Diritto del Lavoro
Le fonti
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L’insieme delle norme giuridiche che regolano il lavoro subordinato, costituisce il
Diritto del Lavoro. Al suo interno si distinguono settori più specifici come il diritto
sindacale, la legislazione sociale, ecc. Le fonti di tale diritto sono:
 La Costituzione;
 Il codice civile (libro V e le leggi speciali);
 I contratti collettivi;
 Gli usi e le consuetudini.
Queste fonti dette “interne” si distinguono da quelle “esterne”, che sono:
 Le fonti comunitarie (trattato istitutivo della CEE; trattato di Maastricht;
regolamento e direttive comunitarie);
 I trattati di lavoro internazionali (tra cui le convenzioni dell’OIL; l’atto
Unico Europeo, ecc.).
Nella trattazione delle fonti di diritto del lavoro, l’unica particolarità degna di nota è
offerta dall’art. 2078 c.c. – efficacia degli usi - “in mancanza di disposizioni di
legge e di contratto collettivo, si applicano gli usi. Tuttavia gli usi più favorevoli ai
prestatori di lavoro prevalgono sulle norme dispositive di legge. Gli usi non
prevalgono sui contratti individuali di lavoro”. Di conseguenza, l’efficacia degli usi
resta “dispositiva” e, quindi, derogabile in ogni caso dall’autonomia privata
(individuale o collettiva). Ed è proprio il comma primo dell’art. 2078 c.c. a
contrastare con l’art. 8 disp. prel. c.c. “nelle materie regolate dalle leggi e dai
regolamenti, gli usi hanno efficacia, solo in quanto sono da essi richiamati”. La
Legislazione del Lavoro nei confronti della contrattazione collettiva, può svolgere
la funzione: o ausiliaria (si pensi, ad es., a quelle norme dello Statuto dei lavoratori
che tutelano le libertà sindacali che, fino alla sua entrata in vigore, erano riconosciute
solo a settori sindacali più forti); o di sostegno o promozionale (si pensi, ad es., alla
legge n. 146 rimessa in misura paritaria alla contrattazione collettiva).
Nell’evoluzione storica del diritto del lavoro, si possono distinguere tra fasi:
1. Fase della legislazione sociale in cui le leggi in materia di lavoro hanno
carattere “eccezionale”, rispetto al diritto privato comune;
2. Fase dell’incorporazione del diritto del lavoro nel sistema del diritto privato;
3. Fase della costituzionalizzazione del diritto del lavoro.
 Per legislazione sociale s’intende l’insieme delle norme e degli istituti giuridici
diretti alla protezione di coloro che si trovano in particolari condizioni di bisogno
(lavoratori, cittadini nobili al lavoro e sprovvisti di mezzi necessari alla
sopravvivenza). Prima del codice vigente, da un lato si collocava il diritto civile
del 1865, e dell’altro vi erano delle norme “eccezionali”, rispetto a questo, che
tutelavano i lavoratori; esse formavano proprio la legislazione sociale, nata in
seguito alla rivoluzione industriale. Allora comunque, non era prevista, però, una
specifica disciplina né per il contratto di lavoro, né per il lavoro industriale
(subordinato solo all’autonomia privata); faceva eccezione solo la “locazione di
opere e servizi” che era a tempo determinato, per evitare la costituzione di rapporti
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simili alla servitù della gleba, o peggio, della schiavitù. A partire dal XIX secolo
lo Stato decise d’intervenire, dettando una serie di disposizioni di legge, dettate in
deroga ai principi del codice civile, al fine di proteggere il lavoro i cosiddetti
collegi dei probiviri istituiti con decreto reale e composti da un presidente (scelto
tra i magistrati) e, in numero pari, da rappresentanti degli industriali e degli operai.
In ogni collegio erano, poi, costituiti un ufficio di conciliazione ed una giuria,
con funzione giurisdizionale, di decisione nella controversia di lavoro tra operai
ed industriali, qualora non si giungesse ad un accordo tra le parti in sede di
conciliazione; si decideva in base al criterio della ragionevolezza.
 Nella fase dell’incorporazione dei principi e della disciplina del lavoro nel diritto
privato, si ottenne un’unificazione tra diritto civile, del lavoro e commerciale, che
nonostante, tutto, però, rimasero della disciplina dotate di una propria autonomia
didattica e scientifica. Questa fase vide l’introduzione della cosiddetta
“corporazione che stabiliva le norme relative alla disciplina della produzione,
sotto il controllo del Ministero delle corporazioni, mentre le eventuali
controversie erano decise dalla Magistratura del lavoro. In tale sistema i
sindacati erano trasformati in organi burocratici privi di rappresentatività e spinta
conflittuale.
 Nella Costituzione il rapporto di lavoro è inteso come un “rapporto di
produzione” fonte di vantaggio, per il datore di lavoro, e di svantaggio per il
lavoratore, tutelato e disciplinato dallo Stato e dall’autonomia privata (cioè dai
singoli organizzati in sindacati). Anche la Corte costituzionale ha avuto un ruolo
fondamentale nel processo di adeguamento del codice civile e delle leggi speciali,
al dettato della Costituzione, mediante la pronuncia di sentenze: interpretative di
rigetto o di accoglimento con le quali dichiarava la legittimità o l’illegittimità di
una o più interpretazioni possibili di una disposizione legislativa sottoposta al suo
giudizio; sostitutive che eliminano una parte del teso, sostituendola con un
enunciato normativo, conforme alla Costituzione; additive che integravano non
solo la disposizione, ma anche la norma di legge, al fine di porre rimedio ad
un’omissione del legislatore, senza, però, variare il testo.
A partire dal 1975 si afferma la fase del lavoro della crisi, caratterizzata da
interventi legislativi più o meno originali, tendenti a raggiungere particolari obiettivi
quali: la stabilità dell’occupazione e continuità del reddito dei lavoratori;
l’introduzione delle forme d’impiego flessibile della forza-lavoro; la riduzione del
tasso d’inflazione, ecc. Gli anni ’80 sono caratterizzati dalla legislazione
contrattata, cioè la produzione legislativa era originata dalla partecipazione delle
parti sociali. Negli anni ’90, invece, vi furono gli accordi triangolari (Protocollo del
23-07-93; Patto per il lavoro del 24-9-96 e Patto Sociale per lo sviluppo e
l’occupazione del 22-12-98), che portarono all’unificazione normativa dei dipendenti
pubblici e privati, al fine di accrescere l’efficienza dell’organizzazione
amministrativa. Le fonti possono essere “di produzione” (cioè modi di formazione
delle norme, tutti quei fatti ed atti idonei a creare, modificare ed estinguere le norme
giuridiche) e “di cognizione” (cioè mezzi per conoscere le norme giuridiche già
esistenti; ad es. la raccolta Ufficiale degli Atti della Repubblica italiana, ecc.). Le
fonti Atto sono le norme scritte, o i testi normativi, in cui si manifesta la volontà dello
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Stato; le fonti Fatto, invece, sono tutti quei comportamenti che scaturiscono dalla
volontà collettiva.
 La Costituzione è la legge fondamentale dello Stato, che rappresenta il punto di
riferimento di tutto il sistema normativo. È entrata in vigore il 1-1-’48; è Votata
(approvata da un’assemblea costituente, eletta dal popolo) e Rigida (per
modificarla sono necessarie delle leggi di revisione costituzionale, formate con un
procedimento complesso. È costituita da 139 artt. più 18 disposizioni transitorie e
finali e si divide in tre parti: i principi fondamentali; i diritti e i doveri dei
cittadini; l’ordinamento della Repubblica. Gli artt. più rilevanti in materia di
lavoro sono: l’art. 1 (in cui è riconosciuto un nesso tra democrazia e lavoro);
l’art. 3 (in cui è proclamata l’uguaglianza formale e sostanziale dei cittadini);
l’art. 4 (per cui la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e
promuove le condizioni per rendere effettivo tale diritto); l’art. 36 (che riconosce
il diritto alla retribuzione e al riposo dei lavoratori); l’art. 37 (che riconosce la
parità di retribuzione per i minori e le donne, rispetto a quello dell’uomo); l’art.
38 (che riconosce il diritto all’assistenza sociale e alla previdenza per i lavoratori);
gli artt. 39-40 (che riconoscono i diritti sindacali: associazione e sciopero); l’art.
46 (che riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare all’impresa).
 Il codice civile attuale fu approvato con decreto regio il 16-3-’42; è formato di
2969 artt. ed è diviso in 6 LIBRI: I° delle persone; II° delle successioni; III°della
proprietà; IV° delle obbligazioni; V° del lavoro; VI° della tutela dei diritti. I primi
quattro titoli del LIBRO I° sono intitolati:
 Della disciplina delle attività professionale;
 Del lavoro nell’impresa;
 Del lavoro autonomo;
 Del lavoro subordinato i particolari rapporti.
 Gli usi e le consuetudini sono fonti-fatto, cioè l’espressione di un certo
comportamento da parte di una collettività, tenuto per un periodo prolungato, con
la convinzione di seguire un obbligo giuridico. Sono fonti subordinate sia alle
leggi, sia ai regolamenti e, nei confronti della legge, la consuetudine può essere:
CONTRA (contraria alla legge); SECUNDUM (integra il contenuto della legge);
PRAETER (disciplina una materia non regolata dalla legge). L’uso consta di un
elemento “soggettivo”, cioè la convinzione della giuridica necessità del
comportamento; un elemento “oggettivo”, cioè il ripetersi di un comportamento
costante ed uniforme per un dato periodo di tempo. È prevista la redazione scritta
delle norme consuetudinarie (in Italia, ad es. la raccolta degli Usi), affidata alle
Camere di Commercio, Industria, Artigianato ed Agricoltura, che sottopongono
questa a revisione periodica, per inserirvi usi nuovi, o eliminarne quelli non più
vigenti.
 Il diritto comunitario è l’insieme delle norme giuridiche che disciplinano le
relazioni tra i cittadini e gli Stati dell’U.E. La sua caratteristica consiste nel fatto
che non solo regola i rapporti interni all’U.E. , ma che è attuato nel sistema
giuridico di ciascuno Stato membro. Sono praticamente emanate, oltre che dagli
organi abilitati dalla CEE, anche da quelli della CEEA (comunità europea
dell’energia atomica) e dalla CECA (comunità europea del carbone e dell’acciaio).
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 I regolamenti hanno portata generale, cioè producono i loro effetti nei confronti
di un numero indeterminato di destinatari (Stati membri, persone fisiche e
giuridiche operanti negli Stati stessi), e le loro prescrizioni sono astratte; con
carattere obbligatorio, in tutti i suoi elementi ed, infine, hanno diretta
applicabilità in ciascuno Stato membro; producono automaticamente i loro effetti
negli Stati al pari delle leggi nazionali e sono idonei a conferire diritti ed imporre
obblighi ai singoli Stati, ai loro organi ed ai privati. Di solito, entrano in vigore 20
giorni dopo la loro pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della CE. Esse
prevalgono sulla legge nazionale e, in caso di contrasto con una legge nazionale e,
in caso di contrasto con una legge interna, questa dev’esser disapplicata dal
giudice, senza difendere la dichiarazione d’incostituzionalità.
 Le direttive contengono delle norme di scopo perché riguardano il risultato da
raggiungere, lasciando lo Stato libero di attuarla con mezzi ritenuti più idonei a
realizzarle. Hanno portata particolare e non sono immediatamente vincolanti,
quindi, non direttamente applicabili all’interno degli Stati membri, ma hanno
un’efficacia mediata da provvedimenti di attuazione che gli stati ritengono più
opportuni adottare. Di solito, contengono un “termine” entro il quale lo Stato
membro ha l’obbligo di conformarsi. Nel caso di contrasto tra una norma interna
ed una direttiva, la Corte costituzionale ha previsto che il giudice possa sollevare
la questione di legittimità di essa.
La CEE è nata con il trattato di Roma (1957) le cui principali disposizioni sociali
riguardano la libera circolazione dei lavoratori e la parità di retribuzione fra i
lavoratori. Le disposizioni furono modificate con l’Atto unico europeo (1986) che
proponeva il cosiddetto “dialogo sociale” che potesse sfociare in relazioni
convenzionali per favorire l’abolizione delle barriere socio-economiche; la libertà di
decidere, da parte dei cittadini, dove vivere, lavorare, trasferire i propri capitali, ecc.
Con il Trattato di Maastricht (1992) fu istituita l’U.E. con l’obiettivo di attuare un
processo di unificazione economica monetaria degli Stati membri. Gli Stati
s’impegnano ad avviare un’azione comune per il perseguimento di obiettivi sociali
quali: la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di
lavoro, il dialogo sociale. A tali obiettivi comunitari non aderì, inizialmente, il Regno
Unito, che, però, cambiò idea nel 1997, in seguito al Trattato di Amsterdam.
Il lavoro subordinato
Il LIBRO V disciplina non solo il lavoro nell’impresa, ma anche quello che si svolge
al di fuori di essa. La locazione di opere e servizi, disciplinata dal codice civile del
1865, (comprendente tanto il lavoro subordinato, quanto quello autonomo) era intesa
come “contratto per cui una delle parti si obbliga a fare per l’altra una cosa,
mediante la pattuita mercede”. Le principali specie di locazioni di opere erano: 1)
quella per cui le persone obbligano la propria opera all’altrui servizio; 2) quella per
cui le persone s’incaricano del trasporto di persone o cose; 3) quella degli
imprenditori di opere ad appalto o cottimo. La locatio operarum (= attività di
lavoro) è il lavoro subordinato, caratterizzato dalla temporaneità o durata
dell’utilizzazione delle opere, da parte del datore di lavoro, che si vede assegnare dal
lavoratore la propria attività lavorativa, intesa come somma di energie erogate (si
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pensi, ad es., ad un sarta che si obbliga a lavorare per una sartoria, dalla quale viene
retribuita, in base al tempo in cui resta a disposizione di questa e non in base agli abiti
confezionati per questa). La locatio operis (=risultato del lavoratore) è il lavoro
autonomo, caratterizzato da un dare aliquid faciendum (qualcosa da fare) al
lavoratore che si obbliga al compimento dell’opera pattuita: può trattarsi sia di una
cosa materiale, sia di un servizio (come la custodia o il trasporto). Viene considerato
il risultato della prestazione di lavoro (si pensi, ad es., ad un sarto che si obbliga a
lavorare per un cliente che gli commissiona uno o più abiti per i quali verrà
retribuito). I rischi inerenti alla realizzazione della prestazione lavorativa sono:
 il rischio dell’utilità del lavoro, che incide sul risultato prodotto
dall’erogazione delle energie lavorative, ed è dipendente dalla difficoltà
tecnico-economica del risultato medesimo. Nella locatio operis è integralmente
a carico del lavoratore autonomo che si obbliga a prestare l’opera finita,
indipendentemente dal costo sostenuto per realizzarla;
 il rischio dell’impossibilità (o mancanza) di lavoro sopravvenuta per effetto
del caso fortuito o forza maggiore, che si oppongano nell’esecuzione della
prestazione. Tale rischio può ravvisarsi in tutte le ipotesi d’impedimento del
lavoratore a prestare il proprio lavoro, sia per “cause soggettive” (gravidanza,
malattia, infortunio, ecc.) sia per “cause oggettive” (mancanza di materie prime
o la pioggia che impedisce l’esecuzione di lavori agricoli o edili, ecc.). La
prestazione e la retribuzione si estinguono, quindi, è un rischio a carico sia del
lavoratore sia del datore di lavoro.
E’ stata progressivamente la giurisprudenza ad introdurre e ad utilizzare il concetto di
subordinazione intesa come “sottoposizione del debitore-locatore delle opere, alla
direzione o al controllo del creditore-conduttore”. Quindi, un comportamento dovuto
dal lavoratore, al datore di lavoro, per ottenere in cambio da quest’ultimo, una
retribuzione per tutto il tempo per cui rimane a sua disposizione. L’art. 2094, anziché
fornire la definizione del contratto di lavoro, prevede, invece, quella del prestatore
di lavoro subordinato, per cui: “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga,
mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro
(intellettuale o manuale) alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. Da
tale disposizione deriva la concezione della subordinazione come “tecnicofunzionale”, cioè dipendenza del lavoratore, alla direzione del datore, nell’esecuzione
della sua prestazione. Secondo un diverso indirizzo dottrinale, essa si configura,
invece, come “presupposto economico-sociale” del contratto di lavoro,
caratterizzato dalla condizione di debolezza ed inferiorità economica del lavoratore,
nei confronti del debitore) che è necessitato dalle esigenze di vita ad affaire la propria
forza-lavoro. Si tratta, quindi, di una posizione di soggezione economica estranea al
risultato, all’organizzazione e ai mezzi di produzione dell’imprenditore. Tale dottrina
non può essere, però, accolta perché situazioni d’inferiorità socio-economica
potrebbe presentarsi anche in altri ambiti (come quello agricolo) e non
necessariamente in quello del lavoro subordinato. Nel codice civile, il legislatore era
inteso precisare il concetto della subordinazione, collegandola al momento prevalente
della collaborazione che s’identifica proprio come “risultato tecnico-funzionale”
della prestazione di lavoro, resa dal lavoratore, in cambio della retribuzione.
