S.E.M. Skills for Economic Management SEM N°1 - In questo numero: DICEMBRE 2012 Riflessioni sull’economia, sulla finanza e sulla povertà La finanza nell’economia e nella società; e lo Stato?, di Edoardo Giuseppe Ruscio La Cina d’Europa: Albania, di Tommaso Marseglia Il problema dell’informazione nell’azienda moderna, di Edoardo Angeloni Barack Obama il faro dell’umanità?, di Maurizio Di Giandomenico L’impatto sociale degli istituti di credito, di Lucian-Razvan Desliu, La lente di ingrandimento L’ascesa dello “spread” in economia, di Enrico Menani Lavori e opere pubbliche, di Silvia Loiacono DIRETTORE ONORARIO Luciano D’Amico, Ordinario di Economia Aziendale e Preside Facoltà Scienze Comunicazione, Uni-Teramo. Presentazione della rivista DIRETTORE Edoardo Giuseppe Ruscio, Manager d’Azienda con ruolo di Responsabile del Sistema Indennitario del mercato elettrico in Acquirente Unico S.p.A.e con esperienza maturata di Responsabile del Controllo di Gestione in Altran Italia. di Edoardo Giuseppe Ruscio S.E.M - Skills for Economic Management vuole rappresentare un punto di riferimento pragmatico nella lettura delle vicende economiche e sociali del Paese e degli avvenimenti internazionali. La rivista S.E.M. non ha alcuna pretesa particolare di stupire o, ad esempio, di rivedere in chiave critica il sistema economico attuale tramite argomentazioni accademiche, o palingenesi immaginarie, termine molto utilizzato dal prof.re Federico Caffè. Ma, con molta sobrietà e semplicità, si pone l’obiettivo di coinvolgere professionisti, manager e liberi pensatori per far lievitare il dibattito culturale soprattutto nella ricerca dei valori, necessari per dare un volto umano alla scienza economica, che ad oggi sembra aver smarrito la sua ragione d’essere. Cordiali saluti a tutti, Edoardo Giuseppe Ruscio INDICE - SEM N°1 Riflessioni sull’economia, sulla finanza e sulla povertà La finanza nell’economia e nella società; e lo Stato? 03 La Cina d’Europa: l’Albania 05 Il problema dell’informazione nell’azienda moderna 08 Barack Obama il faro dell’umanità? 13 L’impatto sociale degli istituti di credito 15 La lente di ingrandimento L’ascesa dello “spread” in economia Lavori e opere pubbliche 18 25 COMITATO ESECUTIVO Enrico Menani (Responsabile e Vice Direttore), si occupa di finanziamenti al pubblico e risk management per ING Group. Giuseppe Gliatta, Avvocato professionista, Bologna, docente di Master, UniTeramo. Silvia Loiacono, Avvocato presso lo Studio Legale Zappalà di Roma. COMITATO SCIENTIFICO Franco Eugeni, Ordinario di Logica e Filosofia della Scienza, Uni-Teramo. Edo Graziani, TEC-Leg Department Coordinator - APS Engineering, Rome. Tonio Di Battista, Ordinario di Statistica, Uni-Chieti . Antonio Maturo, Ordinario di Matematica per le Scienze Sociali, Uni-Chieti. Luca Tallini, Ordinario di Informatica, Uni-Teramo. Christian Corsi, Ricercatore di Ec. Aziendale Scienze, Docente Uni-Teramo. Manuel De Nicola, Ricercatore di Ec. Aziendale Scienze, Docente Uni-Teramo. Danilo Pelusi, PhD Informatica, Docente Uni-Teramo. Massimo Squillante, Ordinario di Metodi matematici per l'Economia, UniSannio. Massimo Tivegna, Ordinario di Politica Economica ed Econometria, UniTeramo. Aldo Ventre, Ordinario di Teoria delle Decisioni, II Uni-Napoli. Domenico Marconi, PhD Epistemologia dell'Informatica - Docente di Master, Uni-Teramo. Andrea Vacca, Professore Associato di Idraulica nella 2° Università di Napoli. Tommaso Marseglia, Consulente economico aziendale. Edoardo Angeloni, Scrittore e professore di matematica. Maurizio Di Giacomantonio, Attore professionista di teatro e cinema. Lucian-Razvan Desliu, Public manager presso ministero economia e finanze Bucarest. PROFILO DEGLI AUTORI – SEM N° 1 Edoardo Giuseppe Ruscio, è il Responsabile del Sistema Indennitario del mercato elettrico in Acquirente Unico SpA. È stato Responsabile del controllo di gestione e della pianificazione in Altran Italia SpA e in Impregilo-Lidco in Tripoli. È stato internal auditor nella Società Italiana per Condotte d’Acqua. Ha frequentato il Master Management Pubblico, Scuola di Direzione Aziendale della Università Bocconi ed i corsi di specializzazione IFAF in Finanza d’Azienda e in Fiscalità d’Impresa. È laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Teramo. Tommaso Marseglia, è consulente economico-aziendale, collabora con la Golden Share di Milano ed il Network ASPM con sede a Praga, è inoltre rappresentante per la Lombardia di Konfindustria Albania; è laureato in Economia e Legislazione per l’Impresa presso l’Università Bocconi. Edoardo Angeloni, scrittore e professore di Matematica nelle Scuole Secondarie; plurilaureato in Matematica, in Statistica ed in Scienze della Comunicazione. Maurizio Di Giacomantonio, lavora come attore professionista dal 1981 in Teatro e in Cinema per diversi Teatri Italiani e Produzioni Cinematografiche internazionali. Lucian-Razvan Desliu, è Public Manager nell’ambito del Ministero dell’Economia e Commercio a Bucarest (Romania); ha frequentato il Master in Management Pubblico, SDA Bocconi ed è laureato in Scienze Politiche e Scienze della Comunicazione. Enrico Menani, si occupa di finanziamenti al pubblico e risk management per ING Group; ha frequentato il Master in Management Pubblico, SDA Bocconi ed è laureato in economia aziendale all’Università di Bologna. Silvia Loiacono, svolge l’attività di Avvocato presso lo Studio Legale Zappalà di Roma dove si occupa di diritto civile e di diritto societario; è laureata in Giurisprudenza presso l’Università “La Sapienza” di Roma L’ISTITUTO Fondazione Panta Rei, alta scuola di scienza e formazione, con sede in Giulianova, Via Nazzario Sauro n. 43 - http://fondazionepantarei.it/ CONTATTATECI A [email protected] 2 La finanza nell’economia e nella società; e lo Stato? a cura di Edoardo Giuseppe Ruscio Il razionalismo economico, nell’agenda politica delle priorità ha una posizione di primaria importanza nella definizione delle strategie e degli obiettivi di governo. Il fiscal compact, la spending review e le politiche di austerity sono le leve attuate dal Governo Monti per raggiungere l’equilibrio dei conti e per rilanciare la convergenza dell’economia verso i parametri economici previsti nel Trattato di Maastricht. Tali misure sono state rese necessarie per i Paesi dell’Unione Europea, da una crisi economica senza precedenti, simile in alcuni aspetti alla crisi del 1929 in America, in cui per risollevarsi fu necessario comprendere fino in fondo le cause principali che la provocarono. J. M. Keynes fu il maggior interprete della crisi americana in quanto riuscì a proporre un nuovo modo di pensare il capitalismo e il ruolo dello Stato nell’economia, fino ad allora esclusivo campo delle teorie liberiste. Pertanto a distanza di qualche anno dall’inizio della crisi del XXI secolo, la vera sfida futura credo non sia quella di prospettare una nuova imposizione fiscale per i cittadini, rei di aver vissuto come semplici spettatori i continui scandali finanziari esercitati dal gota dell’economia, o proporre palingenesi immaginarie, ma consiste nel riuscire a comprendere le ragioni di fondo che hanno spinto i Paesi dell’Unione Europea a costituire governi tecnici per risolvere un balckout economico senza precedenti. Negli ultimi venti anni in Europa si è sviluppato un capitalismo finanziario che ha contribuito alla crescita del prodotto interno lordo, stimolando l’occupazione e distogliendo risorse utili al consolidamento dell’economia reale. Le prime fughe di capitali dagli investimenti nelle aziende di produzione verso gli strumenti finanziari risalgono ai primi anni 90, periodo in cui l’economia reale era condizionata da una recessione strutturale dovuta ad un eccesso di offerta. 3 Il business finanziario si caratterizzava da tassi di redditività molto alti, e da un dinamismo eccellente grazie al supporto delle nuove tecnologie informatiche, ma allo stesso tempo si dimostrava un campo favorevole alle speculazioni predatorie. La new economy, la crescita esponenziale del mercato immobiliare, la finanziarizzazione dell’economia e l’esplosione degli spread nel mercato valutario riassumono alcune delle tappe della finanza negli ultimi vent’anni di storia. È stato il periodo in cui all’impennata repentina del valore di un bene sono seguiti continui crolli di mercato che hanno generato dei super guadagni per i ricchi investitori. George Stigliz, nella teoria che gli valse il premio Nobel, ha descritto accuratamente le leve che hanno favorito la speculazione finanziaria, individuando nelle asimmetrie informative la maggior causa dei facili guadagni da parte dei centri di potere finanziari. Dinanzi questo scenario, negli anni 90, si è riscontrata l’assenza dello Stato che, foraggiato dalle culture liberiste, ha scelto la strada della deregulation negli investimenti finanziari e addirittura dell’utilizzo della finanza creativa per sanare i debiti di bilancio. La cultura liberista senza freni si è diffusa con insistenza nel modello economico occidentale a partire dalla caduta del Muro di Berlino. Al valore inestimabile della caduta del Muro che ha determinato la fine della guerra fredda, l’affermazione della cultura occidentale e di un clima di sicurezza internazionale diffuso, si è sommata una occasione perduta per la nostra cultura . La fine della competizione tra le culture, ha infatti fiaccato il quel mordente che per anni aveva condizionato le politiche di governo, le azioni e le tradizioni di intere popolazioni. Gli anni 90 sono stati caratterizzati da un periodo di rilassamento culturale, in cui si è passati dalla necessità di rappresentare la propria fede nel modello in cui si credeva ad una diaspora dei valori fino ad allora coltivati, predisponendo un terreno fertile in economia per il capitalismo più aggressivo. Si è assistito quindi, parallelamente al progressivo disfacimento dei valori tradizionali, all’ascesa dell’individualismo radicale che filosoficamente ha applicato il pensiero machiavellico in cui tutto il “da farsi” ha senso compiuto se ha un’utilità e quindi un ritorno economico. Nella finanza l’individualismo ha espresso tutte le sue potenzialità con l’utilizzo del linguaggio dogmatico e razionale della matematica, relegando le questioni morali ad un mero esercizio spirituale. Le migliori business school del mondo hanno insegnato la finanza d’azienda e il management di impresa reinterpretando il vocabolario economico, associando al termine sviluppo il profitto, al merito personale il raggiungimento dei risultati economici e alla performance di una azienda la massimizzazione della redditività. Il Trattato di Mastricht e le regole per la conversione della moneta locale nella valuta europea hanno rappresentato il primo progetto sul campo della nuova classe dirigente. A Mastricht sono state definite le regole di convergenza, tramite l’utilizzo di una fitta rete di indicatori finanziari, da far osservare ai Paesi che aderiscono all’Unione Europea. Inoltre sono stati indicati i parametri di conversione delle monete locali al momento dell’adesione al mercato unico europeo. A distanza di anni il risultato raggiunto dalle politiche europee è stato tecnicamente fallimentare sia per non aver perseguito gli obiettivi sperati che per aver indirizzato l’Europa verso un percorso che al momento non mostra una semplice via di uscita. Per l’Europa e per l’Italia di oggi ripartire con uno nuovo slancio emotivo che esca fuori dalla ratio della sola tecnica e che affondi le sue radici nei valori e nei principi che hanno caratterizzato la nostra storia significa raccogliere un’autentica sfida globale. L’impossibilità di far coesistere tecnicamente nello spazio europeo, due Paesi diametralmente opposti nei saldi contabili delle entrate e delle 4 uscite - come ad oggi sono la Germania e la Grecia - è rappresentativo della fragilità delle congetture sostenute negli accordi europei. È necessario quindi, ripensare la finanza nella sua funzione strumentale all’economia e, conseguentemente, alla parola sviluppo dovranno essere associati i significati altisonanti perduti nel corso degli anni e richiamati dall’Enciclica Caritas in Veritate: “ …il termine « sviluppo » … indica l’obiettivo di far uscire i popoli anzitutto dalla fame, dalla miseria, dalle malattie endemiche e dall’analfabetismo. Dal punto di vista economico, ciò significava la loro partecipazione attiva e in condizioni di parità al processo economico internazionale; dal punto di vista sociale, la loro evoluzione verso società istruite e solidali; dal punto di vista politico, il consolidamento di regimi democratici in grado di assicurare libertà e pace.” Questa breve riflessione