IL MARXISMO NEL NOVECENTO
Testo n. 1
Nikolaj Lenin, L’imperialismo. Fase suprema del capitalismo, trad. it. di Felice Platone, Roma, Editori Riuniti
1970, pp. 128-129.
Il libro, scritto durante la prima guerra mondiale, fu pubblicato nel 1916. L’autore era ancora
in esilio in Svizzera ma molto attivo nel curare i contatti con la Russia e le organizzazioni socialiste
straniere. Lenin vede nel conflitto in corso un’occasione importante d’azione per il movimento
rivoluzionario. Tra l’altro, in quegli anni, proprio in Svizzera, si svolsero due conferenze
internazionali. La prima a Zimmerwald, nel 1915, la seconda a Kienthal, nel 1916, a cui
parteciparono socialisti pacifisti, per lo più dissidenti dai partiti ufficiali che sostenevano lo sforzo
bellico dei propri paesi. Per Lenin, dalla guerra in corso può scaturire la rivoluzione socialista, è
necessario quindi intraprendere ogni iniziativa per approfittare della situazione, e avvantaggiarsi
della debolezza degli Stati impegnati in guerra. Occorre dunque allo stesso tempo – come
affermato sempre da Lenin – grande capacità di azione e lucidità teorica. La guerra va inquadrata
nel contesto più ampio del fenomeno dell’imperialismo, affermatosi nella seconda metà
dell’Ottocento, e ancora determinante al presente. Per Lenin, infatti, la guerra mondiale non è che
guerra imperialista, sia perché motivata da scopi imperialistici, sia perché combattuta da paesi
imperialisti.
L'imperialismo non è che una conseguenza del capitalismo, un suo aspetto particolare. Per
capire l’imperialismo bisogna partire dal capitalismo, ma, d’altra parte, la realtà dell’imperialismo
può spiegare perché non si sia ancora verificato il crollo del capitalismo previsto da Marx.
L'imperialismo ha permesso al capitalismo di scoprire nuove risorse e nuovi mercati, di scoprire
ulteriori possibilità di sviluppo. Ora, però, anche l’imperialismo, come si vede dalla guerra in corso,
ha prodotto una crisi di proporzioni enormi. L’imperialismo si rivela così la fase suprema del
capitalismo. Come indicato da Marx, il sistema capitalistico si fonda sull’espansione ma non può
crescere all’infinito, arriverà ad un punto di rottura. Lenin nota che il capitalismo si sta
trasformando radicalmente il che rivela un’erosione delle sue basi.
In queste pagine, Lenin definisce con grande chiarezza il fenomeno dell’imperialismo in
relazione al capitalismo. In particolare, l’aspetto più importante è costituito dall’affermazione dei
monopoli che azzerano la concorrenza, che fu invece un fattore decisivo nel decollo del
capitalismo stesso. Quel che si presenta è, insomma, il quadro di un capitalismo declinante, in
radicale trasformazione, e ormai saturato, in cui il crollo non può che essere imminente.
Se si volesse dare la definizione più concisa possibile dell’imperialismo, si dovrebbe dire che
l’imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo. Tale definizione conterrebbe l’essenziale,
giacché da un lato il capitale finanziario è il capitale bancario delle poche grandi banche
monopolistiche fuso col capitale delle unioni monopolistiche industriali, e dall’altro la ripartizione
del mondo significa passaggio dalla politica coloniale, estendendosi senza ostacoli ai territori non
ancora dominati da nessuna potenza capitalista, alla politica coloniale del possesso monopolistico
della superficie terrestre definitivamente ripartita.
Ma tutte le definizioni troppo concise sono bensì comode, come quelle che compendiano
l’essenziale del fenomeno in questione, ma si dimostrano tuttavia insufficienti, quando da esse
debbano dedursi i tratti più essenziali del fenomeno da definire. Quindi noi – senza tuttavia
dimenticare il valore convenzionale e relativo di tutte le definizioni, che non possono mai
abbracciare i molteplici rapporti, in ogni senso, del fenomeno in pieno sviluppo – dobbiamo dare
una definizione dell’imperialismo, che contenga i suoi cinque principali contrassegni, e cioè:
1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di
sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;
2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo
«capitale finanziario», di un’oligarchia finanziaria;
3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione
di merci;
4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti che si ripartiscono il
mondo;
5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitaliste.