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Letteralmente, sta a significare “lavorare insieme” mentre, in senso ampio, il
legislatore sembra che abbia fatto riferimento alla collaborazione, per definire la
situazione soggettiva del prestatore di lavoro, nella sua qualità di “collaboratore
dell’impresa”. La collaborazione è, però, caratterizzata dalla continuità della
prestazione di lavoro, da parte del lavoratore, nei confronti del datore. Nel lavoro
subordinato essa deve intendersi non in “senso materiale” cioè disponibilità al lavoro
nel tempo e nello spazio; ma in “senso ideale” cioè dipendenza o disponibilità
funzionale del prestatore all’impresa altrui. Da ciò deriva il fatto che il lavoratore è
vincolato, al suo datore, anche durante le pause interruttive di lavoro (pur non
essendo tenuto ad esso) e che la responsabilità per i danni causati a terzi dal
lavoratore, nell’esecuzione della prestazione, ricade sul datore. La giurisprudenza ha
individuato dei requisiti del lavoro subordinato per distinguerlo da quello autonomo:
continuità (stabilità nel tempo della disponibilità funzionale del lavoratore
all’impresa); collaborazione (inserzione del lavoratore nell’organizzazione
produttiva dell’impresa); subordinazione ed incidenza del rischio dell’attività
lavorativa sul datore di lavoro. Il modello proposto dalla giurisprudenza, in realtà,
non può considerarsi valido del tutto, perché, ad es., l’inserzione del prestatore di
lavoro nell’organizzazione aziendale, può aversi sotto forma di collaborazione
coordinata e continuativa anche nel lavoro autonomo. L’art. 2222 è dedicato al
contratto d’opera e definisce il lavoratore autonomo come “quella persona che si
obbliga a compiere, verso un corrispettivo, un’opera o un servizio con lavoro
prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del
committente”. Vi è, quindi, un elemento d’atipicità che l’autonomia delle parti può
introdurre nei contratti di lavoro autonomo e, in particolare, nel contratto d’opera.
Alla categoria dei contratti di lavoro autonomo, sono riconducibili: l’appalto, il
contratto con cui l’appaltatore assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con
gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio per il
committente, verso un corrispettivo in denaro; il trasporto, il contratto con cui il
vettore si obbliga, verso un corrispettivo, a trasferire persone o cose da un luogo ad
un altro; il deposito generico, il contratto con cui il depositante si avvale della
cooperazione del depositario per custodire cose mobili (momentaneamente non
utilizzate) in luogo sicuro (di cui il depositante non abbia disponibilità); il mandato
(con o senza rappresentanza) con cui il mandatario si obbliga a compiere uno o più
atti giuridici per conto del mandante. Vi è un forte interesse, da parte del lavoratore, a
vedere riconosciuto il proprio vincolo di subordinazione dal datore, sul piano
giudiziario, per una serie di effetti:
 indiretti cioè, che incidono sulle conseguenze della costituzione del rapporto
di lavoro, dalla cui esistenza derivano una serie di situazioni soggettive esterne
di rilevanza previdenziale. Fra questi il cosiddetto Rapporto di previdenza
sociale, che intercorre tra: lavoratore, datore ed ente previdenziale;
 diretti cioè, che incidono sul regolamento contrattuale, in particolar modo,
sulla retribuzione (per es. il diritto alle ferie o al TFR, ecc.).
Autonomia privata e rapporto di lavoro
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L’esecuzione del contratto e la concreta attuazione delle obbligazioni che ne
scaturiscono non sono, di regola, demandate all’autonomia negoziale degli stessi,
poiché la legge si preoccupa di imporre direttamente o indirettamente tutta una serie
di precise limitazioni. La legge e, per essa la contrattazione collettiva, intervengono
per stabilire il contenuto di non poche disposizioni o clausole negoziali, relativa al
rapporto tra datore e prestatore di lavoro: ad es. la determinazione della durata (orario
di lavoro) o del tipo della prestazione (qualifica e mansioni) o della retribuzione (che
deve rispettare i cosiddetti “minimi” di trattamento economico del lavoratore).
Questo ha portato a parlare di acontrattualità del rapporto di lavoro, visto che,
partendo dall’art. 1321 c.c. “il contratto è l’accordo fra due o più parti per costituire
un rapporto giuridico patrimoniale”, manca quasi del tutto l’accordo delle parti, nella
definizione degli effetti e degli elementi costitutivi del contratto. In realtà, la
disciplina regolatrice del rapporto di lavoro è una disciplina inderogabile che, però,
non era natura imperativa (=di ordine pubblico) potendo essere, in ogni momento
derogata dall’autonomia privata, anche se soltanto con disposizioni di favore per il
lavoratore. Ci si trova, quindi, in presenza non di una soppressione dell’autonomia
contrattuale, bensì della sua “compressione”. Oggetto di contrasti in materia è stato
l’art. 2126 c.c. il quale dispone che: “la nullità o l’annullamento del contratto di
lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo
che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa. Se il lavoro è stato
prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in
ogni caso diritto alla retribuzione”. La norma sancisce, quindi, l’irretroattività delle
vicende tendenti all’eliminazione del negozio invalido. L’art. nel momento in cui
riconosce determinati effetti al contratto nullo o annullabile, implicitamente riconosce
la rilevanza del contratto come fonte produttiva degli effetti stessi. Il rapporto resta,
perciò, di natura contrattuale anche se dal contratto, sicuramente discendono effetti
che non sono voluti dalle parti, ma sono imposti alle stesse dall’intervento della legge
e dei contratti collettivi. Il principio dell’inderogabilità del regolamento contrattuale
imposto dalla legge e dai contratti collettivi, si combina con il principio della
prevalenza del trattamento più favorevole al lavoratore ( cosiddetto principio del
favor). A tal principio, però, è stata riportata un’eccezione, rappresentata
dall’introduzione della flessibilità del lavoro, che non garantisce la stabilità del posto
di lavoro. Si ricordi, poi, la cosiddetta convenzione di Roma (1980), la quale ha
previsto che, in caso di mancanza di scelta delle parti, il contratto di lavoro è regolato
dalla legge del Paese in cui il lavoratore compie attualmente il suo lavoro (anche se
inviato temporaneamente in un altro Paese); dalla legge del Paese in cui si trova la
sede che ha proceduto all’assunzione del lavoratore, quando questi non compia
abitualmente il suo lavoro in uno stesso paese. Le parti, comunque, sono libere di
decidere diversamente, purché la legge regolatrice del contratto, non privi il
lavoratore della protezione, assicuratagli dalle norme imperative della legge;
solitamente il contratto è:
 inefficace quando, anche se valido, non realizza gli effetti voluti dalle parti, per
la mancanza di un elemento perfezionatore;
 invalido quando è privo di un elemento essenziale o è affetto da vizi: le cause
d’invalidità sono la nullità o l’annullabilità;
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 nullo quando è privo di un elemento essenziale o è illecito (contrario a norme
imperative, all’rodine pubblico o al buon costume); la nullità può essere, poi,
totale o parziale, se riferito a tutto o solo una parte del contratto;
 annullabile quando è posto in essere da un incapace d’agire (interdetto o
minorenne) o è affetto da vizi del volere che impediscono il regolare
svolgimento del processo valutativo e decisionale.
Il contratto di lavoro è consensuale, ad effetti obbligatori e a prestazioni corrispettive,
il cui contenuto deve uniformarsi alle norme di legge ed ai contratti collettivi. Gli
elementi essenziali sono: l’accordo, cioè il reciproco consenso delle parti in ordine
al programma contrattuale. Le due volontà (proposta ed accettazione) si fondano in
un’unica comune volontà. Poiché il contratto di lavoro è concluso nel momento in cui
il lavoratore aderisce alla proposta del datore di lavoro, si è affermato che il contratto
individuale di lavoro possa essere ricondotto allo schema del contratto di adesione,
dal quale si differenzia per il fatto che le condizioni generali sono disposte non
unilateralmente, bensì in modo bilaterale. Il consenso dev’essere dato da un soggetto
dotato di capacità giuridica e capacità d’agire. Esiste, poi, la cosiddetta “capacità
giuridica speciale”, intesa come l’idoneità del soggetto ad essere titolare di una
particolare situazione soggettiva; in tal caso, l’idoneità a prestare lavoro, che dipende
dall’attitudine fisiologica o capacità naturale della persona all’esecuzione della
prestazione. Perciò che concerne la figura del datore di lavoro, non sono previsti
requisiti soggettivi speciali, applicandosi le stesse norme dettate per la capacità
giuridica e d’agire della generalità dei soggetti. La figura dell’imprenditore è
particolare per due aspetti: la spersonalizzazione dell’imprenditore agli effetti della
formazione e conclusione del contratto e della formazione e conclusione del
contratto; cioè, nel caso di morte o d’incapacità dell’imprenditore, il contratto
stipulato , prima di ciò, non perde efficacia; la successione nel caso di trasferimento
d’azienda, per cui il rapporto di lavoro continua con l’acquirente ed il lavoratore
conserva, comunque, i propri diritti nei confronti di essa. L’oggetto del contratto di
lavoro sono le due obbligazioni: lo svolgimento di un’attività lavorativa (facere) e la
retribuzione. La forma è il modo in cui la proposta e l’accettazione vengono
manifestate; è un elemento essenziale quando risulta che è prescritta dalla legge, a
pena di nullità. A tal proposito, si ricordi che un decreto legislativo del 95 ha
introdotto l’obbligo di formazione circa le principali condizioni applicabili al
contratto, le generalità dei contraenti, il luogo di lavoro, le mansioni assegnate al
lavoratore, ecc. Tali informazioni devono essere riportate, entro 30 giorni
dall’assunzione, da parte del datore, in forma scritta. In caso di mancato, ritardato,
inesatto o incompleto assolvimento dell’obbligo di comunicazione, il lavoratore può
chiedere alla direzione provinciale del lavoro d’intimare al datore di lavoro, di fornire
entro 15 giorni, le informazioni previste. Qualora il datore rifiuta, va incontro a
sanzioni amministrative. Le informazioni, oltre che nella lettera d’assunzione,
possono essere riportate anche in un altro momento da consegnare sempre al
lavoratore. La causa è la funzione economico-sociale a cui il contratto adempie; nel
contratto di lavoro è lo scambio tra collaborazione del prestatore e la retribuzione da
parte del datore di lavoro. Gli elementi accidentali costituiscono un arricchimento
dell’autonomia negoziale, rivolti a modificare e limitare il contenuto dei contratti: la
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condizione è la clausola, introdotta nel contratto, per farne dipendere l’efficacia o la
risoluzione da un avvenimento futuro ed incerto. La condizione è “risolutiva” se
dall’evento dipende la cessazione degli effetti del contratto; è “sospensiva” se
dall’evento dipende l’efficacia del contratto; il termine, invece, è la clausola
introdotta nel contratto per farne dipendere l’efficacia o la risoluzione da un momento
del tempo futuro e certo; il termine può essere “iniziale” (se segna l’inizio degli
effetti contrattuali ) oppure “finale” (se segna la fine degli effetti contrattuali). Un
altro elemento accidentale è il patto di prova a cui è dedicato l’art. 2096 per cui:
l’assunzione del prestatore di lavoro, per un periodo di prova, deve risultare da un
atto scritto. Durante tale periodo, le parti possono recedere dal contratto, senza
obbligo di preavviso o d’indennità. Se, però, la prova è stabilita per un tempo
minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del
termine. Compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva ed il servizio
prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro. L’oggetto della prova è,
quindi, l’esperimento, importante, per il datore, per verificare le capacità di lavoro del
prestatore; e, per il lavoratore, per verificare la convenienza del posto di lavoro. Di
regola, la durata del periodo di prova è fissata dai contratti collettivi, ma il rapporto,
comunque non può andare oltre i sei mesi. La posizione del lavoratore in prova è
equiparata tendenzialmente a quella dell’assunzione definitiva (per es. spetta il TFR,
le ferie retribuite, ecc.). I vizi della volontà sono delle circostanze perturbatrici che
hanno indotto un soggetto a concludere un contratto che altrimenti non avrebbe
concluso, o che avrebbe concluso a condizioni diverse. I vizi del volere sono:
l’errore è la falsa conoscenza di qualcosa; la violenza morale è la minaccia di un
male ingiusto e notevole, da fare impressione su di una persona sensata; il dolo è un
raggiro o inganno messo in opera da una parte nei confronti dell’altra. Diversa dai
vizi della volontà è la simulazione cioè “l’accordo con il quale le parti giungono di
porre in essere un contratto che in beffeggi non vogliono affatto (simulazione
assoluta) o che avrebbero stipulato in altra forma (simulazione relativa). Il contratto
posto in essere è detto simulato, quello effettivamente voluto, è detto dissimulato.
Non essendo voluto dalle parti, il primo non produce effetti tra le parti, ma produrrà i
suoi effetti, invece, il secondo (contratto d’opera o altro contratto di lavoro autonomo,
che emerge dalla realtà negoziale). Esso, però, deve presentare tutti i requisiti di
forma e sostanza, altrimenti, nel caso in cui esso funge da strumento per la
realizzazione di un contratto illecito, è nullo.
La prestazione di lavoro
Norma fondamentale relativa alla prestazione di lavoro, è quella contenuta nell’art.
2104 c.c. per cui: “il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla
natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quella superiore
della produzione nazionale. Deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e
per la disciplina del lavoro, impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo,
dai quali gerarchicamente dipende”. L’art. fissa due requisiti caratteristici della
prestazione, e quindi, della subordinazione: la diligenza e l’obbedienza, mediante i
quali è possibile stabilire se il lavoratore è adempiente o meno al lavoro. Il criterio
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della diligenza sembra ricollegarsi all’art. 1176 c.c. per cui: “nell’adempiere
all’obbligazione, il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia”. La
diligenza può differenziarsi a seconda della “natura della prestazione”, cioè del tipo
di mansioni svolte dal lavoratore, di conseguenza, la diligenza per le mansioni
impiegatizie sarà diversa da quella richiesta per le mansioni operaie, dirigente, ecc.
Altri due criteri per la valutazione del comportamento dovuto dal prestatore sono:
“l’interesse superiore della produzione nazionale”, che riflette l’ideologia
corporativa dello statalismo economico, per cui tutte le attività economiche e
professionali devono tendere ad un fine comune come, appunto, l’interesse della
nazione; “l’interesse dell’impresa”, inteso sia in senso “oggettivo” (cioè interesse
dell’impresa in sé come istituzione), sia in senso “soggettivo” (cioè interesse
dell’imprenditore). Nonostante parte della dottrina si sia orientata nel senso
oggettivo, in realtà, dev’essere inteso in senso soggettivo. Anche il requisito
dell’obbedienza non è unico, ma può variare e si manifesta nell’osservanza delle
disposizioni impartite per l’esecuzione e la disciplina del lavoro in cui si estrinseca il
potere del datore di lavoro. Esso è:
 potere direttivo: consiste nella capacità d’impartire ordini per l’esecuzione del
lavoro. Si tratta di un potere essenzialmente organizzativo, necessario perché la
prestazione del lavoratore raggiunga gli esiti prestabiliti. I comandi
dell’imprenditore possono essere relativi o all’organizzazione del lavoro, o alla
disciplina del lavoro, cioè alla regolamentazione della convivenza tra i diversi
lavoratori che collaborano all’impresa;
 potere disciplinare: consiste nella possibilità di applicare sanzioni disciplinari
ai lavoratori che violano uno dei loro obblighi di comportamento: al lavoro,
alla fedeltà o all’obbedienza.
A norma dell’art. 2106 c.c. “le sanzioni disciplinari vengono applicate
dall’imprenditore “in proporzione” alla gravità dell’infrazione commessa e in
conformità dei contratti collettivi”, esse vanno dal rimprovero verbale (o scritto) alla
multa ed alla sospensione dal lavoro (con corrispondente retribuzione) fino al
licenziamento, che è la maggiore delle sanzioni disciplinari. Dall’art. 2105 c.c.
scaturisce, poi, l’obbligo di fedeltà, che si sostanzia nel divieto di svolgere attività in
concorrenza con quella dell’impresa e divulgare o utilizzare, a vantaggio proprio o
altrui notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, in
modo da poter arrecare ad essa pregiudizio. Non costituisce, invece, concorrenza
l’attività inventiva del lavoratore che se:
 è oggetto del contratto di lavoro, i diritti dell’invenzione, eventualmente fatta
dal lavoratore, appartengono al datore di lavoro;
 non è oggetto del contratto di lavoro, ma l’invenzione è fatta in esecuzione di
essa, i diritti spettano al datore, mentre un “equo premio” spetta al lavoratore;
 è fatta indipendentemente dal rapporto di lavoro i diritti spettano al lavoratore,
ma il datore ha il diritto di prelazione per l’uso della stessa.
Il legislatore ha, comunque, previsto la possibilità di stipulare un patto di non
concorrenza, anche per il periodo successivo alla cessazione del rapporto (3 anni, in
generale; 5 anni per i dirigenti). In ogni caso è prevista la forma scritta, in cui rientra
il divieto di divulgare i cosiddetti segreti aziendali. Le mansioni (art. 2103 c.c.)
