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Capitolo 9
La struttura del reato
Sommario
Sezione Prima: Il reato: concetto, struttura, distinzioni. - 1 L’analisi del «reato» in generale. - 2 Definizione del «reato». 3 Differenze tra il reato e altri illeciti. - 4 Cenni sulle modifiche al sistema penale introdotte dalla L. 689/81 (cd. Legge di
depenalizzazione), dalla L. 561/93, dal D.Lgs. 480/94, dalla L. 205/99 e dai decreti legislativi 15 gennaio 2016, n. 7 e n.
8. L’ipotesi della irrilevanza penale del fatto per la sua particolare tenuità (art. 131bis, introdotto dal D.Lgs. 16 marzo 2015,
n. 28): cenno; rinvio. - 5 Gli elementi essenziali generali del reato. - 6 Presupposti del reato e presupposti del fatto. - 7
Distinzioni dei reati - delitti e contravvenzioni. - Sezione Seconda: L’oggetto giuridico del reato. - 8 Generalità. - 9 Le
costruzioni più risalenti del bene giuridico e le obiezioni della dottrina. - 10 Dottrine più recenti sulla rilevanza del bene
giuridico. - 11 Il danno nel reato. In particolare: i reati di pericolo. - Sezione Terza: Il soggetto attivo ed il soggetto passi‑
vo del reato. - 12 Il soggetto attivo del reato. - 13 Il problema della responsabilità delle persone giuridiche. In particolare: la responsabilità amministrativa. - 14 Responsabilità per fatti costituenti reato commessi da animali. - 15 Il soggetto
passivo del reato. – Giurisprudenza.
Riferimenti normativi
Cost., artt. 13, 25, 27; c.p., artt. 6, 39, 40, 42, 43, 49, 56.
Sezione Prima
Il reato: concetto, struttura, distinzioni
1 L’analisi del «reato» in generale
Il primo, e più importante, oggetto di studio della dogmatica penale (1) è, ovviamente, il reato:
l’individuazione e l’analisi degli elementi essenziali del fatto penalmente rilevante costituiscono,
dunque il capitolo introduttivo di qualsiasi studio della parte generale di diritto penale.
La dogmatica penale mira, come si è già avuto modo di rilevare (2), ad individuare e studiare i
principi generali che regolano la materia.
In tale ricerca, un ruolo primario ed essenziale riveste appunto l’analisi del reato, in quanto idonea a formare quei concetti fondamentali che poi saranno utilizzati sia per individuare le regole generali per l’applicazione delle norme sia, sotto un profilo più specificamente didattico, per
esporle ed esaminarle.
Tappe obbligate di questa teoria generale (o dottrina) del reato sono:
— la definizione dello stesso concetto di «reato»;
— l’individuazione di quelli che sono gli elementi che lo configurano, e cioè gli elementi es‑
senziali.
(1) V. retro, Introduzione, §7.
(2) V. il già richiamato §7, Introduzione.
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2 Definizione del «reato»
A) Generalità: la definizione cd. formale del reato
Ad un primo approccio, scevro da ogni intento morale o filosofico, il «reato» appare come quell’insieme di elementi al cui realizzarsi il legislatore fa conseguire quella particolare sanzione che è la «pena criminale» (3).
Tale definizione appare, ed è, senza dubbio «formale», in quanto si limita a prendere atto delle
scelte in base alle quali il legislatore ha definito quel fatto come reato.
Proprio perché «formale», essa ribadisce i caratteri della:
— tipicità: reato, infatti, è quello e soltanto quello ritenuto tale dal legislatore;
— nominatività del reato: non possono crearsi altre figure di reato oltre quelle espressamente
e nominativamente previste dal legislatore (4).
Sotto il profilo strettamente formale (o giuridico, cioè in base ai caratteri che risultano dall’ordinamento), è, dunque, reato quel fatto giuridico volontario (cioè quell’atto giuridico) illecito al quale l’ordinamento ricollega come conseguenza una sanzione penale.
Solo l’atto giuridico illecito che è punito con una pena criminale può, pertanto, dirsi reato.
Non sono, invece, reati quegli atti giuridici illeciti a cui l’ordinamento ricollega pene diverse,
quali sanzioni amministrative o civili (di solito, il pagamento di una somma di denaro) (5).
Generalmente le ipotesi di reato sono previste da leggi dichiaratamente penali (codice penale,
leggi penali complementari); non mancano, tuttavia, casi in cui previsioni di reati sono inserite
in leggi che attengono alla materia civile o amministrativa. Ciò accade perché si tratta di particolari reati, strettamente connessi al contenuto della legge che li prevede. Ne sono esempi: i re‑
ati in materia di società che sono previsti nel codice civile, dagli artt. 2621 ss.; i reati in materia
di fallimento, previsti dagli artt. 216 ss. della legge sul fallimento; i reati in materia edilizia, che
sono previsti nella normativa amministrativa che disciplina l’attività urbanistica ed edilizia (D.P.R.
6 giugno 2001, n. 380 contenente il testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia) etc.
B) I tentativi di definizione sostanziale del reato
La definizione formale del reato prescinde, come detto, da qualsiasi intento morale e filosofico,
limitandosi, in definitiva a dire che è reato quello che il legislatore ha considerato tale.
Parte della dottrina non ritiene soddisfacente tale definizione e cerca, così, di individuare anche una «nozione sostanziale» (o «sociologica» o «sociale») del reato, sulla base dei caratteri
intrinseci e sociali che esso riveste, indipendentemente dalla valutazione fattane dall’ordinamento.
(3) V. retro, Introduzione, §1.
(4) V. retro, Cap. 4, §1.
(5) V. infra, §3.
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ı La struttura del reato
Così, sotto il profilo sostanziale:
— per MAGGIORE (6) il reato consiste in una grave offesa all’ordine etico;
— per GRISPIGNI (7) è reato quel fatto che pone in pericolo l’esistenza e la conservazione del‑
la società;
— per ANTOLISEI (8) è reato quel comportamento umano che, a giudizio del legislatore, con‑
trasta con i fini dello Stato ed esige come sanzione una pena criminale; il riferimento al «giudizio del legislatore», secondo l’Autore, è essenziale ai fini di una visione realistica del reato
penale perché «l’esperienza storica dimostra che i giudizi sul contrasto fra le azioni umane
e i fini dello Stato e sulla necessità della pena variano con i tempi e coi luoghi, tanto che non
esiste forse un solo fatto che sia stato sempre e dovunque punito».
C) L’attuale tendenza ad una definizione formale-sostanziale del reato
Tutte le definizioni sostanziali del reato appaiono, in definitiva, criticabili, in quanto o fanno riferimento a valori morali che, come si è già visto (9), scarso rilievo hanno in diritto penale oppure comunque riconoscono l’impossibilità di prescindere dal giudizio del legislatore (v. in particolare, ANTOLISEI (10)).
Si è così fatta strada, ed è oggi prevalente in dottrina, la tesi secondo cui, fermo restando l’imprescindibilità delle scelte del legislatore, se si vuol dare una definizione non solo formale del
reato bisogna fare riferimento a quei caratteri che, nel nostro ordinamento, permettono di qualificare un determinato fatto come reato.
MANTOVANI (11) ritiene che tali caratteri debbano essere desunti dai principi dettati dalla Co‑
stituzione in materia penale, i quali si pongono come guida e come limite al legislatore ordinario nella individuazione dei fatti da assoggettare alla sanzione penale.
Nello stesso senso FIANDACA e MUSCO (12) definiscono il reato come un fatto umano che aggredisce un bene giuridico ritenuto meritevole di protezione da un legislatore che si muove
nel quadro dei valori costituzionali; sempreché la misura dell’aggressione sia tale da fare ap‑
parire inevitabile il ricorso alla pena e le sanzioni di tipo non penale non siano sufficienti a ga‑
rantire una efficace tutela».
Neppure tale definizione, però, precisano gli Autori, «può pretendere di indicare con certezza
ciò che, ad una valutazione sostanziale, costituisce o deve costituire reato. Nessun tentativo di
definizione sostanziale può avere l’efficacia di una «formula magica» che esima il legislatore dal‑
la responsabilità delle scelte di criminalizzazione».
(6) Cfr. Maggiore: Diritto penale. Parte generale, Bologna 1951, pag. 189.
(7) Cfr. Grispigni: Diritto penale italiano, Vol. I, Milano 1947, pag. 144.
(8) Cfr. Antolisei: Manuale di Diritto Penale. Parte Generale (Sedicesima edizione aggiornata e integrata da L. Conti), Milano 2003,
pag. 170.
(9) V. retro, Introduzione, §4.
(10) Cfr. Antolisei: Op. cit., pag. 171.
(11) Cfr. Mantovani: Diritto Penale ‑ Parte Generale, Padova 1992, pag. 137.
(12) Cfr. Fiandaca‑Musco: Diritto Penale. Parte Generale, Bologna 2001, pag. 136.
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Da quanto detto, possiamo così ricavare una nozione formale-sostanziale di reato, secondo la
quale esso consiste in un fatto umano:
— previsto dalla legge (principio di legalità) in modo tassativo (principio di tassatività) ed irre‑
troattivamente (principio d’irretroattività);
— attribuibile al soggetto sia causalmente (principio di materialità) che psicologicamente (principio di soggettività);
— offensivo di un bene giuridico costituzionalmente significativo (BRICOLA (13), FIANDACAMUSCO (14), o comunque non incompatibile con i valori costituzionali (MANTOVANI (15),
PAGLIARO (16)) (principio di offensività);
— sanzionato con una pena proporzionata astrattamente alla rilevanza del valore tutelato, e
concretamente alla personalità dell’agente (principio della responsabilità penale personale),
umanizzata e tesa alla rieducazione del condannato (principio del finalismo rieducativo della pena).
3 Differenze tra il reato e altri illeciti
A) Generalità
L’ordinamento giuridico può configurare un comportamento umano contrario ad una norma
come illecito penale, illecito civile o illecito amministrativo: poiché ciascuna forma d’illecito è
soggetta ad una specifica normativa, ci si chiede se esista una differenza sostanziale tra le varie
figure, o se invece la scelta tra le varie figure di illecito dipenda dagli orientamenti di politica
criminale del legislatore, in un dato momento storico.
B) Reato e illecito civile
Apparentemente il «reato» è cosa ben distinta dall’«illecito civile», ma se cerchiamo poi, in concreto, di individuare le differenze, ci accorgiamo che il compito è tutt’altro che agevole, perché
tale differenza non può basarsi:
— né sulla natura degli interessi protetti, in quanto l’uno e l’altro finiscono col tutelare gli
stessi interessi;
— né sulla maggiore o minore gravità dell’uno rispetto all’altro, in quanto, da un lato, esistono, come si è già visto (17), reati cd. bagatellari, e cioè di scarso o nessun allarme sociale e
comunque di minima gravità, e, dall’altro, vi sono illeciti civili non costituenti reato ma di
notevole gravità, come certi reiterati e gravi inadempimenti contrattuali che possono sconvolgere l’economia di vaste zone.
(13) Cfr. Bricola: Teoria generale del reato, in Novissimo Digesto Italiano, Vol. XIX, Torino 1973, pag. 13 e segg.
(14) Cfr. Fiandaca‑Musco: Op. e loc. ult. cit.
(15) Cfr. Mantovani: Op. cit., pag. 206 e segg.
(16) Cfr. Pagliaro: Principi di diritto penale. Parte generale, Milano 1996, pag. 219 e segg.
(17) V. retro, Introduzione, §4.
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Non resta allora che concludere nel senso che la differenza tra i due illeciti è puramente estrinseca e formale, e si basa sulla diversa natura della sanzione adottata in concreto dal legislatore per l’uno e per l’altro:
— pena criminale per il reato;
— sanzione civile (risarcimento del danno, risoluzione del contratto, restituzione, fallimento
etc.) per il relativo illecito.
Dall’accertamento della natura, penale o civile, dell’illecito consegue, in concreto, l’assoggettamento dello stesso alle regole ed ai principi propri di ciascuno di essi.
C) Reato e illecito amministrativo
Anche tra reato ed illecito amministrativo, come si è già notato (18), la differenza è soltanto formale: la stessa Corte Costituzionale, come si faceva rilevare, ha espressamente riconosciuto che
è penale la legge che punisce un determinato fatto con una pena, mentre è amministrativa la
legge che irroga per esso una sanzione amministrativa.
Tenendo presenti gli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza, si può affermare che
una differenza sostanziale tra i due tipi di illecito non esiste: è il legislatore di volta in volta, sulla base di considerazioni di natura politica e sociale, a valutare se, per un determinato fatto configurabile come illecito, basti irrogare una sanzione amministrativa o sia necessario, invece, far
ricorso alla più grave sanzione penale (ANTOLISEI (19), PANNAIN (20), PAGLIARO (21), FIANDACA-MUSCO (22)).
Anche in questo caso, al riconoscimento della natura, penale o amministrativa, dell’illecito, consegue l’applicazione delle relative discipline e dei relativi principi, in particolare:
a) conseguenza dell’illecito amministrativo è sempre e soltanto una sanzione amministrativa
(pagamento di una somma pecuniaria a titolo di cd. «sanzione amministrativa»; sanzione cd.
«disciplinare» come la censura, l’ammonizione, la sospensione dalla qualifica o dallo stipendio etc.; sanzione cd. «di polizia» come la libertà vigilata, il soggiorno obbligato etc.);
b) la sanzione amministrativa non comporta le conseguenze previste per la sanzione penale:
non potrà, pertanto, essere convertita in una forma qualsiasi di privazione della libertà per‑
sonale in caso di insolvibilità del trasgressore. Inoltre gli organi amministrativi non potranno
mai emettere una sanzione penale.
Altre differenze, prima esistenti, sono state eliminate dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, che ha
esteso anche agli illeciti amministrativi il «principio di legalità» (art. 1) ed il «principio di colpe‑
volezza» (art. 3) prima estranei a tale sistema di illeciti.
(18) V. retro, Introduzione, §5, lett. B).
(19) Cfr. Antolisei: Op. cit., pag. 173.
(20) Cfr. Pannain: Manuale di Diritto Penale, Vol. I, Torino 1967, pag. 923.
(21) Cfr. Pagliaro: Op. cit., pag. 205 e segg.
(22) Cfr. Fiandaca‑Musco: Op. cit., pag. 135.
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4 Cenni sulle modifiche al sistema penale introdotte dalla L. 689/81 (cd. Legge di
depenalizzazione), dalla L. 561/93, dal D.Lgs. 480/94, dalla L. 205/99 e dai decreti legislativi 15 gennaio 2016 n. 7 e n. 8. L’ipotesi della irrilevanza penale del fatto per la sua particolare tenuità (art. 131bis, introdotto dal D.Lgs. 16 marzo 2015,
n. 28): cenno; rinvio
La riprova della inesistenza di differenze sostanziali tra illecito penale ed illecito amministrativo
la si è avuta con la L. 24-11-1981, n. 689 che, mossa soprattutto dall’intento di fronteggiare le
più gravi disfunzioni del sistema e in particolar modo al fine di ridurre il sovraccarico penale
degli uffici giudiziari e l’affollamento delle carceri, si è adeguata alla più moderna cultura e coscienza sociale, che considerano il ricorso alla pena criminale come «extrema ratio», cioè come
rimedio da adottare esclusivamente per le più gravi violazioni di legge e, comunque, per la tutela di quei valori e di quei beni che non possono essere adeguatamente difesi altrimenti.
La legge n. 689 del 1981 ha infatti operato:
a) un notevole ampliamento del campo dell’illecito amministrativo, depenalizzando gran
parte dei reati di minima entità sfuggiti alle precedenti depenalizzazioni (capo I); ha inoltre
codificato, anche per l’illecito amministrativo, alcuni principi garantistici di fondamenta‑
le importanza come quello di legalità (art. 1) e di colpevolezza (art. 3) ed ha esteso a tale
illecito buona parte della disciplina prevista dalle norme di parte generale del codice penale per i reati (es.: art. 4 sulle «cause di esclusione della responsabilità», art. 5 sul «concorso di
persone», art. 8 sulla «continuazione» etc.);
b) il contemporaneo aggravamento di pena e la previsione di nuove fattispecie criminose
a tutela di quegli interessi assurti nella moderna coscienza sociale al rango di valori degni
del ricorso a quella «extrema ratio» che è la pena (capo II);
c) la possibilità di sostituire le pene detentive brevi con nuove sanzioni (la semidetenzio‑
ne, la libertà controllata o la semplice pena pecuniaria) quando appaiano più idonee al reinserimento sociale del condannato (capo III);
d) l’estensione della perseguibilità a querela ad un gran numero di reati (come ad esempio
la truffa semplice, la sottrazione o il danneggiamento di cose sottoposte a sequestro, la viola‑
zione degli obblighi di assistenza familiare, le lesioni personali colpose anche gravi e gravissime purché non commesse con violazioni delle norme antinfortunistiche etc.) precedentemente procedibili di ufficio (capo IV);
e) una radicale innovazione in materia di pene pecuniarie, con l’adeguamento delle stesse al mutato valore della moneta, e con una nuova disciplina dell’istituto della conversione, già dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale con la sentenza 21-11-1979, n. 131 (capo V);
f) alcuni altri interventi in materia di pene accessorie, prescrizione, oblazione, sospensione con‑
dizionale della pena e confisca (capo VI).
