Satira
La satira è tornata al centro dell’attenzione generale e della discussione dopo i tragici fatti di
Parigi. Ci si chiede se sia lecito esercitarla senza limiti, anche a costo di offendere sensibilità
diverse dalla nostra occidentale e suscitare reazioni violente e aberranti.
L’opinione pubblica si è divisa tra i sostenitori della libertà assoluta di espressione e quelli
che ritengono opportuno porre limiti alle manifestazioni che offendono convinzioni e
sensibilità più intime di chi, appartenendo ad altre tradizioni culturali, non ne comprende il
senso.
Porre limiti di legge alla libertà di espressione significa ipso facto negarla in toto, perché è
proprio della libertà l’essere incondizionata o di non essere. Una “libertà condizionata”
sarebbe solo la mascheratura di un potere censorio. Dunque la libertà di satira non può essere
messa in discussione o relativizzata.
Come genere letterario, la satira ha radici molto antiche nella nostra civiltà, accompagna e
scandisce la vicenda della lotta per la libertà di pensiero e di espressione. Essa, come dice il
famoso aforisma: “castigat ridendo mores” 1 . Ma non solo: prima ancora deriva
dall’incomprimibile bisogno dell’animo umano di guardare le cose da altri punti di vista
rispetto a quelli consueti, di ”rivoltare ogni medaglia”.
Il suo fine è scuotere lo spirito degli uomini dal torpore e dalla soggezione, combattendo il
conformismo di ogni genere. La sua arma è la caricatura e la dissacrazione. Il suo nemico
l’ipocrisia dei forti, il suo interlocutore la pigrizia dei deboli.
Come le persone, anche le idee, le convinzioni e le istituzioni mostrano “di che pasta sono
fatte” quando sono messe in situazioni estreme. Così, con le modalità che le sono proprie, la
satira sottopone tutto al suo “stress test”. Soprattutto ciò che si presenta come più certo ed
indiscutibile: il potere e la religione.
Per la sua radicalità la satira partecipa dello spirito della filosofia: entrambi non accettano
limitazioni, entrambe fanno girare idealmente come una trottola tra le loro mani qualsiasi
cosa, per esaminarla da ogni parte. Si incontrano nell’ironia, che è tanto modalità del dialogo
filosofico (socratico) quanto componente irrinunciabile della satira 2.
La differenza tra loro sta nelle modalità con cui attuano questo impegno: attraverso la
confutazione razionalmente argomentata dei pregiudizi comuni la filosofia; in modo intuitivo,
più immediato e popolare - con le immagini dissacratorie e le battute salaci - la satira. E poi la
loro differenza sta anche in questo: mentre la filosofia può giungere, dopo averlo posto
radicalmente in discussione, a consacrare l’esistente sulla base della scoperta della sua interna
“razionalità”, la satira resta sempre fieramente all’opposizione, contro il conformismo di ogni
genere. Così aiuta la mente umana a scrollarsi di dosso ogni soggezione, a liberarsi dalle
enfasi simboliche che la schiacciano, riportandola a quel “vuoto” iniziale a partire dal quale
essa ricostruisce liberamente il “suo mondo”.
Di contro ad essa sta lo spirito di soggezione, il sussiego davanti alle idee e ai simboli
comunemente accettati, lo spirito di accomodamento (la pigrizia) a cui gli uomini spesso
indulgono: tutto quanto costituisce la forza e la legittimazione del potere, in tutte le sue
molteplici e variegate manifestazioni. Il quale potere nasce inizialmente come risposta e
1
Contrariamente a quanto si possa supporre, il motto non ci proviene dall’antichità, ma la sua paternità è
dell’Abbé Jean de Santeul, vissuto nel secolo XVII.
2
Come dice Bergson: “umorismo e ironia sono due aspetti della satira” “Il riso, saggio sul significato del
comico” Ed. Bur Milano 1961 p.110: .
rimedio ad un’inadeguatezza, ad una impotenza umana, ma poi, una volta costituito, impone
ai suoi assoggettati - come direbbe Geremy Bentham - i suoi “sinistri interessi”, convincendo
i più per mezzo di sofismi ed artifici di ogni genere ad accettare che quelli particolari di chi lo
esercita siano considerati interessi di tutti.
L’arte di mascherare interessi particolari in modo che appaiano generali, della dissimulazione
e della simulazione, è indispensabile al potere. Si chiama ipocrisia. E’ divenuta sempre più
raffinata mano a mano che le masse umane negli ultimi secoli, per l’indubbio miglioramento
– almeno nella nostra parte del mondo - delle loro condizioni di vita e di istruzione, si
facevano un po’ più smaliziate e un po’ meno docili alle manipolazioni.
La filosofia e la satira – quando sono all’altezza del loro compito - svelano le macchinazioni
del potere, ma la loro è un’impresa titanica, perché la potenza manipolatoria di esso resta in
ogni caso sempre immensa – tanto quanto le debolezze degli uomini - e contro questa le loro
vittorie sono in ogni epoca difficili, rare e mai definitive.
In questi giorni – in seguito agli efferati attentati di Parigi – i rappresentanti del potere
ufficiale di gran parte del mondo hanno riaffermato solennemente marciando fianco a fianco
il principio della libertà di pensiero e di satira.
Dove sta in ciò l’ipocrisia? La prima risposta è facile: parecchi di loro non praticano
coerentemente questo principio. Nei paesi che governano perseguitano la libertà di pensiero e
schiacciano la satira.