vuole far comprendere che la causa della crisi non è mai unica, ma presenta strati e sottostrati sociali legati tra di loro da un rapporto di causa-effetto che possono con il tempo provocare danni molto più seri rispetto al mancato raggiungimento di un parametro economico. Per non finire sotto il carro armato delle speculazioni, è necessario ristabilire un ordine nella distribuzione dei poteri istituzionali e nelle scelta delle tematiche da sviscerare. Il pensiero del professore Federico Caffè che auspicava un capitalismo regolato dalla mano saggia dello Stato, non rinnegando quindi le virtù dell’economia di mercato - potrebbe esserci di aiuto per trovare una via di uscita dalla crisi. Lo Stato infatti potrà assurgere al ruolo di garante dei diritti dei più deboli, inermi dinanzi il tecnicismo esasperato e le speculazioni, richiamando la centralità della questione culturale tramite l’utilizzo dei suoi ampi poteri normativi e il ritorno dei nostri valori. È un monito per lo Stato laddove in periodi di crisi le questioni culturali, se valorizzate nel dibattito politico, risultano essere la linfa necessaria allo svolgimento della vita sociale e che, in caso contrario, al popolo privo di riferimenti culturali, non rimane altra strada che richiedere il conto ai principali responsabili della crisi stessa, che non sono, ovviamente, i cittadini stessi. La Cina d’Europa: Albania a cura di Tommaso Marseglia Il protrarsi della crisi economica ha costretto molte imprese a dover modificare la propria strategia aziendale per aumentare l’efficienza dei propri processi, sia a livello produttivo sia a livello organizzativo. Coloro che non sono riuscite ad ottenere risparmi significativi, e quindi a recuperare marginalità, sono oggi in una fase di declino ormai irrimediabile. Le imprese che risentono meno, o che comunque riescono ad aver minor affanni economici e finanziari, risultano essere quelle maggiormente attive sui mercati internazionali, (acquisti di materie prime, nuovi mercati di vendita, produzione in paesi con costi di realizzo minori). I processi di internazionalizzazione si dividono in due macroaree, identificabili con i termini, a livello specifico, di Delocalizzazione, in cui vi è il trasferimento di una, o più, fasi del processo produttivo all’estero, tipicamente sono i passaggi a minor valore aggiunto, o specifico, o richiedenti un maggior bisogno di manodopera. E la Globalizzazione (utilizzata spesso nel linguaggio comune con una accezione generica) in cui vi è l’espansione verso nuovi mercati, fuori dai propri confini nazionali, al fine di acquisire nuovi clienti, aumentando i ricavi e soddisfacendo una domanda non ancora raggiunta. Il buon esito di un processo di internazionalizzazione richiede però alcune cautele, tra le quali è fondamentale la scelta del paese dove si andrà ad operare e la conoscenza delle prassi e del funzionamento del mercato imprenditoriale locale. Può diventare quindi indispensabile, l’utilizzo di società specializzate in internazionalizzazioni, soprattutto per affiancare le Piccole e Medie Imprese (PMI) che non dispongono di ingenti risorse da investire. Il percorso di crescita, o comunque di commercio con l’estero, non è però semplice per le imprese italiane, caratterizzate da un nanismo dimensionale, che molto spesso le costringe, visto anche uno scarso, quasi nullo, sostegno istituzionale italiano, a rimanere nei mercati già 5 conosciuti. Sono imprese quindi esposte ad una continua lotta per la sopravvivenza, che molto spesso le vedrà comunque soccombere, a favore di competitors esteri. Tra i paesi, più vicini all’Italia, sia in senso geografico sia a livello culturale, possiamo annoverare la Repubblica di Albania, una meta che sconta ingiustamente molti pregiudizi, ma che in realtà offre innumerevoli opportunità. L’Albania è uno dei pochi paesi del continente europeo in crescita e i suoi esponenti governativi stanno continuando a perseguire una sempre maggiore integrazione nella comunità euro-atlantica. L’Italia è il primo partner commerciale, con scambi complessivi per 2,12 miliardi di dollari nel 2011. Il suo PIL pro-capite è pari ad oltre 8.000$ ed ha una crescita reale del 3% annuo. Motivi storici, e vicinanza linguistica, rendono l’Albania, una buona palestra per iniziare un processo di sviluppo all’estero. È possibile considerarlo come la 21° regione d’Italia, con grandezze economiche, simile alle Marche. Le prospettive sono solide, a livello di sviluppo e di opportunità, e le stime di crescita per i prossimi anni sono molto soddisfacenti. Il Fondo Monetario Internazionale, prevede un aumento del Prodotto Interno Lordo per il 2013 pari al 4,1%, e se il Paese dovesse ricevere, come si prospetta, lo Status di Candidato Membro dell’Unione Europea, ed effettuare alcune riforme, la crescita potrebbe essere ancora più marcata ed esponenziale anche negli anni successivi. Source: Fondo Monetario Internale, stima di crescita PIL in Albania. Infatti, nonostante il rallentamento economico globale, l’Albania è stata in grado di mantenere una buona stabilità macroeconomica ed ha condotto una politica economica volta alla stabilizzazione ed all’attrazione degli investimenti. Gli Investimenti Diretti Esteri, dal 2010, sono sempre stati sopra il 10% del GDP, con una costante crescita registrata fin dal 2006. Secondo l’indice 2011 della libertà economica, redatto dalla Heritage Foundation, il Paese si colloca al 70° (Italia 87°) posto a livello mondiale. La spesa pubblica complessiva, comprendente anche il consumo ed il trasferimento dei pagamenti, è moderata, raggiungendo nel 2010 il 26,6% del PIL. L’inflazione è stata bassa, con una media del 3,2% tra il 2006 ed il 2008, ed attualmente si attesta intorno al 3,5%. Il tasso di disoccupazione ufficiale, anche se elevato, è comunque intorno al 13,7%, tale dato è influenzato anche da una zona grigia di attività sommersa. I punti di forza dell’Albania, sono numerosi: solo 72 chilometri di distanza dalla Puglia, un’ora circa di volo da Roma o Milano (collegati quotidianamente), il clima favorevole, la diffusione dell’italiano nella popolazione, il sistema fiscale con un aliquota unica al 10%, un Accordo di Stabilizzazione e Associazione con l’Unione Europea, firmato nel 2006, che cancella i dazi doganali su quasi il 90% dei prodotti. Inoltre è 6 possibile operare in regime agevolato, qualora i prodotti giungano in Albania solo in conto lavorazione, ma soprattutto per il basso costo della manodopera, e del relativo cuneo fiscale tra impresa e dipendenti, può esser definita «la Cina d’Europa». Nel campo del Customer Care Telefonico, sono impiegate in Albania, circa 22.000 persone, operanti quasi esclusivamente con il mercato italiano. Sono presenti, i maggiori players del settore, da Teleperformance al Gruppo Abramo, in rappresentanza di società come Alitalia, Sky, British Telecom, Sorgenia, Edison, Telecom Italia e molte altre ancora. Le motivazioni dell’espatrio sono semplici, basti pensare che un operatore guadagna circa 500euro al mese, ed il suo costo aziendale non supera i 600€/mese. Oltre ad una burocrazia, ed una contrattualistica snella e lineare, che non deve però illudere le imprese che tutto è possibile e che si sia legalizzato lo sfruttamento, esistono infatti garanzie contrattuali eque e condizioni a tutela del lavoratore. Nel 2009 l’Albania ha ottenuto la piena adesione alla NATO, è membro dell’Onu dal lontano 1955 e del WTO dal Settembre 2000. Inoltre dal Dicembre 2010, con l’adesione dell’Albania al Trattato di Schengen, i cittadini albanesi posso muoversi liberamente in tutti i paesi firmatari. In Italia la presenza di cittadini albanesi è di poco più di 483 mila. Tra le opportunità, si evidenzia, in particolare, il settore dell’energia idroelettrica che ha visto un notevole impulso alla crescita, non influenzato da incentivi ed agevolazioni. Ed oggi nel paese ben oltre il 90% dell’elettricità è ottenuta da questa fonte rinnovabile. L’apertura al libero mercato energetico, con le privatizzazioni delle società ex-statali di gestione e distribuzione, ha attratto numerosi investitori che sfruttando i bassi costi locali, possono ottenere concessioni per ben 35 anni, e rivendere la loro energia ovunque in Europa. Il Governo negli ultimi anni ha rilasciato oltre 300 concessioni di sfruttamento dei corsi idrici, quasi saturando le possibilità offerte dai rilievi orografici del Paese. Moltissime di queste concessioni, però non sono ancora state sviluppate, e rappresentano un’ottima opportunità per gli investitori esteri, che possono quindi gestire il processo realizzativo ed operativo, fin dall’inizio. La domanda di energia è d’altronde in crescita costante, e l’offerta interna non è ancora completamente in grado di soddisfarla, inoltre, grazie alle interconnessioni con la Smart Grid Europea è possibile cedere eventuali sovrapproduzioni ad altri operatori internazionali. Le infrastrutture, sono in via di ammodernamento da alcuni anni, ad un osservatore esterno può sembrare paradossale riscontrare come le vie di comunicazioni interne sono peggiori dei collegamenti con l’estero. E’ pur vero che, molto si è fatto, e si sta realizzando, e si è, giustamente, preferito integrare a livello europeo, prima le città più popolose(Tirana, Durazzo, Valona), e poi procedere alla loro integrazione interna. In previsione, in Albania, si realizzerà il Corridoio PanEuropeo VIII, che permetterà di congiungere Bari-Brindisi, con Sofia, Burgas e Varna sul Mar Nero, passando per Tirana, Valona e Skopjie in Macedonia. Negli ultimi anni, si è registrata la piena apertura dei mercati, grazie alle privatizzazioni delle società statali, nei principali settori economici e all’ingresso di grandi players internazionali. Nelle telecomunicazioni oggi sono presenti operatori inglesi (Vodafone), sloveni e turchi. Il settore bancario è ormai pienamente armonizzato con le best practices europee, è sottoposto al rispetto delle normative internazionali del Gafi (antiriciclaggio) e all’adesione nei circuiti interbancari. Sono presenti alcuni grandi gruppi, di diverse nazionalità, Italiani (Intesa, Veneto Banca), francesi (Societè Generale, Credit Agricole), austriaci (Raiffeisen), oltre che turchi, greci ed arabi. L’Albania, non è però un paradiso terrestre, molti imprenditori si preoccupano della corruzione e della criminalità, che se è vero sono fattori, inutile nasconderlo, esistenti, e pur vero che in concreto incidono meno di ciò che si possa pensare. Il senso di percezione della corruzione e di insicurezza, è sicuramente elevato, ma è una condizione psicologica, che non si manifesta nei risvolti quotidiani, soprattutto per un investitore estero, che specialmente se italiano, magari meridionale, ha idee ben diverse circa la criminalità e la corruzione, che possono danneggiare un business, la cui esistenza non riscontra in Albania. 