Proseguendo sulla scia tracciata dalla L. 689/81, la L. 28-12-1993, n. 561 ha operato un’altra «sforbi‑
ciata» relativamente a reati minori, in particolare in materia di privilegi nella compravendita di autoveicoli, di operazioni di lotteria, di elenchi di protesti cambiari, di denuncia di infortuni, e altro
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ı La struttura del reato
ancora, trasformando in illeciti amministrativi parecchi di quei reati che, pur se di minima importanza, ingolfavano le Procure e le Preture circondariali per il rilevante numero di casi concreti.
Sono stati, inoltre, parzialmente depenalizzati anche gli artt. 1161 (abusiva occupazione di spazio demaniale e inosservanza di limiti alla proprietà privata) e 1174 (inosservanza di norme di
polizia) del codice della navigazione.
Un ulteriore passo verso la depenalizzazione delle ipotesi di reato ritenute «bagatellari» è stato
fatto col D.Lgs. 13 luglio 1994, n. 480 che ha riformato la disciplina sanzionatoria contenuta nel
Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (T.U.L.P.S.), approvato con R.D. 18 giugno 1931,
n. 773, depenalizzando gran parte dei reati prima previsti da tale testo unico.
Si è trattato, in sostanza, di un’ulteriore, sia pure piccola, sforbiciata nel mare magnum della legislazione penale.
Una ulteriore, rilevante opera di depenalizzazione è stata operata in materia di lavoro dal D.Lgs.
19-9-1994, n. 626 e dal D.Lgs. 19-12-1994, n. 758.
Infine, col D.Lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, emanato in attuazione della delega contenuta nella L. 25 giugno 1999, n. 205, sono stati trasformati in illecito amministrativo un consistente
numero di fatti fino ad allora costituenti reato.
In particolare, la depenalizzazione ha riguardato:
a) l’attività di produzione, commercializzazione ed igiene degli alimenti, con l’eccezione
delle sole ipotesi previste dagli artt. 5, 6 e 12 della L. 30 aprile 1962, n. 283;
b) la disciplina della navigazione, salvo i reati previsti dagli artt. 1161, 1176 e 1177 del codice
della navigazione nonché le contravvenzioni in materia di sicurezza della navigazione previste dallo stesso codice;
c) tutte le ipotesi contravvenzionali previste dal codice della strada, salvo quelle di cui agli articoli 186 e 187, oltre ai delitti previsti dal 14° comma dell’art. 100 e dall’art. 189;
d) gran parte delle contravvenzioni previste dalle leggi finanziarie, tributarie e concernenti i mercati finanziari e mobiliari;
e) la materia degli assegni bancari e postali;
f) la materia delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, materia, peraltro, successivamente disciplinata ex novo col D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74.
La citata legge-delega ha, inoltre, previsto la procedibilità a querela del delitto di furto non aggravato né dalle circostanze di cui all’art. 625 né dalla circostanza di cui all’art. 61, n. 7 del codice penale.
La stessa legge delega ha anche abrogato espressamente alcuni articoli del codice penale, ed
in particolare gli articoli:
— 275. Accettazione di onorificenze o utilità da uno Stato nemico.
— 297. Offesa all’onore dei Capi di Stati esteri.
— 298. Offese contro i rappresentati di Stati esteri.
— 303. Pubblica istigazione e apologia.
— 327. Eccitamento al dispregio e vilipendio delle istituzioni, delle leggi o degli atti dell’Autorità.
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— 332. Omissione di doveri di ufficio in occasione di abbandono di un pubblico ufficio o di interruzione di un pubblico servizio.
— 341. Oltraggio a un pubblico ufficiale.
— 344. Oltraggio a un pubblico impiegato.
— 394. Sfida a duello.
— 395. Portatori di sfida.
— 396. Uso delle armi in duello.
— 397. Casi di applicazione delle pene ordinarie stabilite per l’omicidio e per la lesione personale.
— 398. Circostanze aggravanti. Casi di non punibilità.
— 399. Duellante estraneo al fatto.
— 400. Offesa per rifiuto di duello e incitamento al duello.
— 401. Provocazione al duello per fine di lucro.
— 657. Grida o notizie atte a turbare la tranquillità pubblica o privata.
— 670. Mendicità.
— 692. Detenzione di misure e pesi illegali (limitatamente al secondo comma).
— 710. Vendita o consegna di chiavi o grimaldelli a persona sconosciuta.
— 711. Apertura arbitraria di luoghi o di oggetti.
— 726. Atti contrari alla pubblica decenza. Turpiloquio (limitatamente al secondo comma).
— 732. Omesso avviamento dei minori al lavoro.
Ad essere obiettivi, la depenalizzazione operata col D.Lgs. 507/1999 non sembra avere quell’effettivo impatto deflativo che il legislatore voleva attribuirle. Se, infatti, alla prima impressione di
una robusta e sostanziosa «sforbiciata» delle ipotesi di reato, impressione dettata dal numero di
articoli depenalizzati, si fa seguire una più attenta disamina degli articoli stessi, si scopre che, in
realtà, gli effetti sono alquanto più modesti di quanto possa a prima vista sembrare. Si sono depenalizzate, infatti, ipotesi di reato o di fatto già scomparse dagli uffici giudiziari (si pensi ai reati in materia di duello o alle offese ai Capi o rappresentanti esteri) oppure, ormai, di scarsissima applicazione (come la maggior parte delle contravvenzioni depenalizzate). Se effettivamente si vuole limitare la pena ai fatti che effettivamente offendono interessi costituzionalmente protetti e destano allarme sociale ben più ampio e profondo deve essere l’intervento.
Ma non è questa la sede per affrontare tale, pur rilevantissimo problema.
Tra le ultime ipotesi di depenalizzazione va ricordata la fattispecie di cui all’art. 186, comma primo, lett. a) del codice della strada (guida in stato di ebbrezza con tasso alcoolemico superiore
a 0,5 e non superiore a 0,8), che è stata depenalizzata dall’art. 33, comma quarto, della legge 29
luglio 2010, n. 120.
Con l’approvazione dei Decreti Legislativi 15 gennaio 2016, n. 7 e 15 gennaio 2016, n. 8, decreti emanati in attuazione della Legge delega 28 aprile 2014, n. 67, è stata disposta la depenalizzazione di oltre cento reati.
Dei reati previsti dal codice penale i due decreti legislativi hanno depenalizzato:
— la falsità in scrittura privata (art. 485);
— la falsità in foglio firmato in bianco. Atto privato (art. 486);
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— le falsità su un foglio firmato in bianco diverse da quelle previste dall’articolo 486;
— l’uso di una scrittura privata falsa (art. 489, co. 2);
— la soppressione, distruzione ed occultamento di scritture private vere (art. 490);
— gli atti osceni (art. 527, co. 1);
— le pubblicazioni e gli spettacoli osceni (art. 528, co. 1 e 2);
— l’ingiuria (art. 594);
— la sottrazione di cose comuni (art. 627);
— il danneggiamento semplice (art. 635, co. 1);
— l’appropriazione di cose smarrite, del tesoro o di cose avute per errore o caso fortuito (art. 647);
— il rifiuto di prestare la propria opera in occasione di un tumulto (art. 652, commi 1 e 2);
— l’abuso della credulità popolare (art. 661);
— le rappresentazioni teatrali o cinematografiche abusive (art. 668, co. 1, 2 e 3);
— gli atti contrari alla pubblica decenza. Turpiloquio (art. 726).
Il decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 ha, poi, depenalizzato numerosi altri reati previsti da
leggi speciali, tra i quali vanno ricordati:
— tutti i reati non contenuti nel codice penale puniti con la sola pena pecuniaria (multa o ammenda), ad eccezione di quelli indicati nell’elenco allegato al decreto stesso (23);
(23) Ecco l’Allegato:
Allegato
(Art. 1)
ELENCO DELLE LEGGI CONTENENTI REATI PUNITI CON LA SOLA PENA PECUNIARIA ESCLUSI DALLA DEPENALIZZAZIONE A
NORMA DELL’ART. 2 DELLA LEGGE N. 67/2014
AVVERTENZA: i riferimenti agli atti normativi si intendono estesi agli eventuali, successivi provvedimenti di modifica o di integrazione.
Edilizia e urbanistica. — 1. Decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”.
2. Legge 2 febbraio 1974, n. 64, recante “Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche”.
3. Legge 5 novembre 1971, n. 1086, recante “Norme per la disciplina delle opere in conglomerato cementizio armato, normale e
precompresso ed a struttura metallica”.
Ambiente, territorio e paesaggio. — 1. Decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 202, recante “Attuazione della direttiva 2005/35/
CE relativa all’inquinamento provocato dalle navi e conseguenti sanzioni”.
2. Decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante “Norme in materia ambientale”.
3. Decreto legislativo 11 maggio 2005, n. 133, recante “Attuazione della direttiva 2000/76/CE, in materia di incenerimento dei rifiuti”.
4. Decreto legislativo 14 marzo 2003, n. 65, recante “Attuazione delle direttive 1999/45/CE e 2001/60/CE relative alla classificazione,
all’imballaggio e all’etichettatura di preparati pericolosi”, limitatamente all’art. 18, comma 1, quando ha ad oggetto le sostanze e i
preparati pericolosi per l’ambiente, per come definiti dall’art. 2, comma 1, lettera q).
5. Decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 174, recante “Attuazione della direttiva 98/8/CE in materia di immissione sul mercato di biocidi”.
6. Decreto legislativo 3 febbraio 1997, n. 52, recante “Attuazione della direttiva 92/32/CE concernente classificazione, imballaggio
ed etichettatura delle sostanze pericolose”, limitatamente all’art. 36, comma 1, quando ha ad oggetto le sostanze e i preparati pericolosi per l’ambiente, per come definiti dall’art. 2, comma 1, lettera q).
7. Legge 11 febbraio 1992, n. 157, recante “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”.
8. Legge 26 aprile 1983, n. 136, recante norme sulla “Biodegradabilità dei detergenti sintetici”.
9. Legge 31 dicembre 1962, n. 1860, concernente “Impiego pacifico dell’energia nucleare”.
Alimenti e bevande. — 1. Decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91, convertito dalla legge 11 agosto 2014, n. 116, recante “Disposizioni urgenti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l’efficientamento energetico dell’edilizia scolastica e universitaria, il rilancio
e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche, nonché per la definizione immediata di adempimenti derivanti dalla normativa europea”, limitatamente all’art. 4, comma 8.
2. Decreto legislativo 21 maggio 2004, n. 169, recante “Attuazione della direttiva 2002/46/CE relativa agli integratori alimentari”.
215
Capitolo 9
ı
— il mancato rispetto dell’autorizzazione alla coltivazione di stupefacenti per uso terapeutico
(art. 28, co. 2 del d.P.R. 309/1990);
— l’omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali (art. 2 del D.Lgs. 463/1983);
— la guida senza patente nell’ipotesi in cui il fatto non sia stato commesso altre volte (art. 116,
co. 15, del D.Lgs. 285/1992);
— l’interruzione volontaria della propria gravidanza senza l’osservanza delle modalità indicate
dalla legge (art. 19, co. 2, della legge 194/1978);
— la violazione delle norme per l’impianto e l’uso di apparecchi radioelettrici privati (art. 11 del
RD 234/1931);
Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. — 1. Decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante “Attuazione dell’art. 1 della legge 3
agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”.
2. Legge 27 marzo 1992, n. 257, recante “Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto”.
3. Legge 16 giugno 1939, n. 1045, recante “Condizioni per l’igiene e l’abitabilità degli equipaggi a bordo delle navi mercantili nazionali”, con riguardo alla violazione, sanzionata dall’art. 90, delle disposizioni di cui agli articoli 34, 39, limitatamente ai locali di
lavoro, 40, 41, 44, comma 2, limitatamente alla installazione di impianti per la distribuzione di aria condizionata nella sala nautica
e nei locali della timoneria, 45, limitatamente ai locali destinati al lavoro, 66, limitatamente ai posti fissi di lavoro, 73, 74, 75, 76.
Sicurezza pubblica. — 1. Regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, recante “Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza”.
Giochi d’azzardo e scommesse. — 1. Regio decreto-legge 19 ottobre 1938, n. 1933, recante “Riforma delle leggi sul lotto pubblico”.
Armi ed esplosivi. — 1. Legge 9 luglio 1990, n. 185, recante “Nuove norme sul controllo delle esportazioni, importazioni e transito dei materiali di armamento”.
2. Legge 18 aprile 1975, n. 110, recante “Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli
esplosivi”.
3. Legge 23 dicembre 1974, n. 694, recante la “Disciplina del porto delle armi a bordo degli aeromobili”.
4. Legge 23 febbraio 1960, n. 186, recante “Modifiche al R.D.L. 30 dicembre 1923, n. 3152, sulla obbligatorietà della punzonatura
delle armi da fuoco portatili”.
Elezioni e finanziamento ai partiti. — 1. Legge 21 febbraio 2014, n. 13, recante “Abolizione del finanziamento pubblico diretto,
disposizioni per la trasparenza e la democraticità dei partiti e disciplina della contribuzione volontaria e della contribuzione indiretta in loro favore”.
2. Legge 27 dicembre 2001, n. 459, recante “Norme per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all’estero”.
3. Decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533, recante “Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica”.
4. Legge 10 dicembre 1993, n. 515, recante “Disciplina delle campagne elettorali per l’elezione della Camera dei deputati e al Senato della Repubblica”.
5. Legge 25 marzo 1993, n. 81, concernente “Elezione diretta del Sindaco, del Presidente della Provincia, del Consiglio comunale e
del Consiglio provinciale”.
6. Legge 18 novembre 1981, n. 659, recante “Modifiche ed integrazioni alla legge 2 maggio 1974, n. 195, sul contributo dello Stato
al finanziamento dei partiti politici”.
7. Legge 24 gennaio 1979, n. 18, concernente “Elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia”.
8. Legge 25 maggio 1970, n. 352, recante “Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo”.
9. Legge 17 febbraio 1968, n. 108, recante “Norme per la elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto normale”.
10. Decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 1967, n. 223, recante “Approvazione del testo unico delle leggi per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali”.
11. Decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570, recante “Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali”.
12. Decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, recante “Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme
per la elezione della Camera dei deputati”.
13. Legge 8 marzo 1951, n. 122, recante “Norme per le elezioni dei Consigli provinciali”.
Proprietà intellettuale e industriale. — 1. Legge 22 aprile 1941, n. 633, concernente la “Protezione del diritto d’autore e di altri
diritti connessi al suo esercizio”.
216
ı La struttura del reato
— l’abusiva concessione in noleggio di beni tutelati dal diritto di autore (art. 171-quater della
legge 633/1941);
— l’alterazione del contrassegno di macchine utensili (art. 15 della L. 1329/1965);
— vari reti in materia di contrabbando (gli articoli da 282 a 291 del d.P.R. 43/73).
Va ricordato che l’art. 8 del decreto legislativo 8/2016 ha espressamente previsto che «1.Le disposizio‑
ni del presente decreto che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano an‑
che alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto stesso, sempre
che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili.
2. Se i procedimenti penali per i reati depenalizzati dal presente decreto sono stati definiti, pri‑
ma della sua entrata in vigore, con sentenza di condanna o decreto irrevocabili, il giudice dell’ese‑
cuzione revoca la sentenza o il decreto, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come
reato e adotta i provvedimenti conseguenti. Il giudice dell’esecuzione provvede con l’osservanza
delle disposizioni dell’articolo 667, comma 4, del codice di procedura penale.
3. Ai fatti commessi prima della data di entrata in vigore del presente decreto non può essere ap‑
plicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena
originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’articolo 135
del codice penale. A tali fatti non si applicano le sanzioni amministrative accessorie introdotte
dal presente decreto, salvo che le stesse sostituiscano corrispondenti pene accessorie.»
