Jens Viggo Nielsen "L`Esistenzialismo non è un umanesimo".

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”L’Esistenzialismo non è un umanesimo”
ANALECTA ROMANA
INSTITUTI DANICI
OFFPRINT
XXXIII
2008
ROMAE MMVIII
1
ANALECTA ROMANA INSTITUTI DANICI XXXIII
Accademia di Danimarca Via Omero, 18 - 00197 Rome
© 2008 Accademia di Danimarca
Analecta Romana Instituti Danici. — Vol. I (1960) — . Copenhagen: Munksgaard.
From 1985: Rome, «L’ERMA» di Bretschneider. From 2007 (online): Accademia di
Danimarca
ISSN 2035-2506
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Contents
Antonella Mezzolani: I materiali lapidei nelle costruzioni di età fenicia e punica a Cartagine
7
Gitte Lønstrup: Constructing Myths: The Foundation of Roma Christiana on 29
June
27
Jens Viggo Nielsen: ”L’Esistenzialismo non è un umanesimo” La dialettica come
approccio all’esistenzialismo di Luigi Pareyson
65
Lise Bek: Innocence Lost. Symbolism to Rhetoric in Architecture and the Renaissance
Concept of Invention
91
”L’Esistenzialismo non è un umanesimo”
La dialettica come approccio all’esistenzialismo di Luigi
Pareyson
di Jens Viggo Nielsen
Det at være et fuldkomment Menneske er dog det Høieste. Nu har jeg faaet Ligtorne. Det er dog
altid Noget til Hjælp
Søren Kierkegaard, Diapsalmata, Enten-Eller, vol. I
Abstract. Taking its departure from his work, Esistenza e persona, first published in 1950, the article treats Luigi
Pareyson’s relations with existentialism. In fact, this early interest on behalf of Pareyson is rooted in his attempt
to reach a philosophical founding of personal freedom, which avoids Sartre’s arbitrary definition of freedom on
one hand, as well as Jaspers’ and Heidegger’s negation of freedom on the other hand. More precisely, the article
deals with and discusses Pareyson’s understanding of the inevitable personal choice for or against Christianity in
modern culture, the necessity of which he presents in his early works on existentialism: Positioned in between two
unacceptable alternatives, i.e. the arbitrary concept of freedom on one side and the denial of freedom and choice
on the other, the individual must try to navigate and ultimately make a fundamental decision. Nevertheless, in his
concluding discussion of Pareyson’s early philosophical outlook the author argues that Pareyson’s criticism of
Sartre remains imprecise, and that his relations with Jaspers and Heidegger are more ambiguous, than he himself
is willing to acknowledge.
I. Introduzione
Il filosofo italiano Luigi Pareyson (19181991) è poco noto all’interno del mondo filosofico ed accademico nordico (scandinavo);
questo vale in generale per il suo pensiero,
e per il suo rapporto con l’esistenzialismo in
particolare. Più conosciuti sono i suoi allievi Gianni Vattimo e Umberto Eco, nonché
Mario Perniola: Quando il prof. Pareyson si
ammalò nel 1971, condizione in cui rimase per il resto della vita, dovette in qualche
modo rinunciare anche alla fama all’estero
che avrebbe sicuramente meritato (fama a
cui peraltro nemmeno prima di essere colpito dalla malattia aveva dimostrato di essere interessato). Nonostante ciò va ricordata
la riconoscenza con cui Gadamer fa riferi-
66
Jens Viggo Nielsen
mento alla filosofia di Pareyson in Wahrheit
und Methode, che attesta il vivo interesse da
parte di Gadamer per l’opera pareysoniana
Estetica – teoria della formatività (1954).
Gadamer era perciò consapevole del fatto
che prima di lui (e prima di Ricoeur) Pareyson aveva elaborato una vera e propria teoria
non solo di estetica, ma anche interpretativa.1
L’argomento di questo articolo non è però
l’ermeneutica di Pareyson, ma il già accennato rapporto con l’esistenzialismo visto
attraverso la concezione e l’uso della dialettica di Pareyson, essendo in breve la mia
tesi quella che sarà anzitutto la lettura di
Kierkegaard a far comprendere fino in fondo questi aspetti del pensiero pareysoniano.2
Il primo pensiero di Pareyson non è
a mio parere meno degno di nota della sua
ermeneuticà successiva e della sua tarda ontologia della libertà; anzi c’è da dire che il
primo costituisce e rimane il presupposto
per poter capire gli ulteriori sviluppi all’interno della sua opera. Più precisamente il
compito sarà qui di leggere il primo Pareyson che si rapporta all’esistenzialismo
con Pareyson e contro lo stesso Pareyson:
in primo luogo cercherò di dare conto dei
punti fondamentali della sua interpretazione dell’esistenzialismo in generale e della
dialettica, e di Kierkegaard in particolare; in
secondo luogo discuterò quelle ambivalenze sia produttive che problematiche che vi
si esprimono. Forse in questo modo si potrà
anche dire qualcosa sull’eventuale attualità
dell’esistenzialismo oggi, incluse le opere
degli stessi Kierkegaard e Pareyson.
II. L’esistenzialismo come sintomo e coscienza della crisi: il problema e la soluzione
Nicola Abbagnano fu insieme a Pareyson
tra i primi a introdurre l’esistenzialismo in
Italia: nel 1939 viene pubblicato Struttura
dell’esistenza di Abbagnano e contemporaneamente Pareyson sostiene la discussione
della sua tesi su Jaspers, La filosofia dell’esistenza e Carlo Jaspers, pubblicata l’anno
seguente con il titolo Karl Jaspers.3 Durante
la seconda metà degli anni trenta più volte
Pareyson soggiorna in Germania, dove non
solo incontra Karl Jaspers e si occupava del
suo pensiero, ma studia anche a fondo Was
ist Metaphysik? di Heidegger e il Römerbrief di Karl Barths.4 Lo stesso Pareyson
sottolinea di avere
avuto la fortuna di incontrare la filosofia
dell’esistenza nel momento giusto, cioè nel
punto culminante della sua maturazione: nella
seconda metà degli anni Trenta. Qualche anno
prima la visione era ancora parziale, qualche
anno dopo sarebbe stata deformata: solo allora
si poteva avere una visione d’insieme totale e
autentica.5
A partire dal 1938, Pareyson, rientrato in
Italia, inizia l’elaborazione di una serie di
saggi che1943 vengono pubblicati sotto il
titolo Studi sull’esistenzialismo, ma già in
quest’opera dimostra di essere tanto ambizioso
teoricamente quanto lo è da un punto di
vista storiografico e e nella sua capacità di
dare un ampio quadro introduttivo: è nei
saggi compresi in quest’opera che Pareyson
”L’Esistenzialismo non è un umanesimo”
traendo ispirazione da Jean Wahl divide
l’esistenzialismo in tre correnti, ognuna con
una sua particolarità e origine: una francese,
una russa e una tedesca.6 E finalmente
nel 1950 esce una collezione di saggi
sull’esistenzialismo dal titolo Esistenza e
persona, la maggior parte dei quali fu scritta
da Pareyson nell’immediato dopoguerra dal
1945 al 1949, e in cui il filosofo cerca con
ulteriore enfasi una propria via per entrare e
sopratutto per uscire dall’esistenzialismo. In
breve sono queste le tre opere a cui qualsiasi
studio approfondito sull’interpretazione
esistentialistica di Pareyson deve rifarsi, e
questo vale anche per il presente articolo.
L’esistenzialismo è una filosofia di crisi
Un punto centrale per Pareyson è la sua
visione dell’esistenzialismo, considerato
come filosofia di crisi, che, come tale, costituisce l’analisi e la coscienza migliore di
quella crisi che colpisce il mondo occidentale nel periodo durante e immediatamente seguente alla seconda guerra mondiale.
