1939-1943. Jugoslavia « neutrale », Jugoslavia occupata

Italia contemporanea », marzo 1980, n. 138
Note e discussioni
1939-1943. Jugoslavia « neutrale », Jugoslavia occupata
Lo notava Ernesto Ragionieri a proposito di tante reticenze sul ruolo svolto
dall’Italia fascista nella penisola balcanica durante la seconda guerra mondia­
le 1: c’è stata anche un’ombra di cattiva coscienza collettiva nel ritardo con
cui la nostra storiografia si è rivolta non si dice al vicino stato jugoslavo qual è,
qual è nato e si è sviluppato ed è cambiato, ma agli stessi rapporti italojugoslavi pur così rilevanti nella politica estera (ma anche interna) del nostro
paese. A fronte di contributi parziali o indiretti2, di quelli di Collotti contrassegnati da un’acuta e documentata interpretazione degli imperialismi nazista
e fascista nel settore3, o di quelli per così dire di « fondazione » di Valiani4,
prevale piuttosto la regola del silenzio e di una più generale arretratezza di studi.
Per più motivi, ora, il libro di Alfredo Breccia5 rappresenta un punto d’arrivo sul
versante della storiografia diplomatica: con alcune aperture di metodo e di inter­
pretazione che convivono, ci pare, con contraddizioni di fondo.
L’attenzione è rivolta ad un’area calda dei rapporti internazionali quale fu l’Europa
danubiano-balcanica tra le due guerre mondiali. E diciamo Europa danubiano-bal-
1
ernesto ragionieri , La storia politica e sociale in Storia d’Italia, voi. IV, t. 3, Dall’Unità
a oggi, Torino, Einaudi, 1976, p. 2306.
2
Un’analisi attenta dei rapporti italo-jugoslavi è nell’opera più generale di Gia m piero carocci, La politica estera dell’Italia fascista (1925-1928), Bari, Laterza, 1969. Un ruolo minore
tali rapporti assumono, ci sembra, nella parte dedicata alla politica estera fascista da De Felice
nella sua biografia di Mussolini (Renzo de fe lic e , Mussolini il duce. I, Gli anni del consenso 19291936, Torino, Einaudi, 1974. Ma si vedano le ammissioni fatte a pp. 337-38 sulle suggestioni
che ambienti nazionalisti e ultrafascisti esercitano sulla politica italiana verso la Jugoslavia).
Carattere ancora generale o indiretto hanno i pur utili lavori di Mario pacor (Confine orientale.
Questione nazionale e resistenza nel Friuli e Venezia Giulia, Milano, Feltrinelli, 1964 e Italia e
Balcani dal Risorgimento alla Resistenza, Milano, Feltrinelli, 1968). Nella precedente storiografia
diplomatica rimangono sempre valide le aperture introdotte da E. di nolfo , Mussolini e la politica
estera italiana 1919-1933, Padova, Cedam, 1960. Manca nella produzione italiana uno studio
complessivo sulla moderna Jugoslavia.
3
Enzo collotti, La politica dell’Italia nel settore danubiano-balcanico dal patto di Monaco
all’armistizio italiano in Enzo collotti-teodoro sala-giorgio vaccarino, L ’Italia nell’Europa
danubiana durante la seconda guerra mondiale, Milano, Quaderni de « Il movimento di libera­
zione in Italia», 1967; id e m , Penetrazione economica e disgregazione statale: premesse e conse­
guenze dell’aggressione nazista alla Jugoslavia in E. collotti-t . sala , Le potenze dell’Asse e la
Jugoslavia. Saggi e documenti 1941-1943, Milano, Feltrinelli, 1974.
4
Oltre alle relazioni presentate ai convegni internazionali e agli articoli in rivista v. in par­
ticolare leo valiani, La dissoluzione dell'Austria-Ungheria, Milano, Il Saggiatore, 1966.
5
Alfredo breccia , Jugoslavia 1939-1941. Diplomazia della neutralità, Milano, Giuflrè, 1978,
pp. 811, lire 18.000.
86 Teodoro Sala
canica perché il « caso » Jugoslavia è colto da Breccia nella complessità dei problemi
che investivano il settore, ma anche nel contesto della più ampia politica interna­
zionale.
L’autore si avvale di una documentazione spesso di prima mano (ed è merito non
secondario l’essere riusciti a consultarla: è il caso dei fondi del nostro ministero
degli Esteri o quello degli archivi storici di Belgrado) e di una letteratura ricchissime
che gli consentono di correggere anche in punti non marginali, come vedremo, la
ricostruzione compiuta da altri storici di solito stranieri.
Punto d’arrivo, dicevamo, della più agguerrita storiografia diplomatica italiana (e il
pensiero corre al lungo proficuo lavoro di Mario Toscano), per capacità di scavo e
rigore filologico nel confronto serrato con esperienze e acquisizioni che vengono
dal dibattito storiografico internazionale.
Dimentichiamo momentaneamente l’assunto del libro che sembra privilegiare un
modello teorico di « neutralità » ed esaminiamo piuttosto il filo reale della ricerca
e della ricostruzione.
Nella situazione irta di pericoli che lo stato jugoslavo deve affrontare all’inizio del
1939, due fatti emergono con chiarezza. Il ricambio, intanto, nel « protagonismo »
della classe di governo espressione del centralismo serbo, contestata, condizionata,
da sempre si può dire, dal separatismo/autonomismo croato. Al «protagonismo»
autoritario e filofascista di Stojadinovic si sostituisce (ma si tratta piuttosto di una
riappropriazione di responsabilità) l’intervento del principe reggente Paolo che rie­
sce più direttamente ad influire sulle grandi scelte di politica interna ed estera grazie
alla mediazione offerta dai duttili governi Cvetkovic: non ne smentisce la loro
funzione accentuatamente delegata, ci pare, nemmeno l’ingresso dei rappresentanti
del Partito contadino croato, con Macek alla testa, in seguito allo Sporazum del­
l’agosto 1939.
Questa ricomposizione interna al quadro politico-istituzionale presupporrebbe una
analisi approfondita dei reali rapporti di potere politici, ma anche economici domi­
nanti nella frastagliatissima società jugoslava. Centralismo amministrativo e centra­
lità della grande banca serba sono aspetti non secondari di questa composizione.
Le vicende stesse del movimento contadino croato (e delle punte radical-reazionarie
e terroriste dei frankisti-ustascia, fondate su basi non marginali di consenso) dovreb­
bero rinviare alla complessa storia agrario-sociale del paese (accanto a quella di
una classe operaia relativamente poco numerosa ma la cui combattività divenne
proverbiale). Per quasi un ventennio opera in Jugoslavia una riforma agraria le cui
disposizioni fondamentali, emanate nel febbraio 1919, recepite addirittura nella pri­
ma legge costituzionale del 1921, sopravvissute alla nuova fase costituzionale del
1931, ebbero effetti diversi e in parte dirompenti nelle varie regioni storiche. Stru­
mento di omogeneizzazione (e di dominio) nel tessuto plurinazionale, la riforma
agraria sviluppò conflittualità nuove in Croazia per la redistribuzione della pro­
prietà e per la penetrazione del capitale serbo, soprattutto durante la crisi gravissima
che investì le campagne tra il 1931 e il 1933. Diede forza crescente al partito con­
tadino e alla sua capacità di differenziazione, pressione e contrattazione nei con­
fronti del governo di Belgrado. Sono notazioni parzialissime, esterne all’analisi di
Breccia, che però vanno tenute presenti per una comprensione della crisi finale del
1941 che si compie sotto l’urto delle armate nazifasciste e con il concorso dell’influenza inglese sui circoli politico-militari serbi, ma è anche il risultato di esplosioni
interne ormai diffìcilmente controllabili da un quadro politico sclerotizzato.
L’altro fatto, ben più gravido di conseguenze, con cui lo stato jugoslavo deve fare
i conti, è rappresentato dalla pressione crescente ai suoi confini (e al suo interno)
1939-1943. Jugoslavia « neutrale » e Jugoslavia occupata
87
esercitata dalle potenze nazifasciste. È una presenza politica « fisica » dal momento
che la Germania è ormai a Vienna e a Praga e l’Italia a Tirana (ma l’Albania perde
la sua indipendenza anche per oggettive connivenze jugoslave).
Secondo Breccia, la politica della reggenza e del governo tenta di rielaborare una
tradizionale linea di neutralità con « un indirizzo ’tattico’ verso le potenze del­
l’Asse e ’strategico’ verso le democrazie occidentali» (p. 701). Per cui la Jugoslavia
punta in ultima analisi a schierarsi col blocco democratico ma utilizza sull’imme­
diato tutti gli accorgimenti politico-diplomatici a sua disposizione per districarsi
dall’abbraccio mortale di Roma e di Berlino.
Nell’atteggiamento tattico (a differenza di quanto era avvenuto con Stojadinovic
complessivamente favorevole alle potenze dell’Asse ma più orientato verso Roma)
prevale l’accostamento alla Germania. I dirigenti jugoslavi « fecero assegnamento
sull’interesse della Germania ad impedire che l’Italia portasse la guerra nel sud-est
europeo e su quello dell’Unione Sovietica ad opporsi, in qualche modo, agli intri­
ghi dell’Asse per soggiogare i Balcani » (pp. 342-43). Nel confronto, poi, con le
potenze nazifasciste, l’accorgimento e il tentativo inane di giocare l’una contro
l’altra Roma e Berlino sono una costante che arriva fino all’adesione della Jugo­
slavia al Patto tripartito nel marzo 1941 e sopravvive nella breve esperienza del
governo Simovic scaturito dal colpo di stato del 27 dello stesso mese.
Breccia segue con grande attenzione il gioco sottilissimo di una consumata diplo­
mazia che stende la sua rete da Belgrado alle grandi capitali e a Budapest, Sofia,
Bucarest, Atene, Ankara... E a Berlino soprattutto nel confronto con i dirigenti
nazisti : viene opportunamente corretta la lacuna di Hoptner6 sulla visita del mi­
nistro degli Esteri jugoslavo, Cincar-Markovic, in Germania alla fine di aprile del
1939, in un frangente decisivo qual è quello che precede la firma del Patto d’ac­
ciaio (p. 94, n. 23).
Il giusto peso assegnato all’azione del principe Paolo mette in rilievo la personalità,
e le capacità e i limiti politici, dell’uomo e fa giustizia definitiva, ci sembra, delle
accuse formulate, ad esempio da Stojadinovic, sulle mire dinastiche del reggente.
L’impressione complessiva che se ne trae, comunque, è quella di trovarci di fronte
ad una diplomazia di vecchio tipo, ottocentesca quasi, impari e succube (ma questa
è interpretazione più nostra che dell’autore) di fronte ai rapporti di forze dominati
dalla presenza politica, economica e militare degli stati totalitari.
Le aperture più rilevanti nell’analisi di Breccia — con un uso delle fonti che non
privilegia soltanto quelle diplomatiche classiche — consistono soprattutto nel rilievo
che viene giustamente assegnato alla molteplicità di strumenti di cui la Germania
nazista si serve per assoggettare lo stato jugoslavo specialmente per quanto riguarda
la penetrazione e il dominio economico. Il tempismo stesso con cui Hitler inter­
viene alla fine del 1940 per imporre l’adesione della Jugoslavia al Patto tripartito
e la rapidità con cui imposta nel marzo 1941 l’operazione «Castigo», in seguito
al colpo di stato che mette in pericolo non solo l’acquisita adesione al blocco nazi­
fascista ma gli stessi orientamenti di fondo della politica di Belgrado, dimostrano
quanto maturo fosse il processo di satellizzazione della Jugoslavia.
