S.E.M.
Skills for
Economic Management
SEM N°1 - In questo numero:
DICEMBRE 2012
Riflessioni sull’economia, sulla finanza e sulla povertà
La finanza nell’economia e nella società; e lo Stato?, di Edoardo Giuseppe Ruscio
La Cina d’Europa: Albania, di Tommaso Marseglia
Il problema dell’informazione nell’azienda moderna, di Edoardo Angeloni
Barack Obama il faro dell’umanità?, di Maurizio Di Giandomenico
L’impatto sociale degli istituti di credito, di Lucian-Razvan Desliu,
La lente di ingrandimento
L’ascesa dello “spread” in economia, di Enrico Menani
Lavori e opere pubbliche, di Silvia Loiacono
DIRETTORE ONORARIO
Luciano D’Amico, Ordinario di Economia Aziendale e Preside Facoltà Scienze
Comunicazione, Uni-Teramo.
Presentazione della
rivista
DIRETTORE
Edoardo Giuseppe Ruscio, Manager d’Azienda con ruolo di Responsabile del
Sistema Indennitario del mercato elettrico in Acquirente Unico S.p.A.e con
esperienza maturata di Responsabile del Controllo di Gestione in Altran Italia.
di Edoardo Giuseppe Ruscio
S.E.M - Skills for Economic Management vuole
rappresentare un punto di riferimento pragmatico
nella lettura delle vicende economiche e sociali del
Paese e degli avvenimenti internazionali. La rivista
S.E.M. non ha alcuna pretesa particolare di stupire
o, ad esempio, di rivedere in chiave critica il
sistema economico attuale tramite argomentazioni
accademiche, o palingenesi immaginarie, termine
molto utilizzato dal prof.re Federico Caffè. Ma,
con molta sobrietà e semplicità, si pone l’obiettivo
di coinvolgere professionisti, manager e liberi
pensatori per far lievitare il dibattito culturale
soprattutto nella ricerca dei valori, necessari per
dare un volto umano alla scienza economica, che
ad oggi sembra aver smarrito la sua ragione
d’essere.
Cordiali saluti a tutti,
Edoardo Giuseppe Ruscio
INDICE - SEM N°1
Riflessioni sull’economia, sulla finanza e
sulla povertà
 La finanza nell’economia e
nella società; e lo Stato?
03
 La Cina d’Europa: l’Albania
05
 Il problema dell’informazione
nell’azienda moderna
08
 Barack Obama il faro dell’umanità?
13
 L’impatto sociale degli
istituti di credito
15
La lente di ingrandimento
 L’ascesa dello “spread” in economia
 Lavori e opere pubbliche
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COMITATO ESECUTIVO
Enrico Menani (Responsabile e Vice Direttore), si occupa di finanziamenti al
pubblico e risk management per ING Group.
Giuseppe Gliatta, Avvocato professionista, Bologna, docente di Master, UniTeramo.
Silvia Loiacono, Avvocato presso lo Studio Legale Zappalà di Roma.
COMITATO SCIENTIFICO
Franco Eugeni, Ordinario di Logica e Filosofia della Scienza, Uni-Teramo.
Edo Graziani, TEC-Leg Department Coordinator - APS Engineering, Rome.
Tonio Di Battista, Ordinario di Statistica, Uni-Chieti .
Antonio Maturo, Ordinario di Matematica per le Scienze Sociali, Uni-Chieti.
Luca Tallini, Ordinario di Informatica, Uni-Teramo.
Christian Corsi, Ricercatore di Ec. Aziendale Scienze, Docente Uni-Teramo.
Manuel De Nicola, Ricercatore di Ec. Aziendale Scienze, Docente Uni-Teramo.
Danilo Pelusi, PhD Informatica, Docente Uni-Teramo.
Massimo Squillante, Ordinario di Metodi matematici per l'Economia, UniSannio.
Massimo Tivegna, Ordinario di Politica Economica ed Econometria, UniTeramo.
Aldo Ventre, Ordinario di Teoria delle Decisioni, II Uni-Napoli.
Domenico Marconi, PhD Epistemologia dell'Informatica - Docente di Master,
Uni-Teramo.
Andrea Vacca, Professore Associato di Idraulica nella 2° Università di Napoli.
Tommaso Marseglia, Consulente economico aziendale.
Edoardo Angeloni, Scrittore e professore di matematica.
Maurizio Di Giacomantonio, Attore professionista di teatro e cinema.
Lucian-Razvan Desliu, Public manager presso ministero economia e finanze
Bucarest.
PROFILO DEGLI AUTORI – SEM N° 1
Edoardo Giuseppe Ruscio, è il Responsabile del Sistema Indennitario del
mercato elettrico in Acquirente Unico SpA. È stato Responsabile del controllo di
gestione e della pianificazione in Altran Italia SpA e in Impregilo-Lidco in Tripoli. È
stato internal auditor nella Società Italiana per Condotte d’Acqua. Ha frequentato il
Master Management Pubblico, Scuola di Direzione Aziendale della Università
Bocconi ed i corsi di specializzazione IFAF in Finanza d’Azienda e in Fiscalità
d’Impresa. È laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Teramo.
Tommaso Marseglia, è consulente economico-aziendale, collabora con la
Golden Share di Milano ed il Network ASPM con sede a Praga, è inoltre
rappresentante per la Lombardia di Konfindustria Albania; è laureato in Economia
e Legislazione per l’Impresa presso l’Università Bocconi.
Edoardo Angeloni, scrittore e professore di Matematica nelle Scuole
Secondarie; plurilaureato in Matematica, in Statistica ed in Scienze della
Comunicazione.
Maurizio Di Giacomantonio, lavora come attore professionista dal 1981 in
Teatro e in Cinema per diversi Teatri Italiani e Produzioni Cinematografiche
internazionali.
Lucian-Razvan Desliu, è Public Manager nell’ambito del Ministero
dell’Economia e Commercio a Bucarest (Romania); ha frequentato il Master in
Management Pubblico, SDA Bocconi ed è laureato in Scienze Politiche e Scienze
della Comunicazione.
Enrico Menani, si occupa di finanziamenti al pubblico e risk management per
ING Group; ha frequentato il Master in Management Pubblico, SDA Bocconi ed è
laureato in economia aziendale all’Università di Bologna.
Silvia Loiacono, svolge l’attività di Avvocato presso lo Studio Legale Zappalà di
Roma dove si occupa di diritto civile e di diritto societario; è laureata in
Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma
L’ISTITUTO
Fondazione Panta Rei, alta scuola di scienza e formazione, con sede in
Giulianova, Via Nazzario Sauro n. 43 - http://fondazionepantarei.it/
CONTATTATECI A
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La finanza nell’economia e nella società;
e lo Stato?
a cura di Edoardo Giuseppe Ruscio
Il razionalismo economico, nell’agenda politica
delle priorità ha una posizione di primaria
importanza nella definizione delle strategie e degli
obiettivi di governo.
Il fiscal compact, la spending review e le
politiche di austerity sono le leve attuate dal
Governo Monti per raggiungere l’equilibrio dei
conti e per rilanciare la convergenza dell’economia
verso i parametri economici previsti nel Trattato di
Maastricht.
Tali misure sono state rese necessarie per i
Paesi dell’Unione Europea, da una crisi economica
senza precedenti, simile in alcuni aspetti alla crisi
del 1929 in America, in cui per risollevarsi fu
necessario comprendere fino in fondo le cause
principali che la provocarono.
J. M. Keynes fu il maggior interprete della
crisi americana in quanto riuscì a proporre un
nuovo modo di pensare il capitalismo e il ruolo
dello Stato nell’economia, fino ad allora esclusivo
campo delle teorie liberiste.
Pertanto a distanza di qualche anno
dall’inizio della crisi del XXI secolo, la vera sfida
futura credo non sia quella di prospettare una
nuova imposizione fiscale per i cittadini, rei di aver
vissuto come semplici spettatori i continui scandali
finanziari esercitati dal gota dell’economia, o
proporre palingenesi immaginarie, ma consiste nel
riuscire a comprendere le ragioni di fondo che
hanno spinto i Paesi dell’Unione Europea a
costituire governi tecnici per risolvere un balckout economico senza precedenti.
Negli ultimi venti anni in Europa si è
sviluppato un capitalismo finanziario che ha
contribuito alla crescita del prodotto interno
lordo, stimolando l’occupazione e distogliendo
risorse utili al consolidamento dell’economia
reale.
Le prime fughe di capitali dagli investimenti
nelle aziende di produzione verso gli strumenti
finanziari risalgono ai primi anni 90, periodo in cui
l’economia reale era condizionata da una
recessione strutturale dovuta ad un eccesso di
offerta.
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Il business finanziario si caratterizzava da tassi di
redditività molto alti, e da un dinamismo
eccellente grazie al supporto delle nuove
tecnologie informatiche, ma allo stesso tempo si
dimostrava un campo favorevole alle speculazioni
predatorie.
La new economy, la crescita esponenziale
del mercato immobiliare, la finanziarizzazione
dell’economia e l’esplosione degli spread nel
mercato valutario riassumono alcune delle tappe
della finanza negli ultimi vent’anni di storia.
È stato il periodo in cui all’impennata
repentina del valore di un bene sono seguiti
continui crolli di mercato che hanno generato dei
super guadagni per i ricchi investitori.
George Stigliz, nella teoria che gli valse il
premio Nobel, ha descritto accuratamente le leve
che hanno favorito la speculazione finanziaria,
individuando nelle asimmetrie informative la
maggior causa dei facili guadagni da parte dei centri
di potere finanziari.
Dinanzi questo scenario, negli anni 90, si è
riscontrata l’assenza dello Stato che, foraggiato
dalle culture liberiste, ha scelto la strada della
deregulation negli investimenti finanziari e
addirittura dell’utilizzo della finanza creativa per
sanare i debiti di bilancio.
La cultura liberista senza freni si è diffusa
con insistenza nel modello economico occidentale
a partire dalla caduta del Muro di Berlino.
Al valore inestimabile della caduta del
Muro che ha determinato la fine della guerra
fredda, l’affermazione della cultura occidentale e di
un clima di sicurezza internazionale diffuso, si è
sommata una occasione perduta per la nostra
cultura .
La fine della competizione tra le culture, ha
infatti fiaccato il quel mordente che per anni aveva
condizionato le politiche di governo, le azioni e le
tradizioni di intere popolazioni.
Gli anni 90 sono stati caratterizzati da un
periodo di rilassamento culturale, in cui si è passati
dalla necessità di rappresentare la propria fede nel
modello in cui si credeva ad una diaspora dei valori
fino ad allora coltivati, predisponendo un terreno
fertile in economia per il capitalismo più
aggressivo.
Si è assistito quindi, parallelamente al
progressivo disfacimento dei valori tradizionali,
all’ascesa dell’individualismo radicale che
filosoficamente ha applicato il pensiero
machiavellico in cui tutto il “da farsi” ha senso
compiuto se ha un’utilità e quindi un ritorno
economico.
Nella finanza l’individualismo ha espresso
tutte le sue potenzialità con l’utilizzo del
linguaggio dogmatico e razionale della matematica,
relegando le questioni morali ad un mero esercizio
spirituale.
Le migliori business school del mondo
hanno insegnato la finanza d’azienda e il
management di impresa reinterpretando il
vocabolario economico, associando al termine
sviluppo il profitto, al merito personale il
raggiungimento dei risultati economici e alla
performance di una azienda la massimizzazione
della redditività.
Il Trattato di Mastricht e le regole per la
conversione della moneta locale nella valuta
europea hanno rappresentato il primo progetto sul
campo della nuova classe dirigente.
A Mastricht sono state definite le regole di
convergenza, tramite l’utilizzo di una fitta rete di
indicatori finanziari, da far osservare ai Paesi che
aderiscono all’Unione Europea.
Inoltre sono stati indicati i parametri di
conversione delle monete locali al momento
dell’adesione al mercato unico europeo.
A distanza di anni il risultato raggiunto
dalle politiche europee è stato tecnicamente
fallimentare sia per non aver perseguito gli
obiettivi sperati che per aver indirizzato l’Europa
verso un percorso che al momento non mostra una
semplice via di uscita.
Per l’Europa e per l’Italia di oggi ripartire
con uno nuovo slancio emotivo che esca fuori dalla
ratio della sola tecnica e che affondi le sue radici
nei valori e nei principi che hanno caratterizzato la
nostra storia significa raccogliere un’autentica sfida
globale.
L’impossibilità di far coesistere tecnicamente
nello spazio europeo, due Paesi diametralmente
opposti nei saldi contabili delle entrate e delle
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uscite - come ad oggi sono la Germania e la Grecia
- è rappresentativo della fragilità delle congetture
sostenute negli accordi europei.