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costituiscono l’insieme dei compiti e delle operazioni, che il lavoratore
individualmente può essere chiamato a svolgere e che possono essere pretesi dal
datore di lavoro. Esse s’identificano con la “posizione del lavoratore” nella
organizzazione del lavoro e con l’”oggetto della prestazione” di lavoro, di una delle
due obbligazioni. In base alle effettive mansioni possono essere di carattere tecnicointellettuale o manuale. In base alle effettive mansioni svolte dai lavoratori, vengono
stabilite le qualifiche, da parte dei contratti collettivi. Poiché esistono diverse
mansioni, ognuna di esse richiede diversi livelli di abilità, esperienza, conoscenza
tecnica e pratica, insomma, diversi livelli di capacità lavorativa. Di qui, l’esigenza di
differenziare il trattamento salariale e normativo per ciascun lavoratore. Il termine
categoria (o qualifica) ha due significati contrastanti, ma complementari: categorie
legali e categorie contrattuali. Le categorie contrattuali caratterizzarono, in passato,
l’ambito industriale e vennero così definite per distinguerle da quelle legali. La
contrattazione collettiva riservava per ognuna di esse trattamenti diversi: gli
impiegati si distinguevano in quelli di: I°, II°, III°, IV° categoria, con riferimento alla
complessità e responsabilità delle mansioni; gli operai si distinguevano in:
specializzati, qualificati, comuni e manuali; gli intermedi (o equiparati) erano figure
intermedie tra operai e impiegati, con particolare responsabilità di guida e controllo
(per es. il capo-squadra); i funzionari erano presenti nel settore del credito e
assicurazioni, intermedi tra gli impiegati di più alta qualifica e i dirigenti (per es. i
funzionari di banca). Le categorie legali sono individuate dall’art. 2095 c.c. per cui:
“i prestatori di lavoro subordinato si distinguono in: dirigenti, quadri, operai ed
impiegati. A determinare i requisiti d’appartenenza, per ciascuna categoria sono: i
contratti collettivi e le leggi speciali”. La distinzione tra impiegati ed operai si basava
su quella tra lavoro prevalentemente intellettuale per i primi e, lavoro
prevalentemente manuale per i secondi. Poiché non di rado impiegati potevano
svolgere lavoro più manuale che intellettuale e, viceversa per gli operai, si è passati
ad un altro criterio di distinzione per cui: l’operaio collabora “nell’”impresa, perché
svolge l’attività produttiva; l’impiegato collabora “all’”impresa, perché contribuisce
all’organizzazione dell’attività produttiva. Successivamente, invece, gli operai erano
gli ignoranti, mentre gli impiegati erano quelli che conoscevano i segni della scrittura
e sapevano leggere, scrivere e far di conto. Negli anni ’70, però, tutto ciò cambiò con
l’introduzione del c. “inquadramento unico”, per cui vi è un’unica classificazione,
generalmente in sette o otto categorie, corrispondenti ad altrettanti livelli di attività
prestata e di retribuzione corrispondenti. Nella nuova scala di categorie contrattuali,
quindi, operai ed impiegati possono trovarsi allo stesso livello; si è così permesso un
rapporto d’equivalenza non solo retributivo, ma anche di dignità professionale. I
dirigenti fanno parte di una categoria di formazione relativamente recente. In un
primo momento vennero considerati “impiegati superiori”, ma con l’introduzione
dell’ordinamento corporativo, divennero figure autonome. La contrattazione
collettiva li qualifica come: “I lavoratori che ricoprono nell’azienda un ruolo
caratterizzato da un elevato grado di personalità, autonomia e potere decisionale ed
esplicano le loro funzioni al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione
degli obiettivi dell’impresa”. Essi hanno, dunque, un’organizzazione sindacale, una
contrattazione collettiva ed un trattamento previdenziale, diverso da quello degli altri
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lavoratori (:direttori tecnici o amministrativi; i capi-ufficio; ecc.). I quadri sono
prestatori di lavoro subordinato che, pur non essendo dirigenti, svolgono funzioni di
grande importanza, ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli scopi dell’impresa.
E’ stata la Legge n. 190/85 a riconoscere i quadri come figure autonome e a rinviare
alla contrattazione collettiva, i requisiti che li caratterizzano. La legge li ha definiti
come “lavoratori che svolgono funzioni, in modo continuativo, di rilevante
importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa”. Nel
contratto di lavoro, il contenuto delle obbligazioni (la prestazione di lavoro, in
particolare), a differenza di altri contratti, presenta un andamento dinamico, che può
rendere la prestazione differente, rispetto a come stabiliti inizialmente. Questo per
due ragioni:
 mutamenti indotti dall’innovazione tecnologica o di tipo organizzativo;
 per volontà del datore di lavoro, che organizza la produzione (in altri contratti,
invece, solo per mutuo consenso).
il potere di modificare unilateralmente la prestazione di lavoro è detto “ius variandi”,
sancito dall’art. 2103 c.c. del 1942, modificato in seguito all’emanazione dello
Statuto dei lavoratori (art. 13). L’art. 2103 c.c. dispone che: “il prestatore di lavoro
dev’essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti
alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito o a mansioni
equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione di
retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori, il prestatore ha diritto
al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene
definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore
assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti
collettivi e, comunque, non superiore a tre mesi”. Dalla norma emerge, quindi, la
cosiddetta mobilità orizzontale cioè la possibilità, del datore di lavoro, di assegnare
al lavoratore delle mansioni “equivalenti” alle ultime effettivamente svolte. Sul
termine “equivalente” sono state introdotte diverse opinioni; in particolare, quella
della Corte di Cassazione, per la quale, sono da ritenere tali le mansioni il cui
espletamento consente l’utilizzazione del patrimonio professionale, cioè le nozioni ed
esperienze, acquisite nella fase precedente del rapporto; è, invece, da escludere
l’opinione per cui l’equivalenza sia relativa al semplice livello retributivo, sostenuta
da parte della giurisprudenza. Dalla norma emerge anche la cosiddetta mobilità
verso l’alto cioè, la possibilità, del debitore di lavoro, di assegnare al lavoratore delle
mansioni superiori alle ultime effettivamente svolte. In tal caso, però, il prestatore ha
diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e, in più, che l’assegnazione
divenga definitiva, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi e, comunque, non
superiore ai tre mesi. Tale assegnazione rimane provvisoria, invece se dovuta ad una
sostituzione di un altro dipendente assente, ma con diritto alla conservazione del
posto; tali ragioni giustificative sono la malattia o l’infortunio; la gravidanza; il
servizio militare, ecc. L’ultimo comma dell’art. stabilisce che: “ogni patto contrario è
nullo”. È solitamente esclusa, invece, la cosiddetta mobilità verso il basso, salvo
delle tassative ipotesi previste dalla legge: lavoratrici madri che, durante la gestazione
e fino a sette mesi dopo il parto, devono essere adibite a mansioni non pregiudizievoli
alla salute di questa o del bambino, per sopravvenuta inabilità allo svolgimento delle
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mansioni; o per un accordo sindacale che la richiede per il riassorbimento totale o
parziale dei lavoratori, ecc. Nel caso di illegittima adibizione a mansioni inferiori, la
giurisprudenza riconosce al lavoratore il diritto al risarcimento del danno
patrimoniale (per es. mancato sviluppo della carriera); sia non patrimoniale (per il
pregiudizio arrecato alla capacità professionale). L’art. 2103 c.c. disciplina anche il
trasferimento del lavoratore per cui: “il lavoratore non può essere trasferito da
un’unità produttiva ad un’altra, se non per comprovate ragioni tecniche,
organizzative e produttive”. L’onere di provare tali ragioni ricade sull’imprenditore,
che dovrà comunicarla al lavoratore; qualora il trasferimento sia disposto, in assenza
di presupposti legali, dev’essere considerato illegittimo, ed il lavoratore può
domandare in giudizio l’accertamento della nullità e rifiutarsi di eseguire il
provvedimento del datore di lavoro. È, comunque, vietato il trasferimento dettato per
motivi di discriminazione (sindacale, politica, religiosa, ecc.) o non consensuale, nel
caso di lavoratore che assista con continuità un familiare disabile convivente. Diversa
dalla mobilità verso l’alto, è il diritto alla promozione (automatica), prevista
dall’art, 13 SDL, per il quale il prestatore di lavoro, dopo un certo periodo di
permanenza nelle mansioni del livello più basso, automaticamente acquisisce la
qualifica corrispondente al livello superiore. Le condizioni di lavoro non dipendono
solo dalla natura e dal tipo di attività svolta, ma anche dall’ambiente di lavoro:
inteso come l’insieme dei fattori naturali ed artificiali, in cui svolge la sua attività
lavorativa, tali fattori sono: i ritmi ed i tempo di lavoro; i locali dell’impresa; i
macchinari adibiti alla produzione; le materie di lavorazione, ecc. Nell’ambiente di
lavoro si pone, però, il problema della tutela della persona fisica e della personalità
morale del prestatore tra i diversi articoli, che tutelano la persona e al sua salute e
sicurezza: l’art. 32 per cui “La repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell’individuo (che ha risvolti anche verso la collettività) e prevede la garanzia di
cure gratuite agli indigenti, ecc.” l’art. 41 per cui “l’iniziativa economica privata
deve svolgersi non in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Oltre questi articoli della Costituzione, si
ricordi, poi, l’art. 2087 c.c. il quale dispone che: “l’imprenditore è tenuto ad
adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che sono necessarie a tutelare
l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Al datore è,
dunque, posto un obbligo di protezione della persona del lavoratore: consistente sia
nel rispetto dei limiti delle condizioni lavorative, imposti da leggi e regolamenti (per l
prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro) sia nell’introduzione di misure
idonee a prevenire situazioni di pericolo nell’ambiente di lavoro stesso. Tale art. ha,
comunque, avuto scarso rilievo, perché solitamente invocato in funzione risarcitoria
di eventi dannosi già verificatisi. L’art. 9 SDL dispone, invece, che: “I lavoratori,
mediante loro rappresentanza hanno il diritto di controllare l’applicazione delle
norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di
promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a
tutelare la loro salute e integrità fisica”. La norma, se da un lato, riconosce la difesa
del singolo lavoratore, dall’altro, però, specifica che l’esercizio dev’essere collettivo,
cioè per mezzo di rappresentanze sindacali. Vi è un diritto al controllo sulle
condizioni di lavoro esistenti ed un diritto alla promozione di nuove misure protettive
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idonee a modificare e comunque migliorare, le condizioni dell’ambiente lavorativo.
A tal fine molti contratti collettivi aziendali hanno previsto sistemi di accertamento
delle condizioni ambientali, da effettuarsi per mezzo di esperti, e a carico delle
imprese. Il D. lgs n. 626/’94, fu emanato in virtù della delega conferita da una legge
comunitaria per l’attuazione della direttiva-quadro del giugno ’89, in tema di
sicurezza del lavoro. Esso è applicato per tutti i settori produttivi (pubblici e privati),
benché per alcuni settori sono previsti dei limiti, dovuti alle particolari esigenze
connesse al servizio prestato (forze armate, servizio di protezione civile, ecc.). il
decreto, modificato con il D. lgs n. 242/’96, ha stabilito una serie di obblighi,
penalmente sanzionati, a carico del datore di lavoro. Egli è tenuto a:
 valutare i rischi, per la sicurezza e per la salute dei lavoratori nella scelta delle
attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici usati;
 individuare ed attuare tutte le misure di prevenzione, ritenute più idonee
alla rimozione dei rischi accertati;
 redigere un piano di sicurezza, contenente la relazione sulla valutazione dei
rischi, le misure di prevenzione individuate, nonché il programma degli
interventi e i tempi per il loro adempimento, al fine di garantire il
miglioramento progressivo dei livelli di sicurezza;
 designare un responsabile del servizio di prevenzione e protezione;
 assicurarsi che il lavoratore ricava un’adeguata formazione in materia di
sicurezza e di salute, con particolare riferimento al rischio specifico derivante
dalle mansioni espletate.
La nuova disciplina ha, però, sancito degli obblighi anche a carico dei lavoratori che
sono anch’essi tenuti a prendersi cura della propria sicurezza e salute e a collaborare
con il datore nell’adempimento di tutto quanto sia necessario per tutelare la salute e la
sicurezza dei lavoratori. L’orario di lavoro stabilisce sia la quantità di lavoro,
richiesta ed utilizzata dal datore di lavoro, sia la massima esigibilità della prestazione
(che dev’essere continuativa). “Continuità”, intesa non come esecuzione ininterrotta
del lavoro (senso materiale), ma come permanenza del vincolo obbligatorio del
debitore delle opere, quantitativamente determinate per mezzo dell’orario di lavoro
(senso ideale). Si comprende, allora, perché la durata massima della prestazione sia
fissata dalla legge e, come solo entro determinati limiti, dall’autonomia privata.
L’art. 2107 c.c. : “la durata giornaliera e settimanale della prestazione di lavoro, non
può superare i limiti stabiliti dalle leggi speciali”. La disciplina prevista attualmente è
di 8 ore giornaliere e 40 settimanali (a differenza delle 48 del passato). Di
conseguenza, la disciplina prevista per il lavoro straordinario è applicata sin dalla 41°
ora e non più dalla 49°. L’art. 2108 c.c. è dedicato al lavoro straordinario e
notturno per cui: “in caso di prolungamento dell’orario normale, il prestatore di
lavoro, deve essere compensato per le ore straordinarie, con l’aumento di
retribuzione. Il lavoro notturno, non compreso in regolari turni periodici, dev’essere
parimenti retribuito con una maggiorazione, rispetto al lavoro diurno. I limiti, entro i
quali sono consentiti il lavoro notturno e straordinario, la durata e la misura della
maggiorazione sono stabiliti dalla legge”.
Il lavoro straordinario è ammesso, soltanto previo accordo delle parti, garantendo al
lavoratore una maggiorazione della retribuzione oraria, non inferiore al 10% e non
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superando le 12 ore settimanali. A partire dal 1995, al fine di rendere
economicamente meno appetibile, per le imprese, il ricorso al lavoro straordinario, il
legislatore ha previsto che l’esecuzione di ore di lavoro eccedenti le 45 settimanali,
per le imprese con più di 15 dipendenti, comporta anche il versamento all’INPS i un
contributo, pari al 5% delle retribuzioni corrisposte per le predette ore. Nelle imprese
industriali, comunque, il lavoro straordinario è consentito nei casi di forza maggiore o
quando la cessazione del lavoro a orario normale costituisca pericolo per le persone o
per la produzione, ipotesi in cui il datore di lavoro è obbligato a darne
comunicazione, entro 24 ore dall’inizio, alle R.S.A.. Altri casi, in cui esso è possibile
sono: esigenze tecnico-produttive o impossibilità di fronteggiare determinate
situazioni mediante l’assunzione di altri lavoratori; ricorrenza di fiere, mostre e altre
manifestazioni collegate all’attività produttiva dell’impresa.
Per lavoro notturno deve intendersi “l’attività svolta nel corso di un periodo di
almeno 7 ore consecutive, comprendenti l’intervallo fra le 24 e le 5 del mattino. Un
D. lgs. ’99, valutando i rischi per la salute psico-fisica dei lavoratori addetti al lavoro
notturno, ha previsto che essi siano sottoposti, a spese del datore di lavoro, e tramite
un medico competente, ad accertamenti preventivi, diretti a constatare l’assenza di
controindicazioni, o incompatibilità tra la salute del lavoratore ed il lavoro notturno.
Nel caso d’incompatibilità, infatti, il lavoratore sarà impiegato per lavori diurni. Il
datore di lavoro deve fornire alla direzione provinciale del lavoro, per iscritto, e con
periodicità annuale, le informazioni circa il lavoro notturno, da indirizzare, poi, alle
R.S.A.. Le pause, richiamate dall’art. 2107 c.c. , durante le quali l’esecuzione della
prestazione lavorativa è vietata (per tutelare la reintegrazione della personalità morale
e non solo la persona fisica del lavoratore), sono affiancate da festività
infrasettimanali o dalle ferie. A tal proposito, l’art. 2109 c.c. dispone che: “Il
prestatore di lavoro ha diritto ad un giorno di riposo ogni settimana, di regola, in
coincidenza con la domenica. Ha anche diritto, dopo un anno d’ininterrotto servizio,
ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che
stabilisce l’imprenditore. La durata di tale periodo è stabilito dalla legge, dagli usi o
secondo equità. L’imprenditore deve preventivamente comunicare al pretore di
lavoro, il periodo stabilito per il godimento delle ferie”. La durata delle ferie è,
comunque, fissata dai contratti collettivi, in misura proporzionata all’anzianità di
servizio del dipendente e differenziata per ciascuna categoria di prestatori di lavoro.
Alle ferie e al riposo settimanale fa riferimento anche l’ultimo comma dell’art. 36 C.
per cui: “il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e
non può rinunziarvi”. Particolare importanza è, poi, attribuita alla direttiva n. 93/104
applicabile a tutti i settori di attività pubbliche e private. Essa, non fissando un limite
all’orario giornaliero di lavoro, stabilisce che dev’essere garantito, nel corso di ogni
24 ore, un periodo di riposo di almeno 11 ore consecutive e, in ogni caso, le ore
settimanali non possono superare le 24 ore. Per un periodo di 7 giorni, dev’essere
assicurato un periodo minimo di riposo ininterrotto di 24 ore. I lavoratori, in più,
hanno diritto ad un periodo di ferie retribuite ogni anno, non sostituibile con un
compenso economico, e non inferiore alle 4 settimane. Una legge comunitaria del
2000 ha delegato il Governo italiano a dare completa attuazione a tale direttiva.
La retribuzione
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La retribuzione è il corrispettivo, dovuto dal datore, al lavoratore, in cambio della
prestazione lavorativa. Si tratta di un’obbligazione pecuniaria, disciplinata dall’art.
2099 c.c. per cui: “La retribuzione del prestatore di lavoro può essere stabilita a
tempo o a cottimo, e dev’essere corrisposto nella misura determinata dai contratti
collettivi, con le modalità e nei termini in uso nel luogo in cui il lavoro viene
eseguito. In mancanza di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal
giudice. Il prestatore di lavoro può essere retribuito anche (in tutto o in parte ) con
partecipazione agli utili o ai prodotti, con provvigione o con prestazioni in natura”.
