INTRODUZIONE ALLA CRITICA DELLA RAGION PURA (1.2) di Giuseppe Rinaldi La Critica della Ragion Pura (1781) è la principale opera kantiana riguardante la filosofia della conoscenza. In essa Kant ha tentato andare oltre alla tradizionale contrapposizione tra empirismo e razionalismo che aveva animato il dibattito epistemologico dei secoli precedenti. Kant andrà alla ricerca di una terza via capace di comporre le divergenze tra le due correnti e di fondare in maniera unitaria il complesso della conoscenza. In ossequio all’impostazione “criticista” tenterà di esplorare le possibilità e i limiti della conoscenza umana. Il panorama epistemologico e culturale ai tempi di Kant Kant ha preso le mosse dai problemi della filosofia della conoscenza del suo tempo. Occorre anzitutto avere ben presente il fatto che, ai tempi di Kant, non era ancora stata guadagnata la distinzione - a noi oggi piuttosto familiare - tra scienza e filosofia1. Gli scienziati venivano spesso chiamati filosofi (Newton, ad esempio, si considerava un “filosofo naturale”); i filosofi a loro volta si occupavano normalmente di questioni che oggi considereremmo prettamente scientifiche (Kant, ad esempio, si è occupato di astronomia e di geografia). Ai tempi di Kant, sotto la comune etichetta di “conoscenza” venivano collocate sia la nuova scienza della natura (quella che aveva preso le mosse da Galileo e da Newton) sia la metafisica (che, per quel che concerne la conoscenza, si occupava dei fondamenti ultimi). La “filosofia naturale”, ovvero la scienza della natura, aveva compiuto degli straordinari progressi ed aveva ottenuto una serie di risultati che apparivano robusti e indubitabili. D’altro canto, la metafisica, erede degli schemi intellettuali e delle problematiche del passato, erede soprattutto della scolastica medievale, faticava a tenere il passo con le nuove scoperte e cercava piuttosto affannosamente di aggiornare le proprie prospettive, salvaguardando tuttavia il proprio legame con la tradizione. Chi avesse voluto occuparsi proficuamente di filosofia della conoscenza avrebbe dovuto dunque compiere un’analisi critica dei fondamenti sia della “filosofia naturale” che della metafisica. Occuparsi di filosofia della conoscenza significava dunque scuotere l’intero edificio della riflessione filosofica. I difficili rapporti tra metafisica e filosofia naturale Metafisica e filosofia naturale erano tuttavia piuttosto antitetici e difficili da conciliare. La filosofia naturale sembrava capace di promuovere un sapere sicuro, solidamente fondato, in continuo progresso; la metafisica invece assomigliava sempre più ad un complesso di grandi pretese (di fornire una visione globale e complessiva del mondo, di andare oltre l’esperienza, di dimostrare verità come l’immortalità dell’anima o l’esistenza di Dio) cui venivano date soluzioni dogmatiche, tra loro assai variegate e contraddittorie, tanto da produrre contese infinite. E’ chiaro, in una simile situazione, che la filosofia naturale minacciava costantemente la metafisica, minacciava di scardinare, con le sue nuove scoperte, i fondamenti più profondi delle visioni del mondo che si erano via via succedute. La metafisica d’altro canto si sentiva minacciata, anche perché essa veniva abbondantemente utilizzata per sostenere la validità delle religioni positive, per sostenere i fondamenti del potere nelle varie società: in sostanza la metafisica era una filosofia d’ordine che spesso si prestava a garantire gli assetti culturali, politici, sociali, religiosi delle varie società dell’epoca. La critica contro la metafisica rappresentava anche una critica contro il vecchio ordine che – soprattutto nella seconda metà del settecento - cominciava a essere messo in discussione (la Rivoluzione francese era alle porte). 