È necessario quindi, ripensare la finanza
nella sua funzione strumentale all’economia e,
conseguentemente, alla parola sviluppo dovranno
essere associati i significati altisonanti perduti nel
corso degli anni e richiamati dall’Enciclica Caritas
in Veritate: “ …il termine « sviluppo » … indica
l’obiettivo di far uscire i popoli anzitutto dalla
fame, dalla miseria, dalle malattie endemiche e
dall’analfabetismo. Dal punto di vista economico,
ciò significava la loro partecipazione attiva e in
condizioni di parità al processo economico
internazionale; dal punto di vista sociale, la loro
evoluzione verso società istruite e solidali; dal
punto di vista politico, il consolidamento di regimi
democratici in grado di assicurare libertà e pace.”
Questa breve riflessione vuole far
comprendere che la causa della crisi non è mai
unica, ma presenta strati e sottostrati sociali legati
tra di loro da un rapporto di causa-effetto che
possono con il tempo provocare danni molto più
seri rispetto al mancato raggiungimento di un
parametro economico.
Per non finire sotto il carro armato delle
speculazioni, è necessario ristabilire un ordine nella
distribuzione dei poteri istituzionali e nelle scelta
delle tematiche da sviscerare.
Il pensiero del professore Federico Caffè che auspicava un capitalismo regolato dalla mano
saggia dello Stato, non rinnegando quindi le virtù
dell’economia di mercato - potrebbe esserci di
aiuto per trovare una via di uscita dalla crisi.
Lo Stato infatti potrà assurgere al ruolo di
garante dei diritti dei più deboli, inermi dinanzi il
tecnicismo esasperato e le speculazioni,
richiamando la centralità della questione culturale
tramite l’utilizzo dei suoi ampi poteri normativi e il
ritorno dei nostri valori.
È un monito per lo Stato laddove in periodi
di crisi le questioni culturali, se valorizzate nel
dibattito politico, risultano essere la linfa
necessaria allo svolgimento della vita sociale e che,
in caso contrario, al popolo privo di riferimenti
culturali, non rimane altra strada che richiedere il
conto ai principali responsabili della crisi stessa,
che non sono, ovviamente, i cittadini stessi.
La Cina d’Europa: Albania
a cura di Tommaso Marseglia
Il protrarsi della crisi economica ha costretto molte
imprese a dover modificare la propria strategia
aziendale per aumentare l’efficienza dei propri
processi, sia a livello produttivo sia a livello
organizzativo. Coloro che non sono riuscite ad
ottenere risparmi significativi, e quindi a
recuperare marginalità, sono oggi in una fase di
declino ormai irrimediabile.
Le imprese che risentono meno, o che
comunque riescono ad aver minor affanni
economici e finanziari, risultano essere quelle
maggiormente attive sui mercati internazionali,
(acquisti di materie prime, nuovi mercati di
vendita, produzione in paesi con costi di realizzo
minori).
I processi di internazionalizzazione si
dividono in due macroaree, identificabili con i
termini, a livello specifico, di Delocalizzazione,
in cui vi è il trasferimento di una, o più, fasi del
processo produttivo all’estero, tipicamente sono i
passaggi a minor valore aggiunto, o specifico, o
richiedenti un maggior bisogno di manodopera. E
la Globalizzazione (utilizzata spesso nel
linguaggio comune con una accezione generica) in
cui vi è l’espansione verso nuovi mercati, fuori dai
propri confini nazionali, al fine di acquisire nuovi
clienti, aumentando i ricavi e soddisfacendo una
domanda non ancora raggiunta.
Il buon esito di un processo di
internazionalizzazione richiede però alcune cautele,
tra le quali è fondamentale la scelta del paese dove
si andrà ad operare e la conoscenza delle prassi e
del funzionamento del mercato imprenditoriale
locale. Può diventare quindi indispensabile,
l’utilizzo
di
società
specializzate
in
internazionalizzazioni, soprattutto per affiancare le
Piccole e Medie Imprese (PMI) che non
dispongono di ingenti risorse da investire.
Il percorso di crescita, o comunque di
commercio con l’estero, non è però semplice per
le imprese italiane, caratterizzate da un nanismo
dimensionale, che molto spesso le costringe, visto
anche uno scarso, quasi nullo, sostegno
istituzionale italiano, a rimanere nei mercati già
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conosciuti. Sono imprese quindi esposte ad una
continua lotta per la sopravvivenza, che molto
spesso le vedrà comunque soccombere, a favore di
competitors esteri.
Tra i paesi, più vicini all’Italia, sia in senso
geografico sia a livello culturale, possiamo
annoverare la Repubblica di Albania, una meta che
sconta ingiustamente molti pregiudizi, ma che in
realtà offre innumerevoli opportunità.
L’Albania è uno dei pochi paesi del
continente europeo in crescita e i suoi esponenti
governativi stanno continuando a perseguire una
sempre maggiore integrazione nella comunità
euro-atlantica.
L’Italia è il primo partner commerciale,
con scambi complessivi per 2,12 miliardi di dollari
nel 2011. Il suo PIL pro-capite è pari ad oltre
8.000$ ed ha una crescita reale del 3% annuo.
Motivi storici, e vicinanza linguistica, rendono
l’Albania, una buona palestra per iniziare un
processo di sviluppo all’estero.
È possibile considerarlo come la 21°
regione d’Italia, con grandezze economiche, simile
alle Marche.
Le prospettive sono solide, a livello di
sviluppo e di opportunità, e le stime di crescita per
i prossimi anni sono molto soddisfacenti. Il Fondo
Monetario Internazionale, prevede un aumento del
Prodotto Interno Lordo per il 2013 pari al 4,1%, e
se il Paese dovesse ricevere, come si prospetta, lo
Status di Candidato Membro dell’Unione Europea,
ed effettuare alcune riforme, la crescita potrebbe
essere ancora più marcata ed esponenziale anche
negli anni successivi.
Source: Fondo Monetario Internale, stima di crescita PIL in Albania.
Infatti, nonostante il rallentamento economico
globale, l’Albania è stata in grado di mantenere una
buona stabilità macroeconomica ed ha condotto
una politica economica volta alla stabilizzazione ed
all’attrazione degli investimenti.
Gli Investimenti Diretti Esteri, dal 2010,
sono sempre stati sopra il 10% del GDP, con una
costante crescita registrata fin dal 2006. Secondo
l’indice 2011 della libertà economica, redatto dalla
Heritage Foundation, il Paese si colloca al 70°
(Italia 87°) posto a livello mondiale.
La
spesa
pubblica
complessiva,
comprendente anche il consumo ed il
trasferimento dei pagamenti, è moderata,
raggiungendo nel 2010 il 26,6% del PIL.
L’inflazione è stata bassa, con una media del 3,2%
tra il 2006 ed il 2008, ed attualmente si attesta
intorno al 3,5%. Il tasso di disoccupazione
ufficiale, anche se elevato, è comunque intorno al
13,7%, tale dato è influenzato anche da una zona
grigia di attività sommersa.
I punti di forza dell’Albania, sono
numerosi: solo 72 chilometri di distanza dalla
Puglia, un’ora circa di volo da Roma o Milano
(collegati quotidianamente), il clima favorevole, la
diffusione dell’italiano nella popolazione, il sistema
fiscale con un aliquota unica al 10%, un Accordo di
Stabilizzazione e Associazione con l’Unione
Europea, firmato nel 2006, che cancella i dazi
doganali su quasi il 90% dei prodotti. Inoltre è
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possibile operare in regime agevolato, qualora i
prodotti giungano in Albania solo in conto
lavorazione, ma soprattutto per il basso costo della
manodopera, e del relativo cuneo fiscale tra
impresa e dipendenti, può esser definita «la Cina
d’Europa».
Nel campo del Customer Care Telefonico,
sono impiegate in Albania, circa 22.000 persone,
operanti quasi esclusivamente con il mercato
italiano. Sono presenti, i maggiori players del
settore, da Teleperformance al Gruppo Abramo,
in rappresentanza di società come Alitalia, Sky,
British Telecom, Sorgenia, Edison, Telecom Italia
e molte altre ancora. Le motivazioni dell’espatrio
sono semplici, basti pensare che un operatore
guadagna circa 500euro al mese, ed il suo costo
aziendale non supera i 600€/mese. Oltre ad una
burocrazia, ed una contrattualistica snella e lineare,
che non deve però illudere le imprese che tutto è
possibile e che si sia legalizzato lo sfruttamento,
esistono infatti garanzie contrattuali eque e
condizioni a tutela del lavoratore.
Nel 2009 l’Albania ha ottenuto la piena
adesione alla NATO, è membro dell’Onu dal
lontano 1955 e del WTO dal Settembre 2000.
Inoltre dal Dicembre 2010, con l’adesione
dell’Albania al Trattato di Schengen, i cittadini
albanesi posso muoversi liberamente in tutti i paesi
firmatari. In Italia la presenza di cittadini albanesi è
di poco più di 483 mila.
Tra le opportunità, si evidenzia, in
particolare, il settore dell’energia idroelettrica che
ha visto un notevole impulso alla crescita, non
influenzato da incentivi ed agevolazioni. Ed oggi
nel paese ben oltre il 90% dell’elettricità è
ottenuta da questa fonte rinnovabile. L’apertura al
libero mercato energetico, con le privatizzazioni
delle società ex-statali di gestione e distribuzione,
ha attratto numerosi investitori che sfruttando i
bassi costi locali, possono ottenere concessioni per
ben 35 anni, e rivendere la loro energia ovunque in
Europa. Il Governo negli ultimi anni ha rilasciato
oltre 300 concessioni di sfruttamento dei corsi
idrici, quasi saturando le possibilità offerte dai
rilievi orografici del Paese. Moltissime di queste
concessioni, però non sono ancora state sviluppate,
e rappresentano un’ottima opportunità per gli
investitori esteri, che possono quindi gestire il
processo realizzativo ed operativo, fin dall’inizio.
La domanda di energia è d’altronde in crescita
costante, e l’offerta interna non è ancora
completamente in grado di soddisfarla, inoltre,
grazie alle interconnessioni con la Smart Grid
Europea
è
possibile
cedere
eventuali
sovrapproduzioni ad altri operatori internazionali.
Le infrastrutture, sono in via di
ammodernamento da alcuni anni, ad un
osservatore esterno può sembrare paradossale
riscontrare come le vie di comunicazioni interne
sono peggiori dei collegamenti con l’estero. E’ pur
vero che, molto si è fatto, e si sta realizzando, e si
è, giustamente, preferito integrare a livello
europeo, prima le città più popolose(Tirana,
Durazzo, Valona), e poi procedere alla loro
integrazione interna. In previsione, in Albania, si
realizzerà il Corridoio PanEuropeo VIII, che
permetterà di congiungere Bari-Brindisi, con Sofia,
Burgas e Varna sul Mar Nero, passando per Tirana,
Valona e Skopjie in Macedonia.
Negli ultimi anni, si è registrata la piena
apertura dei mercati, grazie alle privatizzazioni
delle società statali, nei principali settori economici
e all’ingresso di grandi players internazionali. Nelle
telecomunicazioni oggi sono presenti operatori
inglesi (Vodafone), sloveni e turchi.
Il settore bancario è ormai pienamente
armonizzato con le best practices europee, è
sottoposto al rispetto delle normative
internazionali del Gafi (antiriciclaggio) e
all’adesione nei circuiti interbancari. Sono presenti
alcuni grandi gruppi, di diverse nazionalità, Italiani
(Intesa, Veneto Banca), francesi (Societè Generale,
Credit Agricole), austriaci (Raiffeisen), oltre che
turchi, greci ed arabi.
L’Albania, non è però un paradiso
terrestre, molti imprenditori si preoccupano della
corruzione e della criminalità, che se è vero sono
fattori, inutile nasconderlo, esistenti, e pur vero
che in concreto incidono meno di ciò che si possa
pensare. Il senso di percezione della corruzione e
di insicurezza, è sicuramente elevato, ma è una
condizione psicologica, che non si manifesta nei
risvolti quotidiani, soprattutto per un investitore
estero, che specialmente se italiano, magari
meridionale, ha idee ben diverse circa la
criminalità e la corruzione, che possono
danneggiare un business, la cui esistenza non
riscontra in Albania.
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I finanziatori internazionali, infatti, non
hanno remore nel vedere finalmente il Paese come
un mercato attraente e la Banca Europea degli
Investimenti (BEI) oltre alla Banca Europea di
Ricostruzione e Sviluppo (BERS) e alla Banca
Mondiale finanziano agevolmente opere importanti
e di sviluppo per il paese. Inoltre, lo Status di
Paese Candidato ad entrare nell’Unione Europea,
che potrebbe esser rilasciato a breve, farà
pervenire notevoli risorse economiche per
equiparare il Paese agli standard europei.