Va, infine, ricordato che il primo comma dell’art. 131bis, introdotto dal D.Lgs. 16 marzo 2015, n.
28 emanato in attuazione della delega conferita al Governo dalla legge 28 aprile 2014, n. 67,
prevede che «nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cin‑
que anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclu‑
sa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai
sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta
non abituale».
L’istituto della irrilevanza penale del fatto per la sua lieve entità è già noto nel nostro sistema,
trovando applicazione sia nel processo minorile (art. 27 d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448) che in
quello relativo alla competenza penale del giudice di pace (art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274).
Tale norma, che sarà esaminata nel successivo Capitolo 31, avrà senz’altro un notevole effetto deflattivo del nostro sistema processuale penale, portando ad una concreta depenalizzazione dei fatti in cui la sanzione penale non risulta necessaria, facendo comunque salva la possibilità, per le persone offese, di ottenere il risarcimento dei danni subiti nella compente sede
civile.
5 Gli elementi essenziali generali del reato
A) Generalità
Abbiamo definito, al precedente §2, il reato come «atto giuridico illecito»; esso, dunque, consiste in una condotta umana che contrasta con una determinata norma.
217
Capitolo 9
ı
Minimo essenziale per l’esistenza del reato è, pertanto:
— una condotta, intesa come comportamento, commissivo (cd. azione) od omissivo (cd. omissione);
— umana, cioè posta in essere dall’uomo e quindi riferibile alla sua volontà;
— che contrasti con l’ordinamento (antigiuridicità).
Se nessuno dubita che i primi due, e cioè il cd. fatto e la cd. colpevolezza, siano elementi essenziali del reato (24), c’è discussione in dottrina sul terzo, e cioè sulla cd. «antigiuridicità», che per alcuni
sarebbe anch’essa elemento essenziale, mentre per altri si porrebbe su di un piano diverso; da qui l’esistenza di due correnti dottrinarie al riguardo: quella della bipartizione e quella della tripartizione.
Ad esse va,poi, aggiunta un’ulteriore corrente dottrinaria, che ritiene essere addirittura quattro
gli elementi generali essenziali di ogni reato.
Esaminiamole.
B) Teoria della bipartizione
La dottrina tradizionale (ANTOLISEI (25), MANTOVANI (26), MANZINI (27)), ravvisa nell’ambito del reato due elementi fondamentali:
— un elemento oggettivo (fatto materiale), costituito dall’azione od omissione, dall’evento natu‑
ralistico (quando c’è) e dal rapporto di causalità che deve intercorrere tra condotta ed evento;
— un elemento soggettivo (colpevolezza), costituito dall’atteggiamento psicologico richiesto
dalla legge per la commissione di un dato reato (dolo, colpa, preterintenzione) ai fini dell’imputazione soggettiva del fatto criminoso.
Secondo questa teoria, l’antigiuridicità, e cioè il contrasto tra il fatto e la norma, non costituirebbe un terzo, autonomo elemento essenziale del reato, ma sarebbe l’«essenza», la «natura intrinse‑
ca», l’«in sé» del reato (ROCCO (28)). Essa è, in sostanza, quel giudizio di disvalore sociale del fat‑
to che lo caratterizza e lo qualifica come illecito e, più precisamente, come reato (ANTOLISEI (29)).
Per tale teoria, la presenza di una causa di giustificazione (es. legittima difesa), non esclude semplicemente l’antigiuridicità, bensì esclude l’esistenza stessa del fatto tipico (cause di giustificazione come elementi negativi del fatto).
Va segnalata anche la posizione di PANNAIN il quale, dopo avere seguito la teoria della bipartizione, nell’ultima edizone del suo Manuale (30) sostenne che «il reato è un’entità individua,
(24) Trattasi degli elementi essenziali generali del reato, cioè di quelli che si riscontrano in tutte le singole figure di reato. Da essi
vanno distinti i cd. elementi essenziali speciali, cioè quelli che, nei singoli casi, concorrono con gli elementi generali per comporre
le singole figure di reato. Dagli elementi essenziali, sia generali che speciali, vanno poi tenuti distinti i cd. elementi accidentali: mentre,
infatti, senza gli elementi essenziali (anche detti costitutivi) il reato non può esistere, la presenza o assenza degli elementi accidentali
non incide, invece, sulla esistenza del reato bensì solo sulla sua gravità e, quindi, di conseguenza, sulla entità della pena. Anche tali
elementi, ha precisato la Corte Costituzionale nella famosa sentenza 364/88 (su cui v. infra il §4 del Cap. 14), sono «elementi significativi della fattispecie, perché attengono alla maggiore o minore gravità dell’offesa ma non sono essenziali, perché la loro presenza non è
richiesta ai fini dell’esistenza del reato. Sono elementi accidentali del reato le circostanze; di esse si dirà infra, al Cap. 23.
(25) Cfr. Antolisei: Op. cit., pag. 214 e segg.
(26) Cfr. Mantovani: Op. cit., pag. 137 e segg.
(27) Cfr. Manzini: Trattato di diritto penale italiano. Quinta edizione aggiornata da P. Nuvolone e G. D. Pisapia, Vol. I, Torino 1981, pag. 607.
(28) Cfr. Rocco: L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale, Torino 1913, pag. 474.
(29) Cfr. Antolisei: Op. cit., pag. 197.
(30) Cfr. Pannain: Op. cit., pag. 223 e segg.
218
ı La struttura del reato
che può ben essere studiata nei suoi componenti, ma non può essere scomposta senza annullar‑
ne essenza vitalità…….Volere scomporre il reato in «fatto» (o «tipicità») «antigiuridicità» e «colpe‑
volezza» significa spezzettarlo in vari frammenti senza alcun vincolo di coesione tra loro, sì da
fare scomparire la «suitas» o caratteristica individualità»: l’Autore, dunque, pur ammettendo la
possibilità di uno studio separato dei vari elementi del reato, sottolineò la necessità che, comunque, il reato fosse sempre considerato come un’entità unitaria.
C) Teoria della tripartizione
Altra parte della dottrina, ed è quella oggi prevalentemente (DELITALA (31), PETROCELLI (32),
BETTIOL (33), FIANDACA-MUSCO (34), FIORE (35) ritiene, invece, che anche l’antigiuridicità
costituisca elemento essenziale del reato, e più precisamente rappresenta l’elemento valutativo, che si aggiunge al «fatto» ed alla «colpevolezza» che sono elementi descrittivi.
Il «fatto» e la «colpevolezza», invero, si limitano a descrivere la condotta da prendere in considerazione ai fini della configurabilità del reato; l’uno e l’altra, però, sono di per sé neutri, in quanto non ci dicono se quella condotta è lecita o illecita; occorre a tal fine un ulteriore accertamento, una ulteriore valutazione fatta alla stregua dell’intero ordinamento giuridico per decidere se
quel «fatto colpevole» è anche antigiuridico.
Così, ad esempio, davanti al fatto di un uomo che ha ucciso un altro uomo non possiamo senz’al‑
tro dire di trovarci davanti ad un illecito e, più precisamente, ad un reato: per compiere tale ul‑
teriore valutazione, dopo aver accertato il fatto, sarà necessario accertare che, accanto ed oltre
l’art. 575 che punisce «chiunque cagiona la morte di un uomo» non ci sia un’altra norma che, in
quel caso concreto autorizza o impone l’omicidio; se tale norma c’è (si pensi, ad esempio, agli
artt. 51, 52, 53 e 54 di cui parleremo più avanti) ed il fatto è riconducibile ad essa, noi diremo
che tale uccisione non è antigiuridica.
Ne consegue che anche l’antigiuridicità è un elemento essenziale del reato: senza di essa,
infatti, e cioè senza quella ulteriore valutazione che ci dica se il fatto è lecito o illecito, non
c’è reato. In tal modo si può affermare che l’antigiuridicità consiste nella mancanza di cause di giustificazione ovvero di una norma di portata generale (e, appunto in quanto tale,
prevalente sulla norma incriminatrice speciale) che autorizza o impone quel dato comportamento.
D) Teoria della quadripartizione (MARINUCCI, DOLCINI)
Altra dottrina, infine, è giunta a delineare la teoria della quadripartizione secondo la quale
ulteriore elemento del reato, oltre ai tre appena esaminati, sarebbe la punibilità del fatto anti‑
giuridico e colpevole (marinucci e DOLCINI (36)).
(31) Cfr. Delitala: Il fatto nella teoria generale del reato, Padova 1930, pag. 13 e segg.
(32) Cfr. Petrocelli: Principi di diritto penale, Napoli 1955, pag. 237.
(33) Cfr. Bettiol: Op. cit., pag. 171 e segg.
(34) Cfr. Fiandaca‑Musco: Op. cit., pag. 156.
(35) Cfr. Fiore: Diritto Penale. Parte Generale, Vol. I, Torino 1993, pag. 117 e segg.
(36) Cfr. Fiore: Diritto Penale. Parte Generale, Vol. I, Torino 1993, pag. 117 e segg.
219
Capitolo 9
ı
Con tale tesi, si sostiene, si valorizza l’elemento della punibilità come complesso di fattori esterni al fatto di reato che possono portare ad escludere l’opportunità della sanzione, secondo una
valutazione spesso operata dal legislatore.
6 Presupposti del reato e presupposti del fatto
Secondo una parte della dottrina dagli elementi del reato occorrerebbe tener distinti i cd. presupposti del reato, che sarebbero:
— per MASSARI (37) e BELLAVISTA (38) la norma incriminatrice;
— per DELITALA (39) il soggetto attivo e l’oggetto giuridico del reato;
— per LEONE (40) e PANNAIN (41) l’imputabilità del reo.
Tale categoria è, però, criticata dalla restante dottrina (ANTOLISEI (42), BETTIOL (43)) per la
quale sarebbe piuttosto preferibile (e più utile) configurare la categoria dei presupposti del
fatto, quegli elementi (naturali, cioè di fatto, e giuridici, cioè derivanti dalla legge) preesistenti
all’azione delittuosa e da essa indipendenti: così, ad esempio, lo stato di gravidanza della donna è un presupposto del fatto del procurato aborto ed è una situazione di fatto che preesiste rispetto alla condotta delittuosa. ANTOLISEI (44), in particolare, preferisce denominare quest’ultima categoria «presupposti della condotta» precisando che gli elementi in parola sono sempre requisiti essenziali, rientrano sempre cioè nella struttura dei reati ai quali si riferiscono facendone parte integrante (esempio: la qualità di pubblico ufficiale, che distingue la figura del
peculato da quella dell’appropriazione indebita).
7 Distinzioni dei reati - delitti e contravvenzioni
Dei reati si fanno varie distinzioni e classificazioni, a seconda di come si atteggiano i vari elementi strutturali (condotta, evento, oggetto giuridico etc. v. infra). Alcune di queste classificazioni sono previste ed utilizzate già nel codice penale; altre, invece, sono delineate dalla dottrina. La classificazione generale più importante è quella, espressamente prevista dal codice, dei
delitti e delle contravvenzioni.
La dottrina ha a lungo discusso se si possa delineare un criterio sostanziale di distinzione tra delitti e contravvenzioni.
(37) Cfr. Massari: Le dottrine generali del diritto penale, Napoli 1930, pag. 65 e segg.
(38) Cfr. Bellavista: Il problema della colpevolezza, Palermo 1942, pag. 179 e segg.
(39) Cfr. Delitala: Op. cit., pag. 189 e segg.
(40) Cfr. Leone: L’imputabilità nella teoria del reato, in Rivista italiana di diritto penale, Padova ‑ Milano 1937, pag. 361.
(41) Cfr. Pannain: Op. cit., pag. 275.
(42) Cfr. Antolisei: Op. cit., pag. 216.
(43) Cfr. Bettiol: Op. cit., pag. 181 e segg.
(44) Cfr. Antolisei: Op. e loc. ult. cit.
220
ı La struttura del reato
La teoria classica (BECCARIA (45), CARMIGNANI (46)) considerava, piuttosto intuitivamente, «mala
in se» i delitti, mentre le contravvenzioni erano «mala quia prohibita». Così si riteneva che i delit‑
ti avessero un rilievo sociale tale da costituire dei fatti dannosi in se stessi, al di là e indipendentemente dalla previsione legislativa che li puniva, mentre invece le contravvenzioni consistevano in comportamenti in se stessi non nocivi, ma che lo divenivano solo perché considerati tali
dalla legge, al momento in cui li proibiva. Questa concezione oggi non può considerarsi più attuale né esatta. Esistono non poche contravvenzioni che contengono in sé un notevole grado di
dannosità (si pensi, ad esempio, alle contravvenzioni, in materia di inquinamento), come esistono delitti che, pur considerati tali dalla legge, non possono definirsi dei fatti dannosi.
Inoltre, occorre tener presente che è assai difficile voler ricercare la dannosità d’un fatto costituente reato, e come tale previsto e punito dalla legge, in criteri ed elementi estranei alla legge
stessa: in tal modo si rischia di incontrare gli stessi ostacoli che, come abbiamo visto (v. supra),
si ritrovano anche quando si vuole affermare la cd. nozione sostanziale del reato.
Altri autori (G. SABATINI (47)) ritengono che i delitti sono reati che ledono i diritti inviolabili
dell’uomo, tutelati espressamente e specificamente nella Costituzione, mentre le contravvenzio‑
ni consisterebbero nella violazione di quei doveri inderogabili di solidarietà politica, economi‑
ca e sociale cui fa riferimento generico l’art. 2 della stessa Carta Costituzionale.
Anche a questa teoria si obietta che la distinzione (a parte la difficoltà di distinguere i diritti fondamentali dai casi in cui si violano diritti particolari) potrebbe valere solo per alcuni delitti e per
alcune contravvenzioni, e non avrebbe carattere generale.
Il criterio più sicuro, e quindi preferibile, resta quello formale adottato dallo stesso codice penale che all’art. 39 dispone che «i reati si distinguono in delitti e contravvenzioni, secondo la diversa specie delle pene per essi rispettivamente stabilite da questo codice». E l’art. 17 dispone
che «le pene principali stabilite per i delitti sono l’ergastolo, la reclusione e la multa; le pene prin‑
cipali stabilite per le contravvenzioni sono l’arresto e l’ammenda».
Tale criterio va integrato con le disposizioni contenute nel R.D. 28 maggio 1931, n. 601 (Disposizioni di coordinamento e transitorie per il codice penale), in base alle quali per le leggi speciali anteriori al codice penale:
— sono considerate contravvenzioni i reati per i quali dalla legge è stabilita la pena della multa non superiore a 206
euro; sola oppure congiuntamente o alternativamente con l’ammenda, o con una pena pecuniaria senza indicazione della specie, anche se determinate in misura fissa, oppure proporzionale (art. 5/2);
— qualora le circostanze non si limitano ad aumentare la multa oltre il tetto fissato dall’art. 5, ma comportano una
pena di specie diversa, la natura del reato aggravato si desume dalla pena prevista per tale ipotesi (art. 9);
— se per il reato sono comminate, congiuntamente o alternativamente, una pena detentiva ed una pecuniaria, si ha
riguardo alla sola pena detentiva (art. 5/4);
— se la legge stabilisce la pena della multa o dell’ammenda senza determinarne l’ammontare, l’ammontare è fissato ex art. 8, da cui si ricava che la multa non supera i 206 euro e quindi il reato è una contravvenzione (art. 5);
— se la pena stabilita è diversa da quelle indicate dall’art. 17 c.p., si applica la pena corrispondente ex art. 12 (art. 6);
— i reati per cui la legge stabilisce solo la pena pecuniaria senza indicare la specie, si considerano contravvenzioni se la pena non supera i 206 euro o si tratta di pena proporzionale (art. 7).
(45) Cfr. Beccaria: Dei delitti e delle pene, Venezia 1781, §§VIII e XI.
(46) Cfr. Carmignani: Teoria delle leggi di sicurezza sociale, Tomo III, Pisa 1832, pag. 261 e segg.
(47) Cfr. Sabatini: Le contravvenzioni nel codice penale vigente, Milano 1961, pagg. 33 e segg.
221
Capitolo 9
ı
Esso va integrato, altresì, dal disposto del primo comma dell’art. 58 del D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 che, con riferimento alle sanzioni dell’obbligo di permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità applicabili dal giudice di
pace ai sensi dell’art. 52 dello stesso decreto, sancisce che «per ogni effetto giuridico» e, quindi, anche al fine di accertare la natura di delitto o contravvenzione del fatto punito, tali sanzioni «si considerano come pena detentiva del‑
la specie corrispondente a quella della pena originaria».
