XXIX Convegno SISP Università della Calabria Arcavacata di Rende (Cosenza) 10 - 12 settembre 2015 Sezione 11: Metodologia della ricerca Chairs: Vincenzo Memoli, Michele Sapignoli Panel 11.3: Questioni di metodo. Tra scienza politica e filosofia politica Chair: Francesca Pasquali Il metodo del possibile. Realtà e immaginazione politica di Paola Russo 1. Sulla distinzione (certa?) tra scienza politica e filosofia politica In questo lavoro indago il rapporto tra scienza politica e filosofia politica e i rispettivi metodi. Norberto Bobbio non aveva dubbi circa la distinzione tra le due discipline sottolineandone i chiari punti di vista differenti. Infatti, la scienza politica è l’applicazione della metodologia delle scienze empiriche all’analisi del fenomeno politico «nei limiti del possibile, cioè nella misura in cui la materia lo permette»1. Bobbio così distingue la scienza politica come scienza empirica della politica dalla filosofia politica come studio orientato deontologicamente comprendente «le 1 N. BOBBIO, Scienza politica, in Dizionario politico, Utet, Torino 1983, II edizione riv., pp. 1020-1026, a p. 1021. 1 costruzioni razionali che hanno dato vita al filone delle ‘utopie’»2 e le «idealizzazioni o razionalizzazioni di un tipo di regime possibile»3. Nonostante questa classica distinzione che dovrebbe essere considerata un caposaldo, in quanto traccia i limiti della scienza politica e della filosofia politica, sostengo l’ipotesi che nell’età contemporanea le due discipline appaiono estremamente vicine tanto da sconfinare nei territori altrui e influenzarsi a vicenda. Infatti, si ritrova l’applicazione di un medesimo metodo di indagine nei discorsi politici. Questo è il metodo del possibile, ovvero l’abilità di formulare teorie politiche normative che potrebbero ispirare e guidare la realtà politica. Teorie che non descrivono la realtà così come è, ma dicono come potrebbe o dovrebbe essere la politica distanziandosi dall’approccio empirico che è il metodo conoscitivo della scienza politica. Se con il termine “realtà” si intende “ciò che vi è” e con il concetto di “possibile” ciò che non c’è ma che potrebbe o dovrebbe essere, si delineano due distinte prospettive di indagine scientifica: la prima ha come interesse specifico la descrizione e l’interpretazione dei fatti della politica; la seconda, al contrario, non mira alla descrizione, ma si orienta verso la formulazione di possibilità cioè di alternative politiche. Ciò che è possibile cioè diventa ciò che è politicamente desiderabile. Si stabilisce così uno stretto nesso tra politica e desiderio. Dunque, con il primo approccio ci si riferisce alla realtà che attiene alla scienza politica e, con il secondo, all’immaginazione che è propria della filosofia politica. L’immaginazione è una facoltà intellettuale propria dei pensatori politici moderni, che nella ricerca della legittimazione del potere, devono ricorrere allo strumento dell’immaginazione per motivare il consenso degli individui4. Il classico concetto di “stato di natura” e la riformulazione da parte del filosofo politico John Rawls della “posizione originaria” non possono pensarsi senza il ricorso all’immaginazione politica che diventa un metodo per fondare l’autorità politica. L’immaginazione politica rappresenta il metodo del possibile sotto due diversi aspetti: da un lato è utilizzato come mezzo di fondazione del potere politico originario cioè orientato a un passato mitico; dall’altro come capacità di proiezione su un futuro diverso dal presente. In quest’ultimo caso, l’immaginazione diventa il metodo proprio dell’utopia politica che accomuna Rawls e il filosofo politico Salvatore Veca. Alla filosofia politica spetta una vocazione normativa, intendendo con il termine “normatività” la ricerca di principi in grado di fondare le istituzioni politiche e sociali giacché anche nei discorsi utopici si 2 Ibidem. Ibidem. 4 G. FIASCHI, Il desiderio del Leviatano. Immaginazione e potere in Thomas Hobbes, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014, pp. 272-273. 3 2 tratta di giustificare l’autorità politica. Il metodo normativo è valutativo e come tale rigetta la metodologia causale e oggettiva della necessità. L’indagine sulla natura delle cose politiche e la ricerca del fondamento del politico mettono in luce la radice metafisica della filosofia politica, che all’interno della disciplina è stata messa in ombra. La cosa più interessante da notare è che il medesimo metodo si ritrova nelle riflessioni di alcuni scienziati politici. L’esempio a mio avviso più importante deriva dalle argomentazioni sulla natura dell’Unione Europea sostenute dal politologo contemporaneo Ian Manners. Questi rappresenta, a mio dire, l’esempio più visibile della complementarietà tra scienza politica e filosofia politica. In questo studio miro a dimostrare come il metodo del possibile appartenga a entrambe le discipline, ma ciò fa esplodere una serie di controversie metodologiche che rendono l’identità tra le due scienze abbastanza incerta. Le questioni di metodo sono questioni di identità. Infatti, ciò che è in gioco nel rapporto tra scienza politica e filosofia politica è appunto l’identità sostanziale delle due discipline che dovrebbero avere un metodo proprio e caratteristiche di indagine specifiche. La trascendenza dei confini tra le due è il sintomo, forse più evidente, della