L’internazionalizzazione è quindi ormai un
imperativo categorico per la crescita, il progresso e
in alcuni casi la sopravvivenza delle aziende.
L’Albania non deve esser identificata
sempre come un feudo di corrotti, prostitute, ladri
o trafficanti, ma come un approdo strategico che
può allargare la visione del mondo e del fatturato.
Le opportunità sono numerose in diversi settori e
tra le priorità governative, vi è il rilascio di
concessioni governative in molti ambiti considerati
strategici per lo sviluppo del Paese.
Il problema dell’informazione nell’azienda moderna
a cura di Edoardo Angeloni
Nella tesi di Management d’Impresa, che sto
svolgendo per l’Università di Teramo, cerco di
affrontare con una matematica abbastanza specifica,
appunto la teoria dei giochi, il problema che si crea
in una azienda quando si passa da un modello ad
informazione completa ad una trasmissione
asimmetrica bayesiana. Avevo discusso in una tesi
precedente I giochi epistemici tra tradizione e teoria
della complessità alla fine di un Master in
Epistemologia un paio di anni fa il significato
matematico e filosofico di un tale cambiamento di
metodo ideologico.
Nel caso aziendale naturalmente il modello
deve rendere conto della massimizzazione dei
profitti. Ciò crea dinamiche manageriali che
comunque da un punto di vista filosofico il lavoro
citato riesce ancora ad inquadrare.
Nella maggior parte dei casi il modello
asimmetrico bayesiano è più efficiente perché lascia
maggiore autonomia ai manager. Ma se l’azienda
vuole premiare l’azione collettiva, allora può
funzionare a tal scopo il modello ad informazione
perfetta. Certo alla fine sarà più conveniente
simularlo con un gioco cooperativo per evitare
calcoli enormi.
In ogni caso rimane di un certo interesse
valutare come un lavoro prettamente filosofico con
aspetti matematici spieghi abbastanza bene concetti
tipicamente aziendali. Più avanti citerò brani della
tesi in Epistemologia per renderci conto della
validità del problema filosofico in ambiente
aziendale, oltre ai modelli matematici.
Allora è anche lecito porci la seguente domanda:
come la teoria dei giochi può spiegare la realtà
economica in analogia con la fisica? E’ una tematica
abbastanza ricca di letteratura che ho già affrontato
con un tesi in Statistica nel 2006 Determinismo e
incertezza nelle scienze fisiche e sociali. La mia
intenzione è di visionare le ultime opere uscite
sull’argomento per vedere se il discorso generale è
rimasto abbastanza invariato. Ma in questo articolo
non seguirò questo approccio lasciandolo per la tesi
di Management vera e propria. Ma in effetti,
quando questo succede, il paradigma dominante si
struttura in un certo modo. Nella tesi del 2006
sostenevo in sostanza che come rigore matematico
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l’economia è abbastanza affine alla biologia, ma è
meno esigente della fisica. Visto che il contesto è
rimasto questo piuttosto a lungo, all’interno del
paradigma che alla fine si è consolidato in senso
kuhniano prevale chi fa una disanima di tipo storico
oppure chi porta avanti tesi comportamentiste.
Nella tesi che sto scrivendo, non insisterò
ancora sulla differenza tra probabilismo e
determinismo, cosa che ho già svolto nel 2006 con
abbondanza di particolari; ma cercherò appunto di
seguire gli ultimi sviluppi della teoria nel modo che
ho accennato. Potrebbero diventare di un certo
interesse come novità matematiche la teoria dei
frattali di Mandelbrot e quella dei jump di Tankov.
Tornando alle problematiche dell’azienda,
possiamo considerare il fatto che le problematiche
legate all’informazione sono tra le cause principali,
insieme al potere di mercato e alle esternalità, dei
cosiddetti “fallimenti del mercato”. In termini
generali le carenze informatiche generano costi
nelle transazioni di mercato che possono
determinare risultati lontani da un funzionamento
ottimale.
In particolare dal lato della domanda la
mancanza o la costosità del reperimento delle
informazioni, secondo un modello a capacità
cognitiva limitata ( rispetto al tradizionale assunto
della perfetta razionalità ), non permette ai
consumatori di compiere scelte che massimizzano
sempre la propria utilità.
Una distribuzione asimmetrica delle
informazioni, con una delle due parti in posizione
di vantaggio, alimenta fenomeni opportunistici che
si verificano prima e dopo la firma del contratto.
Di solito il venditore è avvantaggiato nella prima
fase, perché conosce le caratteristiche del bene
meglio del consumatore. Quest’ultimo può
sfruttare un mancato monitoraggio del venditore
nella fase di esecuzione del contratto. Se anomali,
gli effetti opportunistici da entrambe le parti
possono essere letali e rendere inefficiente il
mercato.Il comportamento tenuto dall’Autorità
dell’energia e dall’Antitrust è stato quello di
tutelare il consumatore con regolamenti stringenti
sulla vendita, soprattutto nelle prime fasi della
liberalizzazione del mercato dell’elettricità e del
gas, in modo che in Italia si è passati da un
“paternalismo regolatorio” ad un “empowerement
del consumatore finale”. Il consumatore non va
protetto da ogni brezza del mercato ma deve
diventare un partecipante attivo del sistema.
La riduzione dei costi unitari di transazione
sostenuti da consumatori e venditori potrebbe
portare ad un aumento delle transazioni stesse,
agendo come un normale meccanismo di prezzo,
secondo le caratteristiche dei sistemi dinamici. Le
leggi europee sul consumo si basano sul “paradigma
del consumatore”, che è informato e in grado di
decidere
autonomamente,
conoscendo
e
utilizzando i benefici di una maggiore
competizione.
Una maggiore diffusione dell’informazione
si pensava fosse garantita dal potere di mercato
delle aziende. Contro un back-ground di questo
tipo, sono nate nuove esigenze, come proteggere il
cittadino
dalla
chiusura
informativa;
i
comportamenti dell’economia si basano sui
processi decisionali del consumatore. Secondo
l’economia neo-classica, egli si basa appunto sulla
massimizzazione del proprio benessere.
Le nuove teorie che analizzerò in dettaglio
propongono modelli dove si considera
l’importanza dell’azione collettiva e il relativo
livello informativo. Ciò è legato al fatto che le
scelte del consumatore dipendono da fattori
irrazionali come distorsioni dello status quo,
avversione al rischio, misconcezioni delle
aspettative future.
In USA sta prevalendo la tesi del
“paternalismo liberale” che lascia le aziende libere
di decidere, ma introduce sistemi regolatori nel
mercato. Nel mercato energetico aspetti tecnici e
complessità strutturali aumentano il livello di
asimmetria delle informazioni. A ciò fanno
riferimento le leggi sulla trasparenza.
Se il mercato è di tipo complesso, può
essere strutturato secondo griglie che possono
costituire veri e propri network. Essi integrano
comportamenti e azioni degli attori economici
(produttori e consumatori) per assicurare
l’efficienza. Esistono funzioni di feed-back sul
consumo energetico, automazione, controllo
remoto, differenze nei prezzi. Vanno affrontati i
problemi dell’inquinamento ambientale e delle
9
risorse rinnovabili, così come va distinto il modello
statico da quello dinamico.
I giochi epistemici tra tradizione e teoria
della complessità - un sunto tratto dalla
Tesi di Epistemologia 2009-10
L’introduzione al modello di Gintis
In questa tesi ho presentato in dettaglio il modello
dei giochi epistemici; in tali strutture logicomatematiche si affronta il problema del
collegamento dell’informazione tra individui,
confrontando il modello CKR con quello
bayesiano.
Il primo prevede che un’affermazione sulla
realtà può essere accettata dalla collettività se il
modo di verificazione è condiviso da tutti senza
alcuna possibilità di errore. Ciò corrisponde alla
critica che fa Popper contro la filosofia positivista,
ma è un modello così rigido da non essere mai
applicabile nella realtà. Il secondo meglio coglie gli
aspetti personali dei partecipanti alla comunità
scientifica ed è di più facile applicazione
matematica.
In seguito ho cercato di spiegare le
motivazioni che secondo Gintis fanno parte
dell’immediato back-ground di questo modello
matematico. In particolare egli parte dall’idea di
unificare le scienze del comportamento e in questo
senso l’approccio deve convergere verso un
tentativo di studio globale della persona umana. E’
di particolare interesse da un punto di vista
biologico la nozione di coevoluzione geneticoculturale.
La società viene quindi vista come un
sistema di adattamento complesso e si considera la
possibilità di applicare la teoria dei giochi
congiuntamente a quella del caos per studiare il
fenomeno dell’evoluzione biologica. E’ importante
verificare questi fatti a tre livelli epistemologici:
quello elaborato da Gintis, quello tradizionale,
quello contemporaneo legato ai sistemi dinamici.
L’unificazione
delle
scienze
del
comportamento.
Scrive Becker: ”Le assunzioni combinate di
massimizzazione del comportamento, equilibrio di
mercato e stabilità delle preferenze formano il
cuore dell’approccio economico”. Ribadisce
inoltre Hirschleifer:”Mentre il lavoro scientifico in
antropologia, sociologia e scienze politiche
diventerà in maniera crescente indistinguibile
dall’economia, gli economisti dovranno diventare
reciprocamente consapevoli di quanto ristretta sia
stata la loro visione del tunnel tra la natura
dell’uomo e l’interazione sociale”. Le scienze del
comportamento includono le discipline di cui parla
Hirschleifer, come pure la biologia che rappresenta
il raccordo tra comportamento umano e animale.
Questi modelli non sono solo differenti,
come ci si potrebbe attendere dalle diverse
tipologie di spiegazione, ma sono anche
incompatibili. Quindi se volessimo formulare una
previsione sulla possibile scelta di una persona da
un punto di vista generale, in base a quanto detto
dovremmo adottare soluzioni diverse. Se noi
vogliamo un sistema di riferimento secondo il
quale tale soluzione si presenti univoca, dovremmo
in qualche modo procedere all’unificazione dei
metodi relativi alle diverse scienze del
comportamento.
L’economia spiega il mercato degli scambi,
la sociologia mostra la stratificazione e la devianza
dei dati sociali. La psicologia illustra il
comportamento del cervello; mentre la biologia,
non riuscendo con Darwin a spiegare
completamente le emozioni umane, evita questo
tipo di particolari. Negli ultimi anni comunque
l’attività di questo tipo è diventata maggiormente
interdisciplinare e ha indirizzato questioni di teoria
sociale di rilievo; per questo motivo la sociobiologia è diventata la maggiore arena di ricerca
scientifica.
Il sistema di riferimento proposto da Gintis
include cinque unità concettuali: evoluzione
combinata tra fattori genetici e culturali, teoria
psico-sociologica delle norme, teoria dei giochi,
modello degli attori razionali, teoria della
complessità. Queste società sono il prodotto
dell’interrelazione dei diversi fattori, ma hanno
proprietà emergenti, includendo norme sociali e i
prerequisiti correlati da un punto di vista
psicologico, che non possono essere derivate
analiticamente dalle parti componenti del sistema,
che in questo caso sono gli agenti che interagiscono
fra loro. Solo la teoria dei giochi possiede diversi
livelli interpretativi: classico, comportamentale,
epistemico ed evoluzionario. Mentre la teoria della
coevoluzione genetico-culturale è una spiegazione
10
che non ha possibilità predittive, il modello
dell’attore razionale fornisce una descrizione
approssimata del comportamento che può essere
testata sia in laboratorio che nella vita reale. Le
teorie
dei
giochi
classica,
epistemica,
comportamentale, non hanno senso senza il
modello dell’attore razionale, così come le teorie
del comportamento che hanno abbandonato questo
modello hanno perso parte della loro importanza
precedente. La teoria della complessità è necessaria
perché la società umana è un sistema di
adeguamento complesso con proprietà emergenti
che non può essere per ora pienamente spiegato
partendo con più unità basilari di analisi. I metodi
ipotetico-deduttivi della teoria dei giochi e del
modello dell’attore razionale, così come la teoria
della coevoluzione genetico-culturale, devono
infatti essere sostenuti dal lavoro di scienziati del
comportamento, operanti nella società a più
macrolivelli, secondo termini interpretativi e
schemi di sviluppo delle idee capaci di gettare luce
laddove i modelli analitici non possono penetrare.
Studi antropologici e storici ricadono in
questa categoria, come pure le politiche
macroeconomiche e i sistemi economici
comparativi. I modelli basati sugli agenti dei
sistemi dinamici sono anche utili per mostrare le
proprietà emergenti di sistemi di adeguamento di
tipo complesso.