Così scrive nel 1949 in un saggio che tratta
proprio l’attualità dell’esistenzialismo:
Indissolubilmente unito alla cultura, di cui
dichiara il fallimento, l’esistenzialismo è l’unica
tra le filosofie contemporanee ch’è veramente la
coscienza della crisi, l’unica che offre veramente una chiave per interpretare la crisi attuale,
l’unica che rappresenta nella forma più chiara e
profonda i problemi più tipici e più urgenti del
giorno d’oggi.7
Molto evidente è qui il nesso tra il modo in
67
cui Pareyson si concentra sull’esistenzialismo visto allo stesso tempo come sintomo
di crisi e come la migliore presa di coscienza disponibile della crisi, e sugli eventi storici contemporanei, cioè con l’esperienza
dell’inferno della seconda guerra mondiale,
con la paura di pronunciarsi sul regime in
Italia, e con la difficile costruzione della
republica dopo gli anni di Mussolini e del
fascismo. Ciò nonostante è, però, prima
di tutto negli articoli scritti nel dopoguerra, vale a dire in Esistenza e persona, che
Pareyson adopera esplicitamente il concetto di crisi, confermandone così l’utilità
analitica nella situazione a lui contemporanea, mentre è invece quasi assente negli
altri due scritti sull’esistenzialismo, ossia la
dissertazione su Jaspers del ‘39 e gli studi
sull’esistenzialismo del ‘43. Tuttavia il concetto di crisi fa da sottofondo latente delle
analisi sia storiche sia filosofiche dell’esistenzialismo e delle analisi sulla sua nascita
dalla dissoluzione dell’hegelianismo e del
razionalismo metafisico. In altre parole non
c’è nessun accettazione tacita, tanto meno
sostegno attivo al fascismo da parte di Pareyson. Al contrario egli fu attivo nella lotta
di resistenza del “Partito d’Azione”, correndo in più occazioni rischi considerevoli,
malgrado la sua salute fosse già allora cagionevole: e infatti come conseguenza nel
1944 il regime lo liberò dai suoi impegni da
insegnante al liceo di Cuneo.8
Nonostante ciò l’analisi di Pareyson
dell’esistenzialismo come filosofia della e
sulla crisi va attribuita a cause “interiori” alla
filosofia stessa, ed è fra altro una risposta
68
Jens Viggo Nielsen
a Norberto Bobbio che insieme ad altri filosofi giudicavano l’esistenzialismo in toto
come parte di una forte corrente dell’epoca,
incapace di confrontarsi in maniera decisiva e profonda con i residui problematici
del fascismo e del totalitarismo.9 Pareyson
tenta qui – e in opposizione all’esigenza
di Bobbio di un rinnovo attraverso il positivismo e in opposizione all’ ateismo delle
stesso Sartre – una distinzione tra le diverse
“decadenti” tendenze all’interno dell’esistenzialismo da una parte, e le sue forze
più positive dall’altra.10 Davanti alle diverse versioni che Sartre e Abbagnano danno
dell’esistenzialismo, Pareyson insiste sullo sforzo di un ripensamento del vincolo
ontologico e del cristianesimo moderno
all’interno dell’esistenzialismo stesso, e
sottolinea in questo modo una certa misura
di “decadenza” nella radicale coscienza della crisi come condizione per poter, se mai,
trovare una soluzione valida ai problemi
dell’epoca. Detto in altro modo bisogna veramente entrare nel mondo dell’esistenzialismo per poterne uscire di nuovo dall’altra
parte: “L’esistenzialismo è qualcosa di più
d’una mera espressione della crisi, e qualcosa di meno della soluzione della crisi.”11
Torniamo su quest’ultimo punto. Per adesso basta notare che Norberto Bobbio non fu affatto l’unico allora a sottolineare criticamente,
insieme a Pareyson, la deplorevole attualità del
concetto di crisi e la sua intricata correlazione
con l’esistenzialismo: l’argomento era già stato
sviluppato, ad esempio, all’inizio degli anni
Trenta da parte del ”maestro” Karl Jaspers,
più precisamente nell’opera Die geistige Si-
tuation der Zeit, così come Edmund Husserl
- mutatis mutandis –nel suo ultimo libro del
1938 adoperò questa espressione mettendo
adirittura la parola ”Krisis” nel titolo: per
l’ultimo Husserl la crisi della scienza è il
sintomo di una radicale e più comprensiva
“crisi di vita” nell’insieme dell’umanità europea.12 Il concetto della crisi non diventa
importante soltanto nel dopoguerra; lo era
già durante gli anni precedenti alla guerra, e per motivi ovvi si può assumere che
Pareyson, nel rilevare che bisogna entrare
nella crisi per poterne uscire, attinge dalla
sua conoscenza di Jaspers, che già nel 1932
sosteneva che
Wer in der Krise zum Ursprung finden will,
muss durch das Verlorene gehen, um aneignend
zu erinnern; die Ratlosigkeit durchmessen, um
zur Entscheidung über sich zu kommen; die Maskerade versuchen, um das Echte zu spüren.13
È comunque un fatto che Pareyson ben conosceva lo scritto di Jaspers sulla costituzione spirituale del tempo.14
Ma in che cosa consiste più precisamente la
concezione della crisi in Pareyson? In breve, essa consiste in un’analisi sia storica sia
filosofica della crisi intesa come la dissoluzione del ”problema della conclusione” ereditato da Hegel e dal razionalismo, nonché
nella questione del nuovo inizio che da qui
nasce: “La definizione rigorosa del concetto di crisi mi sembra questa: crisi significa
dissoluzione di una conclusione e problema
di un nuovo principio”.15 Il punto interessante è che il problema della conclusione ed il
”L’Esistenzialismo non è un umanesimo”
nuovo inizio non è per niente un problema
nuovo; consiste piuttosto in una ripetizione
del passato, e soltanto per questo non è equiparabile alla fine della guerra o alla ricostruzione della repubblica o simili; al contrario
è necessario cercare le origini del problema
del presente nel passato, cioé nell ’800, in
Hegel e Kierkegaard:
69
to delle origini storiche di essa, che c’é una
vera e propria identità tra l’ottica di Pareyson e Jaspers:
Il fatto che l’esistenzialismo odierno ripeta
non soltanto i problemi, ma anche le soluzioni
di Kierkegaard e Feuerbach conferma appunto
che il significato della crisi contemporanea non
è se non ciò che s‘è detto: crisi dell’hegelismo,
Se la filosofia che ha teorizzato la conclu-
iniziata cent’anni addietro.18
sione è la filosofia hegeliana, l’esistenzialismo,
che è radicato nella dissoluzione dell’hegelismo,
sorge con l’intento esplicito di porre in questione la conclusione hegeliana e quindi di porre in
luce la problematicità della crisi.16
Lo stesso interesse delle origini storiche
della crisi conferma però paradossalmente il
fatto che non sarà facile uscire dalla crisi,
essendo la coscienza del tempo, invece, un
suo sintomo: la crisi si esprime fra altro nella ricerca di una via d’uscita dalla crisi nella
sua origine storica, o nel cercare una soluzione rivolta in avanti guardandosi indietro.
Detto con Jaspers:
Seit mehr als einem Jahrhundert ist immer
dringender nach der Situation der Zeit gefragt
Da questo punto di vista diventa anche chiaro
perché Pareyson non può non considerare la
crisi del presente come una crisi sostanzialmente filosofica, il che non vuol dire che riguarda soltanti i filosofi “professionisti”, ma
ogni uomo pensante che desideri rapportarsi
al presente storico e alla propria esistenza
individuale: “L’esistenzialismo”, sottolinea
Pareyson, “è l’affermazione più vigorosa
del personalismo contemporaneo”,19 e per
cui i problemi che mette in rilievo trattano
anche secondo Pareyson, esattamente come
ai tempi di Kierkegaard, della persona stessa
nella sua storicità insostituibile, del rapporto col cristianesimo, nonché del ruolo della
filosofia nell’interpretazione di tali aspetti.20
Ed è questo che ora guarderemo più da vicino.
worden; jede Generation har die Frage für ihren
Augenblick beantwortet. War es aber früher ein
Nachdenken weniger Menschen, die die Bedrohung unserer geistigen Welt fühlten, so steht seit
dem Kriege jedermann in diesem Fragen.17
Non è quindi meramente nel suo uso del
concetto di crisi, ma anche nel rendere con-
Il problema: l’eredità kierkegaardiana come
dialettica dell’implicanza
Secondo il primo e molto importante saggio in Esistenza e persona, “Kierkegaard e
Feuerbach – due possibilità”, lo scontro dei
due filosofi con Hegel diventa centrale per
70
Jens Viggo Nielsen
la comprensione dello sviluppo nell’ambito
della filosofia moderna, dato che la “situazione speculativa” ne è ancora influenzata.
In questo senso entrambi si presentano come
”profeti” o come critici del presente dopo la
conclusione del passato, e come annunciatori dell’avvenire come inizio di una nuova
età:
Di fronte alla crisi del tempo Kierkegaard vuol
essere colui ch’è consapevole della crisi e che
senza autorità attrae l’attenzione su questo punto.