7 I finanziatori internazionali, infatti, non hanno remore nel vedere finalmente il Paese come un mercato attraente e la Banca Europea degli Investimenti (BEI) oltre alla Banca Europea di Ricostruzione e Sviluppo (BERS) e alla Banca Mondiale finanziano agevolmente opere importanti e di sviluppo per il paese. Inoltre, lo Status di Paese Candidato ad entrare nell’Unione Europea, che potrebbe esser rilasciato a breve, farà pervenire notevoli risorse economiche per equiparare il Paese agli standard europei. L’internazionalizzazione è quindi ormai un imperativo categorico per la crescita, il progresso e in alcuni casi la sopravvivenza delle aziende. L’Albania non deve esser identificata sempre come un feudo di corrotti, prostitute, ladri o trafficanti, ma come un approdo strategico che può allargare la visione del mondo e del fatturato. Le opportunità sono numerose in diversi settori e tra le priorità governative, vi è il rilascio di concessioni governative in molti ambiti considerati strategici per lo sviluppo del Paese. Il problema dell’informazione nell’azienda moderna a cura di Edoardo Angeloni Nella tesi di Management d’Impresa, che sto svolgendo per l’Università di Teramo, cerco di affrontare con una matematica abbastanza specifica, appunto la teoria dei giochi, il problema che si crea in una azienda quando si passa da un modello ad informazione completa ad una trasmissione asimmetrica bayesiana. Avevo discusso in una tesi precedente I giochi epistemici tra tradizione e teoria della complessità alla fine di un Master in Epistemologia un paio di anni fa il significato matematico e filosofico di un tale cambiamento di metodo ideologico. Nel caso aziendale naturalmente il modello deve rendere conto della massimizzazione dei profitti. Ciò crea dinamiche manageriali che comunque da un punto di vista filosofico il lavoro citato riesce ancora ad inquadrare. Nella maggior parte dei casi il modello asimmetrico bayesiano è più efficiente perché lascia maggiore autonomia ai manager. Ma se l’azienda vuole premiare l’azione collettiva, allora può funzionare a tal scopo il modello ad informazione perfetta. Certo alla fine sarà più conveniente simularlo con un gioco cooperativo per evitare calcoli enormi. In ogni caso rimane di un certo interesse valutare come un lavoro prettamente filosofico con aspetti matematici spieghi abbastanza bene concetti tipicamente aziendali. Più avanti citerò brani della tesi in Epistemologia per renderci conto della validità del problema filosofico in ambiente aziendale, oltre ai modelli matematici. Allora è anche lecito porci la seguente domanda: come la teoria dei giochi può spiegare la realtà economica in analogia con la fisica? E’ una tematica abbastanza ricca di letteratura che ho già affrontato con un tesi in Statistica nel 2006 Determinismo e incertezza nelle scienze fisiche e sociali. La mia intenzione è di visionare le ultime opere uscite sull’argomento per vedere se il discorso generale è rimasto abbastanza invariato. Ma in questo articolo non seguirò questo approccio lasciandolo per la tesi di Management vera e propria. Ma in effetti, quando questo succede, il paradigma dominante si struttura in un certo modo. Nella tesi del 2006 sostenevo in sostanza che come rigore matematico 8 l’economia è abbastanza affine alla biologia, ma è meno esigente della fisica. Visto che il contesto è rimasto questo piuttosto a lungo, all’interno del paradigma che alla fine si è consolidato in senso kuhniano prevale chi fa una disanima di tipo storico oppure chi porta avanti tesi comportamentiste. Nella tesi che sto scrivendo, non insisterò ancora sulla differenza tra probabilismo e determinismo, cosa che ho già svolto nel 2006 con abbondanza di particolari; ma cercherò appunto di seguire gli ultimi sviluppi della teoria nel modo che ho accennato. Potrebbero diventare di un certo interesse come novità matematiche la teoria dei frattali di Mandelbrot e quella dei jump di Tankov. Tornando alle problematiche dell’azienda, possiamo considerare il fatto che le problematiche legate all’informazione sono tra le cause principali, insieme al potere di mercato e alle esternalità, dei cosiddetti “fallimenti del mercato”. In termini generali le carenze informatiche generano costi nelle transazioni di mercato che possono determinare risultati lontani da un funzionamento ottimale. In particolare dal lato della domanda la mancanza o la costosità del reperimento delle informazioni, secondo un modello a capacità cognitiva limitata ( rispetto al tradizionale assunto della perfetta razionalità ), non permette ai consumatori di compiere scelte che massimizzano sempre la propria utilità. Una distribuzione asimmetrica delle informazioni, con una delle due parti in posizione di vantaggio, alimenta fenomeni opportunistici che si verificano prima e dopo la firma del contratto. Di solito il venditore è avvantaggiato nella prima fase, perché conosce le caratteristiche del bene meglio del consumatore. Quest’ultimo può sfruttare un mancato monitoraggio del venditore nella fase di esecuzione del contratto. Se anomali, gli effetti opportunistici da entrambe le parti possono essere letali e rendere inefficiente il mercato.Il comportamento tenuto dall’Autorità dell’energia e dall’Antitrust è stato quello di tutelare il consumatore con regolamenti stringenti sulla vendita, soprattutto nelle prime fasi della liberalizzazione del mercato dell’elettricità e del gas, in modo che in Italia si è passati da un “paternalismo regolatorio” ad un “empowerement del consumatore finale”. Il consumatore non va protetto da ogni brezza del mercato ma deve diventare un partecipante attivo del sistema. La riduzione dei costi unitari di transazione sostenuti da consumatori e venditori potrebbe portare ad un aumento delle transazioni stesse, agendo come un normale meccanismo di prezzo, secondo le caratteristiche dei sistemi dinamici. Le leggi europee sul consumo si basano sul “paradigma del consumatore”, che è informato e in grado di decidere autonomamente, conoscendo e utilizzando i benefici di una maggiore competizione. Una maggiore diffusione dell’informazione si pensava fosse garantita dal potere di mercato delle aziende. Contro un back-ground di questo tipo, sono nate nuove esigenze, come proteggere il cittadino dalla chiusura informativa; i comportamenti dell’economia si basano sui processi decisionali del consumatore. Secondo l’economia neo-classica, egli si basa appunto sulla massimizzazione del proprio benessere. Le nuove teorie che analizzerò in dettaglio propongono modelli dove si considera l’importanza dell’azione collettiva e il relativo livello informativo. Ciò è legato al fatto che le scelte del consumatore dipendono da fattori irrazionali come distorsioni dello status quo, avversione al rischio, misconcezioni delle aspettative future. In USA sta prevalendo la tesi del “paternalismo liberale” che lascia le aziende libere di decidere, ma introduce sistemi regolatori nel mercato. Nel mercato energetico aspetti tecnici e complessità strutturali aumentano il livello di asimmetria delle informazioni. A ciò fanno riferimento le leggi sulla trasparenza. Se il mercato è di tipo complesso, può essere strutturato secondo griglie che possono costituire veri e propri network. Essi integrano comportamenti e azioni degli attori economici (produttori e consumatori) per assicurare l’efficienza. Esistono funzioni di feed-back sul consumo energetico, automazione, controllo remoto, differenze nei prezzi. Vanno affrontati i problemi dell’inquinamento ambientale e delle 9 risorse rinnovabili, così come va distinto il modello statico da quello dinamico. I giochi epistemici tra tradizione e teoria della complessità - un sunto tratto dalla Tesi di Epistemologia 2009-10 L’introduzione al modello di Gintis In questa tesi ho presentato in dettaglio il modello dei giochi epistemici; in tali strutture logicomatematiche si affronta il problema del collegamento dell’informazione tra individui, confrontando il modello CKR con quello bayesiano. Il primo prevede che un’affermazione sulla realtà può essere accettata dalla collettività se il modo di verificazione è condiviso da tutti senza alcuna possibilità di errore. Ciò corrisponde alla critica che fa Popper contro la filosofia positivista, ma è un modello così rigido da non essere mai applicabile nella realtà. Il secondo meglio coglie gli aspetti personali dei partecipanti alla comunità scientifica ed è di più facile applicazione matematica. In seguito ho cercato di spiegare le motivazioni che secondo Gintis fanno parte dell’immediato back-ground di questo modello matematico. In particolare egli parte dall’idea di unificare le scienze del comportamento e in questo senso l’approccio deve convergere verso un tentativo di studio globale della persona umana. E’ di particolare interesse da un punto di vista biologico la nozione di coevoluzione geneticoculturale. La società viene quindi vista come un sistema di adattamento complesso e si considera la possibilità di applicare la teoria dei giochi congiuntamente a quella del caos per studiare il fenomeno dell’evoluzione biologica. E’ importante verificare questi fatti a tre livelli epistemologici: quello elaborato da Gintis, quello tradizionale, quello contemporaneo legato ai sistemi dinamici. L’unificazione delle scienze del comportamento. Scrive Becker: ”Le assunzioni combinate di massimizzazione del comportamento, equilibrio di mercato e stabilità delle preferenze formano il cuore dell’approccio economico”. Ribadisce inoltre Hirschleifer:”Mentre il lavoro scientifico in antropologia, sociologia e scienze politiche diventerà in maniera crescente indistinguibile dall’economia, gli economisti dovranno diventare reciprocamente consapevoli di quanto ristretta sia stata la loro visione del tunnel tra la natura dell’uomo e l’interazione sociale”. Le scienze del comportamento includono le discipline di cui parla Hirschleifer, come pure la biologia che rappresenta il raccordo tra comportamento umano e animale. Questi modelli non sono solo differenti, come ci si potrebbe attendere dalle diverse tipologie di spiegazione, ma sono anche incompatibili. Quindi se volessimo formulare una previsione sulla possibile scelta di una persona da un punto di vista generale, in base a quanto detto dovremmo adottare soluzioni diverse. Se noi vogliamo un sistema di riferimento secondo il quale tale soluzione si presenti univoca, dovremmo in qualche modo procedere all’unificazione dei metodi relativi alle diverse scienze del comportamento. L’economia spiega il mercato degli scambi, la sociologia mostra la stratificazione e la devianza dei dati sociali. La psicologia illustra il comportamento del cervello; mentre la biologia, non riuscendo con Darwin a spiegare completamente le emozioni umane, evita questo tipo di particolari. Negli ultimi anni comunque l’attività di questo tipo è diventata maggiormente interdisciplinare e ha indirizzato questioni di teoria sociale di rilievo; per questo motivo la sociobiologia è diventata la maggiore arena di ricerca scientifica. Il sistema di riferimento proposto da Gintis include cinque unità concettuali: evoluzione combinata tra fattori genetici e culturali, teoria psico-sociologica delle norme, teoria dei giochi, modello degli attori razionali, teoria della complessità. Queste società sono il prodotto dell’interrelazione dei diversi fattori, ma hanno proprietà emergenti, includendo norme sociali e i prerequisiti correlati da un punto di vista psicologico, che non possono essere derivate analiticamente dalle parti componenti del sistema, che in questo caso sono gli agenti che interagiscono fra loro. Solo la teoria dei giochi possiede diversi livelli interpretativi: classico, comportamentale, epistemico ed evoluzionario. Mentre la teoria della coevoluzione genetico-culturale è una spiegazione 10 che non ha possibilità predittive, il modello dell’attore razionale fornisce una descrizione approssimata del comportamento che può essere testata sia in laboratorio che nella vita reale. Le teorie dei giochi classica, epistemica, comportamentale, non hanno senso senza il modello dell’attore razionale, così come le teorie del comportamento che hanno abbandonato questo modello hanno perso parte della loro importanza precedente. La teoria della complessità è necessaria perché la società umana è un sistema di adeguamento complesso con proprietà emergenti che non può essere per ora pienamente spiegato partendo con più unità basilari di analisi. I metodi ipotetico-deduttivi della teoria dei giochi e del modello dell’attore razionale, così come la teoria della coevoluzione genetico-culturale, devono infatti essere sostenuti dal lavoro di scienziati del comportamento, operanti nella società a più macrolivelli, secondo termini interpretativi e schemi di sviluppo delle idee capaci di gettare luce laddove i modelli analitici non possono penetrare. Studi antropologici e storici ricadono in questa categoria, come pure le politiche macroeconomiche e i sistemi economici comparativi. I modelli basati sugli agenti dei sistemi dinamici sono anche utili per mostrare le proprietà emergenti di sistemi di adeguamento di tipo complesso. I principi precedenti non implicano ricerche rivoluzionarie per ogni disciplina. Infatti essi poggiano su forze esistenti e implicano cambiamenti solo in quelle aree dove si sovrappongono le diverse argomentazioni. Un lavoro molto tecnico su un tema specifico può avere forse un piccolo guadagno dalla conoscenza di un modello unificato sotteso a tutte le discipline del comportamento. D’altra parte un modello unificato tra scelte umane e interazione strategica può offrire innovazioni diffusa in tutta la disciplina, anche in aree relativamente separate tra loro. Coevoluzione genetico-culturale Il genoma assume nel codice delle informazioni che sono usate sia per costruire nuovi organismi che per dotarli delle istruzioni in grado di trasformare input di senso in output decisionali. Poiché l’apprendimento è costoso e permette possibilità di errori, una trasmissione efficiente di informazioni assicura che il genoma prenda nel codice tutti gli aspetti ambientali dell’organismo che si mantengono costanti o che cambiano di poco nel tempo e nello spazio. Contrariamente a questo fatto, le condizioni ambientali che variano rapidamente possono accordarsi con il fatto di fornire all’organismo la capacità di apprendere. C’è un caso