socrate di seguirla indica la presenza di una forte
cesura. Il passaggio da compiere per capire la verità sull'amore richiede infatti un salto: la rivelazione non è
sufficiente, bisogna che l'iniziato ai misteri dell'Eros compia un lungo cammino (dialettico) di
preparazione; ma neppure questo basta. C'è un ulteriore passaggio, come vedremo, una sorta di
illuminazione che giunge (se giunge) improvvisamente.
2
Gli studiosi hanno notato che in questo cammino, come nel mito della caverna, è necessaria una
guida. Il problema è capire chi può proporsi a pieno titolo come guida, dunque come sapiente, se la
filosofia è amore della sapienza, non sapienza. In questo contesto però, la direzione esterna sembra
2
persona e troverà con lei le parole per i dialoghi più belli3. Poi si accorgerà che la bellezza
sensibile della persona che ama è sorella della bellezza di tutte le altre persone: se si deve
ricercare la bellezza che è propria delle forme sensibili, non si può non capire che essa è
una sola, identica per tutti. Capito questo, imparerà a innamorarsi della bellezza di tutte
le persone belle e a frenare il suo amore per una sola: dovrà imparare a non valutare
molto questa prima forma dell'amore, a giudicarla di minor valore. Poi, imparerà a
innamorarsi della bellezza delle anime piuttosto che della bellezza sensibile: a desiderare
una persona per la sua anima bella, anche se non è fisicamente attraente. Con lei
nasceranno discorsi così belli che potranno elevare i giovani che li ascoltano. E giunto a
questo punto, potrà imparare a riconoscere la bellezza in quel che fanno gli uomini e nelle
leggi: scoprirà che essa è sempre simile a se stessa e così la bellezza dei corpi gli apparirà
ben piccola al confronto. Dalle azioni degli uomini, poi, sarà portato allo studio delle
scienze, per coglierne la bellezza, gli occhi fissi sull'immenso spazio su cui essa domina.
Cesserà allora di innamorarsi della bellezza di un solo genere, d'una sola persona4 o di
una sola azione - una forma d'amore che lo lascia ancora schiavo - e rinuncerà così
alle limitazioni che lo avviliscono e lo impoveriscono. Orientato ormai verso l'oceano
infinito della bellezza, che ha imparato a contemplare, le sue parole e i suoi pensieri
saranno pieni del fascino che dà l'amore per il sapere. Finché, reso forte e grande per il
cammino compiuto, giungerà al punto da fissare i suoi occhi sulla scienza stessa della
bellezza perfetta, di cui adesso ti parlerò.
Sforzati - mi disse Diotima - di dedicarti alle mie parole con tutta l'attenzione di cui sei
capace. Guidato fino a questo punto sul cammino dell'amore, il nostro uomo contemplerà le cose belle nella loro successione e nel loro esatto ordine; raggiungerà il
vertice supremo dell'amore e allora improvvisamente gli apparirà la Bellezza nella sua
meravigliosa natura, quella stessa, Socrate, che era il fine di tutti i suoi sforzi: eterna,
senza nascita né morte5. Essa non si accresce né diminuisce, né è più o meno bella
se vista da un lato o dall'altro. Essa è senza tempo, sempre egualmente bella, da qualsiasi
necessaria soltanto per i primi passi. L'uomo poi prosegue da solo, guidato dall'attività razionale del
proprio spirito.
3
Commenta Kelsen:.Diotima si accinge [...] a rivelare l'ultimo segreto dell'amore. Illustra perciò, ad
una ad una, le tappe di quel sentiero che conduce alla contemplazione del bene supremo, inteso
come obiettivo ultimo della vera filosofia e come estremo apice della conoscenza. Ma la prima di
queste tappe è costituita proprio dalla contemplazione della bellezza corporea dei fanciulli! [...] Quanta
differenza dunque tra il Fedone (vedi il brano riportato sotto) da un lato, e il Simposio dall'altro! Il
corpo, con la sua sensibilità, non è più quel male terreno, quel carcere dell'anima che il filosofo deve
mortificare e dal quale deve fuggire al più presto, onde poter raggiungere il proprio obiettivo. A questo
punto, esso diviene la condizione indispensabile per il raggiungimento dell'obiettivo medesimo, visto che,
lungo la via che conduce al bene, l'amore per il corpo costituisce il passo più importante» (H. Kelsen,
L'amore platonico, pp. 112-113). Su questa tesi i pareri sono discordi. Taylor, per esempio, pensa che il
Fedone e il Simposio si possano conciliare su questo punto: .Nel Fedone si trova l'immagine di un'anima
umana al culmine dell'ascesa, nel momento in cui sta per “sciogliersi in luce”, nel Simposio ci viene
mostrato invece, più che in qualsiasi altra opera di Platone, il cammino mediante cui quell'anima è
arrivata ad essere quella che è nel Fedone. (A.E. Taylor, Platone, p. 352).
4
Commenta Taylor:.Ciò non vuol dire che questo allargamento di visuale debba agire sfavorevolmente
sugli affetti personali. Il concetto è che il piacere intelligente suscitato dalla bellezza di un bel corpo
conduce a una più rapida percezione della bellezza negli altri corpi, così come un genuino apprezzamento
delle virtù della propria moglie o dell'ingegno di un amico ci può rendere più o meno sensibili alla
presenza delle medesime qualità in altri» (A.E. Taylor, Platone, p. 358). Nonostante ciò l'amore di coppia
(etero od omosessuale che sia) in questo contesto è associato a tutte le forme di amore che lasciano
l'uomo ancora schiavo».
5
È l'idea stessa di bellezza: come si vede, il percorso che Platone sta descrivendo è parallelo a quello
del mito della caverna nella Repubblica. Sia qui che là il giovane (ben guidato) è condotto dalla sfera
sensibile a quella intelligibile per gradi progressivi e il fine ultimo è in entrambi i casi la contemplazione
dell'idea vera. In questo passo è sottolineato in modo particolare come la prospettiva dialettica sia
indispensabile, ma non sufficiente: una volta raggiunto il vertice supremo dell'amore apparirà la
Bellezza in sé. Ma si tratta di un ulteriore grado rispetto al percorso che l'anima ha compiuto con le proprie
forze: non è infatti l'anima a scoprire la Bellezza in sé, è quest'ultima ad apparire.
3
punto di vista la si osservi. E tutti comprendono che è bella. La Bellezza non ha forme
definite: non ha volto, non ha mani, non ha nulla delle immagini sensibili o delle parole.
Non è una teoria astratta. Non è uno dei caratteri di qualcosa di esteriore, per esempio
di un essere vivente, o della Terra o del cielo, o non importa di cos'altro. No, essa
apparirà all'uomo che è giunto sino a lei nella sua perfetta natura, eternamente identica a
se stessa per l'unicità della sua forma. Tutte le cose belle sono belle perché partecipano
della sua bellezza, ma esse nascono e muoiono - divenendo quindi più o meno belle senza che questo abbia alcuna influenza su di lei.
Tutto questo mi insegnava Diotima, quando discorreva di cose d’amore, e una volta
mi disse: “se vuoi considerare, per esempio, l'amore degli uomini per la gloria, ti
stupiresti della loro follia, se non rammentassi quel che ti ho detto, osservando
come sia veemente in loro il desiderio di diventar famosi e d'acquistarsi gloria
immortale per l'eternità, e come per ciò essi sian disposti a sfidare qualsiasi pericolo
ancor più che per i figli, e a spendervi ricchezze, e a sopportare fatiche d'ogni sorta, e
ad affrontare la morte. Credi infatti che Achille sarebbe morto per vendicare
Patroclo se non avesse pensato che della sua virtù sarebbe rimasta quella memoria
immortale, che noi ora serbiamo? Tutt'altro! esclamò: anzi, credo, è proprio per
conseguire quell'immortale virtù e fama gloriosa che ognuno fa di tutto, e tanto più quanto migliore egli sia, da innamorato dell'immortale. Ora, riprese, quelli che son
fecondi fisicamente si volgono di preferenza alle donne, e a questo modo sono
amorosi, valendosi della procreazione dei figli per conseguire, secondo la loro
intenzione, immortalità, ricordo e beatitudine per tutto il tempo avvenire; mentre
quelli che son fecondi spiritualmente... - giacché ci son quelli, diceva, che son
fecondi nell'anima ancor più che nel corpo; di quelle concezioni e procreazioni
che all'anima si addicono. E cioè? La saggezza e ogni altra virtù: di cui appunto
sono genitori e tutti i poeti e quanti tra gli artefici hanno il nome di inventivi. E la
suprema e bellissima fra tutte le forme di saggezza è poi quella che concerne gli
ordinamenti delle città e delle case, e che si chiama prudenza e giustizia. Quando
dunque qualcuno, fin da giovane, per sua divina natura, sia fecondo di tali cose
nell'anima, e, giunta l'età, desideri ormai di partorire e di procreare, cerca,
penso, anche lui, andando attorno, il bello in cui possa generare; giacché nel brutto
non genererà mai. E per questo, fecondo com'è, predilige i bei corpi anziché i brutti;
e se mai incontri anche un'anima bella e generosa e bennata, allora si affeziona
profondamente a tale duplice bellezza, e con questa persona divien subito eloquente
a parlar di virtù, e del carattere e delle occupazioni che debba avere l'uomo
dabbene, cominciando così ad educarla. Infatti, penso, venendo a contatto colla bella
persona e conversando con essa, procrea e genera quel che da tempo aveva concepito,
rammentandosene e in presenza e in assenza, e insieme con quella alleva la creatura; in modo che tali persone vengono ad avere l'una coll'altra una comunanza molto
più forte di quella dei figli, e un'affezione più salda, avendo insieme dei figli più
belli e più immortali. E ognuno preferirebbe che gli nascessero tali figli,
piuttosto che quelli umani, guardando a Omero e a Esiodo e agli altri poeti grandi e
invidiandoli per le creature che lasciano di sé, e che procurano loro fama e gloria
immortale, per l'immortalità che esse stesse hanno; o anche, se vuoi, per quelle
che lasciò Licurgo6 a Sparta, salvezza di Sparta e, quasi direi, di tutta la Grecia.