I principi precedenti non implicano
ricerche rivoluzionarie per ogni disciplina. Infatti
essi poggiano su forze esistenti e implicano
cambiamenti solo in quelle aree dove si
sovrappongono le diverse argomentazioni. Un
lavoro molto tecnico su un tema specifico può
avere forse un piccolo guadagno dalla conoscenza
di un modello unificato sotteso a tutte le discipline
del comportamento. D’altra parte un modello
unificato tra scelte umane e interazione strategica
può offrire innovazioni diffusa in tutta la disciplina,
anche in aree relativamente separate tra loro.
Coevoluzione genetico-culturale
Il genoma assume nel codice delle informazioni che
sono usate sia per costruire nuovi organismi che
per dotarli delle istruzioni in grado di trasformare
input di senso in output decisionali. Poiché
l’apprendimento è costoso e permette possibilità di
errori, una trasmissione efficiente di informazioni
assicura che il genoma prenda nel codice tutti gli
aspetti ambientali dell’organismo che si
mantengono costanti o che cambiano di poco nel
tempo e nello spazio. Contrariamente a questo
fatto, le condizioni ambientali che variano
rapidamente possono accordarsi con il fatto di
fornire all’organismo la capacità di apprendere.
C’è un caso intermedio, comunque, che
non può essere spiegato né geneticamente né con
l’apprendimento. Quando le condizioni ambientali
sono correlate positivamente tra loro, ma
imperfettamente correlate per generazioni, ogni
generazione acquista informazioni valide attraverso
l’apprendimento che non è possibile trasmettere
geneticamente alla generazione successiva, perché
non è possibile la codificazione. In tali contesti, c’è
un adattamento benefico verso la trasmissione di
informazione epigenetica riguardante lo stato
corrente dell’ambiente. Tale informazione
epigenetica in realtà è piuttosto diffusa tra gli esseri
umani, ma molto poco tra gli altri primati.
Il parallelo tra evoluzione biologica e
culturale è stato trattato da Popper in Conoscenza
obiettiva (1979) . L’idea di considerare la cultura
come una forma di trasmissione epigenetica è stata
sviluppata da Dawkins in Il gene egoista (1976),
dove viene definita l’unità di informazione che può
essere trasmessa fenotipicamente. Questo è stato il
maggior contributo in questa direzione, basato
sulla nozione che la cultura, come i geni, può
evolvere attraverso replicazioni, mutazioni e
selezioni.
Parsons (1964) ha sostenuto che gli
elementi culturali riproducono se stessi, essendo
soggetti alla selezione secondo i loro effetti
sull’adattamento dei loro caratteri. Dawkins ha
parlato anche di un meccanismo fondamentale
della trasmissione epigenetica, la costruzione di
nicchia : la specie crea un importante aspetto
all’interno del suo ambiente e trasmette
stabilmente questo ambiente per generazioni. (Un
eccellente esempio di questo caso è rappresentato
dall’alveare : c’è correlazione tra genoma del miele
e struttura sociale delle api).
La teoria delle norme: il modello
sociologico.
La centralità della cultura all’interno della
divisione sociale del lavoro è stata espressa
11
chiaramente da Durkheim (1933) che dimostrò che
la grande molteplicità di ruoli ( che egli chiamò
solidarietà organica) richiedeva una comunione di
credenze ( che egli chiamò coscienza collettiva);
quest’ultima
permetterebbe
un
regolare
coordinamento di azioni da parte di individui
distinti.
Questo tema fu sviluppato da Parsons
(1937) che usò le sue conoscenze di economia per
articolare un sofisticato modello di interazione tra
situazione (ruolo) e i suoi abitanti (attori).
La domanda è se i pay-off (incentivi e penalità)
associati al ruolo sociale degli agenti dipendono da
aspetti comportamentali. Per quanto riguarda i
giochi epistemici, il modello rigido CKR è
puramente assiomatico, mentre il modello elastico
di Aumann è basato sulla legge di Bayes.
Potremmo affermare che il modello rigido
riflette l’epistemologia di Popper, in quanto la
verifica di un evento, per essere valida per tutta la
collettività, deve essere provata da una catena
infinita di informazioni. Il modello più flessibile è
rappresentato dall’epistemologia di Kuhn, che dà
rilievo ad aspetti comportamentali dello scienziato
che nonostante tutto sbaglia come essere umano.
L’equilibrio delle congetture fa senza dubbio
riferimento all’idea kunhiana di paradigma.
In prima istanza, le norme sociali hanno un
carattere strumentale dovuto al contenuto
normativo, servendo unicamente ai meccanismi
informativi che coordinano il comportamento di
agenti razionali. Ma ci possono essere casi come
l’informatica in cui il ruolo pubblico è diversificato
rispetto a quello privato ed in seguito ci
soffermeremo su questo aspetto.
L’interiorizzazione
delle
norme
presuppone una genetica predisposizione alla
cognizione morale, che può essere spiegata solo
dalla coevoluzione socio-culturale. Tale processo
può essere formalizzato mediante la costruzione di
un sistema di preferenze che l’individuo massimizza.
Ciò è ben descritto nei modelli di tipo economico.
La scelta razionale: il modello economico.
I principi generali dell’evoluzionismo suggeriscono
che l’elaborazione di processi decisionali
individuali all’interno di una specie può essere
modellata ottimizzando la funzione di preferenza,
tenendo conto che la selezione naturale porta il
contenuto delle preferenze a riflettere
l’adattamento biologico. Cambiando il contesto,
ma non il senso del processo, il principio di utilità
attesa si estende mediante la sua ottimizzazione ai
redditi stocastici.
Economia e biologia sono infatti piuttosto
similari: la consistenza di una scelta da cui dipende
la teoria dell’attore razionale è resa plausibile dalla
teoria evolutiva, mentre le tecniche economiche di
ottimizzazione sono applicate spesso ed estese dai
biologi modellando il comportamento degli
organismi non-umani.
Simon (1982), confrontando la capacità
finita dell’individuo di accumulare dati rispetto ad
un elaboratore elettronico, ha parlato di
soddisfazione
invece
di
massimizzazione,
considerando tale oggetto solo limitatamente
razionale. Gintis riconosce la validità di
quest’ultimo punto di vista, che include
l’importanza dei costi dei processi di informazione
e dei limiti della diffusione dell’informazione stessa
nei modelli di comportamento legati a delle scelte.
L’opinione di Simon è apprezzabile anche perché
rende conto della decisione di quanta informazione
inglobare, che dipende dai presupposti a priori
soggettivi non-analizzati a qualche livello.
Teoria dei giochi epistemici e norme sociali
Economia e sociologia hanno modelli di interazione
fra gli individui fortemente contrastanti. Gli
economisti per tradizione considerano le persone
da un punto di vista razionale, nel senso che esse
massimizzano i pay-off, se ciò è nel loro interesse;
d’altra parte i sociologi le considerano altamente
socializzate, altruiste, dotate di etica in quanto
desiderose di ricoprire un ruolo sociale perché la
loro auto-stima dipende dall’approvazione del
prossimo.
Il progetto unificatore delle discipline
dovrebbe conservare le caratteristiche di entrambi
i modelli. Si partirebbe dal fatto che gli individui
hanno dei valori, basati su particolari situazioni
socio-culturali, che hanno la possibilità di venire
realizzate in laboratorio in giochi ad un passo sotto
condizioni di anonimato. Inoltre ciò suggerisce che
i sociologi potrebbero trarre beneficio
dall’inclusione del modello di attore razionale fra
le loro teorie, mentre la teoria psico-sociologica
12
potrebbe essere in grado di spiegare con nuovi
concetti la cooperazione sociale.
Il modello fondamentale per la divisione
del lavoro in economia è l’equilibrio generale di
Walras, secondo il quale un sistema di prezzi
flessibili induce imprese ed individui ad offrire e
domandare beni e servizi secondo quantità stabilite
dalle leggi del mercato (Arrow-Debreu 1954).
Inoltre molte forme cooperative non sono mediate
da una terza controparte, ma piuttosto la
contrattazione prende l’aspetto di una serie di
ripetute interazioni, dove la minaccia informale ma
reale di interrompere le relazioni di solito induce la
mutua cooperazione.
La teoria dei giochi ripetuti costituisce per
gli economisti i passi per spiegare forme di
cooperazione faccia-a-faccia che non possono
essere ridotte al semplice meccanismo dei prezzi
mediato dal mercato. Comunque la teoria dei
giochi ripetuti non risolve completamente il
problema della cooperazione, soprattutto per
quanto riguarda la relazione con le altre discipline:
quando il numero di giocatori supera il 3 il
modello matematico diventa complicato.
Una norma sociale può fornire agli
individui le regole per una divisione sociale del
lavoro; quindi i giocatori potrebbero preferire di
consolidare il rapporto con gli altri partecipanti per
convertire i loro privati segnali in pubblici, così
come potrebbero avere una predisposizione
normativa personale a seguire i ruoli sociali ad essi
assegnati.
Un contributo centrale dal punto di vista
analitico è stato fornito da Aumann (1987) che ha
mostrato che il concetto naturale di equilibrio della
teoria dei giochi non è l’equilibrio di Nash, ma
l’equilibrio correlato.
L’equilibrio correlato consiste nell’equilibrio di
Nash a cui si aggiunge il contributo di un nuovo
giocatore, il coreografo. Quest’ultimo modella la
distribuzione di probabilità data dalle credenze
individuali e istruisce ciascun giocatore sull’azione
da intraprendere.
L’impatto sociale degli istituti di credito
a cura di Lucian-Razvan Desliu
“Fare debito” occupa oggi un posto centrale
nella nostra vita. La Carta di credito, il mutuo per
la casa, il leasing per la macchina, e un livello
nazionale di un debito pubblico in continua crescita
ne testimonia la centralità acquisita. Negli ultimi
20 anni, infatti si è assistito da parte delle banche
una notevole espansione nella concessione dei
crediti, dovuta da una crescita importante dei
prezzi degli attivi bancari.
Perché ci indebitiamo? Primo, perché
vogliamo mantenere il tenore di vita a cui ci siamo
abituati. Poi perché siamo ottimisti sul futuro,
pensando che il guadagno ottenuto dai soldi
prestati risulterà maggiore del prezzo del credito.
Nello stesso tempo, anche gli istituti di credito
erano ottimisti, contando su un continuo processo
di aumento dei redditi, e quindi sulla certezza della
capacità dei cittadini di pagare i crediti contrattati.
Ma adesso i nodi di questo sistema creditizio sono
venuti alle pettine. Le economie occidentali sono
in crisi , la produttività è in decrescita, il rapporto
demografico spinge sempre di più verso
l’invecchiamento della popolazione. Allora come
mantenere l’attuale tenore di vita nell’Occidente,
con l’accesso al credito non più percorribile?
Di sicuro il modello di crescita intensiva fondato sull’idea che la via più breve per arricchirsi
(come individuo, ditta o paese) è di contrattare
debito, comprare attivi ed aspettare che il prezzo
di questi attivi aumentino – è sulla via di
estinzione.
Ogni debito rappresenta un modo per
ipotecare il tempo del debitore, la capacita di
controllare il suo futuro e di sottometterlo alla sua
volontà. Il debito finanziario ha una caratteristica
speciale in quanto calcola e programma la gestione
sul futuro del debitore, rinnovandosi ogni volta che
il debito si estende per periodi più lunghi e a tassi
di interesse più alti.
Nel Medio Evo i mercanti che prestavano
soldi con tasso di interesse erano considerati “ladri
del tempo”, in quanto non vendevano niente di
quello che gli apparteneva ma vendevano il tempo
che appartiene solo a Dio (Jacques le Goff, “La
Bourse et la vie”, Paris, Hachette, 1986). E’ una
visione
13
sulla finanza che ancora prevale nel mondo
islamico..
Le banche hanno sempre avuto due
mansioni principali: a) attrarre i risparmi dei
cittadini offrendo loro la custodia del denaro ad un
rendimento duraturo nel tempo b) rilasciare crediti
personali o ad aziende, in cambio di un prezzo
inclusivo dell’interesse. Una nota importante è che
la quantità del credito erogato non è commisurato
alla quantità dei risparmi attratti. Anzi, nell’attuale
regolamento di funzionamento delle banche, una
banca può prestare denaro nove volte di più
rispetto alla quantità di depositi. In altre parole,
una banca funziona sulla basi di un doppio debito:
quello sui risparmi ricevuti e quello sui crediti
offerti.
