bio01074 - Giuseppe Bonghi - Biografia di Luigi Pirandello

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Giuseppe Bonghi
Biografia di Luigi Pirandello
04
La maturità: il trionfo del Teatro
Il 1921 è un anno importante per il teatro italiano: il 9 maggio viene messo in scena al Teatro Valle di Roma dalla
Compagnia di Dario Niccodemi Sei personaggi in cerca d'autore, la prima commedia della trilogia del cosiddetto
«Teatro nel Teatro» (le altre due saranno Ciascuno a suo modo del 1924 e Questa sera si recita a soggetto del 1930):
gli attori principali furono Luigi Almirante (Il Padre), Jone Frigerio (La Madre), Vera Vergani (La Figliastra) e
Alfonso Magheri (Il Direttore-Capocomico). Alla fine del secondo atto gli applausi sembrano assicurare il successo
pieno anche se non esaltante; Le chiamate, comunque, in scena tra primo e secondo atto sono una quindicina. Ma del
terzo atto gli spettatori non capiscono nulla o quasi, e alla fine si scatena una battaglia con fischi del pubblico e urla:
manicomio, manicomio!, e battimani dei sostenitori di Pirandello che, rannicchiato nel fondo di un palco insieme alla
figlia Lietta, assiste allo spettacolo ed è quasi costretto a fuggire da un'uscita secondaria, dal retro del teatro su via del
Melone, accolto da fischi e lanci di monetine. Così Arnaldo Frateili ricorda la serata su «L'Idea Nazionale» dell'11
maggio:
«La più violenta forse che ricordi il Valle. La lotta tra plaudenti e disapprovanti ha toccato intensità sonore mai raggiunte.
Venti minuti dopo la fine dello spettacolo buona parte del pubblico era ancora a teatro a discutere ad alta voce, chiamando tra
grandi applausi l'autore che dovette presentarsi un numero infinito di volte mentre i più fieri avversari della commedia
urlavano in coro il loro sdegno. » Gli scontri « si rinnovarono anche sulla pubblica via, e si protrassero a lungo, risvegliando
nel silenzio della notte echi che devono aver sorpreso e spaventato non poco quelli che dormivano il loro sonno meritato nei
pressi del teatro Valle ». (Pirandello, Maschere nude II, cit. p. 630),
Gli attori sul palcoscenico sono stati bravi, soprattutto il trio Vergani-Almirante- Magheri; ma questo non portò al
successo. Dopo due sole repliche la commedia venne tolta e sostituita con Tignola, recitata da Luigi Cimara, e
nemmeno venne presentata a Firenze, che avrebbe dovuto essere la seconda tappa, perché, - si giustificherà Niccodemi
il direttore della Compagnia, in una lettera a Luigi Pirandello, con la quale gli chiede di assistere alla prima che sarebbe
avvenuta in "nella prima quindicina di ottobre" al Manzoni di Milano, - Almirante era stato colpito da un improvviso
abbassamento di voce. Pirandello vi andò e più volte venne applaudito e richiamato sul palcoscenico: L'autore dovette
presentarsi più volte, contro le proprie abitudini, al proscenio. Gli spettatori videro così, per la prima volta, un uomo di
una certa età, vestito di grigio,dall'aspetto savio e modesto, con una fronte piuttosto alta e nuda, e una piccola barba
grigia a punta, che s'inchinava a ringraziare. (Fracchia)
E a Milano ben diverso sarà l'esito dello seconda rappresentazione, avvenuta in anticipo sui tempi il 27 settembre
con Vera Vergani grande mattatrice, «sfrontata, spavalda, impudente e impudica», come la definisce Marco Praga, che
nell'occasione scrive anche: "Il pubblico del Manzoni ha accolto trionfalmente questa strana commedia ch'è,
indubbiamente, un'opera d'arte di una originalità rara". Le repliche furono ben nove.
Da allora il successo dell'opera fu assicurato su tutti i palcoscenici del mondo. In dicembre viene rappresentata
prima al Teatro Margherita di Genova il lunedì 12, con scarsa affluenza di pubblico, poi al Teatro Carignano Torino,
dove fu replicata quattro volte, e si verificarono contrasti al terzo atto, come a Roma.
Già nel 1917 aveva scritto al figlio Stefano, prigioniero a Plan: ...ho già la testa piena di nuove cose! Tante
novelle... E una stranezza triste: Sei personaggi in cerca d'autore: romanzo da fare. Forse tu intendi. Sei personaggi
presi in un dramma terribile che mi vengono appresso, per essere composti in un romanzo, un'ossessione, e io che non
voglio saperne, e io che dico loro che è inutile e che non m'importa più di nulla; e loro che mi mostrano tutte le loro
piaghe e io che li caccio via... - e così alla fine il romanzo da fare verrà fuori fatto.
Nell'ottobre del 1920 Pirandello, come scrive Maria Luisa Aguirre D'Amico, lavora già al dramma, per cui
sarebbe da rifiutare quanto scrive Orio Vergani il 15 dicembre 1936 sul Corriere della Sera che la commedia sia stata
scritta in sole tre mattinate consecutive: "Aveva scritto nella mattinata, e finito sotto i nostri occhi, il secondo atto dei
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Sei personaggi in cerca d'autore. Il giorno avanti aveva scritto il primo atto: l'indomani avrebbe scritto il terzo. E il
pomeriggio? Un'altra commedia, in tre pomeriggi." Quale? non ci è dato saperlo da Vergani. Ma sappiamo quale
riservatezza avesse durante la scrittura e sappiamo anche che la mattina era impegnata nella scrittura, il pomeriggio
normalmente nello studio e solo nel tardo pomeriggio si trovava con gli amici coi quali usciva per una passeggiata.
Nel mese di gennaio con molta probabilità la stesura è terminata e subito dopo, in casa di Arnaldo Frateili, com'è
sua abitudine ne dà lettura agli amici. Fummo subito presi, sconvolti, storditi da quella lettura; sconvolti non solo dalla
commedia, ma dalla passione che Pirandello metteva nel recitarla. Alla fine non so più che si disse: discutevamo come
energumeni intorno a Pirandello diventato sorridente e tranquillo.
I sei personaggi rappresentano ciascuno a suo modo la condizione umana e vengono "rappresentati in diretta",
come fa notare Leone de Castris: nei Sei personaggi in cui per l'unica volta la condizione fluida dell'uomo attinge la
rappresentazione diretta, la tragedia sorge da un «caso», da una passione: confermando così, anche nel momento di
massima spersonalizzazione simbolica quella dialettica tra situazione e condizione, persona e personaggio, che è la
legge interna del teatro di Pirandello.