Così da voi è in grande onore Solone 7, per aver creato le sue leggi, come altri lo
sono in molti altri luoghi, tra i Greci e tra i barbari, avendo dato saggio di sé in
molte belle opere e generato ogni sorta di virtù. E ad essi già molti templi furono
eretti, in grazia di tali figli; mentre, pei figli umani, non se ne innalzò ancora a
6
Personaggio in parte leggendario, Licurgo fu considerato il creatore delle leggi spartane. Oltre che
salvatore di Sparta, qui è detto anche salvatore della Grecia probabilmente per il ruolo svolto da
Sparta nelle guerre persiane.
7
Vissuto tra VII e VI secolo, poeta e uomo politico, Solone fu autore di un importante ordinamento
legislativo di Atene.
4
nessuno.
..... Agatone si era alzato per andarsi a mettere accanto a Socrate, quando
all'improvviso tutta una banda di gente allegra spuntò dalla porta. Qualcuno era
uscito e avevano trovato la porta aperta, e così erano entrati e s'erano uniti alla
compagnia. Gran baccano in tutta la sala: senza più alcuna regola, si bevve
allegramente un sacco di vino.
Allora, mi disse Aristodemo, Erissimaco, Fedro e qualcun altro andò via. Lui,
Aristodemo, fu preso dal sonno e dormì tanto, perché le notti erano lunghe. Si
svegliò ch'era giorno e i galli già cantavano. Alzatosi, vide che gli altri dormivano
o erano andati via. Solo Agatone, Aristofane e Socrate erano ancora svegli e
bevevano da una gran coppa che si passavano da sinistra a destra.
Socrate chiacchierava con loro. Aristodemo non ricordava, mi disse, il resto della
conversazione, perché non aveva potuto seguire l'inizio e dormicchiava ancora un
po'. Ma in sostanza, disse, Socrate stava cercando di convincere gli altri a
riconoscere che un uomo può riuscire egualmente bene a comporre commedie e
tragedie, e che l'arte del poeta tragico non è diversa da quella del poeta comico.
Loro furono costretti a dargli ragione, ma non è proprio che lo seguissero del tutto:
stavano cominciando a dormicchiare. Il primo ad addormentarsi fu Aristofane, poi,
ormai in pieno giorno, s'addormentò anche Agatone.
Allora Socrate, visto che si erano addormentati, si alzò e andò via. Aristodemo lo
seguì, come sempre faceva. Socrate andò al Liceo, si lavò e passò il resto della
giornata come sempre faceva. Dopo, verso sera, se ne andò a casa a riposare.
Platone, Simposio
Platone – Fedone: vivere per morire
Nel Fedone, Platone racconta gli ultimi momenti vissuti da Socrate in carcere
prima di affrontare la morte. Circondato da amici, egli conversa, soprattutto
con due interlocutori, i pitagorici Simmia e Cebete, sul destino dell'anima
dopo la morte e sui caratteri che deve assumere l'indagine filosofica.
Il problema dell'immortalità dell'anima richiama quello, assai vivo nella
tradizione pitagorica, della preesistenza dell'anima alle reincarnazioni alle quali
essa è via via sottoposta.
Fedone:
Ora cercherò di raccontarti tutto dal principio. Sempre, nei giorni che precedettero
la morte, io e gli altri eravamo soliti incontrarci con Socrate. Ci riunivamo al mattino,
appena faceva chiaro, nel tribunale dove venne fatto il processo, che era vicino al
carcere e lì, chiacchierando, aspettavamo che ci venisse aperta la prigione. A volte
si aspettava anche un bel po'; ma quando ci aprivano, correvamo da Socrate e
restavamo con lui anche tutta la giornata. Quella mattina, poi, giungemmo molto
presto perché la sera prima, lasciando il carcere, sentimmo dire che era tornata la
nave da De1o8 e così fummo d'accordo di vederci il giorno dopo al solito posto,
al più presto possibile.
Quando giungemmo, il custode, che ci aveva sempre fatti passare, venne fuori e
ci disse di attendere e di non entrare fino a quando non ce lo avesse detto lui,
8
La nave tornava da un pellegrinaggio in ricordo dell’uccisione del Minotauro da parte di Teseo,
durante il pellegrinaggio non si potevano eseguire le condanne a morte.
5
perché gli Undici9 proprio in quel momento stavano togliendo le catene a Socrate
e comunicandogli che quello era il giorno della sua morte.
Dopo un po' tornò e ci disse che potevamo entrare e noi, infatti, trovammo
Socrate libero dai ceppi e Santippe10 (tu la conosci, no?), che con il bambino più
piccolo in braccio, gli stava vicino. Appena quella ci vide, cominciò a strillare e a
dire le solite cose che dicono le donne: «Ahimè, Socrate, ecco che è l'ultima
volta che i tuoi amici parlano con te e tu con loro.» E Socrate, rivolgendosi a
Critone: «Per favore, accompagnatela a casa.» Alcuni servi di Critone, così, la
condussero via, mentre lei continuava a smaniare e a battersi il petto.
Socrate, intanto, che s'era seduto sul letto, piegando una gamba, cominciò a
grattarsela a lungo: «Che strana cosa amici, sembra quella che gli uomini
chiamano piacere. E che straordinario rapporto tra questo e il suo contrario, cioè
il dolore. E pensare che essi convivono nell'uomo e pur si respingono sempre e
chi cerca e riesce a cogliere l'uno, si vede costretto, sempre, a sobbarcarsi anche
l'altro come se, pur essendo due, fossero attaccati entrambi a uno stesso capo.»
«Credo,» soggiunse, «che se Esopo 11ci avesse pensato su ne avrebbe fatto una
favola presso a poco così: "Dio, volendo riconciliare questi due, sempre in
guerra tra loro e non riuscendovi, li legò insieme per la testa così che dove va
l'uno va anche l'altro." E quello che è capitato a me: per la catena, qui, alla gamba,
poco fa, io sentivo dolore; ed ecco che ora sento piacere »
... Mise giù le gambe dal letto e, restando seduto, continuò a parlarci. E Cebete, a
un tratto, gli chiese: «Com'è questo fatto, Socrate, che, da un lato dici che non è
permesso farsi violenza e, dall'altro, che il filosofo non chiede di meglio che seguire
chi muore?» «Ma come, Cebete, tu e Simmia non avete già sentito simili discorsi alla
scuola di Filolao12?» «Sì, Socrate, ma nulla di preciso, però.»
«Ma anch'io parlo per sentito dire;- tuttavia nessuno mi impedisce di riferirvi
quello che ho udito, tanto più che mi sembra cosa assai naturale, per chi sta per
andarsene all'altro mondo, indagare e fantasticare su questo viaggio e come egli
se lo immagina. E poi, cosa potremmo fare di meglio, in tutto questo tempo, fino
al tramonto?13.
... È vero, miei cari Simmia e Cebete, se io non fossi convinto di andare presso altri
dèi, saggi e buoni e, inoltre, tra uomini morti, di gran lunga migliori dei vivi, oh,
certo, sarei ben uno sciocco a non dolermi di morire. Che io mi recherò tra uomini buoni
è, beninteso, una speranza e non lo posso sostenere con sicurezza, ma che io mi
troverò accanto a degli dèi che sono ineguagliabilmente ottimi padroni, oh, questo sì,
io lo posso affermare fino in fondo. Ecco perché non mi rattristo, come gli altri, al
pensiero di morire ma, anzi, mi consola la speranza che al di là della morte, come da
tempo si afferma, qualcosa ci sia e assai migliore per i buoni che per i malvagi.»
