8 S in alute DOSSIER i disturbi alimentari DOSSIER i disturbi alimentari Dopo la diagnosi cosa si può fare? Il parere dell’esperto Le proposte terapeutiche per i disturbi alimentari sono diverse, ma in genere dotate di un’efficacia soddisfacente a patto che vengano presi in considerazione sia i problemi fisici sia quelli psicologici e che non si trascuri il necessario aiuto alle famiglie. Intervistiamo Bruno G. Bara, medico, psicoterapeuta, professore di psicologia della comunicazione all’Università di Torino dove dirige il Centro di Scienze Cognitive ed è direttore scientifico della Scuola di specializzazione in Psicoterapia cognitiva con sede a Torino e a Como. segue da pagina 7 perdita o di shock traumatico avvenute in età infantile; un rapporto complesso e irrisolto con la sessualità; ma anche condizioni sociali quali l’ipervalorizzazione del magro nella moda, nella pubblicità, nello sport e in medicina, e in generale l’idea che il giudizio estetico rappresenti il giudizio più importante e temuto su di sé. Quando sospettare un disturbo alimentare La modifica di peso è il sintomo più evidente, ma non raramente nascosto da un abbigliamento “abbondante” e a più strati; nella bulimia, inoltre, il peso rimane a lungo normale e ciò può causare una diagnosi tardiva del disturbo. C’è la paura di ingrassare, anche se si è chiaramente sottopeso, e la giornata ruota attorno a questa idea: la ragazza cerca di evitare i pasti in comune o finge di mangiare tagliuzzando il cibo e spostandolo ai bordi del piatto oppure, appena mangiato, va in bagno per vomitare; può fare molta ginnastica o sottrarre danaro per procurarsi il cibo. Ma nel contempo aumenta l’interesse per la cucina e l’alimentazione dei parenti: collezionare e sperimentare ricette culinarie diventa una specie di mania; la ragazza diventa padrona della cucina di casa cercando così di spodestare la madre e trasformandosi in una “tiranna alimentare” per i suoi familiari. Il carattere e l’umore subiscono cambiamenti significativi: il perfezionismo diventa una pignola e sfibrante ricerca di ordine che la rassicuri; la facile irritabilità e un tono depresso rappresentano le modifiche più evidenti dell’umore. Quando la perdita di peso è importante scompaiono le mestruazioni: questo sintomo può essere “coperto” dall’uso della pillola. L’ampiezza del fenomeno Negli ultimi quindici anni abbiamo assistito a un graduale venire alla ribalta del problema dovuto probabilmente, oltre che a un effettivo aumento dei casi clinici, a un più preciso riconoscimento diagnostico del disturbo. In Italia oltre il 2% delle donne in età fertile soffre di anoressia o bulimia nervosa. L’anoressia mentale costituisce il disturbo meno frequente e colpisce, nel 90% dei casi, giovani donne, con una frequenza nella popolazione dello 0.5-1 %, più alta in alcuni sottogruppi come modelle, ballerine, atleti; la media dell’età di esordio è di 17 anni. La bulimia è più frequente e colpisce dall’1 al 3% della popolazione, con un picco di esordio a 18 anni. Il “binge eating” colpisce dal 2 al 3% della popolazione, con un rapporto maschi/femmine di 2:3 e una età di esordio di 15-18 anni. Le complicanze fisiche I disturbi alimentari rappresentano una seria minaccia per la salute fisica della paziente. Il dimagramento può causare la scomparsa delle mestruazioni, il rallentamento del battito cardiaco, la riduzione della pressione arteriosa, anemia, alterazioni neurologiche con riduzione della massa cerebrale, secchezza della pelle e comparsa di una sottile peluria, osteoporosi, stipsi. Il vomito può determinare lesioni dell’esofago, erosioni dello smalto dentale e la perdita di elettroliti, in particolar modo del potassio, che causa alterazioni del ritmo cardiaco molto pericolose. L’obesità è un importante e noto fattore di rischio per malattie cardiovascolari o endocrinologiche (ad esempio il diabete mellito). I programmi di terapia La terapia dei disturbi alimentari è spesso complessa: occorre un approccio multidisciplinare, l’unico che consenta di cogliere tutti i molteplici aspetti del disturbo. Inizialmente il problema è quello di “catturare” la fiducia della paziente, che spesso è diffidente e maldisposta a un progetto di cura. Approcci troppo