La distinzione tra delitti e contravvenzioni, da farsi in base alla pena stabilita dalla legge, comporta varie differenze di disciplina stabilite dalla legge stessa:
a) quanto all’elemento psicologico, salvo che la legge espressamente preveda una contravvenzione dolosa (es.: art. 660, molestia o disturbo alle persone), tutte le contravvenzioni sono punibili,
sia se commesse con dolo, sia se commesse con colpa (v. artt. 42 e 43 ult. comma c. p.) (48);
b) il tentativo (art. 56) è possibile solo per i delitti (49);
c) alcune circostanze del reato sono previste soltanto per i delitti e non anche per le contravvenzioni (es. art. 61 n. 3, 7, 8) (50);
d) la punibilità per i fatti commessi all’estero, in quanto, come si ricorderà, i reati commessi all’estero e punibili nel territorio dello Stato, salva l’eccezione dell’art. 7 n. 5, sono soltanto delitti;
e) il «reato politico» è solo e sempre un delitto (v. art. 8).
Altre differenze riguardano:
— la abitualità criminosa (art. 102 comma 1);
— la professionalità nel reato (art. 105 ex artt. 102-104);
— la tendenza a delinquere (art. 108);
— la prescrizione del reato (art. 157);
— l’estinzione della pena (artt. 172-173);
— l’oblazione (art. 162);
— le misure di sicurezza (artt. 215-217).
Sezione Seconda
L’oggetto giuridico del reato
8 Generalità
Si è detto, all’inizio (v. retro, Introduzione §1), che la norma penale prevede e punisce quei
comportamenti che appaiono contrari alle regole del buon vivere sociale perché offendono determinati beni o interessi. Ogni norma penale, dunque, tutela un determinato bene o interesse.
L’oggetto giuridico del reato è, appunto, il bene giuridico o l’interesse giuridico tutelato dalla norma che prevede il reato stesso: ad esempio, la norma che punisce il reato di omicidio tutela il
bene giuridico «vita», la norma che punisce il reato di furto tutela il bene giuridico «patrimonio»
(e, più in particolare, il «possesso della cosa mobile»), la norma che punisce il reato di evasione
(48) V. infra, Cap. 18, §2.
(49) V. infra, Cap. 20, §10.
(50) V. infra, Cap. 23.
222
ı La struttura del reato
tutela l’interesse dello Stato, quale Amministrazione della Giustizia, alla regolare esecuzione delle sentenze di condanna passate in giudicato e così via.
Nell’individuazione dell’oggetto giuridico del reato è ovviamente importante la scelta fatta dallo stesso legislatore, scelta resa palese dalla collocazione sistematica della norma.
Si ricordi che nel codice i reati sono proprio raggruppati con riferimento alla loro oggettività giuridica.
Così:
a) il Titolo I del Libro Secondo contiene i «delitti contro la personalità dello Stato», ulteriormente distinti e raggruppati nei capi in cui il titolo è diviso in:
— «delitti contro la personalità internazionale dello Stato» (capo I);
— «delitti contro la personalità interna dello Stato» (capo II);
— «delitti contro i diritti politici del cittadino» (capo III);
— «delitti contro gli Stati esteri, i loro Capi e i loro Rappresentanti» (capo IV).
b) il Titolo II contiene i «delitti contro la Pubblica Amministrazione», ulteriormente distinti in:
— «delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A.» (capo I);
— «delitti dei privati contro la P.A.» (capo II).
e così via.
Tale scelta legislativa, tuttavia, non è né vincolante né esaustiva, sia perché il bene protetto può
risultare diverso da quello indicato dal legislatore sia perché spesso le norme penali tutelano
anche altri beni oltre quelli espressamente indicati dal legislatore. Si ritiene oggi in dottrina che
con l’entrata in vigore della Costituzione, l’individuazione dei beni protetti dalle norme penali
vada fatta con riferimento alla stessa Costituzione: se è vero, infatti (51), che il ricorso alla pena
criminale deve costituire l’extrema ratio per il legislatore, sarà allora necessario riservare tale ricorso solo ai fatti che offendono i beni o gli interessi di maggiore rilievo sociale, che sono solo
quelli dotati di diretta rilevanza costituzionale o socialmente considerati tali.
Abbiamo fin qui usati i termini di «bene» e «interesse» in modo fungibile.
Ad ulteriore precisazione di quanto già accennato (52) PANNAIN (53) ha rilevato che i due concetti vanno distinti:
— bene è tutto ciò che può soddisfare un bisogno umano;
— interesse, è, invece, il giudizio fra il proprio bisogno e il mezzo di soddisfazione del bisogno.
Tuttavia, nel linguaggio giuridico i due termini hanno finito per identificarsi, nel senso che l’interesse è il bene stesso in tanto quanto desta interesse (così PANNAIN (54), che cita espressamente GRISPIGNI).
L’oggetto giuridico non va poi confuso con l’oggetto materiale dell’azione: così, ad esempio, nel furto di un portafogli oggetto materiale della condotta è, appunto, il portafogli mentre oggetto giuridico del reato è il patrimonio.
L’oggetto giuridico, quindi, è una entità concettuale, un valore alla cui tutela è indirizzata la
norma; oggetto materiale dell’azione è invece sempre un qualcosa di concreto, di tangibile,
su cui incide materialmente la condotta tipica.
(51) V. retro, Introduzione, §3.
(52) V. retro, Introduzione, §1.
(53) Cfr. Pannain: Op. cit., pag. 32 e segg.
(54) Cfr. Pannain: Op. cit., pag. 34, nota (1).
223
Capitolo 9
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9 Le costruzioni più risalenti del bene giuridico e le obiezioni della dottrina
A) Teorie sul bene giuridico
Varie teorie sono state prospettate con riferimento al bene giuridico negli anni immediatamente precedenti ed immediatamente successivi alla promulgazione del codice.
Due, in particolare, meritano di essere ricordate: quella di Rocco e quella di Bettiol:
a) Teoria del ROCCO
ROCCO (55) distingue in ogni reato un oggetto formale ed un oggetto sostanziale, il quale a sua
volta si distingue in oggetto sostanziale generico ed oggetto sostanziale specifico:
— oggetto formale del reato è il diritto all’obbedienza che lo Stato vanta nei confronti dei cittadini;
— oggetto sostanziale generico è l’interesse dello Stato alla propria conservazione;
— oggetto sostanziale specifico, infine, è l’interesse particolare del singolo individuo leso dal
reato.
Tale distinzione, secondo l’Autore, sottolinea che il diritto penale non tutela i singoli accordando loro una facoltà di azione, ma li tutela assumendo in capo a sé i loro interessi.
La visione di Rocco è stata trasfusa nel codice penale vigente, che appunto del Rocco quale
«Guardasigilli» porta la firma, codice in cui i reati, come già prima evidenziato, sono ordinati appunto con riferimento al loro oggetto sostanziale specifico.
b) Teoria di BETTIOL
Accanto alla «teoria concettualistica» di Rocco, si sviluppa la «teoria degli interessi», che ha trovato nel
BETTIOL (56) il suo massimo esponente in Italia. Secondo questa teoria, i concetti di «bene giuridico» e
di «interesse» costituiscono dei «valori», cioè l’ordine delle cose che l’uomo deve seguire nelle sue scelte.
Si tratta di una visione filosofica del diritto penale che ha il pregio di offrire una classificazione
dei beni protetti di natura sostanziale e non superficiale.
B) Critiche della dottrina dell’epoca
La Dottrina contemporanea o immediatamente successiva ai due citati Autori ha mosso varie critiche alle loro teorie sul bene giuridico.
ANTOLISEI (57), in particolare, nega che il bene giuridico abbia un rilievo fondamentale nella
struttura del reato perché:
— il concetto di bene giuridico è insufficiente ai fini dell’interpretazione della norma: le norme penali non sempre tutelano beni diversi, infatti, possono tutelare anche il medesimo
(55) Cfr. Rocco: Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, in Opere giuridiche, Vol III, Roma 1933, pag. 263 e segg.,
nonché Rocco: L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale cit., pag. 553 e segg.
(56) Cfr. Bettiol: Op. cit., pag. 151 e segg.
(57) Cfr. Antolisei: Op. cit., pag. 181 e segg.
224
ı La struttura del reato
bene ed in tali casi per differenziare i vari reati non basta il criterio distintivo del bene giuridico;
— in molte figure di reato l’individuazione dell’oggetto giuridico (e quindi del bene protetto) pone molte difficoltà soprattutto interpretative; né sono sempre determinanti le classificazioni del codice (es. reati contro il patrimonio; reati contro l’incolumità pubblica etc.), spesso assai generiche;
— in taluni reati minori (es. molte contravvenzioni) un vero e proprio bene giuridico da tute‑
lare non esiste affatto, e così pure in quelle norme che vietano comportamenti di per sé
non dannosi né pericolosi;
— il riferimento al bene giuridico tutelato segnala soltanto l’entità del danno che è stato cagionato alla vittima del reato.
10 Dottrine più recenti sulla rilevanza del bene giuridico
Anche la dottrina più recente si è interessata della rilevanza del bene giuridico, formulando varie teorie con riguardo ad essa.
Diamone un rapido cenno.
A) La teoria del «bene giuridico» come elemento costitutivo del reato
Parte della dottrina (GALLO (58), BRICOLA (59), NEPPI-MODONA (60)) ha ravvisato, nell’ogget‑
to giuridico del reato, un elemento costitutivo, al pari della condotta, dell’evento e del nesso di
causalità. A conferma di ciò il reato impossibile non si concreta in un tentativo inidoneo (come
si ritiene comunemente), ma in un’azione che non offendendo un bene o un interesse concreto, non è punibile.
Questa tesi è, però, avversata dalla dottrina prevalente e dalla giurisprudenza, per le quali ritenere l’oggetto giuridico del reato (cioè l’interesse tutelato dalla norma penale), come suo elemento costitutivo porterebbe ad individuare l’oggetto giuridico stesso, sulla base di criteri extralegali lasciando spazio a interpretazioni giurisprudenziali non compatibili con il principio di
legalità.
B) La teoria del reato come offesa di beni giuridici costituzionalmente rilevanti
Per BRICOLA (61), il fatto che:
— la pena incide sulla libertà personale e, quindi, su un bene che il 1° comma dell’art. 13 della Costituzione qualifica come «inviolabile»;
(58) Cfr. M. Gallo: L’elemento oggettivo del reato, Torino 1967, pag. 16 e segg. nonché M. Gallo: Il reato nel sistema degli illeciti, in
Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1999, pag. 769 e segg.; in particolare: pag. 779 e segg.
(59) Cfr. Bricola: Op. cit., pag. 19 e segg.
(60) Cfr. Neppi-Modona: Reato impossibile, in Digesto delle Discipline Penalistiche, Vol. XII, Torino 1996, pag. 260 e segg.
(61) Cfr. Bricola: Op. e loc. ult. cit.
225
Capitolo 9
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—le pene devono «tendere alla rieducazione del condannato» (art. 27, 3° comma Cost.), ovvero all’assimilazione da parte di questi dei valori sociali espressi dalla Carta Costituzionale;
— la previsione normativa dei reati è coperta da riserva assoluta di legge statale (art. 25, 2º comma Cost.);
—la responsabilità penale «è personale» (art. 27, 1° comma Cost.), per cui deve essere il frutto di una valutazione articolata e complessa, spinta oltre la soglia del «foro interno» del
soggetto;
— determina una stretta relazione tra «pena» e «beni (o valori) costituzionali» per cui il reato
deve necessariamente consistere nell’offesa significativa di beni costituzionalmente
rilevanti.
Questa tesi, pur se criticata in dottrina, fu fatta propria dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che in una circolare del 19 dicembre 1983 fissò i criteri orientativi per la scelta tra sanzioni penali e sanzioni amministrative, stabilendo appunto che il ricorso alla sanzione penale
deve porsi «come ultima ratio, quando cioè sia esaurita qualsiasi possibilità di tutela attraver‑
so strumenti sanzionatori che non incidano su un bene di rango così elevato qual è la libertà
personale (62).
C) Rilevanza e funzione dell’oggetto giuridico del reato
La rilevanza dell’oggetto giuridico del reato si coglie, come rileva MANZINI, ogni qualvolta la figura criminosa non sia espressamente inserita dalla legge in una particolare categoria (come avviene di regola per i reati previsti da leggi speciali) ma sia tuttavia indispensabile accertarne la
natura, ai fini della applicazione di una determinata disciplina.
Si pensi, ad esempio, alla circostanza di cui all’art. 61 n. 7 (danno di particolare gravità) che,
per espressa dizione della norma, si applica ai «delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio»; presupposto della applicabilità è, dunque, che si accerti la natura di «de‑
litto contro il patrimonio», e, quindi, l’oggetto giuridico del reato.
Inoltre, proprio con riferimento alle circostanze di cui agli artt. 61 n. 7 e 62 n. 4, si discute se i
reati di bancarotta, previsti dalla Legge Fallimentare, siano da considerare, oltre che reati specifici contro il complesso dei rapporti giuridici facenti capo all’impresa, anche reati contro il pa‑
trimonio. Analogo problema si pone anche con riferimento ai delitti di falso (63).
Così con riguardo all’art. 649 (che prevede la punibilità solo a querela della persona offesa per
i reati commessi contro il patrimonio di un proprio congiunto) che si applica a tutti i reati contro il patrimonio: ogni qualvolta che si pone il problema di applicabilità di tale causa di non
punibilità ad un reato previsto da una legge speciale sarà necessario accertare l’oggetto di detto reato.
(62) V. il §12, Introduzione, per una trattazione più ampia della problematica dei beni costituzionalmente rilevanti.
(63) Si vedano, con riferimento a tale problema, Cass. 18-4-1966, n. 833; Cass. 8-3-1982, n. 2520 e Cass. 12-8-1986, n. 8295.
226
ı La struttura del reato
D) Conclusioni
In conclusione, dunque, ed in linea con la dottrina più moderna (FIANDACA-MUSCO, (64) PULITANÒ (65), M. ROMANO (66), BRICOLA (67), GAROFOLI (68)), possiamo dire che il bene
giuridico svolge nel diritto penale:
— una funzione dogmatica, in quanto è di ausilio alla ricognizione del sistema penale vigente;
— una funzione classificatoria, in quanto costituisce guida al raggruppamento dei reati in un
ordine legale rappresentativo di una gerarchia di valori;
— una funzione interpretativa, in quanto giova alla comprensione del significato della fattispecie astratta con riguardo al momento della dannosità sociale;
— una funzione critica di orientamento di politica criminale poiché indirizza il legislatore nella scelta dei fatti punibili, in quanto il ricorso alla pena trova giustificazione soltanto se
la sua minaccia tutela beni socialmente rilevanti;
— una funzione limitativa delle scelte del legislatore, in quanto obbliga il legislatore ad ancorare ogni previsione di reato ad una reale idoneità del fatto a determinare un danno sociale.
L’importanza del concetto di bene giuridico risulta evidente se si considera che, già nelle disposizioni della parte generale del codice penale, si fa riferimento per più versi al bene tutelato. Su
tale concetto si incentrano i seguenti elementi:
— evento giuridico;
— soggetto passivo del reato;
— consenso dell’avente diritto;
— antigiuridicità del fatto;
— consumazione del reato.
E) Distinzioni dei reati in relazione all’oggetto giuridico
In relazione al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, si distinguono:
1) reati monoffensivi: per l’esistenza dei quali è necessaria e sufficiente l’offesa di un solo
bene giuridico (ad esempio, omicidio, lesioni, ingiuria, danneggiamento);
2) reati plurioffensivi: i quali offendono necessariamente più beni giuridici (ad esempio, la
rapina che lede congiuntamente sia il patrimonio che la libertà personale; la calunnia che
offende l’interesse statale alla regolare amministrazione della giustizia e l’interesse della persona falsamente incolpata);
3) reati ostacolo (o di mero scopo): attiene alla distinzione dei reati in relazione all’oggetto
anche la categoria dei cd. reati ostacolo o di mero scopo, reati nei quali, cioè, «si incrimina
(64) Cfr. Fiandaca-Musco: Op. e loc. ult. cit.; si veda anche Fiandaca: Il «bene giuridico» come problema teorico e come criterio di po‑
litica criminale, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1982, pag. 42 e segg.
(65) Cfr. Pulitanò: La teoria del bene giuridico tra codice e Costituzione, in Questione criminale, 1981, pag. 120 e segg.