intermedio, comunque, che non può essere spiegato né geneticamente né con l’apprendimento. Quando le condizioni ambientali sono correlate positivamente tra loro, ma imperfettamente correlate per generazioni, ogni generazione acquista informazioni valide attraverso l’apprendimento che non è possibile trasmettere geneticamente alla generazione successiva, perché non è possibile la codificazione. In tali contesti, c’è un adattamento benefico verso la trasmissione di informazione epigenetica riguardante lo stato corrente dell’ambiente. Tale informazione epigenetica in realtà è piuttosto diffusa tra gli esseri umani, ma molto poco tra gli altri primati. Il parallelo tra evoluzione biologica e culturale è stato trattato da Popper in Conoscenza obiettiva (1979) . L’idea di considerare la cultura come una forma di trasmissione epigenetica è stata sviluppata da Dawkins in Il gene egoista (1976), dove viene definita l’unità di informazione che può essere trasmessa fenotipicamente. Questo è stato il maggior contributo in questa direzione, basato sulla nozione che la cultura, come i geni, può evolvere attraverso replicazioni, mutazioni e selezioni. Parsons (1964) ha sostenuto che gli elementi culturali riproducono se stessi, essendo soggetti alla selezione secondo i loro effetti sull’adattamento dei loro caratteri. Dawkins ha parlato anche di un meccanismo fondamentale della trasmissione epigenetica, la costruzione di nicchia : la specie crea un importante aspetto all’interno del suo ambiente e trasmette stabilmente questo ambiente per generazioni. (Un eccellente esempio di questo caso è rappresentato dall’alveare : c’è correlazione tra genoma del miele e struttura sociale delle api). La teoria delle norme: il modello sociologico. La centralità della cultura all’interno della divisione sociale del lavoro è stata espressa 11 chiaramente da Durkheim (1933) che dimostrò che la grande molteplicità di ruoli ( che egli chiamò solidarietà organica) richiedeva una comunione di credenze ( che egli chiamò coscienza collettiva); quest’ultima permetterebbe un regolare coordinamento di azioni da parte di individui distinti. Questo tema fu sviluppato da Parsons (1937) che usò le sue conoscenze di economia per articolare un sofisticato modello di interazione tra situazione (ruolo) e i suoi abitanti (attori). La domanda è se i pay-off (incentivi e penalità) associati al ruolo sociale degli agenti dipendono da aspetti comportamentali. Per quanto riguarda i giochi epistemici, il modello rigido CKR è puramente assiomatico, mentre il modello elastico di Aumann è basato sulla legge di Bayes. Potremmo affermare che il modello rigido riflette l’epistemologia di Popper, in quanto la verifica di un evento, per essere valida per tutta la collettività, deve essere provata da una catena infinita di informazioni. Il modello più flessibile è rappresentato dall’epistemologia di Kuhn, che dà rilievo ad aspetti comportamentali dello scienziato che nonostante tutto sbaglia come essere umano. L’equilibrio delle congetture fa senza dubbio riferimento all’idea kunhiana di paradigma. In prima istanza, le norme sociali hanno un carattere strumentale dovuto al contenuto normativo, servendo unicamente ai meccanismi informativi che coordinano il comportamento di agenti razionali. Ma ci possono essere casi come l’informatica in cui il ruolo pubblico è diversificato rispetto a quello privato ed in seguito ci soffermeremo su questo aspetto. L’interiorizzazione delle norme presuppone una genetica predisposizione alla cognizione morale, che può essere spiegata solo dalla coevoluzione socio-culturale. Tale processo può essere formalizzato mediante la costruzione di un sistema di preferenze che l’individuo massimizza. Ciò è ben descritto nei modelli di tipo economico. La scelta razionale: il modello economico. I principi generali dell’evoluzionismo suggeriscono che l’elaborazione di processi decisionali individuali all’interno di una specie può essere modellata ottimizzando la funzione di preferenza, tenendo conto che la selezione naturale porta il contenuto delle preferenze a riflettere l’adattamento biologico. Cambiando il contesto, ma non il senso del processo, il principio di utilità attesa si estende mediante la sua ottimizzazione ai redditi stocastici. Economia e biologia sono infatti piuttosto similari: la consistenza di una scelta da cui dipende la teoria dell’attore razionale è resa plausibile dalla teoria evolutiva, mentre le tecniche economiche di ottimizzazione sono applicate spesso ed estese dai biologi modellando il comportamento degli organismi non-umani. Simon (1982), confrontando la capacità finita dell’individuo di accumulare dati rispetto ad un elaboratore elettronico, ha parlato di soddisfazione invece di massimizzazione, considerando tale oggetto solo limitatamente razionale. Gintis riconosce la validità di quest’ultimo punto di vista, che include l’importanza dei costi dei processi di informazione e dei limiti della diffusione dell’informazione stessa nei modelli di comportamento legati a delle scelte. L’opinione di Simon è apprezzabile anche perché rende conto della decisione di quanta informazione inglobare, che dipende dai presupposti a priori soggettivi non-analizzati a qualche livello. Teoria dei giochi epistemici e norme sociali Economia e sociologia hanno modelli di interazione fra gli individui fortemente contrastanti. Gli economisti per tradizione considerano le persone da un punto di vista razionale, nel senso che esse massimizzano i pay-off, se ciò è nel loro interesse; d’altra parte i sociologi le considerano altamente socializzate, altruiste, dotate di etica in quanto desiderose di ricoprire un ruolo sociale perché la loro auto-stima dipende dall’approvazione del prossimo. Il progetto unificatore delle discipline dovrebbe conservare le caratteristiche di entrambi i modelli. Si partirebbe dal fatto che gli individui hanno dei valori, basati su particolari situazioni socio-culturali, che hanno la possibilità di venire realizzate in laboratorio in giochi ad un passo sotto condizioni di anonimato. Inoltre ciò suggerisce che i sociologi potrebbero trarre beneficio dall’inclusione del modello di attore razionale fra le loro teorie, mentre la teoria psico-sociologica 12 potrebbe essere in grado di spiegare con nuovi concetti la cooperazione sociale. Il modello fondamentale per la divisione del lavoro in economia è l’equilibrio generale di Walras, secondo il quale un sistema di prezzi flessibili induce imprese ed individui ad offrire e domandare beni e servizi secondo quantità stabilite dalle leggi del mercato (Arrow-Debreu 1954). Inoltre molte forme cooperative non sono mediate da una terza controparte, ma piuttosto la contrattazione prende l’aspetto di una serie di ripetute interazioni, dove la minaccia informale ma reale di interrompere le relazioni di solito induce la mutua cooperazione. La teoria dei giochi ripetuti costituisce per gli economisti i passi per spiegare forme di cooperazione faccia-a-faccia che non possono essere ridotte al semplice meccanismo dei prezzi mediato dal mercato. Comunque la teoria dei giochi ripetuti non risolve completamente il problema della cooperazione, soprattutto per quanto riguarda la relazione con le altre discipline: quando il numero di giocatori supera il 3 il modello matematico diventa complicato. Una norma sociale può fornire agli individui le regole per una divisione sociale del lavoro; quindi i giocatori potrebbero preferire di consolidare il rapporto con gli altri partecipanti per convertire i loro privati segnali in pubblici, così come potrebbero avere una predisposizione normativa personale a seguire i ruoli sociali ad essi assegnati. Un contributo centrale dal punto di vista analitico è stato fornito da Aumann (1987) che ha mostrato che il concetto naturale di equilibrio della teoria dei giochi non è l’equilibrio di Nash, ma l’equilibrio correlato. L’equilibrio correlato consiste nell’equilibrio di Nash a cui si aggiunge il contributo di un nuovo giocatore, il coreografo. Quest’ultimo modella la distribuzione di probabilità data dalle credenze individuali e istruisce ciascun giocatore sull’azione da intraprendere. L’impatto sociale degli istituti di credito a cura di Lucian-Razvan Desliu “Fare debito” occupa oggi un posto centrale nella nostra vita. La Carta di credito, il mutuo per la casa, il leasing per la macchina, e un livello nazionale di un debito pubblico in continua crescita ne testimonia la centralità acquisita. Negli ultimi 20 anni, infatti si è assistito da parte delle banche una notevole espansione nella concessione dei crediti, dovuta da una crescita importante dei prezzi degli attivi bancari. Perché ci indebitiamo? Primo, perché vogliamo mantenere il tenore di vita a cui ci siamo abituati. Poi perché siamo ottimisti sul futuro, pensando che il guadagno ottenuto dai soldi prestati risulterà maggiore del prezzo del credito. Nello stesso tempo, anche gli istituti di credito erano ottimisti, contando su un continuo processo di aumento dei redditi, e quindi sulla certezza della capacità dei cittadini di pagare i crediti contrattati. Ma adesso i nodi di questo sistema creditizio sono venuti alle pettine. Le economie occidentali sono in crisi , la produttività è in decrescita, il rapporto demografico spinge sempre di più verso l’invecchiamento della popolazione. Allora come mantenere l’attuale tenore di vita nell’Occidente, con l’accesso al credito non più percorribile? Di sicuro il modello di crescita intensiva fondato sull’idea che la via più breve per arricchirsi (come individuo, ditta o paese) è di contrattare debito, comprare attivi ed aspettare che il prezzo di questi attivi aumentino – è sulla via di estinzione. Ogni debito rappresenta un modo per ipotecare il tempo del debitore, la capacita di controllare il suo futuro e di sottometterlo alla sua volontà. Il debito finanziario ha una caratteristica speciale in quanto calcola e programma la gestione sul futuro del debitore, rinnovandosi ogni volta che il debito si estende per periodi più lunghi e a tassi di interesse più alti. Nel Medio Evo i mercanti che prestavano soldi con tasso di interesse erano considerati “ladri del tempo”, in quanto non vendevano niente di quello che gli apparteneva ma vendevano il tempo che appartiene solo a Dio (Jacques le Goff, “La Bourse et la vie”, Paris, Hachette, 1986). E’ una visione 13 sulla finanza che ancora prevale nel mondo islamico.. Le banche hanno sempre avuto due mansioni principali: a) attrarre i risparmi dei cittadini offrendo loro la custodia del denaro ad un rendimento duraturo nel tempo b) rilasciare crediti personali o ad aziende, in cambio di un prezzo inclusivo dell’interesse. Una nota importante è che la quantità del credito erogato non è commisurato alla quantità dei risparmi attratti. Anzi, nell’attuale regolamento di funzionamento delle banche, una banca può prestare denaro nove volte di più rispetto alla quantità di depositi. In altre parole, una banca funziona sulla basi di un doppio debito: quello sui risparmi ricevuti e quello sui crediti offerti. Il modello bancario quindi si basa sulla speculazione esercitata sul tempo dei soggetti indebitati che utilizzano e trasformano i soldi fittizi ricevuti nella produzione di beni o acquisizione di immobili e terreni. Con il miracolo del credito, infatti, il futuro viene assimilato ad un mezzo di produzione, uguale al capitale e alla forza di lavoro, basandosi sulla certezza che gli investimenti effettuati oggi porteranno rendimenti più alti nel futuro, così da anticipare sempre i benefici futuri. Tale modello di indebitamento ha generato una mancata correlazione tra i livelli reali di reddito o di produzione e la nostra capacità di consumo, facendo venire meno a livello nazionale e personale, il senso della spesa e dell’investimento. Si è quindi iniziato a consumare il futuro, come sta avvenendo per le materi prime, con l’illusione che questo perpetuo ascensore finanziario non avrà mai fine. Il debito pubblico medio per le più sviluppate economie del mondo nel G20 superera 100% del loro PIL in 2014. The Economist, 16 Maggio 2009 Con la crisi economica mondiale, però, il meccanismo si è inceppato ed è arrivato il momento di riconsiderare in modo radicale il nostro modello economico. Ad oggi ci ritroviamo, infatti con l’attuazione in una fase di contrazione del debito definita “deleveraging”, che ha lo scopo di eliminare gli eccessivi debiti; questo però porta anche effetti negativi al modello economico, e cioè effetti recessivi che minano la redditività e quindi l’occupazione. I destinatari principali, purtroppo sono i cittadini stessi, che si trovano a