Sei personaggi in cerca d'autore - In un teatro, mentre gli attori di una compagnia di prosa stanno cominciando a
provare una commedia, Il giuoco delle parti di Pirandello, all'improvviso, vincendo le resistenze del custode, si presentano
sei persone, o meglio sei strani individui vestiti a lutto, sei Personaggi, parto della fantasia di uno scrittore che a un certo
punto, per stanchezza o deliberatamente, li ha abbandonati; i sei sono così presentati nella didascalie del dramma:
il Padre
sulla cinquantina, stempiato baffetti, con un sorriso spesso
vano, pallido, si esprime in modo a volte mellifluo, altre volte
con scatti aspri e duri
sentimento predominante: rimorso
la Madre
atterrita e schiacciata da un peso intollerabile di vergogna e
d'avvilimento; velata da un fitto crespo vedovile (veletta nera),
e quando solleverà il velo mostrerà un viso non patito, ma
come di cera e terrà gli occhi sempre bassi
sentimento predominante: dolore con fisse
lacrime di cera lungo le gote come nelle
immagini di Mater Dolorosa nelle chiese
la Figliastra
diciotto anni, spavalda, impudente, bellissima, vestirà a lutto
anche lei. Mostrerà dispetto per l'aria timida, afflitta e quasi
smarrita del fratellino, e una vivace tenerezza, invece, per la
sorellina
sentimento predominante: vendetta
il Figlio
di ventidue anni, alto, quasi irrigidito in un contenuto sdegno
sentimento predominante: sdegno
per il Padre e in un'accigliata indifferenza per la Madre, porterà
un soprabito viola e una lunga fascia verde girata attorno al
collo
il Giovinetto
squallido Giovinetto di quattordici anni, vestito anch'egli di
nero;
la Bambina
di circa quattro anni vestita di bianco con una fascia di seta
nera alla vita.
I sei, dopo esser saliti sul proscenio, per bocca del "Padre" si dichiarano: Siamo qua in cerca di un autore, d'uno
qualunque; e se non c'è va bene anche il Capocomico; alla vita si può nascere in tanti modi: alberi, sassi, donne, farfalle... e
personaggi; l'autore che li aveva creati, non aveva completato la sua opera e fu un delitto perché chi ha la ventura di nascere
personaggio vivo, può ridersi anche della morte. Non muore più! Morrà l'uomo, lo scrittore, strumento della creazione; la
creatura non muore più! E per vivere eterna non ha neanche bisogno di straordinarie doti. Essi vorrebbero che il
Capocomico sostituisse l'autore e facesse recitare il loro dramma agli attori, dando così loro una vita compiuta. A questo
punto i personaggi, in modo un po' convulso, cominciano a narrare il dramma che ciascuno ha in sé: il Padre è un borghese
di apparente «solida sanità morale», si sposa con una donna (la Madre) di condizione sociale inferiore, ma due anni dopo la
nascita del Figlio la induce ad abbandonare la famiglia per accasarsi con un uomo più adatto a lei. Rimasto solo, segue da
lontano le vicende della moglie, che nel frattempo ha una bambina (la Figliastra), finché la perde di vista. Morto il
convivente, la donna deve provvedere alla figlia ormai diciottenne, a un secondo figlio quattordicenne (il Giovinetto) e a una
Bambina di quattro anni. Ridotta alla miseria, cerca di sopravvivere facendo lavori di cucito per la losca Madama Pace che,
a sua insaputa, costringe la Figliastra a prostituirsi nel retrobottega del suo atelier. Un giorno proprio il Padre si presenta
come cliente dell'equivoco atelier; ma, quando sta per sedurre la Figliastra, compare la Madre che, sconvolta, impedisce
l'incesto svelando all'ex-marito l'identità della ragazza. Il Padre accoglie allora la famiglia nella sua casa, provocando
l'indignazione del Figlio, insofferente dei nuovi parenti che gli vengono imposti. Tutti soffrono della situazione: la Madre,
che tenta invano di guadagnare l'affetto del Figlio, la Figliastra, che odia il Padre e il Figlio, il Giovinetto, che si sente
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disprezzato e trascurato. L'unica a gioire della nuova casa è la Bambina, che ama giocare presso la grande vasca del
giardino. Ma il suo innocente gioco innescherà la tragedia finale: caduta nella vasca mentre la Madre non bada a lei perché
impegnata in un vano colloquio con il Figlio, la Bambina annega. Poco dopo, il Giovinetto si uccide con un colpo di pistola
e la Figliastra lascia per sempre la disgraziata famiglia.
Il Capocomico si lascia tentare dall'idea di dar corpo alla rappresentazione e si apparta con i "personaggi" nel suo ufficio
per stendere una bozza di scenario, mentre anche gli attori lasciano il palcoscenico dando l'idea della fine della prima parte. Il
sipario resta alzato.
La recita riprende dopo una ventina di minuti annunciata dal suono dai campanelli del teatro, una volta predisposta una
sommaria scenografia; si comincia con la rappresentazione dell'episodio chiave dell'intera vicenda: l'incontro casuale in casa
di Madama Pace tra il Padre e la Figliastra. Si organizza la scena e quando è ormai pronta fa la sua comparsa,
all'improvviso proprio Madama Pace, come «attratta dagli oggetti stessi del suo commercio», un personaggio che non è in
cerca d'autore ma che rappresenta la consistenza inquietante e tangibile della realtà, contro la quale si scaglia la Madre
gridandole 'assassina'. I personaggi provano la scena che viene rifatta dagli attori fra le risate della Figliastra che non si
riconosce nell'attrice Infine il Padre e la Figliastra eseguono il finale della loro scena interrotta, con il grido dirompente
della Madre che evita l'illecito rapporto carnale che i due stanno inconsapevolmente per consumare. Fraintendendo le grida
del Capocomico, il macchinista fa cadere erroneamente il sipario, lasciando sulla scena solo il Padre e il Capocomico stesso.
La rappresentazione riprende per correre filata verso la fine tragica del Giovinetto e della Bambina, rallentata solo dalle
discussioni tra Padre e Capocomico. Ma se da un lato ai personaggi gli attori sembrano falsi, perché recitano a modo loro un
dramma che sentono ciascuno a suo modo, dall'altro agli attori sembra finzione il dramma dei personaggi. Il dramma si
chiude con l'apparizione finale dei quattro Personaggi sul palcoscenico a luci spente, illuminato solo da un riflettore verde;
anche il Capocomico schizza via atterrito dal palcoscenico; si spegne il riflettore e rimane accesa una luce notturna azzurrina.
Per ultima apparirà la figliastra che guarderà verso gli altri tre ed esploderà in una folle risata precipitandosi poi giù per la
scaletta; correrà attraverso il corridojo tra le poltrone; si fermerà ancora una volta e di nuovo riderà, guardando i tre
rimasti lassù; scomparirà dalla sala, e ancora, dal ridotto, se ne udrà la risata. Poco dopo calerà la tela.