1 Il problema della distinzione tra scienza e filosofia è noto come problema della demarcazione. Empirismo e razionalismo tra Seicento e Settecento Tra Seicento e Settecento, nel campo della filosofia della conoscenza si erano fronteggiati due principali indirizzi, eredi delle tradizioni filosofiche precedenti. I due indirizzi sono il razionalismo (erede della posizione realistica nell’ambito della controversia sugli universali) e l’empirismo (erede del nominalismo). Mentre il razionalismo mostrava una maggiore apertura alla metafisica (Cartesio, ad esempio), l’empirismo assumeva spesso posizioni antimetafisiche (come in Guglielmo di Ockham, Hobbes, Locke, Hume). Nel panorama europeo, la corrente filosofica che, più di ogni altra, aveva tratto le debite conseguenze dai progressi della “filosofia naturale” era stato l’empirismo inglese. Locke, ad esempio, aveva conosciuto Newton e aveva dibattuto con lui i risultati delle sue ricerche. Ma il filosofo che aveva saputo trarre le ultime conseguenze dai progressi della filosofia naturale era stato Hume. La critica di Hume nei confronti dei presupposti fondamentali della metafisica tradizionale era stata profonda e distruttiva (in questo senso Hume ha rappresentato lo sviluppo più maturo e consapevole dell’empirismo inglese). Hume nei Saggi filosofici sull’intelletto umano (1748) e nelle Ricerche sull’intelletto umano (1758) aveva sostenuto, con argomentazioni spesso ingegnose e persuasive, dottrine che ai metafisici dell’epoca dovevano apparire piuttosto sconcertanti2: - non esistono sostanze (come aveva invece ritenuto Cartesio); - non esistono idee innate e tutte le nostre conoscenze ci provengono attraverso i sensi; - le idee sono dei costrutti convenzionali della nostra mente; - la conoscenza che abbiamo della nostra esperienza è generata in toto dalla nostra attività sensoriale; - la matematica è un costrutto convenzionale (e, in aggiunta, non è detto che la natura abbia una sua propria intima struttura matematica); - le relazioni di causa ed effetto (su cui si basavano tutte le nuove leggi della “filosofia naturale”) avevano una validità solo a – posteriori, non potevano dunque legittimamente essere generalizzate e usate per previsioni certe, universali e necessarie; - l’Io (il soggetto) in realtà non esiste (l’Io è solo il “palcoscenico delle nostre impressioni”); - i problemi della metafisica non hanno alcun fondamento. Tutte queste teorie rappresentavano una sicura condanna della metafisica e - con essa - della cultura scolastica tradizionale. Potevano tuttavia anche rappresentare un duro colpo per l’incipiente filosofia naturale, poiché alimentavano una prospettiva epistemologica pericolosamente scettica circa i fondamenti delle scienze della natura (Hume fu spesso accusato di scetticismo dai suoi avversari). Il convenzionalismo spinto all’estremo infatti poteva portare anche a dubitare della fondazione di quelle leggi scientifiche che venivano progressivamente scoperte. D’altro canto, nell’ambito del razionalismo, si stava assistendo agli ultimi sviluppi della metafisica. In Francia, nel secolo precedente, colui che aveva cercato di connettere, in forma innovativa, i risultati della nuova scienza della natura con un fondamento metafisico era stato Cartesio (1596-1650). Le due sostanze cartesiane, il ruolo fondativo del soggetto, l’ammissione, seppure limitata, dell’esistenza delle idee innate, la certezza in un ordine universale proveniente da Dio, erano tutti elementi metafisici che dovevano appunto fondare solidamente la realtà e la sua conoscibilità. In Germania la metafisica era stata rivitalizzata da Leibniz (1646-1716). Leibniz era stato un grande matematico (aveva rivaleggiato con Newton per l’invenzione del calcolo infinitesimale) e aveva costruito, su basi logico matematiche, un sistema metafisico di impostazione razionalistica secondo cui il mondo era perfettamente ordinato 2 Kant disse che la lettura delle opere di Hume lo aveva “risvegliato dal sonno dogmatico”. 2 (armonia prestabilita3). La metafisica leibniziana è una specie di platonismo logicizzante il cui la nozione di monade riveste un ruolo fondamentale. La filosofia di Leibniz era stata sviluppata ulteriormente da Christian Wolff (1679-1754) Posto di fronte a questo complesso di problematiche, Kant era contemporaneamente aperto alle idee della filosofia naturale (anche se contrario allo scetticismo), ma anche attratto dalla metafisica, nella quale aveva anche una robusta formazione (le teorie della scuola metafisica tedesca di Leibniz e di Wolff erano molto diffuse e molto influenti nelle università tedesche): egli venne