pagare due volte l’effetto del “deleveraging”: subendo gli effetti della crisi economica e pagando le imposte e le tasse necessarie per coprire i buchi del settore finanziario. Inoltre il sistema bancario rimane necessario per contenere eventuali crisi di liquidità o crolli dei prezzi degli asset come ci mostra l’esempio di questi ultimi anni, con l’iniezione illimitata di liquidità in America e oggi anche in Europa, le nazionalizzazioni in Gran Bretagna, in Francia e in Belgio, le ricapitalizzazioni in Europa o gli accordi internazionali di prestito sotto l’egida del Fondo Monetario Internazionale . Per risolvere la crisi non rimane altra strada di riconsegnare allo Stato la sovranità sul proprio sistema bancario. I gruppi bancari sono diventati troppo grandi per essere lasciati fallire dagli stati di appartenenza nel caso dei problemi sistemici. La più grande banca americana, Citigroup, ha un capitale pari all’ 1% del PIL americano. La più grande banca olandese contribuisce con 6,5% al PIL olandese. UBS e Credit Suisse, i due colossi 14 bancari svizzeri, contribuiscono ognuno con circa il 13% del PIL elvetico (The Economist, 20 maggio 2006). La capacità dei grandi gruppi bancari di influire sulle decisioni dei governi e delle autorità pubbliche è aumentata di molto nell’ultimo decennio. Un’altra variabile critica da osservare con cura, soprattutto da parte degli addetti ai lavori impegnati a risollevare le economie in crisi, riguarda il decentramento del rischio bancario verso gli investitori/risparmiatori. Dopo le recenti trasformazioni subite dal sistema bancario tramite ristrutturazioni/ricapitalizzazioni e politiche di credito molto più conservatrici, le banche ed i fondi di investimenti tendono a ”vendere” i crediti rischiosi a società di assicurazione, tramite prodotti costosi. I rischi di un sistema economico possono essere catalogati come segue: - - rischi sull’andamento dei mercati finanziari quali i tassi d’interesse, l’andamento dei bond e delle azioni, legati a tassi variabili di rendimento; rischi dovuti all’inflazione che hanno effetti diretti sui costi delle operazioni bancarie; rischi legati alla longevità che hanno effetti sul sistema pensionistico e quindi sui fondi di pensione (obbligatori in quasi tutti i paesi del Europa Centrale e dell’Est). Questi aspetti hanno impattato nell’organizzazione del sistema bancario che è divenuto sempre più specializzato nella valutazione del rischio. A differenza di altro settori economici, il mondo bancario è un settore molto integrato. Le banche fanno affari tra di loro, si prestano tra di loro soldi ed informazioni. Se nel commercio un negozio si chiude, gli altri negozi nelle vicinanze sono contenti. Se una banca fallisce, tutte le altre banche tremano perche il sistema nella sua interezza perde la fiducia dei risparmiatori. E se le banche soffrono, tutti noi soffriamo. Barack Obama il faro dell’umanità? a cura di Maurizio Di Giandomenico Il 6 novembre 2012 l’America ha deciso di continuare la nuova avventura di avere un Presidente “diverso” – Barack Obama, diverso per una lunga serie di motivi – e di non tornare sui suoi passi affidandosi alla doppia R di Romney-Ryan, che ha dalla sua la caratteristica tipicità americana dei bei tempi andati. Nella seconda metà del 2012, in piena corsa per conquistare il suo secondo mandato elettorale da Presidente USA, Barack Obama cambia il suo slogan e lo smalto da brillante e convinto decisionista si trasforma in un più cauto “temporeggiatore”. «Nel 2008 dissi “Sì, possiamo”, oggi dico “Sì, possiamo ma ci vuole tempo”». Il perdurare della crisi economicofinanziaria, la peggiore che dal ’29 imperversa sui tradizionali paesi maggiormente industrializzati con tecnologie avanzate, sembrerebbe aver piegato la volontà dell’undicesimo Presidente degli Stati Uniti. Ma è sufficiente solo questa motivazione? Il percorso si fa dunque tortuoso ma il Presidente “diverso” vuole anche questa volta a suo modo prendere per mano il suo popolo per incamminarlo attraverso un prossimo futuro accidentato ma indicante una meta luminosa: «I nostri problemi possono risolversi, le sfide possono essere lanciate. Vi guiderò lungo un cammino tortuoso, ma che conduce in un posto migliore. Non pensiamo che il governo possa risolvere tutti i nostri problemi. Ma non credo che il governo sia la fonte di tutti i nostri problemi. Nessun partito ha il monopolio della saggezza. Nessuna democrazia funziona senza compromessi». Il linguaggio del Presidente si fa ambiguo: quali sono questi compromessi di cui si avvale la democrazia? Le difficoltà economiche fanno da sponda alle politiche estere che devono ricercare anche nuove fonti a cui approvvigionarsi e questo significa far i conti con i conflitti che si accendono nel mondo e che condizionano i macro processi economici. Uno dei principali cavalli di battaglia del Presidente durante la campagna elettorale per il primo mandato fu giocato sul tema del termine delle guerre in Iraq e Afghanistan ed evitare nuovi conflitti pur mantenendo una inflessibile lotta al terrorismo internazionale, con la prospettiva di 15 chiudere o trasformare anche il Pentagono e le oltre settecento basi militari. A distanza di quattro anni, luci e ombre giocano sul teatro delle opere e dei gesti compiuti dal Presidente USA: decisioni “pacifiste” e un nobel per la pace da un lato ma pesanti accuse di cinismo e ambiguità da parte dei detrattori, dall’altro. Il 4 ottobre 2012 è uscito nelle librerie italiane il libro di Fidel Castro Obama e l’impero, (Roma, Atmosphere Libri) in cui l’autore non esita a descrivere il Presidente “…Obama, un uomo abile nell’usare le parole” (pag 114) ma intento con cinismo ad imporre a livello mondiale le politiche che riguardano il possesso e l’uso di armi nucleari come avvenuto al vertice sulla sicurezza nucleare a Seul, Corea del Sud, il 27 marzo 2012. Su questo stesso libro, nel capitolo “Giorni Insoliti”, Fidel Castro fa riferimento ad un articolo apparso su internet il 7 giugno 2012 intitolato “L’assassino capo” in cui si scrive esplicitamente che l’America insieme al nuovo Presidente dovrà eleggere anche il suo “assassino capo”; a questo rotocalco elettronico fa eco il lungo articolo di Jo Becker e Scott Shane apparso sul New York Times intitolato: “Secret ‘Kill List’ proves a test of Obama’s Principles and will” in cui si accusa il Presidente di aver formalizzato delle liste con la “nomina” di terroristi o presunti tali da uccidere attraverso un programma di droni (aerei spia senza pilota a bordo capaci di missioni killer in ogni parte del mondo). Questo programma, è scritto, sarebbe stato ereditato dal precedente Presidente Bush ma Obama lo avrebbe ampliato. Insomma, per Castro Obama è un abile oratore ma anche un cinico e spietato conservatore della politica estera americana non esente da ingiustizie e soprusi perpetrati in mezzo mondo, in particolare nel Sud America e Medio Oriente ad uso e consumo degli interessi economici USA. Infatti questo è il pesante j’accuse di Fidel Castro: “Mentre nel mondo a un numero sempre maggiore di persone manca la casa, il pane, l’acqua, la sanità, l’istruzione e il lavoro, le ricchezze della Terra vengono sperperate in armi e in interminabili guerre fratricide, cosa che è diventata un atteggiamento abominevole sempre più diffuso a livello mondiale.” (cap. “Giorni Insoliti” pag 116). Alla penna di Castro si aggiunge la voce del Presidente venezuelano Chávez, che all’indomani dell’intervento di Obama all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 21 settembre 2011 dichiara: “… un discorso che potremmo definire un monumento di cinismo, rivelato dal suo stesso viso, quello del Presidente Obama. … un uomo che invocava la pace, pensate un po’, Obama che invoca la pace…” Se il programma della guerra al terrorismo, laddove nell’incerto contenuto del termine vengono inglobati anche interessi “altri” americani, viene tenuto segreto e operato nei sottotraccia dei servizi segreti, il programma ufficiale viene invece sbandierato alla luce del sole e spesso posto in secondo ordine rispetto alla contingente emergenza della crisi economica. Obama stigmatizza in poche righe quanto fatto e quanto ancora da fare rispetto ai suoi intenti programmatici su guerra e pace ma il refrain economico spunta anche qui: «Quattro anni fa, ho promesso di porre fine alla guerra in Iraq. L’abbiamo fatto. Ho promesso grande concentrazione nella lotta ai terroristi che ci hanno attaccato l’11/9. L’abbiamo fatto. Abbiamo smussato lo slancio dei talebani in Afghanistan, e nel 2014, la nostra più lunga guerra sarà finita. Le trame terroristiche devono essere interrotte. La crisi dell’Europa deve essere contenuta. Il nostro impegno per la sicurezza di Israele non deve vacillare, e il governo iraniano deve affrontare un mondo unito contro le sue ambizioni nucleari» Sembrerebbe dunque, e a ragione, che l’attuale assillo di Obama non siano più le guerre ormai alle spalle, bensì la preoccupazione per l’andamento dell’economia americana, per il possibile/probabile default economico di alcune nazioni alleate e per lo spauracchio delle nuove economie incalzanti che dai Paesi emergenti andrebbero a comprimere i primati dei tradizionali Paesi che ancora deterrebbero il primato mondiale, tra cui ovviamente gli USA. Sui temi sensibili di Industria ed Economia così si esprime il Presidente: «Nell’industria potremo avere un milione di nuovi posti di lavoro entro la fine del 2016 ed esportazioni raddoppiate per la fine del 2014. Dopo un decennio di declino, questo paese ha creato oltre mezzo milione di posti di lavoro nella produzione negli ultimi due anni e mezzo». È possibile eliminare i 16 deficit di bilancio statale e federale negli Stati Uniti, ottenere ancora nuovi posti di lavoro, fornire assistenza sanitaria gratuita e istruzione universitaria a ogni americano? Questo è l’attuale big match che il Presidente Barack Obama intende giocare a casa sua rinunciando, a mio parere, per il momento, ad un ruolo di primo piano come “faro dell’umanità”. Intanto vara un ambizioso progetto di riforma sanitaria, punto di forza del suo programma, rafforza la sua politica energetica basata in gran parte sulle fonti rinnovabili e afferma di aver fatto qualcosa per la giustizia sociale. Il contrario di quanto si fa in Italia: «Ho tagliato le tasse a coloro che ne avevano bisogno: famiglie della classe media, piccole imprese. Non credo che un altro giro di agevolazioni fiscali per milionari porterà nuovi posti di lavoro o pagherà il nostro deficit. Mi rifiuto di chiedere agli studenti di pagare di più per il college.A differenza del mio avversario, non lascerò scrivere alle compagnie petrolifere il piano energetico di questo paese o mettere in pericolo le nostre coste. Offriamo un percorso migliore, un futuro in cui si continui a investire in eolico e solare e carbone pulito». Obama dunque, nelle intenzioni, vuole combattere la crisi senza pesare sulle condizioni della classe media e senza emarginare i più disagiati nella classica impostazione del “non lasceremo indietro nessuno” e rilancia la possibilità dell’American Dream in cui chiunque può emergere dal disagio e dall’anonimato, non solo quelli della casta e i loro alleati privilegiati, come da noi. Gli immigrati regolari e integrati, che da sempre sono stati il cemento sociale americano, vengono sempre e di nuovo riconosciuti come ricchezza e possibilità e, in quanto tali, accolti: «È giusto che un giovane immigrato cresciuto qui, che qui ha promesso fedeltà alla nostra bandiera non debba essere espulso dall’unico paese che abbia mai chiamato casa». Barack Obama, nonostante le recenti cautele, non ha ancora del tutto smesso d’essere un “debuttante”, un newcomer appunto, quindi una volonterosa, dubitabile – forse pericolosa – sperimentazione, agli occhi di una consistente percentuale di suoi connazionali. Ora si tratterà di osservare come questa “sperimentazione” possa affrontare le peripezie di un riassetto economico mondiale e quanto passerà dalle intenzioni alle azioni per cercare di non ottenere le solite delusioni delle promesse da marinaio e, almeno negli USA, continuare a pensare e ottenere che: «Si può scegliere un futuro in cui sempre più americani abbiano la possibilità di acquisire le competenze di cui hanno bisogno per competere. Non importa quanti anni e quanti soldi abbiano». E anche se c’è oggettivo bisogno di tempo, l’augurio che si può fare al Presidente Barack è quello di uscire dalla fase del “temporeggiatore” e tornare al suo deciso “Yes, we can”. Nonostante sia di primo piano la tragedia di quelle famiglie che vedono un cinquantenne perdere il posto di lavoro o semplicemente la possibilità di avere lavoro, mi piace pensare alla società americana che non vuole lasciare indietro solo i cinquantenni o gli esseri umani in difficoltà di qualunque età, ma che vuole soprattutto pensare e costruire la propria società a cominciare dall’infanzia: «Noi crediamo che un bambino sfuggito alla povertà da grande possa, con una borsa di studio, diventare il fondatore del prossimo Google, o lo scienziato che cura il cancro, o il presidente degli Stati Uniti. È in nostro potere di dargli questa possibilità». 