«E proprio ora che te ne vuoi andare, Socrate» interruppe Simmia, «vuoi
9
Gli Undici: si trattava di un gruppo composto da dieci magistrati, eletti ogni anno tramite il
sorteggio (la pratica più usata per le elezioni nella democrazia ateniese), e un segretario. Costoro
erano addetti alla gestione delle prigioni e alle esecuzioni capitali.
10
Santippe: è la moglie di Socrate, da cui ebbe tre figli.
11
Esopo: è un famoso autore di favole (le favole a lui attribuite sono circa 500), realmente vissuto nel
VI sec. a.C. ma mitizzato dai Greci in quanto la sua opera, insieme a quella di Omero ed Esiodo,
costituisce un punto di riferimento fondamentale per la cultura ellenica.
12
Filolao: filosofo pitagorico, ebbe come discepoli Simmia e Cebete.
13
Socrate, in questo breve accenno, introduce l'argomento principale del dialogo: il filosofo considera
la morte ciò che essa realmente è, ovvero il passaggio a uno stato di esistenza migliore; non la si deve
però raggiungere facendo violenza a se stessi, attraverso il suicidio, ma attendendo il momento
che gli dèi hanno prescelto per noi. Così presentata questa tesi appare poco convincente e
perfino paradossale (lo capiamo dall'obiezione che Cebete avanza immediatamente dopo), ma risponde Socrate più avanti - acquista significato se si considera l'uomo come un "possesso degli
dèi" e non di se stesso: in tal modo egli non ha più alcun diritto di decidere della propria vita. Nel
corso del Fedone questa tesi iniziale si arricchisce progressivamente fino a svilupparsi
compiutamente.
6
tenertela tutta per te questa fede e non parteciparla anche a noi? È questo un
bene che deve essere elargito un po' a tutti, almeno così mi pare, e che, al tempo
stesso, potrà essere la tua difesa se quello che dici riuscirà a convincerci.»
«Cercherò, ma prima vediamo cosa vuol dire il buon Critone.»
«Eh? Nient'altro che quello che mi sta ripetendo, da un pezzo, l'uomo che dovrà
somministrarti il veleno, che cioè tu discuta il meno possibile, perché se parli
troppo e ti accalori, il veleno potrà anche non fare il suo effetto e, allora, dovrai
berne anche due o tre volte.» «Digli di non preoccuparsi: faccia pure quello che
deve fare e sia pronto a darmelo anche due e tre volte, se sarà necessario.»
«Me l'ero immaginato che avresti risposto così; ma quello è da molto che insiste.»
«E tu lascialo dire. Ma a voi, come se foste miei giudici, voglio esporre le mie ragioni e
dirvi perché io credo che un uomo che abbia dedicato tutta la sua vita alla
filosofia, quand'è sul punto di morire, non ha alcun timore, ma, anzi, una
legittima speranza di ottenere, nell'al di là, premi grandissimi. Come questo sia
vero, miei cari, cercherò di dimostrarvelo.
Gli uomini non sospettano affatto che chi si dedica alla filosofia, nel senso più
vero della parola, non miri ad altro che a morire e presto. E, dunque, sarebbe
veramente ben strano che chi per tutta la vita ha desiderato la morte, quando poi
essa giunga, si addolorasse proprio di ciò che ha, per tanto tempo, desiderato e
cercato.»
Sorrise Simmia e: «Per Giove, Socrate,» disse, «io non ne avevo voglia e tu mi
hai fatto ridere perché penso a tutta quella gente che, nell'ascoltare queste tue
parole, crederà che tutti i filosofi siano degli aspiranti alla morte; specialmente,
poi, i miei concittadini direbbero che essi se la meritano.»
«E avrebbero ragione di dire così, Simmia, salvo poi a capirne qualcosa; però,
credo che non comprenderebbero in che senso i veri filosofi aspirino alla morte e a quale
specie di morte e come di essa ne siano degni. Ma lasciamo perdere la gente e
ragioniamo, dunque, tra noi. Orbene, a nostro avviso la morte è qualcosa? 14 »
«Sicuro.»
«E che altro è se non separazione dell'anima dal corpo? E il morire cos'è se non
un distinguersi del corpo dall'anima, un isolarsi in sé, un separarsi dall'anima e,
questa, a sua volta, dal corpo? Che altro è la morte se non questo?»
«Proprio così.»
«Guarda, ora, mio caro, se sei d'accordo con me, perché questo è importante
per comprendere meglio quello di cui discutiamo. Ti pare che un vero filosofo
possa curarsi di piaceri come quelli del mangiare e del bere?»
«Niente affatto.»
«E di quelli d'amore?»
«Nemmeno.»
«E degli altri piaceri del corpo, come, per esempio, bei vestiti alla moda, scarpe
di marca, telefonini super accessoriati e altri ornamenti del genere, tu credi che il
filosofo li tenga in gran conto e, comunque, più di quanto la necessità lo richieda?»
«Credo che il vero filosofo le disprezzi tutte queste cose.»
«E allora,» proseguì, «non ti pare che tutte le preoccupazioni di un uomo simile
siano rivolte non al corpo, che anzi, per quanto può, egli trascura, ma all'anima?» «Sì,
certo.»
«E, allora, non è chiaro, tanto per cominciare, che, in tutto questo, il filosofo cerca di
liberare, per quanto possibile, l'anima da ogni influenza del corpo, riuscendovi assai
meglio degli altri?» «Pare.»
«Per questo motivo, Simmia, la maggior parte della gente giudica indegno di vivere
colui che non prova diletto per certi piaceri materiali, anzi come se fosse già col
piede nella tomba chi non si cura di quei piaceri che sono propri del corpo.»
«Dici proprio giusto.» ...
14
Ha inizio ora uno dei tipici procedimenti dialettici con cui Socrate non solo dà dimostrazione delle
proprie convinzioni ma fa sì che vengano pian piano riconosciute dai suoi stessi interlocutori.
7
«E allora,» soggiunge Socrate, «necessariamente, tutte queste considerazioni inducono
i, veri filosofi a un ragionamento presso a poco di questo genere:"Esiste come un
sentiero che ci porta nella direzione giusta, ma fino a che avremo un corpo e la
nostra anima sarà confusa a una simile bruttura, noi non giungeremo mai a
possedere ciò che desideriamo, che è, poi, quello che noi chiamiamo verità. E
non solo il nostro corpo ci procura infiniti fastidi, per il fatto stesso che,
ovviamente, dobbiamo nutrirlo, ma quando si ammala, sorgono sempre nuovi
impedimenti che ci distolgono dalla nostra ricerca della verità; e poi, ancora,
amori, desideri, timori, visioni fallaci d'ogni genere, vanità innumerevoli, non
fanno che frastornarci (è la parola giusta!) così che, fino a quando siamo in sua
balìa, non possiamo concentrarci su nulla. E così pure le guerre, le discordie, le zuffe,
è il corpo che le fa nascere con le sue passioni. La brama di possesso, ecco la causa di
tutte le guerre e se noi ci affanniamo a procurarci la ricchezza, è il corpo di cui siamo gli
schiavi. Da tutto questo deriva il fatto che noi non troviamo più il tempo per dedicarci
alla filosofia. E il peggio è che, se pure riusciamo, per un momento, a liberarcene
e a volgere la nostra mente a qualcosa, subito ne siamo distolti, per la sua
importuna intrusione, che ci confonde, ci distrae, ci frastorna, al punto di renderci
incapaci, ormai, di distinguere la verità. Dunque, è chiaro che se vogliamo giungere
alla pura conoscenza di qualche cosa, dobbiamo staccarci dal corpo e contemplare con
la sola anima le cose in sé. Soltanto allora, a quel che sembra, noi avremo ciò che
desideriamo e che dichiariamo di amare: la sapienza, ma dopo che saremo
morti e non certo da vivi, come tutto questo discorso vuol dimostrare. Se, infatti,
non ci è possibile conoscere nulla nella sua purezza, perché siamo legati al corpo,
due sono le cose: o in nessun modo ci è dato acquistare il sapere o esso ci sarà
concesso solo dopo morti, perché soltanto allora l'anima sarà libera dal corpo e
tutta sola con se stessa, prima no. Ma è chiaro che durante la nostra vita, noi
saremo tanto più vicini alla conoscenza, nella misura in cui meno avremo a
dipendere dal nostro corpo e ad avere con esso rapporti, se non per assoluta
necessità, nella misura in cui riusciremo, cioè, ad essere, il meno possibile,
contaminati dalla sua natura e quanto più, d'altronde, resteremo puri dal suo
contatto, fino al giorno in cui dio non ci avrà del tutto da esso disciolti. Oh,
allora, liberi e puri dalla fallacia del corpo, noi saremo uniti, con ogni probabilità,
ad esseri simili a noi e potremo noi stessi contemplare tutto ciò che è puro. Questa, forse,
è la verità: non è lecito, a chi è.impuro, toccare ciò che è puro."