allora spinto a tentare di realizzare un compromesso tra le due correnti di filosofia della conoscenza. Kant, con la sua opera epistemologica: a) vuole respingere le posizioni humeane (accusate di scetticismo) e fondare solidamente la filosofia naturale; b) vuole anche “fare i conti” con la metafisica, accertare cioè se la metafisica abbia o meno un suo dominio conoscitivo autonomo. I problemi fondamentali della Critica della Ragion Pura Da tutte queste problematiche derivano i problemi fondamentali della Critica della Ragion Pura (come sono stati esposti dallo stesso Kant ...). I problemi sono essenzialmente due, strettamente connessi tra loro: A) Il problema della fondazione della filosofia naturale. Kant ha espresso questo problema con la domanda “Sono possibili le matematiche e la fisica in quanto scienze?”. Non deve stupire più di tanto l’accostamento dell’indagine sui fondamenti della matematica con quella sui fondamenti della fisica. A differenza della fisica aristotelica - che usava assai poco la matematica, poiché era una fisica di tipo sostanzialistico e qualitativistico - la nuova fisica faceva un uso intensivo della matematica. Si ricordi che l’opera principale di Newton portava come titolo “Philosophiae naturalis principia mathematica”. Considerare convenzionale la matematica (come aveva fatto Hume) poteva sembrare un atto di sfiducia nella fisica e nella meccanica. Già nella formulazione kantiana di questo problema si scorge il fastidio nei confronti dell’ipotesi humeana circa la convenzionalità della matematica. B) Il problema della demarcazione tra la “filosofia naturale” e la metafisica, nonché della fondazione della stessa metafisica. Kant ha espresso questo problema con la domanda “E' possibile la metafisica in quanto scienza?” Con ciò Kant si rendeva conto della profonda difficoltà in cui versava la metafisica e cercava quindi di esaminare con cura se la metafisica potesse emendarsi dei suoi limiti, adottando procedimenti conoscitivi altrettanto robusti di quelli della filosofia naturale. Le conclusioni della Critica della Ragion Pura Kant - al termine del lungo percorso teorico della Critica della Ragion Pura - giungerà alla conclusione che: a) è possibile fondare la fisica e le matematiche in quanto scienze (a patto di adottare la famosa “rivoluzione copernicana” – cfr. oltre); b) la metafisica invece, per l’intima struttura dei propri procedimenti conoscitivi, doveva essere considerata come “non scientifica”. Come si vedrà, la conoscenza metafisica non sarà considerata del tutto inutile, ma non potrà mai aspirare - secondo Kant - a uno statuto pieno di scientificità. Questa conclusione kantiana rappresenta indubbiamente uno dei massimi sforzi e dei massimi risultati della filosofia della conoscenza settecentesca. Si tratta certamente di una soluzione di compromesso, ma che tuttavia aveva il pregio di conferire alla scienza la sua autonomia e di mettere in guardia contro i vecchi “sogni della metafisica”. Come è noto, l’incipiente romanticismo rifiuterà sia la prospettiva di fondazione della scienza proposta da Kant, sia il suo principio di demarcazione. Ciò comporterà, nell’epoca del romanticismo, una ripresa massiccia della metafisica (si pensi a Hegel, o a Schopenhauer) e la conseguente messa in disparte della scienza stessa (il romanticismo darà infatti vita 3 Questa concezione filosofica, estremamente ottimistica, venne criticata ferocemente da Voltaire nel suo romanzo Candide (1759). 3 ad una stagione culturale fortemente oscurantista e antiscientifica). Il problema della sintesi a-priori Procediamo ora ad esaminare le argomentazioni fondamentali che stanno alla base della Critica della Ragion Pura. Conoscere significa esprimere giudizi. Il punto di partenza - e in ciò Kant dimostra una notevole capacità innovativa - consiste nel definire in cosa consista effettivamente il prodotto finale dell’impresa conoscitiva. Secondo Kant possedere delle conoscenze, di qualunque genere esse siano, significa essere in grado di produrre dei giudizi4. La conoscenza dunque secondo Kant si materializzava sempre nel linguaggio, ovvero in quella facoltà particolare del linguaggio che ci permette di esprimere dei giudizi. Vale