visione del mondo contemporanea che influenza anche il lavoro accademico: la concezione della postmodernità. L’incertezza, la liquidità e la frammentarietà della realtà portano anche alla dissoluzione dei confini certi e stabiliti tra le discipline accademiche 5. Parlare di metodo, in questo senso, potrebbe portare a una ridefinizione della pluralità dei metodi delle diverse discipline. Come in un sillogismo: se il metodo è il marchio dell’«io»6 e l’io è l’identità, allora il metodo è il marchio della disciplina. Ma se il metodo diventa incerto, anche i confini tra le discipline lo diventano. Forse per esplorare il rapporto fra scienza politica e filosofia politica sarebbe meglio ripensare alla questione metodologica e riflettere su quale sia il metodo adottato da scienziati politici e filosofi politici, per osservarne l’applicazione e comprenderne il senso. 2. come metodo del possibile L’utopia (in greco classico , letteralmente “non luogo”), si caratterizza come il “luogo” capace di esplorare lo spazio delle possibilità politiche: è il metodo dell’immaginazione politica che cerca di dire come potrebbero essere le istituzioni politiche e sociali, non come sono. Le utopie si presentano come originali proposte volte a immaginare la realtà in modo diverso. Le utopie 5 È forse per questo che molti filosofi postmoderni non credono nella possibilità di “intrappolare” i discorsi filosofici all’interno di metodi. Sul punto si può vedere G. VATTIMO E P. ROVATTI, Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 2010. 6 S. WEIL, Lezioni di filosofia 1933-1934, a cura di M.C. Sala, trad. di L. Nocentini, Adelphi, Milano 2004 3, p. 70. 3 rappresentano, in quanto teorie politiche normative, modelli che disegnano una società giusta o ben ordinata sia nella dimensione locale sia globale. La domanda metodologica dell’utopia politica è la seguente: quale potrebbe essere la società migliore? L’utopia politica, tuttavia, non è un concetto univoco: può essere interpretata sia in positivo sia in negativo. In quest’ultimo senso si possono leggere le riflessioni di Isaiah Berlin, Veca e Robert Nozick. Ne Il legno storto dell’umanità, Berlin propone capitoli della storia delle idee che hanno condotto alla catastrofe7. Oggetto dell’analisi del filosofo sono le idee utopistiche dell’Occidente. Il capitolo iniziale La ricerca dell’ideale e quello finale Il ramoscello incurvato rilevano il carattere dell’utopia che ha estremizzato i propri mali: da ricerca di ideale è degenerata trovando nel nazionalismo l’abito più idoneo. L’utopia, così, è l’estremizzazione di un valore che assume il carattere di assoluto: la società perfetta possiede una concezione monista del valore. Una società fondata su un unico valore è chiusa: statica, non dinamica, e in virtù di ciò rigida, non flessibile. Veca sintetizza i presupposti della società perfetta che sono la base del costruttivismo politico. Alle domande rilevanti, su ciò che ha valore e su chi noi siamo, corrispondono sempre risposte vere. Esiste una sorta di cofanetto che racchiude le risposte definitive in quanto vere. Tutte le risposte devono soddisfare l’esigenza della coerenza come se ci fosse la possibilità di individuare i nessi logici fra le risposte. Le condizioni della società perfetta hanno la seguente conseguenza: un tutto armonioso. Lo sfondo sul quale si innesta la perfezione è la certezza, un pauroso equilibrio, caratterizzato dallo sforzo di ridurre ai minimi termini l’incertezza fino a neutralizzarla. Berlin e Veca ritengono che non solo la società perfetta sia irrealizzabile, ma che essa generi un male peggiore di quello dal quale si cerca di tentare la fuga: «L’errore fatale delle utopie della società perfetta è stato ed è quello di progettare le istituzioni come dovrebbero essere per esseri umani come dovrebbero essere»8. Berlin, infatti, riconosce nelle teorie utopistiche l’esistenza di una meta da raggiungere che si identifica con la società perfetta. Gli uomini, per raggiungere tale meta, sono disposti a fare di tutto: ma raggiunto il traguardo, quale sarà la loro condizione? Saranno costretti a essere liberi e felici: mossi dall’aspirazione alla perfezione saranno sottomessi proprio da questa. Questi sono i risultati della politica assoluta. Ritengo che i temi affrontati da Berlin e Veca si possano accostare alle riflessioni di Robert Nozick. Il libertario distingue tre tipologie di utopia: imperialista, missionaria e esistenziale. I tre aggettivi che seguono il sostantivo utopia rivelano il carattere peculiare e differente delle posizioni 7 I. BERLIN, Il legno storto dell’umanità. Capitoli della storia delle idee [1959], a cura di H. Hardy, trad. di G. Ferrara degli Uberti, Adelphi, Milano 19962. 8 S. VECA, La penultima parola e altri enigmi. Questioni di filosofia, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 78-79. 