Questi io penso, Simmia, debbano essere le parole e i pensieri di tutti coloro che sono i
veri amici della sapienza, non credi?»
«Oh, sì, niente di più probabile, Socrate.»
«E, allora, amico mio,» proseguì Socrate, «se questa è la verità, quale grande
speranza per chi giunga dove ora io sto per andare perché, più che in qualsiasi
altro luogo, potrà ottenere pienamente quello per cui tanto tribolammo quaggiù,
nella nostra vita trascorsa. E, quindi, questo viaggio che oggi mi si comanda, non
è senza una lusinghiera speranza che si compie per me, come per chiunque altro,
abbia disposto l'anima sua alla purezza.»
«Oh, indubbiamente,» fece Simmia.
«E questa purificazione non la si raggiunge, come dice anche l'antica tradizione15,
15
Socrate si riferisce alla tradizione delle religione dei misteri, ovvero quelle antiche forme di culto
praticate da molte sette che non si riconoscevano - e non erano riconosciute - nella religione
ufficiale e pubblica della polis, ma con essa convivevano più o meno pacificamente. Aderenti a
queste sette erano gli iniziati ai misteri: non si trattava per lo più di gruppi esclusivi ed elitari, ma al
contrario molto spesso accadeva che tutti coloro che erano in qualche modo esclusi dalle pratiche
della religione ufficiale - schiavi, stranieri, donne, ecc. - aderissero a questi culti misterici. Erano
forme religiose del tutto particolari, che ricercavano un rapporto più personale e diretto con il
divino, e spesso davano risposte a tutte quelle problematiche che non rientravano nella sfera religiosa
ufficiale e a tutti quei sentimenti che venivano esclusi dal suo codice etico. Tra le varie forme
misteriche vi era il culto del dio Dioniso, soltanto tardi accolto nella cerchia degli dèi olimpici.
8
separando, più che sia possibile, l'anima dal corpo, esercitandola a restarne
staccata, tutta in sé raccolta, nella vita presente come in quella futura, libera dal
corpo che è il suo carcere?» «Certamente.»
«E non è questa la morte, questo liberarsi, questo separarsi dell'anima dal corpo?»
«Verissimo.»
«E questa separazione, come abbiamo detto, dell'anima dal corpo, la desiderano
soltanto e soprattutto quelli che si occupano rettamente di filosofia perché questo è,
appunto, l'impegno dei filosofi: separare e riscattare l'anima dal corpo. Non è così?»
È chiaro.»
«Non sarebbe, dunque, ridicolo, come dicevo poco fa, che un uomo, il quale in tutti i
suoi anni s'è preparato a vivere in modo che la sua vita somigliasse, quanto più
possibile, alla morte, quando questa poi giunga se ne rammaricasse?»
«Certo che sarebbe ridicolo.»
«E, dunque, Simmia, quelli che si occupano seriamente di filosofia, si abituano
alla morte e l'idea di morire a loro fa meno paura che agli altri uomini. Giudica tu,
allora. Se i veri filosofi, che hanno avuto sempre in uggia il corpo, che ardentemente e
sempre desiderano che la loro anima sia da esso staccata e tutta raccolta in sé,
dovessero, poi, lasciarsi prendere dalla paura e dal dolore, quando ciò si avvera, non
sarebbe illogico, dico, se non andassero tutti lieti là dove, una volta giunti, possono
sperare di ottenere quello che, per tutta la vita, hanno desiderato: la sapienza cioè, di cui
erano innamorati e così sciogliersi da ciò che li impacciava, sentirsi finalmente liberi dal
suo potere? E, poi, molti scesero nell'Ade spinti dalla speranza di rivedere mogli,
o figli, o amanti, insomma creature dilette e ricongiungersi a loro nell'al di là, e
vuoi, allora, che un uomo, il quale è stato innamorato della sapienza e che ha
sempre nutrito la speranza di conseguirla in nessun altro luogo se non nell'al di là,
vuoi che costui si spaventi di morire e non si rallegri di andare laggiù? Oh,
proprio no, amico mio, se è un vero filosofo, perché egli sarà pienamente
convinto che soltanto laggiù e in nessun altro luogo potrà trovare la sapienza
pura. Stando così le cose non sarebbe veramente assurdo, come dicevo un attimo
fa, che un uomo simile avesse paura della morte?»
«Ah, certo»16ammise. ...
Una delle sette più famose era l'orfismo, che prendeva il nome da Orfeo; i misteri orfici - o comunque le dottrine che la tradizione ci ha tramandato come orfiche - hanno dato un contributo
fondamentale allo sviluppo e all'arricchimento di tutta la filosofia greca. Le credenze che a questo
proposito hanno esercitato un influsso di prim’ordine sono due:
a) l'idea che l'anima dell'uomo sia di natura divina, racchiusa però in un corpo - un corpo-prigione la cui natura è invece caduca e impura; soltanto dopo la sua separazione dal corpo l'anima potrà
vivere la sua vera vita, nelle sfere ultraterrene del divino;
b) l'idea di un destino individuale che trova compimento non durante la vita terrena, ma nel mondo
dell'aldilà: l'anima passa attraverso varie vite, trasmigra da un corpo all'altro (una sorta di
reincarnazione), e durante questo viaggio deve purificare se stessa dalle colpe che può aver
commesso nelle precedenti vite. Fintanto che il processo di purificazione non ha avuto termine,
l'anima continua nel suo viaggio. È la dottrina della metempsicosi (trasmigrazione delle anime), che
ritroviamo in moltissime altre religioni e correnti di pensiero, ad esempio il pitagorismo.
Le tesi che Platone sviluppa - qui e altrove - riguardo all'aldilà, alla metempsicosi e all'anima, sono
una lettura filosofica di antiche tradizioni. Esse erano presenti - sotto varie forme e talvolta solo
allo stato embrionale - in remote tradizioni: l'idea di una generica sopravvivenza dopo la morte era
antichissima; l'idea di un castigo o di una ricompensa nell'oltretomba erano addirittura precedenti
l'epoca omerica; ritroviamo poi tematiche analoghe in Empedocle, Eraclito, ecc.
16
La chiave di lettura di tutto il discorso socratico e del Fedone nel suo complesso sta innanzi
tutto nel considerare la parola morte - così come la usa il filosofo - non nel suo significato
corrente, ma come liberazione dell'anima dal corpo, un corpo che viene visto come prigione (anche
questa è un'immagine pitagorica). Quindi tale separazione non è altro che la realizzazione
dell'indipendenza dell'anima, il raggiungimento di uno stato di purezza assoluta. Si veda quanto
detto sopra nel Simposio a proposito dell'educazione al bello: lì Platone individua una serie di
tappe che progressivamente conducono alla contemplazione della Bellezza in sé, cioè all'Idea
9
«Se, invece, l'anima si separa dal corpo contaminata e impura perché è vissuta
con esso in stretto rapporto, servendolo e amandolo e condividendone le
passioni e i desideri, ritenendo per vero solo ciò che era corporeo, cioè quello che si
può toccare, vedere, bere, mangiare e usare per i piaceri d'amore e odiando, invece, e
fuggendo impaurita ciò che ai nostri occhi è oscuro e invisibile, ciò che si può
percepire solo con il pensiero e comprendere mediante la filosofia, un'anima così
fatta, ripeto, credi tu che si possa sciogliere dal corpo pura e tutta raccolta in sé?» «In
nessun modo,» ammise.
«Non credi, invece, che sarà tutta pervasa da quell'elemento corporeo che, per la
familiarità con il corpo di cui ella ha condiviso l'esistenza, per quel suo vivergli
premurosamente insieme, le si è come connaturato?»
«Certamente.»
«E ciò che è corporeo, amico mio, pesa - credi pure -, è fatto di terra, visibile. E
un'anima di tal fatta ne è come gravata, attirata nuovamente verso la sfera del
visibile, perché impaurita dall'invisibile, dal cosiddetto regno dell'Ade e si
aggira tra le tombe e i sepolcri, dove se ne vedono, appunto, sotto forma di
spettri, immagini di anime staccatesi dal corpo, impure, partecipi ancora della
realtà visibile e, perciò, come tali, visibili anch'esse.»
«E probabile, Socrate.»
«Altro che probabile, Cebete, come - del resto - che queste non siano le anime dei
buoni ma dei malvagi, costrette ad errare per questi luoghi e pagare così il fio
della loro precedente esistenza, che fu malvagia. E vanno errando fin quando il
desiderio di ciò che è corporeo, che sempre le accompagna, non le spinge a
unirsi nuovamente a un corpo17.