[…] Anche Feuerbach si attribuisce un compito
negativo e profetico. Nel tempo presente si tratta
non soltanto di scrivere, ma anche di agire.21
In breve Kierkegaard diventa il padre
dell’esistenzialismo, mentre Feuerbach anticipa il marxismo: laddove Kierkegaard dissocia la conciliazione hegeliana tra filosofia
e cristianesimo dissipandone l’equivoco, e
ritrovando il senso della scelta fra una speculazione ambigua e una fede apertamente
dichiarata come tale, Feuerbach capovolge
la stessa conciliazione hegeliana proprio
per dissiparne l’equivoco, conducendo
sino in fondo la negazione del cristianesimo che vi è implicita, eliminando in tal
modo l’equivoco del cristianesimo laico.22
Secondo Pareyson in tal senso si può sottodividere la dissoluzione dell’hegelianismo
in tre problematiche contemporaneamente distinte e legate tra loro: 1) Il rapporto tra il pensiero e l’essere, 2) tra il finito
e l’infinito, nonché 3) tra l’uomo e Dio.23
1) In quanto al primo punto Kierkegaard afferma che Hegel con il suo sistema riduce
la realtà alla necessità e alla possibilità, perdendo così di vista la realtà; ma la realtà non
può essere sistematizzata perchè dipende
dall’esistenza, e cioè dalla vera realtà e dalla
contingenza. Feuerbach conferma, per parte
sua, che Hegel riduce l’essere a predicato e
il pensiero a soggetto, conciliando soltanto
il pensiero e l’essere nel pensiero, e per cui
non riesce ad eliminare quel contrasto tra di
essi da lui stesso creato: bisogna invece cogliere l’essere della realtà come un soggetto
che ha il pensiero come predicato.24
2) Sia per Kierkegaard che per Feuerbach
la conciliazione di finito e infinito è teocentrica, cosa che tuttavia non gli impedisce di
concepire il finito nello stesso modo di Hegel, e cioè come una vera e propria negatività (che in Hegel viene appunto mediata
o, in tedesco, aufgehoben). Ma mentre Kierkegaard pone il finito davanti all’infinito, in
Feuerbach al primo viene ascritto il carattere
dell’infinitezza pur mantenendo le sue qualità di finitezza:
[...] mentre per Kierkegaard la passione è ciò
che si presenta nella dialettica di finito e infinito,
tempo e eternità, dialettica che è priva di mediazione
perché si realizza nell’istante, e quindi è fede,
impegno, scelta, interesse, invece per Feuerbach
il finito, infinitizzato come tale, è sensibilità, affettività, amore, vita, carne e sangue, sentimento,
piacere, bisogno, esaltazione vitale [...]25
3) Ma la filosofia di Hegel non è soltanto
teocentrica, poiché umanizza Dio pur senza
azzardarsi ad una completa divinizzazione
dell’uomo; Hegel ha rovesciato il teismo in
”L’Esistenzialismo non è un umanesimo”
un panteismo che in realtà è una forma di
ateismo teologico, tuttavia non si confessa
apertamente ateo. Di fronte a ciò sia Kierkegaard che Feuerbach non prendono in considerazione l’autocoscienza di Dio nel sapere
assoluto di Hegel, ma la sostituiscono invece
con l’autocoscienza dell’uomo, poiché Kierkegaard fonda l’esistenza nel rapporto con
Dio, e Feuerbach in quella alienazione provvisoria che risulta dalla proiezione umana del
divino. Il merito filosofico di Kierkegaard è
di aver condotto dalla teologia al teandrismo
- ”Subjektiviteten er sandheden” (“la soggettività è la verità”) -; la via di Feuerbach porta invece dalla teologia all’antropologia.26
Il punto interessante è dunque che, mentre Kierkegaard secondo Pareyson può servirsi di Feuerbach, quest’ultimo, invece,
non può servirsi di Kierkegaard. Con ciò si
intende che Kierkegaard per motivi “tattici” può servirsi di Feuerbach come “pedina
usabile” perché la posizione di Feuerbach
è già stata contenuta e comtemplata in anticipo in Kierkegaard, ma non inversamente. L’alternativa di Kierkegaard è: o essere
schiettamente cristiani, e cioè fedeli, contro
ogni speculazione, o essere schiettamente pagani, e cioè speculanti, dissolvendo
il cristianesimo nella filosofia, vale a dire
cristiani secolarizzati. Feuerbach ignora
invece per parte sua la versione kierkegaardiana del cristianesimo come alternativa
possibile al proprio materialismo radicale.27
Il retroscena di questa lettura che presuppone in ultima analisi una teoria classica degli
stadi in Kierkegaard (argomento su cui tor-
71
nerò in seguito) si trova in quello che per
Pareyson rimane il punto chiave dell’opera
kierkegaardiana: l’autorelazione come relazione ad altro:
Il principio ontologico
dell’esistenza come
coincidenza di relazione con se e relazione con
altro, o di autorelazione e relazione con l’essere
[...] fu la prima cosa che vidi nell’esistenzialismo, sin dal mio primo articolo del 1938 “Note
sulla filosofia dell’esistenza” [...] Sin da allora
lo trovavo comune a Heidegger e Jaspers, e ne
mettevo in luce la radice kierkegaardiana.28
In altre parole Kierkegaard concepisce,
secondo Pareyson, l’autoscienza dell’uomo
come fondata nella relazione con Dio,
poiché l’uomo è determinato dalla sua
contemporanea auto- ed eterorelazione.
L’autocoscienza umana non è divina, ma
mantiene la relazione a Dio che ancora
rende possibile che l’uomo si rapporti con
se stesso:
Kierkegaard spezza la mediazione hegeliana del rapporto con se e del rapporto con Dio;
rapporto con se è la “soggettività” e “l’interiorità” dell’esistenza, e l’esistenza è tale in quanto
è rapporto con Dio, vale a dire si rapporta a se
stessa in quanto si rapporta a Dio. Vi sono sempre due relazioni, ma senza mediazione.29
Per chiunque abbia una conoscenza, anche
soltanto scarsa, di Kierkegaard è ovvio che
il luogo decisivo per una lettura come quella
di Pareyson sarànno le prime pagine di Sygdommen til døden (La malattia per la Mor-
72
Jens Viggo Nielsen
te), là dove scrive che
L’ uomo è spirito. Ma che cos’è lo spirito? Lo
spirito è l’io Ma che cos’è l’io? È un rapporto
che si mette in rapporto con se stesso, oppure è
nel rapporto il fatto che il rapporto si metta in
rapporto con se stesso; l’io non è il rapporto, ma
il fatto che il rapporto si mette in rapporto con
se stesso. L’uomo è una sintesi dell’infinito e del
finito, del temporale e dell’eterno, di possibilità
e necessità, insomma, una sintesi.30
Non è vana, infatti, la ricerca nei testi di Pareyson di diverse riformulazioni del passaggio qui citato, ovviamente a patto che non si
vada alla ricerca di citazioni esatte e letterali
delle parole di Kierkegaard: abbiamo già visto un esempio di tale parafrasi in Esistenza
e persona, e come altro esempio possiamo
prendere la dissertazione su Jaspers:
Secondo Kierkegaard l’io è rapporto con se
stesso, e, in quanto tale, rapporto con Dio. L’io è
un rapporto che, rapportandosi a se, si rapporta
a un altro. L’io è io proprio in quanto, rapportandosi a se, si rapporta a Dio.31
Intanto la domanda fondamentale per
Pareyson diventa se Kierkegaard, ponendo l’autorelazione e l’eterorelazione come punto chiave della propria indagine, riesce a elaborare o indicare un
fondamento assiologico del singolo.32
E la netta e semplice risposta è che non ne
è capace né Kierkegaard e insieme a lui neanche Feuerbach, rimanendo entrambi hegeliani nella loro risoluta critica anti-hege-
liana.33 È la già menzionata concezione del
finito come pura negatività che costituisce
il problema in entrambi, legandoli, secondo
Pareyson, a Hegel al di là di ogni loro critica
al sistema hegeliano. Pareyson attinge qui a
Jean Wahl che nei suoi Etudes Kierkegaardiennes sosteneva che la libertà in Kierkegaard sia minacciata da quella necessità che
assumerebbe e dalla tendenza nella scelta
verso la non-scelta, la quale soltanto si raggiunge attraverso la grazia. Per cui la disperazione finisce nella luce.34 Pareyson nomina
questa dialettica – che anch’egli intravede in
Kierkegaard – “dialettica dell’implicanza”, e
nel suo complesso spiega come Kierkegaard
nei confronti della sintesi hegeliana costituisce l’implicanza paradossale degli opposti,
non nella forma di una mediazione su un livello superiore, ma proprio nelle forma di
una implicazione o di un “rovescio” o di una
inversione, dove la negatività presuppone e
infine suscita la positivitá, il finito l’infinito e viceversa.35 Sia in Kierkegaard che in
Hegel le opposizioni sono in ultima analisi
unite, o nella sintesi del superamento (Hegel) o nell’implicanza di positivo e negativo
(Kierkegaard):
Per il primo l’«o» diventa «e», per il secondo il «malgrado» diventa «perché». Le due
dialettiche dell’opposizione finiscono per
risolvere la giustificazione [della persona;
aggiunta mia] in «necessitazione» .36
Detto in altro modo il risultato
della dialettica dell’implicanza sarà
che Kierkegaard, come Hegel, perde
”L’Esistenzialismo non è un umanesimo”
di vista la validità e la libertà concreta
della persona, eliminando quest’ultima
nell’identità necessaria della sintesi. Ma
questa interpretazione problematizzante del
concetto di libertà in Kierkegaard implica
allo stesso tempo che perfino il paradosso
kierkegaardiano, che si trova formulato
dapprima
nelle
Briciole
filosofiche
(Philosophiske Smuler, 1844) e nel Poscritto
(Poscritto concludente non scientifico
alle Briciole filosofiche; Afsluttende
uvidenskabelig efterskrift til de philosophiske
smuler, 1846), viene interpretato alla luce
della teoria di autorelazione e eterorelazione
tratto da La Malattia per la morte (1849),
e quindi come un elemento della dialettica
dell’implicanza.
Secondo
la
teoria
kierkegaardiana del paradosso, Pareyson
afferma che
l’esistenza è a un tempo chiusa e aperta, l’invocazione è a un tempo soggettiva e trascendente, il legame ontologico è, simultaneamente,
il rapporto più intimo e un rapporto con altro.37
Questo vale anche in maniera identica
per le altre categorie kiergaardiane come
ad esempio ”L’istante” (”Øjeblikket”) che,
nell’interpretazione di Pareyson, diventa una
teoria dell’implicanza tra l’io e la propria situazione, che in ultima analisi rende inspiegabile la temporalità della persona intesa
come un proseguimento concreto nel tempo
esposto alla finitezza e alla contingenza.38
Nella sua lettura dell’esistenzialismo contemporaneo Pareyson ritrova nella filosofia
di Jaspers la stessa struttura che già aveva
73
trovato in Kierkegaard, anche se riemerge in
lui in un’atmosfera ben diversa, sia per quanto concerne il tempo sia per quanto concerne
lo stile: pur essendo la lettura del Römerbrief
di Karl Barth ad attirare l’attenzione di Pareyson verso il significato e la portata della
dialettica dell’implicazione,39 e pur essendo
la constellazione Barth-Heidegger per certi
versi una “ripetizione” della constellazione
di cento anni prima tra Kierkegaard e Feuerbach (!),40 è comunque Jaspers che, nella sua
ottica “criptohegeliana” rimane più fedele
alla pretesa kierkegaardiana, in quanto il suo
concetto della situazione limite esprime il
nocciolo dell’esistenza come incarnazione e
partecipazione.41 Se sia Barth che Heidegger
deviano dalla linea kierkegaardiana, perché
il finito in Barth viene assorbito dall’infinito, mentre nel primo Heidegger di Sein und
Zeit è l’infinito che si lascia assorbire dal
finito, solo Jaspers vi rimane fedele e cerca di seguirla.42 E mentre Kierkegaard parla dell’esistenza come un dilemma e come
una rafforzata contraposizione tra due regni il finito e l’infinito, che si escludono a
vicenda essendo pur fondamentalmente il
presupposto l’uno dell’altro, Jaspers tratta la struttura antinomica dell’esistenza in
modo uguale e conserva gli opposti proprio
in quanto accentua la loro contraposizione.