Il modello bancario quindi si basa sulla
speculazione esercitata sul tempo dei soggetti
indebitati che utilizzano e trasformano i soldi fittizi
ricevuti nella produzione di beni o acquisizione di
immobili e terreni. Con il miracolo del credito,
infatti, il futuro viene assimilato ad un mezzo di
produzione, uguale al capitale e alla forza di
lavoro, basandosi sulla certezza che gli investimenti
effettuati oggi porteranno rendimenti più alti nel
futuro, così da anticipare sempre i benefici futuri.
Tale modello di indebitamento ha generato
una mancata correlazione tra i livelli reali di
reddito o di produzione e la nostra capacità di
consumo, facendo venire meno a livello nazionale
e personale,
il senso della spesa e
dell’investimento.
Si è quindi iniziato a consumare il futuro,
come sta avvenendo per le materi prime, con
l’illusione che questo perpetuo ascensore
finanziario non avrà mai fine. Il debito pubblico
medio per le più sviluppate economie del mondo
nel G20 superera 100% del loro PIL in 2014.
The Economist, 16 Maggio 2009
Con la crisi economica mondiale, però, il
meccanismo si è inceppato ed è arrivato il
momento di riconsiderare in modo radicale il
nostro modello economico.
Ad oggi ci ritroviamo, infatti con
l’attuazione in una fase di contrazione del debito
definita “deleveraging”, che ha lo scopo di
eliminare gli eccessivi debiti; questo però porta
anche effetti negativi al modello economico, e cioè
effetti recessivi che minano la redditività e quindi
l’occupazione.
I destinatari principali, purtroppo sono i
cittadini stessi, che si trovano a pagare due volte
l’effetto del “deleveraging”: subendo gli effetti
della crisi economica e pagando le imposte e le
tasse necessarie per coprire i buchi del settore
finanziario.
Inoltre il sistema bancario rimane
necessario per contenere eventuali crisi di
liquidità o crolli dei prezzi degli asset come ci
mostra l’esempio di questi ultimi anni, con
l’iniezione illimitata di liquidità in America e oggi
anche in Europa, le nazionalizzazioni in Gran
Bretagna, in Francia e in Belgio, le
ricapitalizzazioni in Europa o gli accordi
internazionali di prestito sotto l’egida del Fondo
Monetario Internazionale .
Per risolvere la crisi non rimane altra strada
di riconsegnare allo Stato la sovranità sul proprio
sistema bancario.
I gruppi bancari sono diventati troppo
grandi per essere lasciati fallire dagli stati di
appartenenza nel caso dei problemi sistemici. La
più grande banca americana, Citigroup, ha un
capitale pari all’ 1% del PIL americano. La più
grande banca olandese contribuisce con 6,5% al
PIL olandese. UBS e Credit Suisse, i due colossi
14
bancari svizzeri, contribuiscono ognuno con circa il
13% del PIL elvetico (The Economist, 20 maggio
2006). La capacità dei grandi gruppi bancari di
influire sulle decisioni dei governi e delle autorità
pubbliche è aumentata di molto nell’ultimo
decennio.
Un’altra variabile critica da osservare con
cura, soprattutto da parte degli addetti ai lavori
impegnati a risollevare le economie in crisi,
riguarda il decentramento del rischio bancario
verso gli investitori/risparmiatori. Dopo le recenti
trasformazioni subite dal sistema bancario tramite
ristrutturazioni/ricapitalizzazioni e politiche di
credito molto più conservatrici, le banche ed i
fondi di investimenti tendono a ”vendere” i crediti
rischiosi a società di assicurazione, tramite prodotti
costosi.
I rischi di un sistema economico possono essere
catalogati come segue:
-
-
rischi sull’andamento dei mercati finanziari
quali i tassi d’interesse, l’andamento dei bond e
delle azioni, legati a tassi variabili di
rendimento;
rischi dovuti all’inflazione che hanno effetti
diretti sui costi delle operazioni bancarie;
rischi legati alla longevità che hanno effetti sul
sistema pensionistico e quindi sui fondi di
pensione (obbligatori in quasi tutti i paesi del
Europa Centrale e dell’Est).
Questi
aspetti
hanno
impattato
nell’organizzazione del sistema bancario che è
divenuto sempre più
specializzato nella
valutazione del rischio.
A differenza di altro settori economici, il
mondo bancario è un settore molto integrato. Le
banche fanno affari tra di loro, si prestano tra di
loro soldi ed informazioni. Se nel commercio un
negozio si chiude, gli altri negozi nelle vicinanze
sono contenti. Se una banca fallisce, tutte le altre
banche tremano perche il sistema nella sua
interezza perde la fiducia dei risparmiatori. E se le
banche soffrono, tutti noi soffriamo.
Barack Obama il faro dell’umanità?
a cura di Maurizio Di Giandomenico
Il 6 novembre 2012 l’America ha deciso di
continuare la nuova avventura di avere un
Presidente “diverso” – Barack Obama, diverso per
una lunga serie di motivi – e di non tornare sui suoi
passi affidandosi alla doppia R di Romney-Ryan,
che ha dalla sua la caratteristica tipicità americana
dei bei tempi andati. Nella seconda metà del 2012,
in piena corsa per conquistare il suo secondo
mandato elettorale da Presidente USA, Barack
Obama cambia il suo slogan e lo smalto da brillante
e convinto decisionista si trasforma in un più cauto
“temporeggiatore”.
«Nel 2008 dissi “Sì, possiamo”, oggi dico “Sì, possiamo
ma ci vuole tempo”».
Il perdurare della crisi economicofinanziaria, la peggiore che dal ’29 imperversa sui
tradizionali paesi maggiormente industrializzati con
tecnologie avanzate, sembrerebbe aver piegato la
volontà dell’undicesimo Presidente degli Stati
Uniti. Ma è sufficiente solo questa motivazione?
Il percorso si fa dunque tortuoso ma il
Presidente “diverso” vuole anche questa volta a suo
modo prendere per mano il suo popolo per
incamminarlo attraverso un prossimo futuro
accidentato ma indicante una meta luminosa: «I
nostri problemi possono risolversi, le sfide possono essere
lanciate. Vi guiderò lungo un cammino tortuoso, ma che
conduce in un posto migliore. Non pensiamo che il
governo possa risolvere tutti i nostri problemi. Ma non
credo che il governo sia la fonte di tutti i nostri problemi.
Nessun partito ha il monopolio della saggezza. Nessuna
democrazia funziona senza compromessi».
Il linguaggio del Presidente si fa ambiguo:
quali sono questi compromessi di cui si avvale la
democrazia? Le difficoltà economiche fanno da
sponda alle politiche estere che devono ricercare
anche nuove fonti a cui approvvigionarsi e questo
significa far i conti con i conflitti che si accendono
nel mondo e che condizionano i macro processi
economici.
Uno dei principali cavalli di battaglia del
Presidente durante la campagna elettorale per il
primo mandato fu giocato sul tema del termine
delle guerre in Iraq e Afghanistan ed evitare nuovi
conflitti pur mantenendo una inflessibile lotta al
terrorismo internazionale, con la prospettiva di
15
chiudere o trasformare anche il Pentagono e le
oltre settecento basi militari.
A distanza di quattro anni, luci e ombre
giocano sul teatro delle opere e dei gesti compiuti
dal Presidente USA: decisioni “pacifiste” e un nobel
per la pace da un lato ma pesanti accuse di cinismo
e ambiguità da parte dei detrattori, dall’altro.
Il 4 ottobre 2012 è uscito nelle librerie
italiane il libro di Fidel Castro Obama e l’impero,
(Roma, Atmosphere Libri) in cui l’autore non esita
a descrivere il Presidente “…Obama, un uomo abile
nell’usare le parole” (pag 114) ma intento con
cinismo ad imporre a livello mondiale le politiche
che riguardano il possesso e l’uso di armi nucleari
come avvenuto al vertice sulla sicurezza nucleare a
Seul, Corea del Sud, il 27 marzo 2012.
Su questo stesso libro, nel capitolo “Giorni
Insoliti”, Fidel Castro fa riferimento ad un articolo
apparso su internet il 7 giugno 2012 intitolato
“L’assassino capo” in cui si scrive esplicitamente che
l’America insieme al nuovo Presidente dovrà
eleggere anche il suo “assassino capo”; a questo
rotocalco elettronico fa eco il lungo articolo di Jo
Becker e Scott Shane apparso sul New York Times
intitolato: “Secret ‘Kill List’ proves a test of Obama’s
Principles and will” in cui si accusa il Presidente di
aver formalizzato delle liste con la “nomina” di
terroristi o presunti tali da uccidere attraverso un
programma di droni (aerei spia senza pilota a
bordo capaci di missioni killer in ogni parte del
mondo). Questo programma, è scritto, sarebbe
stato ereditato dal precedente Presidente Bush ma
Obama lo avrebbe ampliato. Insomma, per Castro
Obama è un abile oratore ma anche un cinico e
spietato conservatore della politica estera
americana non esente da ingiustizie e soprusi
perpetrati in mezzo mondo, in particolare nel Sud
America e Medio Oriente ad uso e consumo degli
interessi economici USA.
Infatti questo è il pesante j’accuse di Fidel
Castro: “Mentre nel mondo a un numero sempre
maggiore di persone manca la casa, il pane, l’acqua, la
sanità, l’istruzione e il lavoro, le ricchezze della Terra
vengono sperperate in armi e in interminabili guerre
fratricide, cosa che è diventata un atteggiamento
abominevole sempre più diffuso a livello mondiale.”
(cap. “Giorni Insoliti” pag 116).
Alla penna di Castro si aggiunge la voce del
Presidente venezuelano Chávez, che all’indomani
dell’intervento di Obama all’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite del 21 settembre 2011
dichiara: “… un discorso che potremmo definire un
monumento di cinismo, rivelato dal suo stesso viso, quello
del Presidente Obama. … un uomo che invocava la pace,
pensate un po’, Obama che invoca la pace…”
Se il programma della guerra al terrorismo,
laddove nell’incerto contenuto del termine
vengono inglobati anche interessi “altri” americani,
viene tenuto segreto e operato nei sottotraccia dei
servizi segreti, il programma ufficiale viene invece
sbandierato alla luce del sole e spesso posto in
secondo ordine rispetto alla contingente
emergenza della crisi economica.
Obama stigmatizza in poche righe quanto
fatto e quanto ancora da fare rispetto ai suoi intenti
programmatici su guerra e pace ma il refrain
economico spunta anche qui: «Quattro anni fa, ho
promesso di porre fine alla guerra in Iraq. L’abbiamo
fatto. Ho promesso grande concentrazione nella lotta ai
terroristi che ci hanno attaccato l’11/9. L’abbiamo
fatto. Abbiamo smussato lo slancio dei talebani in
Afghanistan, e nel 2014, la nostra più lunga guerra sarà
finita. Le trame terroristiche devono essere interrotte. La
crisi dell’Europa deve essere contenuta. Il nostro impegno
per la sicurezza di Israele non deve vacillare, e il governo
iraniano deve affrontare un mondo unito contro le sue
ambizioni nucleari»
Sembrerebbe dunque, e a ragione, che
l’attuale assillo di Obama non siano più le guerre
ormai alle spalle, bensì la preoccupazione per
l’andamento dell’economia americana, per il
possibile/probabile default economico di alcune
nazioni alleate e per lo spauracchio delle nuove
economie incalzanti che dai Paesi emergenti
andrebbero a comprimere i primati dei tradizionali
Paesi che ancora deterrebbero il primato mondiale,
tra cui ovviamente gli USA.
Sui temi sensibili di Industria ed Economia
così si esprime il Presidente: «Nell’industria potremo
avere un milione di nuovi posti di lavoro entro la fine del
2016 ed esportazioni raddoppiate per la fine del 2014.
Dopo un decennio di declino, questo paese ha creato oltre
mezzo milione di posti di lavoro nella produzione negli
ultimi due anni e mezzo». È possibile eliminare i
16
deficit di bilancio statale e federale negli Stati
Uniti, ottenere ancora nuovi posti di lavoro,
fornire assistenza sanitaria gratuita e istruzione
universitaria a ogni americano? Questo è l’attuale
big match che il Presidente Barack Obama intende
giocare a casa sua rinunciando, a mio parere, per il
momento, ad un ruolo di primo piano come “faro
dell’umanità”. Intanto vara un ambizioso progetto
di riforma sanitaria, punto di forza del suo
programma, rafforza la sua politica energetica
basata in gran parte sulle fonti rinnovabili e afferma
di aver fatto qualcosa per la giustizia sociale. Il
contrario di quanto si fa in Italia: «Ho tagliato le
tasse a coloro che ne avevano bisogno: famiglie della
classe media, piccole imprese. Non credo che un altro giro
di agevolazioni fiscali per milionari porterà nuovi posti
di lavoro o pagherà il nostro deficit. Mi rifiuto di
chiedere agli studenti di pagare di più per il college.A
differenza del mio avversario, non lascerò scrivere alle
compagnie petrolifere il piano energetico di questo paese
o mettere in pericolo le nostre coste. Offriamo un percorso
migliore, un futuro in cui si continui a investire in eolico
e solare e carbone pulito».
