ASSOCIAZIONE ITALIANA DI SCIENZE REGIONALI (AISRe)
XXX Conferenza scientifica annuale AISRe
Firenze, 09-11 settembre 2009
Il concetto di capitale sociale: uno, nessuno, centomila ?
Chiara Sumiraschi1
«Da qualche tempo, il termine capitale sociale è entrato nel lessico di
sociologi e politologi a prima vista come sostituto di altre parole prima
usate con frequenza: reciprocità, per esempio, oppure fiducia o anche
network di relazioni. (…) I cambiamenti di vocabolario non sono mai
soltanto una questione di stile o di abitudine: annunciano cambiamenti
più profondi nel modo di definire e affrontare problemi analitici», Arnaldo
Bagnasco, 1999.
1. Introduzione
Il successo del sintagma capitale sociale nelle riflessioni e negli studi sul capitale sociale negli
ultimi anni giustifica la scelta di interrogarsi sul senso che ha assunto il capitale sociale nei
processi di sviluppo, nonostante il “capitale sociale” rappresenti un tema ampiamente dibattuto,
discusso e approfondito nella letteratura sociologica ed economica.
Nello specifico, il paper si prefigge di analizzare il senso che ha assunto il capitale sociale nelle
politiche di sviluppo per comprendere, per quanto possibile, se l’utilizzo di tale sintagma abbia
determinato effettivamente un valore aggiunto rispetto alle altre parole impiegate in precedenza.
In considerazione di ciò, sembra legittimo e opportuno chiedersi se esista un’unica definizione di
“capitale sociale” buona per tutti. Ovviamente, non si tratta di una questione meramente
linguistica, ma di una domanda finalizzata a capire se, utilizzando il concetto di “capitale sociale”,
gli studiosi si rifacciano ad un’idea condivisa o, viceversa, richiamino significati differenti. A tal
fine, il paper propone un percorso di lettura dei “classici della letteratura del capitale sociale” che
esplora il significato di “capitale sociale” a partire dalla riflessione sulle differenti definizioni di
capitale sociale per concludere, successivamente, con alcune considerazioni su alcuni capisaldi
del concetto di capitale sociale.
Per perseguire l’obiettivo conoscitivo prefissato, il lavoro è organizzato nel seguente modo:
•
il primo paragrafo – Origini del concetto di capitale sociale – risale alla genesi del concetto di
capitale sociale presentando, innanzitutto, la visione proposta da Coleman e, nel contempo,
affiancandole definizioni preesistenti ad opera di autori unanimemente citati come ideatori del
concetto di capitale sociale, con particolare attenzione per Loury (1977) e Bourdieu (1980);
•
il secondo paragrafo – Una (breve) rassegna alla ricerca di una definizione condivisa di
capitale sociale – si prefigge di analizzare i primi sviluppi del concetto di capitale sociale:
Putnam e Fukuyama nel panorama globale, Mutti, Bagnasco, Piselli, Pizzorno, Trigilia (e altri)
CERTeT (Centro di Economia Regionale, Trasporti e Turismo), Università Bocconi, via Roetgen 1, 20136, Milano.
+39.02.5836.5647 [email protected] www.certet.unibocconi.it.
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nel panorama italiano. L’obiettivo di tale riflessione è individuare una definizione convincente
e condivisa di quello che si intende per capitale sociale. Come si avrà modo di verificare
durante la lettura dell’articolo, la riflessione sulla letteratura sul capitale sociale evidenzia
come manchi una definizione unanimemente condivisa del concetto di capitale sociale:
Coleman si concentra sulla visione di capitale sociale come risorsa individuale per l’azione;
Putnam e Fukuyama focalizzano l’interesse sulla caratteristica del capitale sociale di
accrescere l’attitudine a cooperare che deriva da una cultura cooperativa condivisa; Mutti
fissa l'attenzione sulla rilevanza della fiducia nel generare capitale sociale e, così, ogni
studioso si dedica principalmente all’analisi di uno specifico aspetto del capitale sociale;
•
il terzo paragrafo – Alcuni elementi di particolare interesse del concetto di capitale sociale –
concentra infine l’attenzione su tre aspetti del capitale sociale – relazioni, fiducia,
organizzazioni – che emergono con particolare evidenza dalle definizioni del concetto
analizzate.
Prima di indagare il significato assunto dal capitale sociale per coloro che si occupano di
politiche, programmi e progetti di sviluppo, sembra opportuna una breve digressione finalizzata a
spiegare quali siano le ragioni per cui negli ultimi anni sia cresciuto l’interesse per il capitale
sociale o, in altre parole, perché il capitale sociale sia diventato importante.
Sebbene su tale questione si siano interrogati (e si interroghino) sociologi, economisti e politologi,
sembra opportuno richiamare la risposta fornita da due tra gli studiosi che per primi si sono
occupati di capitale sociale: Antonio Mutti e Carlo Trigilia.
Entrambi gli autori sottolineano come, negli ultimi decenni, gli studi sulla globalizzazione abbiano
mostrato come tale fenomeno, invece di omogeneizzare i percorsi di modernizzazione, abbia
determinato delle differenze significative nei processi di sviluppo1: alcuni territori riescono ad
avviare e sviluppare percorsi di sviluppo, mentre in altri contesti si assiste ad un progressivo
sradicamento territoriale delle attività economiche (Trigilia, 2005). Pertanto, sembra plausibile
chiedersi per quali ragioni alcuni paesi sembrino maggiormente dinamici di altri e, di
conseguenza, interrogarsi sul modo in cui le dimensioni economica, culturale, istituzionale e
politica influiscano sui percorsi di sviluppo. Esiste una teoria capace di spiegare da cosa
dipendano le differenze e le somiglianze nei vari percorsi di sviluppo? Mutti (1998, pp. 7,8)
evidenzia una difficoltà diffusa di elaborare teorie integrate e multidimensionali in grado di
spiegare in che modo le differenti dimensioni influenzino i diversi percorsi di sviluppo. A suo
parere, tale problematicità ha indotto la maggior parte degli studiosi a utilizzare punti di vista
“parsimoniosi” sulla modernizzazione, che privilegiano poche variabili esplicative e, nello
specifico, focalizzano sempre più l’attenzione sul ruolo fondamentale del capitale sociale,
presente in una data società, nel definire le linee di sviluppo politico ed economico.
Senza entrare nel merito della valutazione di Mutti sulle motivazioni che hanno indotto gli studiosi
ad utilizzare il capitale sociale quale variabile esplicativa dei differenti percorsi di
modernizzazione, si ritiene interessante sottolineare come il concetto di capitale sociale abbia
indiscutibilmente assunto un ruolo fondamentale nelle teorie dello sviluppo, sostituendo, in molti
casi, concetti utilizzati in passato come, ad esempio, fiducia o reti di relazioni.
2. Le origini del concetto di capitale sociale
L’introduzione ha focalizzato l’attenzione sul ruolo che il capitale sociale ha ricoperto come
variabile significativa nelle politiche di sviluppo. Tuttavia, per comprendere quale sia il significato
2
assunto in tale contesto dal sintagma “capitale sociale”, sembra opportuno compiere un passo
indietro per capire quale sia il contesto in cui nasce il concetto di capitale sociale e,
successivamente, come si sviluppa tale nozione.
La riflessione sulla genesi del concetto di capitale sociale assume i Fondamenti di Teoria Sociale
di Coleman come caposaldo della letteratura di riferimento; nel presente paragrafo, si cercherà
inizialmente di esplicitare le ragioni alla base della scelta di assumere i Fondamenti come punto
fermo e, in seguito, di chiarire quali siano le teorie e gli autori che hanno maggiormente
influenzato Coleman nell’elaborazione della sua teoria sociale. Per concludere questa sezione si
cercherà di illustrare le motivazioni che hanno indotto Coleman a introdurre il concetto di capitale
sociale nella teoria sociale, con particolare attenzione agli antesignani studiosi di capitale sociale
che Coleman stesso indica come suoi riferimenti.
Gli studiosi che si occupano di capitale sociale sembrano divertirsi a ripercorrere a ritroso la
letteratura sul capitale sociale per identificare chi abbia utilizzato per la prima volta tale concetto.
Trigilia ritiene che Bourdieu abbia introdotto la nozione di capitale sociale in una breve nota del
1980 «Le capital social: notes provisoires», presentando il capitale sociale come la chiave
esplicativa in grado di spiegare le differenze di rendimento tra individui dotati dello stesso capitale
culturale ed economico2. Pizzorno, invece, attribuisce l’utilizzo del termine “capitale sociale” a
Loury, che, a suo parere, ha cercato di spiegare come il “capitale umano” fosse parzialmente
determinato dall’apporto delle relazioni sociali nelle quali l’individuo era inserito durante il
processo di socializzazione. Bagnasco ricorda che probabilmente è stata Jane Jacobs (1961), nei
suoi studi sulla crisi delle grandi città americane, a «porre l’attenzione sugli aspetti informali delle
strutture di relazione in società altamente organizzate, riportati (Bagnasco, 1999, p. 352).
Sabatini, per contro, afferma che la prima apparizione del concetto di capitale sociale risale al
1916, quando Lydia Hanifan definì capitale sociale «quegli elementi tangibili che contano più di
ogni altra cosa nella vita quotidiana delle persone: la buona volontà, l’amicizia, la partecipazione
e i rapporti sociali tra coloro che costituiscono un gruppo sociale. Se una persona entra in
contatto con i suoi vicini, e questi a propria volta con altri vicini, si determina un’accumulazione di
capitale sociale» (Sabatini, 2004, p. 5).
Al di là di questa ricerca delle “origini del concetto di capitale sociale”3, è opinione condivisa che
l’idea di capitale sociale ricompaia nel dibattito grazie alla ricerca di James Coleman (1990)4.
Pertanto, nonostante non siano realmente l’antesignano del capitale sociale, i Fondamenti di
Teoria Sociale di Coleman, meritano di essere considerati il punto di partenza dal quale esplorare
la genesi del sintagma “capitale sociale”, non solo per la qualità degli stessi, ma, soprattutto, per
il fatto che la teoria di Coleman è continuamente richiamata nella letteratura successiva5.
Se i Fondamenti sono un caposaldo del concetto di capitale sociale, appare opportuno illustrare
brevemente quali teorie, e quali autori, abbiano maggiormente influenzato Coleman
nell’elaborazione della sua teoria sociale per verificare, in seguito, se tale influsso sia rinvenibile
nel concetto di capitale sociale di Coleman. In particolare, il punto di partenza di tale precisazione
è fornito dalle parole dello stesso Coleman: «All’università ero stato un durkheimiano, ma per un
certo periodo ho sofferto del fatto che molta parte del lavoro sociologico di questa tradizione si
rivolgesse solo ad un aspetto del problema, cioè al modo in cui l’ambiente influenza il soggetto e
il comportamento individuale. (...) Ma c’era poi un altro aspetto che all’inizio della mia carriera non
consideravo molto importante: il modo in cui si combinano le azioni individuali all’interno del
funzionamento del sistema. Questo era un orientamento molto più weberiano; Weber era più
vicino di qualunque altro sociologo alla teoria dell’azione» (Swedberg, 1990, p. 56) 6.