L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo, in cui si è formato il
dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato grande
importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la
ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici
Esercizi sul testo n. 1
1. Qual è la definizione che Lenin dà dell’imperialismo?
2. Che cosa sono i monopoli e qual è la loro funzione nella vita economica?
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Testo n. 2
Nikolaj Lenin, L’estremismo, malattia infantile del comunismo, trad. it. di Felice Platone, Roma, Editori Riuniti
1970, pp. 103-104; pp. 105-106.
Il testo fu pubblicato nel 1920, in anni ancora convulsi e difficili, quando le forze
rivoluzionarie non si erano ancora imposte definitivamente, e il Paese attraversava una crisi
economica devastante. Si tratta, da un lato, di un esame delle condotte dei bolscevichi nella storia
recente, di cui Lenin rivendica l’efficacia, dall’altro di una piattaforma per iniziative future non
pienamente aderenti al comunismo. L’anno successivo, infatti, Lenin avviò la cosiddetta N.E.P.
(Nuova Politica Economica), che, per far fronte alle difficoltà del momento, proponeva la
sospensione dell’applicazione integrale dei principi comunisti e lasciava un certo spazio al libero
mercato.
Agli occhi dei comunisti intransigenti, una simile svolta poteva apparire un tradimento, ma
l’autore in L’estremismo, vuole invece mostrare come i veri traditori della causa comunista fossero
proprio gli estremisti, coloro che puntavano subito al massimo risultato, senza curarsi delle
circostanze. Lenin distingue innanzitutto tra la tattica e la strategia. Mentre quest’ultima deve
mantenersi fedele ai principi comunisti, la prima può adattarsi alle attuali contingenze, attendendo
il motivo propizio per lanciare l’offensiva rivoluzionaria. Una saggia tattica può prevedere accordi
provvisori anche con forze borghese, anche compromessi, ma nonostante ciò non precipitare
nell’opportunismo, che è invece l’atteggiamento dei partiti socialisti occidentali che hanno
rinunciato alla rivoluzione.
Questo perché le vicende storiche sono estremamente complesse e imprevedibili, e le
difficoltà delle forze rivoluzionarie innumerevoli. Solo comprendendo da adulti gli ostacoli, e
rinunciando – come già suggerito da Marx ed Engels – a qualunque dogma, si potrà riuscire
nell’impresa.
Nelle questioni pratiche della politica che si pongono in ogni singolo momento o in un
momento storico specifico, è importante saper discernere le questioni nelle quali si manifesta la
forma principale di compromessi inammissibili, proditori, che incarnano l’opportunismo esiziale
2
alla classe rivoluzionaria, e far convergere tutte le forze a smascherarli, a combatterli. Durante la
guerra imperialista del 1914-1918 tra due gruppi di paesi ugualmente rapaci e predoni, il
socialsciovinismo, cioè l’appoggio alla «difesa della patria», che equivaleva di fatto in quella guerra
alla difesa degli interessi briganteschi della «propria» borghesia, fu appunto la forma capitale,
fondamentale dell’opportunismo. Dopo la guerra, la difesa della rapace «Società delle Nazioni», la
difesa delle alleanze dirette o indirette con la borghesia del proprio paese contro il proletariato
rivoluzionario e il movimento «sovietico»; la difesa della democrazia borghese e del
parlamentarismo borghese contro il «potere dei soviet», furono le più importanti manifestazioni di
compromessi inammissibili e proditori, i quali, nel loro complesso, rappresentavano un
opportunismo esiziale per il proletariato rivoluzionario e la sua causa […].
Tutta la storia del bolscevismo, prima e dopo la Rivoluzione d’Ottobre, è piena di casi di
destreggiamenti, di accordi, di compromessi con altri partiti, compresi i partiti borghesi!