Per quanto concerne l’egemonia conquistata dalla Germania, Breccia coglie due
momenti fondamentali (frutto del resto di un processo di più lunga durata) in un
quadro dominato dalla volontà tedesca di utilizzare tutto il settore danubianobalcanico come la grande riserva di materie prime e di manodopera ai fini bellici
j .b . hoptner ,
Yugoslavia in Cristi, 1934-1941, New York-London, 1962.
88 Teodoro Sala
immediati, soprattutto per la guerra all’Est, e nelle prospettive di sistemazione del
Nuovo ordine europeo. Una politica che tendeva ad escludere l’ineluttabilità di un
intervento militare diretto per la motivata fiducia riposta negli altri strumenti propri
deH’imperialismo nazista: un equilibrio favorevolissimo a Berlino scosso prematu­
ramente dal frettoloso e avventuroso intervento dell’alleato-concorrente italiano in
Grecia.
La Germania, all’inizio del 1939, imposta in modo dilatorio la concessione di cre­
diti a Belgrado per la fornitura di materiale bellico: le trattative furono condizio­
nate sin dall’inizio dalla richiesta di aumento delle esportazioni di materie prime
verso la Germania e dell’adesione del governo jugoslavo al patto anti-Comintern
(pp. 31-32). Le trattative arrivarono in porto ai primi di luglio dello stesso anno:
« L’ammontare del credito fu, però, lasciato volutamente indeterminato da parte
delle autorità tedesche le quali intendevano conservare nelle proprie mani un’im­
portante leva che consentisse loro di continuare ad esercitare pressioni di ordine
politico e economico sulla Jugoslavia » (p. 152).
Con lo scoppio della guerra in Europa, la Jugoslavia corregge il senso della pro­
pria « neutralità » in senso economicamente favorevole alle potenze dell’Asse per
salvaguardare, secondo Breccia, « una ’neutralità politica’ orientata verso le demo­
crazie occidentali » (p. 198). Dall’accordo commerciale concluso all’inizio di ottobre
del 1939 a quello stipulato quasi esattamente un anno dopo tra Germania e Jugo­
slavia, i tedeschi conquistano praticamente « il monopolio delle esportazioni dei
prodotti jugoslavi » (p. 341). Il capitale tedesco fa passi da gigante nei vari settori
dell’economia (p. 203). Debellata la Francia, la totalità della produzione di rame
(miniere di Bor) tra il luglio e l’ottobre, passa dal controllo francese a quello tede­
sco (con altro grave smacco per gli interessi italiani) (pp. 335-340).
Breccia vuol sottolineare sempre l’inefficacia di ogni aiuto economico e militare da
parte occidentale nonché la prudenza strumentale dell’atteggiamento sovietico ac­
centuatasi dopo gli accordi stretti con la Germania. È severissima soprattutto la cri­
tica nei confronti della politica seguita dal governo inglese e dei suoi «egoismi».
La conclusione più volte ribadita dall’autore è che « Gli jugoslavi dovettero... pa­
gare la protezione tedesca dalla minaccia di un’aggressione italiana, riconoscendo
la completa dipendenza economica del loro paese dalle potenze dell’Asse. Questo
riconoscimento condizionò per l’avvenire l’indipendenza politica della Jugoslavia»
(p. 292, ma vedi anche quanto è detto a p. 198).
Va qui ripreso il giudizio complessivo che Breccia dà di quella « neutralità » jugo­
slava elevata a paradigma di una politica tesa a salvaguardare « l’indipendenza, la
sovranità, e Tintegrità » di un popolo. E ci sembra questo l’aspetto più contraddit­
torio di un lavoro che invece nell’analisi puntuale dei suoi vari capitoli dimostra
proprio che la « neutralità » vagheggiata dai governanti di Belgrado era ridotta al­
l’inizio del 1941 a un’ombra sbiadita o a vuota parola. Meno ci convincono le con­
siderazioni di Breccia sull’adesione al Patto tripartito vista come « Tunica soluzione
possibile, per quanto poco credibile potesse essere l’altra parte contraente » sull’os­
servanza delle garanzie, segrete o meno, offerte all’interno del Tripartito (p. 707).
È proprio vero che la politica del principe Paolo interpretava la volontà popolare
« senza tradirne i tradizionali sentimenti di amicizia verso le democrazie occidentali
e verso la Russia » (p. 709)?
Breccia insiste poco sul « diffuso malcontento della popolazione » per « le difficoltà
in cui si dibatteva il paese, conseguenza in gran parte dello stato di guerra in
Europa » (ibid.). E non ci viene spiegato quanto influiva sulla conflittualità sociale
e sugli schieramenti che si creano nel paese la consapevolezza più o meno diffusa
1939-1943. Jugoslavia « neutrale » e Jugoslavia occupata
89
del « dominio » economico esercitato dai tedeschi. L’autore insiste di più sulla fede
democratica e sul patriottismo dei serbi e sulla loro avversione all’accordo con i
croati unitamente al « desiderio di ristabilire la propria supremazia nella vita politica
jugoslava » (p. 573). Esplodono « manifestazioni di giubilo per il colpo di stato...
salutato con un profondo senso di adempimento morale e nazionale » (p. 585).
Ma, nelle reazioni che si scatenano nel paese contro l’adesione dei governanti
di Belgrado al Patto tripartito (e forse nella stessa contraddittoria azione del go­
verno Simovic uscito dal colpo di stato) Breccia sopravvaluta il ruolo esercitato
dalla propaganda, dagli emissari, dai circoli interni facenti capo all’iniziativa inglese.
Se l’intervento di Londra ci fu, e pesante, come è riconosciuto dalla storiografia
prevalente, è difficile accettare il giudizio schematico secondo cui « la Gran Breta­
gna volle sacrificare la Jugoslavia » per conseguire i suoi obiettivi (tra cui quello
di « ottenere l’effetto ’psicologico’ della ribellione eroica contro l’oppressione na­
zifascista »): « e se ciò non significò una ’catastrofe’ per il popolo britannico, lo fu,
invece per quello jugoslavo » (p. 580).
Eppure una gerarchia di responsabilità esiste: la catastrofe indubbiamente ci fu per
l’attacco selvaggio sferrato dalle potenze nazifasciste e dai loro minori alleati (Brec­
cia sottolinea la decisione di Hitler di «vendicarsi con spietata ferocia». Senza
che dichiarazione di guerra alcuna fosse stata consegnata, la mattina del 6 aprile
1941 l’aviazione tedesca bombardò Belgrado riducendola « ad un cumulo di macerie
e di morti » - p. 689), ma ci fu per la « neutrale » insipienza dei governanti di Bel­
grado (che si traduceva di fatto in un appoggio consistente alle potenze dell’Asse).
Ci fu per l’incapacità dei paesi balcanici (cioè diciamo : delle loro classi dirigenti)
di « organizzarsi per la difesa comune della loro indipendenza e integrità territo­
riale » (p. 194) e anche per errori e limiti della politica dei paesi occidentali e del­
l’Unione Sovietica.
Di fronte al tipo di « neutralità » voluta dai governanti di Belgrado e specialmente
dal principe reggente è difficile condividere l’astratta previsione che quella politica
avrebbe preservato la Jugoslavia dagli orrori della guerra: il prezzo, caso mai,
sarebbe stato quello di accettare un completo asservimento alle potenze nazifasciste
(come del resto è ancora una volta dimostrato non tanto da qualche conclusione
che Breccia trae, ma dalia ricerca articolata che egli conduce).
Allora una domanda ancora da parte nostra è d’obbligo : se diamo spazio ad un
nuovo elemento — alle condizioni politiche e sociali complessive del paese — è
ipotizzabile una pacifica accettazione di quell’asservimento dai popoli jugoslavi?
Breccia condivide l’ammirazione per il caro prezzo pagato dagli jugoslavi che « ave­
vano offerto un esempio eroico di ribellione al dominio nazifascista». Premette
però che « il sacrificio della Jugoslavia appariva, allora, inutile anche sul piano po­
litico. Essa finiva smembrata e in preda ad una guerra civile che doveva rendere
ancora più tragico il suo sacrificio. La vasta eco che questo aveva nel mondo dimo­
strava, però, che non era stato inutile, almeno sul piano morale» (pp. 713-14).
Quel che avviene dopo l’aprile 1941 sembra un capitolo di storia completamente
nuovo (e in un certo senso lo è): pure da quel sacrificio nasceva il protagonismo
della Jugoslavia contemporanea e le forze armate degli occupatori inchiodate per
quattro anni nelle città, nelle campagne, sui monti jugoslavi non avrebbero rappre­
sentato un fatto puramente morale.
Breccia non trascura evidentemente di prendere in considerazione l’incidenza che
l’aspirazione dei circoli politici e militari di Belgrado ad ottenere uno sbocco sul­
l’Egeo ebbe nella formulazione e nella articolazione della loro politica di « neutra­
lità » e di allineamento più o meno cauto alla Germania. Non pare convincente però
90 Teodoro Sala
la correzione che più volte egli tenta di opporre (pp. 705; 763) al giudizio espresso
da Collotti sul fatto che alla fine del 1940 il governo Cvetkovic « si gettò direttamente nelle braccia del Terzo Reich accecato da ambizioni espansionistiche ridestate
dall’aggressione italiana alla G recia» 7 Che 1’« accecamento » ci sia stato (ed è da
notare che il giudizio di Collotti è parte di un più ampio discorso) ci sembra dimo­
strato proprio dalia nota contenente le garanzie relative all’adesione della Jugoslavia
al Patto tripartito (25 marzo 1941). Essa non va letta isolatamente ma confrontan­
dola, ad esempio, con le reticenze di Cvetkovic nel dopoguerra (ma Breccia non ne
pare convinto: vedi p. 566, n. 159), con le sue polemiche nei confronti di altri
autori dell’emigrazione e, soprattutto, con le varie tappe in cui si snoda l’atteggia­
mento di Belgrado sulla questione di Salonicco. È molto difficile così definire « tat­
tica » e non « strategica » la scelta per lo sbocco all’Egeo che è piuttosto parte inte­
grante di quella concezione della «neutralità».
Il lavoro di Breccia va segnalato infine per la straordinaria acquisizione di materiale
documentario relativo alla posizione italiana. Il giudizio che se ne trae sull’aggressi­
vità fascista, velleitaria e operativa nello stesso tempo, riconferma sostanzialmente
conclusioni già note in sede storiografica. Ne esce molto più articolata l’analisi della
piena subordinazione politico-displomatica e militare in cui viene a trovarsi il go­
verno di Roma nella spinta concorrenziale con la Germania verso l'Europa sudorien­
tale. Di grande rilievo, in particolare, ci sembrano i documenti che gettano detta­
gliatamente luce sull’uso strumentale che l’Italia fece del separatismo ustascia nel
biennio, relativamente poco conosciuto, che va dal 1939 al 1941.