3
Il passo successivo che compie Coleman nel suo programma di ricerca consiste nel prendere
posizione nel dibattito tra individualismo metodologico e strutturalismo. Coleman opta
esplicitamente per quella che lui stesso definisce come una “versione speciale”
dell’individualismo metodologico: egli ritiene che l’analisi delle strutture sociali dal punto di vista
degli interessi dell’individuo richieda necessariamente di analizzare l’individuo in modo separato
dalla società7, in quanto se si considerasse l’individuo come un soggetto inserito in un sistema
sociale, non sarebbe possibile valutare le azioni del sistema o dell’organizzazione sociale8: «Non
si assume che la spiegazione del comportamento sistemico risulti da null’altro che azioni e
orientamenti individuali presi in aggregato. Dall’interazione tra gli individui si vedono derivare
fenomeni emergenti di livello sistemico, cioè fenomeni che non erano né voluti, né previsti dagli
individui» (Coleman, 1990, p. 18).
Coleman, dunque, sceglie l’individualismo metodologico e, a partire da tale prospettiva,
costruisce una complessa teoria sociale di stampo neoclassico, basata sul paradigma dell’azione
razionale. Tuttavia, a partire dal riconoscimento di un bias individualistico nell’economia classica
e neoclassica ne supera l’individualismo estremo focalizzando l’attenzione sull’organizzazione e
sulle istituzioni sociali come contesti che condizionano le scelte e producono effetti sistemici
(Coleman, 1990; Bagnasco, 1999; Piselli, 1999; Trigilia, 20059).
In altre parole, Coleman confuta parzialmente l’approccio individualistico e, nel contempo, adotta
un approccio che valorizza le interconnessioni fra ambito economico e sociale: in tale quadro
concettuale, la nozione di capitale sociale rappresenta l’elemento di connessione fra economia e
società (Barbieri, 1997, p. 345).
Nell’introdurre il concetto di capitale sociale nella sua teoria sociale, Coleman si riferisce
principalmente a quei sociologi che cercano di spiegare le relazioni sociali utilizzando termini
come “risorse” e “possesso” che chiaramente indicano uno sconfinamento nel territorio
dell’economia e, in considerazione di ciò, richiama direttamente Loury, Porath10, Granovetter e
Bourdieu (Pizzorno, 1999, p. 374).
Nello specifico, il concetto di capitale sociale inteso come “risorsa per gli individui” è stato
utilizzato esplicitamente da Loury (1977), che usa il concetto di capitale sociale per indicare quali
siano le risorse utili per lo sviluppo di un bambino11, e da Bourdieu (1980) che adopera il concetto
di capitale sociale per designare «l’insieme delle risorse attuali o potenziali che sono legate al
possesso di una rete durevole di relazioni più o meno istituzionalizzate d’interconoscenza e
d’inter-riconoscimento o, in altri termini, all’appartenenza a un gruppo, inteso come insieme di
agenti che non sono soltanto dotati di proprietà comuni (suscettibili di essere percepite
dall’osservatore, dagli altri o da loro stessi) ma sono anche uniti da legami permanenti e utili. Il
volume di capitale sociale posseduto da un particolare agente dipende dunque dall’ampiezza
della rete di legami che egli può efficacemente mobilitare e dal volume di capitale (economico,
culturale e simbolico) detenuto da ciascuno di coloro cui egli è legato» (Bourdieu, 1980, p. 2)12.
Infine, Coleman si rifà al principale di studioso di quella che talvolta viene definita come “nuova
sociologia economica”, Mark Granovetter13, cui va il merito di aver sviluppato l’idea che «l’azione
economica può essere vista come “radicata” (embedded) in network di relazioni sociali»
(Swedberg, 1990, p. 105), in aperta polemica con la «nuova economia istituzionalista14» che, a
suo parere, si prefigge di spiegare le istituzioni sociali a partire da una posizione neoclassica
come soluzioni efficienti a problemi economici15. L’aspetto che Granovetter più recrimina alla
nuova economia istituzionalista è il fatto che tale filone di studi concepisce come indipendenti i
comportamenti e le istituzioni che, invece, sono vincolati [embeddedness] alle relazioni sociali:
«se nell’economia classica e neoclassica il fatto che gli attori possono avere relazioni sociali è
4
stato trattato al più come un ostacolo frizionale che intralcia i mercati competitivi, (…) la nozione
di embeddedness sottolinea, invece, il ruolo delle relazioni personali concrete e delle strutture (o
network) di tali relazioni nel generare fiducia e nello scoraggiare la prevaricazione16»
(Granovetter, 1990, pp. 52, 59).
Per concludere, si deve rilevare come il concetto di capitale sociale di Coleman, come vedremo
meglio oltre, mutua da Loury e da Bourdieu la caratteristica di essere una risorsa utile per
l’azione e da Granovetter il concetto di embeddedness, in quanto Coleman (1990, p. 387) ritiene
che l’idea di radicamento proposta da Granovetter rappresenti un tentativo di introdurre le
relazioni sociali e organizzative nell’analisi dei sistemi economici e di rappresentare tali strutture
come elementi in grado di produrre effetti sul funzionamento di tali sistemi.
3. Una (breve) rassegna alla ricerca di una definizione condivisa di
capitale sociale
Nel paragrafo precedente si è osservato come, nonostante la genesi del sintagma «capitale
sociale» non possa essere attribuita a Coleman, l’idea di capitale sociale si ripresenti nel dibattito
degli anni Novanta grazie ai Fondamenti.
Tuttavia, dalla ricomparsa negli anni Novanta, il concetto di “capitale sociale” è stato raramente
utilizzato in modo univoco e preciso, mentre sovente se ne è fatto un uso approssimativo17. Con
particolare riferimento all’ambiguità e alla pluralità di forme che ha assunto il capitale sociale18,
Portes (1998, p. 2) avverte il rischio che la rapida diffusione del concetto possa diluirne il
contenuto e in questo modo ridurne l’efficacia analitica: «Ci stiamo avvicinando al punto in cui il
capitale sociale viene ad essere applicato a così tante cose e in così tanti differenti contesti da
perdere ogni distinto significato».
Per chiarire meglio quale sia la distanza che effettivamente intercorre tra i differenti usi del
concetto di capitale sociale, si ritiene di interesse offrire una breve rassegna delle definizioni
utilizzate dagli autori maggiormente riconosciuti nel campo della letteratura economica e
sociologica italiana che trattano di capitale sociale19. Prima di presentare la sequenza di
definizioni di capitale sociale, sembra opportuno chiarire quale sia l’obiettivo conoscitivo e le
principali caratteristiche di questa rassegna.
Innanzitutto la rassegna non ha alcuna pretesa di essere esaustiva: non vuole ricostruire il
quadro delle definizioni di capitale sociale e rinuncia a priori ad essere rappresentativa delle
definizioni di capitale sociale offerte nella letteratura economica, sociologica e politologica di
riferimento; si limita, in altre parole, a offrire qualche elemento di riflessione che faccia pensare a
cosa diciamo quando usiamo il concetto di “capitale sociale”.
In secondo luogo, la rassegna è organizzata secondo un ordine cronologico e copre
esclusivamente il decennio che va dalla pubblicazione dei Fondamenti di Coleman (1990) alla
pubblicazione in Italia del n. 57 della rivista Stato e Mercato (1999). Come ampiamente
evidenziato, il riferimento a Coleman è motivato non solo dalla qualità della teoria dei
Fondamenti, ma, soprattutto, dal fatto che la teoria sottostante i Fondamenti sia costantemente
citata nella letteratura successiva. Analogamente, al numero selezionato della rivista Stato e
Mercato20 si riferiscono la maggior parte dei successivi contributi italiani sul tema “capitale
sociale”.
Infine, la rassegna si prefigge di desumere dalle definizioni presentate alcuni aspetti del capitale
sociale che emergono con particolare evidenza o che sono generalmente condivisi dagli autori
considerati per poter, nel paragrafo successivo, focalizzare l’attenzione sugli aspetti del capitale
5
sociale ritenuti maggiormente interessanti per riflettere sul significato assunto dal concetto di
capitale sociale.
Come anticipato, per realizzare la breve rassegna delle definizioni di capitale sociale, si è scelto
di considerare gli autori maggiormente rappresentativi nel decennio 1990-2000: James Coleman
(1990), autore dei Fondamenti di Teoria Sociale, Robert Putnam (1993) e Francis Fukuyama
(1995) le cui ricerche empiriche hanno favorito la diffusione del concetto di capitale sociale,
Antonio Mutti (1998), che per primo ha pubblicato in Italia un libro dedicato al capitale sociale fin
dal titolo Capitale sociale e sviluppo: la fiducia come risorsa, Arnaldo Bagnasco, Fortunata Piselli,
Alessandro Pizzorno e Carlo Trigilia (1999), i quattro autori che hanno contributo alla costruzione
di un numero monografico sul capitale sociale della rivista Stato e Mercato.
Per Coleman, «Il capitale sociale è definito dalla sua funzione. Non si tratta di una singola entità,
ma di diverse entità che hanno due caratteristiche in comune: consistono tutte di un determinato
aspetto di una struttura sociale e tutte rendono possibili determinate azioni di individui presenti
all’interno di questa struttura. Come le altre forme di capitale, il capitale sociale è produttivo, e
rende quindi possibile il conseguimento di obiettivi che altrimenti non sarebbero raggiungibili.
Come il capitale fisico e il capitale umano, il capitale sociale non è completamente fungibile, ma
lo è rispetto a determinate attività. Una data forma di capitale sociale può essere di valore nel
rendere possibili alcune azioni, ma può anche essere inutile o dannosa per altre. Diversamente
da altre forme di capitale, il capitale sociale è contenuto nella struttura delle relazioni tra le
persone: esso non si trova negli individui, né negli input fisici delle produzioni» (Coleman, 1990,
p. 388).
Per Putnam, «Per capitale sociale intendiamo qui la fiducia, le norme che regolano la convivenza,
le reti di associazionismo civico, elementi che migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale
promuovendo iniziative prese di comune accordo... il capitale sociale facilita la cooperazione
spontanea» e «anche le pratiche di mutua assistenza, come le società cooperative di credito,
sono forme di investimento in un capitale sociale... la maggior parte dei capitali sociali, come la
fiducia, sono, secondo la definizione di Albert Hirschman, “risorse morali”, ovvero risorse la cui
fornitura aumenta invece di diminuire con l’uso e che si esauriscono se non sono usate»
(Putnam, 1993, p. 196, 199)21.