4 utopistiche: l’utopia imperialista costringe gli individui a prendere parte a un modello di società che è imposto, non ragionevole; l’utopia missionaria differisce dalla prima, in quanto non obbliga gli individui a partecipare al modello di società proposto, ma cerca attraverso la persuasione di giungere a tale scopo; l’utopia esistenziale spera che un giorno possa esistere il modello di società prefigurato in modo che chiunque voglia possa entrarvi. Dopo tale partizione, Nozick muove delle critiche agli utopisti che sono le stesse che ho riscontrato sia in Berlin sia in Veca: «Gli utopisti vogliono rifare tutta la società secondo un piano particolareggiato, precostituito e che mai prima d’ora una società ha approssimato. Vedono come loro scopo una società perfetta; quindi la società che descrivono è statica e rigida, senza prospettive e senza opportunità di cambiare o di progredire, e senza opportunità per gli abitanti di scegliere da sé nuovi modelli»9. Il tratto distintivo delle utopie è quello della novità rispetto alle società esistenti. La novità non genera il senso della meraviglia, ma lo annulla perché priva l’uomo della propria umanità, considerandolo privo di motivi e interessi. Ai presupposti della società perfetta, Veca elabora le tre massime di saggezza politica: σωφροσύνη, la saggezza, si contrappone a ὕβϱις, la superbia. La prima massima riconosce che gli individui agiscono in uno spazio limitato: non tutto è possibile10. Nell’ambito della seconda massima Veca propone i termini di un’utopia ragionevole: «non si danno mondi sociali senza perdite in valori»11. La terza sancisce la libertà filosofica, lo spazio illimitato: «quasi tutto sarebbe potuto andare diversamente»12. L’espressione utopia ragionevole, che il filosofo utilizza volutamente per contrapporla a quella, per così dire, non ragionevole, è costruita sulla figura retorica dell’ossimoro: come può essere ragionevole un non luogo? L’utopia ragionevole non compie l’errore fatale delle utopie della società perfetta perché prefigura le istituzioni come dovrebbero essere per esseri umani come sono: la “soluzione” per non cadere nell’errore fatale risiede nell’equilibrio precario. Scrive Berlin: «La cosa migliore, come regola generale, è mantenere un equilibrio precario che impedisca il sorgere di situazioni disperate [..]. Una certa umiltà, in queste cose, è quanto mai necessaria»13. Il concetto di equilibrio precario diventa in Veca il punto di equilibrio instabile e provvisorio. Questo mi appare come l’ago di una bilancia che da un lato pesa gli interessi degli individui e le proprie motivazioni e dall’altro pesa gli interessi legittimi, in quanto riconosciuti, della collettività. L’equilibrio precario non solo garantisce la salvezza dalla catastrofe, ma è un esito necessario perché tale è lo sfondo sul quale si innesta l’imperfezione: 9 R. NOZICK, Anarchia Stato e Utopia [1974], trad. di E. Bona e G. Bona, Le Monnier, Firenze 1981, pp. 347-348. S. VECA, La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull’idea di giustizia, Feltrinelli, Milano 2002, p. 115. 11 Ibidem. 12 Ibidem. 13 BERLIN, Il legno storto dell’umanità, cit., pp. 39-40. 10 5 l’incertezza. Questa è frutto del mutamento che per Veca è sociale, non politico. Il mutamento sociale è la ragione profonda della tesi normativa del filosofo: la priorità della società sulla politica e non viceversa. Ciò indica che la politica deve muovere dalla società per essere giustificata. Quali i motivi della priorità? Ecco la risposta di Veca: «Le ragioni della politica consistono nell’offerta di risposte agli effetti del mutamento sociale»14. Se tutto muta, l’incertezza è capace di modificare il contesto nel quale operano le riflessioni su noi stessi e sul nostro vivere in un mondo con gli altri. Il luogo dell’utopia ragionevole è la possibilità, non la necessità e ciò non significa che non abbia vincoli, anzi, li afferma. Questa considerazione non costituisce il punto di scontro fra l’utopia ragionevole e il realismo politico: la differenza fra i due risiede nel termine ragionevole. Il realismo politico si caratterizza per un forte riduzionismo, che non permette di avanzare proposte entro l’ambito del possibile. L’utopia ragionevole, invece, si esprime nell’esplorazione sempre nuova di modi diversi di pensare alle cose della vita: «Vogliamo continuare a poter guardare le cose in modi alternativi che ci connettano al valore»15. Il connettersi al valore indica che il duplice ordine di giustificazione (personale-impersonale) deve essere compreso nella moralità e ciò sancisce il primato della giustificazione morale nella teoria politica, elemento che accomuna Veca con Rawls. Penso che l’utopia ragionevole di Veca si possa accostare concettualmente all’utopia realistica di Rawls. Il filosofo americano riassume bene le due condizioni necessarie affinché una concezione liberale di giustizia sia realistica: «La prima è che deve fare assegnamento sulle leggi naturali effettive e conseguire il genere di stabilità che quelle leggi permettono, ossia una stabilità per ragioni giuste. La giustizia considera le persone come sono (sulla base delle leggi naturali) e le leggi costituzionali e civili come potrebbero essere in una società democratica giusta e bene ordinata»16. Le due condizioni costituiscono una continuità con l’utopia ragionevole di Veca: l’anello di congiunzione si ritrova nel possibile. L’utopia realistica si avvale dell’immaginazione politica per cercare di elaborare idee diverse e preservare alcuni valori politici fondamentali. Il suo oggetto è il migliore di tutti i mondi possibili17. Oggi più che mai, avvolti da una realtà che è in crisi, c’è bisogno di immaginazione politica. Infatti, come scrive Veca: «Per lo più, sotto il dominio della falsa necessità, grandi risorse intellettuali sono impiegate nella ricerca di mezzi per uscire dal tunnel. Ma scarsi sono gli 14 VECA, La bellezza e gli oppressi, cit., p. 90. Ivi, p. 121. 