La retribuzione viene corrisposta nella sede di lavoro dell’imprenditore, che poi è
quella del lavoratore, visto che, di solito, la sede dell’impresa coincide con il luogo di
lavoro del prestatore. Una legge speciale ha introdotto, poi, anche l’obbligo del
datore di lavoro, di corrispondere la retribuzione, accompagnata, però, da un
prospetto-paga, delle diverse voci che la compongono. La misura della retribuzione
non è demandata all’esclusiva competenza dell’autonomia collettiva; infatti, l’art. 36
C. riconosce al lavoratore il diritto soggettivo alla retribuzione minima sufficiente,
precisamente: “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità
e qualità del suo lavoro e, in ogni caso, sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia
un’esistenza libera e dignitosa”. Si tratta di una norma-principio in cui si fa
riferimento a due requisiti fondamentali, cui il giudice deve conformarsi. In virtù del
requisito della proporzionalità, la retribuzione dev’essere determinata sia dalla
durata e dall’intensità del lavoro, ma anche dal tipo di mansioni eseguite. Il requisito
della sufficienza è più importante: la misura minima della retribuzione deve andare
oltre il minimo vitale o di sussistenza, in modo da garantire un livello di vita
sufficiente a realizzare un’esistenza libera e dignitosa, non solo per il lavoratore come
singolo, ma anche per la sua famiglia. La retribuzione minima sufficiente, quindi, è
un limite all’autonomia contrattuale delle parti, nella determinazione del contenuto
del contratto di lavoro. La giurisprudenza, ed anche la maggior parte della dottrina,
ha proposto l’introduzione, in materia, della possibilità, per il giudice, di discostarsi
dai minimi salariali (stabiliti dalla contrattazione collettiva) riconoscendo al
lavoratore una retribuzione anche inferiore rispetto ad essi, purché fornisca adeguata
motivazione della differente misura della retribuzione, sufficiente e proporzionata, da
cui indicata. La Corte di Cassazione, però, ha considerato tale proposta, impossibile
da attuare. La retribuzione a tempo (o ad economia) è commisurata sulla base del
tempo della prestazione lavorativa: ore di lavoro, giornate e mesi. Questa retribuzione
può essere “oraria” (salario), calcolata in base alle ore lavorate nel mese; “mensile”
(stipendio), calcolata sulla base dei mesi lavorati. La retribuzione a cottimo è
relativa al risultato finale del lavoro e in essa si calcolano tutte le maggiorazioni per
lavoro: straordinario, notturno e festivo. Essa svolge la funzione di “incentivo” del
rendimento sul lavoro; ma quando il rendimento è vincolato dai ritmi imposti dalla
macchina, il cottimo svolge una funzione di “controllo” del rendimento stesso,
obbligando il lavoratore al mantenimento di un livello costante medio di attività
lavorativa. La contrattazione collettiva e, quindi, il sindacato, intervengono solo per
negoziare le tariffe di cottimo, cioè il compenso unitario del risultato del lavoro e
non la sottostante organizzazione di lavoro. Esse, a norma dell’art. 2101 c.c. devono
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essere comunicate, in tutti i loro elementi costitutivi, ai lavoratori, da parte
dell’imprenditore e applicate da questo. Il cottimo è obbligatorio, secondo .’art.
2100 c.c., quando il lavoratore è vincolato all’osservanza di un determinato ritmo
produttivo o quando la valutazione della sua prestazione è fatta in base al risultato
della prestazione lavorativa. Il legislatore, pur non limitando il potere unilaterale di
organizzazione del lavoro, impone all’imprenditore di aumentare la retribuzione,
quando vengono aumentati i ritmi di lavoro. Esiste, poi, il cosiddetto cottimo
collettivo in cui la retribuzione del singolo lavoratore, viene collegata al risultato del
lavoro, e perciò, al rendimento dell’intero gruppo (cottimo collettivo subordinato o
lavoro a squadra); in tal caso, la retribuzione ha solo una funzione d’incentivo del
rendimento della collettività dei cottimisti.
Viene fatta una distinzione tra:
 retribuzione normale minima: è quella stabilita dai contratti collettivi per
l’orario di lavoro, tenendo conto della diversità di categoria, qualifica ed
anzianità del lavoratore;
 retribuzione totale (o globale): è quella formata dalla retribuzione normale
minima più eventuali integrazioni o maggiorazioni, che sono, poi, elementi
accessori della retribuzione (13° o 14°; indennità per lavori di soggetti gravosi
o penosi; premi di operosità o assiduità nel lavoro).
Gli artt. 2110 – 2111 c.c. prevedono i casi di sospensione del rapporto di lavoro per
impossibilità temporanea del lavoratore ad eseguire la propria prestazione:
 aspettativa per funzioni pubbliche: il legislatore ha previsto che, i cittadini
chiamati a ricoprire cariche pubbliche elettive, hanno diritto a disporre del
tempo necessario per espletare il proprio mandato. Essi, cioè, hanno diritto ad
aspettative e permessi, senza però, corresponsione della retribuzione (vi è la
conservazione del posto). Questo è il caso dei membri del Parlamento (europeo
o nazionale), dei consigli regionali o locali;
 servizio militare: disciplinato dall’art. 2111 c.c. e dalle leggi speciali, che
distinguono due casi diversi: per la “chiamata alle armi” è prevista la
sospensione del rapporto con conservazione del posto e anzianità maturata, ma
senza diritto alla retribuzione; per il “richiamo alle armi” invece è prevista la
sospensione del rapporto, con diritto alla conservazione del posto e della
retribuzione per tutto il periodo. Il lavoratore ah, però, l’onere di ripresentarsi
al lavoro, entro il termine stabilito, e non può essere licenziato, se non per
giusta causa;
 stato di tossicodipendenza: il lavoratore che intende accedere ai programmi
terapeutici o di riabilitazione, presso i servizi sanitari dall’ASL o altre strutture,
ha il diritto ad un periodo (non retribuito e senza decorrenza dell’anzianità) di
conservazione del posto di lavoro (o aspettativa) per la durata del trattamento e,
comunque, non superiore a tre anni;
 malattia: nel nostro sistema normativo è obbligatoria l’assicurazione contro la
malattia, la cui contribuzione è posta a carico del datore di lavoro ma, in
seguito alla riforma del servizio sanitario nazionale ad esso è attribuita
l’assistenza medica, mentre l’indennità è corrisposta dall’INPS, dopo aver
accertato la reale infermità del lavoratore. Mentre gli operai sono esclusi dalla
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copertura dell’indennità, per i primi tre giorni di malattia; gli impiegati, invece,
vengono retribuiti fin dal primo giorno;
 infortunio sul lavoro: la stessa cosa è prevista nel caso di infortunio sul
lavoro, anche se l’assicurazione obbligatoria, contro gli infortuni e le malattie
professionali, copre solo i lavoratori addetti ad attività individuate dalla legge;
 gravidanza: una particolare disciplina è prevista nel caso di maternità (o
paternità); la lavoratrice madre (o lavoratore padre) ha diritto ad un’indennità
giornaliera di maternità pari all’80% della retribuzione per il periodo di
astensione obbligatoria del lavoro (due mesi prima la data presunta del parto e
tre mesi dopo il parto) e pari al 30% della retribuzione per il periodo di
astensione facoltativa dal lavoro (sei mesi, anche non continuativi, entro il
primo anno di vita del bambino). Queste indennità vengono anticipate dal
datore di lavoro e rimborsate dall’INPS. Devono, poi, essere concessi
“permessi” per l’allattamento, per il primo anno di vita del bambino (due ore
giornaliere, retribuite dall’INPS). La lavoratrice ha diritto alla conservazione
del posto per tutto il periodo d’astensione obbligatoria e fino al compimento di
un anno di età del bambino. È prevista l’aspettativa del lavoro, da parte dei
genitori, per la cura di figli con malattie o handicap grave.
In tutti questi casi, dunque, è prevista la conservazione del posto e della retribuzione
e la sospensione del rapporto; con il conseguente divieto di licenziamento, per il
periodo stabilito dalle medesime fonti. Tali periodi sono detti “periodi di
irrecedibilità”, infatti, il licenziamento intimato durate tale periodo è ritenuto, non
nullo, ma temporaneamente inefficace. Il comma III dell’art. 2110 c.c. aggiunge,
poi, che: “il periodo di assenza dal lavoro, anche oltre il periodo obbligatori di
conservazione del posto per una delle cause suddette, dev’essere computato
nell’anzianità di servizio del prestatore”. L’indennità corrisposta al lavoratore è
obbligatoria da parte del datore, tranne se la legge o i contratti collettivi stabiliscono
forme equivalenti di previdenza o assistenza. L’obbligazione retributiva, essendo di
natura pecuniaria, è sempre possibile. L’attività del datore di lavoro viene in rilievo
anche sotto il profilo della cooperazione creditoria, potendo dar luogo alla figura
della mora del creditore di lavoro, disciplinato dall’art. 1217 c.c., per cui: “se la
prestazione consiste in un fare, il creditore è costituito in mora mediante
l’intimazione di ricevere al prestazione o di compiere gli atti che sono, da parte sua,
necessari per renderla possibile”. La mora credendi può dipendere, quindi, da una
mancata cooperazione del creditore all’adempimento e al concretizzarsi
nell’ineffettuazione degli atti necessari, affinché il debitore possa realizzare la
prestazione dovuta. Nel rapporto di lavoro tale attività di cooperazione consiste nella
predisposizione del cosiddetto substrato reale della prestazione lavorativa, cioè i
mezzi necessari alla sua esecuzione (locali, macchinari, strumenti di lavoro, materie
prime, ecc.). La mancanza di tale substrato, da parte del debitore, identificandosi con
il rifiuto di ricevere la prestazione, e di corrispondere la retribuzione, si configura per
ciò in un’ipotesi di mora credendi. Per verificarsi la mora credendi è necessario che la
mancata cooperazione sia ingiustificata, cioè senza motivo legittimo. Ciò avviene
tutte le volte che il datore di lavoro non usi l’ordinaria diligenza nel porre in essere
l’attività necessaria all’esecuzione del lavoro e, in tal caso, in più, non è liberato
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dall’obbligo corrispettivo della retribuzione. Se, viceversa, il rifiuto ha un motivo
legittimo, la mora creditoria è esclusa; la prestazione è diventata impossibile e,
quindi, il lavoratore perde anche il diritto alla retribuzione. Gli effetti sono, quindi: 1)
l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per cause di forza maggiore; 2) il
risarcimento dei danni derivanti dal ritardo nell’adempimento, nonché le spese che ne
conseguono. Diversa dalla mora credendi è l’ipotesi in cui il datore di lavoro tenga il
prestatore a disposizione, senza utilizzarne l’attività, corrispondendo però,
regolarmente la retribuzione. Poiché il lavoratore ha l’obbligo, e non il diritto, di
eseguire la prestazione, la sua inattività è da considerarsi, comunque, una forma di
adempimento “anomala”. Nel caso dell’interruzione del lavoro o della sospensione
dell’attività aziendale, dipendenti da fatti direttamente o indirettamente riconducibili
all’organizzazione produttiva dell’impresa, tali da determinare l’oggettiva
impossibilità temporanea della prestazione lavorativa (es. mancanza di energia o
material, guato delle macchine, ecc.), di solito, è prevista la sospensione del rapporto,
senza diritto alla retribuzione. I contratti collettivi, però, possono prevedere altre
soluzioni, a seconda dei casi; per es. nel caso di soste (sospensioni di breve durata) il
datore è obbligato a pagare solo entro un certo limite, di solito due ore, e poi è
autorizzato a mettere in libertà i lavoratori senza obbligo di retribuzione.
L’obbligazione retributiva qualifica il contratto di lavoro come contratto
sinallagmatico, cioè a prestazioni corrispettive, perché tra le due obbligazioni
(prestazione e retribuzione) vi è un nesso o sinallagma d’interdipendenza, in virtù
della quale la retribuzione dovrà essere adeguata alla prestazione e viceversa.
Ciascuno dei contraenti potrà sospendere la propria obbligazione, se teme che l’altra
parte, a sua volta, non possa adempiere la sua obbligazione. Effetto di ciò è la
liberazione di entrambe le parti delle proprie obbligazioni, con l’obbligo di retribuire
quanto eventualmente ricevuto a titolo di corrispettivo. La retribuzione può essere:
 differita, se successiva al tempo dell’adempimento dell’obbligazione
lavorativa;
 indipendentemente dall’esecuzione della prestazione, nel caso delle ferie.
Il lavoro delle donne e dei minori
Fin dagli inizi della legislazione sociale, l’intervento protettivo nei confronti di
soggetti deboli (donne e minori) è stato rivolto ad escluderne o limitarne
l’occupazione per mezzo di numerosi divieti, relativi all’esecuzione della prestazione.
L’art. 37 C. prevede che: “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di
lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro
devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e
assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. L’art. da un
lato ha riaffermato gli obiettivi protettivi tradizionali della tutela differenziata del
lavoro femminile e minorile e, dall’altro lato, ha introdotto il principio della tutela
paritaria, cioè mirata a garantire ai minori e alle donne la parità di trattamento,
rispetto ai lavoratori adulti. La tutela paritaria della donna è stata rafforzata dalla
legge n. 907/’77, grazie alla spinta dei movimenti femministi. La legge sulla parità di
trattamento tra uomini e donne, in materia di lavoro, vieta ogni discriminazione per
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quanto riguardo l’accesso al lavoro e l’attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e
della progressione in carriera; ribadisce la parità salariale, a parità di lavoro; stabilisce
che, ai fini della carriera o dell’attività di servizio, le assenze obbligatorie per
maternità siano considerate come attività lavorativa; sancisce il divieto di lavoro
notturno, salvo eccezioni previste dai contratti collettivi; prevede la facoltà di prestare
l’attività lavorativa fino all’età consentita agli uomini (65 anni). Per quanto riguarda
la tutela differenziata della donna, è prevista una speciale normativa per le
lavoratrici madri, nella legge n. 1204/’71, rivolta ad assicurare loro tutela fisica ed
economica. Oltre al trattamento retributivo speciale, sono riconosciuti diritti a: non
occuparsi di lavori pericolosi, pesanti o insalubri; a permessi per l’allattamento e il
diritto a non essere licenziate per il periodo di astensione obbligatoria, periodi di
congedo per motivi di famiglia o figlio portatore di handicap, ecc.
La tutela del lavoro minorile ha lo scopo di “limitare l’età” minima di ammissione al
lavoro e di “proibire l’occupazione dei giovani” di età inferiore ai 18 anni, in
condizioni d’impiego particolarmente gravose o inadatte per faticosità, pericolosità o
insalubrità. L’importanza della tutela del lavoro minorile fu esaltata da una direttiva
n. 94/’33 che impone il divieto di lavorare ai minori di 15 anni (con eccezioni per
alcune attività). Tale direttiva, in Italia, è stata attuata nel ’99 e prevede la distinzione
tra i bambini e gli adolescenti, che possono accedere al lavoro col consenso dei
genitori. Per i bambini l’orario di lavoro previsto è di 7 ore giornaliere e 35
settimanali mentre per gli adolescenti è di 8 giornaliere e 40 settimanali. Hanno
diritto a riposi: giornalieri, settimanali e annuali (ferie) e l’inosservanza di tali limiti
comporta la nullità del contratto.
L’estinzione del rapporto di lavoro
Il rapporto di lavoro a tempo determinato si estingue con la scadenza del termine o
con il compimento del lavoro prestabilito; il rapporto di lavoro sia a tempo
determinato, sia a tempo indeterminato, può cessare:
 per il venir meno di uno dei due contraenti: morte del prestatore di lavoro o
cessazione totale dell’impresa. Nel caso di morte dell’imprenditore, di
trasferimento dell’azienda, di fallimento, l’azienda continua rispettivamente
con il nuovo titolare, gli eredi o il curatore del fallimento;
 per mutuo consenso: quando, cioè, entrambi i contraenti concordano nel porre
fine alla loro collaborazione e, quindi, a far cessare il rapporto. Questo è
possibile perché come possono decidere di obbligarsi, così, le parti possono
insieme volersi sciogliere reciprocamente dalle relative obbligazioni;
 per recesso unilaterale delle parti: il recesso del lavoratore prende il nome di
dimissioni, quello del datore di lavoro, invece, licenziamento. Il recesso è l’atto
con cui una parte contraente dichiara di volersi ritirare dal rapporto
contrattuale. Esso non travolge gli effetti contrattuali per le prestazioni già
eseguite o, in caso di esecuzione, perché fa cessare solo gli effetti futuri del
contratto (carattere irretroattivo).
Le dimissioni sono libere e non vi sono particolari obblighi a carico del lavoratore, se
non quello di dare preavviso al datore di lavoro, affinché possa sostituirlo
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tempestivamente; tale obbligo, però, non sussiste in presenza di una giusta causa di
recesso. A tal proposito, l’art. 2118 c.c. prevede che: “ciascuno dei contraenti può
recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel
termine e nei modi stabiliti dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità. In
mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte ad un’indennità
equivalente all’importo della retribuzione, che sarebbe spettata per il periodo di
preavviso. La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro, nel caso di cessazione
del rapporto per morte del prestatore di lavoro”. Quest’ultima indennità è dovuta al
fatto che, sia in caso di dimissioni, sia in caso di licenziamento, l’interruzione del
rapporto di lavoro può causare danni più o meno gravi alla controparte. Una difficile
questione che ha visto discordanti dottrina e giurisprudenza è quella relativa alla
natura reale o obbligatoria del preavviso. Questa, cioè, può essere considerato
termine legale sospensivo dell’efficacia nel negozio di recesso o, viceversa, il
recesso, se senza preavviso, può essere ritenuto immediatamente efficace,
configurandosi con il pagamento della conseguente indennità.
La disciplina generale del licenziamento, nei rapporti di lavoro a tempo
indeterminato è contenuta in una serie di fonti legislative, succedutesi nel temo. La
prima di esse è la legge n. 604/’66, per i licenziamenti nell’industria, invece, fu
introdotta una disciplina, derivante dagli accordi interconfederali del ’47 del ’50 e,
infine, del ’65 (che introdusse la tutela obbligatoria). Dopo tali accordi, è intervenuto
l’art. 18 SDL (che introdusse la tutela reale). Con la legge n. 108/’90 venne
ridefinito il campo di applicazione della tutela reale ed obbligatoria. Il datore di
lavoro può recedere dal contratto solo: per giusta causa, per giustificato motivo o con
recesso ad nutum.