17 La lente di ingrandimento 1 L’ascesa dello “spread” in economia a cura di Enrico Menani Fra i tanti significati del termine “spread”, quello che a noi interessa è il seguente: lo spread misura lo scostamento tra il rendimento del debito pubblico di un paese dal rendimento del maggiormente solido debito pubblico tedesco. Subito un paio di osservazioni: al netto di ristrutturazioni più o meno ordinate dello stock di debito come viste nel caso della Grecia, Portogallo e Irlanda, in generale, i bond sono rimborsati al valore nominale alla scadenza naturale e quindi, se la paura del mercato è quella di un default di un paese della zona periferica UE, e lo spread vuole misurare questa paura, il fatto che tutta la stampa e buona parte della letteratura economica negli ultimi 2 anni si siano concentrate solo su scadenze decennali, non sembra una scelta molto coerente. Secondariamente, si sottolinea che il rendimento del Bund tedesco varia a seconda delle preferenze del mercato; in questi ultimi mesi, massicci afflussi di capitali da tutto il mondo in cerca di porti sicuri o capital gains da record in caso di ritorno al marco tedesco, ne hanno abbattuto il rendimento, portandolo addirittura in zona negativa per le durate brevi. Quanto detto, quindi, per chiarire fin da subito che analizzare l’andamento del differenziale fra due debiti pubblici è un esercizio molto complesso che si presta facilmente a distorsioni interpretative dovute a difficoltà di stima della correlazione fra le due variabili; lo spread, insomma, è una grandezza relativa, non assoluta, e si espande o si contrae non solo in funzione delle variazioni di rendimento del decennale italiano, ma anche in funzione delle variazioni di rendimento di quello tedesco. Nei giorni in cui si scrive, per esempio, il rendimento del Btp10Y è tornato ai livelli di agosto 2011, cioè ai rendimenti pre-crisi debiti sovrani, mentre il suo spread, pur diminuendo dagli oltre 500 bps di inizio 2012, rimane comune superiore ai 300 bps, cioè molto lontano dallo spread pre-crisi debiti sovrani. 18 Che interpretazione dare quindi a questo scostamento? Si suggerisce la seguente: guardando al solo rendimento del Btp italiano, i mercati in questi giorni sembrano prezzare il debito pubblico italiano come prima della crisi di agosto 2011; non sembrano, insomma, particolarmente preoccupati di un possibile default italiano fra 10 anni. Se invece ci confrontiamo con la Germania, ponendo il focus sui 300 bps di differenza che permane, si potrebbe osservare che, secondo i mercati, i fondamentali italiani, pur essendosi instradati lungo un sentiero che ne cercherà di garantire la stabilità, hanno parecchia strada da percorrere per raggiungere il benchmark tedesco e rimangono quindi in una situazione di elevata attenzione. Di seguito, un grafico da cui si evince la difficoltà di interpretazione del significato economico dello spread. Rendimenti Btp-Bund a confronto Figura 1 Fonte: teleborsa Per concludere questa breve analisi tecnica, e per superare la visione decennale imposta dai media, guardiamo anche ad altre tipologie di scadenze dei titoli italiani e cerchiamo di contestualizzare meglio il significato della correlazione spread/rischio default. Curve rendimenti debito pubblico italiano Ten-Year Government Bond Spreads Vs German Bunds Figura 2 Figura 3 Fonte: lavoce.info La linea blu indica il rendimento del debito italiano alle varie scadenze prima che l’ultimo governo Berlusconi lasciasse il posto al governo Monti; i rendimenti a breve erano addirittura superiori a quelli a medio - lungo, ed in generale la curva era piatta; nonostante il 50% del debito italiano fosse di proprietà di persone fisiche e giuridiche italiane e nonostante una duration dello stock totale rassicurante, la situazione era comunque esplosiva; lo spread 10Y raggiunse il suo massimo a 532 bps rendendo chiaro il fatto che il mercato si aspettasse, nel brevissimo periodo, la richiesta da parte dell’Italia di finanziamenti a istituzioni terze per garantirsi liquidità. Sei mesi dopo la curva si era decisamente abbassata e la pendenza era aumentata, arrivando ai livelli disegnati dalla linea rossa, periodo in cui, grazie alla manovra BCE sulle durate brevi, sono state soprattutto queste scadenze ad essere retrocesse a tassi incoraggianti; i rendimenti delle scadenze più lunghe di queste curve sono sostanzialmente in linea col trend storico delle emissioni di debito degli ultimi decenni, anche se, come descritto sopra, lo spread viaggia sempre intorno ai 350 bps contro i 110 bps di primavera 2011. Chiarito quindi che lo spread è un indicatore estremamente volatile, relativo e difficilmente interpretabile, cerchiamo di dare un significato economico (e non solo) alla sua inarrestabile ascesa, iniziata ad agosto 2010. Il grafico che segue ben illustra l’effetto positivo dell’introduzione dell’Euro sui cosiddetti paesi periferici, quando, di fatto, il rischio sui debiti sovrani europei per un investitore estero si allineò a quello della Germania. 19 Fonte: FMI Nel 2007 arrivò la crisi, scatenata da un eccesso di debito privato nel mercato USA che ben presto incominciò a sfogarsi in un eccesso di debito pubblico da questa parte dell’oceano. Nell’estate 2010 i mercati del debito pubblico dei paesi più deboli dell’area Euro incominciano a registrarne gli effetti, mettendo impietosamente in risalto le profonde differenze strutturali dei paesi coinvolti e dichiarando conclusi i lunghi anni in cui il mercato prezzava tutti gli stati Euro in egual misura. Entriamo nel merito delle curve descritte in figura 3: possiamo dire che, in base alla migliore teoria economica, il rendimento di un government bond riflette le seguenti N. 2 componenti: 1) il premio che chi lo sottoscrive richiede per il rischio di perdere il capitale alla scadenza, 2) le aspettative sull’andamento dei tassi in futuro e quindi il premio per la remunerazione attesa; da agosto 2011 ci siamo accorti che si è aggiunta una terza componente: 3) una certa dose di schizofrenia, come correttamente sottolineato dal capo economista del Fondo monetario internazionale, Olivier Blanchard. Per quanto riguarda questo ultimo punto 3), è utile citare Karl R. Popper in “Logica della Ricerca e Società Aperta”, quando descrive l’economia come una scienza sociale, non godendo infatti del criterio di falsificabilità tipico delle scienze sperimentali; premesso che chi scrive ritiene che, avendo a disposizione le giuste leve, non sia impossibile cercare di influenzare la curva degli spread, lasciamo agli studiosi di finanza comportamentale il compito di spiegarci come mai non sempre sembra ci sia una correlazione positiva fra l’andamento delle spread ed il sentiero di riforme strutturali profondo intrapreso da un paese “volenteroso”. Lasciamo altresì ai politologi più emancipati spiegarci come lo spread sia stato anche un potentissimo strumento di comunicazione di economia politica e di, come dire, incentivo ad un modello di governance pubblica non particolarmente rispettoso delle liturgie democratiche, meravigliosamente interpretato da alcuni policy makers e tecnici europei per implementare importanti e impopolari riforme strutturali dei sistemi di welfare coerenti con gli interessi dei detentori del debito pubblico. Per quanto riguarda invece il punto 2), al netto del fatto che: a) il mercato a breve sia sufficientemente liquido, b) il tasso di inflazione sia sotto controllo e quindi coerente con il sentiero previsto dalla banca centrale, c) i relativi tassi di rifinanziamento principali non siano pericolosamente prossimi allo zero, le aspettative sui tassi futuri implicano una curva di struttura dei rendimenti crescente, o decrescente, ogni volta che ci si aspetta un aumento, o una diminuzione, dei tassi a breve futuri; questo significa che in situazioni normali, chi compra debito si aspetta che i tassi di rendimento aumentino con l’aumentare della scadenza delle obbligazioni. Accennato, quindi, brevemente ai punti 2) e 3), nel tentativo di spiegare l’ascesa dello spread, cerchiamo di isolare le restanti componenti del tasso che riflettono il premio richiesto per il rischio default, cioè il punto 1) Rischio liquidità: la storia decennale del debito del Giappone, ed in una certa misura anche del nostro paese, ci insegna che la quantità di debito non è un fattore scatenante per definizione dell’impennata dei tassi, soprattutto quando questo, anche se in percentuale molto elevato rispetto al Pil, è posseduto per la maggior parte da residenti ed ha una duration lunga con una buona architettura delle scadenze. Precisato questo, rimane comunque evidente, che, con un livello del debito come quello italiano, anche un lieve incremento dei tassi può comportare un rialzo della spesa per interessi tale da sterilizzare gli effetti di una manovra finanziaria. Questo è il motivo per cui in Europa si è posta molta enfasi all’obbligo di raggiungimento dei pareggi di 20 bilancio con la recente firma del trattato fiscale, “fiscal compact”, che entrerà in vigore da gennaio 2013: azzerare il deficit per incominciare ad abbattere il debito e quindi la spesa per interessi. Rischio liquidità significa, quindi, che lo spread elevato di alcuni paesi europei, riflette il rendimento elevato richiesto, a causa della quantità e qualità del debito pubblico, fattori che possono rendere estremamente vulnerabile un paese in periodi di congiuntura macroeconomica sfavorevole alla crescita. Rischio crescita: come detto, gli interessi sul debito possono azzerare gli effetti espansivi di una manovra economica. Stando alla teoria, questo non dovrebbe essere un vero problema fintanto che il debito pubblico cresce più lentamente rispetto alla somma tra inflazione core e Pil. Precisato questo, per capire la correlazione tasso di crescita/rischio spread si offrono le seguenti 2 interpretazioni, molto differenti, ma tali per cui l’effetto sui tassi è lo stesso. La prima può essere descritta nel seguente modo: in un’economia “normale”, cioè in condizioni vicine al pieno impiego, con un debito pubblico che non ecceda il 100% del Pil ed un tasso di crescita che rispetta le stime, chi compra bond di lungo periodo si aspetta tassi più elevati perché crede che l’economia cresca, spingendo quindi le banche centrali ad ammortizzare i relativi rischi inflattivi, appunto, alzando i tassi di riferimento. Seconda: in un economia “non normale”, magari immersa in una “trappola di liquidità”, chi compra bond, specialmente nel breve periodo, chiede rendimenti alti, soprattutto se è preoccupato che il paese, non crescendo, non sia in grado di ripagare l’onere del proprio debito. In entrambi i casi la crescita è la variabile che influenza l’andamento dei tassi; in entrambi i casi, spinge lo spread verso l’alto; nel primo caso lo spread di medio/lungo periodo, nel secondo caso quello di breve. Rischio credito: la correlazione tra rischio debito sovrano e rischio istituti finanziari, dovuta alla grandissima quantità di titoli detenuti dalle banche europee, pur abbassando la probabilità di un default disordinato di un paese in cui le banche nazionali detengono grandi percentuali di debito pubblico domestico, aumenta la fragilità dell’intero sistema-paese mettendo sotto pressione i patrimoni degli istituti, sempre a rischio di violente svalutazioni nominali mark-to-model o peggio mark-to-market. Il peggioramento dei rating assegnati agli stati e la ristrutturazione degli attivi dovuta ai costi crescenti dei rischi di credito, di mercato e di compliance, hanno fatto si che negli ultimi anni i maggiori istituti finanziari abbiano “alleggerito” le loro posizioni sui debiti sovrani vendendo titoli; tra l’altro, queste ristrutturazioni volontarie, possono diventare obbligatorie per policy interna, nel caso in cui le agenzie di rating decurtino a “non investment grade” il debito di un paese. In senso opposto a queste logiche aziendali, da novembre 2011 a febbraio 2012, periodo in cui la BCE ha prestato più di un trilione di euro a ottocento banche europee, le banche spagnole hanno aumentato la propria detenzione in titoli di debito