16 J RAWLS, Il diritto dei popoli [1999], trad. di G. Ferranti e P. Palminiello, Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 17. 17 S. VECA, “Non c’è alternativa” (Falso!), Laterza, Roma-Bari 2014, p. 86. 15 6 investimenti intellettuali che mettano a fuoco lo spazio dei fini» 18. Questo, invece, può essere scoperto entro lo spazio pubblico che è «il cantiere sempre aperto della diversità, degli esperimenti di vita e delle differenti mobilitazioni cognitive. La cornice di una varietà di mondi possibili alternativi»19. 3. Il disaccordo metafisico tra gli scienziati politici (loro malgrado) La filosofia politica non si caratterizza solo per aver dato spazio ai discorsi utopici che trovano luogo nelle teorie politiche normative, ma anche per l’analisi sulla natura dei concetti politici, del fondamento del politico e dell’autorità. Interrogarsi sulla natura degli enti politici è un aspetto che è stato trascurato e messo in ombra da parte della filosofia politica. Si tratta della questione ontometafisica che punta sull’indagine della vera essenza realtà politica piuttosto che sull’aspetto normativo proprio delle teorie politiche. La questione metafisica così ha una vocazione descrittiva volta alla comprensione. Tuttavia, sganciare tale questione dall’aspetto normativo, come si vedrà, non è così scontato. Seguendo Achille Varzi, la filosofia analitica suole distinguere l’ontologia dalla metafisica20. La prima «si occuperebbe di stabilire che cosa c’è (l’an sit di Tommaso D’Aquino), ovvero di redigere quello che chiamate il «catalogo» di tutto l’esistente, mentre la metafisica si occuperebbe di stabilire che cos’è quello che c’è (il suo quid sit), ovvero di specificare la natura degli articoli inclusi nel catalogo»21. Dunque, l’ontologia è lo studio conoscitivo dell’ente, di ciò che vi è. La sua domanda metodologica è: cosa esiste?; la metafisica è, invece, l’indagine sull’essenza di ciò che esiste. La distinzione tra ontologia e metafisica precisata da Varzi deriva da D’Aquino che nella Summa Theologiae si chiede se Dio esista (an sit Deus) e chi o cosa sia (quid sit Deus). Specificare la natura di qualcosa vuol dire interrogarsi sul suo fondamento: è appunto un dilemma fondazionale. Non ritengo sia errato sostenere che la domanda che cosa è rappresenti una domanda di metafisica piuttosto che di ontologia, che ha radici lontane nel pensiero filosofico. Si tratta, infatti, dell’interrogativo non solo di D’Aquino ma prima di tutto di Socrate che si chiede (che cos’è), domanda che mira a cercare l’essenza di un concetto cioè la natura universale di una idea o di un oggetto, nonostante gli accidenti che mutano nel tempo. 18 e il quid est S. VECA, L’immaginazione filosofica e altri saggi, Feltrinelli, Milano 2012, p. 9. VECA, Non c’è alternativa (Falso!), cit., p. 89. 20 La distinzione tra ontologia e metafisica è tradizionalmente marcata, ma come scrive Varzi «Oggi devo riconoscere che il quadro è meno semplice di quanto si possa pensare» (A.C. VARZI, Sul confine tra ontologia e metafisica, in Giornale di Metafisica, 29 (2007), pp. 285-303, a p. 285). Qui non mi dilungo su questi dilemmi e do per assodata la distinzione che scrivo nel prosieguo del lavoro. 21 A.C. VARZI, Il mondo messo a fuoco. Storie di allucinazioni e miopie filosofiche, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 135. 19 7 mirano a superare il relativismo delle opinioni per giungere a un significato stabile e condiviso da tutti attorno a ciò di cui si sta parlando: una definizione universale di qualcosa che ne specifica la vera essenza (la quiddità). Il metodo socratico può riguardare la ricerca di una definizione universale di concetti come la giustizia, il bene, la virtù, cercando in essi l’in sé. Tale ricerca è svolta attraverso il metodo del dialogo che è un ragionare insieme per esaminare le caratteristiche particolari e contingenti e dedurre da essi, trascendendoli, la definizione esatta e valida per tutti di qualcosa, frutto di un accordo razionale tramite ragionamento, che mette in luce la vera essenza dell’oggetto di cui si discute. La domanda socratica, interpretata alla luce delle parole di Varzi, contiene i germi del procedimento induttivo e delle categorie logiche e metafisiche perché il processo definitorio mira a giungere alla verità condivisa universalmente. Ontologia e metafisica possono anche essere interpretate alla luce del punto di vista della filosofia politica. L’esistente e l’essenza di ciò che esiste si possono riferire agli oggetti sociali e politici anziché, per esempio, a entità di altro tipo. La particolarità del rapporto tra ontologia e metafisica consiste nella possibilità di raggiungere un accordo ontologico su qualcosa ma a questo non segue necessariamente un corrispondente accordo metafisico22. In altre parole, è possibile convenire sull’esistenza di un determinato oggetto sociale e politico, ma non trovare un’altrettanta convergenza sul , giacché questa domanda mette a confronto una serie di dilemmi su visioni del mondo alternative e contrastanti attorno ad un medesimo oggetto. La questione metafisica crea, quindi, conflitti ed è per questo che è estremamente interessante per la filosofia politica. All’interno della scienza politica vi è un forte dibattito tra gli scienziati politici