Tre i temi fondamentali, quasi tutti già presenti in pagine narrative, specie in tre novelle del '12: Risposta, La
carriola, La trappola, secondo Alessandro D'Amico (Pirandello, Maschere nude II, cit, pag. 625) che possiamo così
riassumere:
1
Il dramma dei
Personaggi
Tornano i luoghi del paesaggio umano e morale pirandelliano (il sesso come miseria, il
'gancio' dei fatti cui restiamo appesi, l'incomunicabilità tra gli esseri), e insieme i
pirandellismi (sentirsi 'uno' e scoprirsi 'tanti', il conflitto tra movimento e forma, la
realtà che si rivela illusione e l'illusione come unica realtà).
2
Il tormento della
creazione artistica e
rapporto arte-vita
Viene vissuto dolorosamente (l'angoscia del «momento eterno») e trionfalmente (la
superiorità del personaggio sulla persona).
3
Il discorso sul teatro
Il tema si sviluppa su due livelli:
a) basso e polemico: l'istrionismo, gli attori volgarmente mestieranti, l'inutilità della
critica,
b) alto e profetico: il palcoscenico restituito a luogo di verità, l'utopia d'una
recitazione-incarnazione del personaggio, la necessità della parola del poeta.
Nei primi mesi di quello stesso anno 1921 Lietta conosce l'addetto militare dell'Ambasciata (o Legazione) del Cile
presso il Quirinale, il maggiore Manuel Aguirre. Le piace andare alle feste dell'Ambasciata: presto diventerà, lei,
piccola, graziosa, che veste e si comporta così bene, figlia di uno scrittore italiano di cui tanto si parla, la beniamina
degli Ambasciatori, e i colleghi del marito faranno a gara per esserle presentati. Lietta è contenta, è appagata...
Pronuba di questo matrimonio fu una signora Cilena, Olga Prieto (sposata Asaro) e venuta in Italia per studiare l'arte
del belcanto e conosciuta da Lietta quando i Pirandello abitavano ancora al primo piano di via Torlonia. Olga Prieto
abitava in una palazzina adiacente il villino dove era l'appartamento dei Pirandello. Fu forse il suo italiano frammisto
di spagnolo a richiamare alla mente lo strano linguaggio usato dallo Spagnuolo e da Pepita Pantogada nel Mattia
Pascal e di metterlo in bocca a Madama Pace. (Maria Luisa Aguirre d'Amico, cit.)
Proprio in questo stesso mese di maggio Lietta si fidanza e a metà luglio si sposa nella basilica costantiniana di S.
Agnese (come era allora prescritto, il matrimonio avvenne in due giornate, prima con rito civile e poi religioso, il 14 e
16 luglio). La partenza per il viaggio di nozze segnò il primo vero allontanamento da casa e un distacco doloroso da suo
padre. L'anno dopo i due coniugi dovettero partire per il Cile rientrando in Italia solo nel 1925 dopo che aveva avuto il
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primo figlio, Manolo, che morì a soli tre anni anche per le ferite causate dal forcipe durante la nascita.
Pirandello restava senza una presenza femminile in casa e la partenza di Lietta fu un colpo durissimo. Poco dopo
anche Stefano lascia la casa paterna, sposando Olinda Labroca, una fine musicista, sorella di Mario Labroca che era
stato suo compagno di studi al Convitto Nazionale; i due sposi vanno ad abitare in via Pietralata e sarà Olinda a
prendere le redini di casa Pirandello che dopo qualche mese viene allietata dalla nascita della primogenita di Stefano,
Maria Antonietta, lo stesso nome di sua madre, a dimostrazione di un amore che le dolorose vicende trascorse e la
crudele malattia non hanno scalfito.
Il 21 settembre scrive all'amico attore Ruggero Ruggeri una lettera in cui parla di una commedia ancora da fare
ma già tutta chiara nella mente, sottoponendogli la trama
Antefatto: - Circa venti anni addietro alcuni giovani signori e signore dell'aristocrazia pensarono di fare per loro diletto,
in tempo di carnevale, una «cavalcata in costume» in una villa patrizia: ciascuno di quei signori s'era scelto un personaggio
storico, re o principe, da figurare, con la sua dama accanto, regina o principessa, sul cavallo bardato secondo i costumi
dell'epoca.
Uno di questi signori s'era scelto il personaggio di Enrico IV; e per rappresentarlo il meglio possibile s'era dato la pena e
il tormento d'uno studio intensissimo, minuzioso e preciso, che lo aveva quasi per circa un mese ossessionato.
Sciaguratamente, il giorno della cavalcata, mentre sfilava con la sua dama accanto nel magnifico corteo, per un
improvviso adombramento del cavallo, cadde, batté la testa e quando si riebbe dalla forte commozione cerebrale restò fissato
nel personaggio di Enrico IV.
Non ci fu verso di rimuoverlo più da quella fissazione, di fargli lasciare quel costume in cui s'era mascherato: la
maschera, con tanta ossessione studiata fino allo scrupolo dei minimi particolari, diventò in lui la persona del grande e
tragico Imperatore.
Sono passati vent'anni.
Ora egli vive - Enrico IV - in una sua villa solitaria: tranquillo pazzo. Ha quasi cinquant'anni. Ma il tempo, per lui (per la
sua maschera, che è la sua stessa persona) non è più passato ai suoi occhi e nel suo sentimento: s'è fissato con lui, il tempo.
Egli, già vecchio, è sempre il giovine Enrico IV della cavalcata.
Un bel giorno si presenta nella villa a un nipote di lui, il quale seconda la tranquilla pazzia dello zio, a cui è
affezionatissimo, un medico alienista.
C'è forse un mezzo per guarire quel demente: ridargli con un trucco violento la sensazione della distanza del tempo.
La tragedia comincia adesso, e credo che sia d'una veramente insolita profondità filosofica ma viva tutta in una
drammaticità piena di non meno insoliti effetti. Non gliel'accenno per non guastarLe le impresssioni della prima lettura. Data
la situazione, avvengono cose veramente imprevedibili, se Ella pensa che colui che tutti credono pazzo, in realtà da anni non
è più pazzo ma simula filosoficamente la pazzia per ridersi entro di sé degli altri che lo credono pazzo e perché si piace in
quella carnevalesca rappresentazione che dà a sé e agli altri della sua «imperialità» in quella villa addobbata imperialmente
come una degna sede di Enrico IV; e se Ella pensa che poi, quando a insaputa di lui, è messo in opera il trucco del medico
alienista, egli, finto pazzo, tra spaventosi brividi, crede per un momento d'esser pazzo davvero e sta per scoprire la sua
finzione, quando in un momento, riesce a riprendersi e si vendica in un modo che - sì, via questo davvero, per lasciarLe
qualche sorpresa, non glielo dirò.