(66) Cfr. M. Romano: Commentario sistematico del Codice Penale, Vol. I, Milano 1995, pag. 278 e segg.
(67) Cfr. Bricola: Op. e loc. ult. cit.
(68) Cfr. Garofoli: Manuale di Diritto Penale ‑ Parte generale, Milano 2003, pag. 265 e segg. e 315 e segg.
227
Capitolo 9
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non l’offesa di un bene giuridico, ma la realizzazione di certe situazioni che lo Stato ha in‑
teresse a che non si realizzino» (così MANTOVANI (69)).
Nello stesso senso è anche PADOVANI (70), il quale riporta alla categoria in esame la maggior
parte dei reati in materia di armi; ricorda, in particolare, l’Autore che «la detenzione o il porto
abusivo di armi (e cioè senza un provvedimento amministrativo che li legittimi) è punita non
perché offenda un particolare bene giuridico, ma perché risulta contraria alle esigenze di con‑
trollo sulla circolazione di strumenti suscettibili di essere impiegati per attività illecite. In effetti,
quand’anche si volesse supporre che la punizione della detenzione e del porto abusivo di armi
serva alla tutela di una serie indeterminata di beni giuridici (vita, patrimonio, libertà etc.) ag‑
gredibili mediante un’arma, rispetto ai quali la detenzione o il porto dell’arma rappresentereb‑
bero un pericolo (in questo senso si tratterebbe di reati plurioffensivi), bisognerebbe convenire
che il pericolo non muta a seconda che la detenzione o il porto siano o meno abusivi: anche
un’arma posseduta legittimamente può servire per un omicidio, per una rapina, per una minac‑
cia, e così via dicendo. Sottoponendo a controllo la detenzione e il porto d’armi si mira sempli‑
cemente ad evitare che questi strumenti possano circolare liberamente; ciò che, consentendo un
approvvigionamento indiscriminato, finirebbe con l’agevolare, secondo la valutazione del no‑
stro legislatore, le più diverse attività criminose».
11 Il danno nel reato. In particolare: i reati di pericolo
A) Generalità
Strettamente collegato al concetto di bene giuridico è quello di danno del reato. Il danno «penale» (o criminale: ANTOLISEI (71)) prodotto dal reato consiste nell’offesa del bene giuridico
tutelato. Tale offesa costituisce il cd. evento giuridico, che si verifica ogni volta che si commette un reato.
L’offesa (cioè l’evento giuridico) arrecata dal reato può assumere due forme: lesione o messa
in pericolo, a seconda che sia realmente leso il bene tutelato (es. omicidio consumato: la persona è stata uccisa e il bene «vita» è stato distrutto), oppure sia stato solo minacciato (es. omicidio tentato: si è cercato di uccidere una persona senza riuscirvi; il bene «vita» è stato messo solo
in pericolo, ma non è stato leso).
È appunto in relazione alla possibilità che dal reato derivi la lesione o la messa in pericolo del
bene tutelato che che si distinguono le due categorie dei:
— reati di danno;
— reati di pericolo.
(69) Cfr. Mantovani: Op. cit., pag. 236 e segg.
(70) Cfr. Padovani: Diritto Penale, Milano 1993, pag. 97 e segg.
(71) Cfr. Antolisei: Op. cit., pag. 178 e pag. 205 e segg.
228
ı La struttura del reato
B) Reati di pericolo. L’accertamento del pericolo
Attualmente, negli ordinamenti penali più avanzati, si assiste ad una progressiva espansione
della categoria dei reati di pericolo. Essa è dovuta, da un lato, allo sviluppo tecnologico,
che, determinando l’avvento di nuove attività rischiose, anche se socialmente utili, impone
l’emanazione di norme cautelari la cui inosservanza è penalmente sanzionata; dall’altro, all’assunzione da parte dello Stato di sempre maggiori compiti di natura solidaristica, che ha indotto il legislatore penale ad anticipare allo stadio della semplice messa in pericolo la tutela
di alcuni beni particolarmente rilevanti per la collettività (FIANDACA-MUSCO (72), MANTOVANI (73)).
I reati di pericolo sono di regola distinti in due categorie:
a) reati di pericolo concreto od offensivo, nei quali il pericolo è elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice ed il giudice deve accertarne di volta in volta l’esistenza in
concreto; sono reati di pericolo concreto la strage (art. 422), l’incendio di cosa propria
(art. 423), il danneggiamento seguito da incendio (art. 424) o da inondazione, frana o
valanga (art. 427).
Per accertare l’esistenza del pericolo, il giudice deve riportarsi al momento della condotta e
valutarne tutti i possibili effetti, secondo le previsioni della migliore scienza ed esperienza
umana (cd. giudizio ex ante). Per i reati di evento pericoloso nei quali il pericolo rappresenta l’evento stesso, la prognosi si colloca tra la fine della condotta e la fine dell’evento (MANTOVANI (74), FIANDACA-MUSCO (75);
b) reati di pericolo astratto (o presunto), nei quali il legislatore incrimina una condotta presu‑
mendone «iuris et de iure» la pericolosità, la cui sussistenza in concreto non è necessaria per
l’esistenza del reato; sono reati di pericolo presunto l’associazione per delinquere (art. 416),
l’apologia di delitto (art. 414 ult. cpv.), l’avvelenamento di acque o sostanze alimentari (art.
439), la fabbricazione o detenzione di sostanze esplodenti.
I reati di pericolo astratto (o presunto) pongono rilevanti dubbi di costituzionalità, proprio per
la diretta previsione legislativa della pericolosità del fatto punito, senza che si dia spazio al giudice nella valutazione della concreta offensività dei comportamenti costituenti reato. Tuttavia
questa rigorosità è tavolta compensata dalla necessità che il giudice accerti in modo puntuale se
il fatto concreto corrisponda alla dettagliata indicazione della norma (es. epidemia, disastro ferroviario). Solo ove, dunque, ricorra una lesività scientificamente indimostrabile o si voglia colpire una condotta che si considera lesiva di beni di dimensione collettiva, si porrà un vero problema di compatibilità col dettato costituzionale se alla base della norma incriminatrice non sia
sottesa una consolidata regola di esperienza.
(72) Cfr. Fiandaca‑Musco: Op. cit., pag. 179 e segg.
(73) Cfr. Mantovani: Op. cit., pag. 225 e segg.
(74) Cfr. Mantovani: Op. cit., pag. 225.
(75) Cfr. Fiandaca‑Musco: Op. cit., pag. 180 e segg.
229
Capitolo 9
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C) Danno civile e danno criminale
Dal danno criminale va distinto il danno civile (materiale o morale), cioè il danno risarcibile,
secondo le disposizioni degli artt. 2043 e ss. cod. civ.
Mentre può esservi un reato senza danno civilmente risarcibile (ad es. coloro che formano una
associazione per delinquere, commettono il reato ex art. 416 c.p., ma non recano alcun danno
civilmente risarcibile ad alcuno), viceversa non può esistere un reato senza danno penale (o criminale), cioè senza offesa ad un bene giuridico.
Sezione Terza
Il soggetto attivo ed il soggetto passivo del reato
12 Il soggetto attivo del reato
A) Generalità
Ogni reato è frutto del comportamento umano, e quindi presuppone necessariamente un soggetto che lo compia, detto, appunto, soggetto attivo o autore del reato.
Autore è chi realizza il fatto tipico, chi cioè pone in essere il comportamento costituente reato.
Tutte le persone fisiche possono essere soggetti attivi del reato: ogni persona ha cioè capacità
penale, ossia l’attitudine a porre in essere comportamenti penalmente rilevanti, senza distinzione di età, sesso o di altre condizioni soggettive.
Ne consegue che l’età, le situazioni di anormalità psico-fisica e le immunità non escludono l’illiceità penale, ma sono rilevanti solo ai fini della concreta applicabilità della pena.
B) Reati comuni e reati propri
A seconda del soggetto che compie il reato, si possono distinguere:
— reati comuni: realizzabili da ogni persona, indipendentemente dal possesso di particolari
qualifiche soggettive. In tale ipotesi, di regola, la norma fa ricorso all’espressione «chiunque»:
es. «Chiunque» cagiona la morte di un uomo (omicidio: art. 575);
— reati propri: sono quei reati per i quali la legge richiede una speciale qualifica del soggetto attivo. Chi rivesta la qualifica richiesta per commettere il reato prende il nome di intraneus.
I reati propri, a loro, volta si distinguono in due grandi categorie:
— reati propri esclusivi, in cui il fatto costituisce reato solo se commesso dall’intraneus, mentre è penalmente irrilevante se commesso da chi non possiede tale qualifica. Si pensi alla
falsa testimonianza (art. 372): solo il testimone (l’intraneus, appunto) può commetterla
mentre se a dire il falso è una persona diversa dal testimone il suo comportamento è penalmente irrilevante;
— reati propri non esclusivi, in cui il fatto è penalmente illecito indipendentemente dal suo
autore; tuttavia quando a commetterli è un soggetto che riveste una data qualifica, il reato
230
ı La struttura del reato
stesso «muta titolo», acquistando un nomen iuris ed una gravità diversa dall’ipotesi comune. Si pensi al fatto di appropriarsi di denaro o cosa mobile altrui di cui già si abbia il possesso: se a commetterlo è un soggetto qualunque il reato prende il nome di appropriazio‑
ne indebita (art. 646); se a commetterlo è un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio ed ha ad oggetto cose detenute per ragioni dell’ufficio o del servizio, il reato
prende il nome di peculato (art. 314).
Come vedremo, la distinzione tra reati propri esclusivi e reati propri non esclusivi ha notevole rilievo in materia di concorso di persone nel reato (art. 117) (76).
Non sempre è sufficiente, per stabilire se il reato sia comune o proprio, accertare se la norma
incriminatrice usi l’espressione «chiunque», ma occorre esaminare con attenzione la norma nel
suo complesso.
Ad esempio, l’art. 251 (inadempimento di contratti di forniture in tempo di guerra) usa tale
espressione («chiunque, in tempo di guerra, non adempie in tutto o in parte gli obblighi che gli
derivano da un contratto di fornitura»… etc.), ma dal testo si deduce che può commettere il reato solo colui che è contraente con lo Stato, o un ente pubblico etc. Si tratta, quindi, in questo
caso, malgrado la dizione imprecisa del legislatore, di una ipotesi di reato proprio.
Lo stesso avviene nel caso dell’art. 593 (omissione di soccorso), reato che, a dispetto della terminologia usata dal legislatore («Chiunque, trovando…») è reato proprio e non reato comune (77).
C) Il numero dei partecipanti
Oltre che da una sola persona, il reato può essere commesso anche da più soggetti.
Tale pluralità di soggetti attivi può essere:
— necessaria, nel senso che la stessa norma incriminatrice richiede che alcuni reati siano commessi da più di una persona (ad es. la rissa, art. 588; l’associazione per delinquere, art. 416
etc.): in tal caso si parla di reato plurisoggettivo, o, impropriamente, di reato a concorso
(di persone) necessario;
— non necessaria, ed allora il reato sarà monosoggettivo, anche se ciò non esclude che nel
caso concreto più soggetti possano commettere insieme il reato. Così, ad esempio, la rapina
può essere commessa da uno o da più soggetti; in quest’ultimo caso si applicano gli artt. 110
e ss. (sul concorso eventuale di persone nel reato), i quali mirano (pur ritenendo tutti i partecipanti egualmente colpevoli) a graduare le pene fra di essi in considerazione della maggiore o minore importanza della partecipazione di ciascuno.
Va precisato che l’ipotesi di concorso eventuale può verificarsi anche nei reati plurisoggettivi, se vi partecipano altri soggetti in aggiunta al numero di persone previsto dalla legge per commettere il reato.
Problemi particolari pongono però, come diremo, i cd. reati associativi.
Del concorso di persone nel reato parleremo diffusamente in seguito (78).
(76) V. infra, Cap. 24, §12.
(77) Si veda al riguardo Delpino: Diritto penale. Parte speciale, Napoli 2014, pag. 1412.
(78) V. infra, Cap. 24.
231
Capitolo 9
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13 Il problema della responsabilità delle persone giuridiche. In particolare: la responsabilità amministrativa
Si è già accennato in precedenza (79) che soggetto attivo del reato può essere solo una persona fisica: nel nostro ordinamento, infatti, non è ammessa la responsabilità penale degli enti,
siano essi dotati o meno di personalità giuridica («societas delinquere non potest»).
La non configurabilità di una responsabilità penale delle persone giuridiche viene desunta dal
principio costituzionale della personalità della responsabilità penale (art. 27 Cost.) (80).
A livello di legislazione ordinaria, essa trova conferma nell’art. 197 c.p., il quale, per i reati commessi dagli organi dell’ente nell’esercizio delle loro funzioni, pone a carico della persona giuridica solo un’obbligazione civile di garanzia.
Ciò spiega perché, di regola, l’ordinamento cerca di reagire con sistemi sanzionatori extrapenali, quali sanzioni civili o amministrative, agli illeciti commessi dalle persone giuridiche.
Proprio di recente, ed in questa ottica, è stata dettata, col D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, la disci‑
plina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associa‑
zioni anche prive di personalità giuridica, in attuazione della delega contenuta nella L. 29 settembre 2000, n. 300 (81).
(79) V. il §6 del Cap. 7.
(80) Va rilevato al riguardo che, al contrario del nostro sistema, nei paesi anglosassoni è presente già da tempo la figura del corporate crime, che prevede una responsabilità penale per il reato commesso dalla società (corporation).
Ciò ha favorito la riflessione della nostra dottrina sull’argomento, che ha cercato di superare lo sbarramento costituito dal principio
costituzionale della personalità della responsabilità penale, ricorrendo a due argomentazioni:
— secondo alcuni sulla scorta della teoria organicistica (secondo la quale non esiste un rapporto di dualità tra ente e organo
rappresentante bensì una vera e propria immedesimazione, essendo questo una mera articolazione periferica a rilevanza esterna di quella) si potrebbe senz’altro imputare direttamente il fatto criminoso all’entità; tuttavia si fa notare che l’ente giuridico
difetta di atteggiamenti volitivi colpevoli per cui una sua responsabilità penale sarebbe comunque contraria al principio di
personalità inteso non nel suo significato «minimo» di divieto di responsabilità per fatto altrui, bensì nel senso di divieto di responsabilità per fatto proprio incolpevole;
— si è perciò proposto di ricorrere alle misure di sicurezza, essendo queste svincolate dalla colpevolezza del destinatario; ma
anche qui si è affermato che la pericolosità sociale, su cui si fondano le misure di sicurezza, sia da interpretare in termini psicologico-naturalistici, come tali non riscontrabili in un ente immateriale.
La dottrina più recente, consapevole delle suddette difficoltà, si orienta verso sanzioni extrapenali, civili o amministrative.
(81) Interessante è, al riguardo, quanto si legge nella sentenza 2 luglio 2008, n. 26654 delle Sezioni Unite della Cassazione «Il D.Lgs.
8 giugno 2001, n. 231 disciplina la responsabilità degli enti collettivi “per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato” e rappre‑
senta l’epilogo di un lungo cammino volto a contrastare il fenomeno della criminalità d’impresa, attraverso il superamento del
principio, insito nella tradizione giuridica nazionale, societas delinquere non potest e nella prospettiva di omogeneizzare la norma‑
tiva interna a quella internazionale di matrice prevalentemente anglosassone, ispirata al cd. pragmatismo giuridico. La Legge De‑
lega n. 300 del 2000, infatti, ha ratificato e dato attuazione alla Convenzione OCSE 17/12/1997 (sulla lotta contro la corruzione dei
funzionari pubblici stranieri), che — all’art. 2 — obbligava gli Stati aderenti ad assumere “le misure necessarie conformemente ai
propri principi giuridici a stabilire la responsabilità delle persone morali” per i reati evocati nella stessa Convenzione. Questa, peral‑
tro, non è l’unico strumento internazionale al quale si è ispirato il legislatore delegante nel formulare il testo della citata L. n. 300,
art. 11. Egli ha ritenuto, al di là delle generiche indicazioni offerte dalla Convenzione OCSE, di dovere dare attuazione al secondo
protocollo della Convenzione PIF, il cui art. 3 dettava, in tema di responsabilità degli enti, direttive più puntuali, distinguendo due
ipotesi, a seconda che il reato fosse stato commesso da soggetti in una posizione dominante (basata sul potere di rappresentanza,
sull’autorità di prendere decisioni, sull’esercizio del controllo in seno alla persona giuridica) ovvero da soggetti in posizione subor‑
dinata (che, per carenza di sorveglianza o controllo da parte dei soggetti apicali, avessero reso possibile la perpetrazione del reato a
beneficio della persona giuridica). L’art. 11 della legge delega, pur nel recepimento delle indicazioni degli strumenti internazionali,
232
ı La struttura del reato
Col successivo D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61 è, poi, stata dettata la disciplina degli illeciti penali
ed amministrativi riguardanti le società commerciali.