Per Fukuyama, «Il capitale sociale è una risorsa che nasce dal prevalere della fiducia nella
società o in una parte di essa. Si può radicare tanto nella famiglia, il più piccolo e fondamentale
gruppo sociale, quanto nel più grande, l’intera nazione, e in tutti gli altri corpi intermedi. Il capitale
sociale differisce dalle altre forme di capitale umano in quanto di solito si forma e viene
tramandato attraverso meccanismi culturali, come la religione, la tradizione o le abitudini
inveterate. (...) Al contrario [di altre forme di capitale umano] produrre capitale sociale richiede di
fare proprie le norme morali di una comunità e, nel suo ambito, l’acquisizione di valori come la
lealtà, l’onestà e l’affidabilità... il capitale sociale non può essere accumulato semplicemente
mediante l’agire individuale. Si fonda sulla prevalenza delle virtù sociali rispetto a quelle
individuali (Fukuyama, 1996, pp. 40, 41)».
Per Mutti, «Per capitale sociale si intende una struttura di relazioni tra persone, relativamente
durevole nel tempo, atta a favorire la cooperazione e perciò a produrre, come altre forme di
capitale, valori materiali e simbolici. Questa struttura di relazioni consta di reti fiduciarie formali e
informali che stimolano la reciprocità e la cooperazione» (Mutti, 1998, p. 8).
Per Trigilia, «Il capitale sociale si può allora considerare come l’insieme delle relazioni sociali di
cui un soggetto individuale (per esempio un imprenditore o un lavoratore) o un soggetto collettivo
(privato o pubblico) dispone in un determinato momento. Attraverso il capitale di relazioni si
6
rendono disponibili risorse cognitive, come le informazioni, o normative, come la fiducia, che
permettono agli attori di realizzare obiettivi che non sarebbero altrimenti raggiungibili, o lo
sarebbero a costi molto più alti. Spostandosi dal livello individuale a quello aggregato, si potrà poi
dire che un determinato contesto territoriale risulta più o meno ricco di capitale sociale a seconda
che i soggetti individuali o collettivi che vi risiedono siano coinvolti in reti di relazioni più o meno
diffuse» (Trigilia, 1999, p. 423).
A differenza degli studiosi qui citati, gli autori del n. 57 della rivista Stato e Mercato non
propongono una loro definizione del concetto di capitale sociale. In particolare, Bagnasco, in
modo analogo a quanto fatto da Coleman, richiama il concetto economico di capitale, in termini di
capitale finanziario e capitale fisico, e il concetto di capitale umano, affermando che «L’idea di
capitale sociale costituisce una ulteriore estensione del concetto originario di capitale, non
necessariamente applicato all’economia, ma inteso in generale come una risorsa per l’azione».
Poco oltre, cita esplicitamente Coleman affermando che «J. Coleman introduce il concetto
parlando di una specifica risorsa per l’azione «lodged neither in individuals nor in physical
implements of production, (but inherent) in the structure of relations between persons and among
persons» e precisa che per “ragionare in termini di capitale sociale” intende «considerare la
società dal punto di vista del potenziale di azione degli individui che deriva dalle strutture di
relazione. In questi termini, il capitale sociale più che un oggetto specifico sembra allora costituire
un punto di vista sull’insieme della società, o comunque su un insieme vasto e non ben
delimitabile di fenomeni sociali» (Bagnasco, 1999, pp. 352, 353).
Pizzorno22 focalizza la sua attenzione sugli elementi di innovatività del termine “capitale sociale”:
«In altre parole, la novità di questo concetto consiste nell’indirizzaci a guardare agli stessi
fenomeni che tradizionalmente la sociologia analizzava nei loro rapporti strutturali (di relazioni di
causa ed effetto), ma in modo nuovo, assumendo, cioè, come punto di vista epistemologico
quello di un soggetto d’azione il quale tratti le relazioni sociali entro le quali si muove come mezzi
per il perseguimento di determinati fini. Il capitale sociale, costituito dalle relazioni sociali in
possesso di un individuo costituisce allora nient’altro che un insieme di risorse che costui può
utilizzare, assieme ad altre risorse, per meglio perseguire i propri fini» (Pizzorno, 1999, p. 374).
Infine, Piselli abbozza una definizione di capitale sociale, richiamando esplicitamente Coleman «Il
concetto di capitale sociale, dunque, inerisce alla struttura delle relazioni sociali, tra due o più
persone. Come altre forme di capitale, il capitale sociale è produttivo: è una risorsa per l’azione
che rende possibile all’attore (individuale o collettivo) il conseguimento di fini non altrimenti (o con
costi molto alti) raggiungibili (1900, p. 302). Il capitale sociale è il risultato di strategie di
investimento, intenzionale o inintenzionale, orientate alla costituzione e riproduzione di relazioni
sociali durevoli, capaci nel tempo di procurare profitti materiali e simbolici» (Piselli, 1999, p. 396).
Le otto definizioni presentate sono sufficienti a mostrare come non esista un’unica definizione di
capitale sociale “buona per tutti”, per la semplice ragione che i differenti autori hanno in realtà
idee molto diverse su cosa sia, effettivamente, il capitale sociale. Non si tratta di una questione di
impotenza linguistica: semplicemente, i vari autori intendono proprio cose diverse. Eppure tutti
usano lo stesso sintagma, ma, evidentemente, per indicare cose diverse. È ovvio che poi,
quando si cerca di definire e circoscrivere il campo, si ottiene quello che Baricco (2002)
definirebbe come un “caos babelico”.
4. Alcuni elementi di particolare interesse del concetto di capitale sociale
Dalla riflessione sulle differenti definizioni di capitale sociale emergono alcuni capisaldi del
concetto comuni alle complesse formulazioni evidenziate dalla rassegna proposta. Nello
7
specifico, gli autori considerati sembrano concordi nel ritenere che il capitale sociale sia
contenuto in (alcune) relazioni sociali, possa costituire una risorsa utile – ma potrebbe anche
essere inutile o, addirittura dannosa per azioni differenti da quella considerata - per una specifica
azione e, infine, che il capitale sociale sia maggiormente produttivo in presenza di alcune forme23
che migliorano l’interazione nelle relazioni sociali. Si ritiene pertanto di interesse focalizzare
l’attenzione sui tre elementi che sembrano caratterizzare le diverse definizioni di capitale sociale.
Innanzitutto, ad eccezione di Putnam e Fukuyama che, come si avrà modo di argomentare nel
prosieguo, enfatizzano la dimensione cooperativa insita nel concetto di capitale sociale,
l’elemento comune alle definizioni di Coleman, Mutti, Bagnasco, Piselli, Pizzorno e Trigilia è
rappresentato dalla sottolineatura che il capitale sociale sia contenuto nella struttura delle
relazioni tra le persone24. Secondariamente, la maggior parte degli autori25 si concentra sul fatto
che il capitale sociale rappresenti una risorsa capace di produrre effetti positivi per una specifica
azione26.
Infine, il terzo elemento comune alle diverse definizioni di capitale sociale è rappresentato dalle
forme attraverso le quali è accentuato il carattere del capitale sociale di essere una risorsa per
l’azione. Si segnala, al riguardo, come le opinioni degli autori considerati divergano notevolmente:
alcuni autori, Putnam (1993) e Fukuyama (1995), ritengono che con il concetto di capitale sociale
si debba intendere la fiducia nella società o in una parte di essa, le norme che regolano la
convivenza e, per estensione, le reti di associazionismo civico. Per altri autori, invece, la struttura
di relazioni alla base del capitale sociale si fonda sulle «reti fiduciarie formali e informali che
stimolano la reciprocità e la cooperazione» (Mutti, 1998, p. 8). Per altri ancora, il capitale sociale
è un concetto dinamico, processuale e, infatti, il capitale sociale è spesso un sottoprodotto (byproduct) di attività iniziate per altri scopi, come nel caso, ad esempio, di associazioni create per
uno scopo possono essere utili a perseguire anche un altro obiettivo (Piselli, 1999, p. 399).
Bagnasco (1999) e Pizzorno (1999) considerano che ciò che conti siano solo le forme in cui si
manifestano le relazioni sociali. Coleman (1990), infine, concentra parte della sua riflessione sulle
differenti forme di capitale sociale che possono costituire una risorsa utile per gli individui.
Una volta abbozzata una definizione di capitale sociale riepilogativa delle principali formulazioni
proposte e precisati gli elementi di interesse che caratterizzano tale formulazione, in quest’ultimo
paragrafo, il paper si prefigge di concentrare l’attenzione sugli aspetti maggiormente significativi
di tale definizione e, nello specifico, i) sul senso che assume la scelta di considerare le relazioni
sociali come l’elemento dal quale origina il capitale sociale; ii) sulle caratteristiche che devono
contraddistinguere le relazioni sociali affinché esse producano capitale sociale; iii) sulla forma
che può assumere il capitale sociale. Con particolare riferimento alla forma che prende il capitale
sociale, si è scelto di considerare i due elementi che sembrano essere i principali27 “facilitatori”
delle relazioni sociali: la fiducia e la organizzazione sociale.
4.1. La natura relazionale del capitale sociale
«Come non averci pensato prima? Sembra l’uovo di Colombo. Chi non sapeva che le relazioni
servono ad andare avanti nella vita, a trovare lavoro, a far carriera, a combinare affari, insomma,
secondo il detto antico e cinico, che val molto di più chi uno conosce, che non che cosa uno
conosce. Come mai allora la sociologia sembra arrivare così tardi alla nozione di “capitale
sociale”?» (Pizzorno, 1999, p. 373).
La risposta alla domanda che Pizzorno rivolge a sé stesso e ai suoi lettori sembra, a posteriori,
piuttosto semplice: la sociologia non giunge in ritardo a studiare le relazioni sociali, che, invece,
sono considerate dalla stessa con attenzione da molto tempo, ma arriva “così tardi” alla nozione
8
di «capitale sociale» in quanto tale concetto scaturisce dalla determinazione di Coleman di
applicare la teoria della scelta razionale nel campo della sociologia28 per valutare le strutture
sociali dal punto di vista degli interessi dell’individuo. Come sottolineato nella prima parte, con
Coleman l’attenzione si sposta dalla direzione micro-macro alla direzione macro-micro: non si
tratta più di spiegare come nascano le strutture sociali, ma di capire come esse rappresentino
una risorsa a disposizione degli individui e, solo in tale prospettiva, si può parlare di capitale
sociale come di relazioni sociali di cui dispone un individuo (in un determinato momento).