Fra l'ottobre e il novembre 1921 Pirandello scrive l'opera, dopo aver ricevuto l'assenso di Ruggeri e mette da parte
per un po' Vestire gli ignudi destinato ad Emma Gramatica. Pirandello aveva lavorato con grande alacrità, perché
sperava che Ruggeri potesse darla già sul finire dell'anno all'Argentina di Roma con una grande Compagnia (che
qualcuno definì "Nazionale") che comprendeva Ruggeri insieme a Virgilio Talli e alla Borelli, che aveva ricevuto dallo
Stato, per prima dall'Unità del 1861, una sovvenzione statale che ammontava a ben 120.000 lire. Ma nonostante le
pressioni, la serie di recite a Roma si concluse con il nulla di fatto per la nuova opera pirandelliana. Ai primi del nuovo
anno la Compagnia si trasferisce a Milano, ma qui uno sciopero blocca i teatri (il Lirico, il Manzoni e l'Olimpia)
fermando le tre Compagnie che vi lavoravano. In questo frangente i tre Copocomici si accordano e formano una unica
grande Compagnia che il 28 gennaio riapre il Lirico con Come le foglie ottenendo un grande successo. La nuova
Compagnia agiva anche sul Teatro Manzoni, alternando le rappresentazioni con sale "sempre affollate da un pubblico
grato ed entusiasta".
I tempi sono ormai maturi. Il 14 febbraio Pirandello, abbandonando le lezioni al Magistero di Roma, arriva a
Milano per leggere la Commedia agli attori che la metteranno in scena; il giorno dopo Alda Borelli rifiuta la parte di
Matilde Spina e a nulla serviranno gli interventi di amici e responsabili. Viene fissata la Prima per il 21 febbraio dopo
solo otto giorni di prova, ma bisognò rimandare per una breve malattia di Ruggeri. Finalmente il 24 febbraio 1922 al
Teatro Manzoni, con Virgilio Talli come direttore, l'opera va in scena con questo cast:
Ruggero Ruggeri
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Enrico IV
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Gilda Marchiò
Matilde
Haydée Urbani
Frida
Amilcare Pettinelli
Di Nolli
Romano Calò
Belcredi
Egisto Olivieri
Genoni
Nino Besozzi
Landolfo
Sergio Tòfano
Bertoldo
L'Enrico IV ottiene un incontrastato trionfale successo, il primo di Luigi Pirandello, sia a Milano che a Roma,
dove la commedia viene rappresentata dalla Compagnia di Uberto Palmarini. Riportiamo i commenti raccolti da
Alessandro D'Amico (op. cit. p. 770-1)
«La cronaca è presto fatta - esordì Simoni sul "Corriere della Sera" il giorno dopo - ed è lietissima: un pubblico a volte
sorpreso, a volte rallegrato, a volte incuriosito, a volte commosso ed esaltato, e, dopo due o tre scene, interamente
conquistato. [...] Così all'attenzione profonda e silenziosa succedettero, alla fine degli atti, grandi e ripetuti scrosci d'applausi.
Cinque chiamate dopo il primo atto, cinque dopo il secondo sei dopo il terzo. E l'autore si dovette presentare alla ribalta tra i
suoi mirabili interpreti». Gino Rocca, sul «Popolo d'Italia»: «Usciamo dalla trionfale rappresentazione di questa sera con le
tempie che galoppano, con il cranio rintronato».
Ma i commenti al testo sono costellati di interrogativi. Critici e cronisti appaiono spesso frastornati. L'intreccio di Enrico
IV - dicono - è assurdo, ma l'originalità e la fantasia del suo autore son fuori questione. La tragedia è una conferenza in tre
atti, una predica più noiosa di quelle del padre Segneri, ma il pubblico se l'è goduta e il successo è stato travolgente.
Pirandello ci ha dato l'ennesimo giuoco cerebrale fatto di ghiribizzi eccentricità e sofismi («sempre più difficile» come al
circo, scrive Praga), ma la platea è stata costretta all'ammirazione e all'applauso prolungato e convinto. Praga definisce
Enrico IV «cosa nuovissima, tra le più originali che il teatro ci abbia date»; ma si domanda: «È teatro?», «segna una via
nuova?», «rimarrà?»; forse è solo «un fuoco d'artificio», un «giocherello cerebrale che v'intontisce lì per lì e magari vi
delizia». Rocca rovescia l'interrogativo: «Questo può anche non essere più teatro. Che cosa importa?»; quando c'è l'arte non
c'è bisogno di capire: «Sotto l'arcata che sembra sbucare dalla volta del teatro e perdersi nella notte dell'assurdo, e sfuggire
alla comprensione immediata del pubblico, un artista instancabile butta a piene mani tutto ciò che raccoglie ovunque: e tutto
appare facile, nuovo, inatteso». E non è solo il pubblico ad applaudire ciò che non comprende. Anche per Simoni, che esalta
l'opera, resta oscuro uno dei nodi essenziali della tragedia e si chiede come mai l'ex-pazzo una volta deciso di recitare la sua
follia, «divenuto un poeta divinamente capace di vivere la sua poesia in azione, un creatore, un potente» continui a nutrire
rancore verso chi ancora lo ritiene pazzo: «Quando si ribella a questa definizione, egli, che rappresenta già trionfalmente la
metafisica del Pirandello, per la quale la vera verità è la fantasia pare che, contraddicendo a se stesso, rimpianga una verità
che ad ogni fantasia è contraria. [...] la potenza della tragedia in certi momenti, par come diminuita da una specie di
oscillazione tra due significati che non riescono a confondersi e ad identificarsi»; «il personaggio bellissimo di Enrico IV
verso la fine del secondo atto [la grande scena della rivelazione ai consiglieri segreti] esce dalla sua stessa azione, e si spiega
e si commenta segno che non ha potuto raggiungere tutta l'espressione che doveva, e ha bisogno di aggirarsi intorno a se
stesso per chiarificarsi ».
Occorre dunque prendere atto che Pirandello nel febbraio 1922, quando la sua rivoluzione è già compiuta, rappresenta
ancora un 'problema' insoluto per la critica.
Incensato Ruggeri, lodato Talli per l'allestimento («magnifiche le scene e i costumi» scrive Rocca) ma soprattutto per la
recitazione d'insieme. «Ci mostrarono cosa possa fare una bella compagnia ben costituita, ben diretta e ricca di elementi
davvero primari» (Simoni).
Il 18 ottobre la Compagnia di Uberto Palmarini mette in scena l'opera al Teatro Argentina di Roma; una
compagnia "mediocre", come la definì lo stesso Pirandello che ne aveva seguito le prove, che portò la commedia a un
successo strepitoso, come quello ottenuto a Milano, e il teatro gremito tributò applausi entusiastici all'autore e fu
replicato fino al 25; tra novembre e dicembre venne ripreso e replicato ancora per 7 volte. Alla prima assiste anche
quell'Adriano Tilgher che sarà legato indissolubilmente all'opera pirandelliana con la teorizzazione del "dualismo di
Forma e Vita" che viene riscontrato pienamente in quest'opera che, come altri, reputa il capolavoro di Pirandello,
un'opera che è "la tragedia della vita che non ha potuto vivere, strangolata da una forma attraverso la quale doveva
passare e che, invece, l'ha ingoiata in sé".