sovrano per 68 miliardi di euro, mentre le banche italiane per 54, entrambe acquistando in prevalenza bond nella propria nazione di appartenenza nell’evidente tentativo di calmierare lo spread sul mercato secondario. Sarebbe, insomma, logico aspettarsi che troppo debito concentrato in poche banche nazionali aumenti la richiesta di rendimento dei bond, mentre politiche di ristrutturazione degli attivi dovrebbero alleggerire il peso del rischio soprattutto a lungo, al netto del fatto che la paura innestata dal mercato da questi movimenti di vendita, spinta anche dall’effetto matematico delle vendite sull’innalzamento dei rendimenti, non sortisca esattamente l’effetto contrario. Rischio macroeconomico: senza entrare nelle diatribe che stanno infuocando i meetings tra macroeconomisti e policy makers in tutto il mondo, tra a) conservatori compassionevoli discendenti della scuola di Chicago, b) varie tipologie di neo-keynesiani deficit spending, c) fans europei dell’ortodossia virtuosa dei bilanci, allergici anche solo al suono del sostantivo “inflazione”, è evidente che nell’eurozona sono questi ultimi a dettare l’agenda economica in questi mesi, cercando di garantire la stabilità dei bilanci degli stati e del sistema di credito nel breve periodo e 21 rimandando al medio - lungo periodo il ritorno ad una fase di crescita dell’economia reale che si suppone innescata dai citati meccanismi virtuosi di bilancio. Questa strategia presuppone che per “non morire nel breve periodo” (uso volentieri questa famosa citazione al contrario) la BCE, non potendo ancora fare il prestatore di ultima istanza, si debba occupare di sostenere il mercato secondario, acquistando debito illimitato di breve periodo. Parallelamente i governi nazionali dovranno cercare di “fare i compiti a casa”, con un mix di entrate/uscite variabile a seconda della gravità della situazione e della capacità di assorbimento delle manovre correttive da parte del tessuto sociale, spingendo su processi di deflazione interna, scaricando, quindi, l’onere della produttività in primis sul lavoro, non potendo fare leva sul tasso di cambio per sostenere la bilancia di parte corrente e, quindi, in ultima analisi la domanda aggregata. Questo è in sostanza il doloroso processo in atto nei paesi periferici dell’eurozona; il punto è che, in un ambiente di congiuntura internazionale debole, di tassi di rifinanziamento vicini alla cosiddetta “trappola della liquidità” e di politiche recessive contemporaneamente imposte in paesi molto interconnessi all’interno della stessa zona monetaria, queste misure hanno effetti perversi sulla crescita di breve periodo delle economie più deboli e meno diversificate, esponendo l’intera eurozona a momenti di tensione sociale oltre che ad acuire pericolose recrudescenze di fondamentalismi. Il fatto che le ricette economiche maggiormente in voga nelle istituzioni europee pongano il baricentro sul lato credito, su una repentina ristrutturazione dei deficit di bilancio, rimandando al medio periodo la speranza che questo getti le basi per una crescita duratura, fa impennare il prezzo del rischio di chi vuole investire “oggi” nel debito europeo, soprattutto a breve. Rischio volatilità: tecniche di vendita antiche di centinaia di anni, come le vendite allo scoperto, anche se non sono da demonizzare in quanto tale, sicuramente hanno incrementato gli eccessi di volatilità dei mercati bond sovrani, aumentando instabilità ed incertezza del sistema-europa; lo stesso effetto è stato sortito dalla reinterpretazione dell’uso dei Cds, le polizze assicurative di parti terze contro il rischio default, da parte degli investitori per puntare al ribasso sui debiti pubblici dei paesi periferici della UE. Rischio liquidità, crescita, credito, macro e volatilità, sono le componenti che si riflettono sugli spread dei paesi della zona periferica dell’Europa, spingendoli ai livelli disegnati in figura 3. Il mix fra i vari rischi, chiaramente, si ripercuote con diverse proporzioni a seconda del paese e della sua struttura economica, finanziaria, politica, legale e sociale ed infatti i mercati, proprio perché i paesi sono così diversi, prezzano gli spread in maniera molto differente. Nei giorni in cui si scrive, il decennale greco viaggia intorno al 18%, Italia e Spagna sono allineate intorno al 5% ed i livelli di Portogallo e Irlanda sono tornati ai tassi pre-crisi. Di seguito si è cercato di approfondire ed analizzare le componenti dei rischi descritti sopra (rischio volatilità escluso) con riferimento ad ogni singolo paese GIPSI; il tentativo è quello di isolare e pesare le variabili economiche più rilevanti che influenzano l’andamento della curva degli spread evidenziata in figura 3. I colori sono la sintesi del peso di ogni rischio sulla curva; l’interpretazione dei colori è immediata. RISCHIO CRESCITA % % % pressione grado previsione disavanzo fiscale aperura crescita Pil pubblico apparente economia 2012 2010 2012 Italia -2,6 -3,9 45,2 3 Spagna -1,3 -8,5 32,9 2 Portogallo -3,3 -4,2 36,7 3 Grecia -6,3 -9,1 35,7 2 Irlanda -1,1 -13,1 30,8 1 Germania 1 -1 40,4 2 Area Euro ….. -4,5 40,6 ….. Tabella 2 RISCHIO CRESCITA Fonte: elaborazione propria RISCHIO CREDITO % crediti % % Tier 1 % leverage vs governi crediti RISCHIO capital ratio 2012 (% consoli CREDITO ratio Pil) dati Italia 9,5 5,2 38 8,7 Spagna 10,5 4,9 35 4,7 Portogallo 9,1 4,5 24 8,5 Grecia 1,5 ….. 13 8,1 Irlanda 16,2 8,3 28 4,3 Germania 11,9 2,2 23 9,5 Area Euro ….. ….. ….. ….. Tabella 3 Fonte: elaborazione propria RISCHIO MACROECONOMICO debito privato famiglie + imprese RISCHIO LIQUIDITA’ % debito % % debito vita media % debito scadenza RISCHIO debito/pi estero residua emesso breve LIQUIDITA' l 2011 2011 2012 (anni) Euro 2011 bilancia parte € costo % corrente unità lavoro disoccupazi 2010 (€ 2011 one 2012 1.000) Italia 127,4 -54,1 26,8 10,7 Spagna 218,1 -48,4 20,6 25,1 Italia 120,1 43,7 18 6,9 100 Portogallo 247,1 -17,2 12,1 15,9 Spagna 68,5 42,6 19 5,9 99 Grecia 127,6 -23 ….. 24,4 Portogallo 107,8 50,6 25 5,6 98 Irlanda 288,4 0,8 27,4 15 Grecia 165,3 58,4 ….. 10,4 ….. Germania 130 141,5 30,1 5,5 Area Euro 167,8 -95,7 ….. 10,5 Irlanda 108,2 59,1 24 6,4 100 Germania 81,2 51,6 10 6,3 99 Area Euro 82,5 ….. ….. ….. ….. Tabella 1 Fonte: elaborazione propria Tabella 4 RISCHIO MACRO Fonte: elaborazione propria Isolati, quindi, i principali rischi che, il premio richiesto da chi sottoscrive debito pesa, per la paura di perdere il capitale alla scadenza, concludiamo l’analisi cercando di capire che cosa si intende per rischio sistemico. Rischio sistemico: se valessero per i paesi di cui sopra gli stessi criteri che genericamente si usano per valutare i paesi emergenti, sarebbero tutti da 22 classificare, Germania esclusa evidentemente, a rischio default (probabilità di crisi 2010 al 47%). La loro eterogeneità strutturale li rende sensibili in maniera differente alle tipologie di rischio evidenziate, anche se il fatto di far parte di una unica comunità monetaria li lega in un comune destino potenzialmente innescato da quelle che gli economisti chiamano “profezie che si auto avverano”: un incontrollato effetto domino che, partendo dal default del debito di un singolo paese sovrano, potrebbe trasmettersi, attraverso Cds, ABSs e svalutazione dei portafogli degli istituti finanziari più fragili patrimonialmente, ad altri paesi avvitandosi in una catena destinata a creare un altro credit crunch nei mercati interbancari con pesanti ripercussioni sull’economia reale tali da mettere in discussione, nello scenario più negativo, addirittura la tenuta della moneta unica a causa della facile tentazione degli stati europei al ritorno alle vecchie valute nazionali pre-euro, per poter agire sulla leva di breve periodo della svalutazione. Per rendere anche solo una idea parziale di quanto si stia sostenendo, si osservi in figura 4 la ragnatela di partecipazioni azionarie incrociate “ufficiali e comunque non esaustive” dei principali intermediari finanziari globali, classificati come banche sistemiche “too big to fail” e non si dimentichi che il rischio sistemico pesa anche le interconnessioni del cosiddetto sistema bancario ombra, dei prodotti finanziari scambiati OTC oltre che ovviamente delle bilance dei pagamenti dei mercati reali. In figura 4 i numeri evidenziati sono gli attivi degli istituti in miliardi di dollari; come si nota, la stragrande maggioranza supera i Pil annui degli stati europei. Gli spread rilevati sul mercato, quindi, non sono calati sulle singole realtà nazionali, ma tengono conto anche di questo potenziale “rischio sistemico”, che è amplificato proprio dalle differenze di ogni paese e dalle differenze fra quella parte di Europa che negli ultimi decenni è riuscita a migliorare i propri fondamentali e l’altra che non lo ha fatto. Dopo l’introduzione della moneta unica i rendimenti dei titoli di stato dell’intera eurozona si allinearono a livelli molto bassi, portando immensi benefici alle finanze pubbliche dei paesi più deboli che poterono così accedere ad un mercato dei capitali estero ed europeo-centrale che ben presto ha creato enormi squilibri nelle bilance di parte corrente, creando divergenze nelle strutture salariali che hanno indebolito la competitività estera dei paesi che meno riuscivano ad innovare ed a ristrutturarsi e gettato la base per pericolose bolle immobiliari in alcuni di essi. Il grafico che segue dimostra in maniera implacabile quanto le diverse politiche economiche abbiano influito sulle rispettive bilance, spaccando l’Europa fra paesi debitori e paesi creditori. Net Foreign Asset Positions 99–10, in Percent of GDP Interconnessione principali istituti finanziari mondiali Figura 5 Fonte: FMI La crisi, investendo l’Europa, ha trovato un “area monetaria non ottimale”, viste le discrepanze europee in materia di: a) rigidità dei salari, b) mobilità del lavoro, c) integrazione delle politiche fiscali, d) uniformità culturale. Figura 4 23 Fonte: sole24ore Le presunzioni di onnipotenza economicamonetaria che resistevano dal 1999, per cui sarebbe stata un’economia europea sterilizzata da rischi inflattivi e sorretta da una moneta fortissima a garantire prosperità ad un intero continente, sono naufragate clamorosamente quando ci siamo accorti che non era sufficiente garantire la stabilità dei prezzi al 2% per vedersi materializzare dal nulla davanti a se sentieri di crescita stabile; se investiti da shock esogeni ed asimmetrici provenienti dall’esterno, queste teorie economiche semplicemente si sbriciolano. Detto questo, si sottolinea che, incredibilmente, quattro anni e diciannove summit europei dopo, al di la degli ovvi proclami in merito alla necessità di adottare politiche finanziarie, fiscali, bancarie ed anche economiche sempre più centralizzate e di dotarsi di una governance europea più rappresentativa in grado di dare maggiore legittimazione democratica agli atti comunitari, sembrerebbe che la forza dell’area Schengen e della moneta unica siano ancora in grado di reggere le pressioni sui debiti sovrani dei paesi periferici. Ne è una chiara prova, a parer di chi scrive, il fatto che in tutti questi anni, la quotazione euro/dollaro non solo non si è mai neanche avvicinata alla parità ma è mai scesa sotto quota 1.20 (per la precisione 1.1953 il 04/06/2010), facendo perdere interi anni di stipendio a tutti quelli che invece avevano scommesso sul fatto che il cambio avrebbe bucato la parità. Sicuramente le manovre FED per mantenere debole il dollaro hanno raggiunto il loro obiettivo, sostenendo quindi indirettamente l’Euro, ma la vera forza dell’Euro è da cercare nel fatto che la nostra moneta rimane la seconda currency di riferimento mondiale, anche in termini di riserve, ed il ruolo geopolitico del mercato unico europeo continua ad essere auspicato dalle maggiori potenze mondiali. Concludo con una riflessione più ampia, per cercare di andare oltre ad una visione solo economica del concetto di spread, come affermato nelle premesse: oggi più che mai, emerge la profondità dell’intuizione platonica per cui “lo stato non è se non un immagine rispecchiata ed ingrandita dell’anima dell’uomo”; la necessità, quindi, di costruire un “area monetaria davvero ottimale” richiede, oltre alle conosciute e pubblicizzate misure descritte sopra, la progettazione di un’ 24 ”uomo europeo del futuro” che si fondi su un minimo comune denominatore condiviso; è necessario gettare basi strutturali e durature per ritrovare una identità europea che langue, oltre che nella sostanza delle diverse culture anche nella forma delle leggi fondamentali (chiaro esempio è la discussione costituzionale intorno alla definizione delle radici