I disturbi alimentari. Dopo la diagnosi cosa si puo` fare?

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DOSSIER i disturbi alimentari
DOSSIER i disturbi alimentari
Dopo la diagnosi cosa
si può fare?
Il parere
dell’esperto
Le proposte terapeutiche per i disturbi alimentari sono diverse, ma in genere dotate
di un’efficacia soddisfacente a patto che vengano presi in considerazione sia i
problemi fisici sia quelli psicologici e che non si trascuri il necessario aiuto alle
famiglie.
Intervistiamo Bruno G. Bara, medico, psicoterapeuta, professore
di psicologia della comunicazione all’Università di Torino dove
dirige il Centro di Scienze Cognitive ed è direttore scientifico della
Scuola di specializzazione in Psicoterapia cognitiva con sede a
Torino e a Como.
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perdita o di shock traumatico
avvenute in età infantile; un rapporto complesso e irrisolto con
la sessualità; ma anche condizioni sociali quali l’ipervalorizzazione del magro nella moda, nella pubblicità, nello sport e in
medicina, e in generale l’idea
che il giudizio estetico rappresenti il giudizio più importante e
temuto su di sé.
Quando
sospettare
un disturbo
alimentare
La modifica di peso è il sintomo
più evidente, ma non raramente
nascosto da un abbigliamento
“abbondante” e a più strati; nella
bulimia, inoltre, il peso rimane a
lungo normale e ciò può causare
una diagnosi tardiva del disturbo. C’è la paura di ingrassare,
anche se si è chiaramente sottopeso, e la giornata ruota attorno
a questa idea: la ragazza cerca di
evitare i pasti in comune o finge
di mangiare tagliuzzando il cibo
e spostandolo ai bordi del piatto
oppure, appena mangiato, va in
bagno per vomitare; può fare
molta ginnastica o sottrarre danaro per procurarsi il cibo. Ma
nel contempo aumenta l’interesse per la cucina e l’alimentazione dei parenti: collezionare e
sperimentare ricette culinarie
diventa una specie di mania; la
ragazza diventa padrona della
cucina di casa cercando così di
spodestare la madre e trasformandosi in una “tiranna alimentare” per i suoi familiari.
Il carattere e l’umore subiscono
cambiamenti significativi: il perfezionismo diventa una pignola
e sfibrante ricerca di ordine che
la rassicuri; la facile irritabilità e
un tono depresso rappresentano
le modifiche più evidenti dell’umore.
Quando la perdita di peso è importante scompaiono le mestruazioni: questo sintomo può essere
“coperto” dall’uso della pillola.
L’ampiezza
del fenomeno
Negli ultimi quindici anni abbiamo assistito a un graduale venire
alla ribalta del problema dovuto
probabilmente, oltre che a un effettivo aumento dei casi clinici,
a un più preciso riconoscimento
diagnostico del disturbo.
In Italia oltre il 2% delle donne
in età fertile soffre di anoressia o
bulimia nervosa.
L’anoressia mentale costituisce
il disturbo meno frequente e colpisce, nel 90% dei casi, giovani
donne, con una frequenza nella
popolazione dello 0.5-1 %, più
alta in alcuni sottogruppi come
modelle, ballerine, atleti; la media dell’età di esordio è di 17 anni. La bulimia è più frequente e
colpisce dall’1 al 3% della popolazione, con un picco di esordio
a 18 anni. Il “binge eating” colpisce dal 2 al 3% della popolazione, con un rapporto
maschi/femmine di 2:3 e una età
di esordio di 15-18 anni.
Le
complicanze
fisiche
I disturbi alimentari rappresentano una seria minaccia per la
salute fisica della paziente.
Il dimagramento può causare la
scomparsa delle mestruazioni, il
rallentamento del battito cardiaco, la riduzione della pressione
arteriosa, anemia, alterazioni
neurologiche con riduzione della massa cerebrale, secchezza
della pelle e comparsa di una
sottile peluria, osteoporosi, stipsi. Il vomito può determinare
lesioni dell’esofago, erosioni dello smalto dentale e la perdita di
elettroliti, in particolar modo del
potassio, che causa alterazioni
del ritmo cardiaco molto pericolose.
L’obesità è un importante e noto fattore di rischio per malattie
cardiovascolari o endocrinologiche (ad esempio il diabete
mellito).
I programmi
di terapia
La terapia dei disturbi alimentari
è spesso complessa: occorre un
approccio multidisciplinare,
l’unico che consenta di cogliere
tutti i molteplici aspetti del disturbo.