Enrico IV - Il dramma ha un antefatto: un avvenimento accaduto al protagonista più di diciotto anni prima: un giovane
gentiluomo, che impersona Enrico IV di Germania in una sorta di cavalcata storica, durante i festeggiamenti di Carnevale,
cade da cavallo per colpa di Belcredi, suo rivale in amore; batte la nuca e per dodici anni crede di essere davvero l'imperatore
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Enrico IV. Vive rinchiuso in una villa isolata, ristrutturata in modo da sembrare la residenza imperiale di Goslar, in
compagnia di quattro finti Consiglieri Segreti, un vecchio servitore e due valletti, tutti impegnati ad assecondare la sua follia
e a vivere la creazione di quell'atmosfera storica, comunque mai uguale. Recuperato improvvisamente il senno, l'uomo
decide di rimanere Enrico IV, per non subire le difficoltà di un rientro nella realtà.
Primo atto - La sipario si apre sulla sala del trono, dominata da due quadri che rappresentano a grandezza naturale «Lui»
travestito da Enrico IV e «Lei» travestita da Matilde di Canossa, nella quale si trovano i due valletti e i quattro finti
Consiglieri, Landolfo Arialdo Ordulfo e Bertoldo. Quest'ultimo è al suo primo giorno di lavoro, in sostituzione di Adalberto,
impersonato da un certo Tito morto da poco, ed è ignaro di tante cose relative alla parte che avrebbe dovuto rappresentare:
credeva perfino di trovarsi al tempo di Enrico IV di Francia anziché di Enrico IV di Germania. I tre cercano di mettere subito
Bertoldo a proprio agio, facendogli una veloce ripassata storica; all'improvviso entra Giovanni il maggiordomo (in abiti del
Novecento) che annuncia ai sei l'arrivo della Marchesa Matilde Spina (vedova da molti anni) con sua figlia Frida
accompagnata dall'amico barone Tito Belcredi e dal medico Dionisio Genoni, tutti convocati dal Marchese di Nolli, nipote di
"Lui" (che era fratello di sua madre deceduta da circa un mese facendo sospendere il matrimonio tra il Di Nolli e Frida).
Entrando nella sala Matilde va a guardare il quadro che la ritrae da giovane e si accorge che somiglia moltissimo a sua figlia
Frida; intorno al quadro e alla rassomiglianza si accende una piccola discussione, interrotta dal Di Nolli che richiama tutti al
motivo per cui si trovano in quella sala, cioè la visita al malato 'Enrico IV'. Intorno al quadro il dottore fa qualche domanda e
viene a conoscere tutto l'antefatto: molti partecipanti alla cavalcata, avvenuta 22 o 23 anni prima di quella visita (il quadro
venne regalato da Matilde alla sorella di Enrico IV 18 anni prima, 3 o 4 anni dopo la disgrazia), si fecero fare quel quadro.
L'idea della cavalcata venne proprio a Belcredi e ciascuno si scelse il suo personaggio: Matilde scelse quello di Matilde di
Canossa e "Lui" quello di Enrico IV per poterle stare vicino e continuare a farle la corte: era un 'serio' in mezzo a persone
sciocche e un po' vanesie. Il suo corteggiamento comunque non veniva preso molto sul serio da Matilde. La rievocazione
della disgrazia si conclude: il cavallo si impenna, "Lui" viene trasportato in villa, finita la cavalcata tutti accorrono, recitando
ciascuno la parte che si era assegnata, quando compare "Lui" che recita la sua meglio di tutti, fino a sfoderare la spada e ad
avventarsi su due che sghignazzavano più di altri: tutti si rendono conto della tragedia e hanno un momento di terrore.
Matilde (nella parte della Duchessa Adelaide, madre dell'Imperatore) e il dottore (che diventa l'Abate di Ugo di Cluny) e
Belcredi, che decide di vestirsi da benedettino, devono indossare gli abiti d'epoca per potersi presentare nella sala del trono.
A questo punto Arialdo annuncia l'imperatore: l'attesa è finalmente finita! Enrico IV compare e recita la sua scena da
consumato attore, con repentini cambiamenti di toni e di voce e puntando la sua attenzione soprattutto su
Belcredi-benedettino che "Lui" chiama 'Pietro Damiani'. È quasi un soliloquio, che rievoca fatti e situazioni storiche, che
mettono in imbarazzo i presenti che non sanno assolutamente cosa fare e come reagire. Quando ha finito di parlare e ottenuto
di essere ricevuto dal Papa, vede Belcredi che si avvicina per sentire meglio: subito Enrico IV, supponendo che voglia
rubargli la corona imperiale posata sul trono, tra lo stupore e lo sgomento di tutti, corre a prenderla e a nascondersela sotto
il saio, e con un sorriso furbissimo negli occhi e sulle labbra torna a inchinarsi ripetutamente e scompare. Così l'atto si
chiude.
Il secondo atto si apre con la scena ambientata in una sala vicina a quella del trono; sono in scena Donna Matilde, il
Dottore e Belcredi, colei che vive e capisce, colui che crede di capire secondo l'ausilio della scienza e colui che in ogni cosa è
spinto dall'istinto e per questo non capisce. Il dottore cerca di capire il comportamento di "Lui", Matilde ha invece capito
tutto, ma viene compatita: ha capito che lui l'ha riconosciuta quando le ha parlato dei capelli tinti che una volta erano bruni
come quando era giovane, e ancora una volta sono stati i suoi occhi a farle leggere la verità. Alla realtà subentra la finzione:
Bertoldo annuncia l'ingresso della Marchesa Matilde di Canossa, cioè Frida che veste i panni indossati da sua madre ventidue
anni prima, durante la famosa cavalcata della disgrazia: bellissima e identica alla donna raffigurata nel quadro. L'illusione del
passato che si sovrappone al presente è perfetta. I tre chiedono licenza di allontanarsi ma contrariamente alle aspettative si
presenta lo stesso Enrico IV: viene svelato l'amore segreto di Enrico IV per Matilde, un amore corrisposto, se è vero che la
stessa Marchesa intercede presso il Papa perché gli venga concesso il perdono e tolta la scomunica. All'uscita dei tre Enrico
IV prorompe in un grido: "Buffoni! Buffoni! Buffoni!", lasciando attoniti spettatori e compagni presenti (i finti consiglieri e
le finte guardie) rivelando di non essere il matto che credono e di non aver potuto rivelare mai la sua guarigione per
salvaguardare la propria essenza umana. Per "Lui" Matilde e Belcredi non contano più nulla; tuttavia il ricordo della
giovinezza perduta gli brucia; per di più sa che la caduta non fu accidentale e vorrebbe vendicarsi. Ma la vendetta a freddo
non è nel suo carattere. Quando infatti compare il servitore Giovanni, vestito da umile fraticello, la commedia (secondo
Enrico IV) e lo scherzo (secondo i finti Consiglieri) continuano.
