I BALCANI TRA LE DUE GUERRE La penisola balcanica uscì dalla

I BALCANI TRA LE DUE GUERRE
La penisola balcanica uscì dalla Grande Guerra (1914-1918) ridefinita geograficamente e
politicamente: la scomparsa dell'impero austro ungarico creò un vuoto di potere nel cuore
dell'Europa che le grandi potenze vincitrici cercarono di riempire con una politica di costruzione di
medie potenze regionali - della medesima grandezza economico militare - in collaborazione fra loro,
con lo scopo di contenere il possibile revanscismo delle nazioni sconfitte - soprattutto della Bulgaria
e dell'Ungheria.
All'inizio degli anni ‘20 l'Europa centrale e meridionale vedeva come punto di snodo il “Regno dei
Serbi, Croati e Sloveni”, che dal 1929 diventò il regno di Jugoslavia, una compagine statale erede
dell’alleanza contratta dalla Serbia nel 1914 ma, allo stesso tempo, resa debole dalle contraddizioni
interne e dall'ostilità dell'Italia, causata dalla questione dei confini istriani e dalmati.
L'altro punto di attrito era la "punizione" dell'Ungheria, privata non solo delle dipendenze croate e
galiziane ma anche dei territori magiari della Vojodina, a favore della Jugoslavia, e della
Transilvania, annessa alla Romania.
Sotto la protezione della Francia, contro l'ostilità italiana e con la "benevola indifferenza" inglese più legata alla Grecia, soprattutto dopo la sconsiderata e disastrosa impresa di Smirne - si formò un
sistema di sicurezza regionale che vede Jugoslavia, Romania e Cecoslovacchia coalizzate in
funzione di contenimento delle potenziali spinte revisionistiche di Ungheria e Bulgaria.
Le contese interstatali furono caratterizzate dalle differenti tensioni alla riunificazione nel territorio
nazionale delle diverse minoranze oltre confine, i metodi di azione usati la destabilizzazione
interna. Nell'area balcanica non esisteva paese - eccezion fatta per l'Ungheria dei confini di Trianon
- che non possedesse nel suo territorio significative minoranze etniche: per contro proprio
l'Ungheria vedeva la presenza più alta di minoranze magiare in altre paesi (Cecoslovacchia,
Jugoslavia, Romania con regioni dove i magiari sono netta maggioranza). Questo il lascito della
politica di Versailles che da un lato proclamò il principio di nazionalità e, dall'altro, lo disattese
sistematicamente per motivi politico strategici.
La Jugoslavia fu il punto di focalizzazione della crisi endemica dei Balcani fra le due guerre,
essendo il paese più composito dal punto di vista nazionale. Passato il primo momento di
"entusiasmo unitario" - laddove le costituenti slovene e croate avevano risolto il problema
dell'uscita dal "campo degli sconfitti" attraverso l'unificazione alla Serbia - le contraddizioni non
tardarono a emergere: sono la differente composizione sociale, soprattutto, oltre che le tradizioni
culturali e amministrative a creare lo stato di crisi.
Alla Slovenia - e parte della Croazia - protagonista di un industrializzazione troppo debole per
sostenere da sola la pressione del vicino italiano, dove vivevano consistenti minoranze slovene,
prive di diritti e duramente represse sia dal regime liberale e più ancora, dopo il 1924, dal fascismo si contrapponeva un'altra Croazia di piccoli contadini ed una Serbia agrario pastorale. Alle necessità
protezioniste dei primi rispondeva la differente percezione liberoscambista dei secondi.
La risposta del decentramento non apparteneva certamente agli anni 20-30: la politica accentratrice
della monarchia serba era nel corso della storia. La crisi certa.
Una nascita endogena ed uno sviluppo esogeno caratterizzano la guerra civile strisciante degli anni
‘30 in Jugoslavia così come lo svilupparsi in tutta la regione balcanica di fascismi aggressivi.