Infatti la negatività si trasforma tanto più in
positività quanto più la negatività viene approfondita.43 Il capovolgimento o il rovescio
da negativo in positivo avviene inoltre in
Kierkegaard nell’angoscia che è compagna
fedele della scelta,44 così come il naufragio
in Jaspers implica il salto e viceversa:45
74
Jens Viggo Nielsen
...ma, in fondo, le due idee non sono, a nostro
credere, che le faccie opposte di una medesima
medaglia, per quella concezione, comune ai due
filosofi, della coincidenza dell’autorelazione
con la relazione alla trascendenza. Entrambe le
relazioni implicano l’altro; la trascendenza del
peccato e la trascendenza del bene; ma il negativo genera il positivo, nello Jaspers così come nel
Kierkegaard e nel Barth.46
Sia Jaspers che Kierkegaard finiscono
con ciò in una dialettica della necessità o
dell’implicazione, dove si intravvede sempre la trascendenza dietro all’esistenza e
alla scelta concreta della persona, e dove la
presenza della richiesta diventa un’esigenza,
poiché la scelta invece di una vera e propria
scelta è un “amor fati” o un principio di predestinazione in quanto scelta di una situazione inevitabile.47 Ma se la scelta è soltanto
nel fare della necessità virtù, com’è possibile che Jaspers continui a parlare della persona come pura possibilità, ed anche della sua
“risolutezza”? Non esclude in realtà quella
stessa possibilità di cui continua a parlare?
La mia critica intende dimostrare che, se
l’esistenza è coincidenza di incarnazione e par-
cioè l’incontro concreto tra finito e infinito,
perché contemplano entrambi il naufragio
della persona nel mare della necessità.49 E
per conseguenza l’esistenzialismo diventa
– e qui Pareyson si riferisce specificamente
all’esistenzialismo tedesco, compresa la sua
“figura paterna” che è Kierkegaard - alla
fine dei conti una filosofia che rispecchia e
dà voce ai problemi dell’epoca senza essere
capace di indicare una soluzione. Per le proprie origini storiche l’esistenzialismo porta
necessariamente con sè un’ambiguità o problematicità che lo rende la corrente filosofica più indicativa sia della crisi evidente sia
del carattere decisivo della sua soluzione, e
che costituisce il fondamento di tutte le sue
ramificazioni “decadenti” rispettivemente nell’esistenzialismo francese, tedesco e
russo e della sua inevitabile instabilità nel
singolo autore. Proprio perché intende una
rivalutazione del finito, cioè del particolare
e individuale nella sua inconfondibile e insostituibile singolarità, l’esistentialismo si
accontenta di separarla dall’infinito in cui
era stata assorbita dalla filosofia hegeliana
continuando però ad attribuire alla finitezza quel carattere puramente negativo che gli
veniva attribuito da Hegel (con lo stesso assorbimento):
tecipazione, nella filosofia jaspersiana assistiamo al dissolvimento della persona sotto entrambi gli aspetti.48
Se per una dialettica di carattere hegeliano
vale la tesi: “la colpa sussiste solo come contenuto del pentimento”, per la dialettica kier-
Per questo motivo Jaspers non riesce a completare la propria missione, come non ne era
capace Kierkegaard, quanto meno se con
questa missione si intende il personalismo, e
kegaardiana vige il principio: “la profondità
del peccato è la grazia”, il che, detto in termini
jaspersiani, e perciò laici, vuol dire che il sé è
colpa, e coscienza della colpa è la presenza della
”L’Esistenzialismo non è un umanesimo”
trascendenza.50
Donde il motivo per cui l’esistenzialismo
rimane hegeliano e antihegeliano allo stesso tempo, unito alla filosofia di Hegel come
alla propria inevitabile antitesi, e perciò rimane dentro quella crisi che si rivela, tra la
conclusione e il nuovo inizio, incapace di
risolvere la crisi, sebbene continui ad essere
la più critica e precisa coscienza di essa.51 E
donde anche il motivo per cui l’esistenzialismo, che si voleva presentare come un’esigenza personalistica nella concezione della
singola e imprendibile persona, non è capace di soddisfare quell’esigenza che muoveva
la sua intenzione originaria:52
La persistenza di elementi hegeliani in queste
teorie, che pure muovono dall’intento esplicito
di eliminare l’ambiguità e l’equivoco hegeliano,
conferisce loro non soltanto un carattere di ambiguità, ma anche una vera e propria insufficenza speculativa.53
La soluzione: dialettica dell’incommensurabilità
Abbiamo visto che l’esistenzialismo è qualcosa di più di una mera espressione della crisi e qualcosa di meno della soluzione della
crisi,54 ed anche che ciò accade per via della dialettica dell’implicanza che inizia con
Kierkegaard e continua nell’esistenzialismo
tedesco, il che in realtà significa Jaspers e
Heidegger, anche se Pareyson considera Karl
Barth e quella crisi che diagnostica nella dialettica un presupposto invalicabile per poter
capire entrambi.55 Ora, per poter uscire da
75
quel vicolo cieco in cui è finito l’esistenzialismo per via della dialettica di implicanza,
Pareyson propone un ripensamento del rapporto tra finito e infinito nella loro reciproca
incommensurabilità, e non come prima nella
loro complementarità, perché possa indicare
una soluzione a quella crisi che, come sopra nominato, prima della guerra si concepisce sopratutto come una crisi nel tentativo
di fondare la persona e la filosofia, mentre
dopo la guerra si espande in un concetto più
ampio che rispecchia l’intera epoca.56 È per
questo motivo che Pareyson, nella sua dissertazione su Jaspers, presenta quella che
definisce la “dialettica dell’incommensurabilità”, da lui posta come alternativa ad
una qualsiasi concezione implicativa della persona e del suo rapporto con la transcendenza, e cioè come alternativa ad ogni
mediazione “tautologica” tra finito e infinito.57 L’incontro sempre personale tra finito
e infinito, sottolinea Pareyson, si può infatti
interpretare come sintesi identificante della
reciproca implicanza di finito e infinito, o
come incommensurabilità terminologica tra
le due istanze:
Se personalismo v’è solo fondando la contingenza, alle dialettiche della mediazione e dell’implicanza, che sboccano della necessità, è forse
da sostituire la dialettica dell’incommensurabilità, la quale alla sintesi e al paradosso contrappone la scelta, all’inveramento e all’implicanza il
giudizio critico, allo svolgimento e al trascendimento il movimento nostalgico della storia,
così proponendo la contingenza.58
76
Jens Viggo Nielsen
Bisogna allora vedere il processo di implicazione come il punto chiave dell’esistenzialismo tedesco; l’incommensurabilità è invece
la contingenza. Secondo Pareyson la dottrina dell’incommensurabilità domina gran
parte dell’esistenzialismo francese, e quindi
non sorprende quando sostiene che sia questa la dottrina che meglio soddisfa l’esigenza personalistica.59 Durante la prima fase del
suo pensiero, mentre sta lavorando alla tesi
su Karl Jaspers e agli studi sull’esistenzialismo, sono filosofi come Le Senne e Lavelle
che annovera tra gli esistenzialisti francesi
più importanti, ai quali corrispondono i suoi
“maestri” italiani Carlini e Guzzo, visto che
tutti questi quattro filosofi si muovono a
modo loro sul limite tra spiritualismo (o idealismo) ed esistenzialismo.60 Ma colui che
pratica meglio di tutti la dialettica di incommensurabilità nella tensione irrevocabile tra
esistentialismo e spiritualismo è, secondo
Pareyson, senza alcun dubbio, Gabriel Marcel, che con la sua teoria del mistero ontologico per primo ha saputo accogliere l’esigenza di una fondazione sia normativa sia
ontologica della persona.61 In questo modo,
e al contrario di Jaspers e di Kierkegaard,
Marcel non elude la possibilità della “infedeltà” come condizione imprescindibile per
la libertà, che infatti rende la scelta anticipatamente indecisa, così come non cerca di
recludere l’io in una coscienza (troppo) intimistica e ottimistica, dove include in sé la
trascendenza o si amalgama con l’eternità.62
Mentre la filosofia di Kierkegaard e Jaspers
in ultima istanza porta alla negazione della
libertà, al fatalismo e alla passività, il miste-
ro ontologico diventa quello che per Marcel
vi oppone l’esigenza metafisica e che dà inizio ad una libera, creativa e passionale attività; il che non esclude, però, che il mistero
ontologico in Marcel contemporaneamente
vada inteso come l’incarnazione assiologica
dell’essere.63 È quindi necessario che un personalismo, che veramente voglia essere tale,
assimili le esigenze jaspersiane e kierkegaardiane e anche il presupposto esistenziale
dell’intimità; ma davanti alla concrezione
necessaria, e contrariamente ad essa, oppone una concrezione contingente che è l’incarnazione di un’iniziativa libera; e davanti
all’indentità di io e situazione (l’esistenza
in Jaspers) oppone la dualità tra due termini incommensurabili (essenza e esistenza).