Vicino alla pubblicazione del libro di Breccia è uscito questo studio deH’Ufficio sto­
rico dello Stato maggiore dell’Esercito sulle operazioni in Jugoslavia tra il 1941 e il
1943 8. Cronologicamente, quindi, per quanto riguarda l’intervento italiano, esso do­
cumenta e ricostruisce eventi coevi e immediatamente successivi. Cominciano dun­
que le monografie « scottanti » in questa diseguale ma sempre utile collana dell’Uf­
ficio storico9. E purtroppo cominciano i dolori. Delle difficoltà che si profilano si
rende subito conto, in certo senso, il curatore Salvatore Loi, quando avverte nella
presentazione che le operazioni in Jugoslavia « ebbero caratteristiche che le differen­
ziano nettamente dai consimili avvenimenti degli altri scacchieri bellici ». Egli opta
per una distinzione cronoiogico-funzionale: la fase «dell’invasione» e quella del
« presidio dei territori occupati ».
Fatto è che sul « più difficile e tormentato fronte di guerra » (come ancora lo defi­
nisce il curatore) quel « presidio » mise le forze armate italiane (e diciamo meglio
e subito : gli alti comandi impegnati, tra l’altro, in una concorrenzialità gravida di
conseguenze con le autorità politiche, vuoi quelle nostrane di importazione nei ter­
ritori annessi, vuoi quelle del cosiddetto Stato indipendente croato di Pavelic) da­
vanti ad una dimensione « politica » insospettata. Quella che gli italiani si trovano
a dover combattere — concluso il brevissimo ciclo operativo dell’aprile 1941 —
non è una qualsiasi guerriglia di sabotatori o terroristi che si ritrasforma poi in
guerra classica: è una guerra sociale e nazionale al contempo che coinvolge masse
7
E. collctti, Penetrazione economica e disgregazione statale, cit., p. 21. Collotti analizza
compiutamente il significato che la Germania stessa attribuiva alla « neutralità » jugoslava.
8
u ffic io storico stato maggiore dell ’eser c ito , Le operazioni delle unità italiane in
Jugoslavia (1941-1943), Roma, 1978, pp. 510, lire 6.500.
9
Tra le più recenti ricordiamo per importanza: La prima controffensiva italo-tedesca in
Africa settentrionale (15 febbraio-18 novembre 1941), Roma, 1974; Le operazioni delle unità
italiane nel settembre-ottobre 1943, Roma, 1975; Le operazioni delle unità italiane al fronte russo
(1941-1943), Roma, 1977.
1939-1943. Jugoslavia « neutrale » e Jugoslavia occupata 91
enormi di uomini e donne d’ogni età ed estrazione. Di qui la differenza sostanziale
di quel fronte rispetto agli altri, di qui in sede storica la necessità, volenti o no­
lenti, più che in ogni altra occasione, di « prender partito » pur conservando ogni
« obiettiva » preoccupazione scientifica nel metodo e nella interpretazione.
Questo studio sulla campagna italiana in Jugoslavia è un’occasione mancata oltre
che un pessimo servizio reso alla nostra storiografia ufficiale militare. Occasione
mancata perché a quarant’anni quasi da quegli eventi non è più possibile tacere o
sottacere su ruolo e natura di quella guerra d’aggressione e di quella occupazione.
Pessimo servizio perché si è destinati a « perdere » se non si tiene conto di tante
collezioni di fonti ormai disponibili che « parlano » se opportunamente interrogate,
di tanta letteratura prodotta in un quarto di secolo almeno (se vogliamo posticipare
i termini della produzione storiografica per esigenze di maggiore «attendibilità»).
Fatto sta che pochi casi come quello della partecipazione italiana alla campagna di
Jugoslavia sollevano questioni di fondo: ogni malinteso senso di « onor militare»
mostra la corda; sono messi in discussione i principi stessi di « obbedienza militare »;
sono capovolti i concetti di «vittoria» e di «sconfitta». La scelta di metodo che
bisognerebbe compiere consiste in una radicale distinzione tra le responsabilità
degli alti comandi e i comportamenti reali di truppe e quadri intermedi.
Non si tratta di introdurre manichee opposizioni: anche nel caso degli alti comandi,
senza perdere il senso complessivo del loro operare, si tratta di capire impegni col­
lettivi e individuali, capacità e modi di risposta alla propria cultura politico-militare,
alla scala che si è accettata di valori morali, tecnici, di conduzione quotidiana della
macchina militare. Perché, poi, non dovremmo poter « distinguere » tra la ribellione
— e la morte dopo l’8 settembre proprio in Jugoslavia ad opera dei tedeschi — di
un generale Amico, o tra il rifiuto della domanda di grazia di un generale Bellomo
fucilato dagli inglesi, e la fuga di un Roatta che si sottrae nel 1945 al processo da­
vanti all’Alta Corte di giustizia attraverso le compiacenti, eternamente compiacenti,
uscite dell’ospedale romano del Celio?
E per il comportamento delle masse militari (ma anche qui biografie individuali e
di gruppo — come Nuto Revelli ci ha insegnato —- si intrecciano o si sovrappon­
gono) non si deve dimenticare il quadro contraddittorio di quella guerra fascista in
cui coesistono adesione e ripulsa o confuso senso di ribellione, rassegnazione e
punte di esasperato volontarismo (meno incidente ma ideologicamente più qualifi­
cato, senza dubbio, rispetto agli analoghi fenomeni della prima guerra mondiale).
Un quadro dominato dalla ventennale capacità di controllo sociale e di consenso
(e di « formazione »), penetrante e labile nello stesso tempo, esercitata dal regime.
Nel rapporto ineliminabile con le popolazioni civili che si crea durante trenta mesi
di occupazione in Jugoslavia esportiamo composizioni di classe e modelli di com­
portamento vecchi e nuovi stratificati nelle pieghe della società italiana. Esportiamo
violenza e fascismo e inevitabilmente riceviamo violenza mentre sopravvengono i
momenti di pausa in cui oppressori e oppressi paiono confondersi. E confrontiamo/
importiamo usi di vita diversi (ma anche sollecitazioni politiche) raccolti nel cuore
stesso dell’Europa dove, in definitiva, malgrado tante tragiche fratture, non pesano
indiscriminatamente differenze etniche, religiose, culturali.
La monografia che esaminiamo accetta un piano di valutazione « politica » e, per
quel che s’è detto, siamo gli ultimi a volercene lamentare soprattutto per quanto vi
è di più esplicitamente dichiarato. Tanto meno quindi ci esimiamo dall’entrare nel
merito di alcune interpretazioni.
Nei brevi Antecedenti politici e diplomatici (pp. 13-26), molto lacunosi, ci si dif­
fonde a scagionare ITtalia dalle responsabilità relative all’attentato di Marsiglia che
92 Teodoro Sala
costò la vita a re Alessandro di Jugoslavia (pp. 18-19). A riprova si cita la risolu­
zione della Società delle Nazioni che censurò il governo ungherese per 1’esistenza
sul suo territorio dei campi di addestramento ustascia da cui erano partiti gli atten­
tatori. Nel caso dei terroristi provenienti dai campi installati in Italia (dove fin dal
1929 risiedeva anche il capo degli ustascia, Pavelic), definita « più che altro simbo­
lica » la loro partecipazione all’attentato, si ipotizza che le « nostre massime auto­
rità politiche, a conoscenza del complotto, non lo impedirono, ma nemmeno lo so­
stennero direttamente ».
Ora è largamente risaputo che soltanto la prudenza diplomatica degli ambienti
societari impedì la condanna del governo italiano scaricando ogni responsabilità
(anche questa molto sfumata) su Budapest101. Quella che meno eufemistica­
mente non fu altro che complice connivenza italiana non si limita all’episodio ri­
cordato. Quando per il periodo dell’occupazione si parla dei casi relativi all’instau­
razione dello spietato potere ustascia in Croazia, delle stragi compiute ma an­
che degli scontri di competenze (di natura politica più generale) che ne derivarono
con le autorità militari italiane (pp. 125-27; 143-44; 168-169) si dimentica che
uomini di Pavelic — siamo sicuri di poterli definire « onesti idealisti » (p. 120)? —
e Pavelic stesso, arrivarono a Zagabria dall’Italia grazie all’apporto determinante
delle autorità politiche e militari italiane. Il governo del cosiddetto Stato indipen­
dente croato deluse le aspettative di Roma e ben presto cadde sotto la prevalente
influenza (politico-militare ed economica) del tanto più forte alleato-concorrente di
Berlino. Ma si sostenne pur sempre grazie all’aiuto italiano: e il governo fascista
seppe a sua volta sfruttare il satellite croato sia pur relativamente rispetto a quanto
seppero fare i tedeschi.
Il problema della presenza ustascia solleva poi una questione più generale sugli esiti
dell’aggressione e dello smembramento della Jugoslavia nonché sui sistemi di occu­
pazione instaurati dalle potenze nazifasciste : le lotte sanguinosissime nazionali e
religiose che si scatenarono nelle varie regioni furono una delle conseguenze proprio
dell’attacco e della presenza italiana e tedesca (e dei loro minori alleati ungherese e
bulgaro) e furono nello stesso tempo anche strumento di dominio a favore degli
occupatori. La nostra monografia cita, e fa benissimo a farlo, l’opera di soccorso
svolta nei confronti di greco-ortodossi e di ebrei (pp. 145-48). Non è possibile però
dimenticare non solo i risultati complessivi dell’opera di repressione in cui le nostre
truppe coinvolsero centinaia e centinaia di migliaia di persone (e su ciò torneremo)
ma anche il fatto che il comandante della 2a armata, Roatta, sostenendo e utiliz­
zando le truppe collaborazioniste (cetniche in questo caso) contro i partigiani di
Tito, esprimeva bene una delle direttive di fondo della sua azione (e del governo di
Roma) : « Lasciare che operino contro i comunisti per conto proprio (’si sgozzino
fra di loro’) »n.
L’opera umanitaria compiuta da truppe e quadri intermedi passa attraverso le fes­
sure lasciate aperte da quell’« agnosticismo tassativamente prescritto dalle autorità
politiche » (p. 144) centrali che malamente nascondeva il tentativo di porsi in ter­
mine di concorrenza nei confronti di tedeschi ed ustascia. Con atteggiamenti magari
contraddittori rispetto all’antisemitismo divenuto parte integrante degli ordinamenti
dello stato fascista o di quel razzismo pasticcione e violento che pure è manifesta­
zione non equivoca della politica adottata dal regime nei confronti, ad esempio,
degli sloveni e dei croati inseriti dopo la prima guerra mondiale nell’ambito dello
pompeo aloisi , Journal, 25 Juillet 1932-14 Juin J936, Paris, 1957.
11
Comando 2a armata, n. 3720 Cetnici, dd. 6/3/1942, da National Archives Washington,
Records of the Italian Armed Forces (più avanti cit. NAW), T-821/53 (1062-68).
10
1939-1943. Jugoslavia « neutrale » e Jugoslavia occupata 93
stato italiano e che si dispiega ancora nelle nuove terre annesse con una miriade di
altri provvedimenti. Ricordiamo soltanto l’introduzione della lingua italiana o delle
organizzazioni di massa del regime nelle « province »: Lubiana, Spalato, Cattaro.