Obama dunque, nelle intenzioni, vuole
combattere la crisi senza pesare sulle condizioni
della classe media e senza emarginare i più disagiati
nella classica impostazione del “non lasceremo
indietro nessuno” e rilancia la possibilità
dell’American Dream in cui chiunque può emergere
dal disagio e dall’anonimato, non solo quelli della
casta e i loro alleati privilegiati, come da noi.
Gli immigrati regolari e integrati, che da
sempre sono stati il cemento sociale americano,
vengono sempre e di nuovo riconosciuti come
ricchezza e possibilità e, in quanto tali, accolti: «È
giusto che un giovane immigrato cresciuto qui, che qui ha
promesso fedeltà alla nostra bandiera non debba essere
espulso dall’unico paese che abbia mai chiamato casa».
Barack Obama, nonostante le recenti
cautele, non ha ancora del tutto smesso d’essere un
“debuttante”, un newcomer appunto, quindi una
volonterosa, dubitabile – forse pericolosa –
sperimentazione, agli occhi di una consistente
percentuale di suoi connazionali. Ora si tratterà di
osservare come questa “sperimentazione” possa
affrontare le peripezie di un riassetto economico
mondiale e quanto passerà dalle intenzioni alle
azioni per cercare di non ottenere le solite
delusioni delle promesse da marinaio e, almeno
negli USA, continuare a pensare e ottenere che:
«Si può scegliere un futuro in cui sempre più americani
abbiano la possibilità di acquisire le competenze di cui
hanno bisogno per competere. Non importa quanti anni e
quanti soldi abbiano».
E anche se c’è oggettivo bisogno di tempo,
l’augurio che si può fare al Presidente Barack è
quello di uscire dalla fase del “temporeggiatore” e
tornare al suo deciso “Yes, we can”.
Nonostante sia di primo piano la tragedia di quelle
famiglie che vedono un cinquantenne perdere il
posto di lavoro o semplicemente la possibilità di
avere lavoro, mi piace pensare alla società
americana che non vuole lasciare indietro solo i
cinquantenni o gli esseri umani in difficoltà di
qualunque età, ma che vuole soprattutto pensare e
costruire la propria società a cominciare
dall’infanzia: «Noi crediamo che un bambino sfuggito
alla povertà da grande possa, con una borsa di studio,
diventare il fondatore del prossimo Google, o lo
scienziato che cura il cancro, o il presidente degli Stati
Uniti. È in nostro potere di dargli questa possibilità».
17
La lente di ingrandimento
1
L’ascesa dello “spread” in economia
a cura di Enrico Menani
Fra i tanti significati del termine “spread”,
quello che a noi interessa è il seguente: lo spread
misura lo scostamento tra il rendimento del debito
pubblico di un paese dal rendimento del
maggiormente solido debito pubblico tedesco.
Subito un paio di osservazioni: al netto di
ristrutturazioni più o meno ordinate dello stock di
debito come viste nel caso della Grecia, Portogallo
e Irlanda, in generale, i bond sono rimborsati al
valore nominale alla scadenza naturale e quindi, se
la paura del mercato è quella di un default di un
paese della zona periferica UE, e lo spread vuole
misurare questa paura, il fatto che tutta la stampa e
buona parte della letteratura economica negli
ultimi 2 anni si siano concentrate solo su scadenze
decennali, non sembra una scelta molto coerente.
Secondariamente, si sottolinea che il rendimento
del Bund tedesco varia a seconda delle preferenze
del mercato; in questi ultimi mesi, massicci afflussi
di capitali da tutto il mondo in cerca di porti sicuri
o capital gains da record in caso di ritorno al marco
tedesco, ne hanno abbattuto il rendimento,
portandolo addirittura in zona negativa per le
durate brevi.
Quanto detto, quindi, per chiarire fin da
subito che analizzare l’andamento del differenziale
fra due debiti pubblici è un esercizio molto
complesso che si presta facilmente a distorsioni
interpretative dovute a difficoltà di stima della
correlazione fra le due variabili; lo spread,
insomma, è una grandezza relativa, non assoluta, e
si espande o si contrae non solo in funzione delle
variazioni di rendimento del decennale italiano, ma
anche in funzione delle variazioni di rendimento di
quello tedesco. Nei giorni in cui si scrive, per
esempio, il rendimento del Btp10Y è tornato ai
livelli di agosto 2011, cioè ai rendimenti pre-crisi
debiti sovrani, mentre il suo spread, pur
diminuendo dagli oltre 500 bps di inizio 2012,
rimane comune superiore ai 300 bps, cioè molto
lontano dallo spread pre-crisi debiti sovrani.
18
Che interpretazione dare quindi a questo
scostamento?
Si suggerisce la seguente: guardando al solo
rendimento del Btp italiano, i mercati in questi
giorni sembrano prezzare il debito pubblico
italiano come prima della crisi di agosto 2011; non
sembrano, insomma, particolarmente preoccupati
di un possibile default italiano fra 10 anni.
Se invece ci confrontiamo con la Germania,
ponendo il focus sui 300 bps di differenza che
permane, si potrebbe osservare che, secondo i
mercati, i fondamentali italiani, pur essendosi
instradati lungo un sentiero che ne cercherà di
garantire la stabilità, hanno parecchia strada da
percorrere per raggiungere il benchmark tedesco e
rimangono quindi in una situazione di elevata
attenzione. Di seguito, un grafico da cui si evince la
difficoltà di interpretazione del significato
economico dello spread.
Rendimenti Btp-Bund a confronto
Figura 1
Fonte: teleborsa
Per concludere questa breve analisi tecnica, e per
superare la visione decennale imposta dai media,
guardiamo anche ad altre tipologie di scadenze dei
titoli italiani e cerchiamo di contestualizzare
meglio il significato della correlazione
spread/rischio default.
Curve rendimenti debito pubblico italiano
Ten-Year Government Bond Spreads Vs German Bunds
Figura 2
Figura 3
Fonte: lavoce.info
La linea blu indica il rendimento del debito italiano
alle varie scadenze prima che l’ultimo governo
Berlusconi lasciasse il posto al governo Monti; i
rendimenti a breve erano addirittura superiori a
quelli a medio - lungo, ed in generale la curva era
piatta; nonostante il 50% del debito italiano fosse
di proprietà di persone fisiche e giuridiche italiane
e nonostante una duration dello stock totale
rassicurante, la situazione era comunque esplosiva;
lo spread 10Y raggiunse il suo massimo a 532 bps
rendendo chiaro il fatto che il mercato si
aspettasse, nel brevissimo periodo, la richiesta da
parte dell’Italia di finanziamenti a istituzioni terze
per garantirsi liquidità.
Sei mesi dopo la curva si era decisamente
abbassata e la pendenza era aumentata, arrivando ai
livelli disegnati dalla linea rossa, periodo in cui,
grazie alla manovra BCE sulle durate brevi, sono
state soprattutto queste scadenze ad essere
retrocesse a tassi incoraggianti; i rendimenti delle
scadenze più lunghe di queste curve sono
sostanzialmente in linea col trend storico delle
emissioni di debito degli ultimi decenni, anche se,
come descritto sopra, lo spread viaggia sempre
intorno ai 350 bps contro i 110 bps di primavera
2011.
Chiarito quindi che lo spread è un
indicatore estremamente volatile, relativo e
difficilmente interpretabile, cerchiamo di dare un
significato economico (e non solo) alla sua
inarrestabile ascesa, iniziata ad agosto 2010. Il
grafico che segue ben illustra l’effetto positivo
dell’introduzione dell’Euro sui cosiddetti paesi
periferici, quando, di fatto, il rischio sui debiti
sovrani europei per un investitore estero si allineò
a quello della Germania.
19
Fonte: FMI
Nel 2007 arrivò la crisi, scatenata da un eccesso di
debito privato nel mercato USA che ben presto
incominciò a sfogarsi in un eccesso di debito
pubblico da questa parte dell’oceano. Nell’estate
2010 i mercati del debito pubblico dei paesi più
deboli dell’area Euro incominciano a registrarne gli
effetti, mettendo impietosamente in risalto le
profonde differenze strutturali dei paesi coinvolti e
dichiarando conclusi i lunghi anni in cui il mercato
prezzava tutti gli stati Euro in egual misura.
Entriamo nel merito delle curve descritte
in figura 3: possiamo dire che, in base alla migliore
teoria economica, il rendimento di un government
bond riflette le seguenti N. 2 componenti: 1) il
premio che chi lo sottoscrive richiede per il rischio
di perdere il capitale alla scadenza, 2) le aspettative
sull’andamento dei tassi in futuro e quindi il
premio per la remunerazione attesa; da agosto
2011 ci siamo accorti che si è aggiunta una terza
componente: 3) una certa dose di schizofrenia,
come correttamente sottolineato dal capo
economista del Fondo monetario internazionale,
Olivier Blanchard.
Per quanto riguarda questo ultimo punto
3), è utile citare Karl R. Popper in “Logica della
Ricerca e Società Aperta”, quando descrive
l’economia come una scienza sociale, non godendo
infatti del criterio di falsificabilità tipico delle
scienze sperimentali; premesso che chi scrive
ritiene che, avendo a disposizione le giuste leve,
non sia impossibile cercare di influenzare la curva
degli spread, lasciamo agli studiosi di finanza
comportamentale il compito di spiegarci come mai
non sempre sembra ci sia una correlazione positiva
fra l’andamento delle spread ed il sentiero di
riforme strutturali profondo intrapreso da un paese
“volenteroso”. Lasciamo altresì ai politologi più
emancipati spiegarci come lo spread sia stato anche
un potentissimo strumento di comunicazione di
economia politica e di, come dire, incentivo ad un
modello
di
governance
pubblica
non
particolarmente
rispettoso
delle
liturgie
democratiche, meravigliosamente interpretato da
alcuni policy makers e tecnici europei per
implementare importanti e impopolari riforme
strutturali dei sistemi di welfare coerenti con gli
interessi dei detentori del debito pubblico.
Per quanto riguarda invece il punto 2), al netto del
fatto che:
a) il mercato a breve sia sufficientemente liquido,
b) il tasso di inflazione sia sotto controllo e quindi
coerente con il sentiero previsto dalla banca
centrale,
c) i relativi tassi di rifinanziamento principali non
siano pericolosamente prossimi allo zero,
le aspettative sui tassi futuri implicano una curva di
struttura dei rendimenti crescente, o decrescente,
ogni volta che ci si aspetta un aumento, o una
diminuzione, dei tassi a breve futuri; questo
significa che in situazioni normali, chi compra
debito si aspetta che i tassi di rendimento
aumentino con l’aumentare della scadenza delle
obbligazioni.
Accennato, quindi, brevemente ai punti 2)
e 3), nel tentativo di spiegare l’ascesa dello spread,
cerchiamo di isolare le restanti componenti del
tasso che riflettono il premio richiesto per il rischio
default, cioè il punto 1)
Rischio liquidità: la storia decennale del debito
del Giappone, ed in una certa misura anche del
nostro paese, ci insegna che la quantità di debito
non è un fattore scatenante per definizione
dell’impennata dei tassi, soprattutto quando
questo, anche se in percentuale molto elevato
rispetto al Pil, è posseduto per la maggior parte da
residenti ed ha una duration lunga con una buona
architettura delle scadenze. Precisato questo,
rimane comunque evidente, che, con un livello del
debito come quello italiano, anche un lieve
incremento dei tassi può comportare un rialzo
della spesa per interessi tale da sterilizzare gli
effetti di una manovra finanziaria. Questo è il
motivo per cui in Europa si è posta molta enfasi
all’obbligo di raggiungimento dei pareggi di
20
bilancio con la recente firma del trattato fiscale,
“fiscal compact”, che entrerà in vigore da gennaio
2013: azzerare il deficit per incominciare ad
abbattere il debito e quindi la spesa per interessi.
Rischio liquidità significa, quindi, che lo spread
elevato di alcuni paesi europei, riflette il
rendimento elevato richiesto, a causa della quantità
e qualità del debito pubblico, fattori che possono
rendere estremamente vulnerabile un paese in
periodi
di
congiuntura
macroeconomica
sfavorevole alla crescita.