Prima di assumere che il capitale sociale ha una natura relazionale, sembra interessante
richiamare brevemente quali siano le ragioni alla base della distinzione tra natura relazionale e
natura sistemica del capitale sociale.
Come anticipato nel paragrafo precedente, sia Coleman che la maggior parte dei ricercatori
italiani ritengono che il capitale sociale sia contenuto nella struttura delle relazioni tra le persone
e, in virtù di ciò, attribuiscono al capitale sociale una natura relazionale. Viceversa29, Putnam e
Fukuyama considerano il capitale sociale come una proprietà del sistema sociale, in quanto
ritengono che corrisponda all’attitudine a cooperare che sussiste nelle comunità o nelle società
che sono fondate su una cultura cooperativa condivisa30. Tale assunzione culturalista conduce,
secondo molti studiosi, a trascurare il ruolo dei fattori politici nei processi di sviluppo e la mancata
considerazione del ruolo del sistema politico nel riprodurre o meno il capitale sociale fa sì che il
capitale sociale sia visto solo come un «portato contingente del periodo precedente» e che sue
origini siano spiegate esclusivamente con rimandi al passato31. Pertanto sembra opportuno
seguire il consiglio di Bagnasco: superare l’applicazione dell’idea di capitale sociale da parte di
Putnam e Fukuyama e ritornare alla teoria di Coleman, i cui vantaggi comparati sembrano
collocarla in una posizione di netta supremazia (Bagnasco, 1999, pp. 365, 366).
Se assumiamo dunque che il capitale sociale abbia una natura relazionale, appare opportuno
chiedersi se sia proprio vero che ogni tipo di relazione possa costituire una forma di capitale
sociale32 e, se così non fosse, quale sia la natura delle relazioni sociali che possono costituire il
capitale sociale33.
Nonostante sia opinione condivisa che non tutte le relazioni sociali possano costituire il capitale
sociale, non vi è univocità nell’individuazione delle relazioni sociali in grado di generare capitale
sociale. Pizzorno (1999)34 sviluppa la sua riflessione cominciando ad escludere le relazioni che
non sono connesse al capitale sociale per poi analizzare gli elementi in comune e definire, in
positivo, le caratteristiche delle relazioni connesse alla nozione di capitale sociale. Dunque, è
possibile affermare che non producono capitale sociale le relazioni di scambio, di mero incontro
tra persone e quelle di ostilità, di sfruttamento o conflittuali in genere35, vale a dire relazioni che
non necessitano della riconoscibilità dell’identità dell’altro o che mirano ad annullare l’identità
dell’altro e/o a sottrargliene componenti. In considerazione di ciò, Pizzorno (1999, p. 376)
sostiene che le relazioni in grado di produrre capitale sociale si distinguono dalle altre in quanto
richiedono che l’identità dei partecipanti sia riconosciuta e, inoltre, ipotizzano forme di solidarietà
o di reciprocità.
Nei casi in cui il capitale sociale «si costituisce grazie all’intervento di un terzo che assicura che il
rapporto tra due parti avvenga senza sfruttamento o frode od opportunismo di una parte nei
confronti dell’altra» si parla di capitale sociale di solidarietà. Mentre nei casi in cui «il capitale
sociale si costituisce nella relazione tra due parti, in cui l’una anticipa l’aiuto dell’altra nel
perseguire i suoi fini, in quanto ipotizza che si costituisca un rapporto di mutuo appoggio si parla
di capitale sociale di reciprocità» (Pizzorno, 1999, p. 379).
9
In particolare, la distinzione tra capitale sociale di solidarietà e capitale sociale di reciprocità
richiama Granovetter e il distinguo tra legami deboli e legami forti: il capitale sociale di solidarietà
si basa sui legami forti, mentre il capitale sociale di reciprocità è verosimilmente creato dai legami
deboli36. Come anticipato, la riflessione sull’importanza dei legami deboli e dei legami forti come
risorse individuali non è una novità nella letteratura sociologica, né in quella economica37,
sebbene il dibattito non sia ancora concluso: alcuni studi, infatti, evidenziano l’importanza dei
legami deboli, mentre in altri casi è sottolineato il ruolo dei legami deboli38, ma non è questa la
sede per approfondire la discussione.
In quest’ambito, è interessante rilevare che il capitale sociale ha una natura relazionale, nel
senso che è contenuto nella struttura delle relazioni tra le persone e, in particolare, le relazioni in
grado di produrre capitale sociale si distinguono dalle altre in quanto richiedono che l’identità dei
partecipanti sia riconosciuta, inoltre, ipotizzano forme di solidarietà (capitale sociale di solidarietà)
o di reciprocità (capitale sociale di reciprocità).
4.2. Gli elementi di valorizzazione del capitale sociale “relazionale”: la fiducia e le
organizzazioni sociali
L’ultima parte del paper si prefigge di riflettere su due “forme” del capitale sociale che migliorando
l’interazione nelle relazioni sociali, potenziano la capacità cooperativa tra gli attori e, quindi,
valorizzano il capitale sociale: la fiducia e le organizzazioni.
4.2.1. La fiducia
«Siamo così giunti al cuore del problema. Come si genera quell’elemento essenziale alla
cooperazione che è la fiducia? Attraverso quali processi si estende da ambiti interpersonali
ristretti ad ambiti più ampi e impersonali? Come si passa da codici e comunità morali chiusi a
codici e comunità morali aperti, o, ancora, quali sono i meccanismi che favoriscono
l’accumulazione allargata del capitale sociale?» (Mutti, 1998, p. 26).
Sebbene il concetto di fiducia sia messo in risalto principalmente da chi ha un’idea sistemica di
capitale sociale39, l’importanza della fiducia è confermata anche da chi sostiene la natura
relazionale del capitale sociale, in quanto la fiducia rappresenta un espediente necessario per
costruire relazioni sociali cooperative e per estendere la cooperazione da ambiti interpersonali
ristretti ad ambiti più ampi e impersonali40.
La differenza tra le interpretazioni del ruolo della fiducia per il capitale sociale41 può essere
ravvisata nel fatto che per Putnam e Fukuyama la fiducia, come d’altronde il capitale sociale, è
esclusivamente un prodotto della storia: «La produzione e stabilizzazione della fiducia sono,
secondo questi autori, processi ereditati dal passato e rimandano, perciò, a complesse dinamiche
storiche di lunga durata che giungono a definire diverse tradizioni civiche e diversi sistemi morali»
(Mutti, 1998, p. 28). Viceversa, per gli autori che affermano la natura relazionale del capitale
sociale la fiducia sembra essere un bene che può essere creato intenzionalmente e
razionalmente42 o, meglio, che si sviluppa grazie ad un intermediario o ad una terza parte
(Coleman, 1990, pp. 235-245), senza necessariamente dover attendere i tempi lunghi della
storia.
Per concludere il breve excursus sulla rilevanza della fiducia per il capitale sociale, sembra
opportuno recuperare gli scritti di Mutti, l’autore che più di altri ha focalizzato l’attenzione sul
concetto di fiducia, per definire che cosa si intende per fiducia e, soprattutto, comprendere come
si genera la fiducia. Per Mutti, la fiducia può essere definita come: «un’aspettativa di esperienze
10
con valenza positiva per l’attore, maturata sotto condizioni di incertezza, ma in presenza di un
carico cognitivo e/o emotivo tale da permettere di superare la soglia della mera speranza43»
(Mutti, 1998, p. 42). Tuttavia, sebbene la fiducia costituisca una condizione necessaria per la
collaborazione e, dunque, per la costituzione di uno stabile capitale sociale, essa non
rappresenta una condizione sufficiente affinché si abbia effettivamente collaborazione tra due
individui44.
Per concludere, si può affermare che la fiducia è quell’elemento che agisce sulle relazioni sociali,
in modo tale da contribuire a migliorare tali relazioni, sebbene il coordinamento e la
collaborazione effettivi dipendano da fattori legati all’incertezza e agli imprevisti dell’azione
sociale; infatti, l’aspettativa fiduciaria si innesta su differenti fattori di incertezza, quali le
caratteristiche di chi riceve la fiducia45, la natura e l’estensione di ciò su cui la fiducia verte, le
caratteristiche di chi concede la fiducia, la natura del contesto strutturale e congiunturale in cui
l’atto fiduciario viene espresso (Mutti, 1998, p. 46).
4.2.2. Le organizzazioni
Come è stato sottolineato nell’introdurre le precipue caratteristiche dei Fondamenti, la teoria
sociale di Coleman, pur utilizzando il paradigma della scelta razionale, si contraddistingue
dall’uso che ne fanno gli economisti per l’attenzione all’organizzazione (e alle istituzioni sociali),
come contesti che condizionano le scelte e producono effetti sistemici. Nello specifico, Coleman
vede nell’organizzazione sociale uno strumento in grado di migliorare l’interazione nelle relazioni
sociali senza che, per migliorare tale interazione, sia necessaria la mediazione della fiducia
personale che, tra l’altro, sembra molto spesso indisponibile: così inteso, il capitale sociale è un
dato dell’organizzazione sociale, in quanto rappresenta il potenziale di interazione cooperativa di
cui possono disporre gli individui (Bagnasco, 2002, p. 273).
Nella sua riflessione sul valore del capitale sociale, Coleman concentra l’attenzione sulle
organizzazioni sociali che, a loro volta sono distinte in organizzazioni sociali appropriabili e
organizzazioni intenzionali46. Nello specifico, le organizzazioni sociali appropriabili47 nascono per
perseguire un obiettivo preciso, ma, nel corso del tempo, possono essere impiegate anche per
altri scopi, venendo così a costituire del capitale sociale che può essere utilizzato. Le
organizzazioni intenzionali derivano direttamente dall’investimento di alcuni individui che mirano a
ricavare da esso un beneficio diretto (Coleman, 1990, pp. 400-403).
Nel suo programma di ricerca, Coleman aggiorna progressivamente l’idea e il ruolo delle
organizzazioni nell’ambito della sua teoria sociale, fino ad affermare: «Manchiamo nel
riconoscere che il capitale sociale dal quale dipende l’organizzazione sociale primordiale se ne
sta svanendo; manchiamo nel riconoscere che le società del futuro saranno costruite e che noi
dobbiamo dirigere la nostra attenzione al disegno di queste strutture sociali» (Coleman, 1993, p.
10)48.