Tale responsabilità, che come rileva CONTI (82) è stata «palliata da responsabilità amministrativa per evitare un evidente conflitto con l’art. 27 Cost. come interpretato dalla Corte Costituzionale» ma che, secondo la dottrina più moderna, «è certamente penale, anche se il legislatore l’ha
pudicamente qualificata come amministrativa» (così FORTUNA (83)), è appunto collegata alla
commissione di un reato, tanto che ai sensi dell’art 36 del decreto legislativo «la competenza a
conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente appartiene al giudice penale competente per i reati
dai quali gli stessi dipendono».
Un rapido cenno va fatto alla disciplina generale dettata dal decreto in tema di responsabilità degli enti per i reati
commessi nel suo interesse o a suo vantaggio.
Ai sensi del secondo e terzo comma dell’art. 1 del ricordato D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 «Le disposizioni in esso previste
si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica.
Non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che
svolgono funzioni di rilievo costituzionale.».
I ricordati due commi dell’art. 1 erano sempre stati interpretati nel senso che destinatari di tali norme fossero solo gli
enti dotati di personalità giuridica, strutturati in forma societaria o pluripersonale.
Con la recente sentenza 20 aprile 2011, n. 15657, però, la Cassazione ha ritenuto che «le norme sulla responsabilità
da reato degli enti si applicano anche alle imprese individuali, che devono ritenersi incluse nella nozione di ente for‑
nito di personalità giuridica utilizzata dall’art. 1, comma secondo, D.Lgs. n. 231 del 2001 per identificare i destina‑
tari delle suddette disposizioni».
Particolarmente rilevanti appaiono i motivi che hanno portato la Cassazione ad una tale interpretazione; si legge, infatti, nella motivazione: «Muovendo dalla premessa che l’attività riconducibile all’impresa (al pari di quella riconduci‑
bile alla ditta individuale propriamente detta) è attività che fa capo ad una persona fisica e non ad una persona giu‑
ridica intesa quale società di persone (o di capitali), non può negarsi che l’impresa individuale (sostanzialmente diver‑
gente, anche da un punto di vista semantico, dalla cd. “ditta individuale”), ben può assimilarsi ad una persona giuri‑
dica nella quale viene a confondersi la persona dell’imprenditore quale soggetto fisico che esercita una determinata at‑
tività: il che porta alla conclusione che, da un punto di vista prettamente tecnico, per impresa deve intendersi l’attività
svolta dall’imprenditore-persona fisica per la cui definizione deve farsi rinvio agli artt. 2082 e 2083 c.c.. Ancora, e più
significativamente, l’interpretazione in senso formalistico dell’incipit del D.Lgs. n. 231 del 2001, così come esposto dal‑
la ricorrente (che, a proposito degli enti collettivi, ha evocato il termine di soggetti “metaindividuali”) creerebbe il ri‑
ha dotato il nuovo illecito di un volto dai contorni ancora più precisi, contemperando i profili di generalprevenzione, primario
obiettivo della responsabilità degli enti, con “le garanzie che ne devono rappresentare il necessario contraltare”. Sulla stessa linea
d’ispirazione si è mantenuto il legislatore delegato del Decreto n. 231 del 2001. Ne è risultata un’architettura normativa complessa
che, per quanto farraginosa e — sotto alcuni aspetti — problematica, evidenzia una fisionomia ben definita, con l’introduzione nel
nostro ordinamento di uno specifico ed innovativo sistema punitivo per gli enti collettivi, dotato di apposite regole quanto alla strut‑
tura dell’illecito, all’apparato sanzionatorio, alla responsabilità patrimoniale, alle vicende modificative dell’ente, al procedimento di
cognizione e a quello di esecuzione, il tutto finalizzato ad integrare un efficace strumento di controllo sociale. Una innovazione
legislativa particolarmente importante, dunque, che segna il superamento del principio societas delinquere et puniri non potest. Il
sistema sanzionatorio proposto dal D.Lgs. n. 231 fuoriesce dagli schemi tradizionali del diritto penale — per così dire — “nucleare”,
incentrati sulla distinzione tra pene e misure di sicurezza, tra pene principali e pene accessorie, ed è rapportato alle nuove costanti
criminologiche delineate nel citato decreto. Il sistema è “sfaccettato”, legittima distinzioni soltanto sul piano contenutistico, nel sen‑
so che rivela uno stretto rapporto funzionale tra la responsabilità accertata e la sanzione da applicare, opera certamente sul piano
della deterrenza e persegue una massiccia finalità specialpreventiva».
(82) Cfr. Conti, in Antolisei: Manuale di Diritto Penale. Parte Generale (Sedicesima edizione aggiornata e integrata da L. Conti),
Milano 2003, pag. 602.
(83) Cfr. Fortuna: Relazione sull’amministrazione della giustizia nel Distretto della Corte d’appello di Venezia 1° luglio 2002 ‑ 30
giugno 2003, Venezia 2004, pag. 36.
233
Capitolo 9
ı
schio di un vero e proprio vuoto normativo, con inevitabili ricadute sul piano costituzionale connesse ad una dispari‑
tà di trattamento tra coloro che ricorrono a forme semplici di impresa e coloro che, per svolgere l’attività, ricorrono a
strutture ben più complesse ed articolate. Peraltro è indubbio che la disciplina dettata dal D.Lgs. n. 231 del 2001, sia
senz’altro applicabile alle società a responsabilità limitata c.c. “unipersonali”, così come è notorio che molte imprese
individuali spesso ricorrono ad una organizzazione interna complessa che prescinde dal sistematico intervento del ti‑
tolare della impresa per la soluzione di determinate problematiche e che può spesso involgere la responsabilità di sog‑
getti diversi dall’imprenditore ma che operano nell’interesse della stessa impresa individuale. Ed allora una lettura co‑
stituzionalmente orientata della norma in esame dovrebbe indurre a conferire al disposto di cui all’art. 1, comma 2,
del D.Lgs., in parola una portata più ampia, tanto più che, non cogliendosi nel testo alcun cenno riguardante le im‑
prese individuali, la loro mancata indicazione non equivale ad esclusione, ma, semmai ad una implicita inclusione
dell’area dei destinatari della norma. Una loro esclusione potrebbe infatti porsi in conflitto con norme costituzionali
— oltre che sotto il riferito aspetto della disparità di trattamento — anche in termini di irragionevolezza del sistema».
Tali principi sono stati ulteriormente ribaditi con la successiva sentenza 7 febbraio 2012, n. 4703, che ha confermato l’ordinanza emessa dal Tribunale del riesame di Messina in cui si afferma che il decreto 231/2001 si applica anche
agli studi professionali poiché «l’applicazione in via cautelare delle sanzioni interdittive è subordinata, alternativa‑
mente e non congiuntamente, al conseguimento da parte dell’ente di un profitto di rilevante entità ovvero alla reite‑
razione nel tempo dell’illecito».
Ai sensi del terzo comma dello stesso art. 1 alla responsabilità amministrativa sono sottratti solo la Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale e gli altri enti pubblici non economici (84).
Ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. 231/2001, il sorgere di responsabilità dell’ente per un fatto costituente reato presuppone che
tale responsabilità e le relative sanzioni siano espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissio‑
ne del fatto. Le fattispecie idonee a produrre tale responsabilità sono state, dunque, espressamente elencate nella Sezione
terza di tale decreto (artt. 24-26). L’originario novero (limitato a taluni delitti contro il patrimonio e la pubblica amministrazione) è stato, progressivamente, ampliato a taluni delitti contro la fede pubblica (ai sensi del D.L. 25-9-2001, n. 350, conv.
in L. 23-11-2001, n. 409), a reati societari di fonte codicistica (a norma del D.Lgs. 11-4-2002, n. 61), a delitti con finalità di
terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (ai sensi della L. 14-1-2003, n. 7), a delitti contro la personalità individuale, comprese le ipotesi di cd. pornografia virtuale (ai sensi del combinato disposto delle L. 11-8-2003, n. 228 e 6-2-2006,
n. 38), ai reati di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato, di cui al D.Lgs. 58/98 (ai sensi della L.
18-4-2005, n. 62), al delitto di omessa comunicazione del conflitto di interessi, previsto dall’art. 2629bis del codice civile (ai
sensi della L. 28-12-2005, n. 262, nota come legge sul risparmio), a quelli di cui all’art. 583bis del codice penale (ai sensi
della L. 9-1-2006, n. 7 recante «Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale
femminile»), ai delitti di ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (ai sensi del D.Lgs.
21-11-2007, n. 231), ai delitti di cui agli artt. 491bis, 615terquinquies, 617quater, 617quinquies, 635bisqunquies, e 640quinquies c.p. ad opera della L. 18-3-2008, n. 48, recante la ratifica della Convenzione di Budapest sulla criminalità informa‑
tica, ai delitti di omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro,ai sensi del D.Lgs. 9-4-2008, n. 81 (previsione, peraltro, già inserita dalla L. 3-8-2007, n. 123, e
successivamente sostituita dal citato decreto legislativo), ai delitti di cui agli articoli 416, sesto comma, 416bis, 416ter e 630
del codice penale, ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416bis ovvero al fine di
agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché ai delitti previsti dall’articolo 74 del testo unico
di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (ad opera della L. 15 luglio 2009, n. 94), ai delitti contro l’industria ed il commercio
previsti dal codice penale (artt. 513-517quinquies c.p.) ed ai delitti previsti dagli artt. 171, primo comma, lettera a-bis), e
(84) Si veda, sul punto, Cass. 21-7-2010, n. 28699, che ha affermato che gli enti pubblici che svolgono attività economica e le società commerciali a capitale «misto», pubblico e privato, che svolgono servizi pubblici rispondono dei reati commessi nel loro interesse o vantaggio ai sensi delle disposizioni del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Si legge, in particolare, nella motivazione: «supporre
che basti — per l’esonero dal D.Lgs. n. 231 del 2001 — la mera rilevanza costituzionale di uno dei valori più o meno coinvolti nel‑
la funzione dell’ente è opzione interpretativa che condurrebbe all’aberrante conclusione di escludere dalla portata applicativa della
disciplina un numero pressoché illimitato di enti operanti non solo nel settore sanitario, ma in quello dell’informazione, della sicu‑
rezza antinfortunistica e dell’igiene del lavoro, della tutela ambientale e del patrimonio storico e artistico, dell’istruzione, della ri‑
cerca scientifica, del risparmio e via enumerando valori (e non “funzioni”) di rango costituzionale».
234
ı La struttura del reato
terzo comma, 171bis, 171ter, 171septies e 171octies della L. 22 aprile 1941, n. 633 (ad opera della L. 23 luglio 2009, n. 99)
ed al delitto di cui all’art. 377bis del codice penale (ai sensi dell’art. 4 della L. 3 agosto 2009, n. 116).
Va anche ricordato l’art. 10 della L. 16 marzo 2006, n. 146, che ha esteso le disposizioni del D.Lgs. 231/2001 al cri‑
mine organizzato transnazionale disciplinato dalla stessa legge.
Ulteriori estensioni all’applicabilità della normativa si sono avute:
— col D.Lgs. 7 luglio 2011, n. 121, che nel dare attuazione alla direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente nonché alla direttiva 2009/123/CE che modifica la direttiva 2005/35/CE relativa all’inquinamento provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni per violazioni, ha esteso la disciplina della responsabilità amministrativa da
reato per gli enti ai reati ambientali e
— col D.Lgs. 16 luglio 2012, n. 109, che ha esteso la disciplina della responsabilità amministrativa da reato per gli
enti al delitto di cui all’articolo 22, comma 12bis, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (impiego di cittadini di paesi
terzi il cui soggiorno è irregolare nelle ipotesi aggravate previste dal citato comma 12bis e cioè:
a) se i lavoratori occupati sono in numero superiore a tre;
b) se i lavoratori occupati sono minori in età non lavorativa;
c) se i lavoratori occupati sono sottoposti alle altre condizioni lavorative di particolare sfruttamento di cui al terzo comma dell’articolo 603bis del codice penale);
— con L. 6 novembre 2012, n. 190 (cd. legge anticorruzione), la quale ha esteso la disciplina in esame ai delitti di
corruzione tra privati ed induzione inebita a dare o promettere utilità;
— con L. 14 gennaio 2013, n. 9 la quale ha esteso l’applicabilità della disciplina in esame alla commissione di taluni reati (artt. 440, 442, 444, 473, 474, 515, 516, 517 e 517quater c.p.) da parte degli anzidetti soggetti «qualificati»
appartenenti ad enti operanti nella filiera degli oli vergini di oliva.
Si discute in giurisprudenza sull’applicabilità della normativa anche alle imprese individuali.
In senso positivo si è pronunciata la Terza Sezione Penale della Cassazione con la sentenza 20 aprile 2011, n. 15657,
nella quale si è affermato che «Le norme sulla responsabilità da reato degli enti si applicano anche alle imprese indi‑
viduali, che devono ritenersi incluse nella nozione di ente fornito di personalità giuridica utilizzata dall’art. 1, com‑
ma secondo, D.Lgs. n. 231 del 2001 per identificare i destinatari delle suddette disposizioni» e nella cui motivazione
si legge: «è indubbio che la disciplina dettata dal D.Lgs. n. 231 del 2001, sia senz’altro applicabile alle società a re‑
sponsabilità limitata cd. “unipersonali”, così come è notorio che molte imprese individuali spesso ricorrono ad una
organizzazione interna complessa che prescinde dal sistematico intervento del titolare della impresa per la soluzione
di determinate problematiche e che può spesso involgere la responsabilità di soggetti diversi dall’imprenditore ma che
operano nell’interesse della stessa impresa individuale. Ed allora una lettura costituzionalmente orientata della nor‑
ma in esame dovrebbe indurre a conferire al disposto di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs., in parola una portata più
ampia, tanto più che, non cogliendosi nel testo alcun cenno riguardante le imprese individuali, la loro mancata in‑
dicazione non equivale ad esclusione, ma, semmai ad una implicita inclusione dell’area dei destinatari della norma.
Una loro esclusione potrebbe infatti porsi in conflitto con norme costituzionali — oltre che sotto il riferito aspetto del‑
la disparità di trattamento — anche in termini di irragionevolezza del sistema».