Col terzo atto si ritorna nella sala del trono. La Matilde di adesso non rappresenta più nulla: per lui la Matilde di allora
è la Frida di adesso, ed è Frida che viene coinvolta a rappresentare la Matilde di allora nel tentativo di ricreare in "Lui" quello
shock che possa riportarlo alla "normalità. Enrico IV sta attraversando la sala del trono, illuminata solo da una lampada che
"Lui" stesso regge in una mano, per recarsi nella sua camera per la notte, si sente improvvisamente chiamare: al posto del
quadro rappresentate la Marchesa si trova Frida e al posto del quadro di Enrico IV si trova il nipote Di Nolli. La finzione non
è più possibile, Frida grida la sua paura: al suo grido rientrano tutti e tutti sanno che Enrico IV è guarito perché lo hanno
rivelato i suoi "consiglieri". Appare il contrasto tra passato e presente, tra la vita che altri hanno vissuto e il tempo trascorso
che "Lui" non ha vissuto, rappresentati da Matilde e Frida. Quando alla fine afferra Frida e la abbraccia, Belcredi si avventa
su di lui, ed Enrico lo trapassa con la spada tolta ad uno dei suoi "Consiglieri": ora che ha ucciso, è condannato a non
abbandonare mai più la finzione e a restare per sempre Enrico IV.
Ormai la fama dello scrittore varca i confini dell'Italia: i Sei personaggi in cerca d'autore sono rappresentati in
lingua inglese a Londra il 27 febbraio 1922 al Kingsway Theatre dalla Stage Society, e G.B. Shaw, che assiste a una
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serata, la consiglia a Brock Pemberton che la metterà in scena a New York al Fulton Theatre nel novembre dello stesso
anno con ben 127 repliche.
Nel 1922, oltre all'Enrico IV, vengono rappresentati ancora tre drammi: il 29 settembre al Teatro Argentina di
Roma dalla Compagnia di Lamberto Picasso All'uscita, un atto unico apparso sulla Nuova Antologia nel novembre
1916, che può essere considerato più di altri l'atto di nascita ufficiale del teatro pirandelliano: è un dialogo di morti,
insolito e assoluto che si richiama a una totale umiltà e vuol essere l'esplicito messaggio del "mito di una realtà ridotta a
pura parvenza. Il 10 ottobre va in scena al Teatro Quirino di Roma, con la compagnia di Alfredo Sainati L'imbecille,
tratto dalla novella omonima pubblicata nel 1912 sul «Corriere della Sera», un dramma in cui l'intensa angoscia della
vita e della malattia sono mescolati con la satira politica, condotta con piglio grottesco e triste ironia, che non nasconde
una protesta contro certi costumi politici.
Il 14 novembre va in scena, sempre al Teatro Quirino di Roma, Vestire gli ignudi, con la Compagnia di Maria
Melato e Annibale Betrone. Ancora un suicidio, determinato dalla falsità dei rapporti umani, mancando i quali ciascuno
di noi è nudo.
Vestire gli ignudi - "Ognuno è un'anima nuda e sente la necessità di rivestirsi di un abito di rispettabilità, di qualità
apprezzate dagli altri, per dare un senso alla propria vita e sentirsi concretamente qualcosa.
Intorno a questo principio, che domina le azioni di Ersilia Drei, si svolge la trama della commedia in tre atti Vestire gli
ignudi. ...
Ersilia per tutta la vita si è sentita un nulla: «non ho mai avuto», afferma, «la forza di essere qualche cosa»; è stata
sempre come l'hanno voluta gli altri. Il tenente di vascello Franco Laspiga si fidanza con lei mentre era governante in casa di
Grotti, Console italiano a Smirne, e le dà per breve tempo l'illusione d'essere qualcosa. Ma poi la lascia ed Ersilia cede alle
insidie del Console Grotti che la possiede. E proprio mentre lei era distolta dal Console - in preda a una torbida passione dalla vigilanza della figlia, la bambina sale su una sedia e precipita dalla terrazza nel vuoto. Ersilia è ossessionata da questa
morte, la Signora Grotti la scaccia. In preda all'orrore per la tragedia vissuta si dà in strada al primo venuto. Lo schifo per la
sua miserevole vita la spinge infine a tentare d'avvelenarsi. All'ospedale, ormai certa di morire, racconta una dolorosa storia
d'amore per cingersi in qualche modo d'un alone romantico di martirio: s'è uccisa perché abbandonata dal Tenente di
Vascello Franco Laspiga. Un'intera pagina d'un giornale racconta la sua storia tragica, suscitando generale commozione; ma
sconvolgendo anche la vita di Franco Laspiga, che preso dal rimorso abbandona la fidanzata che sta per sposare e corre da
Ersilia, sopravvissuta all'avvelenamento, per riparare; nonché del Console che ambiguamente fa ampie smentite ai giornali,
ma si precipita anche lui da Ersilia per riaverla. Ersilia ne è sconvolta, non vuol ritornare a vivere con nessuno dei due. Dice
a Franco Laspiga: «Perché non puoi capire tu questa cosa orribile, d'una vita che ti ritorna, così... come... come un ricordo
che invece d'esserti dentro, ti viene... ti viene, inatteso, da fuori... Così cangiato, che stenti a riconoscerlo. Non sai più
trovargli posto in te perché anche tu sei cangiato ... ».
La notizia che era stata l'amante di Grotti, sconvolge Laspiga che tratta Ersilia da sgualdrina e fa perdere alla protagonista
la pietà di cui era circondata. Ora la giudicano una donnaccia, colpevole anche della morte della bambina che le era stata
affidata.
Il continuo mutare dei sentimenti e degli stati d'animo; la presa di coscienza di Ersilia che non vuol essere causa di male
agli altri e si ribella al soccorso che le offrono i due uomini, esclamando: «Mi vorreste condannare a essere quello che io
volli uccidere? No, no, basta quella!»; la sua convinzione che Franco non ha colpe, perché di ciò che accade ha colpa la vita,
rappresentano il tessuto ideologico della commedia, riscattato in poesia dalla sofferenza. Ersilia sarà costretta ad avvelenarsi
di nuovo e negli ultimi istanti di vita, mentre parla con superiore distacco di quanto è accaduto, tutti le si rifanno intorno
commossi e comprensivi.
