Scienziati, filosofi e giuristi critici delle biotecnologie al secondo congresso del Consiglio dei diritti genetici Brevetti sui geni, la parola ai ricercatori contro Sabina Morandi Quello che è successo lo scorso fine settimana a due passi da Firenze, in quel di Lastra a Signa, per il nostro paese è una novità assoluta: ricercatori, filosofi e giuristi di fama, accomunati da una visione più o meno critica delle biotecnologie, si sono riuniti per confrontare le proprie esperienze, analizzare il problema e proporre alternative. Mentre, per ovvi motivi, i convegni dei fautori del biotech si moltiplicano, è molto difficile mettere insieme personaggi del calibro di Barry Commoner il grande vecchio dell'ecologia più radicale - insieme a Stefano Rodotà o al ministro Gianni Alemanno. C'è riuscito il Consiglio dei diritti genetici al suo secondo congresso internazionale, dedicato quest'anno a "Determinismo e riduzionismo nella scienza, brevettabilità della materia vivente, governance dell'innovazione tecnologica", una scelta dettata dall'urgenza di affrontare il problema alla radice con l'aiuto di chi con i geni ci lavora, perché è venuto il momento, come dice il presidente del Cdg Mario Capanna, di «dimostrare che il superbo edificio biotecnologico, ben lungi dall'avere fondamenta granitiche, poggia al contrario su una base fragile, in larga misura fuorviante in quanto distorcente la realtà». Se si vogliono fare discorsi concreti, non si può parlare di governance dell'innovazione senza parlare del lavoro effettivo della scienza ovvero della privatizzazione della ricerca che passa attraverso la brevettazione di frammenti del Dna (i geni) e delle tecnologie necessarie per investigarlo. Ma parlare di brevetti significa chiamare in causa la possibilità di ridurre la complessità ai più piccoli elementi che, secondo il dogma della genetica, costituiscono il "software" della vita. Una visione semplicistica smentita dalle più recenti scoperte ma che continua ad avere enorme presa perché, come ha sostenuto Marcello Cini «quando la conoscenza viene privatizzata per trasformarla in profitto, la definizione dell'unità di misura diventa un argomento essenziale. Si può dire in sostanza che il riduzionismo epistemologico sia una premessa per l'affermarsi del mercato». Fa una certa impressione sentire un autorevole fisico come Cini richiamarsi all'etica degli hacker - quelli che i giornalisti nostrani chiamano i pirati dell'informatica - per rilanciare la deontologia della ricerca e superare la crisi provocata dalla frenesia brevettuale. Eppure, ben più degli scienziati azionisti, con le loro "open source" e la battaglia per il software libero, sembra che a difendere l'antico ethos scientifico della condivisione della conoscenza siano rimasti solo gli hacker. Della disgregazione dell'ethos scientifico parla anche Barry Commoner, tracciando la storia della scoperta del dna e del progressivo irrigidirsi del dogma della genetica che è andata di pari passo con l'irruzione del capitale speculativo nella scienza. Un dogma, come sottolinea il biologo Gianni Tamino, che non rende affatto conto della complessità della vita perché «un gene svolge una funzione all'interno di un contesto e la sua replicazione dipende dalla macchina cellulare, dalla cooperazione di questa con l'organismo e dall'interazione con l'ambiente circostante». Tanto è vero che, per quanto i media insistano a trattare il dna come l'essenza ultima e a promettere cure miracolose sulla base di geni fantasmi - l'ultimo in ordine d'apparizione il gene che allunga la vita «dal punto di vista delle caratteristiche chimiche un organismo vivo e uno appena morto sono identici» conclude Tamino «malgrado l'evidente differenza che talvolta i biologi mancano di cogliere». Quali siano le conseguenze dell'infausto matrimonio fra mercato e genomania quando, dai brevetti sui geni vegetali si passa a quelli umani, lo spiega molto bene Paolo Vineis, epidemiologo esperto di test genetici. E' nella malattia, infatti, che la complessità dell'interazione fra patrimonio genetico e