«E si legano, com'è naturale, a quei corpi che hanno abitudini e sistemi di vita che esse
praticarono nella loro precedente esistenza.»
di Bellezza. Questo itinerario di progressiva conoscenza parte dalla sfera della fisicità (la bellezza dei
corpi) per giungere alla pura spiritualità (le Idee), che costituisce il grado più elevato di
conoscenza e virtù. Anche qui vediamo - nonostante il contesto e l'argomento trattato siano molto
diversi - un graduale allontanamento da tutto ciò che è corporeo e sensibile, in virtù di una tensione
verso la sfera della purezza dello spirito e dell'anima. Nel Fedone questa pratica viene ripresa e
sviluppata in relazione al tema della morte.
Dopo avere chiarito che cosa si deve intendere per "morte", Platone ci fa notare come il filosofo
per tutta la vita insegua questo obiettivo finale di purificazione dell'anima dal corpo. Infatti:
a) egli non ha alcuna cura delle soddisfazioni e degli appetiti fisici, in quanto essi costituiscono
soltanto degli impedimenti e degli ostacoli alla sua ricerca di conoscenza
b) gli strumenti che la fisicità fornisce (i sensi) finiscono per deviare questa sua ricerca, in quanto
sono poco attendibili e ingannevoli;
c) gli oggetti della sua ricerca - il Giusto, il Bello, il Bene, ecc. - non si conoscono attraverso i sensi ma
attraverso l'intelletto. La vita del filosofo la si può dunque pensare come un "tirocinio della morte".
"La concezione che viene espressa in queste pagine è manifestamente il corrispondente ellenico della
«vita mistica» del cristianesimo; l'idea che sta alla base di entrambe le concezioni è che vi è per l'uomo
un supremo bene il quale, per la sua stessa natura, non può venir goduto «in questa vita». [ ...] Ci si
deve tuttavia guardare da insidiosi fraintendimenti: non esistono né in Platone né nel pensiero greco
l'idea di «peccato», «sacrificio», «espiazione», ecc. La rinuncia del filosofo mira a rendere la vita più
ricca e non ha niente a che fare, per esempio, con l'astinenza propria del cristianesimo" (A.E. Taylor;
Platone. L’Uomo e l'opera, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 285).
17
Il processo di purificazione non comincia dunque soltanto al momento della morte, quando
l'anima si separa dal corpo, ma molto prima, fin dalla vita terrena: tutto il percorso esistenziale che
Platone delinea per il filosofo - e non solo nel Fedone ma anche nell'Apologia, nel Simposio, ecc. - non è
altro che una preparazione purificatoria che culmina nel momento della morte; la morte in questo senso si
configura come un prolungamento della vita. Durante la sua permanenza nel corpo, l'anima deve
cominciare a distaccarsi progressivamente da tutte le passioni che hanno a che fare con la materialità; se
non si impegnerà in questo, rimarrà sempre incatenata ad essa e, anche dopo la morte terrena, sarà
destinata a ritornare prigioniera di un corpo e a ricominciare il ciclo delle vite. Fintanto che non avrà reciso
ogni legame col corpo non potrà quindi innalzarsi al regno che per natura le appartiene veramente: il regno
dello spirito e del divino.
10
«E quali sarebbero, Socrate?»
«Che quelle anime, per esempio, che più di ogni cosa, si abbandonarono ai
piaceri del ventre, a quelli della carne o del bere, senza alcuna misura, è
probabile che entrino in corpi d'asino o di animali del genere. Non credi?»
«E probabile ciò che dici.»
«E quelle che poi preferirono ingiustizie, tirannidi, rapine, entreranno in corpi di lupi,
di sparvieri, di nibbi. E dove potrebbero andare tali anime?»
«Ah, certo, in corpi simili,» ammise Cebete.
«Non è chiaro, allora,» continuò Socrate, «che anche per le altre anime, il loro
destino sarà corrispondente alle loro precedenti abitudini?»
«Chiaro, non potrebbe essere altrimenti.»
«E tra queste ultime, le più felici, quelle che andranno nella sede migliore, non saranno
quelle che praticarono le virtù sociali e civili, cioè quelle virtù che vengon
chiamate temperanza e giustizia, che nascono dalla consuetudine e dalla pratica
della vita, senza, però, il concorso della filosofia e della riflessione?»
«Ma com'è che saranno più felici?»
«Perché è probabile che ritornino in una specie di animali mansueti, che vivono
associati, come api, vespe, formiche o anche in forma umana, generando uomini
buoni18 »
«E probabile.»
Platone, Fedone
18
Platone riprende antiche credenze, simili ad una sorta d "legge del contrappasso",
concettualmente simile a quello che Dante costruirà nella Divina Commedia. Si tratta cioé d una
legge che stabilisce una corrispondenza - per contrapposizione o somiglianza - tra le colpe
commesse e le pene chi si dovranno poi scontare per quelle stesse colpe.
11
EPICURO: IL PROGETTO DI VITA
Epicuro – Lettera a Meneceo: vivere senza paure
Epicuro, saluta Meneceo,
L'uomo cominci da giovane a far filosofia e da vecchio non sia mai stanco di
filosofare. Per la buona salute dell'animo, infatti, nessun uomo è mai troppo
giovane o troppo vecchio 19. Chi dice che il giovane non ha ancora l'età per far
filosofia, e che il vecchio l'ha ormai passata, è come se dicesse che non è ancora
giunta, o è già passata, l'età per essere felici. Quindi sia l'uomo giovane che il
vecchio devono far filosofia: il vecchio perché invecchiando rimanga giovane
per i bei ricordi del passato20; il giovane perché, pur restando giovane d'età, sia
maturo per affrontare con coraggio l'avvenire. È bene riflettere sulle cose che
possono farci felici: infatti, se siamo felici abbiamo tutto ciò che occorre; se non lo
siamo, facciamo di tutto per esserlo21. Metti in pratica le cose che ti ho sempre
raccomandato e rifletti su di esse, perché sono i princìpi necessari fondamentali
per una vita felice.
Per prima cosa tu devi considerare la divinità come un essere indistruttibile e
felice, così come comunemente gli uomini pensano degli dei; non attribuire
quindi nulla alla divinità che contrasti con la sua immortalità e la sua beatitudine,
e ritieni vero invece tutto ciò che ben si accorda con la sua felice immortalità.
Gli dei infatti esistono, ed è del tutto evidente la conoscenza che ne abbiamo; ma
gli uomini attribuiscono agli dèi caratteristiche contrarie alla stessa idea che se ne
fanno. Negare gli dei in cui credono gli uomini, non è quindi empietà. Empietà è
piuttosto attribuire agli dei le idee che gli uomini comunemente se ne fanno, perché
19
Una delle Massime di Epicuro dice: "Vana è la parola di un filosofo, se non allevia qualche
sofferenza umana". Che cos'è dunque la filosofia? Non soltanto la ricerca della sapienza per
soddisfare il desiderio di conoscenza, ma la ricerca della sapienza per soddisfare il desiderio di felicità
ed eliminare la sofferenza dalla vita umana. Che differenza può dunque esserci tra i giovani e i
vecchi? Non desideriamo tutti allo stesso modo di allontanare la sofferenza e di essere felici? Allo
stesso modo non può esserci differenza tra uomini e donne, tra liberi e schiavi, e così via.
L'inizio della lettera a Meneceo permette subito di distinguere la concezione epicurea della
filosofia da quella diPlatone e di Aristotele.
20
La nostra vita interiore, e quindi la nostra felicità, è fortemente condizionata dal nostro passato. I
brutti ricordi pesano, opprimono, intristiscono. Dobbiamo liberarci di un passato che fa soffrire. Chi
vuol essere felice deve far di tutto per limitare i cattivi ricordi, per dimenticarli se ci sono. Deve
esercitarsi a valorizzare i bei ricordi, a fissarli bene nella memoria, a pensarci spesso.
La filosofa è esercizio dello spirito alla ricerca della felicità. Dobbiamo esercitarci sin da giovani
coltivando quelle abitudini di vita e di pensiero che sappiamo essere utili a star bene. Non serve a nulla
limitarsi a conoscere la filosofia o a studiarla: serve esercitarsi a vivere in accordo con i principi della
filosofia. Più volte, nelle frasi successive, ricorre il verbo riflettere: fermarsi cioè, a considerare se
quanto apprendiamo dalla filosofia può avere un valore per la nostra vita
21
La felicità non è uno stato d'animo eccezionale, una vetta difficile da raggiungere. E il semplice
star bene: è la condizione del nostro spirito quando nulla ci manca, quando siamo pienamente
soddisfatti.
Questa concezione della felicità ha un fondamento metafisico. Che cosa è l'uomo? Un aggregato
(estremamente complesso) di atomi: questo è il suo corpo, questa la sua anima. La pienezza del proprio
essere l'uomo la raggiunge quando i componenti fisici della sua anima e del suo corpo sono completi: quando nulla manca. Felicità è questa pienezza. Dunque: l'essere dell'uomo non è incompleto,
la sua anima non appartiene a un'altra e superiore realtà. Per Epicuro Platone ha torto. Il suo
pessimismo sull'uomo e sulla vita non sono giustificati. La nostra anima può essere felice, qui ed
ora.