la pena di notare che - nell’ambito di una prospettiva empiristica - il punto di partenza di una teoria della conoscenza avrebbe potuto essere alquanto diverso: si sarebbe potuto insistere sull’apparato percettivo e sulla “trasmissione di informazione” tra il mondo esterno e il nostro organismo (questo tra l’altro - è un meccanismo basilare che gli esseri umani condividono con gli altri esseri viventi). Kant quindi prendeva le mosse da una considerazione molto intellettualizzata - illuministica - della conoscenza. Una volta ammesso questo punto di inizio, le altre tappe del ragionamento risultano abbastanza obbligate: si tratta di indagare quali siano i tipi di giudizi di cui siamo capaci e quindi di come si possa accertare la verità o la falsità dei vari tipi di giudizi che pronunciamo intorno alla conoscenza della natura. In termini odierni, Kant ha dunque provato anzitutto ad elaborare una analisi logica delle proposizioni del nostro linguaggio conoscitivo e, secondariamente, di porre il problema del raccordo tra il linguaggio e la realtà (cioè il problema della verità dei giudizi). Una simile analisi - dal punto di vista dei contenuti della conoscenza - era già stata condotta da Cartesio (si ricordi, nel Discorso intorno al metodo, la classificazione delle idee in base alla loro origine, che poteva essere interna, esterna o innata). Anche nella tradizione empiristica temi del genere erano già stati affrontati, basti ricordare la distinzione humeana tra “verità di ragione” e “verità di fatto”, che peraltro riprendeva la più antica distinzione tra induzione e deduzione. Secondo Hume, verità di ragione sono le verità che si ricavano a – priori, attraverso i meccanismi del sillogismo aristotelico. Verità di fatto sono invece le verità che si ricavano a posteriori, dall’esperienza. Mentre le verità di ragione sono prive di contraddizione e sono universali e necessarie, le verità di fatto sono specifiche, non universali, legate ad ambiti di esperienza particolari e una loro smentita è sempre possibile. Nella scienza antica, basata soprattutto sull’argomentazione razionale, la deduzione (il sillogismo) costituiva il procedimento fondamentale. Lo stesso Aristotele, pur avendo conferito all’induzione un compito conoscitivo importante, aveva ritenuto però che la vera scienza potesse essere costituita solo attraverso un sistema di proposizioni deduttive (i sillogismi). Ora, con il progredire della “filosofia naturale” l’induzione aveva invece mostrato la propria capacità di orientare il processo conoscitivo, fino a produrre rilevanti scoperte; purtroppo l’induzione non possedeva quelle capacità di generalizzazione e di rigore tipiche della deduzione: le osservazioni sperimentali erano pur sempre osservazioni singolari, a-posteriori, e tali rimanevano; è questo il celebre problema dell’induzione su cui ha insistito Hume, ovvero il problema della generalizzazione5 e della previsione, della fondazione delle leggi ricavate per via induttiva e non supportate da un rigoroso apparato deduttivo. 4 Il termine “giudizi” era di uso piuttosto tradizionale, derivava dalla logica antica, dalla logica di Aristotele. La logica aristotelica era stata rielaborata nell’ambito della scolastica e successivamente, tra Seicento e Settecento, aveva ricevuto importanti approfondimenti (ad opera degli studiosi giansenisti e ad opera di Leibniz e della scuola tedesca); tuttavia l’impianto della logica era ancora essenzialmente aristotelico e lo stesso Kant considerava la logica aristotelica una costruzione definitiva. 5 Hume aveva negato che fosse lecita la generalizzazione: da poche osservazioni particolari non era lecito ricavare una verità universale e necessaria. 