per stabilire la natura e la definizione dell’UE. Questi studiosi, a mio avviso, si pongono un quesito di metafisica senza rendersene conto ossia il seguente: che cosa è l’Unione Europea? Il quesito corrisponde al di Socrate. La domanda implicita in seno al dibattito è un dilemma, dunque, di metafisica che ha come oggetto un’entità politica determinata: l’Unione Europea. Se la metafisica indaga l’essenza di un concetto o di un ente, ne indaga la ragione ultima, ma anche l’identità. Quest’ultima è ciò che rimane stabile al mutare delle proprietà contingenti e accidentali. Il problema dell’identità è riconducibile alla definizione unitaria e sostantiva. L’identità è l’essenza universale: ciò che fa sì che una cosa sia univocamente e sempre quella cosa e non un’altra. La questione categoriale fa riferimento al dilemma originario della filosofia dai presocratici in poi: come ricondurre la molteplicità all’uno, cioè come scoprire il comune denominatore della molteplicità. Nel discorso in questione è in gioco la radice unitaria dell’UE. Avanzo quindi l’ipotesi che molti scienziati politici 22 Ivi, p. 27. 8 recuperino la radice metafisica della filosofia politica adombrata dalla stessa disciplina, indagando la natura di un ente politico preciso (l’UE) e così facendo diventano – li chiamo così – metafisici della politica. La ricerca sulla natura dell’UE è un’indagine sull’identità politica di questo oggetto. Infatti, tutti possiamo avere un accordo ontologico sull’UE perché convergiamo sulla sua esistenza (di fatto esiste23), ma possiamo divergere sulle concezioni metafisiche giacché si risponde in modo diverso alla domanda di metafisica. Non si trova cioè un accordo metafisico. Infatti, il dibattito tra gli scienziati politici è animato da un disaccordo metafisico che vede la divergenza tra le definizioni dell’UE24. Il punto sta nel guardare il medesimo dibattito e pensarlo in modo diverso. Numerose sono le definizioni offerte dagli scienziati politici sulla natura dell’UE. Qui ne metto in evidenza alcune e nel prossimo paragrafo mi concentro su una in particolare. Nel 1990 David Allen e Michael Smith si interrogavano sull’essenza dell’UE, provando a dimostrare che questo ente non è un attore statale né un fenomeno indipendente nell’arena internazionale, ma va visto nei termini di una «variable and multi-dimensional presence, which plays an active role in some areas of international interaction and a less active one in others»25. Il concetto di EU come presence si riferisce alla possibilità di influenzare le azioni e le aspettative dei partecipanti all’arena internazionale26. Tale concetto è associato all’esistenza di tangible institutions, ma può essere espresso in essentially intangible ways27. In particolare l’UE come presence è definita da una combinazioni di fattori che si collocano lungo la linea delle dimensioni del tangibile e del non tangibile: «credentials and legitimacy, the capacity to act and mobilize resources, the place it occupies in the perceptions and expectations of policy makers»28. Proprio per questo, tale definizione della natura dell’UE, mette in discussione il concetto di UE come actorness, cioè la qualità propria di questo ente di azioni e comportamenti deliberati e attivi nei confronti degli 23 L’ontologia precede in qualche modo la metafisica giacché le cose anzitutto debbono esistere e poi possiamo dire che cosa esse siano: «Personalmente ritengo che l’idea secondo la quale l’ontologia costituisce una sorta di capitolo preliminare della metafisica non sia sbagliata. Effettivamente è in questi termini che molti filosofi, soprattutto di orientamento analitico, intendono il nesso: la prima ci dice se esistono certe entità, la seconda ne specifica la natura» (A.C. VARZI, Ontologia, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 8). 24 Va precisato che non tutte le richieste di definizione di qualcosa corrispondono a domande di metafisica. Tuttavia, l’oggetto in discussione (l’UE) è difficile da definire perché, si suole dire, è un ente politico sui generis. Non è infatti né un’organizzazione intergovernativa né uno stato federale. Si cerca allora di meglio comprendere la sostanza di questo ente e la mancanza di una definizione accettata universalmente da tutti è il segno evidente di quanto l’interrogativo socratico crei conflitti e disaccordi. 25 D. ALLEN-M. SMITH, Western Europe’s presence in the contemporary international arena, in Review of International Studies, 16:1 (1990), pp. 19-37, a p. 20. 26 Ivi, p. 21. 27 Ibidem. 28 Ibidem. 9 altri attori internazionali29. Il disaccordo metafisico tra gli scienziati politici nel tempo si è sviluppato puntando sugli aggettivi che qualificano il potere dell’UE. La molteplicità degli aggettivi utilizzati dagli studiosi segna la loro diversa concezione sulla natura onto-metafisica dell’UE. Qui ne metto in evidenza solo alcuni: l’UE come civilian power, force for good, post-colonial. Negli anni Settanta, François Duchêne definisce l’UE nei termini di civilian power in quanto ente che non usa il potere militare (c.d. hard power)30. L’UE è una potenza civile che ha radici storiche e politiche: tale definizione non vede questo ente dotato tanto di regole comuni e istituzioni ma lo considera dotato di mezzi diplomatici ed economici anziché militari in grado di portare stabilità e sicurezza. Nel 2008, Barbé e