Fascismi che, quando non conquistarono il potere fu soltanto per la presenza di regimi reazionari
che sbarrarono loro la strada - è il caso della Romania, dell'Ungheria, della Serbia - e che in altri
casi vennero usati come arma di politica estera da potenze confinanti e non profondamente ostili - i
nazisti in Cecoslovacchia, gli Ustascia in Croazia, i nazionalisti bulgari nella Macedonia Jugoslava.
Parallelamente in Romania e Ungheria si svilupparono fascismi particolari, entrambi profondamente
aggressivi: non che ci siano molte analogie fra il fascismo rurale e mistico di Condreanu, quello
urbano - per non dire metropolitano - delle Croci Frecciate Ungheresi o l'integralismo cattolico degli
Ustascia Croati. Soltanto, appunto, il nazionalismo esasperato e il riferirsi - alcune rare volte
inconsapevolmente, per la maggior parte dei casi con molta consapevolezza e determinazione - agli
interessi politici delle potenze fasciste.
A metà degli anni ‘30 la situazione balcanica vedeva una pace soltanto apparente, costruita sulla
realtà di lotte intestine poderose e delle aggressioni imperialistiche esterne.
Un particolare ruolo in questo processo veniva giocato dall'Italia fascista che, per le sue mire di
potenza regionale, si farà paladina di ogni forma di revisionismo dei trattati e di destabilizzazione
dei paesi attraverso il finanziamento e la copertura dei movimenti fascisti. Fra il 1922 - incidente di
Corfù - e il 1939 - invasione dell'Albania - non mancarono le occasioni per cercare di mettere in
discussione del quadro emerso dalla Grande Guerra ed ampliare la sfera di influenza italiana,
rincorrendo il mito del controllo assoluto dell'Adriatico. Particolare accanimento venne posto nel
minare le basi dello stato Jugoslavo ma forti furono le presenze anche negli altri paesi. E i risultati
furono sanguinosamente concreti.
I tempi che videro precipitare la situazione balcanica furono i tempi stessi dell’apertura della II°
guerra mondiale: dall'assassinio di Alessandro di Jugoslavia, alla dissoluzione della Cecoslovacchia,
fino all'adesione all'Asse (Roma, Berlino, Tokio) di Ungheria e Romania.
Ma i regimi reazionari della regione reagirono in maniera del tutto diversa al precipitare della crisi
Europea: la Cecoslovacchia verrà cancellata dalla carta geografica, l'Ungheria, la Romania e la
Bulgaria aderiranno all'Asse e combatterono in maniera più o meno determinata in questo campo.
La Jugoslavia esplose per rinascere sotto le bandiere plurietniche della guerra partigiana, la Grecia
del pur fascista Metaxas seguì la tradizionale politica filo inglese…
Sarà nel 1945, con l'arrivo delle truppe sovietiche che i Balcani apriranno una nuova pagina della
loro storia. Nel 1946 la Bulgaria si costituì repubblica sotto la guida di Dimitrov, che operò una
trasformazione in senso socialista del paese. Nel 1947 Dimitrov tentò di dare corpo, insieme al
leader jugoslavo Tito ad una federazione balcanica, vecchio progetto dei comunisti di quel settore
(la federazione avrebbe previsto anche Romania, Ungheria, Albania e Grecia, se questa fosse
diventata comunista). Il progetto fallì per l’opposizione sovietica.
LA JUGOSLAVIA DI TITO
La Jugoslavia si presentava con caratteristiche peculiari, le più rilevanti delle quali erano la forza e
il prestigio che il Partito comunista aveva conquistato nella lotta di resistenza ai nazisti. L’Armata
rossa, quando intervenne in Jugoslavia, si trovò di fronte ad una realtà nazionale assai diversa da
quella della Polonia, della Romania, Bulgaria e Romania. Il comunista croato Josip Broz, detto Tito,
godeva di una immensa autorità nel paese ed era il capo indiscusso sia delle forze di resistenza che
dei comunisti. Dopo la liberazione del paese, Tito assunse tutto il potere. Le caratteristiche del
comunismo jugoslavo erano duplici: da un lato la volontà di procedere rapidamente in senso
socialista, dall’altro una forte autonomia e una solida base di consenso nel paese. Nel 1948 si giunse
alla rottura definitiva tra l’URSS e la Jugoslavia.