 Il licenziamento per giusta causa (o in tronco): è regolato dall’art. 2119 c.c.
per cui: “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto, prima della
scadenza del termine (se il contratto è a tempo determinato) o senza preavviso
(se il contratto è a tempo indeterminato) qualora si verifichi una causa che
non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto
è a tempo determinato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa,
compete un’indennità. Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto
il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa
dell’azienda”. Si pensi, ad esempio, ai furti, percosse verso il datore di lavoro
o ai compagni di lavoro, abbandono ingiustificato del posto di lavoro,ecc. Il
significato del termine “giusta causa” è stato oggetto di diverse interpretazioni
di dottrina e giurisprudenza. Secondo l’opinione prevalente era “una qualsiasi
causa che non consentiva la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto”.
Dopo l’introduzione della legge n. 604 però, si afferma una nuova
interpretazione giurisprudenziale che collega il concetto di giusta causa a
quello di giustificato motivo soggettivo, come “notevole inadempimento” dal
quale si differenzia solo per la particolare gravità che non consente la
prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto;
 Il licenziamento per giustificato motivo: fu introdotto dalla legge n. 604 e
prevedeva la distinzione tra motivo soggettivo ed oggettivo. Il giustificato
motivo soggettivo si ha quando si verifica un notevole inadempimento del
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lavoratore, non così grave, però, da non consentire la prosecuzione del rapporto
di lavoro per il periodo di preavviso. Il giustificato motivo oggettivo è previsto
dall’art. 3 della legge n. 604 il quale “esso si deduce da ragioni inerenti
all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare
funzionamento di esso”. Anche sulla nozione di “giustificato motivo” sono
state avanzate più ipotesi, però, quella dominante ritiene che “possa essere
ravvisato solo quando non si presenti, al datore di lavoro, alcuna prospettiva di
recupero del lavoratore, a mansioni “diverse”, cioè equivalenti o inferiori a
quelle abitualmente svolte”. La prova di tale impossibilità grava sul datore di
lavoro;
 Nel recesso ad nutum: il datore è del tutto libero di allontanare il lavoratore,
purché rispetti l’onere del preavviso (il tempo varia in base all’anzianità di
lavoro e alla posizione assunta nell’organizzazione produttiva). Il preavviso
non è necessario allorché il licenziamento sia assistito da giusta causa e il
mancato rispetto, comunque, non tocca efficacia del recesso: infatti, la parte
recedente può sostituire il preavviso con l’indennità equivalente all’importo
della retribuzione che sarebbe spettato per il relativo periodo. Tale recesso
opera per: lavoratori domestici, gli sportivi professionisti, i lavoratori in
prova, i pensionati (cioè coloro che, oltre ad avere l’anzianità contributiva
minima prevista dalla legge, abbiano compiuto 65 anni), i dirigenti, nei
confronti dei quali dà l’obbligo di comunicare in forma scritta, nonché la
tutela contro il licenziamento discriminatorio.
Si ricordino, poi, le ipotesi di limitazione temporale del licenziamento cioè periodi
di conservazione del posto di lavoro, nonostante l’impossibilità temporanea della
prestazione. Dopo i periodi previsti dalla legge o dai contratti di lavoro, i lavoratori
potranno essere licenziati, solo per giusta causa: lavoratrici madri, infortunio o
malattia, chiamata o richiamo alle armi e di chi gode di speciali congedi per motivi di
cura familiare o di formazione. L’eventuale licenziamento, privo di giusta causa,
avvenuto in tali periodi, purché formalmente e sostanzialmente validi, è “efficace”,
ma solo alla scadenza dei termini stabiliti. Solo nel caso di: lavoratrici madri (o
lavoratori padri), chi gode di motivi di cura familiare o di formazione, o il
licenziamento per fini discriminatori o per causa di matrimonio, il licenziamento è
“nullo”. Per cause di matrimonio, nel caso in cui il tratto di lavoro presenti le
cosiddette “clausole di nubilato” che prevedono la risoluzione del rapporto di lavoro
delle lavoratrici, in conseguenza del loro matrimonio. Il matrimonio sarà nullo dal
giorno della pubblicazione ad un anno dopo la collaborazione del matrimonio. Sarà,
invece, “inefficiente” quel licenziamento eseguito contro l’osservanza degli
adempimenti formali, previsti dalla legge n. 604. Esso infatti, va comunicato al
lavoratore in forma scritta ove essa non sia stata effettuata, il lavoratore può
richiederli, entro 15 giorni dalla comunicazione del licenziamento e, in tal caso,
l’imprenditore deve farne conoscere i motivi, entro 7 giorni dalla richiesta. La legge
ha, in più, stabilito che la “prova” della sussistenza della giusta causa o del
giustificato motivo del licenziamento, incombe su entrambe le parti: il datore dovrà
provare i fatti che giustificano l’esercizio del proprio potere vincolato di recesso; il
lavoratore licenziato, invece, sarà tenuto a provare i fatti costituitivi del proprio
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diritto alla stabilità, e dunque, alla tutela reale o obbligatoria. Il licenziamento può
essere impugnato anche a mezzo di una semplice comunicazione scritta, fatta
pervenire al datore di lavoro entro un termine di 60 giorni dalla comunicazione del
licenziamento. I rimedi contro il negozio di licenziamento illegittimo, operano in
ragione delle diverse dimensioni aziendali, per cui è possibile applicare la tutela o
reale o obbligatoria.
La tutela reale, in base all’art. 18 SDL, consiste nell’obbligo del datore e nel
correlativo diritto del prestatore alla reintegrazione nel posto di lavoro, nel caso di
licenziamento illegittimo. Si applica nei confronti dei datori di lavoro, imprenditori e
non imprenditori, che occupano più di 15 dipendenti nell’unità produttiva, nella quale
è occupato il lavoratore licenziato o nell’ambito dello stesso Comune e, in ogni caso,
ai datori di lavoro che abbiano globalmente alle loro dipendenze più di 60 lavoratori.
Nel computo dei dipendenti dovrà tenersi conto dei giovani assunti con contratto di
formazione e lavoratori a tempo parziale; non vengono, invece, computati il coniuge
ed i parenti entro il 2° grado del datore di lavoro e i lavoratori con contratto di
apprendistato. Oltre alla reintegrazione, il datore di lavoro, è condannato anche al
reinserimento del danno subito dal lavoratore, a causa del licenziamento. Il datore
dovrà “invitare” il lavoratore a riprendere servizio (per evitare la mora credendi),
mentre il lavoratore dovrà, a sua volta, ottemperare, entro 30 giorni, decorsi i quali, il
rapporto s’intenderà risolto per dimissioni. L’indennità ha una natura plurifunzionale,
non solo risarcitoria del danno subito dal lavoratore, ma anche punitiva
dell’inadempimento dell’obbligazione reintegrativa. In aggiunta all’indennità, in ogni
caso la legge impone anche il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali,
relativi al periodo intercorrente tra licenziamento e reintegrazione. Per tutto il periodo
di estromissione dal posto di lavoro, il lavoratore reintegrato può risolvere il rapporto
e pretendere dal datore in alternativa alla reintegrazione effettiva, il versamento di
un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione.
La tutela obbligatoria consiste nella facoltà del datore di lavoro, di scegliere
l’alternativa tra riassunzione e il pagamento di un penale: ciò è previsto nel caso di
illegittimità del licenziamento, derivante dalla sua mancata giustificazione. Il datore
è, comunque, obbligato a giustificare il licenziamento e, in mancanza di ciò, è tenuto
a riassumere il prestatore di lavoro, entro 3 giorni o, in alternativa, a risarcire
un’indennità penale di natura risarcitoria (del danno conseguente al licenziamento
illegittimo) e sanzionatorio (dell’inadempimento alla riassunzione). Per definire
l’indennità, occorrerà tener conto del numero dei dipendenti e delle condizioni e
comportamento delle parti. Il licenziamento, privo di giusta causa o giustificato
motivo, cioè illegittimo, in tale ambito non è annullabile: l’effetto di estinguere il
rapporto di lavoro è comunque realizzato, salvo che, con un nuovo atto negoziale, il
datore di lavoro “riassuma” il lavoratore. Con la legge n. 108/’90 è stato introdotto,
poi, nell’ambito della tutela obbligatoria, un tentativo obbligatorio di conciliazione,
come condizione di procedibilità della domanda giudiziale di accertamento
dell’illegittimità del licenziamento. Le organizzazioni di tendenza sono quelle che
perseguono fini ideologici, rispetto alle quali si è sostenuta l’insindacabilità del
licenziamento del dipendente quando esso sia originato da motivi riguardanti gli
scopi dell’organizzazione e l’attività del lavoratore sia direttamente collegata al loro
perseguimento.
Garanzie dei diritti dei lavoratori
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In generale, per garanzia deve intendersi il rafforzamento della tutela di un bene o
interesse giuridicamente protetto e, quindi, di un diritto soggettivo. L’ordinamento, a
tal proposito, circonda i diritti del lavoratore di una serie garanzie di diversa natura.
Un primo gruppo è ravvisabile nelle normali garanzie del credito, quando siano
attribuite al prestatore di lavoro nella sua qualità di titolare, appunto, di diritti di
credito. Viene, dunque, attribuita al lavoratore una posizione di preferenza (cioè una
causa legittima di prelazione) nel soddisfacimento sui beni del datore di lavoro. È
riconosciuto un privilegio generale sui mobili del debitore per “le retribuzioni
dovute sotto qualsiasi forma, ai prestatori di lavoro subordinato e tutte le indennità
dovute per effetto della cessazione del rapporto di lavoro, nonché il credito del
lavoratore per i danni conseguenti alla mancata corresponsione, da parte del datore
di lavoro, dei contributi previdenziali ed assicurativi obbligatori ed il credito per il
risarcimento del danno subito per effetto di un licenziamento inefficace, nullo o
annullabile”. Le norme sui privilegi trovano, comunque, applicazione nell’ipotesi del
fallimento o delle altre procedure concorsuali. Per tali ipotesi, infatti, in seguito ad
una direttiva dell’80, gli Stati membri sono stati obbligati a dotarsi di un sistema
assicurativo, in grado di sollevare i lavoratori dai rischi connessi all’insolvenza del
datore di lavoro; è stato, infatti istituito un fondo di garanzia per il T.F.R. avente lo
scopo di sostituirsi al datore di lavoro, non soltanto nel caso d’insolvenza, ma anche
nel caso di una semplice inadempienza di quest’ultimo, nel pagamento del t.f.r.
Un’ulteriore forma di garanzia dei crediti e, in generale, dei diritti del lavoratore, è
disposta dall’art. 2112 c.c., che disciplina gli effetti del trasferimento dell’azienda
sui rapporti di lavoro. Esso è stato oggetto di una specifica disciplina comunitaria
volta a tutelare i diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’impresa, di
stabilimenti o di parti d’imprese e stabilimenti. Il consiglio dell’U.E. è intervenuto tre
volte in materia con delle direttive risalenti al 1977, 1980 e 2001. la disciplina
prevista si articola, però, in due parti fondamentali:
1. la I° dedicata alla tutela dei diritti dei lavoratori, impone agli Stati membri, di
garantire, attraverso norme di diritto interno, che le posizioni soggettive,
relative ai rapporti di lavoro, intercorrenti con il cedente, si trasferiscono al
cessionario e il trasferimento in sé non sia considerato valido motivo di
licenziamento;
2. la II°, invece, impone agli Stati di adottare misure legislative, idonee a
consentire, in occasione di trasferimento, lo svolgimento di una procedura
d’9nformazione e consultazione sindacale.
Un altro e particolarmente importante aspetto del sistema delle garanzie dei diritti del
lavoratore subordinato è quello della facoltà di disposizione dei diritti attribuitigli.
La compressione, o addirittura, la soppressione, può esser resa necessaria
dall’esigenza di tutelare o un interesse pubblico oppure un interesse privato del
titolare stesso. A tal riguardo, si ricorda l’art. 2113 c.c. che è stato, però modificato
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nel 1973. La nuova legge, infatti, ha esteso il campo d’applicazione della norma ai
prestatori di lavoro autonomo, la cui opera prevalentemente personale abbia carattere
continuativo e coordinato all’impresa del datore di lavoro; ha prolungato il termine da
3 a 6 mesi del regime dell’impugnazione della rinunzia o transazione; ha previsto,
infine, la trasformazione dell’atto d’impugnazione da giudiziale a stragiudiziale.
L’art. 2113 c.c. dispone che: “non sono valide le rinunzie e le transazioni aventi ad
oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della
legge e dei contratti o accordi collettivi, concernenti i rapporti di lavoro subordinato,
oppure autonomo ed associato. L’impugnazione dev’essere proposta, a pena di
decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della
rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute, dopo la cessazione
medesima. Le rinunzie e le transazioni possono essere impugnate con qualsiasi atto
scritto, anche stragiudiziale del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà”. La
rinunzia è l’atto (negozio giuridico recettizio) tendente alla dismissione di un diritto
soggettivo da parte del titolare. La transazione è il contratto mediante il quale le
parti, facendosi reciproche concessioni, rimuovono una lite esistente o prevengono
una lite eventuale. Anziché affidare al giudice dello Stato o ad un arbitro, le parti,
rinunziando ciascuno a parte dell’originaria pretesa, compongono la lite mediante un
atto che è, per l’appunto, espressione dell’autonomia privata. A delicati problemi dà
luogo, poi, la cosiddetta rinunzia tacita, cioè derivante da una manifestazione
indiretta della volontà negoziale, una tale situazione sembra esclusa per i negozi
successivi alla cessazione del rapporto di lavoro, rispetto alle quali l’art. 2113 c.c., fa
decorrere il termine di decadenza dalla data del negozio. L’atto stragiudiziale
d’impugnazione deve essere in forma scritta, pena d’inefficacia con la funzione di
“comunicare al datore di lavoro la volontà del lavoratore di privare il negozio di
rinunzia o transazione della sua efficacia”: si tratta, dunque, di una dichiarazione
unilaterale di volontà recettizio. L’invalidità deve, comunque essere sempre
dichiarata dal giudice. L’oggetto dell’impugnazione e della successiva azione di
annullamento, è la “restituzione”, o quanto meno, la “riparazione” di diritti lesi, in
conseguenza del negozio invalido. L’atto stragiudiziale tempestivamente proposto, da
un lato impedisce la decadenza dell’azione e, dall’altro, apre un periodo, durante il
quale l’efficacia del negozio di rinunzia o transazione è provvisoria. L’invalidità
disposta dall’art. 2113 c.c. è pur sempre da riportare al “principio dell’inderogabilità”
del regolamento contrattuale collettivo, infatti, per mezzo dell’effetto
dell’annullabilità, all’autonomia negoziale del prestatore di lavoro viene imposto un
limite rappresentato dal minimo inderogabile di trattamento economico e normativo.
Di conseguenza, si ha una limitazione non totale ma soltanto parziale della facoltà di
disposizione dei diritti soggettivi attribuiti alla titolarità del lavoratore. In tal senso la
norma dell’art. 2113 c.c. funge da garanzia di livelli minimi imposti, a pena di nullità,
dalle norme imperative. Il comma 4° dello stesso art., però, dispone che: “sono
valide, e perciò non impugnabili, le rinunzie e le transazioni intervenute in sede di
conciliazione delle controversie individuali. In tale sede (che può essere sia
giudiziale, sia amministrativa o sindacale) la disposizione dei diritti avviene con
l’assistenza dell’organo conciliatore”. La “Ratio” della limitazione disposta dall’art.