L’idea centrale è che la “primordial49 social organization” stia progressivamente scomparendo
nella società moderna, determinando una perdita nel capitale sociale informale alla base delle
relazioni nelle comunità tradizionali50. Se quando l’organizzazione sociale si basa maggiormente
su relazioni tra persone naturali ed è sostenuta da strutture primordiali, è relativamente più facile
ottenere un comportamento responsabile verso gli altri, cosa accade nelle società moderne? Per
Coleman, le società moderne hanno sviluppato la “purposively constructed social organization”
come fonte di capitale sociale: le organizzazioni formali permettono una interazione efficiente
poiché sostituiscono l’elemento di fiducia che era presente nelle relazioni sociali nelle comunità
tradizionali.
11
In continuità con Coleman, Bagnasco (2002, p. 273) sottolinea come nelle società moderne il
capitale sociale sia depositato in organizzazioni formali e nelle regole fissate in nuove istituzioni
razionalmente costruite: «La società moderna ha introdotto le organizzazioni formali come
componente essenziale dell’organizzazione sociale. I tessuti di relazione che permettono una
interazione efficiente sono appunto le organizzazioni».
In aggiunta, La Valle (2002) rileva l’opportunità, nel considerare le organizzazioni, di riferirsi a
quei sistemi sociali che compensano i loro membri non solo con il denaro, ma anche con la
“considerazione”, elemento caratterizzante dell’organizzazione quale fenomeno sociale51. In
considerazione di ciò, l’organizzazione è un fenomeno sociale che agisce quale strumento
d’incentivazione, quale mezzo usato per ottenere dagli attori comportamenti di cui altri attori o il
sistema nel suo insieme hanno bisogno.
Con riferimento alle organizzazioni, quindi, si può affermare che la società moderna ha introdotto:
le organizzazioni formali come componente essenziale dell’organizzazione sociale in quanto,
sostituendo l’elemento di fiducia che era presente nelle relazioni sociali nelle comunità
tradizionali, permettono una interazione maggiormente efficiente tra individui52.
5. Conclusioni
Il paper ha riflettuto sul significato attribuito al concetto di capitale sociale nella letteratura
economica e sociologica. Nello specifico, si è scelto di analizzare le definizioni proposte da alcuni
autori (Coleman, 1990; Putnam, 1993; Fukuyama, 1995; Mutti, 1998; Bagnasco, 1999; Piselli,
1999; Pizzorno, 1999; Trigilia, 1999) e si è osservato come le diverse formulazioni non
collimassero tra loro e non esistesse, pertanto, un’unica definizione di “capitale sociale”, buona
per tutti. In particolare, come è stato ampiamente sottolineato, la rapida diffusione del concetto ha
determinato un utilizzo dell’idea di capitale sociale in così tante situazioni e in contesti così
differenti da indebolirne il significato, ridurne l’efficacia analitica e, alla fine, far dimenticare la
logica sottostante l’introduzione del concetto e le caratteristiche delle diverse forme (Portes,
1998; Piselli, 1999; Trigilia, 1999; La Valle, 2002; Pasqui, 2003).
Sembra pertanto opportuno considerare nuovamente la definizione proposta da Coleman dalla
quale emergono distintamente i due elementi linguistici che compongono il sintagma capitale
sociale. Per Coleman, infatti, il capitale sociale presenta le medesime caratteristiche delle altre
forme di capitale53, e, soprattutto, consente di spiegare le relazioni e le strutture sociali e come
esse rappresentino una risorsa a disposizione degli individui54. In tal senso, come ha rilevato
Barbieri (1997), nei Fondamenti la nozione di capitale sociale rappresenta l’elemento di
connessione fra economia e società.
Tuttavia, la letteratura economica e sociologica successiva ha focalizzato l’attenzione su differenti
elementi. In sociologia il capitale sociale si è affermato come la nozione in grado di contribuire a
conoscere e spiegare il funzionamento della società. Per contro, nella letteratura economica il
concetto di capitale sociale si è affiancato ai concetti di capitale tecnico e capitale umano per
spiegare, ad esempio, le performance dei distretti industriali (Becattini, 2000).
Al riguardo, si ritiene di interesse segnalare come numerosi economisti abbiano ipotizzato che il
capitale sociale debba essere considerato parte integrante della funzione di produzione. Nello
specifico, alcuni autori (Dasgupta, 2000, p. 395) hanno incorporato il capitale sociale nel fattore di
scala della funzione di produzione55, mentre altri (Collier, 2002, p. 23) hanno introdotto il capitale
sociale come input della funzione di produzione56. In considerazione di ciò, è possibile affermare
12
che il capitale sociale è capitale quando conta per l’attività economica come fattore di
produzione57.
La scelta di includere il capitale sociale nella funzione di produzione ha, tuttavia, posto
all’attenzione degli studiosi il problema della misurazione del capitale sociale. Se da un lato alcuni
autori hanno sostenuto che le esigenze di misurazione del capitale sociale non potessero essere
eluse, tuttavia l’individuazione di una precisa misurazione del capitale sociale è risultata assai
complessa in quanto la letteratura teorica sul capitale sociale ha formulato una definizione del
concetto non univoca, multidimensionale e, per certi aspetti, ambigua (Trigilia, 1999; Piselli, 1999;
La Valle, 2002; Pasqui, 2003).
Mentre nel corso del tempo, il connubio tra teoria economica e esperienza lavorativa ha
consentito di individuare un insieme di proxy attendibili e condivise del capitale umano, per
quanto riguarda il capitale sociale le opinioni sono ancora controverse e discordanti. Sembra
pertanto auspicabile che letteratura e ricerche empiriche si integrino per riuscire a definire con
maggiore precisione ciò che il sintagma capitale sociale rappresenta e, contestualmente,
individuare delle proxy che consentano di misurare in modo meno approssimativo il capitale
sociale in modo da poter valorizzare, infine, il capitale sociale nelle politiche di sviluppo.
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16
Note
Il collegamento tra “globalizzazione” e “capitale sociale” è esplicitamente richiamato prima di tutto da Mutti (1998, p.
7) che si domanda «Come mai lo sviluppo di un’economia globale non si accompagna ad una omogeneizzazione dei
processi di modernizzazione, ma piuttosto ad una loro differenziazione? Come mai alcuni paesi mostrano un
dinamismo di sviluppo sensibilmente più elevato di altri?», giungendo, successivamente alla conclusione che «Di
fronte a domande di questa portata viene spontaneo pensare che (...) ci sia urgente bisogno di un approccio capace
di integrare in modo unitario tutte queste variabili (dimensione economica, culturale, politica). (...) Questa teoria
appare così facilmente condivisibile da risultare quasi banale, ma, in realtà, banale non è visto che siamo ben lontani
dal disporre di una teoria in grado di spiegare in modo non riduttivo differenze e somiglianze nei vari percorsi di
sviluppo». In un secondo tempo è sottolineato da Trigilia (1999, p. 427) nel momento in cui indaga sugli effetti del
processo di globalizzazione sullo sviluppo locale: «La globalizzazione ha conseguenze contraddittorie per lo sviluppo
locale»; l’evidenza empirica ha infatti mostrato come la globalizzazione non determini semplicemente una
delocalizzazione, ma una concorrenza dei territori nei quali la risorsa capitale sociale – concretizzatasi nella forma di
economie esterne di specializzazione – è cruciale. Le produzioni tendono ad andare là dove si hanno maggiori
economie esterne di specializzazione: « quanto più il capitale sociale è capace di far crescere economie esterne di
specializzazione e di radicare conoscenze in un determinato contesto locale, tanto meno il destino di tale area è
dipendente da un generico dinamismo legato alla localizzazione di iniziative esterne».
1
Bourdieu è considerato l’inventore del concetto di capitale sociale da Trigilia che sottolinea (1999, p. 420) «L’uso
esplicito del concetto di capitale sociale si manifesta a partire dagli anni ’60 e deve molto agli studi del sociologo
francese Pierre Bourdieu», ma anche Cartocci (2000, p. 429) «Bourdieu ha introdotto la nozione in una breve nota
del 1980, presentandola come l’unica chiave esplicativa che permette di rendere conto del diverso rendimento
ottenuto dal capitale culturale e dal capitale economico a disposizione dei singoli individui. Lo stesso Coleman (1990,
p. 383) ha rilevato come, oltre Loury, anche Bourdieu abbia utilizzato il concetto di capitale sociale come risorsa per
l’azione individuale.
2
La ricerca delle origini del concetto di capitale sociale da parte degli studiosi del tema potrebbe dilungarsi, se si
volesse individuare il “precursore” più citato, ma si discosterebbe eccessivamente dall’obiettivo conoscitivo del
paper. In questa sede si è semplicemente cercato di dare il senso dell’ambiguità del concetto anche per quanto
riguarda l’inventore dello stesso.
3
Si segnala come opinione altrettanto condivisa sia quella che ritiene che il concetto di capitale sociale si sia
successivamente sviluppato anche grazie “concretizzazione” del concetto di capitale sociale nelle ricerche empiriche
di Robert Putnam (1993) e di Francis Fukuyama (1995).
4
Sulla qualità e sull’importanza dell’opera di Coleman per la letteratura sul capitale sociale Bagnasco (1999, pp. 355356) si sofferma ampiamente «Ho volutamente insistito sulla teoria di Coleman non solo per la sua qualità, ma
perché è continuamente richiamata nella letteratura successiva. E tuttavia, nonostante i richiami, appaiono
scostamenti e slittamenti della cui portata non sempre ci si rende conto. I riferimenti che seguono a Putnam e
Fukuyama devono proprio essere intesi per certi aspetti come esempi rilevanti di applicazione, ma nella sostanza
invece come variazioni rilevanti della teoria ora esposta».
5
La citazione è tratta dall’intervista che Richard Swedberg ha realizzato con James Coleman nella sua casa in Hyde
Park a Chicago il 27 novembre 1987 (Swedberg, 1990, pp. 53-66).
6
Come osserva Trigilia (2005, p. XV) «Coleman prende subito le distanze dal modello tradizionale dell’homo
sociologicus, in base al quale il comportamento individuale è spiegato in relazione ai valori e alle norme
internalizzate con la socializzazione. Si noti però che la critica non è motivata in termini di inadeguatezza a spiegare
l’azione individuale dal punto di vista dell’esperienza empirica. Viene invece immediatamente in evidenza la
preoccupazione normativa. (...) “Con questa immagine dell’uomo come elemento socializzato di un sistema sociale è
impossibile nel quadro della teoria sociale, valutare le azioni di un sistema o di un’organizzazione sociale (Coleman,
1990, p. 17)”».
7
Al riguardo, è interessante segnalare che Pizzorno sottolinea come, sebbene Coleman dichiari chiaramente di
scegliere l’individualismo metodologico, alcune sue affermazioni – ad esempio, il diritto di agire – hanno indotto molti
critici a considerare l’opera di Coleman più come l’opera di uno strutturalista - che in quanto tale si concentra sulla
8
17
struttura delle posizioni sociali per spiegare le preferenze di un individuo – che non di un individualista metodologico
(Pizzorno, 2006, p. 312).