Condurre la guerra per il rovesciamento della borghesia internazionale, guerra cento volte più
difficile, più lunga e più complicata della più accanita delle guerre abituali fra gli Stati, e rinunziare
in anticipo a destreggiarsi, a sfruttare i contrasti di interessi (sia pure temporanei) tra i propri
nemici, rinunziare agli accordi e ai compromessi con eventuali alleati (sia pure temporanei, poco
sicuri, esitanti, condizionati), non è cosa infinitamente ridicola? Non è come se nell’ardua scalata di
un monte ancora inesplorato e inaccessibile, si rinunciasse preventivamente a far talora degli
zigzag, a ritornare qualche volta sui propri passi, a lasciare la direzione presa all’inizio per tentare
direzioni diverse? […]
Dopo la prima rivoluzione socialista del proletariato, dopo l’abbattimento della borghesia in un
paese, il proletariato di questo paese resta per molto tempo più debole della borghesia, anche
semplicemente a causa dei formidabili legami internazionali della borghesia, e inoltre a causa della
spontanea e continua ricostituzione e rinascita del capitalismo e della borghesia ad opera dei piccoli
produttori di merci nel paese stesso che ha abbattuto il dominio borghese. Si può vincere un nemico
più potente soltanto con la massima tensione delle forze e alla condizione necessaria
dell’utilizzazione più diligente, accurata, attenta, abile di ogni benché minima «incrinatura» tra i
nemici, di ogni contrasto di interessi tra la borghesia dei diversi paesi, tra i vari gruppi e le varie
specie di borghesia nell’interno di ogni singolo paese, e anche di ogni minima possibilità di
guadagnarsi un alleato numericamente forte, sia pure temporaneo, incerto, incostante, infido, non
incondizionato. Chi non ha capito questo, non ha capito un acca né del marxismo, né del moderno
socialismo scientifico in generale. Chi non ha praticamente dimostrato, durante un periodo di
tempo abbastanza lungo e in situazioni politiche abbastanza varie, di essere capace di applicare
nella pratica questa verità, non ha ancora imparato ad aiutare la classe rivoluzionaria nella sua lotta
per liberare tutta l’umanità lavoratrice dagli sfruttatori. E ciò che si è detto si riferisce egualmente al
periodo anteriore e al periodo successivo alla conquista del potere politico da parte del proletariato.
La nostra teoria non è un dogma, ma una guida per l’azione, dicevano Marx ed Engels.
Esercizi sul testo n. 2
1. Perché Lenin considera l’estremismo una malattia infantile del comunismo?
2. Come viene giudicata da Lenin la politica dei compromessi seguita dai bolscevichi?
3. In che senso la teoria marxista non deve essere considerata in maniera dogmatica?
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Testo n. 3
3
György Lukács, Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica, trad. it. di Renato Solmi, Torino,
Einaudi 1960, pp. 490-491; pp. 492-494.
Questa ampia monografia dedicata all’attività giovanile di Hegel fu realizzata da Lukács
durante il soggiorno a Mosca, dove si era rifugiato a seguito dell’avvento del nazismo in Germania.
L’intento è quello di rivisitare la figura del filosofo tedesco, per sottrarla all’inquadramento consueto
del pensatore idealista e teologico. Proprio in gioventù, anzi, Hegel mostrò dei forti interessi politici,
e un notevole coinvolgimento personale nelle vicende politiche europee, dominate dalla rivoluzione
francese, a cui guardò con simpatia. Lukács vuole presentare uno Hegel precursore del
materialismo storico, soprattutto grazie all’interesse per l’economia politica, cosa inconsueta per un
filosofo del suo tempo. «Hegel affronta i problemi dell’economia, nel loro rapporto coi problemi
filosofici, con una consapevolezza sorprendente». Lukács, nelle sue riflessioni, trova motivi di
appoggio nei Quaderni filosofici di Lenin, in particolare riguardo al legame tra prassi e coscienza.
Ovviamente, per Hegel, ciò che contava era lo sviluppo della spirito, mentre, da parte marxista, il
primato spetta alla prassi materiale che si imprime nella coscienza dell’uomo. Ma, la stessa prassi,
al cuore della concezione di Marx, è, in fondo, derivata dal pensiero hegeliano. Sia per Lenin sia
per Lukács, Marx nel superare il materialismo ancora insufficiente di Feuerbach, si è ricollegato a
Hegel, alla centralità dell’attività storica dell’uomo nel suo sviluppo, attività che trova nel lavoro il
suo luogo d’espressione più proprio.
E sempre qui diventa possibile riformulare il decisivo problema filosofico della libertà e della
necessità che, appunto va pensato in termini storici, riferito alle effettive vicende, e non collocato
astrattamente, come fanno Kant e Fichte, in una dimensione formale e atemporale.