Ersilia aveva tentato di coprirsi «con un abitino decente» inventando la sua morte per amore, ora anche quello le è stato
strappato ed è rimasta nuda. Non vuol più sentire e vedere nessuno e conclude il suo nobile soliloquio finale - di grande
effetto scenico e di intensa poesia - dicendo ai due pretendenti: «Andate, andatelo a dire, tu a tua moglie, tu alla tua
fidanzata, che questa morta - ecco qua - non s'è potuta vestire». (I. Borzi)
Colla data del 1923, ma in effetti nel novembre dell'anno precedente, Adriano Tilgher pubblica l'opera Studi sul
teatro contemporaneo con la quale offre la prima interpretazione del teatro pirandelliano, che qualche mese prima era
stata anticipata in un pomeriggio mondano a Roma. Il pomeriggio del 12 aprile 1922 la Roma intellettuale ed elegante
affollava i locali dalla Galleria Giacomini in piazza Madama. Si inauguravano le Stanze del Libro e, dopo i discorsi
ufficiali, Adriano Tilgher avrebbe parlato dell'arte di Luigi Pirandello. Tilgher parlò dell'umorismo e del rapporto tra
la filosofia e l'arte di Pirandello, chiarì come nella sua opera fosse presente il «contrasto tra l'eterno fluire della vita e i
singoli eventi in cui esso di volta in volta si congela. Guai alle creature che per sé o per gli altri rimangono agganciate
e fisse in un singolo fatto della loro vita senza potersene staccare». È da queste idee, affermava Tilgher, che nascono i
Sei personaggi e l'Enrico IV.
Adriano Tilgher - L'antitesi è perciò la legge fondamentale di quest'arte. L'inversione dei comuni ordinarii abituali rapporti
della vita trionfa sovrana. [ ... ]
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Dualismo della Vita e della Forma o Costruzione; necessità per la Vita di calarsi in una Forma ed impossibilità di
esaurirvisi: ecco il motivo fondamentale che sottostà a tutta l'opera di Pirandello e le dà una ferrea unità e organicità di
visione.
Ciò basta da solo a far comprendere di quanta freschissima attualità sia l'opera di questo nostro scrittore. Tutta la
filosofia moderna da Kant in poi sorge sulla base di questa intuizione profonda del dualismo tra la Vita, che è spontaneità
assoluta, attività creatrice, slancio perenne di libertà, creazione continua del nuovo e del diverso, e le Forme o Costruzioni o
schemi che tendono a rinserrarla in sé, schemi che la Vita, di volta in volta, urtandovi contro, infrange dissolve fluidifica per
passare più lontano, creatrice infaticata e perenne. Tutta la storia della filosofia moderna non è che la storia dell'approfondirsi
del conquistarsi del chiarificarsi a se medesima di questa intuizione fondamentale. Agli occhi di un artista che di questa
intuizione viva - è il caso di Pirandello - la realtà appare nella sua stessa radice profondamente drammatica, e l'essenza del
dramma è nella lotta fra la primigenia nudità della vita e gli abiti o maschere di cui gli uomini pretendono, e debbono
necessariamente pretendere, di rivestirla. La vita nuda, Maschere nude. I titoli stessi delle opere sono altamente significativi.
Se in un primo momento l'analisi tilgheriana piacque al Pirandello, ben presto gli sarebbe però sembrata
eccessivamente ristretta e limitativa sia perché troppo si rifaceva alla sua produzione fino al 1922 sia perché chiudeva la
sua arte in un ambito dal quale sarebbe stato impossibile uscire. Qualche anno dopo, nel 1927, arriveranno alla polemica
e praticamente alla rottura perché Tilgher pensa, e a molti lo fa pensare, di essere stato lo scopritore dell'arte
pirandelliana e quasi l'artefice del suo successo. Nel '28 fra i due scende il silenzio, anche perché Pirandello sceglie un
volontario "espatrio".
Fra gennaio e febbraio del 1923, tratta dalle novelle La camera in attesa (pubblicata nel 1916 sulla rivista «La
lettura») e I pensionati della memoria (pubblicata sulla rivista «Aprutium» nel 1914) scrive La vita che ti diedi per
Eleonora Duse, che nel 1921 era tornata alle scene: ma i mesi passano senza che l'attrice dia una risposta.
Intanto trae dalla novella La morte addosso, pubblicata su «La Rassegna italiana» il 15 agosto 1918 col titolo
Caffè notturno, l'atto unico, considerato unanimemente fra le migliori opere pirandelliane, L'uomo dal fiore in bocca,
che viene messo in scena da Anton Giulio Bragaglia al Teatro degli Indipendenti di Roma dalla Compagnia degli
«Indipendenti» diretta da Anton Giulio Bragaglia il 21 febbraio. L'incontro fra "l'uomo" e "l'avventore" fa intuire la
profonda drammaticità del personaggio. Un uomo colpito da epitelioma sa che dovrà morire da un momento all'altro e
vive i suoi ultimi giorni in un disperato delirio, come assente dalla propria vita ma mostrando un disperato attaccamento
alla vita stessa colta nei suoi atti e gesti più semplici umili e quotidiani, come quelli di una commessa che fa un
pacchetto e lo guarnisce di nastri: L'uomo dal fiore in bocca è veramente colui che è capace di cogliere i sensi più
riposti della vita.
Subito dopo, siamo ai primi d'aprile del 1923, parte per Parigi (per la prima volta varca i confini dell'Italia per
seguire il suo teatro) dove il 5 aprile assiste alla prima dei Sei personaggi (Six personnages en quête d'auteur), con la
traduzione di Benjamin Crémieux, al Théatre de la Comédie des Champs Élisées con la direzione di Georges Pitoëff
(attore e regista). Al banchetto in suo onore, come scrive alla figlia Lietta che si trova ancora in Cile, partecipano
ministri uomini politici, l'Ambasciatore italiano, letterati e artisti di Francia e gli viene conferita la Legion d'onore.
Parigi tributa il definitivo trionfo al dramma: è un successo strepitoso che affermerà la fama nel mondo di un Pirandello
che raccoglie trionfali accoglienze. "Son ritornato da Parigi, non tanto stanco - scrive alla figlia Lietta in Cile - quanto
turbato e commosso dalle accoglienze che mi sono state fatte, veramente trionfali, come avrai potuto vedere da alcuni
ritagli di giornali che ti mando e che ti prego di conservare. È il primo caso, e veramente d'inaudita eccezionalità, che
uno scrittore italiano sia rappresentato contemporaneamente in due teatri di Parigi. E le repliche dei due lavori
saranno innumerevoli". Ormai il «dramma da fare» è rappresentato nelle maggiori città d'Europa.