Inizialmente il problema è quello di “catturare” la fiducia della
paziente, che spesso è diffidente
e maldisposta a un progetto di
cura. Approcci troppo direttivi
che trascurino l’aspetto di alleanza terapeutica sono destinati
a fallire o a dare risultati solo nel
breve termine, rischiando addirittura di costruire una falsa terapia che illude paziente e familiari e trascura la complessità del
problema.
Egualmente destinati a successi
transitori sono gli approcci terapeutici unilaterali: un intervento
dietologico che cerchi di riorganizzare in modo troppo impositivo la disorganizzazione alimentare o, all’opposto, un progetto psicoterapico che non consideri le complicanze mediche e
il dimagramento con le sue conseguenze anche di tipo psicologico. Una terapia congiunta dietologica, volta a correggere il dimagramento o l’obesità e a organizzare il piano alimentare quotidiano per ridurre le abbuffate
della bulimia, e psicologico-psichiatrica per diagnosticare e correggere con le terapie psicologiche e farmacologiche il disturbo,
rappresentano la strategia vincente per curare i disturbi alimentari.
Alle volte è necessario articolare
maggiormente la terapia: il day
hospital, il reparto specializzato,
la comunità terapeutica per disturbi alimentari sono le tappe
successive a cui devono essere
inviate le pazienti più resistenti
ai trattamenti ordinari. A tale
scopo presso l’Istituto Scientifico “Eugenio Medea” di Bosisio
Parini (LC) è stato recentemente
organizzato un Servizio per Disturbi del Comportamento alimentare che si dedica in maniera particolare alle forme ad esordio pre-adolescenziale e adolescenziale per cogliere il disagio
in fase nascente.
Il ruolo
dei familiari
“Demonizzati” fino a non molti
anni fa perché ritenuti “colpevoli” della malattia della figlia, i familiari sono invece considerati,
attualmente, un importante elemento del progetto terapeutico.
I genitori, soprattutto la madre,
già di per sé si ritengono colpevoli del disturbo alimentare della figlia e, di conseguenza, possono sviluppare sentimenti depressivi o ingaggiare con la figlia
una sorta di braccio di ferro terapeutico (ad esempio cercando di
forzarne l’alimentazione) che
esaspera lo stato di tensione
all’interno della famiglia e fa
fuggire la ragazza. Del resto è
comprensibile come questo tipo
di disturbo eserciti un’importante pressione sulla famiglia e in
particolar modo sulla madre, che
da sempre riveste il ruolo di dispensatrice di cibo.
La terapia dovrà quindi riservare
uno spazio di ascolto e di comprensione (e a volte anche di vera e propria cura) delle angosce e
del senso di frustrazione e di
colpa che i genitori hanno spesso segretamente coltivato in sé.
Gian Luigi Mansi
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Professore, da cosa dipende, secondo lei, la crescente diffusione
dei disturbi alimentari?
La nostra società è fortemente legata
all’immagine fisica, così come ci viene trasmessa continuamente da televisione e giornali. È l’immagine di un
corpo assolutamente idealizzato, dove spicca una serie di aspetti legati al
richiamo sessuale, che normalmente
non si trovano insieme in nessuna
persona del mondo reale. L’importanza data al corpo fantasticato, come
scolpito dal bisturi e dalla palestra,
rende assillante l’esame del proprio
corpo imperfetto. A questa continua
sfida impossibile si può rispondere
solo arrendendosi (come nell’obesità)
oppure estremizzando alcune caratteristiche (come nell’anoressia o nella
bulimia). Da quando la cultura
dell’immagine è diventata dominante
abbiamo assistito a una crescita esponenziale di tutti i disordini alimentari
psicogeni.
Qual è l’origine dei disturbi alimentari psicogeni e come si sviluppano nel bambino e nell’adolescente?
Nel comportamento dei genitori riscontriamo spesso indefinitezza e
confusione: è come se trovassero difficoltà a comprendere le richieste
emotive e gli stati d’animo dei figli;
inoltre essi tendono ad anticipare loro come stanno le cose e come andranno a finire, rendendo più difficoltosa la formazione dell’autoconsapevolezza. In questi genitori il controllo prevale sulla tenerezza e sul calore: sono costantemente impegnati a
ridefinire le emozioni dei figli che così non possono imparare ad avvertirle
chiaramente né ad esprimerle adeguatamente. Per esempio, il figlio
confonde la sensazione di vuoto affettivo con la sensazione di fame e quindi la colma col cibo: si può così innescare una bulimia.