12
non sono idee corrette, ma gravi errori. Dall'idea che si fa degli dei l'uomo trae i
più gravi danni e vantaggi. Infatti gli dei, che di continuo sono dediti alle loro
virtù, accolgono i loro simili, mentre considerano estraneo tutto ciò che non è simile ad
essi22.
Abituati a pensare che per noi uomini la morte è nulla, perché ogni bene e
ogni male consiste nella sensazione, e la morte è assenza di sensazioni 23.
Quindi il capir bene che la morte è niente per noi rende felice la vita mortale,
non perché questo aggiunga infinito tempo alla vita, ma perché toglie il desiderio
dell'immortalità. Infatti non c'è nulla da temere nella vita se si è veramente
convinti che non c'è niente da temere nel non vivere più. Ed è sciocco anche
temere la morte perché è doloroso attenderla, anche se poi non porta dolore. La
morte infatti quando sarà presente non ci darà dolore, ed è quindi sciocco
lasciare che la morte ci porti dolore mentre l'attendiamo. Quindi il più temibile
dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è la
morte, quando c'è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i
vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c'è ancora, mentre per quanto
riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci.
La maggior parte delle persone, però, fuggono la morte considerandola come il
più grande dei mali, oppure la cercano come una liberazione dai mali della vita.
Il saggio invece non rifiuta la vita e non ha paura della morte, perché non è
22
Se la felicità è la pienezza del proprio essere, felici sono gli dei perché sono concepiti come esseri
perfetti, cui nulla manca, ai quali in tutto la natura provvede. Essi abitano le serene regioni dei cieli,
tra i mondi: "Ai miei occhi appaiono la potenza degli dei e le loro tranquille dimore - che i venti non
scuotono mai, le nubi non battono con le loro piogge, la bianca neve condensata dal freddo
penetrante non oltraggia mai con la sua caduta: ma un etere senza nubi sempre le copre con la sua
volta, versandovi a larghi fiotti la sua luce ridente. A tutti i loro bisogni provvede la natura, e
nulla viene mai a sfiorare la pace delle loro anime". Così Lucrezio (La natura). È dunque in totale
disaccordo con questa visione pensare che simili perfette creature si interessino degli uomini, o
che possano adirarsi o essere liete di sacrifici e onori. La paura degli dèi è irrazionale: non è coerente da
un lato attribuire agli dei felicità, perfezione e immortalità, dall'altro pensare che essi possano trarre
danno o vantaggio dai comportamenti umani. Qualunque cosa accada sulla terra, nulla può
toccarli. "È incontestabile che gli dèi, per loro stessa natura, godono l'immortalità nella pace più
profonda, estranei alle nostre faccende, cui sono del tutto alieni. Libera da ogni dolore, forte di per se
stessa e per le proprie risorse, non bisognosa del nostro aiuto, la loro natura né è sedotta dai nostri
benefici né toccata dalla nostra collera" (Lucrezio, La natura,). Non c'è dunque da aspettarsi alcun
premio o alcun castigo dagli dei per i propri comportamenti.
Eppure gli dei possono essere determinanti per la felicità umana in un altro senso: essi
costituiscono l'ideale perfetto di vita a cui l'uomo aspira. La felicità che è propria degli dei l'uomo
può raggiungerla, perché la natura è la stessa per gli uomini e per gli dei: se all'uomo non manca nulla
- nel suo corpo e nella sua anima - egli è felice come gli dei. La conclusione della Lettera a Meneceo
è chiarissima:-"Vivrai [...] come un dio fra gli uomini. L'uomo infatti che vive tra beni immortali non è in
niente simile ad un mortale".
23
In questa densissima frase sono contenuti tre princìpi fondamentali dell'etica epicurea, sviluppati
nei capoversi successivi. a) Ogni bene e ogni male consiste nella sensazione. Non esiste né il bene
oggettivo né il male oggettivo. Ancora una volta Platone per Epicuro è fuori. strada, e con lui buona
parte dell'antica tradizione greca. Non esistono valori nell'universo: solo atomi e vuoto, e il loro
movimento che compone e scompone animali, uomini, cose, mondi. Il bene e il male sono
esclusivamente soggettivi, hanno senso solo se riferiti a una coscienza che gode o soffre. Non hanno
alcun senso al di fuori della coscienza. b) La morte per gli uomini è nulla. Se non c'è bene né male al
di fuori della coscienza, la morte non è un male. O c'è la coscienza, e allora non c'è la morte, o
c'è la morte e allora non c'è la coscienza. Perché allora avere paura della morte come di un
male? La morte non deve fare paura: il saggio non la teme, perché conosce la natura delle cose e
sa distinguere il bene dal male. E la morte non è né l'uno né l'altro. È nulla per noi perché non ci saremo.
c) Saggio è colui che educa la propria mente a non coltivare paure irrazionali. "Abituati a pensare...",
dice Epicuro. Non si tratta di imparare una nozione filosofica, ma di abituarsi a scacciare i pensieri
irrazionali attraverso la serena considerazione della vera realtà delle cose. La filosofia è esercizio di
meditazione sulla verità e questo permette di vivere liberi dalla paura.
13
contro la vita ed allo stesso tempo non considera un male il non vivere più. Il
saggio, così come non cerca i cibi più abbondanti, ma i migliori, così non cerca
il tempo più lungo, ma cerca di godere del tempo che ha. È da stolti esortare i giovani a
vivere bene ed i vecchi a morire bene, perché nella vita stessa c'è del piacere, ed
è la stessa cosa l'arte di vivere bene e di morire bene.
Certo, è peggio chi dice: "è bello non esser mai nati ma, se si è nati, è bello passare al
più presto le soglie dell'Ade"24. Se chi dice queste cose ne è convinto, perché
non abbandona la vita? È in suo potere farlo, se questa è la sua opinione e parla
seriamente. Se invece scherza, parla da stolto su cose su cui non c'è proprio da
scherzare.
Dobbiamo inoltre ricordarci che il futuro non è interamente nelle nostre
mani, ma in qualche modo lo è, anche se in parte. Quindi non dobbiamo aspettarci
che si avveri del tutto, ma non dobbiamo neppure disperare che esso non si avveri
affatto25.
Dobbiamo poi pensare che alcuni dei nostri desideri sono naturali, altri vani. E
di quelli naturali alcuni sono necessari, altri non lo sono. E di quelli naturali e
necessari, alcuni sono necessari per essere felici, altri per la buona salute del
corpo, altri per la vita stessa. Una sicura conoscenza dei desideri naturali
necessari guida le scelte della nostra vita al fine della buona salute del corpo e
della tranquillità dell'animo, perché queste cose sono necessarie per vivere una
vita felice. Infatti noi compiamo tutte le nostre azioni al fine di non soffrire e di non
avere l'animo turbato. Ottenuto questo, ogni tempesta interiore si placherà, perché il
nostro animo non desidera nulla che gli manchi, né ha altro da cercare perché sia
completo il bene dell'anima e del corpo. Abbiamo infatti bisogno del piacere
quando soffriamo perché esso non c'è. Quando non soffriamo, non abbiamo
neppure bisogno del piacere26.
24
Il verso è del poeta greco arcaico Teognide, ma questo detto appartiene all'antica tradizione
mitica. Qui Epicuro si scaglia contro le correnti del pensiero mitico che avevano una concezione
pessimistica della vita (correnti, tuttavia, minoritarie nel panorama complessivo della cultura greca
arcaica).
25
Il pensare che il futuro non dipenda dall'uomo, ma dal caso o dal destino, conduce al fatalismo
contro cui Epicuro si scaglia duramente, soprattutto nella parte terminale della lettera. Il pensare
che il futuro dipenda interamente dall'uomo porta a progettare la propria vita senza tenere conto
del caso. Ma il caso esiste, e chi non ne tiene conto va incontro presto o tardi a gravi delusioni. Si
sentirà tradito dalla vita.
Il saggio progetta la sua esistenza, perché essa per una parte dipende da lui. Ma sa che vi sono dei
limiti a questo, perché molte circostanze non sono sotto il controllo dell'uomo. Non rimane quindi
stupito, né si sente tradito dalla vita, quando vede andare in fumo i suoi progetti per uno scherzo
della sorte. Il saggio cerca sempre di avere il controllo della propria vita interiore, abituandosi a
sentirsi responsabile delle proprie libere scelte, una allo stesso tempo ad accettare la realtà così
com'è, quando non è possibile farci nulla. E questo perché la vita, finché c'è, è bella e il saggio
impara a goderne sapendo che essa ha dei limiti. La tesi di Epicuro ha un fondamento metafisico. La
natura, infatti, ha leggi rigorose e prevedibili, ma è soggetta anche al caso, che si esprime nel movimento
libero degli atomi.