E infine oppone al ”pensiero chiarificante”
di Jaspers (”Existenzerhellung”) una purificazione che trasforma e riscatta il dato, e la
decisione che si opera certo nella situazione,
ma su di essa e non da essa.64 È allora importante sottolineare che, in Marcel, a differenza
di Kierkegaard e Jaspers (oltre a Heidegger),
opera una dualità esplicita, poiché distingue
tra l’io dato e l’io reattivo, o tra l’io trovato e
l’io valutante: zona di prova è il campo della
libertà.65 Mentre l’implicazione compromette la valutazione normativa della persona, si
tratta qui, invece, di spostarsi al di là della
tautologia e della decisione interiore, e ciò
diventa possibile proprio nel pensiero di
Marcel, che non riduce la partecipazione e
l’intensità dell’incarnazione ad un’identità
tautologica, ma aspira a confermare l’opzione radicale di fronte all’alternativa originale
come un’attestazione ontologica; testimo-
”L’Esistenzialismo non è un umanesimo”
nianza dell’essere che si manifesta come appello nel e al singolo.66 Insomma, tra opposizioni che sono veramente tali, c’è sempre
un’alternativa reale, e il fatto che l’alternativa debba essere fondata sull’iniziativa libera
appare tanto più ovvio quanto più si pensa
che l’iniziativa è un tal “potere” che implica anche un “poter non”.67 Questo però non
significa, secondo Pareyson, che bisogna
fare un problema irrisolvibile del rapporto
con l’essere, insistendo sul problema come
se fosse una soluzione in sè, e che, in ultima
analisi, implicherebbe assumere una presunta posizione oggettiva “davanti” a quell’essere entro cui già ci muoviamo:
Se ricordiamo che per il Marcel l’esistenza
è partecipazione all’essere, dovremo concludere
che una riflessione approfondita della nozione
di problema porta alla convinzione dell’impossibilità di porre il problema e una problematica
dell’essere, per l’intima contraddizione contenuta
nelle parole “problema dell’essere” [...] Dell’essere non si pone problema, cioè considerazione
indipendente dalla natura e dalla situazione del
considerante, perché si tratta non dell’essere, ma
di essere. Non si tratta tanto dell’indagine quanto
della ricerca dell’essere, e se al problema corrisponde una soluzione, all’esigenza risponde una
affermazione.68
Concludendo si può dire che l’esistenzialismo è essenzialmente instabile per via
dell’ancoraggio problematico nell’essere
che caratterizza la libertà, e ciò implica, secondo Pareyson, che non può pretendere di
presentarsi come soluzione ai problemi e
77
alle questioni da esso stesso posti e creati:
non può sensibilmente chiudersi in sè stesso,
perché la sua stessa natura tende a portarlo
verso la soluzione in una delle altre filosofie,
il cui significato e la cui rilevanza proprio
esso rivela; o tende a portarlo in quella che
sta per trovare la sua soluzione in un rinnovamento dello spiritualismo, o in quella
che sta per trovare la sua (dis)soluzione in
una purificata versione dell’umanismo.69 In
questo modo Pareyson sottolinea, nella sua
critica dell’esistenzialismo, che non si può
ricorrere né allo spiritualismo nè all’esistenzialismo separatamente: senza lo spiritualismo l’esistenzialismo diventa distruttivo,
e senza l’esistenzialismo lo spiritualismo
diventa dogmatico. Invece Pareyson ritiene
che soltanto un esistenzialismo che rimane aperto o tende verso lo spiritualismo, e
che si giustifica rifornendogli una radicale
coscienza di crisi (quella coscienza che lo
spiritualismo francese spesso sta perdendo
in quanto ottimistico e intimistico), possa
mantenere la possibilità per affermarsi in
un’attualità positiva e valida.70 Che il dogmatismo sia un pericolo, come ad esempio
in Lavelle e Le Senne, è un rischio che Pareyson intravede presto,71 laddove nell’umanismo purificato di Jean-Paul Sartre vede la
pura distruttività: “La concezione sartriana
della libertà è ispirata da un arbitrarismo assoluto”, ma “...quella cinica libertà priva di
leggi e criteri mi sembra che non risponda
per nulla alla reale condizione dell’uomo,
e quell’arbitrarismo assoluto non credo che
riesca ad esprimere adeguatemente la natura
umana”.72 Con questo laconico rifiuto del-
78
Jens Viggo Nielsen
la concezione sartriana della libertà, che si
trova ripetutamente in Pareyson, passiamo,
dunque, alla discussione in cui cercherò prima di analizzare l’autocritica di Pareyson
nella nuova conclusione a Esistenza e persona, aggiunta in seguito (1975), e dove poi
verranno sollevate un paio di domande critiche alla concezione pareysoniana della dialettica e di Kierkegaard, nonché di Sartre.
III. Leggere Pareyson con Pareyson e contro Pareyson: Discussione
Nella conclusione a Esistenza e persona
del 1975, “Rettifiche sull’esistenzialismo”,
ed anche nei commenti a diversi dei testi
del libro, Pareyson solleva una critica alla
propria precedente adesione all’esistenzialismo nella forma qui abbozzata. È più
precisamente a quell’amalgama di esistenzialismo e spiritualismo (o idealismo) che
ora si oppone, ritenendo retrospettivamente
la propria critica dell’esistenzialismo come
almeno parzialmente erronea, e la soluzione
appena presentata come problematica. Invece di vedere la soluzione in un rinnovo dello
spiritualismo, sottolinea ora, avrebbe dovuto vederla in un rafforzamento del vincolo
ontologico: “Eppure il termine c’era, ed era
il più adeguato anche alla mia prospettiva
d’allora, ed era “personalismo ontologico”.73
Rispondendo ad Antonio Santucci che, nella sua importante opera sull’esistenzialismo
e sulla filosofia italiana annovera Pareyson
tra gli spiritualisti veri e propri, nota con ragione, come abbiamo appena visto, che non
ha mai abbracciato lo spiritualismo interamente e senza spirito critico, ma ha soltanto
voluto ridefinirlo in una versione che manteneva la radicale coscienza di crisi appartenente all’esistenzialismo.74 Bisogna però qui
aggiungere che si può comprendere perchè
Santucci ed altri abbiano frainteso il rapporto di Pareyson con lo spiritualismo nelle sue
prime opere, visto che Pareyson sia nella
dissertazione su Jaspers sia in Studi sull’esistenzialismo, ed anche in Esistenza e persona, ripetutamente sottolinea che la soluzione
della problematica dell’esistenzialismo vada
ricercata al di fuori di esso, nell’abbastanza vago concetto di un “rinnovo dello spiritualismo”; concetto che forse promette di
più, in quanto “terra promessa” o in quanto diretto verso un futuro ignoto, di quanto
nei fatti riesca a mantenere. In altre parole è
solo durante una fase posteriore a quella puramente esistenzialista, in cui entra a cavallo degli anni cinquanta, che Pareyson adotta
il concetto di un “personalismo ontologico”, rappresentando ciò che egli stesso per
il resto della sua carriera considererà come
l’essenza del proprio “esistenzialismo”.75
Ma ciò non significa comunque, come già
dimostrato, che la dimensione ontologica
sia assente nè nel primo Pareyson nè in quel
Marcel, da cui in questa fase è più ispirato.