2113 c.c. è comunque, da ravvisare nella situazione di inferiorità del prestatore, nella
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sua qualità di contraente debole. Al sindacato non si può riconoscere un potere
collettivo di disposizione dei diritti del singolo lavoratore. Per tanto le cosiddette
transazioni collettive, concluse dal sindacato nell’interesse di più lavoratori, ma in
assenza di uno specifico mandato conferito da questi ultimi, necessitano dell’adesione
individuale nella forma della ratifica o in forma equivalente. Esistono, poi, le
cosiddette quietanze a saldo (o liberatorie), cioè delle dichiarazioni rilasciate dal
lavoratore di aver ricevuto alcunché, con l’ulteriore dichiarazione di rinuncia ad ogni
eventuale futura pretesa. Esse sono, però, poco rilevanti perché non possono fornire
la prova documentale di un’eventuale rinunzia o transazione e si è, quindi, esclusa
l’applicabilità dell’art. 2113 c.c., a simili atti, qualificati come semplici
“dichiarazioni” sottratte all’essere della tempestiva impugnazione. Secondo la
disciplina codicistica, i diritti del prestatore di lavoro sono, di regola, sottratti alla
prescrizione ordinaria decennale e sottoposti, nella loro tipica qualità di crediti di
natura retributiva, sia periodica che differita, alla prescrizione quinquennale disposta
dall’art. 2948 c.c. concernente, in genere, “tutto ciò che deve essere pagato
periodicamente ad anno o in termini più brevi, nonché, specificamente, le indennità
spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro”. L’operatività della prescrizione
ordinaria deve considerarsi situazione eccezionale, verificabile nei casi in cui dal
rapporto derivino al prestatore di lavoro diritti diversi da quello alla retribuzione
(risarcimento del danno contrattuale); analogamente, in materia di risarcimento del
danno per il mancato versamento dei contributi assicurativi il termine di prescrizione
è quello decennale, con decorrenza dal verificarsi dell’evento dannoso. Alla
prescrizione estintiva dei diritti, si aggiunge, poi, lo speciale regime della
prescrizione presuntiva, la quale fa salva la prova contraria, limitata alla confessione
giudiziale o al giuramento decisorio, forniti dalla controparte, del pagamento del
debito. Tale prescrizione è di un anno per il diritto dei prestatori di lavoro alle
retribuzioni corrisposte a periodi non superiori ad un mese e di tre anni per quelle
corrisposte a periodi di oltre un mese. Il “regime” della prescrizione è inderogabile ed
irrinunciabile e il suo “effetto” può essere considerato sostanzialmente “equivalente”
all’effetto dismissivo, proprio della rinunzia e della transazione a vantaggio del
datore di lavoro. La prescrizione è, dunque, un modo generale di estinzione dei
diritti per mancato esercizio da parte del titolare, durante il periodo di tempo
indicato dalla legge. La sua decorrenza indica il momento, a partire del quale il
mancato esercizio del diritto acquista rilevanza: da quel momento inizia a computarsi
il periodo di tempo, determinato dalla legge e alla fine del quale si avrà l’estinzione
del diritto. C’è differenza tra sospensione ed interruzione della prescrizione: nel I°
caso, il mancato esercizio del diritto perde temporaneamente rilievo e, dopo la
cessazione temporanea, la prescrizione riprenderà dal punto in cui si era fermato; nel
II° caso inizia un nuovo periodo di prescrizione ed il tempo decorso prima
dell’interruzione perde rilevanza definitivamente. La decadenza è l’istituto in virtù
del quale, come prevede l’art. 2964 c.c., l’esercizio di un diritto viene sottoposto ad
un termine perentorio. Diversamente dalla prescrizione, essa produce la preclusione
dell’esercizio del potere da parte del suo titolare, e non la perdita del diritto. La
decadenza può essere legale o contrattuale, a seconda che il relativo termine sia
fissato dalla legge o da contratto dell’autonomia privata. Quindi:
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 prescrizione: perdita o acquisto di un diritto per decorso del termine;
 decadenza: perdita di un diritto perché non esercitato entro un dato
termine.
Ance la decadenza e la prescrizione possono essere considerate come un’indiretta
abdicazione delle posizioni soggettive di vantaggio garantite dalla legge e dai
contratti collettivi al prestatore di lavoro. La giurisprudenza della Corte
Costituzionale si è assunta il compito di rendere esplicito il principio della
disponibilità limitata dei diritti del lavoratore anche in tema di prescrizione e
decadenza, che il codice civile aveva lasciato operare secondo il regime normale nei
confronti dei diritti del lavoratore. A tal proposito, si ricordi la storica sentenza n.
63/’66 con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di alcuni
articoli del codice civile “limitatamente alla parte in cui consentono che la
prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro”. La
Corte ha argomentato il timore, di perdere il posto, del lavoratore, sostenendo che
durante il rapporto di lavoro egli si trova in una situazione di soggezione, almeno
psicologica, da impedirgli l’esercizio pieno dei suoi diritti; il lavoratore potrà sempre
reclamare il soddisfacimento dei propri diritti, rivendicandone l’attuazione anche
dopo molti anni. Le garanzie di tipo strumentale, cioè relative all’attuazione dei
diritti del prestatore di lavoro, prevedono che la composizione delle controversie
individuali di lavoro, possa essere in forma tanto giudiziale quanto stragiudiziale. La
conciliazione giudiziale può avvenire in ogni momento del processo su iniziativa del
giudice, il quale è tenuto a tentarla sin dai primi momenti del giudizio; qualora venga
raggiunta, ha efficacia di titolo esecutivo. La conciliazione stragiudiziale è quella
tentata in sede amministrativa o sindacale. L’arbitrato è un istituto per mezzo del
quale le parti pervengono alla controversia attraverso il deferimento, ad un 3°, del
potere di decisione. Esso può essere, però, rituale se si svolge come un vero e proprio
giudizio, secondo delle norme stabilite dalle stesse parti nel compromesso; o irritale
quando le parti rimettono all’arbitro la composizione della controversia in via
negoziale e non giurisdizionale.
Rapporti speciali di lavoro
La previsione dei rapporti speciali di lavoro trae la sua giustificazione dall’esigenza
di differenziare la disciplina del rapporto in relazione alle caratteristiche specifiche
dell’attività lavorative. Tra i rapporti speciali, vi è quello del personale addetto alla
navigazione marittima e della gente dell’aria, che trova la sua disciplina nel codice
della navigazione. Le imprese che esercitano l’attività di navigazione marittima ed
aerea sono sottoposte ad una speciale disciplina. L’assunzione deve avvenire
mediante stipulazione formale (atto pubblico, davanti all’autorità marittima per il
contratto di arruolamento; forma scritta per il personale di volo) ed è subordinata
all’iscrizione in appositi albi o registri, dai quali risulta la certificazione dell’idoneità
al servizio o abilitazione professionale. In entrambi i casi, poi, è prevista la
sottoposizione al potere gerarchico e disciplinare del comandante e prima ancora,
dell’autorità pubblica, la quale può ordinare, in certi casi, lo sbarco dell’arruolato. Per
28
quanto riguarda il trattamento economico: il lavoratore nautico ha diritto alla
retribuzione in ogni caso di sospensione del servizio per malattia o lesione; al
mantenimento a bordo della nave con la prosecuzione della stessa retribuzione, fino
all’integrale soddisfazione, nel caso di retribuzione maturate insoddisfatte.
Rapporti speciali di lavoro caratterizzati dalla tipicità della posizione del datore
e/o del prestatore di lavoro
Nel lavoro a domicilio si riscontra il cosiddetto “decentramento” dell’attività
imprenditoriale, cioè una parte della forza-lavoro, utilizzata dall’impresa. La
prestazione di lavoro è eseguita all’esterno dell’impresa, nel domicilio o in altro
locale predisposto dal lavoratore. La giurisprudenza è solita distinguere tra lavoro a
domicilio cosiddetto autonomo e lavoro a domicilio cosiddetto subordinato. Nel
lavoro a domicilio autonomo, l’attività è svolta dal prestatore secondo modalità di
piena autonomia e senza vincolo di subordinazione e senza alcuna relazione con
un’attività imprenditoriale esterna; viceversa, nel lavoro a domicilio subordinato
l’attività del prestatore presenta un collegamento tecnico ed economico, stabile con il
ciclo produttivo dell’impresa committente. Il fenomeno è guardato con sfavore dal
legislatore, in quanto il ricorso al rapporto è ritenuto pregiudizievole agli interessi del
lavoratore: sia per quanto riguarda il trattamento minimo stabilito dalle leggi, sia per
le condizioni stesse, in cui viene eseguito il lavoro. La disciplina del lavoro a
domicilio, è contenuto nella Legge n. 877/ ’73. La legge concerne il lavoro
subordinato a domicilio, mentre il lavoro autonomo a domicilio resta fuori dalla
disciplina. L’art. 1 comma I° della Legge definisce “lavoratore a domicilio: chiunque,
con vincolo di subordinazione, esegue nel proprio domicilio o in locale di cui abbia
disponibilità, anche con l’aiuto accessorio di membri della sua famiglia conviventi e
a carico, ma con esecuzione di manodopera salariata e di apprendisti, lavoro
retribuito per conto di uno o più imprenditori, utilizzando materie prime o accessorie
e attrezzature proprie o dello stesso imprenditore, anche se fornite per il tramite di
terzi”. Il comma II° dello stesso articolo 1 afferma che: “La subordinazione ricorre
quando il lavoratore a domicilio è tenuto ad osservare le direttive dell’imprenditore,
circa le modalità di esecuzione, le caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere
nell’esecuzione parziale, nel completamento o nell’intera lavorazione di prodotti
dell’attività dell’imprenditore committente”. In ogni caso il datore di lavoro
dev’essere un imprenditore: diversamente non può esservi lavoro a domicilio ma
lavoro autonomo. Per quanto riguarda la prestazione, si esclude l’ammissibilità
dell’esecuzione di lavoro a domicilio per attività che comportino l’impiego di
sostanze o materiali nocivi o pericolosi per la salute o l’incolumità del lavoratore e
dei suoi familiari; è, inoltre vietato affidare lavoro a domicilio per la durata di un
anno a tutte quelle aziende che abbiano disposto dei licenziamenti o delle sospensioni
dal lavoro. Non essendo possibile la determinazione dell’orario di lavoro, risulta
impraticabile il sistema di retribuzione a tempo, ma a cottimo pieno, che fa
riferimento alla quantità prodotta. Il lavoratore a domicilio è obbligato ad astenersi da
attività concorrenziali in danno all’imprenditore. Per il collocamento è prevista
l’istituzione di appositi registri dei lavoratori a domicilio e dei datori di lavoro che
intendono commettere lavoro a domicilio.
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Il rapporto di lavoro domestico è caratterizzato da una prestazione eseguita
nell’abitazione del datore di lavoro, o, meglio, in convivenza familiare con lo stesso.
Il codice civile disciplina questo rapporto con una serie di norme (artt. 2240…2246)
che, peraltro, sono state in gran parte derogate dalla Legge 2 aprile 1958 n. 339. In
particolare la Legge ha svolto per lungo tempo una funzione parzialmente sostitutiva
della contrattazione collettiva che, in tale settore è recente (anni ’70); si tratta di due
discipline, quindi, che si integrano a vicenda. Poiché esso consiste nell’attività
lavorativa, a vantaggio dell’organizzazione familiare, il datore di lavoro ha, quindi,
l’obbligo di corrispondere oltre la retribuzione in danaro, anche vitto, alloggio e, in
più, le cure e l’assistenza medica, in caso di malattia del lavoratore. Esso ha diritto al
riposo settimanale; a delle limitazioni dell’orario di lavoro e di chiedere al datore di
rispettare gli obblighi di tutela della salute e sicurezza del lavoratore.
Il lavoro sportivo è quello che intercorre tra società sportive e gli sportivi
professionisti. Tale lavoro è disciplinato dalla Legge n. 91/’81 che definisce “sportivi
professionisti”: gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnici corporativi ed i preparatori
degli atleti; che esercitano l’attività sportiva con continuità, nell’ambito delle
discipline regolamentate dal CONI, con l’osservanza delle direttive stabilite dal
CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica”. Il
lavoro sportivo è subordinato se la prestazione e continuativa nel tempo; è
autonomo se l’attività sia svolta nell’ambito di una singola manifestazione, se l’atleta
non è contrattualmente vincolato nella frequenza a sedute di preparazione o
allenamento, se la prestazione (pur essendo continuativa) non superi le 8 ore
settimanali o i 5 giorni mensili o i 30 annuali. Il contratto deve essere stipulato in
forma scritta, a pena di nullità e può contenere clausole che stabiliscono l’obbligo
dello sportivo a rispettare istruzioni tecniche o che rimandano le controversie tra
sportivo e società ad un collegio arbitrale; non può contenere, invece, clausole
limitative della libertà professionale dello sportivo. La durata è determinata, ma non
può superare i cinque anni, se non per il rinnovo del contratto di stessa durata o
diversa. Il contratto di apprendistato (o tirocinio) ha origini antiche, cioè risale alle
corporazioni medioevali in cui c’era l’apprendista, colui che aspira mediante il
tirocinio, a diventare socio o ad occupare la stessa posizione del maestro. Mentre in
passato, dunque, l’apprendistato aveva la funzione di preparare l’ingresso delle nuove
leve in un’organizzazione professionale, nella realtà odierna, invece, ha la funzione di
impiegare i giovani che acquistano, come qualifica preliminare, quella di apprendisti
e, dopo un certo periodo di tempo, una qualifica contrattuale definitiva, godendo (le
imprese) di un alleggerimento del costo del lavoro (minore retribuzione e ridotti
contributi previdenziali). Esso è disciplinato sia dal codice civile che dalla Legge n.
25/’55, da cui si ricava che l’apprendistato è un rapporto speciale di lavoro, nel
quale l’imprenditore è obbligato ad impartire al giovane apprendista l’insegnamento
necessario affinché questi possa conseguire le capacità tecniche per diventare
lavoratore, qualificato, utilizzandone l’attività lavorativa nella sua impresa. Il
giovane, assunto con contratto di apprendistato, deve avere un’età compresa tra i 16 e
24 anni, fino a 29 (per le qualifiche di alto contenuto professionale). La durata di tale
rapporto non può superare quella fissata dai contratti collettivi e, comunque, i 4 anni.
Gli aspiranti apprendisti devono iscriversi in appositi elenchi presso i centri per
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l’impiego, autorizzati per l’assunzione dalla direzione provinciale del lavoro, dopo
una visita sanitaria. Gli obblighi del datore sono: la retribuzione, la concessione di
permessi per frequentare i corsi d’insegnamento complementari e sostenere i relativi
esami, di non impiegare il lavoratore a mansioni che siano superiori alle sue forze
fisiche o che siano retribuite a cottimo (o comunque ad incentivo). Il lavoro non può
superare le 8 ore giornaliere o le 44 settimanali e non può essere notturno. Gli
obblighi dell’apprendista sono di: prestare la propria opera con diligenza, seguire le
disposizioni impartite dall’imprenditore, frequentare sempre i corsi d’insegnamento
complementari le cui ore sono comunque retribuite. Al termine del periodo di
tirocinio è prevista una prova d’idoneità all’esercizio del mestiere, consistente in un
esame, davanti una commissione provinciale per ottenere l’attestato del tirocinio
compiuto. La disciplina è stata riformata nel ’97 con la legge n. 196, con
l’introduzione di una serie di incentivi, per favorirne un uso corretto da parte delle
imprese, e di una figura in particolare, quella del tutore, cioè un lavoratore esperto
che supporti l’attività formativa dell’apprendista.
L’attuale contratto di formazione lavoro (c.f.L) è il risultato di un’evoluzione
legislativa succedutasi negli ultimi 20 anni, dalla fine degli anni ’70 ai tempi più
recenti, che lo hanno definito come “contratto di lavoro a finalità formative,
utilizzato soprattutto per il reclutamento dei giovani lavoratori”. La disciplina
vigente è quella della Legge n. 726/’84 anche se riformata nel ’94: con tale contratto
possono assumersi lavoratori di età compresa tra i 16 e i 32 anni e possono stipularsi
contratti di formazione e lavoro, appartenenti a due tipologie: da un lato il contratto di
formazione lavoro “per l’acquisizione di professionalità intermedie o elevate”, nel
quale è prevalente una funzione formativa e, dall’altro, il contratto di formazione
lavoro “per agevolare l’inserimento professionale del giovane”, nel quale è
prevalente una funzione promozionale dell’occupazione giovanile nell’impresa,
purché si tratti di giovani in possesso di specifico titolo di studio richiesto. La durata
massima dei due tipi di contratto non può essere superiore ai 24 mesi nel I° caso ed i
12 mesi nel II° caso. Presupposto per la stipulazione del contratto di formazione
lavoro è la predisposizione, da parte dell’impresa ai cosiddetti “progetti formativi”
approvati dal Ministero del lavoro, nei quali devono essere rispettati i principi di non
discriminazione tra donne e uomini. Esso dev’essere stipulato in forma scritta, in
mancanza della quale, il lavoratore s’intenderà assunto con contratto a tempo
indeterminato. Vengono effettuati controlli da parte della direzione provinciale e in
caso di mancato adempimento dei propri obblighi, il datore perderà i benefici previsti
dalla legge (agevolazioni fiscali , minori oneri contributivi). In caso di trasformazione
del rapporto di formazione e lavoro in rapporto a tempo indeterminato, il periodo di
formazione sarà computato ai fini dell’anzianità di servizio. Anche per il contratto di
formazione lavoro è ammesso il patto di prova.
Mercato del lavoro
La disciplina del “mercato del lavoro” lo scopo di proteggere i lavoratori dal rischio
della disoccupazione rimuovendo, o comunque, attenuando i fattori che ostacolano le
assunzioni al lavoro e la mobilità da un impiego ad un altro. Di regola, il datore di
lavoro non è libero di scegliere il lavoratore da assumere perché deve, invece,
31
avvalersi dell’intermediazione di appositi uffici del Ministero del Lavoro, situati in
ogni comune: gli Uffici di collocamento. Ad essi è affidato il compito di raccogliere,
in apposite liste, i nominativi dei soggetti, in cerca di occupazione ordinabili in base
alle diverse: categorie, qualifiche professionali e condizioni di bisogno. Dopo la
caduta dell’ordinamento corporativo, si affermò il principio del monopolio statale
della collocazione dei lavoratori e quello della cosiddetta richiesta numerica da
parte delle imprese. Esse indicavano il numero dei lavoratori da assumere e delle loro
categorie e qualifiche professionali agli uffici di collocamento. Nel ’91, a causa delle
nuove esigenze socio-economiche, si affermò, invece, l’assunzione per richiesta
nominativa, che prevedeva l’indicazione nominativa del lavoratore da assumere.