Per il rapporto che costituisce qui il centro della nostra indagine, cioè per il fatto che Hegel,
proprio mediante i suoi tentativi di appropriarsi oggetto e metodo dell’economia e di captare la loro
dialettica immanente, è assurto a precursore del materialismo storico, sono della massima
importanza alcune osservazioni di Lenin […]. Lenin parla ampiamente e con approvazione, anche
se con correzioni materialistico-critiche, della tesi hegeliana che il principio pratico, nel suo
rapporto alla realtà oggettiva, è essenzialmente il sillogismo. Egli dice:
«Sillogismo dell’agire» … Per Hegel l’agire, è un «sillogismo» logico, una figura della logica. Ed è
vero! Naturalmente non nel senso che la figura della logica abbia il suo essere altro nella prassi dell’uomo
(=idealismo assoluto), ma che viceversa la prassi dell’uomo, ripetendosi miliardi di volte, s’imprime nella
coscienza dell’uomo come figure logiche. Queste figure hanno la solidità di un pregiudizio e carattere
assiomatico proprio (e solo) in forza di questa ripetizione avvenuta miliardi di volte1.
E alcune pagine prima, ma sempre nel commento critico alle considerazioni di Hegel sulla
prassi e sul conoscere, Lenin dà una definizione conclusiva del rapporto qui esaminato tra Hegel e
Marx. Egli dice:
Tutto ciò nel capitolo L’idea del conoscere (capitolo II) – durante il passaggio all’«idea assoluta»
(capitolo III) – ciò che indubbiamente significa che in Hegel la prassi funge da anello nell’analisi del
processo della conoscenza, e precisamente come passaggio alla verità oggettiva (in Hegel: «assoluta»). Marx
si ricollega quindi direttamente a Hegel [il corsivo è mio, G. L.] quando introduce il criterio della prassi
nella teoria della conoscenza: vedi le tesi su Feuerbach.
Vediamo che la nuova impostazione hegeliana del problema della teleologia, la connessione
della finalità con l’attività economica dell’uomo in particolare e – partendo di qui – con la prassi
umana in generale, è d’importanza decisiva per l’intero sistema filosofico di Hegel […].
Hegel affronta i problemi dell’economia, nel loro rapporto coi problemi filosofici, con una
consapevolezza sorprendente. Abbiamo già potuto osservare con quanta consapevolezza egli
ricolleghi il problema della prassi al lavoro e all’attività economica. Ma questa chiarezza
metodologica di Hegel non si limita affatto alla trattazione di problemi singoli. Egli è consapevole
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del fatto che le categorie dell’agire si manifestano nel modo più chiaro proprio nella sfera
dell’economia in generale. Nelle osservazioni introduttive al saggio sul diritto naturale Hegel si
esprime su questo problema metodologico; che egli vi parli di diritto naturale e non espressamente
di economia, non cambia nulla all’essenza della cosa, poiché sappiamo che le categorie economiche
svolgono in Hegel una funzione decisiva in tutta la struttura della società e della sua trattazione
scientifica. Egli scrive, a proposito del problema come il mondo si rifletta nello specchio della
scienza, che «più di ogni altro» lo esprime
lo stato del diritto naturale, poiché esso si riferisce immediatamente all’etico, al motore di tutte le cose
umane, e in quanto la scienza del medesimo ha una realtà, e appartiene alla necessità, non può non essere una
cosa sola con la figura empirica dell’etico, che è parimenti nella necessità, ed esprime, come scienza, questa
figura nella forma dell’universalità1.