In quella di Lubiana in particolare il rapporto colonizzazione-razzismo è la vera
sostanza di un «ordinamento autonomo» (RDL n. 291 del 3 maggio 1941) che si
volle adottare anche in concorrenza con la politica di germanizzazione forzata inau­
gurata nella parte di Slovenia annessa dai tedeschi. Se si vogliono ricercare le fonti
rimandiamo al « Bollettino Ufficiale-Sluzbeni list » che si stampa bilingue a Lu­
biana dal 28 aprile 1941 o al « Giornale Ufficiale del Governo della DalmaziaSluzbeni list dalmatinskog namjesnistva » che esce nella stessa forma a Zara a par­
tire dal 15 luglio 1941.
Questo delle fonti è un altro aspetto sconcertante della monografia: ammessa la la­
cunosità dei fondi conservati a Roma, è possibile che non si sia pensato di utilizzare
il materiale raccolto nei microfilms della Collection of Italian Military Records dei
National Archives di Washington? I circa seimila fascicoli di documenti — molti
dei quali interessano proprio i vari aspetti dell’occupazione italiana in Jugoslavia —
catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, caduti in mano alla Settima armata
americana nell’aprile 1945 e trasferiti negli Stati Uniti nel 1946, furono restituiti nel
1967 al governo italiano12.
Per non parlare delle collezioni di fonti pubblicate in Jugoslavia prima fra tutte la
monumentale Zbornik dokumenata (Beograd, 1949 e sgg.) di cui abbreviamo il titolo
e dove il tomo XIII riguarda in particolare la documentazione di parte italiana.
Ad esso si aggiunge il primo volume della nuova serie Aprilski rat. 1941 (Beograd,
1969) utilmente consultabile per i precedenti dell’aggressione alla Jugoslavia. Di
queste collezioni la monografia dell’Ufficio storico fa un uso estremamente parco. Ma
10 ripetiamo: un semplice più ampio ricorso alla sola documentazione italiana
avrebbe portato a risultati diversi (a condizione naturalmente di volerle « leggere »
quelle carte).
Soffermiamoci su alcuni aspetti più propriamente militari così come vengono affron­
tati nelle pagine del libro.
La campagna d’aprile intanto: appare un’impresa francamente disperata quella di
voler dimostrare che fu « l’esercito italiano a vincere quella guerra » (p. 138) e che
11 suo intervento non fu «marginale» (pp. 134-35). Il peso politico-militare dell’ag­
gressione italiana giocò indubbiamente moltissimo ai fini della disgregazione della
compagine statale jugoslava, malgrado i timori di Mussolini per gli eventuali riflessi
sul fronte greco-albanese e per il ripetersi di « insuccessi » paragonabili a quelli del­
l’inverno 1940-41 (in un telegramma a Roatta del 5 aprile Mussolini minacciava:
« Chiunque, ufficiale, graduato o soldato ripieghi senza ordini da una posizione che
doveva essere difesa ad oltranza, sarà passato immediatamente per le armi » )13.
Quello che però conta sono l’iniziativa e il risultato complessivo che giocano tutti
a favore della macchina di guerra messa in moto dalla Germania per sciogliere de­
finitivamente il nodo balcanico aggrovigliato dall’incauto passo italiano contro la
Grecia nell’autunno 1940. L’intervento italiano dovette ricorrere a « quell’arte dei
ripieghi » citata in una relazione dell’allora comandante della 2a armata, Ambrosio,
ampiamente riportata nella monografia (pp. 137-38). Arte del ripiego che conclu­
12
V. howard MCGAW Sm y t h , Gli archivi civili e militari italiani conservati in microfilm a
Washington in «Storia contemporanea», 1972, fase. IV, pp. 969-87.
13
Tele Mussolini a Roatta n. 7906 dd. 5/4/41, NAW, T-821/127 (869); v. anche A. Breccia,
Jugoslavia 1939-1941, cit., p. 684, n. 162.
94 Teodoro Sala
deva una lunga vicenda politico-diplomatica e militare: se soltanto ci fosse stata
offerta la storia interna dei piani operativi approntati dagli alti comandi a Roma,
a partire almeno dal 1939 per arrivare a quella Esigenza E che in edizione ridotta
costituì la base per le operazioni italiane dell’aprile H, potremmo capire meglio quel
che pure risulta in modo schematico dalla documentazione disponibile. E cioè che
un intervento italiano fu concepito sempre : a) nella previsione di un concorso più
o meno determinante di altri eserciti (tedesco in primo luogo ma anche di quelli
ungherese e bulgaro); b) in attesa di « una situazione interna decisamente a noi
favorevole (moti croati, macedoni, ecc.) » 145. Si trattava insomma di una visione in
partenza limitata e subalterna (non per questo meno « utile » rispetto ai fini che
la politica fascista si proponeva) sostenibile forse nel quadro di un conflitto « breve »
e « localizzato » non nell’economia di una guerra « lunga » che da europea si av­
viava a divenire mondiale. Quando, cioè, non era più possibile quell’abuso, di cui
parla Rochat, di uno strumento militare adatto precedentemente a « sfruttare le
occasioni favorevoli con una politica di rapina » 16.
Nel caso dell’intervento nell’aprile 1941 (tanto condizionato dall’iniziativa politica
e militare tedesca e dal logoramento subito dalla macchina bellica italiana sui vari
fronti ma specialmente su quello greco-albanese) le direttive per la 2“ armata ema­
nate alla vigilia dell’attacco, parlavano chiaro su quello che era concepito inizial­
mente come un concorso italiano: 1’« azione offensiva... si inizierà al più presto pos­
sibile comunque non prima che si sia fatta sentire l’azione delle truppe germaniche
sul tergo dello schieramento jugoslavo » 17.
Senza contare che in quelle circostanze veniva meglio alla luce il vuoto pauroso di
preparazione con cui era stata arrischiata l’entrata in guerra dell’Italia, nella spe­
ranza di un rapido facile bottino : e da questo punto di vista reticenze, omissioni,
cauti disimpegni dei vertici militari non fanno che denunciarne le responsabilità
primarie. Alla vigilia della campagna contro la Jugoslavia, poche ore prima che la
Germania imponesse le sue scelte di guerra, una nota dello Stato maggiore gene­
rale, che tendeva a far rinviare l’attacco alla Jugoslavia per dare la precedenza alla
«liquidazione della questione greca», prevedeva «un grave insuccesso militare es­
senzialmente perché dopo due tre giorni le nostre truppe non avrebbero più muni­
zioni». Si temeva addirittura «la distruzione dell’esercito italiano che non potrebbe
rappresentare più niente per l’ulteriore condotta della guerra »18 Perplessità così
gravi scompaiono in un lasso di tempo brevissimo di fronte agli ordini di Mussolini
che è costretto ad adeguarsi ai piani predisposti dall’alleato di Berlino. E ci si affida
allo « stellone » cioè all’arte dei ripieghi : il prezzo pagato è appunto quello della
piena dipendenza dalla Germania nazista in tutta l’Europa sudorientale non solo
14
L’Esigenza o Emergenza E è il piano operativo contro la Jugoslavia messo a punto nel
luglio 1940, quando i vertici politici e militari italiani, nella definizione immediata de­
gli obiettivi di guerra (la « guerra parallela »), prendono in considerazione la concreta possi­
bilità di intervenire nei Balcani. 11 piano operativo nasce sulla scorta di studi precedenti, il più
importante dei quali sembra essere il cosiddetto piano PR 12, ipotesi EJ, della fine del 1939.
L’illustrazione più organica conosciuta dell’Esigenza E in Promemoria n. 154, Everttuaii opera­
zioni contro la Jugoslavia steso da Boatta il 15 luglio 1940 (NAW, T-821/126 (784-91); v. anche
Breccia, Jugoslavia 1939-1941, cit., pp. 311 n. 30; 314 n. 37; 319 n. 45; 323 n. 54; 339 n. 79.
15
Queste due condizioni erano contenute nel piano della fine del 1939 e vengono significati­
vamente richiamate nel citato promemoria di Roatta (da cui sono tratte le parole testuali che
riportiamo).
16
Giorgio rochat , Il ruolo delle forze armate nel regime fascista: conclusioni provvisorie e
ipotesi di lavoro in «Rivista di storia contemporanea», 1972, n. 2, pp. 188-199.
17
V. il documento n. 2 dell’Appendice a p. 286 sotto: 111. Azione offensiva.
11
Comando supremo, Stato maggiore generale, OP/3, Situazione militare alle frontiere giulia
e albanese, dd. 28/3/1941, NAW, T-821/128 (251-54). La nota segna: «ore 12». Un appunto
1S39-1943. Jugoslavia « neutrale » e Jugoslavia occupata
95
sul piano politico-diplomatico ma anche su quello militare, così come è ampiamente
documentato nei suoi immediati precedenti dal libro di Breccia.
Dire poi che, nei limiti di quella strategia, la rapida « corsa », ad esempio, per
stabilire il controllo sulla costa adriatica rappresentò un « successo », è un altro
discorso. Senza dimenticare, però, anche in questo caso, che esisteva a priori una
concessione « politica » definita da Hitler in persona per ottenere un sollecito coin­
volgimento italiano nell’aggressione alla Jugoslavia 19. Come è un altro discorso rico­
noscere che scontro grosso e duro ci fu in quella breve campagna soprattutto sul
delicatissimo fronte jugoslavo-albanese. Ammettere i limiti dell’intervento italiano
nulla dovrebbe togliere, tra l’altro, all’apprezzamento del sacrificio di tanti uomini
che ancora una volta pagavano il peso di una guerra ingiusta e assurda.
Si cade nel ridicolo quando si esalta la « geniale iniziativa, configurabile in un
autentico colpo di mano » assunta da quel « distinto signore » che rispondeva al no­
me di Roatta il quale tutto solo, in pieno territorio nemico, precede la puntata dell’ll° bersaglieri per la conquista di Lubiana (p. 59). Che dire poi della riesuma­
zione, in quelle circostanze, del mito del «re soldato»? L’« anziano monarca» Vit­
torio Emanuele in puro stile fantaccino, incontra nel loro itinerario le truppe:
malgrado gli ordini vietassero « perfino il saluto », i soldati ugualmente « manife­
stavano al sovrano il loro entusiasmo ». E le infrazioni « rimasero tutte natural­
mente impunite » (p. 62).
Sempre sul piano militare, la rivendicazione, dura a morire, della vittoria ad ogni
costo stravolge senso, tattica e risultati della guerra partigiana che sin dall’estate
l’esercito italiano si trovò a dover affrontare. E si trattò preliminarmente di una
vera e propria grande operazione di polizia: a questo proposito perché non citare
i cosiddetti « giornali di trincea » e i numerosissimi documenti di parte militare che
chiariscono eloquentemente le preoccupazioni politiche degli alti comandi di fronte
allo scoperto e al logoramento fisico e psicologico dei soldati coinvolti in una guerra
tanto diversa ed estranea a tutti gli schemi classici?
La tattica messa in atto dai partigiani capovolge il senso di « vittoria » e « scon­
fitta » : l’abbiamo già ricordato. Veramente vogliamo considerare in termini generali
come un « insuccesso » l’attacco rapido, lo sganciamento, il rifiuto della battaglia
in campo aperto?