Intanto è degno di nota il fatto che Pareyson, in occasione della ripubblicazione
della terza edizione di Esistenza e persona
del 1966, non soltanto toglie dall’opera gli
articoli che presumibilmente non interessano più se non da un punto di vista storico,
ma anche quel testo che tratta specifica-
”L’Esistenzialismo non è un umanesimo”
mente l’ultimo sviluppo della filosofia marcelliana fino al tempo della sua stesura nel
1948. Il che indicherebbe, almeno in maniera indiretta, una rivalutazione dell’opinione
secondo cui soltanto in Marcel si trova la soluzione della “miseria” esistenzialista. È qui
subito importante ammettere, però, che non
si trova nessun rifiuto o riserva esplicita da
parte di Pareyson nei confronti di Marcel, e
per questo motivo costruisco la mia ipotesi
più su quello che non dice (più) che non su
quello che in effetti dice del filosofo francese, nonché su quello che dice retrospettivamente dello spiritualismo. In ogni caso è un
fatto che la sua valutazione sia di Heidegger
che di Jaspers diventa sempre più positiva
durante gli anni Cinquanta e Sessanta, e in
un articolo del 1969, dal titolo appunto di
“Ultimi sviluppi dell’esistenzialismo”, Pareyson nomina Jaspers e Heidegger come gli
unici veri filosofi assieme a Marcel (pur non
dicendo nulla di più su quest’ultimo).76 E lo
ripete nella nuova conclusione di Esistenza
e persona sei anni dopo, in un passaggio
molto significativo per questo articolo, dove
contemporaneamente include anche il russo
Berdjaev:
Il fatto è che l’esistenzialismo non è un umanismo, perché si impernia sul concetto centrale,
sul quale si trovano tutti d’accordo, tanto Heidegger quanto Jaspers, sia Marcel che Berdjaev,
79
rivalutazione dell’esistenzialismo all’interno della filosofia pareysoniana, in una forma
che equivale alla sua svolta verso l’ermeneutica e l’ontologia; conferma di ciò sarà
anche il fatto che l’ultima analisi positiva e
indipendente della filosofia marcelliana, vista come (indicativa della) “soluzione” per
un verso, e la corrispondente analisi riduttiva di Jaspers e Heidegger visti come “il problema” per l’altro verso , si data al 1952.78
Quello che gradualmente svanisce in Pareyson, è esattamente l’opposizione assoluta tra
la dialettica dell’implicanza (Jaspers, Heidegger) per un verso, e la dialettica dell’incommensurabilità (Marcel) per l’altro verso,
poiché i tre filosofi vengono messi sullo stesso piano. Anche l’alternativa cambia: non si
tratta più di una scelta tra esistenzialismo e
spiritualismo (o idealismo), ma di una scelta
tra umanismo e personalismo ontologico, e
ciò provoca contemporaneamente uno spostamento dell’alternativa e una rivalutazione
della presunta insufficenza dell’esistenzialismo: mentre prima l’opposizione originaria
era fondata sull’instabilità e ambiguità di
un esistenzialismo incapace di fornire una
soluzione valida ai problemi da esso stesso
posti, ora va considerato come l’unica soluzione genuina allo stesso problema, che invece prima di tutto consiste nel confrontarsi
con la possibilità di un umanismo purificato
(Sartre e il marxismo):
d’un rapporto problematico fra uomo ed essere,
fra esistenza singola e verità.77
In ogni modo dal punto di vista delle Rettifiche la questione è superata, perché vi si rivendi-
Molto indica quindi che, durante gli anni
Cinquanta e Sessante, avviene una graduale
ca la sostenibilità dell’esistenzialismo come posizione autonoma e precisa, non così instabile da
80
Jens Viggo Nielsen
doversi necessariamente risolvere in altre posizioni, e in esso si ravvisa lo stesso personalismo
esistenziale o ontologico, com’è ribadito ora
nell’ ”Introduzione” alla presente edizione.79
Corrispondentemente anche l’interpretazione di Kierkegaard subisce certi cambiamenti
dopo la pubblicazione della prima edizione
di Esistenza e persona, visto che la filosofia kierkegaardiana (e la cristianità) passa in
secondo piano in Pareyson durante gli anni
Cinquanta e Sessanta: in ogni caso fino al
1975 quando, nella già menzionata conclusione a Esistenza e persona, viene di nuovo
nominato, e con enfasi, come uno dei grandi “moderni” pensatori cristiani che hanno
posto la domanda decisiva a ognuno: per o
contro il cristianesimo?80 Comunque questa è senza dubbio una verità contestabile,
in quanto Pareyson più di una volta attorno
alla metà degli anni Sessanta e a cavallo degli anni Settanta svolge una serie di lezioni
su Kierkegaard che saranno pubblicate in
seguito, e nelle quali cerca di approfondire
la sua lettura del filosofo danese per quanto concerne la fedeltà al testo e la richezza
dei dettagli: è qui significativo il fatto che la
prospettiva cambi e allo stesso tempo rimanga identica a se stessa, nel senso di rimanere
tutto sommato una lettura implicativa che
rappresenta una teoria “classica” dei presunti stadi in Kierkegaard, mentre la critica o il
rifiuto precedente della dialettica kierkegaardiana come una dialettica dell’implicanza
svanisce. Per farne una descrizione sommaria si può dire che Pareyson in queste lezioni
sottolinea la filosofia kierkegaardiana come
un’indiretta filosofia etica e comunicativa
dell’essere trascurando però le intricate e
forse perfino irrisolvibili questioni che riguardano la controversia kierkegaardiana
con l’ironia per un verso, e l’incommensurabilità della cristianità con la filosofia per
l’altro verso, a causa del peccato che, secondo Kierkegaard e la teologia cristiana,
va oscurando la conoscenza umana etc.81
Ma andiamo avanti. Alla luce di quanto fin
qui detto, ed anche in seguito all’investigazione fatta della dialettica in Pareyson, ora
si fanno urgenti almeno tre domande che si
possono ragionevolmente porre a Pareyson,
e cioè in merito al rapporto tra dialettica di
incommensurabilità da un lato e dialettica di
implicanza dall’altro lato. Purtroppo lo spazio non ci concede se non di porre le domande e poi abbozzare delle risposte plausibili:
1) Prima occorre chiedersi, se è l’incommensurabilità o l’implicanza che, per così
dire, prende il sopravvento in Pareyson,
quando, lasciando dietro a sé questa opposizione e allontanandosi contemporaneamente dalla dicotomia spiritualismo/
esistenzialismo, si avvicina al personalismo ontologico: l’incommensurabilità che
vince mettendo in disparte l’implicanza,
o è invece l’incommensurabilità che viene assimilata alla dialettica di implicanza?
2) In secondo luogo si presenta anche la
domanda, se quella che il primo Pareyson
aveva diagnosticato come una dialettica di
incommensurabilità, non era in effetti e fin
dall’inizio una dialettica dell’implicanza?
3) Infine, e per converso, bisogna anche
chiedersi, se quella dialettica di Kierkega-
”L’Esistenzialismo non è un umanesimo”
ard che il giovane Pareyson aveva identificato come una dialettica dell’implicanza, non la si può in realtà con altrettanta
ragione – usando la terminologia di Pareyson – intendere come una vera e propria “dialettica di incommensurabilità”?
Ad 1) La risposta alla prima domanda mi
sembra la più facile: è la dialettica di implicanza che prende il sopravvento dominando
o assimilando tendenzialmente l’incommensurabilità, e la prova di questo è il semplice
fatto che Pareyson non mantiene più l’opposizione (!). Tant’è vero che continua a sottolineare l’incommensurabilità e il rapporto
problematico con l’essere; ma ora lo vede
come Jaspers, come una parte integrale del
processo filosofico nello svolgimento del
personalismo ontologico. A mio parere è qui
“profeticamente” significativo il fatto che
già nel capitolo su Kierkegaard e Feuerbach
in Esistenza e persona, Pareyson conclude
richiedendo “una riaffermazione del valore
speculativo del pensiero e dell’incommensurabilità tra finito e infinito”, e mi chiedo
come sarebbe, semmai, possibile unire l’incommensurabilità con la speculazione.82
Detto in altri termini, ciò avviene in massima parte in rapporto al passato, quando
Pareyson stesso continua a parlare dell’incommensurabilità tra finito e infinito soltanto come “pedina tattica”, e lo stesso sembra
accadere quando dopo, nella sua ermeneutica, parla del rischio, dell’insecuritas e della
tragicità della condizione umana,83 o ancora
quando in seguito dice di incontrare, come
Kierkegaard, la fede sul cammino del dubbio.84 Con ciò non intendo dire che Pareyson
81
nega la libertà in toto, piuttosto che limita o
riduce lo spazio della libertà data. In realtà
non sembra esserci molto spazio per un tale
dubbio o scetticismo radicale che ha come
punto di partenza e riferimento invalicabile il detto kierkegaardiano De Omnibus dubitandum est, e che con Sartre si permette,
anzichè parlare di un essere “autentico”, di
fare l’obiezione banale - ma non per questo
meno rilevante - che forse questo essere non
esiste se non nella testa del filosofo stesso.
Per Pareyson questa obiezione è equiparabile ad una posizione scientistica o immaginaria oggettivante, rispetto a quella decisione
sull’essere entro cui già siamo da sempre, e
che certo si può rifiutare o a cui si può essere infedeli, ma non senza perdersi e con ciò
perdere anche di vista la verità:
Di fronte all’alternativa che emerge da questo
problema non è possibile una posizione agnostica, e chi tenta di porla senza deciderla, proponendosi di rimanere nella più oggetiva e critica
problematicità, non fa se non snaturare i dati del
problema, illudendosi di poter isolare i termini
puri di un’alternativa senza far cenno alla necessità di risolverla, credendo cioè di poter ridurre
un dilemma e un’antinomia e di poter fare di una
opposizione una contraddizione.85
Rispondendo a ciò bisogna dire che il fenomeno del dubitare non è equiparabile ad una
posizione agnostica o oggettiva; piuttosto
implica l’essere in movimento costante, o
Vorden (divenire) come lo chiamava Kierkegaard. Rimanere dentro “l’ambiguità incerta” (l‘espressione kierkegaardiana famosa
82
Jens Viggo Nielsen
dal Poscritto) non significa non arrivare mai
ad una decisione; significa piuttosto che ogni
decisione in quanto temporale rimarrà provvisoria. E già per questo la critica pareysoniana menzionata in precedenza sembra non
valida: egli stesso sottolinea, in effetti, che
l’autocoscienza mi rende incapace di essere
semplicemente quello che sono...