Si tratta spesso di famiglie apparentemente impeccabili, che nascondono i
loro conflitti dietro alla perfezione
formale: genitori che si occupano
dell’aspetto fisico del figlio ma non
badano a cosa lui pensi, che cosa senta o quali problemi abbia.
In adolescenza l’attenzione di questi
ragazzi è concentrata sul giudizio degli altri, temuto ma considerato indispensabile poiché sembra l’unica
possibilità per recuperare una stabile
immagine di sé e per superare la diffusa sensazione di incertezza. Una simile modalità rende quasi impossibile l’introspezione, cioè la riflessione
sul proprio mondo interiore. Ne consegue un senso di identità personale
molto labile ed estremamente vulnerabile alle critiche; i rapporti con gli
altri vengono mitizzati, così come mitizzati e deludenti sono stati quelli
coi genitori. Nell’adolescenza è nor-
male avere problematiche rispetto al
corpo, inteso come oggetto (occhi, naso, lentiggini, etc.); quando poi questa
attenzione si esaspera e si polarizza
sulla forma e sul peso del corpo, ci
troviamo di fronte alle patologie alimentari.
È possibile prevenire l’insorgere
di un disturbo alimentare?
La prevenzione primaria si effettua
già nell’infanzia ed è affidata ai genitori, che devono garantire una calda
presenza affettiva ai figli. La difesa
più efficace consiste in un padre e in
una madre presenti durante la crescita, che però non invadano lo spazio
psicologico dei figli. Quando si entra
nell’adolescenza, che è la fase più critica per la comparsa di disturbi
dell’alimentazione, la prevenzione
consiste nel permettere a ragazzi e ragazze di mantenere un costante rapporto con i coetanei del mondo reale,
senza scivolare nella dimensione fittizia di vita proposta da TV e giornali.
È importante, infatti, in adolescenza
il contatto psichico e fisico coi coetanei, così come nell’infanzia era essenziale quello coi genitori.
Quali sono le terapie più efficaci?
La terapia dei disturbi alimentari psicogeni può essere individuale, familiare o di gruppo.
La terapia di gruppo va limitata
all’obesità, mentre nei casi di bulimia
e di anoressia può essere rischiosa.
La terapia familiare è stata molto usata negli ultimi vent’anni, con risultati
interessanti sul breve periodo ma meno stabili a lungo termine.
La terapia farmacologica e il ricovero
ospedaliero vanno considerati entrambi come rimedi sintomatici, che
però non risolvono le cause del disturbo alimentare.
La terapia psicologica individuale rimane il trattamento più consigliabile
e gli studi sull’efficacia indicano la
terapia cognitiva come la più efficace
sul lungo periodo. La terapia non deve però essere centrata sul sintomo,
cioè sul fatto di perdere o acquistare
chili, ma sulla persona che si vive in
sovrappeso o in sottopeso. Occorre
indagare l’immagine interna che ha
del proprio corpo quella specifica
persona, aiutandola a correggere anzitutto questa immagine e solo secondariamente a modificare la sua dimensione fisica vera e propria. È infatti perfettamente inutile lavorare sul
sintomo specifico se la persona non
ha capito le ragioni per cui è stata indotta ad adottare uno stile alimentare
patologico.
Va anche sottolineato che la psicoterapia dei disturbi alimentari dura a
lungo e non ammette alcuna “scorciatoia”.
Gian Luigi Mansi
DA SAPERE
E I MASCHI?
Seppur raramente (dal 5 al 10% della
totalità dei casi) i disturbi alimentari
psicogeni possono colpire anche i
maschi. Essi sono meno sottoposti alla pressione sociale a esser magri:
uno studio che ha confrontato le dieci
riviste più lette dalla popolazione femminile con le dieci più lette da quella
maschile ha trovato un rapporto 10 a 1
per quanto riguarda il numero di articoli su diete e perdita di peso.
La sensazione, tuttavia, è che anche il
maschio sia sottoposto a una sempre
maggiore pressione sociale “dimagrante” che potrebbe portare nei
prossimi anni a un aumento dei casi di
disturbo alimentare.
Un altro fattore protettivo è la comparsa della maturazione sessuale, nei
maschi, mediamente due anni dopo le
ragazze: ciò li aiuta ad affrontare la
pubertà in maniera meno problematica.
Quando si evidenziano, i disturbi alimentari hanno nei maschi le stesse
caratteristiche cliniche di quelli femminili e richiedono uguali strategie terapeutiche.