A quest’ultima, accusata di “deviazionismo”, vennero contestati, in particolare il progetto di
federazione balcanica e l’appoggio alla resistenza nella guerra civile greca. Anche l’Albania si
schierò con l’URSS contro Tito, rompendo il “patto di amicizia” stipulato nel ‘44. Il solido
consenso interno permise al paese di “resistere” all’isolamento.
Nel 1963 fu varata una nuova costituzione, dopo quella del 1946 che aveva posto le basi del
federalismo e della socializzazione. Quest’ultima prevedeva lo sviluppo del decentramento statale
ed economico. Gli USA e il Fondo monetario internazionale concessero crediti, vedendo in
prospettiva una integrazione della Jugoslavia nel mercato occidentale. Nonostante l’iniziale
opposizione di Tito, i tecnocrati riformatori riuscirono ad imporre le loro principali richieste, come
il corso libero dei prezzi e la competitività aziendale. Questa lotta si incrociava con gli antagonismi
fra le diverse nazionalità: i “liberali” trovavano appoggio tra croati e sloveni, favorevoli al
decentramento economico e politico; i serbi erano favorevoli ad una gestione più centralistica.
Nell’autunno del 1971 esplose in Croazia una grave crisi nella quale si manifestarono tendenze
“centrifughe”, risolta grazie all’intervento personale di Tito. Nel 1974 una riforma costituzionale
favorì una maggiore articolazione delle autonomie, ampliando i poteri dei sottoparlamentari delle
repubbliche federate.
La classe dirigente giunta al potere dopo la morte di Tito (1980) era del tutto impreparata a gestire il
“dopo-Tito”. Nel 1990 ci fu l’ultimo congresso della Lega dei comunisti: il vuoto fu colmato da
partiti nazionalisti. Il resto della storia sono le “miserie del presente”.
ALCUNE “NOTE A MARGINE”
Gli Stati Uniti hanno espresso chiaramente da anni il loro sostegno alla Turchia come potenza
regionale e nei Balcani hanno appoggiato la creazione di “protettorati” definiti da alcuni
commentatori “trasversale” o “dorsale verde” (cfr. LIMES, 4/1998).
Queste aree assumono un particolare valore strategico come futura direttrice per il trasporto
dall’Asia centrale ex- sovietica in Europa, attraverso lo storico “corridoio” Turchia-BulgariaMacedonia-Albania che taglierebbe fuori definitivamente la Russia.
Ha scritto il giornalista Nazmi Arif sul giornale turco “Turkiye Gazetesi” (cit.su “Politika”,
21/2/1993): “I popoli turchi, cui è stato impedito fino a poco tempo fa di esprimere i loro sentimenti
nazionali e religiosi [...] in Bulgaria, Romania” potranno ora liberarsi “alla condizione che questi
popoli a breve si riuniscano alla madrepatria”. Questo spiega perchè la Turchia si sia prodigata per
l’indipendenza di Bosnia e Macedonia come primo passo per altri tipi di pressione sui popoli
dell’area.
Il primo ministro turco Ecevit propose nel giugno del 1992 un patto militare per la sicurezza
comune tra Bosnia e Turchia, che avrebbe consentito l’invio di aiuti militari e truppe, come
espressamente richiesto dai rappresentanti turchi alla riunione della conferenza islamica tenutasi ad
Istanbul nel giugno del 1992.
La richiesta di sollevare la Bosnia dall’embargo sui rifornimenti di armi venne presentata anche
all’ONU.