Rischio crescita: come detto, gli interessi sul
debito possono azzerare gli effetti espansivi di una
manovra economica. Stando alla teoria, questo non
dovrebbe essere un vero problema fintanto che il
debito pubblico cresce più lentamente rispetto alla
somma tra inflazione core e Pil. Precisato questo,
per capire la correlazione tasso di crescita/rischio
spread si offrono le seguenti 2 interpretazioni,
molto differenti, ma tali per cui l’effetto sui tassi è
lo stesso. La prima può essere descritta nel
seguente modo: in un’economia “normale”, cioè in
condizioni vicine al pieno impiego, con un debito
pubblico che non ecceda il 100% del Pil ed un
tasso di crescita che rispetta le stime, chi compra
bond di lungo periodo si aspetta tassi più elevati
perché crede che l’economia cresca, spingendo
quindi le banche centrali ad ammortizzare i relativi
rischi inflattivi, appunto, alzando i tassi di
riferimento. Seconda: in un economia “non
normale”, magari immersa in una “trappola di
liquidità”, chi compra bond, specialmente nel
breve periodo, chiede rendimenti alti, soprattutto
se è preoccupato che il paese, non crescendo, non
sia in grado di ripagare l’onere del proprio debito.
In entrambi i casi la crescita è la variabile che
influenza l’andamento dei tassi; in entrambi i casi,
spinge lo spread verso l’alto; nel primo caso lo
spread di medio/lungo periodo, nel secondo caso
quello di breve.
Rischio credito: la correlazione tra rischio
debito sovrano e rischio istituti finanziari, dovuta
alla grandissima quantità di titoli detenuti dalle
banche europee, pur abbassando la probabilità di
un default disordinato di un paese in cui le banche
nazionali detengono grandi percentuali di debito
pubblico domestico, aumenta la fragilità dell’intero
sistema-paese mettendo sotto pressione i patrimoni
degli istituti, sempre a rischio di violente
svalutazioni nominali mark-to-model o peggio
mark-to-market. Il peggioramento dei rating
assegnati agli stati e la ristrutturazione degli attivi
dovuta ai costi crescenti dei rischi di credito, di
mercato e di compliance, hanno fatto si che negli
ultimi anni i maggiori istituti finanziari abbiano
“alleggerito” le loro posizioni sui debiti sovrani
vendendo titoli; tra l’altro, queste ristrutturazioni
volontarie, possono diventare obbligatorie per
policy interna, nel caso in cui le agenzie di rating
decurtino a “non investment grade” il debito di un
paese. In senso opposto a queste logiche aziendali,
da novembre 2011 a febbraio 2012, periodo in cui
la BCE ha prestato più di un trilione di euro a
ottocento banche europee, le banche spagnole
hanno aumentato la propria detenzione in titoli di
debito sovrano per 68 miliardi di euro, mentre le
banche italiane per 54, entrambe acquistando in
prevalenza bond nella propria nazione di
appartenenza nell’evidente tentativo di calmierare
lo spread sul mercato secondario. Sarebbe,
insomma, logico aspettarsi che troppo debito
concentrato in poche banche nazionali aumenti la
richiesta di rendimento dei bond, mentre politiche
di ristrutturazione degli attivi dovrebbero
alleggerire il peso del rischio soprattutto a lungo,
al netto del fatto che la paura innestata dal mercato
da questi movimenti di vendita, spinta anche
dall’effetto
matematico
delle
vendite
sull’innalzamento dei rendimenti, non sortisca
esattamente l’effetto contrario.
Rischio macroeconomico: senza entrare nelle
diatribe che stanno infuocando i meetings tra
macroeconomisti e policy makers in tutto il
mondo, tra
a) conservatori compassionevoli discendenti della
scuola di Chicago,
b) varie tipologie di neo-keynesiani deficit
spending,
c) fans europei dell’ortodossia virtuosa dei
bilanci, allergici anche solo al suono del
sostantivo “inflazione”,
è evidente che nell’eurozona sono questi ultimi a
dettare l’agenda economica in questi mesi,
cercando di garantire la stabilità dei bilanci degli
stati e del sistema di credito nel breve periodo e
21
rimandando al medio - lungo periodo il ritorno ad
una fase di crescita dell’economia reale che si
suppone innescata dai citati meccanismi virtuosi di
bilancio. Questa strategia presuppone che per “non
morire nel breve periodo” (uso volentieri questa
famosa citazione al contrario) la BCE, non potendo
ancora fare il prestatore di ultima istanza, si debba
occupare di sostenere il mercato secondario,
acquistando debito illimitato di breve periodo.
Parallelamente i governi nazionali dovranno
cercare di “fare i compiti a casa”, con un mix di
entrate/uscite variabile a seconda della gravità
della situazione e della capacità di assorbimento
delle manovre correttive da parte del tessuto
sociale, spingendo su processi di deflazione
interna, scaricando, quindi, l’onere della
produttività in primis sul lavoro, non potendo fare
leva sul tasso di cambio per sostenere la bilancia di
parte corrente e, quindi, in ultima analisi la
domanda aggregata. Questo è in sostanza il
doloroso processo in atto nei paesi periferici
dell’eurozona; il punto è che, in un ambiente di
congiuntura internazionale debole, di tassi di
rifinanziamento vicini alla cosiddetta “trappola
della liquidità” e di politiche recessive
contemporaneamente imposte in paesi molto
interconnessi all’interno della stessa zona
monetaria, queste misure hanno effetti perversi
sulla crescita di breve periodo delle economie più
deboli e meno diversificate, esponendo l’intera
eurozona a momenti di tensione sociale oltre che
ad
acuire
pericolose
recrudescenze
di
fondamentalismi. Il fatto che le ricette economiche
maggiormente in voga nelle istituzioni europee
pongano il baricentro sul lato credito, su una
repentina ristrutturazione dei deficit di bilancio,
rimandando al medio periodo la speranza che
questo getti le basi per una crescita duratura, fa
impennare il prezzo del rischio di chi vuole
investire “oggi” nel debito europeo, soprattutto a
breve.
Rischio volatilità: tecniche di vendita antiche di
centinaia di anni, come le vendite allo scoperto,
anche se non sono da demonizzare in quanto tale,
sicuramente hanno incrementato gli eccessi di
volatilità dei mercati bond sovrani, aumentando
instabilità ed incertezza del sistema-europa; lo
stesso effetto è stato sortito dalla reinterpretazione
dell’uso dei Cds, le polizze assicurative di parti
terze contro il rischio default, da parte degli
investitori per puntare al ribasso sui debiti pubblici
dei paesi periferici della UE.
Rischio liquidità, crescita, credito, macro e
volatilità, sono le componenti che si riflettono sugli
spread dei paesi della zona periferica dell’Europa,
spingendoli ai livelli disegnati in figura 3. Il mix fra
i vari rischi, chiaramente, si ripercuote con diverse
proporzioni a seconda del paese e della sua
struttura economica, finanziaria, politica, legale e
sociale ed infatti i mercati, proprio perché i paesi
sono così diversi, prezzano gli spread in maniera
molto differente. Nei giorni in cui si scrive, il
decennale greco viaggia intorno al 18%, Italia e
Spagna sono allineate intorno al 5% ed i livelli di
Portogallo e Irlanda sono tornati ai tassi pre-crisi.
Di seguito si è cercato di approfondire ed
analizzare le componenti dei rischi descritti sopra
(rischio volatilità escluso) con riferimento ad ogni
singolo paese GIPSI; il tentativo è quello di isolare
e pesare le variabili economiche più rilevanti che
influenzano l’andamento della curva degli spread
evidenziata in figura 3. I colori sono la sintesi del
peso di ogni rischio sulla curva; l’interpretazione
dei colori è immediata.
RISCHIO CRESCITA
%
%
%
pressione
grado
previsione disavanzo
fiscale
aperura
crescita Pil pubblico
apparente economia
2012
2010
2012
Italia
-2,6
-3,9
45,2
3
Spagna
-1,3
-8,5
32,9
2
Portogallo
-3,3
-4,2
36,7
3
Grecia
-6,3
-9,1
35,7
2
Irlanda
-1,1
-13,1
30,8
1
Germania
1
-1
40,4
2
Area Euro
…..
-4,5
40,6
…..
Tabella 2
RISCHIO
CRESCITA
Fonte: elaborazione propria
RISCHIO CREDITO
% crediti
%
% Tier 1
% leverage vs governi crediti RISCHIO
capital
ratio
2012 (% consoli CREDITO
ratio
Pil)
dati
Italia
9,5
5,2
38
8,7
Spagna
10,5
4,9
35
4,7
Portogallo
9,1
4,5
24
8,5
Grecia
1,5
…..
13
8,1
Irlanda
16,2
8,3
28
4,3
Germania
11,9
2,2
23
9,5
Area Euro
…..
…..
…..
…..
Tabella 3
Fonte: elaborazione propria
RISCHIO MACROECONOMICO
debito
privato
famiglie +
imprese
RISCHIO LIQUIDITA’
% debito
%
% debito
vita media % debito
scadenza
RISCHIO
debito/pi estero
residua
emesso
breve
LIQUIDITA'
l 2011
2011
2012 (anni) Euro
2011
bilancia
parte
€ costo
%
corrente unità lavoro disoccupazi
2010 (€
2011
one 2012
1.000)
Italia
127,4
-54,1
26,8
10,7
Spagna
218,1
-48,4
20,6
25,1
Italia
120,1
43,7
18
6,9
100
Portogallo
247,1
-17,2
12,1
15,9
Spagna
68,5
42,6
19
5,9
99
Grecia
127,6
-23
…..
24,4
Portogallo
107,8
50,6
25
5,6
98
Irlanda
288,4
0,8
27,4
15
Grecia
165,3
58,4
…..
10,4
…..
Germania
130
141,5
30,1
5,5
Area Euro
167,8
-95,7
…..
10,5
Irlanda
108,2
59,1
24
6,4
100
Germania
81,2
51,6
10
6,3
99
Area Euro
82,5
…..
…..
…..
…..
Tabella 1
Fonte: elaborazione propria
Tabella 4
RISCHIO
MACRO
Fonte: elaborazione propria
Isolati, quindi, i principali rischi che, il premio
richiesto da chi sottoscrive debito pesa, per la
paura di perdere il capitale alla scadenza,
concludiamo l’analisi cercando di capire che cosa si
intende per rischio sistemico.
Rischio sistemico: se valessero per i paesi di cui
sopra gli stessi criteri che genericamente si usano
per valutare i paesi emergenti, sarebbero tutti da
22
classificare, Germania esclusa evidentemente, a
rischio default (probabilità di crisi 2010 al 47%).
La loro eterogeneità strutturale li rende sensibili in
maniera differente alle tipologie di rischio
evidenziate, anche se il fatto di far parte di una
unica comunità monetaria li lega in un comune
destino potenzialmente innescato da quelle che gli
economisti chiamano “profezie che si auto
avverano”: un incontrollato effetto domino che,
partendo dal default del debito di un singolo paese
sovrano, potrebbe trasmettersi, attraverso Cds,
ABSs e svalutazione dei portafogli degli istituti
finanziari più fragili patrimonialmente, ad altri
paesi avvitandosi in una catena destinata a creare un
altro credit crunch nei mercati interbancari con
pesanti ripercussioni sull’economia reale tali da
mettere in discussione, nello scenario più negativo,
addirittura la tenuta della moneta unica a causa
della facile tentazione degli stati europei al ritorno
alle vecchie valute nazionali pre-euro, per poter
agire sulla leva di breve periodo della svalutazione.
Per rendere anche solo una idea parziale di
quanto si stia sostenendo, si osservi in figura 4 la
ragnatela di partecipazioni azionarie incrociate
“ufficiali e comunque non esaustive” dei principali
intermediari finanziari globali, classificati come
banche sistemiche “too big to fail” e non si
dimentichi che il rischio sistemico pesa anche le
interconnessioni del cosiddetto sistema bancario
ombra, dei prodotti finanziari scambiati OTC oltre
che ovviamente delle bilance dei pagamenti dei
mercati reali. In figura 4 i numeri evidenziati sono
gli attivi degli istituti in miliardi di dollari; come si
nota, la stragrande maggioranza supera i Pil annui
degli stati europei.
Gli spread rilevati sul mercato, quindi, non sono
calati sulle singole realtà nazionali, ma tengono
conto anche di questo potenziale “rischio
sistemico”, che è amplificato proprio dalle
differenze di ogni paese e dalle differenze fra quella
parte di Europa che negli ultimi decenni è riuscita a
migliorare i propri fondamentali e l’altra che non
lo ha fatto.