Ma c’è anche un’ipocrisia più raffinata. Che non sta nella contraddizione tra parole e fatti,
bensì in quello che non si dice. E quello che non si è detto a Parigi è che chi esercita un
inalienabile diritto di libertà non è esentato dal rispondere riguardo a come lo pratica. Né chi
difende questo diritto dal giudicare nel merito di come è di volta in volta esercitato.
A ciò consegue che che, proprio in quanto difendiamo senza alcuna riserva il diritto di
Charlie Hebdò di fare la sua satira, non possiamo esimerci dal valutarla. Diciamo allora –
senza voler mancare in alcun modo di rispetto alle vittime o “coprire” minimamente
l’efferatezza dei loro assassini - che si tratta di una cattiva satira, non immune essa stessa da
ipocrisia (e tutto la satira può essere meno che ipocrita).
Ipocrita perché non smaschera un potere, né i vizi di individui o gruppi. Ma si rivolge contro
chi, come gli immigrati musulmani, nella società occidentale si trova in posizione di una
debolezza oggettiva, sociale e culturale, che spesso impone emarginazione e difficoltà perfino
a mantenere una propria identità davanti a se stessi.
Ancora, ipocrita perché non si preoccupa – nella misura in cui è ragionevolmente possibile
preoccuparsi - di non suscitare equivoci ed incomprensioni in chi appartiene a tradizioni
culturali diverse dalla nostra, ma anzi, agendo in modo che l’enormità dei suoi effetti faccia
aggio sulla qualità della provocazione che li ha generati.
Non essendo sincera, non dissacra: bestemmia. Non corregge suscitando il riso: offende.
E’ un dato inconfutabile che molti esseri umani – a qualsiasi civiltà appartengano, in qualsiasi
religione o filosofia s’identifichino - giacciono in un “sonno dogmatico”, accettando
passivamente i simboli e le certezze che gli vengono offerti piuttosto che intraprendere
autonomamente la libera costruzione dei loro convincimenti.
Il dogmatismo – va precisato - non è riconducibile di per sé ad una fede religiosa: la fede, un
supremo “affidarsi” ad una trascendenza, può essere l’esito a cui conduce una libera ricerca
portata avanti senza compromessi con tutte le proprie forze. Viceversa può essere dogmatica e
conformista una fiducia aprioristica nella propria autosufficienza. Il dogmatismo non sta in
ciò che si crede, ma in come si crede (o non si crede).
Ciò che conta è che ciascuno non si accontenti delle apparenze, ma ricerchi, indaghi oltre di
esse. Questa attività è l’essenza della libertà, la quale è certamente il bene supremo
dell’uomo, ma, come osserva Etienne de La Boétie: “è la sola cosa che gli uomini non
desiderano, visto che se la desiderassero la otterrebbero”3.
E tuttavia questa amara constatazione non può portare al disprezzo per gli uomini. E la satira
non può nascere da questo. Deve corrodere il potere, fustigare i prepotenti, correggere le
storture e risvegliare il popolo, non umiliare i deboli. Quando fa questo, tradisce se stessa.
La sua azione non ha effetti benefici: alimenta nei forti l’arroganza, nei deboli la frustrazione
impotente, da cui si generano il furore, il fanatismo e le farneticazioni che stanno alla base
delle pratiche sanguinarie del terrorismo, dietro le quali quasi sempre si celano oscuri
interessi.
L’invito di Spinoza a “non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere” di fronte alle
cose umane, è forse troppo restrittivo. Per “intelligere” bisogna forse prima aver riso e
pianto e poi aver stabilizzato con pazienza il proprio doloroso oscillare tra questi estremi. Ma
certo bisogna respingere il “detestari” , non proibirlo con leggi dello stato, perché, come dice
Hegel: “nessun popolo libero deve riconoscere un tribunale della coscienza morale” 4 .
Quell’intransigenza che si attiene esclusivamente al principio, e non si cura delle mediazioni
che esso necessita per non essere distruttivo o le concepisce solo come imposizione violenta,
come è accaduto con l’esportazione manu militari della democrazia da parte dell’Occidente.
Quel rigore che si appaga di se stesso, all’altezzoso “vigeat veritas et pereat mundus”
Mediare i principi non vuol dire relativizzarli, anzi. La relativizzazione, mettendo tutto sullo
stesso piano, rende vana ogni ricerca, distrugge quindi la radice stessa della libertà. Al
contrario, proprio l’amore per i principi tanto faticosamente conquistati deve spingere ad aver
cura che, mentre sono applicati, essi non subiscano distorsioni, e, fraintesi, la loro
applicazione non provochi disastri.
Ma l’ipocrisia non ha a cuore i principi che sbandiera. Li usa a suo vantaggio, li snatura e ne
impedisce di fatto l’universale comprensione. Se viene meno il senso dell’universalità dei
principi, diventa impossibile la benevolenza tra i diversi, si alimentano le divisioni e le
contrapposizioni. Il potere, allo scopo di confermare la sua indispensabilità, ha interesse a
seminare zizzania. La satira non può esserne complice.
Alberto Madricardo
3
4
“Discorso sulla servitù volontaria” Macerata, ed. Liberilibri 2004 p. 8.
“Lezioni di storia della filosofia”, Nuova Italia, Firenze 1964 vol. II p.108.