Tralasciamo i mille episodi dei vari cicli operativi che impegnano centinaia di mi­
gliaia di nostri soldati « inchiodati » (come troppo tardi, nel maggio 1943, ricono­
sceranno gli stessi alti comandi) in Slovenia, in Croazia, in Bosnia, nel Montene­
gro... Pochi i riconoscimenti in questa monografia per lo meno delle difficoltà se
non dei rovesci in cui tante volte incappò l’esercito italiano (pp. 2 0 1 ; 2 1 0 ; 216;
240-41): tutto affoga piuttosto in conclusioni consolatorie del tipo: « Le unità della
2 “ armata controllarono con sicurezza il territorio soggetto alla loro giurisdizione,
dall’aprile 1941 fino al settembre 1943 » (p. 220).
Due episodi, rilevanti nell’economia complessiva della guerra di liberazione jugo­
slava, meritano di essere citati per la chiusura interpretativa presente nello studio
dell’Ufficio storico. E ancora un’osservazione sull’uso di fonti e letteratura : possiamo
limitarci a valorizzare ancora le vecchie testimonianze di Roatta e Clissold e poche
più recenti opere? Quanto è utile la polemica con altri singoli autori quali la Auty
e Deakin sulla base di qualche sparsa citazione?
a mano aggiunge successivamente : « Non più presentato perché a sera (ore 20) conosciute de­
cisioni adottate. »
19
a . breccia , Jugoslavia 1939-1941, cit., p. 598.
96 Teodoro Sala
Di fronte agli esiti della notissima battaglia nella valle della Neretva (21 febbraio6 marzo 1943) e a quelli più complessivi del ciclo Weiss (Quarta offensiva nella periodizzazione accolta dalla storiografia jugoslava) la conclusione della nostra mono­
grafia è ancora che «le forze di Tito ne uscirono sgominate» (p. 218). Pur dopo
aver citato ampiamente in questo caso un singolo testo di parte jugoslava (pp.
214-16), già di per sé eloquente, si dimentica che in quei durissimi scontri l’esercito
partigiano conseguì due obiettivi primari sul piano politico-militare. La salvezza di
circa quattromila feriti, mai abbandonati nel corso della battaglia, dimostrava la
capacità di rappresentanza civile generale che l’esercito di liberazione di Tito assu­
meva nei confronti di tutti i popoli jugoslavi. Nello stesso tempo il forzamento della
Neretva e lo sfilamento del nucleo centrale di quell’esercito, che aveva impegnato
forze preponderanti e ben diversamente armate, assicurava la continuità della guerra
contro gli occupanti20.
Analogo discorso vale per il tragico ciclo Piva-Sutjeska (Quinta offensiva: maggiogiugno 1943). Il nerbo dell’esercito di liberazione col suo stesso comando supremo
rompe l’accerchiamento nemico (anche qui si poneva il problema gravissimo di mi­
gliaia di feriti accolti al seguito delle truppe combattenti per sottrarli alle esecuzioni
sommarie praticate dalle truppe nazifasciste) e riesce a raggiungere la Bosnia.
La monografia parla di « vittorioso ciclo operativo » ma gli stessi documenti italiani
dell’epoca riconoscono alla fine di maggio del 1943, mentre erano in corso i com­
battimenti più duri, che « i partigiani tentano di sfuggire aprendosi un varco verso
nord... se riuscissero sarebbe in gran parte frustrata l’efficacia delle operazioni offen­
sive in corso » 212. Sedici giorni dopo la stessa fonte riconosce: « Aliquota imprecisata
di forze partigiane è riuscita a forzare lo sbarramento del Sutjeska »M.
Su due questioni ancora vogliamo soffermarci tra quelle sollevate dallo studio del­
l’Ufficio storico: il problema cetnico e quello delle repressioni-rappresaglie.
Libero ciascuno di rivalutare, se crede e può, l’operato di Mihailovic e dei suoi se­
guaci. Ma due operazioni ci sembrano quanto meno arrischiate in sede storiografica :
negare il collaborazionismo dei cetnici (« tattico » quanto si vuole ma pesantissimo
nell’economia generale della guerra di liberazione jugoslava). E affermare che le
bande cetniche più o meno direttamente controllate e rifornite dai comandi italiani
(e il caso, ad esempio, di quelli che la monografia definisce « cetnici indipendenti
della Erzegovina » e « cetnici nazionalisti del Montenegro ») siano state legate solo
«sentimentalmente a Mihailovic» (p. 152), senza avere « alcuna dipendenza opera­
tiva » dal generale monarchico (il che tra l’altro è in contraddizione proprio con
quanto viene ammesso a p. 218).
Tutti i documenti di parte italiana, specialmente quelli che riferiscono del con­
fronto serratissimo che si svolge a Roma nel primo trimestre del 1943 tra vertici
politici e militari italiani e autorità tedesche interessate al disarmo e alla distruzione
del movimento cetnico (ma più ancora all’interruzione dell’alleanza di fatto che esso
aveva stabilito con i nostri comandi in Jugoslavia), dimostrano : a) la stretta colla­
borazione che nel quadro d’una comune lotta anticomunista s’era stabilita tra co­
20
Sulla Neretva v. aa.w . Neretva, 3 voli., Beograd, 1965 e aa.vv ., Neretva-Sutjeska 1943,
Beograd, 1969.
21
Nelle comunicazioni telefoniche che il Comando supremo trasmetteva a Mussolini; sub
28/5/1943 e sgg., NAW, T-821/125 (158 sgg.).
22
Ibid. sub. 13/6/1943, NAW, T-821/125 (205). Sulla Sutjeska v. aa.vv., Sutjeska, 6 voli.,
Beograd, 1958-1966; d . kladarin , Bitka na Sutjesci, Zagreb, 1968 e il citato volume NeretvaSutjeska (nota 20).
1939-1943. Jugoslavia « neutrale » e Jugoslavia occupata
97
mandi italiani e formazioni cetniche. Pur nella consapevolezza da parte italiana che
nell’eventualità di uno sbarco anglo-americano i cetnici avrebbero cambiato fronte;
b) l’uso strumentale che si era fatto e si intendeva fare delle formazioni cetniche so­
prattutto allo scopo di risparmiare forze italiane (ma vi erano anche motivazioni
politiche più complesse se si pensa al consolidamento di un blocco tedesco-croato);
c) il costante richiamo da parte italiana alla concreta dipendenza politica e strategicomilitare da Mihailovic delle più importanti formazioni cetniche operanti nell’orbita
dei nostri comandi. Il che non escludeva l’autonomia tattica di quelle formazioni23.
Più volte si ha l’impressione che a indulgere a forme di collaborazionismo sarebbero
stati proprio i comandi dell’esercito popolare di liberazione (pp. 156; 216-17). Tra­
lasciamo poi alcune amenità sul « personaggio » Tito di cui si sottolineano più le
sue qualità di « funzionario del Comintern » che non quelle di «nazionalista» (p. 157).
E veniamo infine all’opera di repressione messa in atto dal regio esercito durante
quei trenta mesi di « presidio » in Jugoslavia.
Qui veramente non occorrerebbe far appello alle fonti più diverse e ad una lettera­
tura vasta e seria. Basta ricorrere semplicemente ancora una volta alla stessa docu­
mentazione italiana dell’epoca, di parte militare in primo luogo, poco conosciuta,
volutamente poco conosciuta in Italia. È l’omissione più grave nell’appendice docu­
mentaria di questo studio dell’Ufficio storico : perché non pubblicare le direttive ge­
nerali che presiedettero all’azione antipartigiana condotta dai nostri comandi? Vo­
gliamo pensare sempre ad una malintesa « patria pietà » : eppure su questioni fon­
damentali siamo smentiti proprio dal testo.
La considerazione generale rimane sempre, ci pare, quella fatta da Ragionieri:
Il soldato italiano nella seconda guerra mondiale non è soltanto il fante mandato a mo­
rire senza sapere perché nel deserto africano o fra le nevi della Russia: è anche il soldato
che viene reso aguzzino di altri popoli, che viene mandato a insanguinare i più sperduti
villaggi del litorale adriatico e della Croazia, strumento di un imperialismo subalterno
che, nei territori in cui gli viene concesso di penetrare, conduce una politica di spietata
repressione e di indiscriminata rapina 24.
Qui ci viene spiegato che le rappresaglie « sono il contrapposto speculare di precedenti
azioni criminose deH’avversario, e per tale motivo vengono giustificate dalle leggi
di guerra e dagli accordi internazionali, purché attuate nei limiti convenzionali che
contemperano le esigenze belliche con i principi umanitari... le truppe italiane... ope­
rarono ritorsioni senza violare le norme che le legittimano, ed anzi applicandole
con estrema misura. In talune circostanze furono date alle fiamme le case, evacuate
dagli abitanti, di famiglie delle quali si era accertata la connivenza con i partigiani :
ma altro era infierire sulle pietre, altro — procedura non ignota ai ribelli — sui corpi
di soldati italiani ancora agonizzanti » (pp. 256-57).
Già prima si era ammesso che « si verificarono episodi in cui tali regole internazio­
nali vennero violate. Ma ... quei casi che rappresentarono pure eccezioni furono
puntualmente e duramente repressi» (p. 161). E quel che spiace — che offende
anzi, diciamolo chiaramente — è che non un caso, un solo caso, venga citato in cui
emergano le responsabilità dei nostri comandi, ma 1 ’« eccezione repressa », l’unica
ricordata, è quella di « un militare italiano » che « si macchiò di un delitto contro
abitanti di una città del litorale ». Condannato a morte da un tribunale di guerra,
si « fece eseguire la condanna sul posto del delitto, proprio a testimonianza del
23
V., ad es., w .r . Roberts , Tito, Mihailovic and the Allies 1941-1945, New Brunswick, New
Jersey, 1973. Sui colloqui italo-tedeschi per il disarmo dei cetnici v. NAW T-821/126 (331 sgg.).
24
E. ragionieri, La storia politica e sociale, cit., p. 2306.
98 Teodoro Sala
senso di giustizia degli italiani » (ibid.). Leggiamo la nota e apprendiamo che l’epi­
sodio è ripreso dalle memorie di Roatta.
Si dimentica semplicemente che il crimine primo e massimo stava nella guerra d’ag­
gressione alla Jugoslavia, per cui, ad esempio, il governo italiano diveniva obietti­
vamente corresponsabile di quella distruzione di Belgrado perpetrata dall’aviazione
tedesca a guerra non dichiarata. Che lo smembramento dello stato jugoslavo, le
annessioni, la creazione di uno stato satellite croato, lo stravolgimento di ogni ordi­
namento giuridico e amministrativo preesistente, lo sfruttamento sistematico delle
risorse messo in atto nei paesi occupati (e a cui diede un contributo determinante
l’esercito italiano, come nel caso della spoliazione del patrimonio boschivo), in as­
senza tra l’altro di ogni trattato di pace, erano tutti atti precedenti compiuti in di­
spregio delle norme più elementari di diritto internazionale.
Per giustificare repressione e rappresaglie si scomodano S. Agostino e... Norberto
Bobbio (p. 256, n. 2). Ma non si trattò di « episodi » e di « eccezioni » quanto piut­
tosto di un intervento programmato e sistematico in ordine a: rastrellamenti indiscriminati nei confronti delle stesse « sospette » popolazioni civili; distruzione di
unità e di centri abitati (in molti casi con gli inquilini ancora chiusi in casa) e di
opere pubbliche; esecuzioni sommarie, anche di massa, eseguite sul campo o attra­
verso processi farsa (si veda il ruolo assunto dai tribunali militari); prelevamento di
ostaggi e loro uccisione col metodo della decimazione; deportazione in campi di
concentramento di interi nuclei di popolazione; rapina più o meno occasionale di
beni di varia natura.