Johansson-Nogués definiscono l’UE come force for good. Unendo l’etica al potere, i due autori ritengono che ciò si sostanzierebbe nella politica europea di vicinato, generando pace, sicurezza e benessere per tutti31. Nel 2013, Fisher Onar e Nicolaïdis definiscono l’essenza dell’UE come potere post-colonial32. Cosa vuol dire ciò? «Post-coloniality clearly refers to transcending an imperialist past not just coming after […], but the question is whether this can become an institutionalized exercise rather than simply an intersubjective life experience. What does this imply? Practically, decentring can mean many things and be pursued at several levels. This includes emphasizing co-development including in the management of movement of people and circular migration, ownership including of so-called conditions for access to the EU, or the decentralization of decision making away from Brussels in delegation with local partners»33. Come si vede il disaccordo metafisico tra gli scienziati politici sulla natura dell’UE è aperto come tutti i genuini problemi di filosofia. In molti casi, gli studiosi si allontanano dall’approccio empirico sottolineato da Bobbio all’inizio di questo paper. Le definizioni sull’UE, spesso, corrispondono a come gli studiosi vorrebbero che fosse l’UE. 29 G. SJÖSTEDT, The external role of the European Community, Saxon House, Farnborough 1977. F. DUCHÊNE, Europe’s role in world peace, in R. MAYNE (ed.) Europe tomorrow: sixteen Europeans look ahead, Fontana, London 1972. 31 E. BARBÉ, JOHANSSON-NOGUÉS, The EU as a modest ‘force for good’: the European Neighbourhood Policy, in International Affairs, 84:1 (2008), pp. 81–96. 32 N. FISHER ONAR, K. NICOLAÏDIS, The decentring agenda: Europe as a post-colonial power, in Cooperation and Conflict, 48 (2013), pp. 283-303. 33 Ivi, pp. 293-294. 30 10 4. Ian Manners: come uno scienziato politico può diventare filosofo politico Alla luce di questo discorso, mi accingo a riflettere più da vicino sulla posizione metodologica di Manners. Il politologo inglese è famoso per aver elaborato nel 2002 il concetto di Normative Power Europe34. La sua ricerca da quell’anno a oggi si è mossa verso l’indagine riguardante la definizione dell’Unione Europea. I suoi studi sono stati criticati da parte degli esponenti della scienza politica, ma qui il mio intento non è indagare la portata delle analisi critiche, ma di guardare Manners da un punto di vista differente: lo sguardo della filosofia. La definizione di UE come potere normativo è la risposta metafisica dello scienziato politico alla domanda socratica (che cosa è l’UE?). Tuttavia, il metodo di Manners, a mio parere, si distanzia da quello induttivo socratico. Secondo la visione metafisica di Manners, l’UE è una potenza normativa cioè un ente politico promotore di norme [promoter of norms]35 capace di estendere norme e principi universali nelle relazioni con i paesi terzi36. Il potere normativo definisce la specificità e l’unicità dell’UE rispetto alle categorie politologiche tradizionali. La definizione dello scienziato politico mira, dunque, a precisare l’identità politica e internazionale dell’UE: la sua essenza. La dimensione normativa dell’UE poiché è identitaria non riguarda «what it does or what it says, but what it is» 37. Manners sostiene che il potere normativo non ha a che fare con indagini empiriche sulle politiche dell’UE: non si tratta, quindi, di descrivere e spiegare la politica dell’UE, indagine invero prettamente attinente alla scienza politica o alla teoria politica. Se la dimensione empirica è tralasciata dalla definizione di normative power Europe, la realtà è negata? Se la realtà è ciò che vi è e l’empirico è il reale, allora su quale piano si trova la dimensione normativa? Ponendo, a mia volta, una domanda di metafisica mi chiedo: che cosa è il normative power Europe? Manners propone interessanti quanto controverse argomentazioni. L’UE come potere normativo è l’abilità di «shape conceptions of ‘normal’ in international relations»38. Le basi normative dell’UE che, ad avviso di Manners, fondano l’ente politico (è appunto il fondamento ciò che è al centro della discussione), sono specificate da cinque core norms: 34 I. MANNERS, Normative Power Europe: a contradiction in terms?, in JCMS, 40:2 (2002), pp. 235-258. MANNERS, Normative Power Europe: a contradiction in terms?, cit., p. 236. 36 Preciso che il termine “normativo” può avere molteplici significati al variare della disciplina di riferimento. Non è, dunque, solo una nozione che si riscontra in modo esclusivo in filosofia politica. Manners intende il normativo, almeno in questa interpretazione originaria, come sinonimo delle norme giuridiche dell’UE e dei principi legali che sono sottesi a tali leggi. 37 MANNERS, Normative Power Europe: a contradiction in terms?, cit., p. 252. 38 Ivi, p. 239. 35 11 pace, libertà, democrazia, lo stato di diritto, il rispetto dei diritti umani e delle altre libertà fondamentali. Queste norme costituiscono l’essenza dell’UE. A queste cinque norme si aggiungono quattro norme minori: la solidarietà sociale, l’anti-discriminazione, lo sviluppo sostenibile e la good governance. Le basi dell’UE non rendono ancora l’ente in questione, dotato di potere normativo. Infatti, «so we need to ask how EU norms are diffused»39. Se bisogna vedere come le norme sono diffuse, allora occorre vedere cosa l’UE fa (does!)