Perché la mia vita spirituale porti a una con-
si voglia, che veramente escluda l’ateismo
(finora) ”preliminare”, e anche la possibilità di dubitare dell’esistenza di un essere
di seconda potenza, possano porsi come
un’alternativa valida. Non è già data in anticipo la risposta pareysoniana al dilemma
apparentemente irrisolvibile nella scelta tra
il cristianesimo e l’umanesimo o “l’anticristianesimo”, così come la prossima citazione, secondo me, chiaramente dimostra?:
crezione giudicabile per una sua validità, perché
io possa sfidare l’evanescente labilità del tempo
Di qui l’importanza dell’ateismo (esempio
per emergerne e assurgere a un’eterna assolutez-
Feuerbach) e del nichilismo (esempio Nietzsche)
za che è il marchio e il sigillo di una vita libera
per un’affermazione attuale di cristianesimo.
e assetata di libertà, è necessario che io sappia
L’estrema negazione è il ”penultimo gradino”,
distinto dalla mia situazione.86
senza il quale non si può accedere all’ultimo:
sino alla fine esso può compromettere la salita e
Nello stesso contesto aggiungo che manca
ancora in Pareyson una chiara spiegazione
della differenziazione del concetto di essere, poiché distingue ovviamente tra l’essere
degli enti e il vero essere, non essendo l’ultima determinazione riducibile alla prima.
Ma qual è più precisamente la differenza
tra l’essere già dato, l’essere indifferente e
incontestabile, la cui esistenza bisogna presupporre, e a cui Sartre e Jean Wahl cercano
entrambi di avvicinarsi in Vers le concret e
in L’Être et le néant (anche se in modo diverso), e l’essere vero o autentico che è per
così dire trascendente in seconda potenza?87
È veramente sufficiente constatare, da un
punto di vista difensivo, che non si può ridurre la questione sull’essere all’essere dato,
perché sempre elude (qualsiasi definizione)?
E infine si deve chiedere a Pareyson se
un’alternativa, ineludibile e forzata quanto
bloccare il passaggio; ma, saputo superare, cede
il posto all’affermazione finale.88
Ad 2) Alla seconda domanda darei in breve
una risposta affermativa: perché, se Marcel
dall’inizio determina l’incarnazione come
partecipazione, che cos’è questo se non
un’implicazione (nascosta) malgrado tutte
le rassicurazioni del contrario? Tutto sommato Pareyson eredita questa dicotomia da
Marcel, anche se bisogna subito ammettere
che le letture di Marcel nella dissertazione
su Jaspers e negli studi sull’esistenzialismo,
la sua interpretazione di Positions et approches concrètes du mystère ontologique
(1949) e di Avoir et Être (opere di Marcel),
sembrano più interessanti e consapevoli di
tale problematicità che non gli scritti dello
stesso Marcel. 89 In questa luce diventa anche
più comprensibile il motivo per cui Pareyson
”L’Esistenzialismo non è un umanesimo”
in seguito svaluterà sia il proprio precedente
sostegno alla filosofia di Marcel sia la corrispondente critica di Jaspers e Heidegger,
perchè capisce probabilmente ora che non
c’è altra via per la filosofia se non quella che
porterà verso un rafforzamento della dimensione ontologica e verso un corrispondente
indebolimento filosofico della soggettività
(da lui definito anche “l’intimismo”). Senza
però mai cadere nell’eliminazione del concetto di soggettività. Nonostante ciò sembra
naturale volgere la domanda posta da Pareyson nella dissertazione su Jaspers allo stesso
Pareyson, rendendola valida per la sua adozione del concetto di incarnazione intesa in
Marcel come partecipazione (e sostituendo
adeguatamente il termine “necessità” con
il termine “personalismo ontologico”): “Ci
chiediamo se, per evitare la concezione della
libertà come capriccio, lo Jaspers non cada
nella teoria della libertà come necessità.”90
Ad 3) Anche sulla terza e ultima domanda
darei una risposta affermativa: L’interpretazione pareysoniana della dialettica di Kierkegaard come una dialettica dell’implicanza
è, com’è già stato accennato, se non identica almeno vicinissima alla teoria classica
sugli stadi in Kierkegaard, dove l’apparente alternativa tra i diversi stadi equivalenti
(estetico, etico, religioso) in realtà è sospesa
in virtù della logica ascendente tra di loro o,
per fare riferimento alla citazione di prima,
essi vengono appunto superati nel passaggio all’affermazione (preliminare o finale).
Esempi classici di questo tipo di speculazione schematica sono Gregor Malantschuk
o, in una versione più solida e sottile, Jo-
83
hannes Sløk. Fuori dei paesi nordici si può
menzionare Marc C. Taylor, ma in realtà
gli esempi possono essere quasi infiniti.91
L’unilaterale enfatizzazione di Pareyson delle prime pagine di La malattia per la morte,
usate come una chiave di lettura per l’intera opera, è, quindi, nei migliore dei casi un
problema, e nel peggiore dei casi un errore
vero e proprio. Dubbia è qui prima di tutto
la sua interpretazione del paradosso kierkegaardiano visto come una categoria dove il
finito implica l’infinito, anziché essere una
categoria che mantiene l’incommensurabilità delle due istanze:
L’aporia in cui si involge la teoria della sintesi di eternità e tempo come paradosso, dimostra
appunto come non si possa stabilire tra i detti
termini rapporto di opposizione. L’eternità non è
opposta al tempo, è al di là di esso, o, meglio, è
di là da ogni possibile opposizione di temporale
e atemporale.92
A mio avviso Pareyson, in questa citazione, confonde il livello ontologico con
quello esistenziale-logico: una cosa è che
il tempo e l’eternità non possono costituire una opposizione ontologica (se si presuppone l’esistenza dell’eternità), il che
è vero; altra cosa è che difficilmente li si
possono capire diversamente da un punto di vista esistentiale e anche logico, nè
in Kierkegaard nè in linea di principio.
Il fatto che la lettura pareysoniana di
Kierkegaard non sia del tutto naturale è dimostrato dagli ultimi vent’anni di ricerca
sull’opera kierkegaardiana, sopratutto in
84
Jens Viggo Nielsen
ambito danese: ricercatori come Isak Winkel Holm, Povl Erik Tøjner e di recente
Jacob Bøggild, hanno, in maniera diversa,
indicato che la classica teoria sugli stadi è,
se non morta, almeno deligittimata come
approccio naturale all’opera kierkegaardiana; infatti Kierkegaard si trovava in una autentica lotta con l’ironia che durò per tutta
la sua vita, e di cui si perde traccia in una
lettura puramente filosofico-concettuale,
laddove nei suoi scritti si ignora il complemento letterario del filosofico o “Il come
della comunicazione” (”Meddelelsens hvorledes”). Detto con il vocabolario di questo
articolo, si può sostenere, che quello che
questi ricercatori hanno accentuato, ciascuno a modo proprio, è l’incommensurabilità
in Kierkegaard, per via del rapporto precario
nelle sue opere tra forma e contenuto o tra
l’estetica e il religioso, e allo stesso tempo si
può appropriatamente annoverare l’interpretazione di Pareyson tra quelle “riduttive”.93
Pareyson dice di essere arrivato a Kierkegaard attraverso Jaspers,94 e questo appare
chiaramente da quella doppiezza e da quella
doppia prospettiva che applica nei confronti di Kierkegaard, e che probabilmente non
avrebbe potuto non applicare: per un verso
entrambi lo vedono come il grande precursore cristiano dell’esistenzialismo, come il
filosofo dell’implicanza che arriva alla fede
attraverso il cammino del dubbio e alla grazia attraverso la disperazione. E per l’altro
verso c’è in entrambi una coscienza “cattiva” di tutto ciò che in Kierkegaard non si
lascia sisyemare in questo schema, poiché il
discorso “particolare” (“Sonderdiskurs”) di
Kierkegaard elude una qualsiasi categorizzazione severa. Detto con Pareyson:
…forse ciascuno, fuori dall’esistenzialismo
tedesco, ritrova in Kierkegaard, così poliedrico
come sfingetico, altrettanto polisenso quanto
ambiguo, ciò che gli proviene da una tradizione, perenne e sempre rinascente, che immerge
le sue radici nelle esigenze della natura stessa
dell’uomo.95
In qualche misura Pareyson è quindi attento
alla stessa ”pericolosità” filosofica di Kierkegaard come lo era Jaspers, e cioè al fatto che
il pensatore danese prima di tutto è e rimane
un filosofo anti-filosofico e un dialettico antidialettico: ad esempio Pareyson, e a mio avviso in congruenza con questo, disapprova la
concezione kierkegaardiana dell’eccezione
isolata (“Undtagelsen”) in Timore e tremore
che per via del silenzio elude le dimensioni
dell’etica e dell’universale (il linguaggio).96
Ma di nuovo: forse quello che Pareyson (e
Jaspers) vede come il problema di Kierkegaard, è esattamente e in ultima analisi il
punto, poiché si può argomentare che Kierkegaard con tutte le sua acrobazie testuali
rinvia ogni possibile decisione esistenziale
o ”conversione” alla vita fuori del testo.97 E
qui “l’infedeltà” (o, con Kierkegaard: “Forargelsen”) è sempre una possibilità ovvia,
se non addiritura una condizione inevitabile, al punto che è problematico dire se veramente si può parlare del rifiuto dell’assoluto come di una forma di infedeltà.