Non si tratta di riesumare un « museo degli orrori » ma di capire perché quegli
orrori furono resi possibili. E tornano qui le iniziative e le responsabilità in primo
luogo delle autorità politiche e dei comandi militari. Occorre intanto ricordare che
i militari, violentemente critici nei confronti dei funzionari (governatori, alti com­
missari, prefetti, questori, gerarchi di partito) inviati ad amministrare le terre an­
nesse e il Montenegro, ritenuti responsabili di una mancata « normalizzazione »
(discorso analogo e in parte diverso veniva fatto nei confronti delle autorità civili
degli altri territori occupati dalle nostre truppe e teoricamente sottoposte al controllo
del cosiddetto Stato indipendente croato), si fecero riconoscere una capacità di inter­
vento pressoché assoluta « a difesa dell’ordine pubblico » (decreto Mussolini del 19
gennaio 1942) senza contare l’univoca competenza per i cicli operativi di carat­
tere più spiccatamente militare.
Ciò valeva per la Slovenia annessa e per il Fiumano. Una situazione di maggiore
conflittualità tra le autorità italiane permane nel Governatorato della Dalmazia:
la confusione e la sovrapposizione di competenze e poteri, caso mai, aggrava l’opera
repressiva. Il Montenegro, dopo la rivolta dell’estate 1941, è praticamente sottoposto
ad un regime di dittatura militare; analogo status vale per le terre annesse alla
Grande Albania. Ci limitiamo a ricordare pochi elementi ed episodi conoscitivi del
tutto, o quasi, assenti nella monografia deH’Ufficio storico.
L’invio in Jugoslavia del generale Roatta al comando della 2a armata nel gennaio
1942 rappresentò un salto qualitativo nella lotta antipartigiana. Per capire l’impor­
tanza che si attribuiva allo scacchiere jugoslavo occorre tener presente il senso dei
ricambi che avvengono ai vertici militari. Ambrosio dal comando della 2a armata,
cioè dell’unità più grande operante nei territori occupati, sostituisce Roatta nella
massima responsabilità dello Stato maggiore dell’Esercito. Nel caso di Roatta si trat­
tava del più sensibile e preparato degli alti ufficiali ai problemi della lotta antico­
munista visti i suoi precedenti al SIM e nella guerra di Spagna2S.
25
Sulla gestione Cavallero allo Stato maggiore generale per il periodo che ci interessa v.
1939-1943. Jugoslavia « neutrale » e Jugoslavia occupata
99
Sua è la famigerata circolare 3 C (stampata in opuscolo il 1° marzo 1942): si tratta
di una summa di carattere tattico-operativo, sul comportamento delle truppe e sul
trattamento delle popolazioni. Essa detta già disposizioni precise sull’internamento
delle « famiglie da cui siano o diventino mancanti, senza chiaro motivo, maschi
validi di età compresa fra i sedici e i sessanta anni. Il razionamento a dette famiglie
verrà ridotto al minimo indispensabile»; sul prelevamento di ostaggi: «risponde­
ranno colla loro vita di aggressioni proditorie a militari... nel caso che non potes­
sero essere identificati — entro le 48 ore — gli aggressori ». Internati anche (qualora
non emergano i responsabili nelle fatidiche 48 ore : « il loro bestiame verrà confi­
scato, e le loro case distrutte ») gli abitanti di « case prossime al punto in cui ven­
gono attuati sabotaggi ».
Allegati esplicativi alla circolare — riservati ai comandi delle grandi unità sottopo­
ste — dettavano norme sul trattamento dei partigiani catturati nei rastrellamenti
o nei cicli operativi : « fucilati sul posto » coloro che erano « colti con armi alla
mano », ma anche i sospetti catturati nelle « immediate vicinanze » e anche chi
nella più larga zona adiacente risultasse essere in possesso di semplici « oggetti di
equipaggiamento militare». Si dettano anche norme limitative per salvare la vita a
feriti (e sarà una delle disposizioni troppe volte disattesa), a « maschi catturati di
età inferiore ai sedici anni » (ma tutti deferiti a tribunali straordinari), alle donne
(deferite ai tribunali ordinari).
Non erano, però, tanto e solo le norme singole a contare quanto lo spirito infor­
matore della circolare : « Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetiz­
zato dalla formula ’dente per dente’ ma bensì da quella ’testa per dente’ »; e più
ancora: «Si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non ver­
ranno mai perseguiti. Perseguiti invece, inesorabilmente, saranno coloro che dimo­
strassero timidezza ed ignavia, e soprattutto coloro che non accorressero a sostegno
del compagno minacciato ».
Indicativa infine di alcuni timori dei comandi e della pressione a cui si intendeva
sottoporre le truppe c’era l’avvertenza: «Non ci sono circostanze che autorizzino
nuclei o singoli a cessare dalla lotta o a sbandarsi, come non esistono circostanze
(corsivo nel testo - n.d.a.) che legittimino perdite in armi e prigionieri, non accom­
pagnate da notevoli perdite in morti e feriti. »
Direttive analoghe a quelle emanate dal comandante della 2a armata (diventa Co­
mando superiore Slovenia e Dalmazia — Supersloda — dal maggio 1942 al maggio
1943. Con quattro Corpi d’armata — XI, V, XVIII e VI — opera in un territorio
vastissimo che va dalla Slovenia, alla Croazia centro-occidentale, alla Bosnia occi­
dentale, all’Erzegovina e comprende tutta la costa dalmata fino a sud di Dubrovnik)
valgono fin dal luglio 1941 nel Montenegro occupato e in rivolta (dove opera il
XIV Corpo d’armata poi Comando truppe Montenegro) per iniziativa del governa­
tore militare, Pirzio-Biroli.
La monografia dell’Ufficio storico ricorda (p. 231) che le direttive di Pirzio-Biroli
per la controguerriglia imponevano estremo rigore, ma si sottolinea (citando il docu­
mento del 15 luglio 1941 riportato poi in appendice, pp. 456-58) «senza carattere
di rappresaglia e senza inutile crudeltà». Chi legga però per esteso quelle disposi­
zioni nota anche che la repressione doveva essere di « esemplarità solenne ... Si di­
struggano i focolai di rivolta non solo nei riguardi delle persone, ma — se occorre —
anche dei centri abitati. Si prelevino ostaggi nelle località in cui si svolgono le
Lucio ceva , La condotta italiana della guerra. Cavallero e il Comando supremo 1941/1942,
Milano, Feltrinelli, 1975.
100 Teodoro Sala
operazioni e li si cambi di frequente con altri, in modo che tutta la popolazione
corra il rischio della repressione eventuale ».
Complessivamente si può dire che fra il 1942 e il 1943 non sono molte le relazioni
dei comandi italiani operanti in Jugoslavia che, nel dare notizia delle perdite subite
e di quelle inflitte, non aggiungano la voce « fucilati », « fucilati sul campo »,
« passati per le armi ».
Roatta per primo dà un significato estensivo alle norme da lui stesso dettate. Nel
ciclo operativo — definito « vasto rastrellamento » — che a metà settembre del
1942 investe la Velika Kapela (in Croazia) specifica: « occorre distruggere i paesi e
sgomberare le popolazioni »26. Chi scorra poi i documenti dei comandi sottoposti
potrà constatare come quelle direttive, esplicite e ambigue nello stesso tempo, des­
sero adito spesso, troppo spesso, ad ogni violenza e arbitrio.
Un solo esempio fra i tanti. Il generale Robotti (dal comando dell’XI Corpo passerà
a quello della 2a armata) postilla la circolare operativa di Roatta dell’ 8 giugno 1942
sul ciclo che durante l’estate di quell’anno avrebbe messo a ferro e fuoco la Slovenia.
Alla raccomandazione di evitare « rappresaglie... compiute inconsideratamente »
Robotti aggiunge di suo pugno : « Su questo però non bisogna avere scrupoli. Anche
se le popolazioni non ’avessero l’intenzione’ di aiutare i ribelli questi le obbligano ad
aiutarli. Quindi... tanto fa »27. Su un fonogramma del 4 agosto successivo che dava
notizia dei risultati di un rastrellamento Robotti annota : « Mi pare che su 73 so­
spetti non trovar modo di dare neppure un esempio, è un po’ troppo... Conclusione:
si ammazza troppo poco! s28.
Non dovrebbe essere andata smarrita a Roma la copia della Sintesi degli argomenti
trattati durante il rapporto tenuto dal Duce in Gorizia il 31 luglio 1942, compilata
a cura del Comando supremo. Attorno a Mussolini siedono Cavallero, Ambrosio,
Roatta e gran parte dei comandanti delle grandi unità operanti nell’ambito di
Supersloda.
Roatta riferisce tra l’altro sui « provvedimenti adottati » fino a quel momento :
Internamento graduale di studenti, intellettuali, disoccupati e sospetti, specie a Lubiana,
cervello della Slovenia, previa chiusura di ogni accesso alla città, stretto controllo delle
attività intellettuali, specie dell’Università... Sono stati decisi quindi grandi rastrellamenti,
lenti e metodici su grande fronte, tendendo a incapsulare l’avversario sempre che possibile,
ma procurando soprattutto di togliere alle popolazioni rurali l’idea che potessero agire a
loro piacimento... L’avversario, fra morti contati sul terreno ed individui passati per le
armi, ha perduto oltre 900 uomini... Ho proposto di dare le proprietà dei ribelli alle fami­
glie dei nostri caduti... Sono stati internati 1000 maschi validi29
Nel verbale di una riunione successiva, in cui il generale Robotti riferiva sul conve­
gno di Gorizia ai propri comandanti divisionari dell’XI Corpo, veniva riportato in
modo più «colorito» il discorso pronunciato da Mussolini in quella occasione:
È ora di finirla con questa forma di convinzione da parte degli sloveni che il popolo
italiano sia composto di deboli, di artisti e di patetici [nell’altro verbale era aggiunto:
«Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta» n.d.a.]... Il nuovo
26
Supersloda, Ufficio operazioni, n. 17185, Operazioni nella Velika Kapela dd. 20/8/1942 in
Vojnoistorijki Institut, sezione italiana, Beograd (più avanti cit. AVII), K. 58-7/3 (1-5).
27
Supersloda, Ufficio operazioni, n. 12600, Operazioni in Slovenia, dd. 8/6/1942 in G. p ie ­
m on t ese , Ventinove mesi di occupazione italiana nella provincia di Lubiana. Considerazioni e
documenti, Lubiana, 1946, allegato V ili.
28
Fonogramma del Comando divisione « Cacciatori » n. 5966 dd. 4/8/1942 (?), ibid., alle­
gato XXIX.
29
Comando supremo, Ufficio operazioni, I reparto, Scacchiere orientale, n. 22948/Op, Rap­
porto tenuto dal Duce in Gorizia il 31/7/42, AVII, K. 91-29/2(1-7).
1939-1943. Jugoslavia « neutrale » e Jugoslavia occupata
101
ciclo è cominciato... deve far vedere che gli italiani hanno gli attributi virili... Mettiamoci
bene in testa che questa gente non ci amerà mai. Quindi nessun scrupolo30.