direttivi che trascurino l’aspetto di alleanza terapeutica sono destinati a fallire o a dare risultati solo nel breve termine, rischiando addirittura di costruire una falsa terapia che illude paziente e familiari e trascura la complessità del problema. Egualmente destinati a successi transitori sono gli approcci terapeutici unilaterali: un intervento dietologico che cerchi di riorganizzare in modo troppo impositivo la disorganizzazione alimentare o, all’opposto, un progetto psicoterapico che non consideri le complicanze mediche e il dimagramento con le sue conseguenze anche di tipo psicologico. Una terapia congiunta dietologica, volta a correggere il dimagramento o l’obesità e a organizzare il piano alimentare quotidiano per ridurre le abbuffate della bulimia, e psicologico-psichiatrica per diagnosticare e correggere con le terapie psicologiche e farmacologiche il disturbo, rappresentano la strategia vincente per curare i disturbi alimentari. Alle volte è necessario articolare maggiormente la terapia: il day hospital, il reparto specializzato, la comunità terapeutica per disturbi alimentari sono le tappe successive a cui devono essere inviate le pazienti più resistenti ai trattamenti ordinari. A tale scopo presso l’Istituto Scientifico “Eugenio Medea” di Bosisio Parini (LC) è stato recentemente organizzato un Servizio per Disturbi del Comportamento alimentare che si dedica in maniera particolare alle forme ad esordio pre-adolescenziale e adolescenziale per cogliere il disagio in fase nascente. Il ruolo dei familiari “Demonizzati” fino a non molti anni fa perché ritenuti “colpevoli” della malattia della figlia, i familiari sono invece considerati, attualmente, un importante elemento del progetto terapeutico. I genitori, soprattutto la madre, già di per sé si ritengono colpevoli del disturbo alimentare della figlia e, di conseguenza, possono sviluppare sentimenti depressivi o ingaggiare con la figlia una sorta di braccio di ferro terapeutico (ad esempio cercando di forzarne l’alimentazione) che esaspera lo stato di tensione all’interno della famiglia e fa fuggire la ragazza. Del resto è comprensibile come questo tipo di disturbo eserciti un’importante pressione sulla famiglia e in particolar modo sulla madre, che da sempre riveste il ruolo di dispensatrice di cibo. La terapia dovrà quindi riservare uno spazio di ascolto e di comprensione (e a volte anche di vera e propria cura) delle angosce e del senso di frustrazione e di colpa che i genitori hanno spesso segretamente coltivato in sé. Gian Luigi Mansi 9 S in alute Professore, da cosa dipende, secondo lei, la crescente diffusione dei disturbi alimentari? La nostra società è fortemente legata all’immagine fisica, così come ci viene trasmessa continuamente da televisione e giornali. È l’immagine di un corpo assolutamente idealizzato, dove spicca una serie di aspetti legati al richiamo sessuale, che normalmente non si trovano insieme in nessuna persona del mondo reale. L’importanza data al corpo fantasticato, come scolpito dal bisturi e dalla palestra, rende assillante l’esame del proprio corpo imperfetto. A questa continua sfida impossibile si può rispondere solo arrendendosi (come nell’obesità) oppure estremizzando alcune caratteristiche (come nell’anoressia o nella bulimia). Da quando la cultura dell’immagine è diventata dominante abbiamo assistito a una crescita esponenziale di tutti i disordini alimentari psicogeni. Qual è l’origine dei disturbi alimentari psicogeni e come si sviluppano nel bambino e nell’adolescente? Nel comportamento dei genitori riscontriamo spesso indefinitezza e confusione: è come se trovassero difficoltà a comprendere le richieste emotive e gli stati d’animo dei figli; inoltre essi tendono ad anticipare loro come stanno le cose e come andranno a finire, rendendo più difficoltosa la formazione dell’autoconsapevolezza. In questi genitori il controllo prevale sulla tenerezza e sul calore: sono costantemente impegnati a ridefinire le emozioni dei figli che così non possono imparare ad avvertirle chiaramente né ad esprimerle adeguatamente. Per esempio, il figlio confonde la sensazione di vuoto affettivo con la sensazione di fame e quindi la colma col cibo: si può così innescare una bulimia. Si