Ci porterebbe troppo lontano approfondire tutti gli aspetti dell’interpretazio-
”L’Esistenzialismo non è un umanesimo”
85
ne pareysoniana di Kierkegaard, per cui
mi debbo accontentare della discussione e
dell’analisi precedente, indicando allo stesso tempo il compito per la ricerca di fornire
un più dettagliato svolgimento dell’argomento. Concludo invece con una citazione
dello scomparso filosofo danese, Hans Jørgen Thomsen, tratta da un articolo che porta
il titolo “Lo scontro di Sartre con Heidegger”, e che metterei come un correttivo al
probabilmente troppo facile rifiuto di Sartre
da parte di Pareyson, ed anche alla sua interpretazione della dialettica, inclusa quella
kiergaardiana:
senso l’accettazione della modernità realizzata
Sartre e Kierkegaard sono entrambi scrit-
Jens Viggo Nielsen,
Højmarken 28, 1.
8600 Silkeborg
Danmark
[email protected]
tori di romanzi con una coscienza acuta della
tematica epocale che caratterizza la forma del
romanzo a partire dal romanticismo della disillusione e dal dopo-romanticismo. In questo
fa parte dell’ordine del giorno, anche nel senso
filosofico, così come l’accettazione in entrambi
è basato sul rinuncio alle utopie del mondo romantico: queste non sono semplicemente compatibili con la struttura di una vita finitizzata.
Per cui, se il regno di Dio esiste, deve essere nel
e non al di fuori del tempo. E nel tempo diventa
subito un paradosso: dialettica temporale diventa, momentaneamente, dualità coagulata.98
- Rimane de facto una questione aperta, se
l’esistenzialismo sia un umanesimo o meno.
86
Jens Viggo Nielsen
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”L’Esistenzialismo non è un umanesimo”
87
NOTE
L’articolo è stato tradotto dall’autore con l’assistenza linguistica della dott.ssa Adelaide Zocchi.
1
2
Si veda Gadamer 1960, 66 e 124.
Pareyson, parlando senza difficoltà dell’esistenzialismo, nella sua dissertazione su Jaspers condidera, per
esempio, la “filosofia dell’esistenza” preferita da quest’ultimo come parte di un movimento più ampio
dell’epoca, che secondo Pareyson sarebbe lo stesso esistenzialismo. Com’è noto Jaspers rifiuta l’ultimo
concetto preferendo invece – ma sempre con qualche riserva – di aderire al primo (”Existenzphilosphie”; si
veda K. Jaspers 1938, 1). Come Marcel Pareyson, non trova difficoltà nell’usare il concetto di esistenzialismo,
ma entrambi definendolo ciascuno a modo proprio, e, come si vedrà, diversamente da Sartre e in polemica
con la proposta che quest’ultimo ne fa in L’Esistenzialismo è un umanesimo (cfr. Marcel 1987, 74-90).
3
Le diverse opere e saggi di N. Abbagnano sull’esistenzialismo sono stati uniti in un unico volume; la migliore
opera sull’introduzione e sulla diffusione dell’esistenzialismo in Italia è il libro di A. Santucci di 1967 (si
veda la bibliografia).
4
5
6
7
8
Più precisamente si parla degli anni 1936-37. Cfr. Pareyson 1995, 439-441.
Pareyson 1995, 439
Si veda il saggio ”Esistenzialismo 1941”, 21-34.
Pareyson 2002, 78.
Su questo argomento si veda Tomatis 2003, 13, nonché gli scritti illegali antifascistici in Pareyson 2005,
17-30.
9
Bobbio 1948, 42.
10
Per la critica di Pareyson su Abbagnano e Sartre, si veda Pareyson 1993, 66-68.
11
Pareyson 2002, 78.
12
Husserl 1996, 1-5.
13
Jaspers 1999, 76
14
Pareyson 2001, n.52 , 216.
15
Pareyson 2002, 75.
16
Ibid., 76.
17
Jaspers 1999, 5.
18
Pareyson 2002, 87.
19
Pareyson 1997, 170.
20
Pareyson 2002, 88.
21
Ibid., 70. Tralascio qui il fatto che Pareyson più tardi, nella nuova prefazione a Esistenza e persona del 1975,
”Rettifiche all’esistenzialismo”, enfatizza la critica schellingiana di Hegel e la sua presupposta importanza
per Kierkegaard e Feuerbach , 243-46.
22
Ibid., 67.
23
Ibid., 52-57.
24
Ibid., 54.
25
Ibid., 55.
26
Ibid., 57.
27
Ibid., 72.
28
Ibid., 35.
29
Ibid., 56.
30
Kierkegaard 1963, 73.
31
Pareyson 1997, 46, ma si veda anche Pareyson 2002, 57.
88
Jens Viggo Nielsen
32
Pareyson 2001, 66.
33
Pareyson 2002, 71.
34
Pareyson, 2001, 69. Su questo punto si veda anche Wahl 1969, 93, 108. Wahl e Jaspers hanno qui lo stesso
punto di vista su Kierkegaard.
35
Pareyson 1997, 94.
36
Ibid., 167.
37
Ibid., 138.
38
Ibid., 121.
39
Pareyson 2001, 26, 115-117.
40
Ibid., 55
41
Pareyson 1997, 137, 148. Certamente l’espressione ”incarnazione e partecipazione” non è di Jaspers, ma di
Marcel (argomento trattato nel prossimo paragrafo).
42
Ibid., 4.
43
Pareyson 1997, 153.
44
Ibid., 14.
45
Ibid., 66.
46
Pareyson 2001,75
47
Pareyson 1997, 72, 84.
48
Ibid., XXXI.
49
Ibid., 160.
50
Ibid., 168.
51
Pareyson 2002, 78.
52
Ibid., 80.
53
Ibid., 82.
54
Ibid., 78.
55
Pareyson 2001, 115-40.
56
Pareyson 2002, 104.
57
Pareyson 1997, XXXIII
58
Ibid., 168.
59
Pareyson 2001, 20.
60
Ibid.. Si veda per esempio il saggio “Idealismo ed esistenzialismo”, 177-94.
61
Pareyson 1997, 168.
62
Ibid., 98.
63
Ibid., 48, 78, 87. Ma Pareyson nota anche dall’inizio che Marcel è disposto a negare quella valutazione
normativa che da un significato concreto alla persona, a favore invece della dimensione ontologica (169). Per
un’affermazione o smentita di ciò si veda Marcel 1958 (cfr. la bibliografia; traduzione norvegese del testo
famosi sul mistero ontologico). Come andremo a vedere Pareyson aderisce dopo al punto di vista contrario
nel vagliare il pro e il contro tra assiologia e ontologia.
64
Pareyson 1997, 131.
65
Ibid., 124.
66
Ibid., 169.
67
Ibid., 165.
68
Ibid., 59.
69
Pareyson 2002, 89.
70
Pareyson 2001, 46-47 e Pareyson 2002, 131-132.
”L’Esistenzialismo non è un umanesimo”
89
71
Pareyson 2001, 29, 184-187.
72
Pareyson 1993, 66, 68
73
Pareyson 2002, 91.
74
Ibid., 236. Cfr. l’interpretazione di Santucci dello spiritualismo pareysoniano, 3-14.
75
In Esistenza e persona si può seguire la graduale accentuazione della dimensione ontologica a scapito di
quella normativa, ad esempio negli spostamenti tra le prime due parti del libro e i testi della terza parte
aggiunti di seguito, che sono rispettivemente da 1953, 1958 e 1963-65.
76
Pareyson 1993, 27.
77
Pareyson 2002, 248 (il corsivo è mio).
78
Si parla del manoscritto ”Libertà e peccato nell’esistenzialismo”, dove Pareyson ancora mantiene la
schematica differenza tra implicazione e incommensurabilità (si veda Pareyson 1993, 58-70). Ma anche il
contributo originario su Marcel in Esistenza e persona, “Il pensiero più recente di Gabriel Marcel” (1948), si
trova oggi in Pareyson 1993, 36-57.
79
Pareyson 2002, 91.
80
Ibid., 241.
81
Si veda ad esempio Pareyson 1998, 91 og 142.
82
Pareyson 2002, 73 (il corsivo è mio).
83
Pareyson 1971,141.
84
Pareyson 2002, 241. Ma questo vale certo soprattutto per Pareyson nella seconda fase del suo pensiero;
quella estetica e ermeneutica degli anni Cinquanta e Sessanta, almeno fino a Verità e interpretazione (1971),
e di meno per l’ontologia della libertà nell’ultimo Pareyson.
85
Ibid., 108.
86
Pareyson 1997, 121
87
Su questo argomento, si veda Wahl 1932, 29-46, e Sartre 2007, di specifico la sua discussione della “prova
ontologica”, 416.
88
Pareyson 2002, 10 (il corsivo è mio).
89
Si veda Pareyson 1993, 36-57, e Marcel 1940 (cfr. la bibliografia).
90
Pareyson 1997, 118.
91
Si veda Sløk 1992, Malantschuk 1978 e Taylor 1980 (cfr. la bibliografia).
92
Pareyson 1997, 7.
93
Su quest’ultimo punto si veda Isak Winkel Holm 1998, 42-46. Holm fa invece riferimento a Villy Sørensen
come appartente a questo gruppo.
94
Pareyson 2002, 232
95
Si veda anche Jaspers 1960, 32.
96
Pareyson 1998, 142.
97
Rimando al mio articolo su quest’argomento, Nielsen 2001. Ma si veda anche Tøjner 1987 e l’eccelente opera
di Jacob Bøggild sull’ironia del pensiero e su Kierkegaard come pensatore dell’ironia (Bøggild 2002).
98
Thomsen 1994, 59.
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