condizioni ambientali diventa più sfuggente vanificando qualsiasi tentativo di prevedere su larga scala l'andamento delle patologie. Con un'accurata disamina delle ultime trovate commerciali - il test per individuare la predisposizione al cancro al seno, soltanto per citare il caso più clamoroso - Vineis dimostra che, dal punto di vista epidemiologico ha molto più senso occuparsi delle influenze ambientali, e quindi di prevenzione, piuttosto che proporre «costosi screening di massa statisticamente privi di senso ed eticamente inaccettabili, che aiutano soltanto le ditte produttrici a vendere i loro kit». Così, mentre i test genetici vengono spinti a tutti i livelli «come in Gran Bretagna, dove i medici di base sono riforniti direttamente dalle industrie e la medicina del lavoro quasi non esiste più, i programmi di prevenzione arretrano praticamente ovunque». Il paradigma riduzionista - o determinista che dir si voglia - è dunque in crisi, ma non certo come metodo. Se mai, ricorda Elena Gagliasso Luoni, filosofa della scienza alla Sapienza di Roma, «il riduzionismo non può più essere considerato un quadro di riferimento ideale». Anche i suoi critici più radicali condividono infatti la pratica dell'utilizzo degli strumenti riduzionisti e, viceversa, anche i sostenitori più accesi della genomania sono stati costretti a piegarsi alle conclusioni emerse dal più faraonico dei progetti riduzionisti, quella mappatura del dna umano che avrebbe dovuto fare luce sul segreto della vita e invece ha dimostrato che nella complessa dinamica della vita i geni sono soltanto una delle componenti, e nemmeno la più importante. «Il riduzionismo ha fatto fuori il riduzionismo» sottolinea Gagliasso Luoni citando Fox Keller, ma non per questo i ricercatori aspettano l'avvento di un mitico paradigma della complessità come negli anni Novanta. Se mai «si è forse imparato a fare a meno della teoria ultima. Il rovesciamento di paradigma non c'è stato e anche se la conflittualità è molto forte le critiche si sono articolate nei diversi modi di fare ricerca che utilizzano strumenti riduzionisti senza condividerne l'impostazione di fondo come fanno invece i riduzionisti forti, forse in minoranza ma con alle spalle la potenza del mercato». Di nuovo mercato e di nuovo brevetti, dunque, sempre più pervasivi a fronte di una ricerca abbandonata a se stessa dai governi e quindi costretta a battere cassa a destra e a manca. Ma i brevetti si sono rivelati un boomerang: efficiente strumento di arricchimento nel gioco di borsa, hanno perso ogni collegamento con il prodotto e quindi il successo commerciale non premia affatto l'invenzione migliore, come prescritto dai sacri testi liberisti. Al contrario prevalgono i brevetti di sbarramento, una sorta di monopoli della conoscenza che bloccano la ricerca invece di alimentarla. Ma come uscire da questa sorta di paralisi brevettuale? Due sono le proposte lanciate durate il Congresso. La prima, illustrata da Stefano Masini, giurista del Comitato scientifico del Cdg, mira alla stesura di un manifesto interdisciplinare della comunità delle scienze per ottenere la revisione delle direttive europee sulla brevettabilità del vivente. La seconda proposta l'ha lanciata Marcello Buiatti, genetista dell'Università di Firenze: perché non brevettare le invenzioni dei ricercatori in campo biologico e agricolo, per poi concederne la licenza senza il pagamento di royalties? «Proporremo al ministero delle Politiche agricole e forestali di costituire una "open source", un'organizzazione no profit che brevetti invenzioni in campo biologico e agricolo mettendole poi a disposizione della comunità scientifica». L'iniziativa, alla quale potrebbe partecipare una rete di regioni, permetterebbe di utilizzare i brevetti senza pagare diritti e sarebbe inoltre un ottimo strumento, secondo Buiatti «per proteggere la biodiversità da atti di biopirateria vegetale: basterà infatti brevettare le varietà autoctone e dare la licenza alle comunità locali che le coltivano da anni, per evitare che altri possano acquisirne il monopolio».