9 Come afferma Trigilia nell’Introduzione all’edizione italiana dei “Fondamenti di Teoria Sociale” di Coleman, i
Fondamenti rappresentano «il tentativo più ambizioso fatto negli ultimi anni, di formulare una teoria sistematica
dell’azione sociale. (...) non sono solo lo scopo e lo sforzo sistematico a distinguere questo studio nel panorama
sociologico, ma ancor di più la prospettiva che viene sviluppata. Si tratta di un tentativo organico e radicale di
applicare la teoria della scelta razionale nel campo della sociologia. Viene proposta una ricostruzione sistematica
delle relazioni e delle strutture sociali a partire da una visione dell’azione basata sul calcolo razionale dei benefici da
parte dei singoli individui» (Trigilia, 1990, p. XI).
«Molti economisti sono partiti dalla constatazione di questa distorsione individualista nell’economia neoclassica,
per cercare di modificarla. (...) Ben Porath ha sviluppato una serie di idee sul funzionamento nei sistemi di scambio
di quella che definisce F-connection (Families, friends and firms) mostrando il modo in cui queste forme di
organizzazione sociale influiscono sullo scambio economico» (Coleman, 1990, p. 387).
10
In tal senso, il capitale sociale è «l’insieme delle risorse contenute nelle relazioni familiari e nell’organizzazione
sociale della comunità che risultano utili per lo sviluppo cognitivo o sociale di un bambino o di un ragazzo»
(Coleman, 1990, 385).
11
La definizione di capitale sociale di Bourdieu è riportata integralmente da Pizzorno (1999, p. 374) e Cartocci (2000,
p. 429).
12
Il suo primo contributo importante risale alla età degli anni settanta, quando pubblicò un breve saggio sulle
modalità con cui le persone acquisiscono informazioni sui posti vacanti nel mercato del lavoro. Il metodo usato, e con
il quale è identificato il suo lavoro, fu quello dei network sociali. (...) Il suo secondo lavoro di rilievo nel campo della
sociologia economica risale agli anni ottanta, e si tratta di un tentativo di formulare il programma della “nuova
sociologia economica” (Swedberg, 1990, p. 105).
13
Oliver E. Williamson è considerato tra gli esponenti di spicco di tutto quel «filone di letteratura economica, di solito
indicato come nuova economia istituzionale, che cerca di mostrare sia le condizioni in cui nascono particolari
istituzioni economiche, sia gli effetti di queste istituzioni sul funzionamento del sistema» (Coleman, 1990, p. 387).
14
Secondo Granovetter (1990, p. 58) la “nuova economia istituzionale” si illude fin dai presupposti: «L’idea di fondo
di questa scuola è che le istituzioni sociali, in precedenza pensate come il risultato accidentale di forze politiche,
sociali, storiche o legali, possono essere meglio spiegate come soluzioni efficienti a problemi economici».
15
16 Granovetter prosegue precisando come «La preferenza diffusa ad avere relazioni contrattuali con individui di fidata
reputazione indica che pochi sono in realtà disposti a basarsi sulla moralità generalizzata o su strutture istituzionali
per salvaguardarsi da eventuali sorprese. (…) L’analisi economica corrente dimentica l’identità e le passate relazioni
degli individui contraenti, ma individui razionali sanno che è meglio basarsi sulla conoscenza diretta delle relazioni»
(Granovetter, 1990, pp. 52, 59). Lo stesso Coleman rileva come Granovetter sostenga che «la nuova economia
istituzionale non vede l’importanza delle relazioni personali concrete e dei reticoli di relazione – quello che chiama
l’embeddedness delle transazioni economiche nelle relazioni sociali – nella produzione della fiducia, nella definizione
di aspettative, nella creazione e nel mantenimento delle norme sociali» (Coleman, 1990, p. 387).
Come nota Trigilia (1999, p. 419): «Tale concetto non è però usato in modo univoco e con precisione. A volte se
ne parla come sinonimo di capacità di cooperazione, fiducia, coscienza civica, qualcosa che si avvicina a una forma
particolare di cultura locale; altre volte si parla di capitale sociale addirittura come una sorta di indicatore sintetico di
ricche economie esterne immateriali e materiali. In altri casi si fa invece riferimento, più opportunamente e
prudentemente, alla rete di relazioni che lega soggetti individuali e collettivi, e che può alimentare la cooperazione e
la fiducia, e la produzione di economie esterne, ma può anche ostacolare tali esiti favorevoli per lo sviluppo locale».
Parimenti, Sciolla (2003, p. 258) sottolinea come «Il concetto di capitale sociale si presenta, tuttavia, più ambivalente
e controverso di quanto il suo ampio utilizzo da parte delle scienze sociali potrebbe far pensare». Per contro, Piselli
(1999, p. 395) ritiene che «il concetto di capitale sociale è un concetto situazionale e dinamico; un concetto, pertanto,
che non si riferisce a un «oggetto» specifico, non può essere appiattito in rigide definizioni, ma deve essere
interpretato di volta in volta, in relazione agli attori, ai fini che perseguono, e al contesto in cui agiscono». In aggiunta
a ciò, Piselli (1999, p. 399) rileva che «Il capitale sociale, dunque, non è un «oggetto», una «entità» specifica,
identificabile e isolabile, circoscrivibile in una formula, definibile in maniera precisa. È un concetto generale che si
concretizza nell’azione creativa degli attori, nella realizzazione di progetti pratici. È un potenziale di risorse che esiste
– diviene capitale sociale – solo quando viene attivato per scopi strumentali (Coleman 1900, p. 300). E ogni mossa,
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18
ogni azione cambia il quadro degli intrecci interazionali, cambia la situazione strategica e così canalizza le scelte
successive degli attori. Infatti, dice Coleman: «il capitale sociale si crea quando le relazioni tra le persone cambiano
in modi che facilitano l’azione» (Piselli, 1999, p. 399).
Scrive Pasqui (2003, p. 120): «Alcuni dei contributi presentati in questo stesso numero della rivista (Archivio di
Studi Urbani e Regionali) danno conto della ricchezza della letteratura e della molteplicità degli approcci, mostrando
implicitamente come il sintagma abbia giocato il ruolo di “parola valigia”, di vero e proprio passpartout nell’ambito
delle scienze sociali».
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L’esercizio è sicuramente interessante, sebbene non sia una novità nel dibattito sul capitale sociale. Trigilia (1999,
pp. 420-423) dedica un intero paragrafo “Problemi di definizione” per comprendere quale sia «l’utilizzo del concetto
di capitale sociale nello studio dello sviluppo economico». Cartocci (2000, p. 423) incentra la prima parte del saggio
«Chi ha paura dei valori? Capitale sociale e dintorni» sulla riflessione sui differenti significati del lemma capitale
sociale: «Questa latitudine di significati impone quindi una preliminare discussione, cui sono dedicati i primi tre
paragrafi del saggio». Infine, anche Pasqui (2003, pp. 119-124) nel motivare quali ragioni sono alla base della scelta
di interessarsi del capitale sociale (§ 1. Perché ci interessiamo al capitale sociale?) concentra la sua attenzione
sull’uso che differenti autori fanno dell’idea di capitale sociale.
19
I contributi di Bagnasco, Piselli, Pizzorno e Trigilia sono stati ripubblicati in Bagnasco A. (et al.), (2001), Il capitale
sociale: istruzioni per l'uso, Il Mulino, Bologna.
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È interessante notare come in Bowling Alone (2001), Putnam aggiorni la sua definizione di capitale sociale
precisando che: «Per capitale sociale intendo quelle caratteristiche della vita sociale – reti, norme e fiducia – che
mettono in grado i partecipanti di agire più efficacemente nel perseguimento di obiettivi condivisi (naturalmente che
questi scopi condivisi siano degni di plauso o meno è tutta un’altra questione)».
21
Nel tentativo di chiarire quale concetto si celi dietro l’idea di capitale sociale, Pizzorno prima richiama Loury come
l’“inventore” del termine capitale sociale. Successivamente riporta la definizione di Bourdieu per spiegare come, a
suo parere, il capitale sociale nasca dagli sconfinamenti della sociologia nell’economia, e, infine, per avvalorare la
tesi della contaminazione culturale segnala come Coleman stesso dichiari che con la sua teoria sociale mira a
correggere la distorsione individualistica dell’economia neoclassica (Pizzorno, 1999, p. 374).
22
Si è scelto di utilizzare la parola “forma” al posto di termini quali “dimensione”, “caratteristica, “aspetto”, ... in
continuità con Coleman che dedica il paragrafo 2. Forme di capitale sociale dei Fondamenti (1990, pp. 391-403) alla
disamina delle differenti forme attraverso le quali il capitale sociale può diventare una risorsa per l’azione: doveri e
aspettative, potenziale informativo, norme e sanzioni efficaci, relazioni di autorità, organizzazione sociale
appropriabile, organizzazioni intenzionali.
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Per Coleman (1990, pp. 388) «(...) il capitale sociale è contenuto nella struttura delle relazioni tra le persone: esso
non si trova negli individui, né negli input fisici delle produzioni»; per Mutti (1998, p. 8) «Per capitale sociale si
intende una struttura di relazioni tra persone»; per Trigilia (1999, p. 423) «Il capitale sociale si può allora considerare
come l’insieme delle relazioni sociali di cui un soggetto individuale o un soggetto collettivo dispone in un determinato
momento»; per Bagnasco (1999, pp. 352, 353) “ragionare in termini di capitale sociale” significa «considerare la
società dal punto di vista del potenziale di azione degli individui che deriva dalle strutture di relazione»; per Pizzorno
(1999, p. 374), l’autore che più di altri ha focalizzato l’attenzione sull’importanza delle relazioni sociali per il capitale
sociale, il capitale sociale è «costituito dalle relazioni sociali in possesso di un individuo»; infine Piselli (1999, p. 396),
richiamando esplicitamente Coleman, afferma che «Il concetto di capitale sociale, dunque, inerisce alla struttura
delle relazioni sociali, tra due o più persone».