26
In questa parte Epicuro espone la sua concezione dell'utilitarismo. Il testo è giustamente celebre
e molto chiaro. Si deve però sottolineare quanto nel testo non c'è, e cioè le ragioni metafisiche
sulle quali l'utilitarismo si fonda. Tutto parte dalla tesi che il bene e il male sono sensazioni e non valori
oggettivi, perché in natura non esistono se non lo spazio vuoto e gli atomi in perenne movimento,
null'altro. Condizione fondamentale per una vita felice (e la spinta alla felicità è per Epicuro del tutto
naturale: chi, se sta male, non cerca di fare quanto è necessario per star bene? Se si deve scegliere tra un
piacere e un dolore, non è forse del tutto naturale scegliere il piacere?) è raggiungere la pienezza
del proprio essere perché la sensazione di felicità altro non è che il sentirsi bene, il non mancar di nulla.
Dunque ottenere la felicità nella vita è piuttosto semplice: la felicità non arriva dall'esterno, da
qualcosa che accade: è in noi, è la nostra natura stessa, quando è completa.
Epicuro scrive, subito dopo questo capoverso, che ciò che è bene e ciò che è male va giudicato
avendo come norma, cioè come criterio per far la distinzione, una sola cosa: le nostre affezioni, cioè il
complesso delle nostre sensazioni di piacere o di dolore (la coscienza di star bene o di non star bene). Che
14
Per questo motivo noi diciamo che il piacere è il principio ed il fine di una vita
felice. Noi sappiamo che esso è il bene primo, connaturato con noi stessi, e da esso
prende l'avvio ogni nostra scelta e in base ad esso giudichiamo ogni bene, ponendo
come norma le nostre affezioni. Ma proprio perché esso è il bene primo ed è a noi
connaturato, noi non ci lasciamo attrarre da tutti i piaceri; al contrario, ne
allontaniamo molti da noi quando da essi seguano dei fastidi più grandi del
piacere stesso. Allo stesso modo consideriamo molti dolori preferibili ai piaceri
quando la scelta di sopportare il dolore porta con sé come conseguenza dei
piaceri maggiori. Tutti i piaceri quindi che per loro natura sono a noi congeniali
sono certamente un bene; tuttavia non dobbiamo accettarli tutti. Allo stesso
modo tutti i dolori sono un male, ma non dobbiamo cercare di sfuggire a tutti
loro. Queste scelte vanno fatte in base al calcolo ed alla valutazione degli utili 27.
Per esperienza sappiamo infatti che a volte il bene è per noi un male ed al
contrario il male è un bene. Consideriamo un grande bene l'indipendenza dai
desideri, non perché sia necessario avere sempre soltanto poco, ma perché se
non abbiamo molto sappiamo accontentarci del poco. Siamo profondamente
convinti che gode dell'abbondanza con maggiore dolcezza chi meno ha bisogno
di essa e che tutto ciò che la natura richiede lo si può ottenere facilmente, mentre ciò che
è vano è difficile da ottenere. Infatti, in quanto entrambi eliminano il dolore della
fame, un cibo frugale o un pasto, sontuoso danno un piacere eguale, e pane e
acqua danno il piacere più pieno quando saziano chi ha fame. L'abituarsi ai
cibi semplici ed ai pasti frugali da un lato è un bene per la salute, dall'altro
rende l'uomo attento alle autentiche esigenze della vita; e così quando di tanto in tanto
ci capita di trovarci nell'abbondanza, sappiamo valutarla nel suo giusto valore e
sappiamo essere forti nei confronti della fortuna.
Quando dunque diciamo che il piacere è il bene completo e perfetto, non ci
riferiamo affatto ai piaceri dei dissoluti, come credono alcuni che non
conoscono o non condividono o interpretano male la nostra dottrina; il piacere
per noi è invece non avere dolore nel corpo né turbamento nell'anima.
Infatti non danno una vita felice né i banchetti né le feste continue, né il godersi
fanciulli e donne, né il godere di una lauta mensa. La vita felice è invece il frutto
del sobrio calcolo che indica le cause di ogni atto di scelta o di rifiuto, e che
allontana quelle false opinioni dalle quali nascono grandissimi turbamenti
dell'animo.
La prudenza è il massimo bene ed il principio di tutte queste cose. Per questo
motivo la prudenza è anche più apprezzabile della filosofia stessa, e da essa
vengono tutte le altre virtù. Essa insegna che non ci può essere vita felice se non
cos'è dunque il desiderio? La sensazione che qualcosa ci manca.
La distinzione tra i desideri costituisce uno dei più duri attacchi che il mondo antico ci abbia
tramandato contro quello che oggi chiamiamo consumismo
27
L'utilitarismo non è una dottrina ingenua. Nasce da considerazioni metafisiche ed implica il più
grande rispetto della natura umana. Il saggio sa di dover fare i conti con il tempo, perché ogni cosa
muta e le sensazioni di piacere e di dolore che proveremo domani dipendono da scelte che
compiamo oggi. Le sensazioni - metro del bene e del male - desideriamo siano piacevoli sempre, e
quindi accade di dover accettare un dolore (passeggero) oggi per ottenere un piacere (stabile)
domani.
È ciò che ancora oggi chiamiamo calcolo degli utili. Benché fondato sulle sensazioni, che ne
costituiscono il criterio guida, il calcolo degli utili è razionale, perché solo la ragione permette
all'uomo di tenere conto di tutti i fattori in gioco, molti dei quali, riguardando il futuro, sfuggono alla
sensazione che vive nel presente: secondo un'antica testimonianza, "pur reputando che ogni
piacere sia bene e ogni dolore sia male, tuttavia non sempre [gli epicurei] dicono di scegliere quello
e di sfuggire questo, ma di misurarli secondo la quantità e la qualità. Ma è chiaro che il criterio
della quantità non lo giudica che il raziocinio. Quando dicono infatti «è meglio sopportare certi
determinati fastidi per poter avere piaceri maggiori» e «conviene astenersi da certi determinati
piaceri per non dover sopportare dolori peggiori» e tutte le altre cose del genere, è il raziocinio che
giudica".
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è anche saggia, bella e giusta; e non v'è vita saggia, bella e giusta che non sia
anche felice. Le virtù sono infatti connaturate ad una vita felice, e questa è
inseparabile dalle virtù.
E adesso dimmi: pensi davvero che ci sia qualcuno migliore dell'uomo che ha
opinioni corrette sugli dei, che è pienamente padrone di sé riguardo alla morte,
che sa sino in fondo che cosa sia il bene per l'uomo secondo la sua natura e sa
con chiarezza che i beni che ci sono necessari sono pochi e possiamo ottenerli
con facilità, e che i mali non sono senza limiti, ma brevi nel tempo oppure
poco intensi?28
Un uomo così ha imparato a sorridere di quel potere - il fato - che per alcuni è il
sovrano assoluto di tutto: di fatto ciò che accade può essere spiegato non
soltanto attraverso la necessità, ma anche attraverso il caso o in quanto frutto di
nostre decisioni per le quali possiamo essere criticati o lodati.
Quanto al fato29, di cui parlano i fisici, era meglio credere ai miti sugli dei che
essere schiavi di esso: i miti infatti permettevano agli uomini di sperare di placare
gli dei per mezzo degli onori, il fato invece ha un'implacabile necessità. E
riguardo alla fortuna non bisogna credere né che sia una divinità, come fanno
molti - gli dei infatti non fanno nulla che sia privo di ordine ed armonia - né che sia un
principio causale; non bisogna neppure credere che essa dia agli uomini beni e
mali che determinano una vita felice; da essa infatti provengono solo i pincìpi di
grandi beni e di grandi mali. È meglio quindi essere saggiamente sfortunati che
stoltamente fortunati, perché è preferibile che nelle nostre azioni una saggia
decisione non sia premiata dalla fortuna, piuttosto che una decisione poco saggia
sia coronata dalla fortuna30.
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In una sintesi estrema della concezione etica epicurea che ci è stata tramandata sotto il nome di
quadrifarmaco (la filosofia non è forse una medicina per l'anima), i princìpi da tenere a mente per
vivere felici sono quattro: gli dei non sono da temere; non c'è rischio da correre nella morte; il bene è
facile a procurarsi; il male è facile da sopportare con coraggio. La lettera a Meneceo li prende in
esame tutti, i primi tre ampiamente, come si è visto, il quarto solo per accenno in questo passo. I
mali non sono senza limiti, sono brevi nel tempo oppure poco intensi. Ovviamente Epicuro si
riferisce ai mali che nascono dalla impossibilità di soddisfare i desideri naturali, che in effetti sono i
più semplici da soddisfare. Quanto ai desideri più complessi, certamente la tesi di Epicuro che il
male sia facile da sopportare con coraggio non è più sostenibile. Ma non si tratta affatto di mali
insuperabili: ciò che il saggio deve fare è eliminare i desideri non naturali, non tentare di soddisfarli.