Il problema di libertà e necessità riceve da Hegel la sua forma concreta soprattutto in quanto
viene sempre trattato in un determinato contesto storico-sociale. La lotta di Hegel contro l’idealismo
soggettivo nel campo dell’etica si svolge anche e in primo luogo, come abbiamo visto contro
l’astratto isolamento del concetto di libertà dalla realtà storico-sociale. In quanto Hegel fa della
singolarità dell’individuo la base della considerazione della società moderna, in quanto cerca di
concepire l’attività immediata di questo individuo con l’aiuto delle categorie dell’economia
classica, la totalità di questo automovimento di tutta la società deve apparire come il prodotto delle
attività singole e quindi casuali degli individui […]. Ma per ottenere un’immagine del tutto chiara
della sua concezione in proposito, dobbiamo riportare qui la sua più tarda caratterizzazione
dell’economia come scienza, dove egli riassume il problema di casualità e necessità come il
problema fondamentale di questa scienza […]. Gli svolgimenti della filosofia del diritto suonano
come segue:
… questo brulichio di arbitrio produce da sé determinazioni generali, e questa realtà apparentemente
dispersa e priva di un’idea è tenuta insieme da una necessità che si presenta da sola. Scoprire qui questa
necessità è oggetto dell’economia politica, una scienza che fa onore al pensiero, poiché trova le leggi di una
massa di casualità. È uno spettacolo interessante come tutti i rapporti sono qui interagenti, come le sfere
particolari si raggruppano, influiscono su altre e ricevono da esse promozione o impedimento. Questo
reciproco confluire a cui dapprima non si crede, poiché tutto sembra affidato all’arbitrio del singolo, è
eminentemente degno di nota, e ha un’affinità col sistema planetario, che presenta all’occhio sempre solo
movimenti irregolari, ma le cui leggi possono essere conosciute2.
Su questa base viene posta da Hegel, nel quadro della totalità concreta e movimentata della vita
storico-sociale degli uomini, la questione del rapporto di libertà e necessità, e viene risolta per la
prima volta in forma giusta e concreta. Engels dice di questa soluzione di Hegel:
Hegel è stato il primo ad esporre giustamente il rapporto di libertà e necessità. Per lui la libertà è la
comprensione della necessità. «La necessità è cieca solo in quanto non è compresa». Non solo nella sognata
indipendenza dalle leggi naturali consiste la libertà, ma nella conoscenza di queste leggi, e nella possibilità in
tal modo data di farle agire secondo un piano a scopi detreminati3.
L’insieme di questa concezione di libertà e necessità costituisce […] il centro delle
considerazioni di Hegel sulla teleologia, e, in rapporto con questo, della sua analisi dell’attività
umana in generale. Abbiamo già visto il lato puramente economico di questo problema, così come,
in stretto rapporto con esso, la dialettica dello sviluppo complessivo della conoscenza umana delle
leggi della natura come base di questa attività. Ricordiamo anche con quanta passione Hegel avesse
preso posizione contro la pretesa sublimità dell’astratto concetto di libertà kantiano-fichtiano. Ora si
tratta di esaminare brevemente come questa concezione di Hegel si esplica nella trattazione della
totalità concreta della società e della sua storia. poiché discende da sé dalla concezione hegeliana
5
che proprio la vita storica appare come l’effettivo campo d’azione della libertà, come il terreno di
lotta della dialettica di libertà e necessità.
È noto che la più tarda filosofia della storia di Hegel ha il suo concetto centrale nell’«astuzia
della ragione». Tradotta in prosa, quest’espressione significa che gli uomini fanno bensì essi stessi
la loro storia, che il motore effettivo degli eventi storici risiede nelle passioni degli uomini, nelle
loro aspirazioni individuali ed egoistiche, ma che dalla totalità di queste singole passioni scaturisce
– secondo la tendenza fondamentale – qualcosa d’altro da quello che gli agenti desiderano e si
propongono; e che tuttavia quest’altro non rappresenta affatto qualcosa di accidentale, ma proprio in
ciò si manifesta la legalità della storia, o – secondo le espressioni di Hegel – «la ragione nella
storia», lo «spirito».
Note
1 LENIN,
Quaderni filosofici, Milano 1958, p. 211.
2 LENIN,
op. cit., p. 205.
3 LASSON,
p. 330
4 Rechtsphilosophie,
§ 189, Werke, VIII, p. 255, Zusatz; LASSON, p. 336. [Trad. it. Lineamenti di filosofia del diritto, Bari 1954,
pp. 354 sg.].
5
Anti-Dühring, Berlin 1948, p. 138 [Trad. it. Anti-Dühring, Roma 1950, p. 127].
Esercizi sul testo n. 3
1. Perché Hegel deve essere considerato precursore del materialismo storico?
2. In che senso il problema teleologico (che riguarda cioè il fine) viene connesso da Hegel all’attività
economica?
3. Come viene affrontato da Hegel il problema della libertà e della necessità?
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Testo n. 4
Ernst Bloch, Il principio speranza, trad. it. di Enrico De Angelis e Tomaso Cavallo, Milano, Garzanti 2005, pp.