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Per Coleman (1990, p. 388) «Una data forma di capitale sociale può essere di valore nel rendere possibili alcune
azioni, ma può anche essere inutile o dannosa per altre»; per Putnam (1993, p. 199) «la maggior parte dei capitali
sociali sono “risorse morali”, ovvero risorse la cui fornitura aumenta invece di diminuire con l’uso e che si
esauriscono se non sono usate»; per Fukuyama (1996, pp. 40) «Il capitale sociale è una risorsa che nasce dal
prevalere della fiducia nella società o in una parte di essa»; per Trigilia (1999, p. 423) «Attraverso il capitale di
relazioni si rendono disponibili risorse cognitive o normative che permettono agli attori di realizzare obiettivi che non
sarebbero altrimenti raggiungibili, o lo sarebbero a costi molto più alti»; per Bagnasco (1999, p. 352, 353) «L’idea di
capitale sociale costituisce una ulteriore estensione del concetto originario di capitale, non necessariamente
applicato all’economia, ma inteso in generale come una risorsa per l’azione»; per Pizzorno (1999, p. 374) «Il capitale
sociale (...) costituisce allora nient’altro che un insieme di risorse che costui può utilizzare, assieme ad altre risorse,
per meglio perseguire i propri fini»; per Piselli (1999, pp. 396) «Il capitale sociale è una risorsa per l’azione che rende
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possibile all’attore (individuale o collettivo) il conseguimento di fini non altrimenti (o con costi molto alti) raggiungibili».
Con qualche forzatura, forse, si può affermare che anche Mutti (1998, p. 8), con la sua definizione di capitale sociale,
che consente di «favorire la cooperazione e perciò produrre, come altre forme di capitale, valori materiali e simbolici»
richiami, implicitamente, il concetto di capitale sociale come risorsa per l’azione.
Al riguardo si segnala come Barbieri (1997, p. 366) affermi come sia «emerso in modo netto il fatto che, in quanto
capitale, ricchezza socialmente valorizzabile, anche le risorse sociali sono strettamente legate all’ammontare di
«privilegio» originariamente posseduto. La disparità nella distribuzione delle risorse sociali quindi non è un fattore
dovuto alla maggiore o minore «apertura» degli individui o dei loro circuiti relazionali e sociali, quanto – molto più
profondamente – alle loro appartenenze e caratteristiche strutturali».
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I principali, ma non gli unici “facilitatori”, nell’ambito dei quali è doveroso ricomprendere, ad esempio, le norme e le
sanzioni e l’informazioni.
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Come sottolinea Pizzorno (1999, p. 374) «In altre parole, la novità di questo concetto consiste nell’indirizzaci a
guardare agli stessi fenomeni che tradizionalmente la sociologia analizzava nei loro rapporti strutturali (di relazioni di
causa ed effetto), ma in modo nuovo, assumendo, cioè, come punto di vista epistemologico quello di un soggetto
d’azione il quale tratti le relazioni sociali entro le quali si muove come mezzi per il perseguimento di determinati fini».
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In realtà, Mutti (2003, p. 515) diverge dall’opinione maggioritaria e ritiene che «La definizione di capitale sociale
fornita da Putnam è di tipo relazionale e non si esaurisce in quella di rete di relazioni personali, come molti autori
hanno sostenuto togliendo al concetto di capitale sociale ogni specificità rispetto a termini preesistenti quali «reticolo
personale», «relazione sociale», «interazione in generale», ecc.».
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Molti autori hanno focalizzato l’attenzione sulla natura sistemica del capitale sociale di Putnam e Fukuyama. Mutti
(1998, p. 14) segnala come «La ripresa più interessante, ai fini di una teoria della modernizzazione, del concetto di
capitale sociale formulato da Coleman è quella fornita da Putnam (1993) e da Fukuyama (1996). Entrambi questi
autori enfatizzano la dimensione cooperativa insita nel concetto di capitale sociale, più che la componente di profitto
materiale e simbolico perseguita dall’individuo quando opera per mettere a frutto il proprio capitale sociale». Piselli
(1999, p. 409) rileva come ci sia «una ulteriore applicazione del concetto di capitale sociale, soprattutto da parte
degli scienziati della politica: il capitale sociale, in tal caso, è considerato una proprietà dell’intero sistema sociale che
favorisce la democrazia e lo sviluppo economico. I lavori più importanti in tale direzione sono quelli di Putnam (1993)
e Fukuyama (1996). I due autori hanno ripreso il concetto di capitale sociale formulato da Coleman, per spiegare i
caratteri dello sviluppo economico e politico di una data società e le differenze dei percorsi e dei livelli di
modernizzazione dei vari paesi». Bagnasco (2002, p. 272) mette in evidenza la distanza «fra una idea che possiamo
chiamare sistemica (ma si potrebbe anche dire culturalista) del concetto di capitale sociale e una relazionale (o
anche interattiva). Nella prima prospettiva, il capitale sociale è l’attitudine a cooperare che deriva da una cultura
cooperativa condivisa, capace di generare fiducia interpersonale diffusa. Certamente una cultura del genere facilita
comportamenti individuali congruenti ed è all’origine di capitale sociale in una popolazione che la condivida. Tuttavia,
come è stato da molti indicato, si tratta di un punto di vista che limita il campo di osservazione e sottovaluta gli effetti
emergenti dell’interazione individuale». Infine, Cartocci (2000, p. 245) mette in evidenza come la concezione del
capitale sociale di Putnam sia «rigorosamente culturale: è il capitale sociale come componente della cultura a
spiegare sia il rendimento istituzionale, sia lo sviluppo economico».
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Mutti (1998, pp. 17,18) mette in evidenza come «Il ruolo autonomo del sistema politico sul rendimento istituzionale
è fortemente svalutato da Putnam (...). Le modalità di governo, la composizione partitica, la frammentazione politica,
la polarizzazione ideologica e il conflitto sociale non sembrano incidere significativamente sulle prestazioni delle
istituzioni politiche. (...) Questa svalutazione del contributo autonomo delle variabili politiche, nella spiegazione del
rendimento delle istituzioni e nella capacità di influenzare lo stock di capitale sociale esistente in una data società, ha
sollevato le critiche più puntuali al modello di Putnam». Bagnasco (1999, p. 363, 364) sottolinea, invece, la differenza
metodologica di fondo che intercorre tra Coleman da un lato e Putnam e Fukuyama dall’altro: «Coleman adotta un
paradigma dell’azione, Putnam e Fukuyama un paradigma deterministico, casuale», in base al quale «le spiegazioni
sono elaborate esclusivamente in relazione a situazioni e condizioni precedenti» approfondendo quale sia, a suo
parere, la difficoltà principale dell’utilizzo del paradigma causale: «Si tratta allora di rilevare il limite generale di un
approccio determinista, che consiste nel fatto che arriva a descrivere una correlazione fra fenomeni, senza spiegarla,
con difficoltà spesso a definire anche quale sia in una correlazione la variabile indipendente e quella dipendente. In
tema di cultura civica è una vecchia questione, posta proprio in questi termini: è la cultura civica che spiega
l’efficienza delle istituzioni democratiche o viceversa?». Infine, Trigilia (1999, p. 429) riprende le perplessità di Mutti
(1998) e Bagnasco (1999) relativamente al rischio di « scivolare in una spiegazione culturalista piuttosto generica
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delle origini del fenomeno, che trascura il ruolo dei fattori politici nei processi di sviluppo» e prosegue precisando
come «la sottovalutazione della politica non consente di distinguere con più precisione a quali condizioni il capitale
sociale possa avere un impatto favorevole, e a quali invece possa generare clientelismo, dipendenza politica o
addirittura corruzione e economia criminale nei processi di aggiustamento dell’economia locale».
Al riguardo, La Valle (2002, p. 307) richiama l'attenzione sul fatto che «Il legame tra la nozione di capitale e la
teoria dello scambio sociale, presente in Coleman, si è perso in gran parte della letteratura successiva. Quest’ultima
spesso ha finito per identificare il capitale con la rete di relazioni sociali dell’attore, allentando la connessione tra il
nuovo concetto e un particolare – diverso da altri – modello di relazione sociale». Viceversa, Coleman (1990, p. 392)
studia «proprio che cosa nelle relazioni sociali sia tale da costituire una dotazione di capitale utile per gli individui».
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Secondo Pizzorno «è cercando di rispondere a tale interrogativo che si evita di dar per scontato, come succede in
molta letteratura sul tema, che relazioni sociali e relazioni che formano il capitale sociale semplicemente coincidano;
e che ci si veda invece a dover porre esplicitamente il problema di quali meccanismi operino nella produzione di
capitale sociale e siano assenti invece in altri casi» (Pizzorno, 1999, p. 375).
33
La riflessione sulla natura delle relazioni sociali per il capitale sociale contenuta nell’articolo di Pizzorno (1999)
“Perché si paga il benzinaio. Nota per una teoria del capitale sociale” è ampiamente citata dagli autori successivi
proprio per dare conto delle caratteristiche delle relazioni sociali che determinano il capitale sociale. Si vedano, a
titolo meramente esemplificativo, Cartocci (2000, p. 440), Bagnasco (2002, p. 272), Diani (2002, p. 475), La Valle
(2002, p. 306).
34
Analogamente, La Valle (2002, p. 307) esclude «dalle relazioni connesse alla nozione di capitale sociale quelle
che sono riducibili allo scambio economico e al potere», chiedendosi «Quando una relazione diventa una forma di
capitale sociale, una risorsa accumulabile e spendibile anche nel futuro ma distinguibile da quella economica?» e se
«il capitale sociale è generato dalle relazioni che perdono il carattere della episodicità e assumono una certa
stabilità?».
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36 Pizzorno esplicita chiaramente il legame tra capitale sociale di solidarietà e capitale sociale di reciprocità: «Il
capitale sociale di solidarietà si basa su quel tipo di relazioni sociali che sorgono, o vengono sostenute, grazie a
gruppi coesi i cui membri sono legati l’uno all’altro in maniera forte e duratura, ed è quindi prevedibile che agiscano
secondo principi di solidarietà di gruppo» (1999, p. 380). Viceversa, «Affinché questo tipo di capitale sociale (N.d.R. il
capitale sociale di reciprocità) si formi non occorre assumere la presenza di un gruppo coeso che intervenga ad
assicurare l’operatività della relazione sociale a certi fini attraverso meccanismi di ricompensa o penalità simboliche
o materiali. Esso quindi si manifesterà più probabilmente sulla base di legami deboli» (1999, p. 381).
Mark Granovetter è considerato il principale di studioso di quella che viene definita “nuova sociologia economica”.
In particolare, il suo primo contributo importante risale alla età degli anni settanta (1974), quando pubblicò un breve
saggio, Getting a Job, sulle modalità con cui le persone acquisiscono informazioni sui posti vacanti nel mercato del
lavoro e i cui risultati misero in luce la forza dei legami deboli nel definire le opportunità di mobilità occupazionale. Gli
individui cambiano lavoro perché grazie alle informazioni che acquisiscono accidentalmente attraverso contatti di
lavoro e non grazie a familiari o amici.