4 Tipi di giudizi. Secondo l’analisi di Kant, nella produzione della conoscenza facciamo comunemente uso di due tipi di giudizi, approssimativamente riconducibili ai meccanismi dalla deduzione e dell’induzione. Sfortunatamente di tratta di tipi di giudizi che operano in maniera opposta: ciascuno dei due ha i suoi vantaggi, ma anche i suoi svantaggi. a) Giudizi analitici (detti anche giudizi a-priori, oppure verità di ragione). Sono giudizi che procedono in maniera deduttiva dalle loro premesse; le conclusioni sono dunque universali e necessarie, anche se le conclusioni non aggiungono nulla di veramente nuovo rispetto alle premesse: si tratta in altri termini di ricavare quanto è già implicito nelle premesse (per questo Kant li chiama giudizi analitici). Questi giudizi sono stati particolarmente considerati nell'ambito del razionalismo (si ricordino Cartesio, l’innatismo, il sillogismo). Lo spostamento di accento a favore dell’induzione che stava avvenendo, grazie alla nuova scienza aveva portato tuttavia alla luce i limiti dei sistemi deduttivi, limiti costituiti dal problema della giustificazione delle premesse prime (noto fin da Aristotele), e il problema della sterilità dei sistemi deduttivi: le conseguenze erano già implicite nella premessa, per cui le lunghe catene deduttive sembravano non portare a nulla di nuovo). b) Giudizi sintetici (detti anche giudizi a posteriori, oppure verità di fatto). Sono giudizi che procedono in maniera induttiva, a partire dalle singole osservazioni dei fatti della nostra esperienza, per giungere a delle conclusioni di ordine più generale. Le conclusioni quindi possono contenere tutti gli elementi di novità dell'esperienza; sfortunatamente, come abbiamo già anticipato, questi giudizi non possono essere generalizzati, ovvero considerati come universali e necessari (si veda la critica di 5 Hume). Questi giudizi sono stati particolarmente considerati nell'ambito dell'empirismo (si veda la dottrina della tabula rasa e, più ampiamente, la tradizione nominalistica). Sono possibili giudizi analitici e sintetici (cioè sintetici e a-priori)? Come si è visto, i due tipi di giudizi comportano sia vantaggi che svantaggi per la conoscenza. I giudizi sintetici hanno i loro vantaggi, ma non ci danno i vantaggi dei giudizi analitici, e viceversa. Dunque, nella conoscenza, in generale, o si è analitici o si è sintetici: non si può essere analitici e sintetici (deduttivi e induttivi) nello stesso tempo. Per Kant invece la scienza non poteva rinunciare a perseguire entrambi i vantaggi derivanti dall'uso congiunto dei due tipi di giudizi: auspicabilmente, la scienza da un lato si doveva fondare sull'esperienza, e quindi sfruttare i giudizi sintetici, dall'altro necessitava di un rigore che producesse leggi universali e necessarie, sfruttando quindi i giudizi del tipo analitico. I giudizi della scienza avrebbero dovuto quindi, auspicabilmente, essere nello stesso tempo analitici e sintetici, induttivi e deduttivi, a- posteriori e a- priori. Forse per evitare una contraddizione in termini troppo stridente, Kant ha deciso di chiamare questi auspicati giudizi "giudizi sintetici a- priori", ma potremmo anche chiamarli “sintetici - analitici”, oppure “a-priori e a-posteriori”. Secondo Kant potremo dire di aver fondato utilmente e definitivamente la scienza solo quando avremo mostrato come questa possa giovarsi di giudizi sintetici a priori. In caso contrario ci si vedrebbe costretti a dar ragione a Hume6. La rivoluzione copernicana nella filosofia della conoscenza In sostanza Kant si proponeva di conciliare l'inconciliabile; di procedere oltre quella che qualunque filosofo del suo tempo avrebbe considerato una dicotomia insuperabile. In effetti, per superare la dicotomia tra analitico e sintetico Kant sarà costretto a introdurre una vera e propria "rivoluzione" nell'ambito della filosofia. Quello che è certo è che, una volta impostato così il problema, per risolverlo occorreva capovolgere tutti termini di quanto si era pensato fino ad allora in termini di conoscenza. Questa rivoluzione nella filosofia della conoscenza è stata sviluppata consapevolmente da Kant ed è stata da lui stesso denominata, metaforicamente, "rivoluzione copernicana"7. 6 In fondo, tutta la CRP rappresenta un onesto e serio tentativo per verificare se c’era modo di non dare ragione a Hume! Copernico aveva messo al centro ciò che tutti consideravano periferico; aveva messo in periferia ciò che tutti consideravano centrale. 