È importante dire questo perché la tesi di Epicuro non sembri irrealistica. Essa però ha un significato
più ampio. Il saggio, anche di fronte a forti dolori fisici - è il caso delle malattie e dunque di mali nel
senso più autentico del termine - perché riguardano il desiderio di star bene che è maggiormente
connesso alla nostra natura sensibile sa trovare ragioni di felicità.
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Il materialismo di Epicuro non è deterministico: il caso, infatti, introduce nell'ordine della materia
un elemento casuale che permette di escludere che il destino degli uomini e delle cose sia segnato
una volta per tutte. Certo, esiste un ordine in natura, il mondo è, in linea di massima, prevedibile
perché esistono le leggi della fisica, ma esse non hanno un valore assoluto. C'è il caso.
L'antica tradizione mitica greca che intende l'intero universo - cose, uomini e persino dei - dominato
dal destino non ha ragion d'essere. Ed hanno compreso male la natura delle cose anche quei
filosofi che hanno pensato all'universo come ad una macchina vivente perfettamente regolata da
leggi razionali immutabili (al tempo di Epicuro, soprattutto gli stoici sostengono questa teoria, in
epoca classica la sostiene Democrito, dal cui materialismo Epicuro si distacca nettamente su questo
punto, mentre è assai vicino in altri).
Il saggio epicureo sa che il corso naturale degli eventi è interrotto a volte dal movimento
casuale degli atomi. Nulla accade semplicemente per un destino, nulla di ciò che accade è già scritto
che accada.
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Proprio perché esiste il caso, l'uomo nella vita può essere fortunato o sfortunato. I1 saggio
epicureo quindi non crede alla fortuna come ad una divinità, ma nemmeno la reputa inesistente,
perché sa che essa può avere influenza sulla vita dell'uomo; solo che la sua saggezza gli permette
di potersi opporre anche ad essa, e correggere le conseguenze del suo capriccioso agire. Tanto
poco la reputa inesistente Epicuro, che dice che è meglio essere sfortunati e saggi piuttosto che
stolti e fortunati, facendo capire però che la cosa migliore è essere saggi e fortunati.
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Medita giorno e notte tutte queste cose, e ciò che è connesso con esse, sia in te stesso che
con chi ti è simile: così mai, sia da sveglio che nel sonno, avrai l'animo turbato,
ma vivrai invece come un dio fra gli uomini. L''uomo infatti che vive tra beni
immortali non è in niente simile ad un mortale.
Epicuro – Massime: l’amicizia31.
Cosa assai bella è anche la vista del prossimo, quando al primo incontro ci si
scopra dello stesso sentimento, o almeno si faccia di tutto per esserlo.
Ogni amicizia è per se stessa desiderabile, ma trae origine dall'utile.
Non è da lodare né chi s'abbandona con facilità all'amicizia né chi troppo vi
esita: per amore dell'amicizia bisogna pure che uno metta a rischio il proprio
amore.
Non è tanto dell'aiuto degli amici che noi abbiamo bisogno, quanto della fiducia
che al bisogno ce ne potremo servire.
Non chi cerca in tutto l'utile è amico, né chi a nessuna cosa lo congiunge:
l'uno fa mercato del beneficio per averne il contraccambio, l'altro recide la
buona speranza che s'ha da avere per l'avvenire.
Prima di stare a guardare che cosa tu abbia da mangiare e da bere, cerca intorno
con chi tu possa mangiare e bere. Vita senza amico è divorare di leone o di lupo.
Dolce il ricordo di un amico morto.
Partecipiamo alle sventure degli amici non con lamentazioni da funerale, ma
prendendoci cura di loro.
Di tutte le cose che la saggezza ci procura in vista della felicità il bene più
grande è l'acquisto dell'amicizia.
La medesima persuasione che ci assicura non esservi alcun male eterno e neppur
lungamente durevole, ci fa massimamente persuasi della salda sicurezza dell'amicizia
in mezzo ai mali limitati della vita.
L’uomo felice massimamente si concede a saggezza ed amicizia: bene
mortale l'una, l'altra immortale
L'amicizia percorre danzando la terra, recando a noi tutti l'appello di destarci e
dire l'uno all'altro: felice!
PIERRE HADOT, ESERCIZI SPIRITUALI E FILOSOFIA ANTICA
L'infelicità degli uomini deriva dal fatto che temono cose che non devono essere temute
e che desiderano cose che non è necessario desiderare e che sfuggono loro. Così la loro
vita si consuma nel turbamento dei timori ingiustificati e dei desideri insoddisfatti. Sono
dunque privati di quello che è l'unico piacere autentico, del piacere di essere. È perciò
che la fisica epicurea libererà dalla paura mostrando che gli dèi non agiscono affatto sul
corso del mondo, e che la morte, essendo una disgregazione totale, non fa parte della
Su questo punto dobbiamo ricordare che "il futuro non è interamente nelle nostre mani, ma in
qualche modo lo è, anche se in parte. Quindi non dobbiamo aspettarci che si avveri del tutto,
ma non dobbiamo neppure disperare che esso non si avveri affatto".
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Abbiamo pochissimi testi che chiariscano la concezione epicurea dell'amicizia, tuttavia sappiamo che
dovette essere molto importante, dal momento che le comunità epicuree presentarono se stesse come
gruppi di persone che sceglievano di vivere insieme in semplicità e armonia.
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vita. L'etica epicurea libererà dai desideri insaziabili, distinguendo tra desideri
naturali e necessari, desideri naturali e non necessari, e desideri né naturali né necessari.
La soddisfazione dei primi, la rinuncia agli ultimi ed eventualmente ai secondi sarà
sufficiente per assicurare l'assenza di turbamento e per fare comparire il benessere, la
soddisfazione di esistere: «Grida la carne: non aver fame, non aver sete, non aver
freddo; chi abbia queste cose e speri di averle, anche con Zeus può gareggiare in
felicità». Donde quel sentimento di gratitudine, quasi inatteso, che illumina quella
che potremmo chiamare la pietà epicurea verso le cose: «sia reso grazie alla beata
natura che fece le cose necessarie facilmente procacciabili, quelle difficilmente
procacciabili non necessarie».
Per approdare alla guarigione dell'anima saranno dunque necessari esercizi
spirituali. [...] L'abbondanza di raccolte di sentenze epicuree corrisponde a questa
esigenza dell'esercizio spirituale della meditazione. [...] La contemplazione del
mondo fisico, l'immaginazione dell'infinito, elemento capitale della fisica epicurea, provocano un cambiamento totale della maniera di vedere le cose (l'universo chiuso
si dilata all'infinito) e un piacere spirituale di qualità unica: «Le mura del mondo
si aprono, vedo nel vuoto dell'universo prodursi le cose. [...] Allora a questo spettacolo
s'impossessa di me una sorta di piacere divino e un brivido, in quanto la natura, per il
tuo potere - (ossia grazie ad Epicuro) - scoprendosi con tanta evidenza, è così
liberata dai suoi veli in ogni sua parte» (Lucrezio, De rerum natura).
Ma la meditazione, semplice o dotta, non è l'unico esercizio spirituale epicureo.
[...] Per guarire l'anima non bisogna esercitarla a tendersi, ma, al contrario, esercitarla
a distendersi [...], staccare la nostra mente dalla visione delle cose dolorose, e fissare
lo sguardo sui piaceri. Occorre fare rivivere il ricordo dei piaceri passati e godere dei
piaceri del presente, riconoscendo quanto siano grandi e piacevoli tali piaceri del
presente. Si tratta di un esercizio spirituale ben determinato: [...] la scelta deliberata,
sempre rinnovata, della distensione e della serenità, e una gratitudine profonda verso la
natura e la vita che, se sappiamo trovarli, ci offrono incessantemente il piacere e la
gioia. [...] «Si nasce una volta, due volte non è concesso,. ed è necessario non essere
più in eterno; tu, pur non essendo padrone del tuo domani procrastini la gioia,
ma la vita trascorre nell'indugiare e ciascuno di noi muore senza aver mai
goduto della pace». È il famoso verso di Orazio: «Carpe diem». «Mentre noi parliamo, è fuggito il tempo invidioso: cogli l'oggi, senza alcuna fiducia nel futuro!».
Infine per gli epicurei proprio il piacere è esercizio spirituale: piacere intellettuale
della contemplazione della natura, pensiero del piacere passato e presente, infine piacere
dell'amicizia. [...] «Ciascuno doveva tendere a creare l'atmosfera dove si espandevano i
cuori. Si trattava anzitutto di essere felici, e l'affetto reciproco, la fiducia con cui si
poggiava l'uno sull'altro contribuivano più di ogni altra cosa alla felicità» (A.J.
Festugière).
P. Hadot, “Che cos’è la filosofia antica?”, Einaudi, 1998, (estratti pag. 111-112)
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