326-328.
Il confronto con Marx sulla questione dell’utopia costituisce uno snodo cruciale nel discorso di Bloch.
L’autore si chiede in qual modo l’utopia, nonostante l’antiutopismo di Marx, sia pienamente accettabile per il
marxismo.
A partire dalle Tesi su Feuerbach, soprattutto dall’ultima, la posizione di Marx si configura come
filosofia della prassi. E la prassi si oppone ai progetti utopici. Ammesso questo, però, a Bloch preme
mostrare che il carattere pratico del marxismo non porta in direzione del Pragmatismo, che la prassi di Marx,
è tutt’altra rispetto a quella dei filosofi americani. Il filosofo tedesco, sviluppa anzi una decisa polemica contro
l’Americanizzazione, non solo in senso filosofico pragmatista, ma soprattutto come pratica di vita, che si
stava affermando inesorabilmente.
Per il pragmatismo, un’azione è valida in quanto è efficace, cioè in quanto ha successo. Ma, in tal
modo, il pragmatismo finisce per essere schiavo della presunta realtà, per sottomettersi ai responsi
dell’assetto vigente, ed è quindi incapace di innovare. Ben diverso è il senso delle Tesi di Marx. Occorre
allora rigettare l’erronea e interessata interpretazione dell’undicesima tesi su Feuerbach, e dedicarsi ad
un’attenta rilettura per ricercare il vero senso di ciò che si afferma nelle Tesi, che non è così piegato sulla
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prassi come potrebbe sembrare a prima vista. Mentre nel pragmatismo, sparisce il valore della verità rispetto
all’utilità, in Marx si mantiene pienamente: «In Marx un pensiero non è vero perché è utile, ma è utile perché
è vero». È sempre la verità che giudica e che ha il compito di cambiare il mondo.
Ma, inoltre, Bloch vuole sottolineare il fatto che il marxismo, in quanto è rivoluzionario, e aspira
perciò a cambiare il mondo, è proiettato nel futuro. Cioè è inevitabilmente orientato verso un tempo che non
c’è, che non c’è ancora, che non ha luogo. È rivolto, allora, all’utopia. Certo deve rimanere fermo il rifiuto
dell’utopismo, perché questo rischia di far perdere la presa sulla realtà, di abbandonarsi a sogni irrealizzabili
e accontentarsi di essi. Ma l’utopia è pienamente accettabile, anzi necessaria, senza utopia non può esserci
neanche trasformazione della realtà, ovvero non può esserci prassi.
In Marx un pensiero non è vero perché è utile, ma è utile perché è vero. Lenin formula la stessa
cosa nel suo detto calzante: «La dottrina di Marx è onnipotente perché è giusta». E continua: «Il
marxismo è il successore legittimo di tutto ciò che l’umanità ha creato di meglio durante il secolo
XIX: la filosofia tedesca, l’economia politica inglese e il socialismo francese» […]. In altre parole:
la prassi effettiva non può fare un passo senza ave preso informazioni economiche e politiche dalla
teoria, da una teoria in progresso. Pertanto nella misura in cui sono mancati i teorici socialisti, c’è
sempre stato il pericolo che proprio il contatto con la realtà ne soffrisse, con quella realtà che non va
mai interpretata in maniera schematica o semplicistica se la prassi socialista deve avere una riuscita.
Se sono queste le porte che l’antipragmatismo dei più grandi pensatori della prassi, in quanto
fedelissimi testimoni della verità, tiene aperte, esse possono sempre essere richiuse da una
interessata, erronea interpretazione della Tesi 11. Un’interpretazione che grottescamente dal
supremo trionfo della filosofia – che si ha nella Tesi 11 - crede di ricavare un’abdicazione della
filosofia, appunto una specie di pragmatismo non borghese. In tal modo si fa un cattivo servizio
proprio a quel futuro che non arriva a noi in ulteriore incomprensione, ma al quale invece si
aggiunge la nostra conoscenza attiva; e su questo tratto della prassi veglia la ragione. Così come
essa veglia su ogni tratto dell’umano viaggio di ritorno: contro l’irrazionale che in ultima analisi si
annuncia anche nella prassi priva di pensiero. Infatti se la distruzione della ragione ripiomba
nell’irrazionale barbarico, l’ignoranza della ragione ripiomba nell’irrazionale stupido; quest’ultimo
per la verità per la verità non versa sangue, però rovina il marxismo. Anche la banalità è pertanto
controrivoluzione contro il marxismo stesso; infatti esso è il compimento (non l’americanizzazione)
dei più progressivi pensieri dell’umanità […].