Quindi Robotti, sulla base delle direttive di Mussolini, aggiungeva di suo:
Non importa se nell’interrogatorio si ha la sensazione di persone innocue. Ricordarsi che,
per infinite ragioni, anche questi elementi possono trasformarsi in nostri nemici. Quindi
sgombero totalitario. Dove passate levatevi dai piedi tutta la gente che può spararci alla
schiena. Resta inteso che il provvedimento dell’internamento non elimina il provvedimento
di fucilare tutti gli elementi colpevoli o sospetti di attività comunista... Non vi preoccupate
dei disagi della popolazione. Questo stato di cose l’ha voluto lei. Quindi paghi... Non
limitarsi negli internamenti. Le autorità superiori non sono aliene dall’internare tutti gli
sloveni e mettere al loro posto degli italiani... In altre parole far coincidere i confini raz­
ziali con quelli politici31.
Per ragioni « tecniche » contingenti non potè essere attuato uno sgombero real­
mente « totalitario » (preso in considerazione in molti documenti dell’epoca) di tutti
gli sloveni annessi. In compenso cominciarono le deportazioni di massa da tutti i
territori occupati.
È stato calcolato che funzionarono circa duecento campi di internamento tra quelli
creati in Italia e quelli installati nei territori occupati32. Nella sola Slovenia annessa
Pinternamento durante trenta mesi di occupazione coinvolse circa il 20% della po­
polazione (su 340-350.000 abitanti). Molto labile la distinzione tra « repressivi » e
« protettivi » (nuclei di collaborazionisti o di popolazione che si voleva « sottrarre »
all’influenza dei partigiani).
Nel campo forse più tristamente famoso, quello sorto sull’isola di Rab, alla fine del
1942, permangono o transitano quindicimila persone in prevalenza donne, vecchi,
bambini. Sistemati in grandi tendopoli moltissimi muoiono di freddo e di inedia. In
una relazione ufficiale di Supersloda del dicembre di quell’anno veniva segnalato:
Gli internati di tutte le classi sociali e di tutte le età, compresi soggetti ultra ottantenni,
giunsero al campo per la massima parte in minorate condizioni fisiche. Il loro arresto,
l’aver visto bruciare le case o saputo che sarebbero state bruciate, la partenza improvvisa,
spesso senza la possibilità di prendere con sé gli oggetti ed indumenti più necessari, il
viaggio in autocarro, qualche volta assai lungo e sempre in condizioni disagiate, gli attac­
chi alle autocolonne da parte dei ribelli, il viaggio per mare e la sistemazione sotto tenda
in periodo estivo, hanno influito in modo sensibilissimo su tutti gli organismi i quali non
hanno trovato compenso in un vitto abbondante, ma sono stati alimentati con una razione
che dava loro neanche la metà delle calorie necessarie. Era evidente quindi che in tali
condizioni fisiche con il sopraggiungere dei primi freddi, molti internati non avrebbero
avuto la possibilità di reagire ed infatti cedettero senz’altro33*.
Nel quadro di quella guerra, nata dalla volontà degli oppressi di sopravvivere e cam­
biare, ma che ha alle spalle aggressione e smembramento dello stato jugoslavo, an­
nessioni, sfruttamento, spoliazioni e regimi durissimi di occupazione, si verificarono
indubbiamente anche episodi di atrocità nei confronti delle nostre truppe. Specialmente nelle zone dove quella guerra « moderna » rompeva equilibri di più ance­
strali culture contadine. È stato giustamente rilevato, ad esempio, il significato sa­
30
Comando XI Corpo d’armata, Ufficio operazioni, n. 07049, Verbale della riunione di
Kocevje (2 agosto 1942) tenuta dall’eccellenza comandante ai comandanti di divisione, artiglieria
e massa di manovra in G. pie m o n t e s e , Ventinove mesi, cit., allegato XIV.
31
Ibid.
32
Giacomo scotti , « Bono Taliano». Gli italiani in Iugoslavia (1941-43), Milano, La Pietra,
1977, pp. 83-84; anche Zlocini italijanskega okupatorja v « Ljubljanski pokrajini ». I. Internacije, Ljubljana, 1946, V. la successiva n. 44.
33
Supersloda, Comando artiglieria, s.n., Relazione sull'ispezione eseguita al campo concen­
tramento per internati civili di Arbe, dd. 11 dicembre 1942, NAW, T-821/398 (34-50).
102 Teodoro Sala
crilego, rispetto a tradizioni consolidatissime, che assumeva la soppressione sul cam­
po dei feriti messa in atto dagli eserciti nazifascisti34.
È incontestabile che l’azione degli organi dirigenti politici e militari del movimento
di liberazione rifiuta ogni sistematico provvedimento di rappresaglia, interviene a
impedire o addirittura a stroncare iniziative di vendette sommarie su individui e
gruppi. Ve n’è traccia significativa nella memorialistica italiana del dopoguerra.
Forse il caso più emblematico è la cattura di prigionieri che non vengono normal­
mente soppressi (salvo responsabilità dirette nelle forme più rivoltanti di repressione)
e sono caso mai o liberati o sottoposti alle regole stesse durissime della lotta partigiana o scambiati col nemico. Vi è un regime semivolontario di collaborazione per
i prigionieri italiani (anche ufficiali e graduati) che li vede spesso protagonisti avvi­
liti nelle file dell’esercito di liberazione, laceri, piagati dalle malattie, più affamati
della stessa fame dei combattenti, addetti ai servizi di intendenza, al trasporto dei
feriti e di attrezzature durante le fasi più tragiche dei cicli operativi3S. E vi sono an­
che coloro che hanno risolutamente saltato la barricata e combattono coi parti­
giani 36.
Il movimento di liberazione esplica anche un’attività intensissima di propaganda
verso i soldati italiani con esiti relativamente efficaci (ma che vanno valutati più sui
tempi lunghi per quel che succede dopo l’ 8 settembre 1943 in patria e all’estero).
Una circolare del Comando della 2a armata dà bene il senso delle preoccupazioni
che si nutrivano per i prigionieri restituiti in seguito agli scambi frequentissimi o alla
loro liberazione senza contropartita:
Sovente nostri militari di truppa catturati dai ribelli vengono dopo qualche tempo liberati
e restituiti disarmati e prima della liberazione sottoposti a buon trattamento materiale ed
a lusinghe. Poiché c evidente lo scopo propagandistico del trattamento, occorre evitare che
i militari liberati dalla prigionia ritornino ai reparti di appartenenza senza che ne sia stata
accertata l’idoneità morale. A tale scopo si prescrive che presso ogni Corpo d’armata
deve essere organizzato un campo di concentramento al quale dovranno affluire i militari
comunque reduci da prigionia. Apposite commissioni provvederanno agli opportuni inter­
rogatori allo scopo di accertare il contegno all’atto della cattura, durante la prigionia e la
consistenza morale 37.
I soldati combattono, uccidono sospetti e ostaggi, bruciano, deportano, fanno razzia
in quella che è anche una guerra di poveri. Osservava Nuto Revelli sulla nostra
presenza in Albania nello stesso periodo : « Il nostro soldato guarda e sovente non
capisce. Ignora di essere un aggressore, ignora di portare la guerra in casa d’altri.
Un pochino ha l’animo del conquistatore »x . Indubbiamente i lunghi mesi di occu­
pazione in Jugoslavia e il tipo di repressione messo in atto — rispetto a quanto av­
viene sugli altri fronti, sugli stessi fronti antipartigiani d’Albania e Grecia — svi-38
38
V. FREDERICK w.D. deakin , La montagna più alta. L ’epopea dell’esercito partigiano jugoslavo,
Torino, Einaudi, 1972, pp. 42 sgg.
35
G. scotti , Bono « Taliano », cit., pp. 130 sgg.; v. anche deakin , La montagna più alta, cit.,
pp. 53 sgg. L’opera di M. b a ssi , Due anni fra le bande di Tito, Bologna, 1950, narra le vicende
di un ufficiale prigioniero dei partigiani: non pecca certo di benevolenza per gli jugoslavi, ma è
una fonte utile per osservazioni e ammissioni indirette. Si vedano le notazioni sulla condizione
femminile, pp. 248 sgg.
36
La testimonianza più interessante, forse, rimane sempre quella di brunetto parri , Otto
mesi coi partigiani di Tito in «Società», 1945, fase. Ili, p. 182-204; v. anche G. sc otti , Bono
« Taliano » cit., pp. 87 sgg.
37
Comando 2a armata, n. 0703, Militari prigionieri restituiti dai ribelli, dd. 29/1/42, AVII,
K.56-3/1 (30).
38
nuto revelli , L ’ultimo fronte. Lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra
mondiale, Torino, Einaudi, 1971, p. XLVII.
1939-1943. Jugoslavia « neutrale » e Jugoslavia occupata
103
lupparono condizioni di progressivo imbarbarimento e crisi individuali e collettive
tra le nostre truppe che meriterebbero di essere studiate compiutamente.
Tra le file partigiane, nei giorni delia infernale estate slovena del 1942, l’intellettualecombattente Kocbek osservava, lui cattolico, con odio e stupore:
I villaggi bruciano, i campi di grano e i frutteti sono stati devastati dal nemico, le donne
e i bambini strillano, quasi in ogni villaggio degli ostaggi vengono passati per le armi,
centinaia di persone vengono trascinate nei campi di prigionia, i bovini muggiscono e
vanno vagando per i boschi. La cosa più sconvolgente è che questi orrori non vengono
perpetrati da un’accozzaglia di primitivi come al tempo delle invasioni turche, ma dai
gioviali soldati del civile esercito italiano, comandati da freddi ufficiali che impugnano
fruste per cani39.
Sbaglierebbe chi pensasse ad un impegno particolare nella repressione dei soli re­
parti di Camicie Nere. Che indubbiamente vi fu ma in un quadro più generale. Si
distinsero in ciò reparti di anziani squadristi inviati da alcune regioni italiane e quasi
tutti rimpatriati per gli eccessi compiuti su sollecitazione degli stessi alti comandi.
Ma sono fanti, marinai, bersaglieri, alpini... Oltre alla pressione e alle sollecitazioni
che vengono dalla propaganda militare — fondata sulle premesse che abbiamo in
parte visto — c’è un altro elemento su cui indubbiamente contano i vertici militari :
il manifestarsi di un istinto primordiale di autodifesa più complesso rispetto a
quanto avviene in una guerra «normale». Si accentua lo spirito di corpo tradizio­
nale in alcune specialità dell’esercito per cui si corre a difesa o vendetta del com­
militone — magari del compaesano — ucciso o ferito40.
Una citazione ancora di due episodi tra gli innumerevoli che meriterebbero di es­
sere conosciuti in un contesto articolato di ricerche e di riflessioni. Esemplari forse
per capire i nodi così complessi di una condizione militare (e del rapporto oppres­
sori-oppressi).
Su un rastrellamento compiuto nell’agosto 1942 in Dalmazia sull’isola di Iz (Eso
nella toponomastica italiana) stende un rapporto il commissario del comune ca­
poluogo :
Non riuscii ad impedire che le truppe invase da una inconcepibile mania di asportare
facessero razzia di ogni genere. Si portò via olio, biancheria, materassi, valori, stracci...