7 6 Proviene dalla nostra mente Proviene dal mondo fuori di noi Giudizio sintetico a-priori (induttivo e deduttivo) Componente deduttiva (a-priori) Componente induttiva (sintetica) = + La materia della conoscenza sempre nuova La forma della conoscenza, universale e necessaria (analoga alle qualità primarie) Per raggiungere il suo obiettivo, Kant non esitò a compiere un'operazione estremamente azzardata: piuttosto che riconoscere l'impossibilità di produrre giudizi che siano nello stesso tempo analitici e sintetici (insieme induttivi e deduttivi), Kant non ha trovato altra soluzione che di riconoscere, all'interno di ciascun giudizio di conoscenza, una componente induttiva (derivante dall'esperienza, e fin qui tutto bene) e una componente deduttiva (derivante dall'unica entità "universale" rimasta in auge, ovvero derivante dalla mente dell'uomo). In sostanza, la componente dell’universalità delle conoscenze non avrebbe un fondamento obiettivo fuori di noi, ma un fondamento puramente mentale, dentro di noi. In tal modo, l'esperienza avrebbe potuto assicurare la novità dei contenuti e la mente dell'uomo avrebbe potuto assicurare l'universalità delle conoscenze. Kant ha formulato esplicitamente in questo modo il suo programma epistemologico: «Sinora si è ammesso che ogni nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi di stabilire intorno ad essi qualcosa di a priori, per mezzo di concetti, con i quali si sarebbe potuto allargare la nostra conoscenza, assumendo un tal presupposto, non riuscirono a nulla. Si faccia dunque finalmente prova di vedere se saremo più fortunati nei problemi della metafisica, facendo l'ipotesi che gli oggetti debbano regolarsi sulla nostra conoscenza» (Critica della Ragion Pura, prefazione alla seconda edizione). Un'altra interessante espressione di Kant è la seguente: «Noi delle cose non conosciamo a priori se non quello che noi stessi vi mettiamo». 7 Si delineano così due prospettive antitetiche: la prospettiva di filosofia della conoscenza seguita fino a Kant, che può essere denominata "oggettivismo", e la nuova prospettiva specificatamente kantiana che può essere denominata "soggettivismo". Secondo la prospettiva oggettivistica, si pensava che il soggetto, attraverso la sua attività conoscitiva, scoprisse le leggi dell'oggetto; secondo la prospettiva soggettivistica si pensa invece che l'oggetto, allorché viene conosciuto, venga strutturato dal soggetto, si adatti alle leggi del soggetto. Secondo la metafora della rivoluzione copernicana, si può sostenere che, nell'ambito della prospettiva oggettivistica, il soggetto “ruoti” intorno all’oggetto nel tentativo di conoscerlo; nella prospettiva soggettivistica è invece il soggetto che conferisce le sue forme universali e necessarie all’oggetto, rendendolo così conoscibile. L’influsso di Leibniz nella rivoluzione copernicana Ci possiamo domandare, sul piano storico filosofico, da quale fonte Kant abbia ricavato l’idea per cui le strutture fondamentali (in altri termini, le qualità primarie) della nostra esperienza della natura si trovino in realtà nella nostra mente. Ebbene, la familiarità con Leibniz deve avere avuto un ruolo importante: come si ricorderà, la monade era considerata da Leibniz come una entità logica capace di rappresentare l’intero cosmo come il proprio punto di vista. Si trattava già di una forma di soggettivismo, dunque. Il significato della rivoluzione copernicana A questo punto il lettore medio potrebbe anche ritenere che Kant fosse un pazzo. Se ci sono caratteristiche universali e necessarie queste dovrebbero appartenere all’oggetto fuori di noi. Come è possibile che sia la nostra mente a conferire l’universalità e la necessità alla nostra esperienza? Come può la nostra mente conferire delle strutture agli oggetti fuori di noi? Può allora essere utile – come del resto faceva anche Platone – raccontare alcune storielle illustrative che potrebbero contribuire a 8 rendere un po’ più familiare l’ipotesi kantiana. La prima storiella è ricavata sulla falsariga del mito della caverna di Platone, che tutti dovrebbero ricordare. Immaginiamo che l’astronave Enterprise (della nota saga fantascientifica di Star Treck) giunga sul pianeta Sperduto, in una lontanissima galassia. Qui vive il popolo dei blues, esseri in tutto simili agli esseri umani, tranne per un particolare: i loro occhi hanno una cornea completamente azzurra (possiamo immaginare che l’evoluzione