Il 12 ottobre 1923 viene rappresentata al Teatro Quirino di Roma La vita che ti diedi da Alda Borelli, una tragedia
che è imperniata tutta sull'amore materno, un figlio che ritorna dopo sette anni completamente cambiato fino ad apparire
un estraneo e muore poco dopo il ritorno:
La vita che ti diedi - Atto primo - Donne alla veglia di un giovane che sta per morire e dolore per la sua morte. Durante
la veglia veniamo a conoscere l'antefatto: partito sette anni prima per studi per Firenze si innamora di una donna sposata, la
signora Maubel, che dopo un po' di tempo deve seguire il marito a Liegi; il giovane la segue. Il cadavere è vegliato dalla
madre, che non riconosce in quel corpo Fulvio, il figlio partito sette anni prima così bello e giovane e pieno di speranze e
pensa che sia un'altra persona; per questo decide di farlo seppellire nudo, semplicemente avvolto in un lenzuolo: suo figlio
vivrà con lei e dentro di lei finché lei stessa avrà vita. Oggi la madre non ha più lacrime, perché ha già pianto per sette anni,
quanti ne sono passati dalla sua partenza, e al ritorno arriva un figlio completamente diverso, anche nel fisico, da quello che
lei ricordava e amava, perché il figlio che lei amava era rimasto con "quella là", la donna che amava. Ricordarlo significava
per la madre dargli ancora un po' di vita, come dal principio, come sempre: la morte non può essere la cancellazione totale,
ma la vita che va al di là della morte fisica, una vita tessuta d'amore reciproco. All'improvviso arriva una lettera di "lei", la
donna del figlio, che negli ultimi tempi aveva manifestato il desiderio di abbandonare figli e marito e di raggiungerlo, con la
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quale annuncia la sua prossima partenza. La madre decide allora di scriverle ma di non rivelarle la morte di Fulvio.
Secondo atto - Con il cameriere Giovanni dispone delle piante per rendere più accogliente la casa: andrà lei stessa ad
accoglierla alla stazione e per prima cosa le chiederà di seguirla a casa. Intanto arrivano i figli di Donna Fiorina, sorella di
donn'Anna, anch'essi partiti per la grande città, ma solo da circa un anno. Donna Fiorina prova davanti ai figli la stessa
sensazione di estraneità davanti al grande cambiamento che hanno subito, ma cerca di non pensarci, anche se le battute di
Elisabetta gliela portano sempre alla mente. Ad un certo punto i due giovani, mentre si va spegnendo la luce del giorno,
scorgono il lume acceso nella stanza vicina e chiedono se è quella la stanza dove è morto Fulvio: ma non di morte si parla:
bensì di vita e quel lume rappresenta una situazione ben precisa: i figli che partono, muojono per la madre. Non sono più
quelli! mormora Elisabetta, e Donna Fiorina si mette a piangere, un pianto che i figli pensano dovuto al dolore per la sorella:
subito dopo i tre abbandonano la casa. Poco dopo arrivano Lucia Maubel e Donn'Anna dalla stazione. Lucia è frastornata
dall'assenza di Fulvio; le due donne si parlano e Lucia confessa di essere in attesa di un bambino proprio di Fulvio e racconta
del marito e dei suoi maltrattamenti e di non farcela più ad essere di tutti e due. Accetta quindi di passare la notte e vuole
passarla proprio nella camera di Fulvio: Donn'Anna guarda la porta chiusa della camera del figlio e con il viso d'un ilare
divino spasimo sa che il figlio vive anche in Lucia come in lei.
Terzo atto - Il mattino dopo arriva la madre di Lucia, Francesca Noretti, che alla stazione aveva saputo della morte di
Fulvio. Fra le due madri c'è un drammatico confronto. All'improvviso esce Francesca dalla camera di Fulvio: durante la notte
lo aveva sognato e aveva sentito la sua morte. In questo modo Donn'Anna si rende conto che il figlio è ormai morto, perché
morto è anche per Lucia e a nulla potrà valere la nascita del nuovo bambino. Alla fine convince Lucia a tornare a casa, a
curare i suoi due bambini e a far nascere il terzo, a tornare al suo martirio: a tornare a - Martoriarsi - consolarsi - quietarsi. perché È ben questa la morte.
Alla fine del 1923, mentre va in scena il 23 novembre al Teatro Nazionale di Roma (in vernacolo toscano con la
riduzione di Ferdinando Paolieri) L'altro figlio con la Compagnia di Raffaello e Garibalda Niccòli, Pirandello compie
un altro viaggio: a dicembre si imbarca sulla nave «Duilio» a Napoli per New York, dove arriva il 20 e assisterà al
Fulton Theatre (ribattezzato per l'occasione Pirandello's Theatre) alle rappresentazioni dei Sei personaggi e di Così è (se
vi pare); il viaggio è fatto in compagnia dell'attore Arnold Korpff che metterà in scena l'Enrico IV (The Living Mask).
All'arrivo a New York viene ricevuto "da un esercito di giornalisti americani e italiani e di fotografi" (lettera al figlio
Stefano). Festose sono le accoglienze degli italiani, e soprattutto della numerosa comunità siciliana: sono due mesi
esaltanti.
Al ritorno in Italia, in maggio (il 22 o il 23?) assiste al Teatro dei Filodrammatici di Milano, con la Compagnia
diretta da Dario Niccodemi e gli interpreti principali Luigi Cimara e Vera Vergani alla prima di Ciascuno a suo modo, il
secondo dei «drammi da fare» (della trilogia del teatro nel teatro, una definizione che lo stesso autore adotterà dopo aver
messo in scena il terzo dramma, Questa sera si recita a soggetto nel 1930), che ripropone la storia della donna fatale,
presente nel romanzo Si gira... .
La prima di Ciascuno a suo modo fu preceduta già da polemiche, sollevate dal feroce avversario di Pirandello, il
critico Domenico Lanza, che aveva per le mani la recentissima pubblicazione dell'opera (caso unico nella vita del
Nostro Autore la pubblicazione dell'opera prima della rappresentazione) aveva recensito il testo in maniera molto
negativa con "quattro colonne di vituperi" come scrisse lo Stesso Pirandello in risposta sul Corriere della Sera.
Generale perciò divenne l'attesa. Il primo atto ebbe un grande successo: pur con qualche dissenso, gli applausi durarono
per tutta la durata dell'intervallo; Ma alla fine del secondo i dissensi furono più marcati: l'uscita dello stesso Pirandello
sul palcoscenico mise tutti d'accordo: l'applauso fu unanime, come ci racconta Renato Simoni in Trent'anni di cronaca
drammatica, (Ilte, Torino 1954, pag. 78). Il dramma parte da un fatto di cronaca per operare quella mistione tra cronaca
quotidiana e finzione scenica, tra realtà vissuta e creazione artistica che sarà uno dei punti fondamentali del teatro oltre
che della narrativa pirandelliana.
L'estate del '24 Il Pirandello la trascorre a Monteluco con la famiglia del figlio Stefano, anche nell'attesa del
ritorno della figlia Lietta col marito dal Cile, un desideratissimo ritorno che stava lentamente slittando di quasi un anno.
La famiglia si stava per riunire, ma il destino aveva in serbo ancora una carta importante, che inciderà non soltanto
sull'arte ma anche sulla vita privata dell'autore.
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Progetto Pirandello
© 2001 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 31 maggio, 2001
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