Tale richiesta era, però, subordinata all’obbligo dei datori di lavoro con più di 10
dipendenti, di riservare il 12% dei posti liberi, ai lavoratori delle fasce deboli o
svantaggiate. In caso di mancato rispetto di tale riserva, l’assunzione nominativa era
vietata, e si procedeva con l’assunzione numerica. Nel 1996 venne, poi, introdotta
l’assunzione diretta senza, cioè, il ricorso al collocamento; il datore di lavoro deve,
però, comunicare immediatamente l’assunzione all’ufficio di collocamento
competente. Con il D. lgs. n. 469 del 1997: il Governo ha conferito alle regioni e agli
enti locali le funzioni ed i compiti di coordinamento del mercato del lavoro; gli uffici
periferici del Ministero del Lavoro sono stati sostituiti dai cosiddetti centri d’impiego;
sono state istituite le commissioni (regionali e provinciali) per le politiche del lavoro
con competenze in materia di mercato del lavoro. Attualmente vige la regola
dell’assunzione diretta di tutti i lavoratori, con il solo vincolo, per i datori di lavoro,
di inviare al centro per l’impiego competente, i dati relativi al trattamento economico
e normativo del lavoratore. Una simile dichiarazione dev’essere consegnata anche a
quest’ultimo per evitare sanzioni amministrative. La legge tuttora prevede l’iscrizione
dei lavoratori nelle liste di collocamento, presso il centro per l’impiego del comune
di residenza, e la distinzione degli iscritti in tre classi d’iscrizione: la 1° per i
lavoratori disoccupati; la 2° per i lavoratori occupati in cerca di un diverso impiego;
la 3° per i titolari di trattamenti pensionistici di anzianità o vecchiaia che aspirino ad
un’occupazione. Recentemente, anche per il settore agricolo vale la norma
dell’assunzione diretta. Una specifica disciplina è stata, poi, introdotta per
l’occupazione dei lavoratori extra comunitari e i disabili. Per quanto riguarda i
primi possono soggiornare in Italia per un anno ai fini dell’inserimento nel mercato
del lavoro, purché dotati di una prestazione di garanzia da parte di un cittadino
italiano (o straniero regolarmente soggiornante in Italia) ha dimostri di poter
assicurare allo straniero alloggio, copertura dei costi per il sostentamento ed
assistenza sanitaria. Per quanto riguarda i secondi, questi possono essere assunti in
determinate percentuali stabilite da una Legge del ’99 e, cioè, il 7%. Hanno diritto al
trattamento economico e normativo previsto dalle leggi e dai contratti collettivi; e a
adempiere a mansioni compatibili con le loro minorazioni. Possono essere licenziati
solo per giusta causa o giustificato motivo o per riduzione di personale, comunicando
dell’avvenuta risoluzione del rapporto agli uffici competenti. I datori di lavoro che
non sono in grado di occupare l’intera percentuale di disabili cui sarebbero tenuti,
possono richiedere un parziale esonero, pagando, però, un contributo esonerativi, per
ogni disabile non assunto, al Fondo regionale per l’occupazione dei disabili.
La disciplina della domanda di lavoro flessibile
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La cosiddetta domanda flessibile di lavoro è da ricollegarsi all’intervento del
legislatore, diretto a tutelare l’interesse del lavoratore alla continuità e alla stabilità
dell’occupazione, dettando una disciplina volta a restringere l’autonomia negoziale
delle arti nella formazione ed esecuzione del contratto (la cosiddetta legislazione
antifraudolenta). Nel contratto di lavoro determinato l’esigenza dell’utilizzazione
flessibile del lavoro viene soddisfatta mediante l’apposizione di un termine finale alla
durata del contratto, che viene fissata dai due contraenti. Sia l’art. 2097 c.c. che la
Legge n. 230/’62, che aveva abrogato questo, prevedevano l’obbligo delle parti di
apporre il termine, di durata del rapporto di lavoro, in un atto scritto, per evitare, in
caso contrario, di rendere inefficace il termine e rendere il contratto a tempo
indeterminato. La Legge prevedeva delle ipotesi in cui era possibile tale contratto:
 quando il termine è richiesto dalla speciale natura del lavoro (lavoro
stagionale);
 nel caso di sostituzione di lavoratori assenti, con diritto alla conservazione del
posto;
 nel caso di aziende di trasporto aereo o aereoportuali;
 quando il termine è previsto da specifici contratti di lavoro, stipulati con i
sindacati nazionali, ecc..
Al di fuori di tali ipotesi, il contratto si trasforma in rapporto a tempo indeterminato e
la risoluzione alla scadenza del termine illegittimo sarà invalido e, come tale,
sottoposto alla disciplina generale del licenziamento (preavviso e sussistenza di
giusta causa o giustificato motivo). Nel 2001 con il D. lgs. n. 368 si affermò il
principio per cui “l’apposizione del termine è consentito a fronte di ragioni di
carattere tecnico-produttivo, organizzativo e sostitutivo”. Le nuove ragioni
giustificatrici di tale lavoro sono, dunque, più numerose e individuate concretamente
dalle parti, anche se scelte dai datori. Sul datore incombe l’onere della prova di tale
causa o ragione giustificatrice, mentre il giudice deve controllare l’esistenza della
stessa. Il termine e le specifiche ragioni giustificatrici dell’applicazione di tale
contratto devono risultare da atto scritto per evitare, altrimenti, l’inefficacia del
termine e la trasformazione in tempo indeterminato del contratto. Le ipotesi escluse,
perché sottoposte a propria disciplina sono:
 contratto per prestazioni lavorative temporanee;
 contratto di formazione lavoro o di apprendistato o per lavoro relativo al
turismo;
 contratti relativi al lavoro di trasporto aereo o aereoportuale, ecc.;
 unità produttive sottoposte a procedure di licenziamento collettivo.
È possibile una proroga del termine, per una sola volta, di durata di tre anni quando
richiesta per “ragioni oggettive o comunque relative alla stessa attività lavorativa”.
Tali ragioni devono essere provate dal datore altrimenti, in caso di proroga è, però, la
continuazione del rapporto oltre il termine prorogato e non più di una durata di 30
giorni. Per disincentivare la continuazione del rapporto, è prevista una maggiorazione
della retribuzione, del 20% (per i primi 10 giorni) e del 40% (per i rimanenti fino a
33
30). Il D. lgs. n. 368 ha enunciato anche la regola dell’uniformità di trattamento
economico e normativo, precisando che ai lavoratori assunti a tempo determinato
sono dovute: “le ferie, la 13°, il T.F.R., e ogni altro trattamento in atto nell’impresa,
in proporzione al lavoro prestato e la natura del contratto”. In caso di mancato
rispetto di tali trattamenti, al datore di lavoro, saranno applicate delle sanzioni
amministrative pecuniarie. Sono i contratti collettivi nazionali a stabilire le modalità
circa il ricorso ai contratti a termine nelle aziende e dei posti vacanti disponibili
nell’impresa. Il fenomeno dell’intermediazione ed interposizione nel rapporto di
lavoro è caratterizzato dalla presenza di un soggetto 3° intermediario tra i prestatori di
lavoro e le imprese utilizzatrici. L’obiettivo è quello di utilizzare la manodopera
assunta formalmente da terzi, comprimendo il costo del lavoro, ed evitando di
assumere, in via diretta, il personale occorrente per lavoro marginali occasionali o
temporanei. La materia dell’intermediazione ed interposizione nel rapporto di lavoro
è, ancora oggi, disciplinata dalla Legge n. 1369/’60 che ne vieta ogni forma,
definendola come “l’affidamento (da parte del datore di lavoro) ad intermediari di
lavori da eseguirsi a cottimo, da prestatori di opere assunti e retribuiti da tali
intermediari”. La sanzione prevista, in caso di mancato rispetto del divieto, a carico
dell’imprenditore, quanto dall’intermediario, è penale. La Legge distingue gli appalti
esterni da quelli interni, e prevede in entrambi i casi che i lavoratori dipendenti
dall’appaltatore possono proporre azione diretta contro il committente per conseguire
quanto è loro dovuto fino all’estinzione del debito che il committente ha verso
l’appaltatore nel tempo in cui propongono la domanda. Nel caso di comando o
distacco il dipendente viene comandato dal datore di lavoro a prestare servizio presso
un 3°, che diviene così il destinatario della prestazione di lavoro e può essere, quindi,
legittimata ad esercitare taluni poteri disciplinari e di controllo sul dipendente,
nonché ad adempiere taluni obblighi nei suoi confronti, per es. la retribuzione. Si
parla, a riguardo, di “prestito” del dipendente che però, è temporaneo, altrimenti
sarebbe una cessione definitiva del contratto di lavoro. Nel caso di prestazione di
lavoro nelle società collegate (cioè le società nelle quali un’altra società esercita
un’influenza notevole), con l’introduzione di una direttiva comunitaria, si è stabilito
che nel caso in cui ciò avvenga, a livello comunitario, il lavoratore “distaccato” in un
altro Stato membro dell’U.E. deve godere dello stesso trattamento previsto dal suo
Stato di provenienza. La Legge n. 196/’97 ha introdotto il cosiddetto lavoro
interinale (o lavoro in affitto o fornitura di lavoro temporaneo), consistente nella
relazione trilaterale in base alla quale un’agenzia intermediatrice (o impresa
fornitrice) invia temporaneamente un lavoratore da essa stessa assunto, presso un 3°
(utilizzatore) per effettuare una prestazione di lavoro a disposizione di quest’ultimo.
Con esso si ha la messa a disposizione di uno o più lavoratori assunti dall’impresa
fornitrice affinché svolgano la prestazione nell’interesse di un altro datore di lavoro e
sotto la direzione di quest’ultimo. Esso è diverso sia dall’appalto che dalla
mediazione, rivolta ad agevolare l’incontro tra l’offerta e la domanda di lavoro,
mediante l’intervento di un 3°. L’attività di fornitura è consentita solo a soggetti
abilitati, mediante un’autorizzazione rilasciata dal Ministero del Lavoro, previo
accertamento della sussistenza di requisiti. Essa è sottoposta, però, a controlli
amministrativi, affinché si svolga nel rispetto della disciplina legale. Nessuna
34
condizione, invece, è prevista per i soggetti utilizzatori. Per quanto riguarda i limiti,
si ricordi che, tale lavoro è consentito solo “per il soddisfacimento di esigenze
temporanee” del soggetto utilizzatore, cioè è previsto in due ipotesi:
 temporanea utilizzazione di qualifiche non previste dai normali assetti
produttivi aziendali;
 sostituzione di lavoratori assenti.
Le ipotesi escluse a tale lavoro sono:
 sostituzione dei lavoratori in sciopero;
 unità produttive in cui si stia procedendo a licenziamenti collettivi;
 lavoratori pericolosi o che richiedono una speciale sorveglianza medica;
 settori agricoli o edili.
La relazione trilaterale è articolata su due rapporti contrattuali:
 “contratto di fornitura di lavoro temporaneo” tra l’impresa fornitrice e il 3°
(impresa utilizzatrice);
 “contratto a prestazioni di lavoro determinato”, anche se i lavoratori
possono essere assunti a tempo determinato o indeterminato dall’impresa
fornitrice, mediante il contratto per prestazioni di lavoro temporaneo, ed
invitati, per la durata della prestazione, presso l’impresa utilizzatrice.
Entrambi i contratti richiedono la forma scritta; il 1°, deve essere inviato in copia
all’autorità amministrativa, entro 10 giorni dalla stipulazione. Il contratto deve
contenere: l’autorizzazione dell’impresa fornitrice, il numero dei lavoratori richiesti,
le mansioni alle quali saranno adibiti, il luogo, l’orario ed il trattamento economico e
normativo che sarà loro riconosciuto, la data d’inizio e il termine del contratto per
prestazioni di lavoro temporaneo. Il 2° deve contenere: i motivi di ricorso alla
fornitura, l’indicazione dell’impresa utilizzatrice e dell’impresa fornitrice, le
mansioni alle quali il lavoratore sarà adibito, l’eventuale periodo di prova, l’orario e il
trattamento, la data d’inizio ed il termine dell’attività presso l’impresa utilizzatrice.
Sono le due imprese a decidere se l’assunzione del lavoratore debba avvenire per
contratto a tempo determinato o indeterminato. Egli, comunque, è tenuto a: svolgere
la propria attività durante il periodo di assegnazione presso l’impresa utilizzatrice,
nell’interesse e sotto la direzione ed il controllo di quest’ultima, seguire le istruzioni
impartite dall’impresa utilizzatrice. La retribuzione resta a carico dell’impresa
fornitrice secondo le modalità del contratto e solo in caso di inadempienza
dell’impresa utilizzatrice. Nel caso in cui il lavoratore interinale sia stato assunto a
tempo indeterminato può restare, negli intervalli tra una missione e l’altra, a
disposizione dell’impresa fornitrice, disponendo per tali periodi, dell’indennità di
disponibilità, stabilito dai contratti collettivi, comunque, diverso dalla retribuzione. Il
lavoratore ha diritto a tutti i servizi sociali ed assistenziali di cui godono i dipendenti
dell’impresa utilizzatrice, mentre la facoltà di licenziare è attribuita all’impresa
fornitrice. Per quanto riguarda le sanzioni sono penali e civili per entrambe le
imprese, in caso di esercizio delle proprie attività senza autorizzazione. In caso di
continuazione, oltre il termine stabilito, è corrisposta una maggiorazione del 10% per
ciascun giorno in più, che non può andare oltre il 10%, altrimenti il lavoratore sarà
considerato, a tutti gli effetti, dipendente a tempo indeterminato dell’utilizzatore. Il
part-time (o lavoro a tempo parziale) è quello effettuato regolarmente durante una
35
parte del giorno o della settimana in misura inferiore alla durata normale del lavoro.
La nuova disciplina del 2000 ha modificato quella dell’84 ed ha stabilito che il
contratto:  deve basarsi sul principio di non discriminazione nel trattamento tra i
lavoratori a tempo pieno e a part-time,  può essere modificato da a tempo pieno a
tempo parziale (purché risulti da un atto scritto),  sia in forma scritta e il cui
contenuto sia portato a conoscenza, dal datore, mediante copia, dalla Direzione
provinciale del lavoro,  possa contenere una “clausola elastica” per modificare le
mansioni (e quindi la retribuzione) originariamente stabilite, contenga il “diritto di
ripensamento” a ciò, purché comprovato da ragioni scritte e  può essere anche
straordinario e notturno. Il part-time può essere orizzontale (in cui la riduzione
dell’orario è prevista in relazione all’orario normale giornaliero), verticale (in cui
l’attività lavorativa giornaliera è svolta a tempo pieno ma solo per periodi
predeterminati nel corso della settimana, del mese o dell’anno) e misto (il quale si
svolge secondo una combinazione di quello orizzontale e verticale).
Le eccedenze di personale e la tutela dell’occupazione
Nell’ambito della tutela dell’occupazione, un rilievo notevole assume il fenomeno
dell’eccedenza e della riduzione di personale nelle imprese. Nel caso di eccedenze
di personale viene in rilievo proprio la “contraddizione”, esistente nella società tra la
disoccupazione e l’esigenza di garantire non solo la conservazione, ma anche il
miglioramento dei livelli di reddito e di occupazione dei lavoratori che si offrono sul
mercato. Proprio perché la disciplina delle eccedenze di manodopera è, dunque, una
materia cruciale (nella quale si confrontano gli interessi confliggenti all’occupazione,
da un lato, ed all’esercizio dell’attività economica dall’altro) ci sono stati diversi
interventi legislativi, che hanno cercato di regolarla, adeguandola ai cambiamenti
progressivi dell’ambito socio-economico. La disciplina delle eccedenze si è evoluta
in 3 fasi, che vanno dall’immediato dopoguerra, fino ai giorni nostri:
 La prima fase: inizia con la soppressione del blocco dei licenziamenti e
l’istituzione (1945) della “gestione ordinaria” della Cassa integrazione
guadagni (CIG) e colloca la previsione dei licenziamenti collettivi, per la
riduzione di personale, nell’ambito esclusivamente contrattuale della
disciplina interconfederale, accanto a quella dei licenziamenti individuali.
 Nella seconda fase: successiva alla Legge n. 604/’66, sui licenziamenti
individuali, si pone innanzitutto il problema della delimitazione dell’ambito di
applicazione della disciplina contrattuale di licenziamenti collettivi, la quale
stabiliva essenzialmente oneri di tipo procedurale, rispetto a quello della
disciplina legale limitativa dei licenziamenti individuali. Nel contempo, a
seguito dell’introduzione nel 1968 della “gestione straordinaria” della CIG, si
sviluppa, a partire della prima metà degli anni ’70, una generalizzazione
dell’uso della CIG come strumento d’intervento di lunga durata a sostegno del
reddito dei lavoratori, in quanto tale alternativa ai licenziamenti.
 La terza fase: è quella aperta dalla Legge n. 223/’91, nella quale si assiste ad
una risistemazione della normativa sull’intervento straordinario della CIG, il
quale viene ricondotto alla funzione di strumento di sostegno dei processi di
ristrutturazione industriale, laddove la disciplina sull’intervento ordinario della
CIG viene conservata sostanzialmente immutata, e dunque, con le sue
originarie funzioni. Inoltre si procede ad una “legislazione” della materia dei
licenziamenti collettivi, i quali ritornano ad essere lo strumento, configurato
come normale dalla legge, da utilizzare nelle ipotesi di eccedenze definitive di
personale.