Ho fatto rumanamente possibile nel voler reprimere una razzia così vergognosa. Ho strap­
pato dalle mani dei soldati biancheria, coperte, valigie, stracci che dopo, giorno per
giorno, ho restituito a povere famiglie le quali costrette sotto la minaccia delle rivoltelle
ad abbandonare le proprie case vi ritornavano sotto la nostra protezione e le trovavano
desolatamente svuotate di tutto. Ho cercato per l’onore dei nostri soldati di salvare il più
possibile le apparenze. Ho fatto in maniera che si pensasse dagli allogeni come i razzia­
tori fossero stati i ribelli41.
II segretario del PNF di Zara descrive un’azione compiuta nel novembre del 1942
su Primosten (Capocesto in italiano) a sud di Sibenik (Sebenico):
L’azione di preparazione dell’artiglieria è durata dalle 6,15 alle ore 10. Dalle 10 in poi i
marinai e i bersaglieri hanno ricevuto l’ordine di operare e di uccidere tutti quelli che vi
E. kocbek , «Compagnia» la resistenza partigiano in Slovenia, Milano, 1974, pp. 130-31.
Sulla crisi di una generazione allevata agli ideali « civili » e « nazionali » che prende progressi­
vamente le distanze dal fascismo anche attraverso l’esperienza fatta in veste di occupatore in
Jugoslavia v. la testimonianza complessa e ricca di aperture di falco m arin , La traccia sul mare.
Diario e lettere (1936-1943), Milano, 1966.
40
V. le osservazioni fatte sullo spirito di corpo degli alpini da Giorgio rochat, Gli studi di
Nuto Revelli sui combattenti della guerra fascista in «Italia contemporanea», n. 114, gennaiomarzo 1974, n. 114, pp. 107-110.
41
Relazione e allegato al Governatore della Dalmazia, dd. 13/8/42, AVII, K. 565a-20/3 (1-6).
39
104 Teodoro Sala
si trovavano. I militari, di loro iniziativa, non hanno ucciso né donne né bambini, ma
soltanto qualche uomo che scappava... Il generale ha dato ordine di sparare con i fucili
e con la mitragliatrice contro tre donne e due bambini che scappavano; la mitragliatrice
s’è inceppata allora il generale ha ordinato una cannonata a tiro diretto e le donne e i
bambini sono saltati in aria. Tra i soldati l’azione è stata commentata tutt’altro che favo­
revolmente; molti di questi chiamano il generale che ha ordinato l’operazione ’il vecchio
sanguinario’. In quanto ai morti sono solo donne e bambini. Nelle zone bombardate non
sono state trovate né bandiere rosse, né scritte sovversive sulle mura delle case42.
Vi sono esempi frequentissimi — anche da parte degli ufficiali — di umanità, di
trasgressione degli ordini ricevuti, specialmente nel trattamento delle popolazioni
civili. Qui non mancano le testimonianze jugoslave. E vi sono anche ribellioni e
diserzioni : deve essere ricordato l’aureo libretto di Giacomo Scotti che mette in
rilievo il rapporto sbandati-disertori43. L’autore italo-jugoslavo offre dati ricostrut­
tivi fondamentali sulla presenza italiana in Jugoslavia durante quei trenta mesi e ha
il merito di aver fatto largamente conoscere il rilevante contributo offerto dai nostri
volontari, dopo l’ 8 settembre, al movimento di liberazione di quelle terre che li ave­
vano già visti avversari nelle divise di occupatori44.
Un migliaio di disertori, quanti risultano da un primo censimento (fatto da Scotti),
è già un dato che fa riflettere. Notevoli le preoccupazioni dei comandi sullo spirito
delle truppe: le abbiamo già viste trasparire dagli incitamenti/intimidazioni per con­
vincerle alla controguerriglia. Ma vi sono anche ammissioni più dirette.
Incidono la scarsità e l’irregolarità delle licenze (oltre alle caratteristiche più gene­
rali di quella guerra che non era « guerra »); « avvicendamento e riposo ai reparti
non è stato mai possibile darli per scarsità di effettivi e di reparti disponibili »4546.
Alle raccomandazioni dei comandi tipo ; « Ginnasticare le menti » fa riscontro il
solito quadro comune ad altri fronti: si lesina su un passamontagna, su un paio di
guanti, su una tenuta di ricambio, sulla paglia stessa per i giacigli (« anche per la
paglia, come per il foraggio, il paese ha limitate disponibilità, non sufficienti, a cal­
coli fatti, a coprire il fabbisogno fino al periodo della saldatura » )4é. A truppe che
molte volte combattono a 30° sotto zero e hanno una notevole incidenza di congelati.
Non possiamo forse prestare molta fede alle segnalazioni che giungono dai comandi
della MVSN (per la latente rivalità col regio esercito). In data 28 aprile 1943, a
proposito di uno dei cicli operativi in Croazia:
Assenza assoluta di spirito combattivo. Si è ripetuto quello che in altre occasioni era stato
detto e riferito ma che a stento si è creduto. Cioè che esistono realmente dei reparti che
non combattono. Che attaccati cedono immediatamente. Che lasciano le armi pur di con­
servare la vita. Si diceva tra le truppe impiegate che durante il ripiegamento della « Re »
in qualche occasione i partigiani non si siano nemmeno presi la briga di uccidere i soldati,
ma di rincorrerli, disarmarli e prenderli a calci nel fondo della schiena.
42 Relazione al Governatore della Dalmazia, n. 71, dd. 24/11/42, AVII, K. 565a-8/5 (1-2).
43
0. SCOTTI, Bono « Taliano », cit.
44
G. scotti , Ventimila caduti. Gli italiani in Jugoslavia dal 1943 al 1945, Milano, Mursia,
1970; IDEM, Il battaglione degli « straccioni ». / militari italiani nelle brigate jugoslave: 1943-1945,
Milano, Mursia, 1974. Dopo l’invio alla stampa di questa rassegna è uscito il nuovo studio di
Scotti, 1 « disertori ». Le scelte dei militari italiani sul fronte jugoslavo prima dell’8 settembre,
Milano, Mursia, 1980. Esso conferma ampiamente quanto già detto e offre ulteriori elementi
di valutazione sull’incidenza del fronte balcanico nell’economia generale della guerra fascista.
45
Comando supremo, Stato maggiore generale, allegato 1 al f.n. 3529, Argomenti trattati col
capo di SMRE, dd. 7/4/43, NAW, T-821/279 (71).
46
« Ginnasticare le menti » : è una delle prescrizioni nella circolare dell’Ufficio del capo di
SMRE, n. 5 C.S.M., Potenziamento dell'Esercito, dd. 28/11/1941, AVII, K. 72-19/4 (2-7).
Sulla penuria di vestiario, paglia e generi di conforto v. la nota del Comando V CdA, Ufficio
operazioni, n. 2231, Morale delle truppe, dd. 12/2/1942, AVII, K. 92-7/3 (1-2) e la risposta del
Comando 2a armata, Intendenza, n. 1107 SM, stesso oggetto, dd. 21/2/42, AVII, K. 92-8/3 (1-6).
1939-1943. Jugoslavia « neutrale » e Jugoslavia occupata
105
Certo è che molti, troppi, vedono nel partigiano un qualche cosa di im battibile e basta
che questi faccia capolino perché sparisca di botto ogni virtù militare. Viene logico il
pensiero che in Croazia non si sia fatto m olto per servire degnamente la P atria in guerra 47.
Oltre tutto il tono becero e generalizzante di un fascismo ormai in crisi fa torto alla
verità dei mille episodi di autentico sacrificio che pure costellano battaglie, assalti,
assedi nella dura vita di sperduti presidi, azioni di guerra condotte dai soldati ita­
liani in condizioni atmosferiche proibitive e con penuria di mezzi divenuta ormai
proverbiale. E con non pochi esempi di reciproco cavalleresco riconoscimento col
nemico in fatto di audacia e di umana dignità.
Più probanti forse i rilievi che i comandi di Supersloda fanno in due distinti mo­
menti: anche se ovviamente i parametri di giudizio vanno rapportati alla mentalità
e alle attese degli estensori (e qualche volta al cinismo).
A metà giugno del 1942, Robotti raduna i responsabili divisionari dell’XI Corpo
c dichiara:
La verità è questa: la nostra truppa non com batte, o, per lo meno, com batte male; conti­
nuare ad illudersi sarebbe altrettanto vano che pericoloso. La m assa vale poco, e questo
proprio in una situazione come l’attuale in cui prevale l’abilità, il valore e l’iniziativa del
singolo; le perdite sono subite con eroismo, m a questo, per quanto encomiabile in senso
puro, praticam ente non ha im portanza.
Occorre com battere meglio: ci sono comandanti giovani che sono eccessivamente allar­
mati, come ci sono com andanti di medio grado che non sanno guidare. A questo punto
preciso: o questi com andanti sono meritevoli del grado e del posto e allora restano, o, in
caso contrario, siano senz’altro esonerati.
Recentemente un battaglione della divisione « Isonzo » si è dichiarato perduto, quando
ad azione ultim ata sono risultati complessivamente 7 morti e 13 feriti. Le parole grosse:
circondati, assediati, perduti, partono non dalla truppa, m a dai com andanti e ciò è g rav e48.
L’ufficio operazioni di Supersloda nell’aprile 1943 rammenta ai comandanti dei
quattro CdA dipendenti :
Nessun dubbio che queste truppe, dopo due anni di continuo e pesante lavoro in questo
nostro teatro d’azione, in questa speciale form a di guerra, possono risentire stanchezza.
Senza fare confronti con il lavoro delle truppe impiegate in altri scacchieri con un com­
pito più vivace, più aspro per la maggiore potenzialità di mezzi del nemico, m a che per­
mette pur sempre, di tanto in tanto, tempi di riposo e di riordinam ento, non si può negare
che i nostri reparti sono stati e sono gravati da un continuo spossante lavoro, caratteriz­
zato da una guerriglia aspra e senza tregua.
Com unque di fronte all’ineluttabilità della continuazione di questo nostro compito, di
fronte alla necessità degli altri scacchieri operativi, non c’è dubbio che dobbiam o ’cavar­
cela’ con gli uomini e i mezzi disponibili49.
Torniamo alla monografia dell’Ufficio storico con un’ultima osservazione. Proprio
per giustificare (e minimizzare) le « ritorsioni » delle truppe italiane in Jugoslavia
« impegnate in una guerra che avevano il dovere di combattere » si ricorda che « il
soldato, lo ha affermato S. Agostino, è vincolato alla obbedienza » (p. 256). Sorge
spontanea una domanda: non corriamo il rischio su questa strada di giustificare
Marzabotto e Kragujevac, Oradour-sur-Glane e Gracevo, Lidice e Kalàvryta e
troppi altri nomi di località che non vogliamo dimenticare?
TEODORO SALA
47
MVSN, Comando reparti operanti della Milizia confinaria, n. 888/6a, Ciclo operativo in
Croazia. Considerazioni, dd. 28/4/43, AVII, K. 899-31/3 (4-5).
48
Verbale del rapporto tenuto dall’Eccellenza ai Comandanti di divisione o capi di SM il
giorno 13 giugno 1942, NAW, T-821/271 (210).
49
Supersloda, Ufficio operazioni, n. 5320, Impiego delle truppe, dd. 2/4/43, AVII, K. 100-15/1.