della comunità europea). Se l’idea rimane quella di continuare nella costruzione di un’Europa unita più o meno federale, è necessario, insomma, lavorare per creare una uniformità culturale il più possibile omogenea ed una identità unitaria condivisa in modo da smussare quelle differenze strutturali fra paesi che sono state la prima causa dell’ascesa dello spread. Se invece l’idea sarà quella di preservare una sorta di mercato comune europeo, ritornando però alle monete ed alla politica nazionali, piuttosto che a 2 euro a velocità differenti o altro ancora, prepariamoci ad arricchire i libri di macroeconomia con nuovo capitolo dal titolo: “stima del rischio sistemico in una zona monetaria non ottimale”. Ad oggi, infatti, il vero problema è che non esistono modelli sufficientemente attendibili per la stima ex-ante dei rischi evidenziati in questo lavoro. Per fortuna, rispetto alle certezze economico/scientifiche abbaiate nel passato, oggi siamo consapevoli di quanto non siamo preparati a questo tipo di scenario; dal punto di vista di chi scrive, questo comunque è un ottimo inizio. La lente di ingrandimento 2 Lavori e opere pubbliche a cura di Silvia Loiacono NOTA INTRODUTTIVA Responsabilità civile Preliminarmente, va precisato, che in materia non esistono dei principi propri dell’esecuzione delle opere pubbliche, ma, in genere, vengono utilizzate regole generali proprie dei vari tipi contrattuali, in particolare gli artt. 1176 c.c. e 1218 c.c., con i necessari adattamenti per i singoli casi di specie. Generalmente, a parte i c.d. affidamenti in house, per l’esecuzione di lavori e di opere pubbliche si presuppone la necessaria stipulazione di un contratto di appalto; contratto, quest’ultimo, quindi, a cui bisogna far riferimento ai fini di identificare i soggetti responsabili civilmente. L’elaborazione giurisprudenziale relativa al regime della responsabilità nel settore dei lavori e delle opere pubbliche risulta abbastanza vasta e distingue i vari soggetti che direttamente o indirettamente possono essere coinvolti sia nella fase iniziale, che si conclude con la stipulazione del contratto, sia nella fase esecutiva. Tali soggetti vengono individuati nella stazione appaltante (di solito la Pubblica Amministrazione), nel responsabile unico del procedimento, nel progettista, nel direttore dei lavori, in coloro che partecipano alla procedura di affidamento dell’opera pubblica, nell’appaltatore ed eventualmente nel subappaltatore, ed, infine, nel collaudatore. Sotto il profilo della responsabilità contrattuale, i soggetti coinvolti, per lo più, sono l’appaltatore ed il progettista esterno all’amministrazione aggiudicatrice, cioè colui che svolge la propria attività da libero professionista. Meno frequenti sono, poi, i casi in cui può sorgere una responsabilità contrattuale a carico della stazione appaltante. Di maggior interesse giuridico sono, invece, le ipotesi di responsabilità 25 extracontrattuale della quale rispondono, per i danni provocati a terzi, l’appaltatore, il committente, il progettista, il direttore dei lavori e il subappaltatore. Viene, poi, a configurarsi una forma di responsabilità, in capo alla Pubblica Amministrazione, con riferimento alle opere ultimate: è il caso delle strade aperte alla circolazione del pubblico. Riferimenti normativi D.Lgs. 12 aprile 2006 n.163 Legge 20 marzo 1865 n.2248 (All. F) Codice Civile: Art. 1176; Art. 1218; Art. 1224 ; Art. 1227; Art. 1667; Art. 1668; Art. 1669; Art. 2043; Art. 2051; Art. 2055 MASSIMARIO 1. Responsabilità dell’appaltatore. contrattuale In linea di massima, è l’appaltatore, unico soggetto obbligato al buon risultato dell’opera e all’esatto adempimento delle obbligazioni derivanti dalla stipulazione del contratto, ad essere chiamato a rispondere per responsabilità contrattuale. Focus giurisprudenziale La giurisprudenza di legittimità ha provveduto con alcune rilevanti pronunce a delineare chiaramente i casi in cui l’appaltatore è l’unico soggetto responsabile contrattualmente, dai casi, invece, in cui tale responsabilità grava anche su altri soggetti. L’appaltatore ha l’onere di contestare immediatamente al responsabile del procedimento eventuali errori nelle indicazioni impartitegli dal direttore dei lavori o eventuali vizi progettuali che possano impedire l’esatta esecuzione dell’opera (Cass. Civ., sez.1, 18 febbraio 2008 n. 3932). Viceversa, egli stesso potrà rispondere per inadempimento in concorso con il direttore dei lavori e il progettista (Cass. Civ., sez.2, 16 novembre 1993 n.11290). L’appaltatore una volta stipulato il contratto e accettati i lavori, ha l’obbligo di non apportare variazioni al progetto, salvo che non siano disposte dal direttore dei lavori e non preventivamente autorizzate (Cass. Civ., sez.1, 16 aprile 2008 n.10069). In caso contrario, sarà obbligato alla messa in pristino, senza titolo ad alcun riconoscimento neppure per indebito arricchimento (Cass. Civ., sez.1, 28 giugno 1995 n.7282). Recenti pronunce riconoscono all’appaltatore che, nel corso dell’esecuzione dell’opera, intenda avanzare pretese a maggiori compensi, indennizzi o danni o contestare la contabilizzazione dei corrispettivi effettuata dall’amministrazione, di iscrivere tempestivamente nel registro di contabilità apposita riserva ai fini della individuazione della sua pretesa (Cass. Civ., sez.1, 16 aprile 2008 n.10069; Cass. Civ.,sez.1, 2 aprile 2008 n.8512; Cass. Civ., sez.1, 10 agosto 2007 n.17630; Cass. Civ., sez.1, 21 dicembre 2007 n.27086); nella diversa ipotesi in cui siano necessarie variazioni progettuali in corso d’opera, non previste dal contratto e che comportano un’alterazione del prezzo, l’appaltatore è obbligato ad assoggettarsi alla variazione del valore delle opere fino al quinto del prezzo dell’appalto; oltre tale limite avrà diritto alla risoluzione del contratto (Cass. Civ., sez.1, 2 aprile 2008 n.8512; Cass. Civ., sez.1, 5 marzo 2008 n.5951). Possono legittimare la risoluzione del contratto e la richiesta di risarcimento dei danni da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, i ritardi negligenti nell’esecuzione dei lavori dopo la scadenza del termine assegnato dal direttore dei lavori; la non integrale esecuzione dell’opera (Cass. Civ., sez.2, 16 ottobre 1995 n.10772; Cass. Civ., sez.2, 16 ottobre 1998 n.10255); le gravi inadempienze in corso d’opera dopo la contestazione degli addebiti; la violazione degli obblighi di sicurezza; la violazione del divieto di subappalto; l’emanazione di un provvedimento che dispone l’applicazione di misure di sicurezza riguardo l’appaltatore; l’intervenuta sentenza di 26 condanna passata in giudicato per frode o per violazione degli obblighi attinenti alla sicurezza sul lavoro. Numerose pronunce riguardano, infine, il momento del collaudo, da cui decorre il termine di prescrizione dell’azione di responsabilità del committente per le difformità ed i vizi dell’opera (Cass. Civ., sez.1, 5 giugno 2001 n.7596; Cass Civ., sez.1, 21 dicembre 2000 n.16062; Cass. Civ., sez.1, 13 gennaio 2004 n.271; Cass. Civ., sez.1, 10 giugno 2004 n.10992). L’appaltante, in conseguenza dei vizi dell’opera, può anche chiedere il risarcimento del danno previsto dall’art. 1668 c.c. nel caso di danno a persone o cose e per spese di rifacimento da lui direttamente sopportate (Cass. Civ., sez.2, 29 novembre 2005 n.25921). La Suprema Corte riconosce al certificato di collaudo natura di atto giuridico di parte (effettuato da un tecnico incaricato) ed, in quanto tale, non vincolante l’appaltatore, a meno che le parti non abbiano concordato di accettare le decisioni del collaudatore, attribuendogli funzioni di arbitro (Cass. Civ., sez.1, 11 dicembre 2007 n.25943) In tema di collaudo, interessanti sono le pronunce riguardo le polizze fideiussorie contratte dall’appaltatore a garanzia degli obblighi derivanti dall’appalto (Cass. Civ., sez.3, 5 febbraio 2008 n.2670; Cass. Civ., sez.1, 17 gennaio 2008 n.885) S.E.M. Skills for Economic Management Copyright Condizioni per riprodurre i materiali Tutti i materiali, i dati e le informazioni pubblicati all'interno di questa rivista sono "no copyright", nel senso che possono essere riprodotti, modificati, distribuiti, trasmessi, ripubblicati o in altro modo utilizzati, in tutto o in parte, senza il preventivo consenso di "SEM – Skills for Economic Managemet", a condizione che tali utilizzazioni avvengano per finalità di uso personale, studio, ricerca o comunque non commerciali e che sia citata la fonte attraverso la seguente dicitura, impressa in caratteri ben visibili: "SEM – Skills for Economic Managemet". Per gli articoli riprodotti integralmente al nome dell'autore deve seguire la dicitura "tratto da SEM – Skills for Economic Managemet". Se gli articoli vengono solo citati e' sufficiente indicare il nome dell'autore e l'indirizzo web della “Fondazione Panta Rei SEM – Skills for Economic Managemet”. Nel caso in cui gli articoli non vengano pubblicati integralmente e' necessario specificare che si stanno utilizzando solo delle parti dei nostri contributi (ad esempio attraverso l'uso di puntini di sospensione) e indicare distintamente che "il testo integrale e' disponibile sul sito: http://fondazionepantarei.it/ Devono in ogni caso essere indicati il nome di battesimo e il cognome dell'autore del brano o articolo riportato. In nessun caso e' consentita una alterazione - neppure di minima entità - del testo originale: l'eventuale aggiunta di parole di raccordo tra due brani riportati deve essere segnalata con la collocazione delle parole stesse tra parentesi quadre. Ove i materiali, dati o informazioni siano utilizzati in forma digitale, la citazione della fonte dovrà essere effettuata in modo da consentire un collegamento ipertestuale (link) alla home page 27 http://fondazionepantarei.it/ o alla pagina dalla quale i materiali, dati o informazioni sono tratti. In ogni caso, dell'avvenuta riproduzione, in forma analogica o digitale, dei materiali tratti da SEM – Skills for Economic Managemet dovrà essere data tempestiva comunicazione al seguente indirizzo: [email protected] allegando, laddove possibile, copia elettronica dell'articolo in cui i materiali sono stati riprodotti. Disclaimer Alcuni materiali, dati e informazioni sono forniti da soggetti terzi e riflettono le loro opinioni personali. Tali materiali, dati e informazioni sono resi accessibili al pubblico attraverso il sito web, in particolare nelle aree ad essi dedicate. “SEM – Skills for Economic Management” non effettua alcun controllo preventivo in relazione al contenuto, alla natura, alla veridicità e alla correttezza di materiali, dati e informazioni pubblicati, né delle opinioni che in essi vengono espresse. L'unico responsabile è il soggetto che ha fornito i materiali, i dati o le informazioni o che ha espresso le opinioni. “SEM – Skills for Economic Management”, in ogni caso, farà in modo di adottare ogni misura ragionevolmente esigibile per evitare che siano pubblicate, nel sito web, opinioni manifestamente diffamatorie ed offensive o chiaramente in contrasto con diritti di terzi. In considerazione del fatto che i materiali, dati, informazioni e opinioni di cui sopra sono resi accessibili nelle forme sopra indicate, “SEM – Skills for Economic Management” non può essere ritenuta responsabile, neppure a titolo di concorso, di eventuali illeciti che attraverso di essi vengano commessi, né comunque di errori, omissioni ed inesattezze in essi contenuti. “SEM – Skills for Economic Management” non può, in particolare, essere considerata responsabile, neppure a titolo di concorso, in ordine alla violazione di diritti di terzi attuata nel sito web mediante la diffusione di materiali, dati, informazioni o opinioni. “SEM – Skills for Economic Management” ha la facoltà di cancellare e rimuovere dal sito web materiali, dati, informazioni o opinioni che violino diritti di terzi. Qualora l'utente del sito web riscontri errori, omissioni ed inesattezze nei materiali, dati o informazioni pubblicati, o nelle opinioni espresse, ovvero ritenga che tali materiali, dati, informazioni o opinioni violino i propri diritti, è pregato di rivolgersi a “SEM – Skills for Economic Management”. “SEM – Skills for Economic Management” procederà alle dovute verifiche e a rimuovere dal sito web materiali, dati, informazioni o opinioni che risultino non completi, inesatti o costituire violazione di diritti di terzi. Alcune immagini pubblicate sono tratte da internet: qualora il loro uso fosse soggetto a diritto d'autore, preghiamo di comunicarlo alla redazione del sito che provvederà alla loro pronta rimozione. Inviare le segnalazioni via e-mail all'indirizzo: [email protected]. 28