? E se sì, la diffusione è un’azione empirica? Così, la diffusione delle norme ci dovrebbe dire non cosa l’UE è (piano metafisico), ma cosa l’UE fa (piano empirico) per diffondere ciò che è. Da questo punto di vista Manners adopererebbe un metodo deduttivo poiché muove dall’universale (regole a priori) per giungere al particolare. Quest’ambiguità concettuale (is or does?) è molto forte negli scritti di Manners. Infatti, altrove, afferma che il potere normativo «aims to contribute to a better understanding of what principles the EU promotes, how the EU acts, and what impact the EU has by attempting both to analyse and to judge the EU’s normative power in world politics»40. Così sembra che essere e dover essere coincidano nella nozione di normative power. Vi sono sei modi per diffondere le norme poc’anzi menzionate. Il contagio è «the diffusion of norms results from the unintentional diffusion of ideas from the EU to other political actors»41. La diffusione di informazioni è «the result of the range of strategic communications, such as new policy initiatives by the EU, and declaratory communications, such as initiatives from the presidency of the EU or the president of the Commission»42. La diffusione procedurale «involves the institutionalization of a relationship between the EU and a third party, such as an inter-regional co-operation agreement, membership of an international organization or enlargement of the EU itself»43. Il trasferimento è «the diffusion takes place when the EU exchanges goods, trade, aid or technical assistance with third parties through largely substantive or financial means»44. La diffusione aperta «occurs as a result of the physical presence of the EU in third states and international organizations»45. Infine, il filtro culturale «affects the impact of international norms and political learning in third states and organizations leading to learning, adaptation or rejection of norms»46. 39 Ivi, p. 244. I. MANNERS, The normative ethics of the European Union, in International Affairs, 84: I (2008), pp. 65-80, p. 66. 41 MANNERS, Normative Power Europe: a contradiction in terms?, cit., p. 244. 42 Ibidem. 43 Ibidem. 44 Ivi, p. 245. 45 Ibidem. 46 Ibidem. 40 12 Richiamandosi alla distinzione operata nel 1986 da Raymond Aron 47, Manners distingue tra il concetto di puissance, the potential to do something e la nozione di pouvoir, the act of doing something48. È la medesima distinzione che si trova anche in Aristotele tra potenza e atto: il potere normativo può essere concettualizzato come atto (pouvoir) grazie alle sei norme di diffusione che rappresentano la compiuta attuazione delle potenzialità o possibilità del potere normativo. Se così non fosse, esso rimarrebbe solo potenza (puissance). L’essenza del potere normativo dell’UE corrisponderebbe all’atto di Aristotele: l’ Come si vede è metodologicamente complesso inquadrare il concetto di potere normativo dell’UE guardando solo alla scienza politica e forse è anche per questo che il concetto di Manners ha ricevuto molto critiche da parte degli scienziati politici. In realtà, indagando il medesimo concetto dal punto di vista filosofico-politico, esso assume la sua reale dimensione e il suo luogo appropriato. Il punto, però è che Manners è uno scienziato politico. Se non lo è, chi è? Può uno scienziato politico diventare un metafisico della politica? È uno scienziato politico o un filosofo politico? Quale tipo di metodo adotta? A mio avviso, è davvero difficile sostenere che Manners sia uno scienziato politico che utilizzi un metodo proprio della scienza politica. Il metodo che utilizza Manners per indagare l’UE è anzitutto metafisico (o onto-metafisico). Ho cercato di mostrare che ci si trova davanti ad un filosofo politico che ha recuperato la radice metafisica adombrata dalla stessa filosofia politica e forse non è il solo, come visto nel paragrafo precedente. Thomas Diez si pone lo stesso dilemma definitorio socratico. Anch’egli s’interroga sulla natura dell’UE e, infatti, la definisce secondo i termini gramsciani di egemonia49 e non di potere normativo. Ma Manners e Diez sono due scienziati politici che divergono sulla natura metafisica dell’UE, mostrando quanto sia difficile trovare un accordo metafisico su tale ente politico. Tuttavia, dal punto di visto metodologico sono estremamente vicini: entrambi si pongono il problema del . 5. Quale senso dare al metodo? Manners non solo recupera la radice metafisica della filosofia politica, ma spesso sembra utilizzare il metodo dell’immaginazione politica indagato nel paragrafo secondo di questo lavoro. Infatti, egli sostiene che non solo il potere normativo è la definizione dell’UE e il suo scopo ultimo 47 R. ARON, Macht, power, puissance: democratic prose or demoniacal poetry?, in S. LUKES (ed.) Power, New York University Press, New York 1986, pp. 253–277. 48 I. MANNERS, Assessing the decennial, reassessing the global: understanding European Union normative power in global politics, in Cooperation and Conflict, 47:2 (2013), pp. 304-329, a p. 308. 49 T. DIEZ, Normative Power as hegemony, in Cooperation and Conflict, 48:2 (2013), pp. 194-210. 