In senso negativo si è, invece, pronunciata la Sesta Sezione Penale della stessa Cassazione con le sentenze 22 aprile
2004, n. 18941 e 23 luglio 2012, n. 30085 nelle quali si afferma che «La normativa sulla responsabilità da reato degli
enti prevista dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 non si applica alle imprese individuali, in quanto si riferisce ai soli sog‑
getti collettivi»; in particolare, si legge nella motivazione della sentenza n. 18941 del 2004, richiamata espressammen‑
te anche dalla sentenza n. 30085 del 2012, che «Il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 — che ha come rubrica:
“Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche pri‑
ve di personalità giuridica, a norma dell’art. 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300” — costituisce l’esercizio della
delega contenuta in quest’ultima legge, che aveva disposto la ratifica sia della Convenzione OCSE sulla lotta alla cor‑
ruzione dei pubblici ufficiali stranieri, sia di varie convenzioni dell’Unione Europea in tema di protezione degli inte‑
ressi finanziari delle Comunità Europee e di lotta alla corruzione. La Convenzione OCSE (17 dicembre 1997) preve‑
de che “ciascuna parte prende le misure necessarie, in conformità dei propri principi giuridici, per stabilire la respon‑
sabilità delle persone giuridiche nel caso di corruzione di un pubblico funzionario straniero”, mentre, assai più spe‑
235
Capitolo 9
ı
cificamente, gli artt. 3 e 4 del Secondo Protocollo sulla protezione degli interessi finanziari delle Comunità Europee
(27 giugno 1997) si occupano della responsabilità e delle sanzioni delle persone giuridiche. Queste convenzioni sono
state approvate quando negli altri Stati e nelle sedi internazionali il principio della responsabilità degli enti si era ora‑
mai affermato e costituiscono la matrice delle scelte operate dal legislatore italiano con la legge n. 300 del 2000. In
particolare, il legislatore italiano, dovendo stabilire quali dovessero essere gli enti destinatali della nuova disciplina
(solo quelli con personalità giuridica o anche altri; solo quelli privati o anche quelli pubblici), ha delegato il Governo
ad emanare “un decreto legislativo avente ad oggetto la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone
giuridiche e delle società, associazioni od enti privi di personalità giuridica che non svolgono funzioni di rilievo co‑
stituzionale”, ivi compresi gli enti pubblici, “eccettuati lo Stato e gli altri enti pubblici che esercitano pubblici poteri”
(art. 11, commi 1 e 2, della legge n. 300 del 2000). Conseguentemente l’art. 1 del decreto legislativo n. 231 del 2001
— dopo avere significativamente fissato il proprio ambito oggettivo di disciplina nella “responsabilità degli enti per gli
illeciti amministrativi dipendenti da reato” (comma 1) — ha stabilito i confini soggettivi di applicazione della nor‑
mativa in esso prevista, prevedendo che essa riguarda “gli enti fomiti di personalità giuridica” e “le società e associa‑
zioni anche prive di personalità giuridica” (comma 2) e che restano fuori dalla sua sfera di applicazione lo Stato, gli
enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, nonché gli enti che svolgono funzioni di rilievo costitu‑
zionale (comma 3). I successivi artt. 5-8 del decreto legislativo n. 231 del 2001 dettano le regole sulla “responsabilità
dell’ente” e fissano i criteri di imputazione all’ente dei reati commessi dai soggetti “di vertice” e dai dipendenti. Dal
conciso excursus normativo contenuto nel punto che precede emerge con chiarezza che il decreto legislativo n. 231
del 2001, superando il principio “societas delinquere non potest”, ha introdotto nell’ordinamento giuridico italiano
un sistema di responsabilità di enti collettivi conseguente a reato, espressamente definita amministrativa. Quale che
sia la natura giuridica di questa responsabilità “da reato”, è certo che in tutta la normativa (convenzioni internazio‑
nali; legge di delegazione; decreto delegato) e, segnatamente, nell’art. 1, comma 1, del decreto legislativo n. 231 del
2001 essa è riferita unicamente agli “enti”, termine che evoca l’intero spettro dei soggetti di diritto metaindividuali,
tanto che, come si è visto, i successivi commi della disposizione da ultimo menzionata ne specificano l’ambito sogget‑
tivo di applicazione. D’altra parte sulla riferibilità della nuova disciplina esclusivamente agli enti collettivi è oltremo‑
do chiara la relazione governativa sul decreto legislativo n. 231 del 2001, nella quale si puntualizza che l’introdu‑
zione di forme di responsabilità degli enti collettivi è stata dettata da ragioni di politica criminale, che consistevano,
da un lato, in esigenze di omogeneità delle risposte sanzionatorie degli Stati, e, dall’altro, nella consapevolezza di “pe‑
ricolose manifestazioni di reato poste in essere da soggetti a struttura organizzata e complessa”. In particolare, richia‑
mando testualmente un passo della relazione della commissione Grosso sul progetto preliminare di riforma del codi‑
ce penale, la relazione al decreto legislativo n. 231 prende in considerazione l’ente collettivo “quale autonomo centro
di interessi e di rapporti giuridici, punto di riferimento di precetti di varia natura, e matrice di decisioni ed attività
dei soggetti che operano in nome, per conto o comunque nell’interesse dell’ente”. Infine la responsabilità dell’ente è
chiaramente aggiuntiva, e non sostitutiva, di quella di persone fisiche, che resta regolata dal diritto penale comune.
Quanto poi alla tematica delle vicende modificative che possono interessare i soggetti di diritto metaindividuali (e cioè
le operazioni di riorganizzazione dell’ente o delle sue risorse capaci di incidere in vario modo sulla sua identità, po‑
tendone derivare ora una più o meno radicale “trasfigurazione”, ora addirittura la “scomparsa” dell’ente stesso qua‑
le autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, con correlata traslazione dell’universo dei suoi
rapporti in capo ad uno o più differenti organismi), le apposite previsioni di cui agli artt. 28 e ss del decreto legislati‑
vo n. 231 puntano proprio ad evitare che tali vicende (che, generalmente, dipendono da libere iniziative degli inte‑
ressati) si traducano in strumenti di elusione dei meccanismi sanzionatoli di nuovo conio. Per le argomentazioni svol‑
te deve concludersi che correttamente il Tribunale di Roma ha escluso che l’ambito soggettivo di applicazione della re‑
cente normativa sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e della associazioni anche
prive di responsabilità giuridica potesse essere esteso alle “imprese individuali”. Deve solo aggiungersi che le situazio‑
ni poste a raffronto dal ricorrente (“imprese individuali” ed enti collettivi) presentano spiccati caratteri di diversità,
sicché non è neppure ipotizzarle una disparità di trattamento con violazione dell’art. 3 Cost.. In ogni caso il divieto
di analogia in malam partem impedisce una lettura della normativa in esame che, come prospettato dal Procurato‑
re della Repubblica di Roma, ne estenda le previsioni anche alle “ditte individuali”: si tratterebbe, infatti, di una in‑
terpretazione evidentemente contraria all’art. 25, secondo comma, della Costituzione».
236
ı La struttura del reato
Ai sensi dell’art. 5 del D.Lgs. 231 del 2001 l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:
a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua
unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;
b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).
L’ente non risponde se le persone suindicate hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.
Ai sensi del successivo articolo 6, poi, se il reato è stato commesso dalle persone indicate nella precedente lettera a),
l’ente non risponde se prova che:
a) l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;
c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;
d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui alla lettera b).
In relazione all’estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, i modelli di cui alla lettera a) devono rispondere alle seguenti esigenze:
a) individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati;
b) prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire;
c) individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati;
d) prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli;
e) introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.
I modelli di organizzazione e di gestione possono essere adottati, garantendo le esigenze sopra citate, sulla base di
codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti, comunicati al Ministero della giustizia
che, di concerto con i Ministeri competenti, può formulare, entro trenta giorni, osservazioni sulla idoneità dei modelli a prevenire i reati.
Negli enti di piccole dimensioni i compiti indicati nella lettera b), del comma 1, possono essere svolti direttamente
dall’organo dirigente.
È comunque disposta la confisca del profitto che l’ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente.
Ai sensi dell’art. 7, nel caso previsto dall’articolo 5, comma 1, lettera b), l’ente è responsabile se la commissione del
reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza.
In ogni caso, è esclusa l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l’ente, prima della commissione del
reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Il modello prevede, in relazione alla natura e alla dimensione dell’organizzazione nonché al tipo di attività svolta, misure idonee a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a
scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio.
L’efficace attuazione del modello richiede:
a) una verifica periodica e l’eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell’organizzazione o nell’attività;
b) un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.
Ai sensi dell’art. 8, infine, la responsabilità dell’ente sussiste anche quando:
a) l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile;
b) il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia.
237
Capitolo 9
ı
Salvo che la legge disponga diversamente, non si procede nei confronti dell’ente quando è concessa amnistia per un
reato in relazione al quale è prevista la sua responsabilità e l’imputato ha rinunciato alla sua applicazione.
L’ente può rinunciare all’amnistia.
La mancanza di capacità penale delle persone giuridiche, dunque, non esclude che, in concreto, esse possano commettere reati: la riprova è data dall’esistenza, nel nostro sistema positivo,
di alcune figure di reato, quali i cd. reati societari o i reati fallimentari, che normalmente vengono realizzati proprio da soggetti collettivi; lo stesso D.Lgs. 231/2001 ne costituisce la conferma più importante.
In tali casi si pone, pertanto, il problema di individuare il soggetto fisico cui il fatto dovrà essere imputato, problema che se può essere di facile soluzione nelle piccole società o nelle imprese individuali o di piccole dimensioni, nelle quali rispettivamente l’amministratore o legale rappresentante e l’imprenditore sono i soggetti obbligati al rispetto della normativa penale, di più
difficile soluzione è, invece, nel caso di grosse società o di imprese di grandi dimensioni, in
quanto in esse è praticamente impossibile che il titolare o legale rappresentante formale adempia personalmente a tutti gli obblighi che gravano sulla società o sull’impresa e la cui violazione costituisce reato.
Si pone allora il delicato problema della individuazione dei soggetti penalmente responsabili
nell’ambito della organizzazione dell’ente, spesso complessa e articolata a vari livelli.
Al riguardo la giurisprudenza ha elaborato vari criteri (soprattutto con riferimento al diritto penale del lavoro), individuando come soggetto obbligato all’osservanza della norma penale, e
quindi penalmente responsabile:
— talora il soggetto che ha il potere di rappresentanza dell’ente;
— talora l’amministratore o il soggetto preposto al singolo settore dell’organizzazione aziendale, su delega dell’imprenditore, o comunque chi è investito delle funzioni che normalmente ineriscono alla qualità di imprenditore.
E qui sorge un altro, ed ancor più delicato problema, ed è quello dell’ammissibilità, dei limiti e,
quindi, dell’efficacia in sede penale della delega conferita dal titolare ad un suo subordinato o
ad altro soggetto.
Sul problema dell’efficacia della delega a terzi di funzioni proprie dell’imprenditore, la giurisprudenza, dopo vari orientamenti oscillanti, è oggi abbastanza concorde nel ritenere che i criteri per ritenere legittima ed applicabile la delega, in diritto penale, vanno individuati sotto due
profili.
Sotto l’aspetto oggettivo sono:
— le dimensioni dell’impresa, che devono essere tali da giustificare la necessità di decentrare
compiti e responsabilità;
— l’effettivo trasferimento dei poteri in capo al delegato con l’attribuzione di una completa autonomia decisionale e di gestione e con piena disponibilità economica;
— l’esistenza di precise ed ineludibili norme interne o disposizioni statutarie, che disciplinino
il conferimento della delega ed adeguata pubblicità della medesima;
— uno specifico e puntuale contenuto della delega.
238
ı La struttura del reato
Sotto l’aspetto soggettivo vanno considerati:
— la capacita e l’idoneità tecnica del soggetto delegato;
— il divieto di ingerenza da parte del delegante nell’espletamento dell’attività del delegato;
— l’insussistenza di una richiesta d’intervento da parte del delegato;
— la mancata conoscenza della negligenza o della sopravvenuta inidoneità del delegato.
Sempre la giurisprudenza ha, altresì, precisato che una volta conferita efficace delega, non persiste, in capo all’imprenditore, l’obbligo di sorveglianza sul concreto esercizio dei poteri delegati, giacché ciò vanificherebbe la funzione della delega stessa, fermo restando che si ricostituisce la responsabilità, sotto il profilo penale, del preponente ove vi sia stata da parte del delegato una richiesta (non esaudita) di intervento in quelle situazioni in cui questi non abbia il potere o i mezzi per incidere nel senso voluto (85). Nello stesso senso, in dottrina, si sono espressi MANTOVANI (86), FIANDACA e MUSCO (87), per i quali sarebbe pericoloso il principio, peraltro in passato più volte affermato dalla giurisiprudenza, secondo cui comunque il titolare sarebbe responsabile per culpa in vigilando, in quanto con tale principio si rischia, alla fine, di
far comunque risalire la responsabilità al delegante, con conseguente violazione del principio
di responsabilità penale «personale».
Quanto alla dottrina, accanto a chi è orientato nello stesso senso della giurisprudenza (così PAGLIARO (88) e GRASSO (89)) non mancano, e sono la maggioranza, coloro che criticano, e sotto vari aspetti, tale posizione; così:
— per alcuni (PADOVANI (90), MANTOVANI (91), GAROFOLI (92), GUARINIELLO (93)) particolarmente discutibile sarebbe il primo limite, e cioè quello delle dimesioni dell’impresa, in quanto, al di là delle dimensioni, la congerie di adempimenti prescritti per tutte le imprese, anche
piccole, impone oggi a qualunque imprenditore di avvalersi, almeno in parte dell’ausilio di
terzi (così espressamente PADOVANI (94)), e ciò a tacere del fatto che norme quali l’art. 1 del
D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 (95) contenente le norme riguardanti il miglioramento della
(85) Così Cass. 10-8-2000, n. 8978.
(86) Cfr. Mantovani: Op. cit., pag. 152 e segg.
(87) Cfr. Fiandaca‑Musco: Op. cit, pag. 149 e segg.
(88) Cfr. Pagliaro: Problemi generali del diritto penale dell’impresa, in Indice penale, 1985, 17 e segg.
(89) Cfr. Grasso: Organizzazione aziendale e responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, in Archivio penale, 1982, 744 e segg.
(90) Cfr. Padovani: Op. cit., pag. 116.
(91) Cfr. Mantovani: Op. e loc. ult. cit.
(92) Cfr. Garofoli: Op. cit., pag. 221 e segg.
(93) Cfr. Guariniello: Prevenzione degli infortuni e igiene del lavoro (diritto penale), in Trattato di diritto commerciale e di diritto
pubblico dell’economia a cura di L. Conti, Padova 2001, Vol. XXV.
(94) Cfr. Padovani: Op. e loc. ult. cit.
(95) Con riferimento al D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 occorre ricordare che lo stesso è stato censurato dalla Corte di Giustizia
Europea perché in contrasto con la normativa comunitaria: ha, infatti, ritenuto la Corte che «Il decreto legislativo 19-9-94, n. 626
(con il quale è stata effettuata la trasposizione nell’ordinamento nazionale italiano dei principi della direttiva del Consiglio 12/6/89,
89/391/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori
durante il lavoro), non avendo prescritto (all’art. 4, primo comma, decreto legislativo n. 626/94) che il datore di lavoro debba valutare tutti i rischi per la salute e la sicurezza esistenti sul luogo di lavoro, ma solo tre tipi di rischi; avendo consentito (con l’art. 8,
sesto comma, del decreto legislativo n. 626/94) al datore di lavoro di decidere se fare o meno ricorso a servizi esterni di protezione
e di prevenzione quando le competenze interne all’impresa sono insufficienti, e non avendo definito (all’art. 8, nono e undicesimo
239
Capitolo 9
ı
sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro prevedono, sia pure implicitamente, la
possibilità delle delega anche nelle piccole imprese (così espressamente GUARINIELLO (96));
non va neppure taciuto al riguardo che anche nella giurisprudenza più recente non mancano
pronunce che consentono la delega a prescindere dalle dimensioni dell’impresa (97);
— quanto a noi, oltre a ritenere fondate le critiche relative alle dimensioni dell’impresa, riteniamo, altresì, che non occorre una delega espressa e formale in tutti i casi in cui è espressamente prevista dalla legge stessa o da una norma la cui osservanza è comunque obbligatoria per
il titolare dell’attività l’attribuzione ad uno specifico dipendente del compito di vigilare sulla
sicurezza di una particolare attività o di un ramo dell’impresa: così, ad esempio, ai sensi dell’art.
110 della Circolare 15 febbraio 1951, n. 16 del Ministero dell’Interno, Direzione Generale dei
Servizi Antincendi, il gestore di una piscina, sia esso un soggetto individuale o una persona
giuridica, ha l’obbligo di affidare il servizio di salvataggio ad almeno due bagnini all’uopo abilitati dalla sezione salvamento della Federazione Italiana Nuoto; è evidente che, in tale caso,
la semplice assunzione dei due bagnini è essa stessa l’atto col quale ad essi vengono delegate le funzioni di salvataggio, non occorrendo alcun’ altra delega formale e scritta.
14 Responsabilità per fatti costituenti reato commessi da animali
Con riferimento al soggetto attivo del reato si pone il problema, tutt’altro che ipotetico, della
eventuale responsabilità penale per fatti commessi da animali.
Al riguardo, ed anticipando qualche nozione che formerà oggetto di successivo approfondimento, possiamo dire che:
a) nel caso di animali selvatici o randagi non sorge alcuna responsabilità in capo a soggetti determinati, compresi gli organi pubblici che astrattamente, per legge (vedi, ad esempio, l’art.
1 della L. 11-2-1992, n. 157: «La fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato…»), ne
sono «proprietari», in quanto manca quella effettiva e concreta relazione tra individuo ed animale che può far sorgere, come vedremo, una cd. «posizione di custodia» con conseguente
responsabilità ex art. 40 capoverso; i relativi fatti, dunque, rientrano nel novero del «caso for‑
tuito» di cui parla l’art. 45;
b) nel caso di animali, anche selvatici o randagi, di fatto custoditi da un soggetto, sia esso il proprietario o meno, o sui quali comunque un soggetto determinato esercita una signoria o un
potere di controllo, degli eventi dannosi o pericolosi da loro posti in essere risponde sempre il soggetto che li custodisce o li controlla:
— a titolo di dolo se li ha aizzati o indotti volontariamente a commettere il fatto;
comma, decreto legislativo n. 626/94) le capacità e le attitudini di cui devono essere in possesso le persone responsabili delle attività di protezione e di prevenzione dei rischi professionali per la salute e la sicurezza dei lavoratori, implica che la Repubblica
italiana è venuta meno agli obblighi che ad essa incombono in forza degli artt. 6, n. 3, lett. a), e 7, nn. 3, 5 e 8, della direttiva sopramenzionata» (così Corte Giustizia CE 15 novembre 2001, in Lavoro e previdenza oggi, pag. 1541).
