Nell’economia politica neoclassica la forza lavoro è considerata una risorsa scarsa che può essere comprata e venduta come qualsiasi altra merce anonima su un libero mercato. Gli individui agiscono in quanto aspirano a massimizzare la propria utilità, ossia il reddito. La nascita e l’evoluzione di questo mercato non sono problematiche poiché gli attori economici adoperano il criterio della razionalità e sono naturalmente propensi allo scambio. L’autoregolazione del mercato garantisce l’ottimizzazione del lavoro come risorsa, ossia il suo allocamento e l’uso che se ne fa. Infine, ipotesi socialmente più rilevante, il mercato del lavoro è unitario: esiste una concorrenza anche fra i lavoratori e fra i datori di lavoro in virtù della sostituibilità rispetto al prezzo. Questo brano, che presenta la dottrina dell’economia politica neoclassica, è costruito a partire da una potente metafora che ha caratterizzato (e continua a caratterizzare) tutte le teorie economiche contemporanee: IL LAVORO È UNA RISORSA. In base a tale concezione metaforica il lavoro è una merce, al pari delle materie prime, e ha dunque un costo e un’offerta. Questa metafora, ovviamente, giustifica la logica di fondo della teoria economica ma lo fa a prezzo di nascondere molti altri aspetti della natura del lavoro: ad esempio la caratterizzazione umana del lavoro come prassi dotata di un senso, e la conseguente distinzione fra lavoro significativo e disumanizzante. Una posizione simile, ovviamente, giustifica lo sfruttamento degli esseri umani (perché il lavoro a buon mercato è una cosa buona, come la benzina a buon mercato). Di conseguenza la metafora fa sì che divenga dominante una concezione di lavoro che di “umano” non ha assolutamente nulla, proprio perché le fondamenta su cui poggia sono lo sfruttamento di chi non ha altri mezzi di sostentamento che la propria forza-lavoro. Si provi a sostituire questa metafora con un’altra (evidentemente da creare e sviluppare), scrivendo un breve discorso pubblico che provi a reimpostare il concetto di “lavoro” partendo dal presupposto che non possono essere parametri meramente economici e quantitativi a dargli un senso qualificante. Questo significa criticare i termini della metafora della “risorsa”, naturalmente tenendo conto del fatto che possono esservi altre metafore di riferimento (al pari di quel che accade, ad es. con amore, concetto per il quale si conoscono almeno L’AMORE È UNA FORZA FISICA, L’AMORE È UN PAZIENTE, L’AMORE E FOLLIA, L’AMORE È MAGIA, L’AMORE È GUERRA). Il discorso dev’esser teso a dare al sociale un primato sull’economico (anche per uscire dall’insopportabile cinismo che equipara il “valore” di una cosa al suo “prezzo”), valorizzando quella dimensione sociale nei cui confronti non ci si può azzardare di considerare “improduttive” o “meno produttive” talune categorie di persone (bambini, studenti, casalinghe, pensionati, anziani, disabili, malati mentali ecc.). Inoltre nell’ambito del sociale vi è un altro aspetto che deve avere più importanza dell’economico, ed è l’ecologico: la democrazia implica il rispetto delle esigenze riproduttive della natura. Che l’economia borghese non sia democratica lo si vede dal disprezzo in cui tiene non solo l’essere umano, produttivo o improduttivo che sia, ma anche la natura, considerata una risorsa da sfruttare senza ritegno fino al suo totale esaurimento. Naturalmente è impossibile tornare indietro al tempo delle società neolitiche, in cui l’agricoltura e l’allevamento erano gestiti dalle comunità di villaggio e in cui dominava l’autoproduzione e l’autoconsumo; ma l’importante è comunque scrivere e delineare una prospettiva alternativa (sul genere di metafore nuove o non sfruttate quali IL LAVORO È UN GIOCO DI SQUADRA, o IL LAVORO È UN’ARTE…).