Sospensione del rapporto di lavoro
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Ci sono dei casi imputabili al lavoratore o al datore di lavoro in cui il rapporto di
lavoro viene temporaneamente sospeso. La sospensione “per fatto del lavoratore” si
verifica, cioè, nel caso di malattia, infortunio sul lavoro, sciopero, gravidanza,
servizio militare, l’adempimento di funzioni pubbliche elettive, ecc. Durante pale
periodo il lavoratore ha diritto al mantenimento del posto di lavoro e, a volte, della
retribuzione. La sospensione “per fatto del datore di lavoro” si verifica
principalmente per fatti dipendenti dalle vicende dell’attività produttiva. La
“sospensione dell’attività produttiva” avviene quando l’attività produttiva viene
sospesa per caso fortuito o forza maggiore, non riconducibile all’imprenditore
(interruzione dell’energia elettrica, mancanza di materie prime, ecc.). In tal caso, i
contratti collettivi stabiliscono l’obbligo di pagamento della retribuzione dei
dipendenti per le sospensioni di breve durata (non oltre 60 minuti) che rientrano nel
rischio imprenditoriale. Per le interruzioni più lunghe subentra al CIG; essa
interviene per assicurare la continuità del salario quando per situazioni non imputabili
all’imprenditore e ai lavoratori (mancanza di energia, calamità naturali,
ristrutturazioni e riconvenzioni aziendali) si verificano sospensioni temporanee di
lavoro o orari di lavoro ridotti. Svolge una funzione di “ammortizzatore sociale” cioè
attenua per i lavoratori, le conseguenze negative derivanti da una congiuntura
sfavorevole. La legge interviene con la CIG, per impedire che il datore di lavoro
possa liberarsi dei lavoratori, tramite licenziamento. L’intervento della CIG può
essere ordinario o straordinario. L’intervento ordinario della CIG, la cui disciplina
è attualmente contenuta soprattutto nella Legge n. 164/’75 ha la funzione di sostegno
del reddito dei lavoratori, a fronte di situazioni di mera contrazione dell’attività
produttiva nell’ambito del settore industriale: si tratta delle sospensioni dal lavoro e
delle riduzioni dell’orario di lavoro dovute ad eventi transitori non imputabili né al
datore di lavoro, né ai lavoratori, ovvero determinate da situazioni temporanee di
mercato. Originariamente previsto solo per gli operai, l’intervento ordinario è stato
successivamente esteso anche agli impiegati ed ai quadri intermedi. L’ammontare del
trattamento corrisposto ai lavoratori è pari all’80% della retribuzione che sarebbe loro
spettata per le ore non lavorate. La legge impone una procedura di informazione e
consultazione sindacale con le rappresentanze sindacali aziendali, da svolgersi di
norma in via preventiva, rispetto alla riduzione o sospensione dell’orario. Successiva
a questa, vi è la fase del procedimento amministrativo di concessione
dell’integrazione salariale, che si sviluppa presso la sede provinciale dell’INPS. La
durata massima dell’integrazione ordinaria è di tre mesi continuativi. Tuttavia, in
casi eccezionali, tale periodo può essere prorogato trimestralmente fino ad un
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massimo complessivo di un anno. Anche l’intervento straordinario della CIG è
stato istituito per le imprese del settore industriale. Mentre l’intervento ordinario è
finalizzato alla conservazione dell’occupazione e del reddito in presenza di situazioni
temporanee, l’intervento straordinario è destinato a fronteggiare situazioni di
durevole eccedenza di personale. Le “cause integrabili” in presenza delle quali può
essere autorizzata la concessione dell’integrazione straordinaria sono costituite dalle
ipotesi di: ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale e della crisi
aziendale che presenti particolare rilevanza sociale in relazione alla situazione
occupazionale locale ed alla situazione produttiva del settore. L’intervento
straordinario è previsto, poi, nei casi d’impresa assoggettata ad una procedura
concorsuale e di conclusione di un contratto di solidarietà interna. L’intervento
straordinario della CIG può essere concesso solo alle imprese che, nel semestre
antecedente la data di presentazione della richiesta, abbiano occupato più di 15
dipendenti. Entro questo ambito, l’integrazione salariale straordinaria spetta ad operai
ed impiegati, nonché ai quadri intermenti, sospesi dal lavoro, che abbiano
un’anzianità di servizio presso l’azienda di almeno 90 giorni. La misura
dell’integrazione è pari all’80% della retribuzione, che sarebbe spettata per le ore di
lavoro non prestate. Nel caso della CIG straordinaria, dev’essere seguita una
procedura che prevede, che l’impresa presenti la richiesta di ammissione
all’intervento in cui si attesi l’avvenuta consultazione sindacale, corredata dal
programma di risanamento che essa intende attuare. La richiesta d’intervento della
CIGS va presentata alla direzione provinciale del lavoro, la quale provvederà a
trasmetterla con le proprie valutazioni al Ministero del Lavoro e della previdenza
sociale per l’approvazione da parte del Ministero del Lavoro, che provvederà a
concedere, con proprio decreto, l’intervento straordinario della CIG. Nella CIGS il
trattamento d’integrazione salariale non può essere superiore a due anni, anche se è
prevista la possibilità di due proroghe dell’intervento della CIGS, ciascuna dal
periodo di 12 mesi, qualora il programma stesso presenti una particolare complessità.
Il trattamento straordinario della CIG è stato, però, progressivamente esteso ai
lavoratori dipendenti da imprese operanti in altri settori produttivi: dipendenti da
imprese di servizi di mensa e ristorazione, dei servizi di pulizia, imprese commerciali
e artigiane (con più di 200 addetti). Con la Legge n. 223/’91 sono state introdotte
altre forme di ammortizzatori sociali:
 I contratto di solidarietà interna: sono stipulati dal datore di lavoro e dai
sindacati per contenere il sacrificio dei lavoratori derivante dalla riduzione
dell’orario di lavoro, e sono applicati un po’ in tutti i settori produttivi. La
Legge prevede che, qualora l’imprenditore abbia stipulato con i sindacati
aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative un contratto
collettivo aziendale che stabilisca una riduzione dell’orario di lavoro
giornaliero, settimanale o mensile, al fine di evitare la riduzione del personale,
tale contratto costituisce il presupposto per la concessione, da parte del
Ministero del Lavoro, di un trattamento d’integrazione salariale posto a carico
della contabilità dei trattamenti straordinari della CIG. L’integrazione, il cui
ammontare è pari al 60% della retribuzione perduta per effetto della riduzione
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dell’orario di lavoro, può essere corrisposta per un periodo non superiore a 24
mesi, prorogabili per ulteriori 24.
 I contratti di solidarietà esterna (o espansiva): che non sono stipulati per far
fronte al rischio di licenziamento, ma per promuovere l’occupazione,
incentivando la creazione di posti di lavoro a fronte dei processi di innovazione
tecnologica e di razionalizzazione, che investono il sistema produttivo nel suo
complesso. Si tratta sempre di contratti stipulati tra datori di lavoro e sindacati
aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative, che prevedono da
un lato la riduzione stabile dell’orario di lavoro (con corrispondente riduzione
della retribuzione) e dall’altro, l’assunzione di lavoratori a tempo
indeterminato, preferibilmente se giovani.
Al fine di incentivare la conclusione di questo tipo di contratti aziendali, la legge
prevede, in favore del datore di lavoro, per ogni mensilità di retribuzione di ciascun
lavoratore neo-assunto, un contributo calcolato sulla retribuzione, fissata dai contratti
collettivi. Agevolazioni maggiori sono stabilite qualora dette assunzioni riguardino
giovani d’età compresa tra i 15 e i 29 anni. Per i lavoratori anziani dipendenti dalle
imprese che abbiano stipulato questo tipo di contratto di solidarietà, la Legge
interviene a favorire la trasformazione del loro rapporto di lavoro, in rapporto a temo
parziale. Questa volta, i destinatari della normativa promozionale sono, non le
aziende, ma i lavoratori anziani spinti, attraverso una totale garanzia del loro reddito,
ad accettare una riduzione dell’orario di lavoro per favorire nuove assunzioni. La
Legge n. 223 ha introdotto anche il cosiddetto contratto di solidarietà difensivo ed
espansivo stipulato tra un’impresa beneficiaria da più di 24 mesi dell’intervento
straordinario della CIG ed i sindacati aderenti alle confederazioni maggiormente
rappresentative, al fine di evitare o contenere una riduzione del personale o favorire
nuove assunzioni. Consente, cioè, ai lavoratori di età inferiore di non più di 60 mesi o
quella prevista per la pensione di vecchiaia, e che possono far valere 15 anni di
contribuzione, di chiedere la trasformazione del loro contratto di lavoro da tempo
pieno in part-time, con orario di lavoro non inferiore a 18 ore settimanali, con il
diritto di godere contemporaneamente del trattamento pensionistico.
 Il contratto di reinserimento: è quello che riguarda i lavoratori disoccupati da
almeno 12 mesi o che percepiscano dal medesimo termine un trattamento
d’integrazione salariale straordinario. La Legge per incentivare l’assunzione di
questi lavoratori, prevede delle agevolazioni in favore dei datori di lavoro che
li assumono.
I licenziamenti collettivi
I licenziamenti collettivi sono attuati per la riduzione del personale o anche per la
trasformazione dell’attività produttiva. A differenza di quella del 1950 e del 1965, la
disciplina del 1966 aveva escluso la materia dei licenziamenti collettivi (per riduzione
del personale) dalla disciplina limitativa di quelli individuali. Di conseguenza,
all’accresciuta tutela del singolo nella conservazione del posto di lavoro, non era
corrisposto un parallelo accrescimento della tutela dell’interesse collettivo alla
conservazione dei livelli occupazionali. Per lungo tempo, l’assenza di una specifica
disciplina legislativa in materia di licenziamenti collettivi ha così attribuito alla
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giurisprudenza il compito di precisare da un lato la nozione stessa del licenziamento
e dall’altro le forme di tutela eventualmente riconoscibili al singolo lavoratore sulla
base degli accordi interconfederali e dei contratti collettivi, ove esistenti. Solo nel
1991 il vuoto legislativo è stato colmato con l’emanazione, mediante la Legge n. 223,
di una disciplina sui licenziamenti collettivi, che ha inteso dare attuazione ad una
direttiva europea n. 129/’75, la quale dettava una specifica regolamentazione dei
contratti collettivi. Tale Direttiva, anche se più volte modificata negli anni seguenti,
affermava che s’intende per licenziamento collettivo “ogni licenziamento intimato
per motivi non inerenti la persona del lavoratore”. L’imprenditore doveva comunicare
in tempo ogni progetto di licenziamento collettivo alla pubblica autorità competente
ed ai rappresentanti dei lavoratori, i quali potevano presentare osservazioni
all’autorità competente. I licenziamenti non erano efficaci per un periodo di
nemmeno 30 giorni dalla comunicazione del progetto, periodo in cui l’autorità
pubblica competente doveva cercare soluzioni ai problemi posti dai licenziamenti
stessi. La Legge n. 223 ha delineato due differenti procedure relative al trattamento
delle eccedenze di personale nelle imprese, distinguendo nettamente l’ipotesi in cui
esse si manifestano nel corso di un processo di trasformazione o di crisi aziendale per
il quale sia stato concesso l’intervento straordinario della CIGS dalle altre in cui
l’imprenditore adotti la decisione di procedere alla riduzione di personale senza tale
intervento. Nel primo caso, l’espressione legislativa è quella di procedura di mobilità
dei lavoratori; nel secondo caso, invece, è quella di licenziamento collettivo per
riduzione del personale. L’istituto della mobilità disciplina la possibilità di risolvere
il rapporto di lavoro dei dipendenti che sono eccedenti, rispetto alle esigenze
dell’impresa per l’ipotesi in cui, per via dell’eccedenza definitiva di personale
manifestata durante l’attuazione di un programma di risanamento dell’impresa e per
via della quale l’impresa sia ammessa al trattamento d’integrazione straordinaria,
l’imprenditore ritenga di non poter garantire il reimpiego di tutti i lavoratori sospesi o
il ricorso a misure alternative (contratti di solidarietà o forme di utilizzazione
flessibile del tempo di lavoro, come comando o distacco), egli può attivare la
procedura di mobilità. Nel caso, invece, l’azienda non sia stata ammessa alla CIGS, il
datore per il problema dell’eccedenza di personale, potrà ricorrere al licenziamento
collettivo per riduzione del personale. L’obbligo dell’impresa è di informazione
immediata dei sindacati e la pubblica autorità al fine di procedure ad una
consultazione sindacale conciliativa. Quindi bisogna comunicare la situazione di
difficoltà, prima alle r.s.a. ed i rispettivi sindacati di categoria. Se entro un certo
periodo di tempo non sia stato raggiunto alcun accordo, per risolvere la situazione, il
Direttore dell’ufficio provinciale del Lavoro tenterà una mediazione tra le parti.
Esaurita la procedura, l’imprenditore potrà procedere al collocamento in mobilità e,
quindi, alla risoluzione del rapporto con i lavoratori eccedenti. La legge, per
l’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità, ha dettato i criteri per la loro
scelta da tener presente, se manca un accordo sindacale, alla questione: tali criteri
sono dati dai carichi di famiglia, dall’anzianità e dalle esigenza tecnico-produttive ed
organizzative. Per il licenziamento dei lavoratori così individuati, è imposta la
comunicazione individuale in forma scritta, nonché l’obbligo di preavviso pena
l’inefficacia. I lavoratori collocati in mobilità, i quali possono far valere un’anzianità
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aziendale di almeno 12 mesi, hanno diritto ad un’indennità cosiddetta di mobilità, per
un periodo massimo di 12 mesi (elevabile a 24 mesi per i lavoratori che hanno 40
anni e a 36 mesi per coloro che hanno 50 anni). La misura è pari, per i primi 12 mesi,
a quella del trattamento d’integrazione salariale goduto prima del licenziamento: nei
mesi successivi si riduce all’80% dello stesso trattamento. La legge s’impegna, oltre
al trattamento economico previsto da garantire, altresì di promuovere il loro
reinserimento nel mondo del lavoro. A tal fine i nominativi dei lavoratori collocati
in mobilità sono riportati in una lista tenuta dall’ufficio regionale del lavoro che ha il
compito di assumere ogni iniziativa rivolta a favorire il reimpiego dei lavoratori
iscritti nella lista. Infatti, l’occupazione di questi lavoratori è fortemente incentivata
attraverso la previsione di una serie di agevolazioni di vario tipo, a favore delle
imprese che li assumono (ad es. il diritto ad un contributo del 50% dell’indennità di
mobilità che sarebbe spettata al lavoratore). La cancellazione dalle liste per il
lavoratore avviene in diverse ipotesi: A) se vi è assunzione del lavoratore, cioè se vi è
occupazione per il lavoratore in mobilità; B) per decorrenza del periodo massimo di
godimento dell’indennità; C) come sanzione (nel caso in cui il lavoratore rifiuti di
partecipare ai corsi di formazione o di prestare lavoro in opere o servizi di pubblica
utilità). L’imprenditore che rientra nel campo d’applicazione della CIGS, pur in
presenza di una situazione di crisi che potrebbe dar luogo all’intervento straordinario
della CIG, non ha alcun obbligo di ricorrere preventivamente ad esso, potendo
decidere di procedere immediatamente ad una riduzione di personale. D’altronde
l’imprenditore potrebbe essere spinto ad una riduzione del personale, non solo nel
corso di una crisi, ma anche nel caso di trasformazione dell’attività produttiva; o nel
caso di un’impresa che presenta esuberi di personale non rientra nel campo
d’applicazione della normativa sulla CIG. La Legge 223 ha dettato una specifica
disciplina in materia, la quale individua innanzitutto la nozione di licenziamento
collettivo e, quindi, stabilisce le regole procedurali. È licenziamento collettivo quello
dell’impresa con più di 15 dipendenti, che intende licenziare almeno 5 lavoratori in
una o più unità produttive nell’ambito di una stessa provincia in un arco temporale di
120 giorni. Al licenziamento collettivo si applicano tutte le disposizioni dettate per il
collocamento in mobilità dei lavoratori. L’imprenditore è, quindi, tenuto al rispetto
della procedura e degli adempimenti amministrativi previsti oltre che al rispetto del
preavviso, dei vincoli formali, cioè è uguale al regime del licenziamento individuale.
Anche per i lavoratori destinati ad un licenziamento collettivo, vi è riconoscimento
del diritto all’indennità di mobilità ed all’iscrizione nelle liste di mobilità, alle stesse
condizioni previste per il collocamento in mobilità. Dunque, il presupposto del
licenziamento collettivo per riduzione di personale è “una riduzione o trasformazione
di attività o di lavoro”. L’imprenditore non ha comunque, alcun obbligo di
giustificare il licenziamento, ma solo quello di consultare i sindacati e di esperire un
tentativo di conciliazione. Secondo la gran parte della giurisprudenza, però, dovrebbe
esserci la possibilità del controllo giudiziale sui presupposti causali, nonché sul nesso
di causalità che ne deriva, in mancanza del quale ci si troverebbe, invece, in una
somma di licenziamenti individuali. Negli ultimi anni, poi, il legislatore ha
frequentemente emanato provvedimenti rivolti o a prorogare la durata dell’iscrizione
nelle liste, e soprattutto della corresponsione dell’indennità di mobilità [si è trattato di
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interventi destinati a lavoratori anziani, di difficile ricollocazione nel mercato del
lavoro che, attraverso il prolungamento del diritto o percepire l’indennità (cosiddetta
mobilità lunga), sono stati accompagnati fino al compimento dell’età pensionabile] o
ad estendere la relativa disciplina ad ambiti esclusi dal suo ordinario campo di
applicazione. Tra questi provvedimenti va sottolineato, in particolare, l’importanza
della mobilità lunga che ha svolto la funzione di surrogato dei cosiddetti
propensionamenti, cioè anticipazioni delle pensioni di vecchiaia, al fine di far fronte
ad eccedenze definitive di personale, collegate a situazioni di crisi di interi settori
produttivi. Si basavano su un aggravo finanziario per gli enti previdenziali. I lavori
socialmente utili (LSU) sono, cioè, attività di utilità sociale, solitamente svolte
nell’ambito di progetti predisposti da soggetti privati e pubblici ed alle quali sono
destinati i lavoratori percettori di trattamenti previdenziali ed assistenziali a carico
dello Stato. Dal 1977, possono esserne coinvolti, però, anche i disoccupati che non
percepiscono trattamenti previdenziali. È un rapporto di lavoro che non rientra né
nello schema legale dell’art. 2094 c.c. né in quello dei rapporti speciali. Per cui non
può applicarsi neanche la normativa costituzionale, relativa al diritto di retribuzione
proporzionata e sufficiente. A partire dal 2000, la nuova disciplina ha portato alla
progressiva scomparsa di tali lavori.