L’erroneo ha bisogno anch’esso di essere chiarito, proprio perché la Tesi 11 è la più importante
– corruptio optimi pessima. Contemporaneamente questa tesi è quella formulata nella maniera più
pregnante; perciò un commento di questo luogo deve riguardare la lettera molto più che negli altri
casi. Quale è dunque il tenore della Tesi 11, quale è la sua apparente opposizione tra conoscere e
trasformare? L’opposizione non c’è; perfino la particella «ma», che in questo caso non è di
opposizione ma di ampliamento, manca nell’originale marxiano (cfr. MEGA, I, 5, p. 535); e
altrettanto poco vi si trova un aut-aut. E ai filosofi precedenti si obietta, o meglio in essi viene
evidenziato , come barriera di classe, di essersi limitati a interpretare il mondo in maniera diversa,
non certo di aver filosofato. Ma l’interpretazione è parente della contemplazione e consegue da
questa; una conoscenza non-contemplativa viene dunque descritta come nuova bandiera, come
bandiera che realmente porta alla vittoria. Però come bandiera della conoscenza, la stessa bandiera
che Marx – certo con efficacia operativa, non con quiete contemplativa – ha posto nella sua opera
principale di dotta ricerca. Quest’opera fondamentale è pura indicazione per l’agire, però si intitola
Il capitale, non «Guida al successo» o «Propaganda dell’azione»; non è una ricetta per una rapida
azione eroica ante rem, ma al contrario sta proprio in re, nell’analisi accurata, nella ricerca filosofica
dei nessi della più difficile realtà. In rotta per la necessità compresa, per la conoscenza delle leggi
dialettiche dello sviluppo nella natura e nella società nel loro complesso. Dunque l’evidenziazione
contenuta nella prima parte della frase respinge da quei filosofi che «si sono limitati a interpretare
diversamente il mondo», e da nient’altro; essa prende il mare, ma appunto su una rotta su cui si è
estremamente riflettuto, come dichiara la seconda parte della frase; sulla rotta di una filosofia
nuova, attiva, tanto indispensabile quanto atta alla trasformazione. Indubbiamente Marx ha avuto
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parole dure per la filosofia, però mai per la filosofia semplicemente contemplativa, cioè quella degli
epigoni hegeliani del suo tempo, che era piuttosto una non filosofia.
Esercizi sul testo n. 4
1. Che relazione c’è, nella dottrina di Marx, tra verità e utilità?
2. Come viene interpretata da Bloch l’undicesima Tesi su Feuerbach di Marx?
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Testo n. 5
Louis Althusser e Etienne Balibar, Leggere Il Capitale, cit., p. 82.
Nella presentazione di Leggere il Capitale si osservava che è mancata una lettura
filosofica, che invece è indispensabile. Ma con ciò si non vuole dire che Il Capitale sia un libro di
filosofia, o che il suo significato autentico sia filosofico. Al contrario, egli insiste sulla portata
scientifica dell’opera.
Nel passo presentato, Althusser evidenzia il circolo ermeneutico che si produce tra la
filosofia marxista e Il Capitale. Occorre la filosofia marxista per comprendere Il Capitale, però in
quest’ultimo bisogna scoprire la prima. Inoltre, poiché Il Capitale è un libro di scienza, ma la lettura
che si fa è filosofica, si produce un duplice movimento tra scienza e filosofia: un andare dalla
lettura scientifica alla lettura filosofica e viceversa. Il Capitale non è un libro di filosofia, tuttavia, la
filosofia è la sola che può farci capire che tipo di opera esso sia. Nel momento stesso in cui si
scopre in Marx uno scienziato più che un filosofo, si rivaluta l’importanza della filosofia nel mettere
in luce il carattere scientifico dell’opera.