13 ma è anche ciò che dovrebbe fare l’UE. Nelle sue parole: «the EU should act to extend its norms into the international system»50. La mia attenzione è stata subito catturata dal verbo al condizionale: should. Infatti, se il potere normativo ci dice cosa l’UE dovrebbe fare, allora è inequivocabilmente un concetto di filosofia politica, giacché mira alla valutazione dell’ente politico: qui si intravede il senso del termine “normativo” proprio della filosofia politica51. Ciò che dovrebbe fare significa anche ciò che è giusto fare: la concezione di Manners è in sintonia con l’etica normativa tipica della filosofia politica. La capacità inoltre di estendere le norme dell’UE, ci spinge a cercare la radice universalistica tipica delle teorie normative globali che sono sempre disegni utopici e quindi possibili. Manners, infatti, scrive: «The NP approach emphasises the cosmopolitan nature of EU normative power, in particular through a ‘commitment to placing universal norms and principles at the centre of its relations with the its member states and the world’»52. Ma è davvero così? Il condizionale usato poc’anzi dallo scienziato politico sottolinea il gap tra essere e dover essere, tra l’esperienza reale e la norma deontologica. Nella realtà l’UE non si comporta da potere normativo, ma dovrebbe farlo perché questa è la sua natura. Ecco però che il divario tra realtà e immaginazione politica sfocia in una tragica tensione53. Il potere normativo dell’UE è vero cioè reale? Il vero, infatti, è reale in quanto si accorda con la realtà. Se non vi è questa corrispondenza allora va ridefinito giacché un concetto vero si può misurare sulla base della conformità al reale. Ma ciò non si riscontra quando si parla di potere normativo dell’UE. Allora tale concetto non è reale ma non è neanche falso: è semplicemente utopico. Il suo piano è il politicamente possibile: questo è il desiderio di Manners. Questa è la sua utopia. È appunto di utopia politica ciò di cui si sta parlando: un’utopia immaginata, ma non realizzata. Si tratta di un’utopia perfetta o ragionevole? Significative sono le parole critiche della scienziata politica Helene Sjursen riguardo al potere normativo dell’UE: «Yet, how, if at all, can we know, as it is implied, that ‘acting in a normative way’ is a ‘good thing’?»54. Nonostante questa acuta osservazione che separa il νόμος, (inteso nell’accezione di legge) dalla δίκη (la giustizia) in quanto ciò che è lecito non corrisponde sempre a ciò che è giusto, il metodo del possibile resta la 50 MANNERS, Normative Power Europe: a contradiction in Terms?, cit., p. 252. Eclatante resta l’approccio normativo di Glyn Morgan che considera l’UE come dovrebbe essere: cioè una democrazia deliberativa o una superpotenza che ricava la sua forza dall’etica normativa di Una teoria della giustizia di Rawls (G. MORGAN, The idea of European superstate, Princeton University Press, Princeton 2005). 52 I. MANNERS, The European Union as a normative power: a response to Thomas Diez, in Millennium Journal of International Studies, 35:1 (2006), pp. 167-180, a p. 176. 53 Su questo divario che per lo più è visto come pura retorica, si può vedere C. HILL, The capability-expectations gap, or conceptualizing Europe’s international role, in Journal of Common Market Studies, 31:3 (1993), pp. 305- 328. 54 H. SJURSEN, The EU as a ‘normative’ power: how can this be?, in Journal of European Public Policy, 13:2 (2006), pp. 235-251, a p. 236. 51 14 chiave di volta per comprendere in modo diverso il rapporto tra scienza politica e filosofia politica. Tale metodo non può certo essere generalizzabile, ma mette in dubbio la distinzione certa e stabile tra le due discipline. L’ovvio e lo scontato vanno, dunque, interrogati ed esaminati di nuovo. Quando uno scienziato politico diventa filosofo politico, si pone una spinosa questione metodologica tra le due discipline e le domande che infine mi sorgono, sono le seguenti: «how are we going to know?»55 Quale metodo utilizzare? Esiste ancora un metodo? Quale senso ha il metodo? I metodi definiti una volta per tutte possono bastare per comprendere la natura di una disciplina? La liquidità tipica della condizione postmoderna influisce sui metodi delle rispettive discipline? I quesiti sul metodo restano pur sempre interrogativi identitari e come tali vanno affrontati, per evitare l’indifferenza che è mancanza di distinzioni. 55 I. MANNERS, Another Europe is possible: critical perspectives on European Union politics, in K. E. JØRGENSEN, M. POLLACK, AND B. ROSAMOND (eds.), Handbook of European Union politics, Sage, London 2007, pp. 77-95, a p. 77. 15 Bibliografia ALLEN, D., AND SMITH, M., Western Europe’s presence in the contemporary international arena, in Review in International Studies, 16: 1 (1990), pp. 19-37. ARON, R., Macht, power, puissance: democratic prose or demoniacal poetry?, in S. LUKES (ed.) Power, New York University Press, New York 1986, pp. 253–277. BARBÉ, E., AND JOHANSSON-NOGUÉS, E., The EU as a modest ‘force for good’: the European Neighbourhood Policy, in International Affairs, 84: Issue 1 (2008), pp. 81–96. BERLIN, I., Il legno storto dell’umanità. Capitoli della storia delle idee [1959], a cura di H. Hardy, trad. di G. Ferrara degli Uberti, Adelphi, Milano 19962. BOBBIO, N., Scienza politica, in Dizionario politico, Utet, Torino 1983, II edizione riv., pp. 10201026. DIEZ, T., Normative Power as hegemony, in Cooperation and Conflict, 48: 2 (2013), pp. 194-210. DUCHÊNE, F., Europe’s role in world peace, in R. 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