(96) Cfr. Guariniello: Op. cit., pag. 746.
(97) Così Cass. 26-5-2003, n. 22931 e Cass. 30-9-2002, n. 32524.
240
ı La struttura del reato
— a titolo di colpa per violazione del dovere di diligenza nel controllo se tale induzione o
aizzamento è mancato: così risponderà di omicidio o di lesioni colpose il proprietario di
un cane che, circolando incustodito sulla pubblica via, provoca un incidente stradale con
morte o lesioni per altri utenti della strada (98); non risponderà, invece, di alcun reato,
non essendo previsto come tale il danneggiamento colposo, il proprietario di un cane
che, entrato nel fondo altrui, abbia fatto strage di galline o altri animali. In materia contravvenzionale, ovviamente, bastando la semplice colpa la condotta del custode dell’animale che sia venuto meno al suo dovere è, di regola, configurabile; si è, così, affermato,
con riferimento ad un caso in cui le deiezioni liquide di alcuni cani, lasciati incustoditi
dal proprietario sul balcone, si riversavano nell’appartamento sottostante, che il custode
degli animali che abbia omesso di custodirli adeguatamente risponde della contravvenzione ex art. 674 c.p. qualora appunto da tale omessa custodia sia derivato il versamento di deiezioni animali atte ad offendere, imbrattare o molestare persone (99).
15 Il soggetto passivo del reato
A) Concetto. Differenze con il soggetto passivo della condotta e con il danneggiato
Soggetto passivo del reato è la persona titolare del bene (o interesse) tutelato dalla norma
penale incriminatrice e leso dal reato. Il codice parla di «persona offesa dal reato».
In tutti i reati deve esservi un soggetto passivo, altrimenti si giungerebbe all’assurda conclusione di ammettere l’esistenza di beni giuridici tutelati che non appartengono ad alcuno.
Soggetto passivo può essere una singola persona fisica o giuridica, come lo Stato, oppure anche
una pluralità di persone: così nel reato di furto, soggetto passivo è il detentore della cosa rubata;
nel reato di sottrazione di cosa comune, soggetti passivi sono coloro che posseggono in comune
la cosa.
Occorre distinguere il soggetto passivo del reato dal soggetto passivo della condotta, cioè da
colui su cui la condotta criminosa viene a incidere immediatamente, e pertanto viene considerato, più propriamente, oggetto della condotta.
Talvolta i due concetti coincidono: ad esempio, nell’omicidio il soggetto passivo è l’ucciso, che
è anche soggetto passivo della condotta. Invece, nel reato di automutilazione fraudolenta per
sottrarsi al servizio militare, soggetto passivo della condotta è lo stesso soggetto attivo, che si mutila, o si ferisce etc., per rendersi invalido alla leva, mentre soggetto passivo del reato è lo Stato,
titolare dell’interesse a che tutti i cittadini prestino il servizio militare.
Ne risulta che il soggetto passivo della condotta può anche coincidere col soggetto attivo. Invece non possono mai coincidere soggetto attivo e soggetto passivo del reato, perché sarebbe una
contraddizione in termini.
(98) Così Cass. 13-10-1988, n. 9928.
(99) Così Cass. 31-7-2008, n. 32063.
241
Capitolo 9
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Come avviene per il soggetto attivo nel caso dei reati propri, anche la qualità del soggetto passivo può essere determinante per la configurazione di un fatto tipico e per distinguere un fatto
tipico da un altro. Così:
— la qualità di minore degli anni quattordici della vittima è essenziale per la sussistenza del delitto di corruzione di minorenne (art. 609quinquies);
— la qualità di pubblico ufficiale è essenziale per distinguere la violenza o minaccia a pubblico ufficiale (art. 336) della violenza privata comune (art. 610) e dalla minaccia comune (art.
612).
Occorre anche distinguere il soggetto passivo del reato dal danneggiato, cioè da colui che dal
reato ha subito un danno civilmente risarcibile, anche senza essere titolare del bene giuridico protetto.
La figura del titolare del bene giuridico protetto, cioè del soggetto passivo del reato, è rilevante
perché a lui spetta, nei casi in cui sia ammissibile, di prestare il proprio consenso (100); nonché
il diritto di querela, nei casi di reati punibili a querela della persona offesa.
Il semplice danneggiato non ha alcun potere di querela, ma può solo esercitare l’azione civile
per ottenere il risarcimento dei danni.
Si tenga presente che soggetto passivo e persona danneggiata dal reato possono coincidere (così
nel delitto di lesioni), o risultar distinte (ad esempio nel delitto di omicidio).
B) Classificazione dei reati in base al soggetto passivo
In base al soggetto passivo, i reati si distinguono in:
a) reati plurioffensivi: sono quei reati che ledono o pongono in pericolo non un solo bene,
ma più beni diversi con conseguente pluralità di soggetti passivi (ad es. la calunnia offende
nello stesso tempo lo Stato, nel suo interesse alla regolare amministrazione della giustizia, e
la persona falsamente incolpata);
b) reati vaganti: sono quei reati che offendono un numero indeterminato di individui (esempio: strage, naufragio etc.);
c) reati senza vittime, o senza soggetto passivo: sono quei reati nei quali non è facile individuare un bene giuridico «afferrabile» (FIANDACA-MUSCO (101)).
Ne sono esempio i reati contro la «moralità pubblica» nonché i reati c.d «ostativi», cioè quelli a pericolo presunto o astratto, che incriminano atti che rappresentano solo il presupposto
di una concreta aggressione.
Prima di concludere l’argomento occorre ricordare che molti Autori affermano che in ogni reato, accanto al soggetto passivo particolare di esso, vi è, come soggetto passivo costante, lo Sta‑
to, in quanto interessato alla prevenzione e repressione dei reati.
Questa concezione, pur se non necessariamente erronea, è, come nota ANTOLISEI (102), del
tutto inutile dal punto di vista pratico.
(100) V. infra, Cap. 12, §2.
(101) Cfr. Fiandaca-Musco: Op. cit., pag. 152.
(102) Cfr. Antolisei: Op. cit., pag. 190.
242
ı La struttura del reato
Giurisprudenza
1. È configurabile il delitto di truffa, non già la contravvenzione di mendicità con mezzi fraudolenti nel fatto di colui
che ottenga danaro o altri aiuti economici mediante richiesta epistolare inviata a un numero indefinito di persone,
nella quale con mezzi ingannevoli dimostri uno stato di bisogno, in realtà inesistente. Il fatto descritto si differenzia
dalla menzionata ipotesi contravvenzionale sia perchè manca il requisito della pubblicità, che è proprio della contravvenzione, sia, maggiormente, per la minore gravita che caratterizza la contravvenzione (nella quale il comportamento dell’agente, svolgendosi pubblicamente, si sottopone al controllo della collettività e della pubblica autorità),
mentre, nella specie, sussiste la maggiore pericolosità di chi trae in inganno un numero indefinito di persone mediante i raggiri, posti in essere nella richiesta epistolare, sul suo inesistente stato di bisogno (Cass. 10-9-1970. n. 1983).
2. In tema di continuazione, ai fini dell’individuazione della violazione più grave da prendere come base per il
calcolo delle pene, occorre riferirsi alle valutazioni astratte compiute dal legislatore, ossia occorre aver riguardo alla pena prevista dalla legge per ciascun reato, di tal che la violazione più grave va individuata in quella
punita dalla legge più severamente. Non essendovi, poi, dubbio che nel sistema del nostro codice la distinzione tra delitti e contravvenzioni è poggiata sulla ritenuta maggiore gravità dei fatti illeciti considerati quali
delitti, deve ritenersi che nel concorso tra delitti e contravvenzioni violazione più grave debba esser considerata quella costituente delitto, e ciò anche nel caso in cui la contravvenzione sia punita edittalmente con una
pena di maggior quantità rispetto a quella prevista per il delitto, il discorso quantitativo servendo come integratore solo allorquando si tratti di pene di eguale specie, al fine di decidere la maggior gravità dell’una o
dell’altra violazione (Cass. Sez. Un. 30-4-1992, n. 4901 e Cass. 23-7-1997, n. 2884).
3. La normativa antinfortunistica è direttamente rivolta ad assicurare che i datori di lavoro assumano tutti i provvedimenti atti ad evitare infortuni, indipendentemente dai controlli e dalle revisioni degli organi ispettivi, il
cui parere positivo è irrilevante ai fini di escludere la responsabilità penale del datore di lavoro dal reato di
lesioni colpose (per amputazione, nella fattispecie, del braccio intrappolato nella macchina priva dei necessari presidi di sicurezza) (Cass. 20-10-2000, n. 10767, in Lavoro e previdenza oggi, pag. 1541).
4. L’art. 2087 c.c., che, integrando le disposizioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro previste da
leggi speciali, impone all’imprenditore l’adozione di misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro, è applicabile anche nei confronti del committente, tenuto al dovere di
provvedere alle misure di sicurezza dei lavoratori anche se non dipendenti da lui, ove egli stesso si sia reso
garante della vigilanza relativa alle misure da adottare in concreto, riservandosi i poteri tecnico-organizzativi
dell’opera da eseguire. Il contenuto dell’obbligo di sicurezza include anche i rischi derivanti dall’azione di fattori estranei all’ambiente di lavoro inerenti alla località in cui si trova il posto di lavoro nonché i rischi collegati all’azione criminosa di terzi. Il risarcimento del danno spetta in solido alla società committente e all’appaltatore (datore di lavoro dei lavoratori infortunati) in base alla responsabilità sia contrattuale che extracontrattuale (Cass. 22-3-2002, n. 4129, in Giurisprudenza Lavoro, 2002, pag. 746).
5. Spettano al datore di lavoro, e non al soggetto che rivesta un mero ruolo di preminenza nel luogo di lavoro,
l’obbligo di elaborare il documento di valutazione dei rischi, o, nelle piccole e medie aziende, l’obbligo sostitutivo di autocertificare per iscritto l’avvenuta effettuazione della valutazione dei rischi, nonché l’obbligo di
designare il responsabile del servizio di prevenzione e protezione compete solo al datore di lavoro (Cass. 174-2003, n. 18313, in Diritto e pretica del lavoro, 2003, 1541).
6. Nell’ambito di una amministrazione provinciale, qualora sia dotato di autonomia gestionale in materia, il responsabile
del servizio strade e viabilità è da considerarsi datore di lavoro, ed ha, pertanto, l’obbligo di predisporre il documento
relativo alla valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro, e di nominare il responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi (Cass. 23-5-2003, n. 22838, in Diritto e pratica del lavoro, 2003, 1541).
7. La delega degli obblighi previsti a carico dell’imprenditore è ammissibile, a prescindere dalle dimensioni
dell’impresa (Cass. 26-5-2003, n. 22931, in Diritto e pratica del lavoro, 2003, 2101).
8. Ai fini dell’esonero da responsabilità dell’imprenditore, la delega dei suoi obblighi deve essere scritta (Cass.
6-6-2003, n. 24800, in Diritto e pratica del lavoro, 2003, 2102).
9. Ai fini dell’esonero da responsabilità dell’imprenditore, la delega di attribuzioni deve avere forma espressa, e
non tacita, e contenuto chiaro, ma non deve essere necessariamente scritta (Cass. 26-5-2003, n. 22931, in Di‑
ritto e pratica del lavoro, 2003, 2101).
243
Capitolo 9
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10. Ai fini dell’esonero da responsabilità del datore di lavoro, la delega dei compiti in materia di sicurezza del lavoro non può essere meramente enunciata e riferita alla suddivisione dell’azienda in distinti reparti, costituenti entità autonome, ma deve essere espressamente e formalmente conferita (Cass. 21-5-2003, n. 22345, in Di‑
ritto e pratica del lavoro, 2003, 2102).
11. Il legale rappresentante di una società di notevoli dimensioni non è responsabile allorché l’azienda sia stata decentrata, mediante una suddivisione preventiva, in distinti settori, rami o servizi ed a ciascuno di questi siano
stati in concreto preposti soggetti qualificati ed idonei, dovendosi presumere in re ipsa la sussistenza di una
delega di responsabilità, anche organizzative e di vigilanza, per le singole sedi, anche in assenza di un atto scritto. (Nella fattispecie è stato ritenuto che il legale rappresentante di una società di gestione di autogrill lungo le
autostrade non fosse responsabile di una contravvenzione relativa alla detenzione per la vendita di un rilevante numero di bottiglie di acqua minerale in cattivo stato di conservazione) (Cass. 28-4-2003, n. 19642).
12. Ai fini dell’esonero da responsabilità del datore di lavoro, la delega in materia di sicurezza del lavoro deve essere formale (Cass. 1-7-2003, n. 27939).
13. Secondo l’impianto del D.Lgs. 14 agosto 1996, n. 494, il committente (non più l’appaltatore, datore di lavoro)
costituisce il perno intorno al quale ruota la sicurezza nei cantieri temporanei o mobili, e può essere l’unico
soggetto tenuto all’osservanza degli obblighi di sicurezza sul lavoro o può formalmente nominare un responsabile dei lavori (e non un mero ed in materia non previsto rappresentante) al fine della esecuzione o del controllo sulla esecuzione dell’opera (Cass. 7-7-2003, n. 28774, in Diritto e pratica del lavoro, 2003, 1983).
14. In tema di tutela penale dell’ambiente, non è imputabile all’ente ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, la
responsabilità amministrativa per il reato di gestione non autorizzata di rifiuti, in quanto, pur essendovi un richiamo a tale responsabilità nell’art. 192, comma quarto, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, difettano attualmente sia
la tipizzazione degli illeciti che l’indicazione delle sanzioni. (Fattispecie nella quale la Corte ha disatteso la doglianza difensiva riguardante la mancata contestazione del reato di trasporto non autorizzato di rifiuti alla società proprietaria del mezzo sottoposto a sequestro preventivo) (Cass. 6-11-2008, n. 41329).
15. In tema di responsabilità da reato degli enti, qualora l’illecito penale presupposto sia quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, è obbligatorio procedere alla confisca per equivalente del profitto
del reato (ed è quindi legittimo il sequestro preventivo funzionale alla medesima), non trovando applicazione il disposto di cui al primo comma dell’art. 322ter cod. pen., per cui, in relazione ai delitti contro la P.A.,
può procedersi alla confisca di valore solo in riferimento al prezzo del reato (Cass. 7-4-2009, n. 14973).
16. È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231,
sollevata con riferimento all’art. 27 Cost., poiché l’ente non è chiamato a rispondere di un fatto altrui, bensì
proprio, atteso che il reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio da soggetti inseriti nella compagine della persona giuridica deve considerarsi tale in forza del rapporto di immedesimazione organica che lega
i primi alla seconda. È, altresì, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5,
D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., in quanto la responsabilità dell’ente per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio non è una forma di responsabilità oggettiva, essendo previsto necessariamente, per la sua configurabilità, la sussistenza della cosiddetta «colpa di organizzazione» della persona giuridica (Cass. 16-7-2010, n. 27735).
17. Il delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche suddivise in più rate somministrate in tempi diversi è reato a consumazione prolungata ed è pertanto configurabile la responsabilità dell’ente
nel cui interesse o vantaggio è stato commesso ai sensi del D.Lgs. 231/2001 qualora anche solo l’ultima erogazione sia stata percepita dopo l’entrata in vigore del suddetto decreto (Cass. 21-7-2010, n. 28683).
18. In tema di responsabilità da reato degli enti, la società capogruppo può essere chiamata a rispondere, ai sensi del D.Lgs. 231/2001, per il reato commesso nell’ambito dell’attività di una controllata, purché nella consumazione concorra una persona fisica che agisca per conto della «holding», perseguendo anche l’interesse di
quest’ultima (Cass. 20-6-2011, n. 24583).
19. In tema di responsabilità degli enti per il delitto di false comunicazioni sociali, qualora l’appostazione nel bilancio di una società di dati infedeli è finalizzata a far conseguire alla medesima illeciti risparmi fiscali il reato deve ritenersi commesso nell’interesse della persona giuridica (Cass. 15-10-2012, n. 40380).
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