Allo stesso tempo, però, la filosofia, o meglio la filosofia accademica, mostra i propri vistosi
limiti, per aver mancato fino ad ora al suo compito, ed essere stata invece superata dai militanti e
dirigenti politici – Lenin su tutti – che, senza essere filosofi di professione, «hanno saputo leggere e
comprendere Il Capitale da filosofi».
È questo il duplice oggetto del nostro lavoro, il quale assume un senso reale solo con un
costante e duplice ritorno: l’identificazione e la conoscenza dell’oggetto della filosofia marxista
operante nel Capitale stesso, la quale a sua volta implica il ricorso alla filosofia marxista e richiede
il suo sviluppo. Non è possibile leggere veramente Il Capitale senza l’aiuto della filosofia marxista,
e essa pure deve essere letta contemporaneamente nel Capitale stesso. Se questa duplice lettura e il
costante rinvio dalla lettura scientifica alla lettura filosofica e viceversa sono necessari e fecondi,
indubbiamente possiamo riconoscere in ciò la particolarità della rivoluzione filosofica che la
scoperta scientifica di Marx comporta: una rivoluzione che inaugura un pensiero filosofico del tutto
nuovo.
Possiamo anche convincerci a contrario che questa doppia lettura è indispensabile; basta
osservare le difficoltà e i controsensi che hanno provocato le letture semplici, immediate del
Capitale: difficoltà e controsensi che concernono un malinteso più o meno grave sulla differenza
specifica dell’oggetto del Capitale. Siamo proprio obbligati a tenere conto di questo fatto diffuso:
fino a tempi relativamente recenti, tra gli “specialisti”, Il Capitale è stato letto solo dagli economisti
e dagli storici i quali hanno spesso pensato: gli uni che Il Capitale fosse un trattato di economia nel
senso immediato della loro pratica, gli altri che Il Capitale fosse – in alcune sue parti – un’opera
storica nel senso immediato della loro pratica. Questo libro, che migliaia e migliaia di militanti
hanno studiato, è stato letto dagli economisti e dagli storici ma molto raramente daifilosofi1, vale a
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dire degli “specialisti” capaci di porre al Capitale il problema preliminare della natura differenziale
del suo oggetto. Salvo rare eccezioni, e perciò stesso notevoli, gli economisti e gli storici non erano
in grado di porgli un quesito di questo tipo (almeno in una forma rigorosa) e quindi, al limite, di
individuare concettualmente ciò che distingue propriamente l’oggetto di Marx dagli altri oggetti,
apparentemente simili oppure correlati, sia pure anteriori o contemporanei a esso. Una tale impresa
era generalmente accessibile ai filosofi o agli specialisti in possesso di una sufficiente formazione
filosofica, giacché essa corrisponde all’oggetto stesso della filosofia.
Note
1 Per ragioni molto profonde infatti, costoro sono spesso dei militanti e dei dirigenti politici che, senza essere filosofi di
professione, hanno saputo leggere e comprendere Il Capitale da filosofi. Lenin ne è l’esempio più sorprendente: la sua comprensione
filosofica del Capitale dà alle sue analisi economiche e politiche una profondità, un rigore e un’acutezza incomparabili.
Nell’immagine che si ha di Lenin, il grande dirigente politico spesso lascia passare inosservato l’uomo che si è posto allo studio
paziente, minuzioso, approfondito delle grandi opere teoriche di Marx. Non è casuale che molti degli acuti testi, dedicati alle
questione più difficili della teoria del Capitale, risalgano ai primi anni dell’attività pubblica di Lenin (gli anni che precedettero la
rivoluzione del 1905). Dieci anni di studio e di meditazione sul Capitale hanno dato all’uomo quella formazione teorica
incomparabile, che ha prodotto la prodigiosa intelligenza politica del dirigente del movimento internazionale russo e internazionale.
Ed è anche per questa ragione che le opere economiche e politiche di Lenin (non solamente le sue opere scritte ma anche la sua opera
storica) hanno un tale valore teorico e filosofico: vi si può studiare la filosofia marxista all’opera, allo stato “pratico”, la filosofia
marxista divenuta politica, azione, analisi e decisione politica. Lenin: una incomparabile formazione teorica e filosofica fatta
politica.
Esercizi sul testo n. 5
1. Che relazione c’è tra lettura filosofica e lettura scientifica del Capitale?
2. Perché spesso i militanti politici hanno saputo leggere Il Capitale meglio dei filosofi?
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