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Per quanto riguarda il dibattito tra studi che mettono l’accento sulla forza dei legami forti e studi che evidenziano
l’importanza dei legami deboli, Piselli (1999, pp. 402, 403) mette a confronto «Granovetter (1974; 1994) che, come è
noto, ha teorizzato la forza dei legami deboli nel definire le opportunità di mobilità occupazionale» e «Margaret
Grieco (1987) che porta l’evidenza di un lavoro ultradecennale svolto in diverse regioni industriali inglesi. L’autrice
dimostra che i legami familiari e di parentela costituiscono il principale fattore di reclutamento e organizzazione del
lavoro». Nonostante entrambi gli autori svolgano un’analisi rigorosa, giungono a risultati diametralmente opposti, a
dimostrazione, secondo Piselli, che non vi è una superiorità dei legami deboli o dei legami forti, ma, semplicemente,
«In un caso, dunque, sono cruciali i legami forti, in un altro caso i legami deboli».
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Putnam e Fukuyama considerano il capitale sociale come una proprietà del sistema che nasce dalla fiducia nella
società. In particolare, per Putnam (1993, p. 196) «Per capitale sociale intendiamo qui la fiducia (...)»; per Fukuyama
(1996, pp. 40) «Il capitale sociale è una risorsa che nasce dal prevalere della fiducia nella società o in una parte di
essa». Nello specifico, Fukuyama (1996, p. 40) definisce la fiducia come «l’aspettativa, che nasce all’interno di una
comunità, di un comportamento prevedibile, corretto e cooperativo, basato su norme comunemente condivise, da
parte dei suo membri».
39
Per Mutti (1998, pp. 8) «Per capitale sociale si intende una struttura di relazioni tra persone (...). Questa struttura
di relazioni consta di reti fiduciarie formali e informali che stimolano la reciprocità e la cooperazione». Per Trigilia
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(1999, pp. 423) «Attraverso il capitale di relazioni si rendono disponibili risorse cognitive, come le informazioni, o
normative, come la fiducia, che permettono agli attori di realizzare obiettivi che non sarebbero altrimenti raggiungibili,
o lo sarebbero a costi molto più alti».
Mutti (1999, p. 27) rileva come «Pur nella loro estrema varietà, le posizioni degli autori interessati all’analisi dei
meccanismi di produzione ed estensione della fiducia si differenziano lungo una linea ben precisa che fa riferimento
alla possibilità o meno di intervento, nel breve e nel medio periodo, su tali meccanismi. (...) Fukuyama, in particolare,
insiste sul fatto che la fiducia è creata e trasmessa attraverso meccanismi culturali profondi, basati su sistemi etici e
morali, su credenze religiose e convenzioni sociali tramandate storicamente».
41
Mutti (1998, pp. 53) segnala che il processo attraverso cui la fiducia si estende e si generalizza a livello
interpersonale e istituzionale sembrerebbe non aver ancora trovato un inquadramento teorico soddisfacente.
42
«L’aspettativa fiduciaria sostituisce, dunque, l’incertezza con un livello di “certezza” e di rassicurazione interna che
varia secondo il grado di fiducia concessa. Essa rappresenta, comunque, un investimento cognitivo più elevato della
semplice speranza. In caso di errore incappa, perciò, in conseguenze più gravi» [Mutti, 1998, pp. 45]. Inoltre, a
seconda del grado di intensità della fiducia si parla di “aver fiducia” oppure di “confidare” (azione che presenta un
maggior grado di incertezza degli eventi) [Mutti, 1998, pp. 43].
43
Mutti (1998, pp. 35) concentra l’attenzione sul fatto che «Disposizioni socialmente positive possono non riuscire a
conseguire, senza l’ausilio di altri accorgimenti sociali, il coordinamento e la collaborazione effettivi, come risulta dal
famoso esempio della telefonata interrotta: nel caso in cui si debba riprendere una telefonata interrotta, infatti, la
cooperazione può fallire, e la comunicazione non essere ripresa, anche se gli individui sono entrambi altruisti perché
finiscono per bloccare la linea con i loro tentativi incrociati».
44
In particolare, a seconda del destinatario delle aspettative fiduciarie si può parlare di fiducia personale (o
interpersonale) o di fiducia sistemica (o istituzionale). Per Mutti (1998, pp. 38, 40) la fiducia personale può essere
definita come «l’aspettativa che Alter non manipolerà la comunicazione o che fornirà una rappresentazione
autentica, non parziale, né mendace, del proprio comportamento di ruolo e della propria identità». Viceversa, «i
contenuti della fiducia sistemica o istituzionale vengono generalmente definiti come aspettative di stabilità di un dato
ordine naturale e sociale, di riconferma, dunque, del funzionamento delle sue regole».
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Si ritiene di interesse rilevare come le organizzazioni sociali non valorizzino necessariamente il capitale sociale.
Come nota giustamente Sabatini (2004, pp. 19) «La società civile non è composta soltanto da associazioni volontarie
senza scopo di lucro, ma anche da gruppi di pressione politica che si costituiscono per migliorare le rendite di
posizione dei loro membri, oppure per colpire gli interessi di gruppi antagonisti per motivi economici, sociali, etnici o
religiosi. Per esempio, la mafia e il Ku Klux Clan sono organizzazioni perfettamente compatibili con le definizioni di
capitale sociale finora adottate, ma di certo non contribuiscono al miglioramento del benessere collettivo e allo
sviluppo economico e sociale».
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47 Per chiarire cosa intenda per organizzazione sociale appropriabile, Coleman (1990, pp. 400) propone il seguente
esempio: «In un quartiere di case popolari costruite durante la seconda guerra mondiale in una città degli Stati Uniti
orientali, vi erano molti problemi, poiché il quartiere non era stato edificato al meglio: le tubature perdevano, i
marciapiedi si sgretolavano, e vi erano molti altri inconvenienti. Gli inquilini si organizzavano per aprire un confronto
con i costruttori, e in generale per affrontare questi problemi. Successivamente, quando questi furono risolti,
l’organizzazione degli inquilini rimase attiva e costituì così del capitale sociale che migliorava la qualità della vita nel
quartiere. Gli inquilini avevano a loro disposizione risorse che non esistevano dove vivevano prima».
Il Presidential Address del 1992 alla American Sociological Association intitolato, in modo molto esplicito, «The
rational reconstruction of society» è citato in Cella (2006, pp. 319) e Bagnasco (2002, pp. 297).
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In relazione al primordial social organization, Bagnasco (2002, p. 298) osserva come «L’aggettivo usato per
definire queste vecchie forme di organizzazione sociale e di capitale sociale è primordial, un termine che introduce
una suggestiva ambiguità, sulla quale Coleman gioca, e della quale qualche volta forse resta prigioniero. Primordial
significa infatti «existing at the beginning», ma anche «elementary » o «fundamental», «primary» (v. Webster’s new
international Dictionary). Nel primo significato, il riferimento al capitale sociale è univoco, si riferisce al capitale
sociale proprio di quelle comunità tradizionali, il solo capitale sociale esistente in quella forma di organizzazione
sociale. Negli altri significati, l’aggettivo individua quella forma originaria come un tipo di capitale sociale, di cui si
riconosce l’importanza decisiva anche per successive forme di organizzazione sociale».
49
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Bagnasco nota come le problematicità del passaggio dalla società tradizionale alla società moderna sia un tema
importante per la sociologia (2002, pp. 274): «Da questo da questo punto di vista, che il capitale sociale tipico
appartiene propriamente alla gesellschaft. La questione posta da Coleman – come rimpiazzare il primordial social
capital – riprende però un tema originario della sociologia, espresso in molti modi: la sociologia classica si poneva il
problema di cosa si perdesse nel passaggio dalla società tradizionale alla società moderna. Da questo punto di vista,
il concetto di capitale sociale si scopre anche imparentato a distanza con i vecchi temi della gemeinschaft».
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«Ciò a cui mi riferisco è il fatto che l’organizzazione, in quanto gerarchia, è costituita da una scala di posizioni
sociali ai cui gradini corrispondono altrettante misure di considerazione. Salire lungo questa scala non è indifferente
per gli individui: spesso è una ricompensa che contribuisce ad orientarne l’attività (chi entra ai livelli più bassi ad
esempio in un’università, può aspirare ad arrivare un giorno ai gradini più alti; questo stimolo non è senza importanza
per il funzionamento di quel sistema)» (La Valle, 2002, pp. 323).
51
Si ritiene interessante richiamare sommariamente i risultati di una ricerca sulla partecipazione nelle organizzazioni
volontarie in Lombardia finalizzata ad approfondire proprio il rapporto tra partecipazione degli individui alle
organizzazioni e capitale sociale. Diani (2000) adotta l’idea della natura relazionale del capitale sociale e parte
dall’assunto che ogni tipo di relazione può in linea di principio operare come capitale sociale, per dimostrare come
non tutte le relazioni, in realtà, siano adatte a qualsiasi tipo di scopo.
52
Per Coleman, «Come le altre forme di capitale, il capitale sociale è produttivo, e rende quindi possibile il
conseguimento di obiettivi che altrimenti non sarebbero raggiungibili. Come il capitale fisico e il capitale umano, il
capitale sociale non è completamente fungibile, ma lo è rispetto a determinate attività» (Coleman, 1990, p. 388).
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In particolare, Trigilia (2005, pp. XXI) evidenzia come Coleman parta dall’assunto che come effetto degli scambi e
dei trasferimenti di controllo si siano formate strutture sociali relativamente stabili che rappresentano delle risorse per
gli individui: relazioni sociali fiduciarie, relazioni di autorità, norme efficaci, organizzazioni.
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Y = A F (BM(K, H), L) dove l’output (Y) è funzione della quantità di lavoro (L) e di un indice composto di capitale
che include sia il capitale fisico che il capitale umano (K e H) e A è il fattore di scala della funzione di produzione
L’indice composito di capitale è BM (K, H) dove B è un fattore di scala e M è una funzione crescente di K e H. In
particolare, secondo la formulazione di Dasgupta, B cattura le esternalità delle relazioni sociali.
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Y = Af (L,K, S), dove A è il fattore di scala della funzione di produzione, L è la quantità di lavoro, K è la quantità di
capitale fisico e S è la quantità di capitale sociale].
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Al riguardo si segnala come Solow (2000, pp. 6, 7) abbia osservato il termine capitale sia poco appropriato per il
capitale sociale, soprattutto in considerazione del fatto che non è possibile stabilire un’analogia con il capitale fisico.
Infatti, mentre il capitale fisico al tempo t (Kt) può essere misurato sommando il capitale fisico del periodo precedente
(Kt-1) agli investimenti passati (I) al netto del deprezzamento (δKt-1) [Kt = Kt-1 + I - δ Kt-1], la stessa formulazione
non può essere applicata al capitale sociale in quanto non è chiaro né quali siano gli investimenti passati e il capitale
sociale del periodo precedente, né come si possano misurare.
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