Dopo l’introduzione della moneta unica i
rendimenti dei titoli di stato dell’intera eurozona si
allinearono a livelli molto bassi, portando immensi
benefici alle finanze pubbliche dei paesi più deboli
che poterono così accedere ad un mercato dei
capitali estero ed europeo-centrale che ben presto
ha creato enormi squilibri nelle bilance di parte
corrente, creando divergenze nelle strutture
salariali che hanno indebolito la competitività
estera dei paesi che meno riuscivano ad innovare
ed a ristrutturarsi e gettato la base per pericolose
bolle immobiliari in alcuni di essi.
Il grafico che segue dimostra in maniera
implacabile quanto le diverse politiche economiche
abbiano influito sulle rispettive bilance, spaccando
l’Europa fra paesi debitori e paesi creditori.
Net Foreign Asset Positions 99–10, in Percent of GDP
Interconnessione principali istituti finanziari mondiali
Figura 5
Fonte: FMI
La crisi, investendo l’Europa, ha trovato un “area
monetaria non ottimale”, viste le discrepanze
europee in materia di:
a) rigidità dei salari,
b) mobilità del lavoro,
c) integrazione delle politiche fiscali,
d) uniformità culturale.
Figura 4
23
Fonte: sole24ore
Le presunzioni di onnipotenza economicamonetaria che resistevano dal 1999, per cui
sarebbe stata un’economia europea sterilizzata da
rischi inflattivi e sorretta da una moneta fortissima
a garantire prosperità ad un intero continente,
sono naufragate clamorosamente quando ci siamo
accorti che non era sufficiente garantire la stabilità
dei prezzi al 2% per vedersi materializzare dal nulla
davanti a se sentieri di crescita stabile; se investiti
da shock esogeni ed asimmetrici provenienti
dall’esterno,
queste
teorie
economiche
semplicemente si sbriciolano.
Detto questo, si sottolinea che,
incredibilmente, quattro anni e diciannove summit
europei dopo, al di la degli ovvi proclami in merito
alla necessità di adottare politiche finanziarie,
fiscali, bancarie ed anche economiche sempre più
centralizzate e di dotarsi di una governance
europea più rappresentativa in grado di dare
maggiore legittimazione democratica agli atti
comunitari, sembrerebbe che la forza dell’area
Schengen e della moneta unica siano ancora in
grado di reggere le pressioni sui debiti sovrani dei
paesi periferici. Ne è una chiara prova, a parer di
chi scrive, il fatto che in tutti questi anni, la
quotazione euro/dollaro non solo non si è mai
neanche avvicinata alla parità ma è mai scesa sotto
quota 1.20 (per la precisione 1.1953 il
04/06/2010), facendo perdere interi anni di
stipendio a tutti quelli che invece avevano
scommesso sul fatto che il cambio avrebbe bucato
la parità. Sicuramente le manovre FED per
mantenere debole il dollaro hanno raggiunto il loro
obiettivo, sostenendo quindi indirettamente
l’Euro, ma la vera forza dell’Euro è da cercare nel
fatto che la nostra moneta rimane la seconda
currency di riferimento mondiale, anche in termini
di riserve, ed il ruolo geopolitico del mercato
unico europeo continua ad essere auspicato dalle
maggiori potenze mondiali.
Concludo con una riflessione più ampia, per
cercare di andare oltre ad una visione solo
economica del concetto di spread, come affermato
nelle premesse: oggi più che mai, emerge la
profondità dell’intuizione platonica per cui “lo stato
non è se non un immagine rispecchiata ed ingrandita
dell’anima dell’uomo”; la necessità, quindi, di
costruire un “area monetaria davvero ottimale”
richiede, oltre alle conosciute e pubblicizzate
misure descritte sopra, la progettazione di un’
24
”uomo europeo del futuro” che si fondi su un
minimo comune denominatore condiviso; è
necessario gettare basi strutturali e durature per
ritrovare una identità europea che langue, oltre che
nella sostanza delle diverse culture anche nella
forma delle leggi fondamentali (chiaro esempio è la
discussione costituzionale intorno alla definizione
delle radici della comunità europea).
Se l’idea rimane quella di continuare nella
costruzione di un’Europa unita più o meno
federale, è necessario, insomma, lavorare per
creare una uniformità culturale il più possibile
omogenea ed una identità unitaria condivisa in
modo da smussare quelle differenze strutturali fra
paesi che sono state la prima causa dell’ascesa dello
spread.
Se invece l’idea sarà quella di preservare
una sorta di mercato comune europeo, ritornando
però alle monete ed alla politica nazionali,
piuttosto che a 2 euro a velocità differenti o altro
ancora, prepariamoci ad arricchire i libri di
macroeconomia con nuovo capitolo dal titolo:
“stima del rischio sistemico in una zona monetaria
non ottimale”. Ad oggi, infatti, il vero problema è
che non esistono modelli sufficientemente
attendibili per la stima ex-ante dei rischi
evidenziati in questo lavoro. Per fortuna, rispetto
alle certezze economico/scientifiche abbaiate nel
passato, oggi siamo consapevoli di quanto non
siamo preparati a questo tipo di scenario; dal punto
di vista di chi scrive, questo comunque è un ottimo
inizio.
La lente di ingrandimento
2
Lavori e opere pubbliche
a cura di Silvia Loiacono
NOTA INTRODUTTIVA
Responsabilità civile
Preliminarmente, va precisato, che in materia non
esistono dei principi propri dell’esecuzione delle
opere pubbliche, ma, in genere, vengono utilizzate
regole generali proprie dei vari tipi contrattuali, in
particolare gli artt. 1176 c.c. e 1218 c.c., con i
necessari adattamenti per i singoli casi di specie.
Generalmente, a parte i c.d. affidamenti in
house, per l’esecuzione di lavori e di opere
pubbliche si presuppone la necessaria stipulazione
di un contratto di appalto; contratto, quest’ultimo,
quindi, a cui bisogna far riferimento ai fini di
identificare i soggetti responsabili civilmente.
L’elaborazione giurisprudenziale relativa al
regime della responsabilità nel settore dei lavori e
delle opere pubbliche risulta abbastanza vasta e
distingue i vari soggetti che direttamente o
indirettamente possono essere coinvolti sia nella
fase iniziale, che si conclude con la stipulazione del
contratto, sia nella fase esecutiva.
Tali soggetti vengono individuati nella
stazione appaltante (di solito la Pubblica
Amministrazione), nel responsabile unico del
procedimento, nel progettista, nel direttore dei
lavori, in coloro che partecipano alla procedura di
affidamento dell’opera pubblica, nell’appaltatore
ed eventualmente nel subappaltatore, ed, infine,
nel collaudatore.
Sotto il profilo della responsabilità
contrattuale, i soggetti coinvolti, per lo più, sono
l’appaltatore
ed
il
progettista
esterno
all’amministrazione aggiudicatrice, cioè colui che
svolge la propria attività da libero professionista.
Meno frequenti sono, poi, i casi in cui può sorgere
una responsabilità contrattuale a carico della
stazione appaltante.
Di maggior interesse giuridico sono,
invece, le ipotesi di responsabilità
25
extracontrattuale della quale rispondono, per i
danni provocati a terzi, l’appaltatore, il
committente, il progettista, il direttore dei lavori e
il subappaltatore.
Viene, poi, a configurarsi una forma di
responsabilità,
in
capo
alla
Pubblica
Amministrazione, con riferimento alle opere
ultimate: è il caso delle strade aperte alla
circolazione del pubblico.
Riferimenti normativi
D.Lgs. 12 aprile 2006 n.163
Legge 20 marzo 1865 n.2248 (All. F)
Codice Civile: Art. 1176; Art. 1218; Art. 1224 ;
Art. 1227; Art. 1667; Art. 1668; Art. 1669; Art.
2043; Art. 2051; Art. 2055
MASSIMARIO
1.
Responsabilità
dell’appaltatore.
contrattuale
In linea di massima, è l’appaltatore, unico soggetto
obbligato al buon risultato dell’opera e all’esatto
adempimento delle obbligazioni derivanti dalla
stipulazione del contratto, ad essere chiamato a
rispondere per responsabilità contrattuale.
Focus giurisprudenziale
La giurisprudenza di legittimità ha provveduto con
alcune rilevanti pronunce a delineare chiaramente i
casi in cui l’appaltatore è l’unico soggetto
responsabile contrattualmente, dai casi, invece, in
cui tale responsabilità grava anche su altri soggetti.
L’appaltatore ha l’onere di contestare
immediatamente al responsabile del procedimento
eventuali errori nelle indicazioni impartitegli dal
direttore dei lavori o eventuali vizi progettuali che
possano impedire l’esatta esecuzione dell’opera
(Cass. Civ., sez.1, 18 febbraio 2008 n. 3932).
Viceversa, egli stesso potrà rispondere per
inadempimento in concorso con il direttore dei
lavori e il progettista (Cass. Civ., sez.2, 16
novembre 1993 n.11290).
L’appaltatore una volta stipulato il
contratto e accettati i lavori, ha l’obbligo di non
apportare variazioni al progetto, salvo che non
siano disposte dal direttore dei lavori e non
preventivamente autorizzate (Cass. Civ., sez.1,
16 aprile 2008 n.10069). In caso contrario, sarà
obbligato alla messa in pristino, senza titolo ad
alcun riconoscimento neppure per indebito
arricchimento (Cass. Civ., sez.1, 28 giugno
1995 n.7282).
Recenti
pronunce
riconoscono
all’appaltatore che, nel corso dell’esecuzione
dell’opera, intenda avanzare pretese a maggiori
compensi, indennizzi o danni o contestare la
contabilizzazione dei corrispettivi effettuata
dall’amministrazione, di iscrivere tempestivamente
nel registro di contabilità apposita riserva ai fini
della individuazione della sua pretesa (Cass. Civ.,
sez.1, 16 aprile 2008 n.10069; Cass. Civ.,sez.1,
2 aprile 2008 n.8512; Cass. Civ., sez.1, 10
agosto 2007 n.17630; Cass. Civ., sez.1, 21
dicembre 2007 n.27086); nella diversa ipotesi in
cui siano necessarie variazioni progettuali in corso
d’opera, non previste dal contratto e che
comportano
un’alterazione
del
prezzo,
l’appaltatore è obbligato ad assoggettarsi alla
variazione del valore delle opere fino al quinto del
prezzo dell’appalto; oltre tale limite avrà diritto
alla risoluzione del contratto (Cass. Civ., sez.1, 2
aprile 2008 n.8512; Cass. Civ., sez.1, 5 marzo
2008 n.5951).
Possono legittimare la risoluzione del
contratto e la richiesta di risarcimento dei danni da
parte dell’amministrazione aggiudicatrice, i ritardi
negligenti nell’esecuzione dei lavori dopo la
scadenza del termine assegnato dal direttore dei
lavori; la non integrale esecuzione dell’opera
(Cass. Civ., sez.2, 16 ottobre 1995 n.10772;
Cass. Civ., sez.2, 16 ottobre 1998 n.10255); le
gravi inadempienze in corso d’opera dopo la
contestazione degli addebiti; la violazione degli
obblighi di sicurezza; la violazione del divieto di
subappalto; l’emanazione di un provvedimento che
dispone l’applicazione di misure di sicurezza
riguardo l’appaltatore; l’intervenuta sentenza di
26
condanna passata in giudicato per frode o per
violazione degli obblighi attinenti alla sicurezza sul
lavoro.
Numerose pronunce riguardano, infine, il
momento del collaudo, da cui decorre il termine di
prescrizione dell’azione di responsabilità del
committente per le difformità ed i vizi dell’opera
(Cass. Civ., sez.1, 5 giugno 2001 n.7596; Cass
Civ., sez.1, 21 dicembre 2000 n.16062; Cass.
Civ., sez.1, 13 gennaio 2004 n.271; Cass. Civ.,
sez.1, 10 giugno 2004 n.10992). L’appaltante,
in conseguenza dei vizi dell’opera, può anche
chiedere il risarcimento del danno previsto
dall’art. 1668 c.c. nel caso di danno a persone o
cose e per spese di rifacimento da lui direttamente
sopportate (Cass. Civ., sez.2, 29 novembre
2005 n.25921).
La Suprema Corte riconosce al certificato
di collaudo natura di atto giuridico di parte
(effettuato da un tecnico incaricato) ed, in quanto
tale, non vincolante l’appaltatore, a meno che le
parti non abbiano concordato di accettare le
decisioni del collaudatore, attribuendogli funzioni
di arbitro (Cass. Civ., sez.1, 11 dicembre 2007
n.25943)
In tema di collaudo, interessanti sono le
pronunce riguardo le polizze fideiussorie contratte
dall’appaltatore a garanzia degli obblighi derivanti
dall’appalto (Cass. Civ., sez.3, 5 febbraio 2008
n.2670; Cass. Civ., sez.1, 17 gennaio 2008
n.885)
S.E.M.
Skills for
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