tratta spesso di famiglie apparentemente impeccabili, che nascondono i loro conflitti dietro alla perfezione formale: genitori che si occupano dell’aspetto fisico del figlio ma non badano a cosa lui pensi, che cosa senta o quali problemi abbia. In adolescenza l’attenzione di questi ragazzi è concentrata sul giudizio degli altri, temuto ma considerato indispensabile poiché sembra l’unica possibilità per recuperare una stabile immagine di sé e per superare la diffusa sensazione di incertezza. Una simile modalità rende quasi impossibile l’introspezione, cioè la riflessione sul proprio mondo interiore. Ne consegue un senso di identità personale molto labile ed estremamente vulnerabile alle critiche; i rapporti con gli altri vengono mitizzati, così come mitizzati e deludenti sono stati quelli coi genitori. Nell’adolescenza è nor- male avere problematiche rispetto al corpo, inteso come oggetto (occhi, naso, lentiggini, etc.); quando poi questa attenzione si esaspera e si polarizza sulla forma e sul peso del corpo, ci troviamo di fronte alle patologie alimentari. È possibile prevenire l’insorgere di un disturbo alimentare? La prevenzione primaria si effettua già nell’infanzia ed è affidata ai genitori, che devono garantire una calda presenza affettiva ai figli. La difesa più efficace consiste in un padre e in una madre presenti durante la crescita, che però non invadano lo spazio psicologico dei figli. Quando si entra nell’adolescenza, che è la fase più critica per la comparsa di disturbi dell’alimentazione, la prevenzione consiste nel permettere a ragazzi e ragazze di mantenere un costante rapporto con i coetanei del mondo reale, senza scivolare nella dimensione fittizia di vita proposta da TV e giornali. È importante, infatti, in adolescenza il contatto psichico e fisico coi coetanei, così come nell’infanzia era essenziale quello coi genitori. Quali sono le terapie più efficaci? La terapia dei disturbi alimentari psicogeni può essere individuale, familiare o di gruppo. La terapia di gruppo va limitata all’obesità, mentre nei casi di bulimia e di anoressia può essere rischiosa. La terapia familiare è stata molto usata negli ultimi vent’anni, con risultati interessanti sul breve periodo ma meno stabili a lungo termine. La terapia farmacologica e il ricovero ospedaliero vanno considerati entrambi come rimedi sintomatici, che però non risolvono le cause del disturbo alimentare. La terapia psicologica individuale rimane il trattamento più consigliabile e gli studi sull’efficacia indicano la terapia cognitiva come la più efficace sul lungo periodo. La terapia non deve però essere centrata sul sintomo, cioè sul fatto di perdere o acquistare chili, ma sulla persona che si vive in sovrappeso o in sottopeso. Occorre indagare l’immagine interna che ha del proprio corpo quella specifica persona, aiutandola a correggere anzitutto questa immagine e solo secondariamente a modificare la sua dimensione fisica vera e propria. È infatti perfettamente inutile lavorare sul sintomo specifico se la persona non ha capito le ragioni per cui è stata indotta ad adottare uno stile alimentare patologico. Va anche sottolineato che la psicoterapia dei disturbi alimentari dura a lungo e non ammette alcuna “scorciatoia”. Gian Luigi Mansi DA SAPERE E I MASCHI? Seppur raramente (dal 5 al 10% della totalità dei casi) i disturbi alimentari psicogeni possono colpire anche i maschi. Essi sono meno sottoposti alla pressione sociale a esser magri: uno studio che ha confrontato le dieci riviste più lette dalla popolazione femminile con le dieci più lette da quella maschile ha trovato un rapporto 10 a 1 per quanto riguarda il numero di articoli su diete e perdita di peso. La sensazione, tuttavia, è che anche il maschio sia sottoposto a una sempre maggiore pressione sociale “dimagrante” che potrebbe portare nei prossimi anni a un aumento dei casi di disturbo alimentare. Un altro fattore protettivo è la comparsa della maturazione sessuale, nei maschi, mediamente due anni dopo le ragazze: ciò li aiuta ad affrontare la pubertà in maniera meno problematica. Quando si evidenziano, i disturbi alimentari hanno nei maschi le stesse caratteristiche cliniche di quelli femminili e richiedono uguali strategie terapeutiche.