abbia compiuto questa scelta per proteggerli da alcune particolari radiazioni del loro sole). E’ facile capire che, per effetto delle cornee bluastre, i blues vedranno tutte le cose del loro mondo colorate di azzurro. Poiché tutti i blues vedono il mondo azzurro (perché non possono fare altro che fare così) essi riterranno che il loro mondo sia obiettivamente azzurro. Non avranno modo di dubitare che la dominante azzurra sia una caratteristica universale e necessaria del loro mondo, sia cioè una legge fisica obiettiva, una legge di natura. Ma il capitano Picard e il suo equipaggio, scesi in incognito sul pianeta Sperduto (dopo avere indossato un paio di occhiali per proteggersi dalle radiazioni), si accorgono invece che il paesaggio del pianeta è invece multicolore, ma che esso viene percepito come monocromatico solo dagli occhi dei blues. Il capitano Picard si renderà dunque conto del fatto che, nella esperienza della realtà dei blues, ci sono due componenti: una componente che proviene dall’esterno (materia della conoscenza), costituita da informazioni sempre nuove e imprevedibili e una componente, invece prevedibilissima, proveniente dalle cornee dei loro occhi, che si applicherà a tutte le cose percepite e le renderà tutte blu (forma universale della conoscenza per tutti i blues). L’esperienza fenomenica dei blues sarà dunque, trasferendoci con una certa libertà al linguaggio kantiano, una sintesi a priori delle due componenti della conoscenza. La seconda storiella non è una vera e propria storiella, ma un esempio da manuale di fisiologia della percezione. Anche se non tutti lo sanno, i fisiologi della percezione sono riusciti a chiarire che i colori che il nostro occhio percepisce (e che noi solitamente crediamo siano reali, oggettivi) sono in realtà dei prodotti del nostro cervello. I nostri occhi percepiscono, in ingresso, radiazioni di luce di diverse lunghezze d’onda (si ricordi che non tutte le lunghezze d’onda sono visibili); il nostro cervello provvede poi a produrre, nella nostra mente, l’impressione del colore delle cose. Ciò è testimoniato dal fatto che alcune persone, i daltonici, non producono nella loro mente la stessa impressione di colore della media della popolazione (non distinguono il verde dal rosso). A questo punto possiamo immaginare che gli animali (ed è proprio così!) non abbiano la stessa percezione di colore che abbiamo noi. Dunque la colorazione, che noi ingenuamente pensiamo sia caratteristica universale e necessaria di tutte le cose, semplicemente non esiste fuori di noi, ma è una specie di forma che il nostro cervello impone a tutte le nostre percezioni. La nostra esperienza di una cosa colorata sarebbe dunque frutto, trasferendoci al linguaggio kantiano, di una sintesi a priori tra una materia che è sempre nuova per noi e una forma, il colore, che è sempre la stessa. La terza storiella è in realtà un esperimento mentale. Immaginiamo che l’Enterprise, nei suoi viaggi interstellari, giunga in uno strano punto dello spazio, dove non c’è assolutamente nulla, tranne un enorme recipiente metallico di forma cubica (più o meno come il monolito di Odissea nello Spazio). Su un lato del monolito c’è una scritta in un linguaggio strano che il decoder di bordo non riesce a interpretare. Dentro ci sarà certamente qualcosa, ma il monolito risulta impenetrabile a tutti i sofisticati strumenti dell’Enterprise. Una situazione quanto mai frustrante per gli esploratori di Star Trek Il capitano e i tecnici di bordo potrebbero però ugualmente cercare di fare delle ipotesi sulle caratteristiche che potrebbe avere il contenuto del recipiente. Scoprirebbero così di essere in grado di sapere comunque già (a-priori, nel linguaggio di Kant) molte cose del contenuto. Essi potranno dire con sicurezza che il contenuto avrà qualche consistenza materiale. Ma sapranno con sicurezza anche che il contenuto – se è qualcosa – avrà delle dimensioni (lunghezza, larghezza, altezza…), avrà una 9 massa, sarà costituito di qualche materiale, cioè di qualcuno degli elementi della tavola di Mendelejev, avrà senz’altro una temperatura misurabile (alta o bassa che sia), e così via. Potranno affermare con sicurezza che anche per il contenuto del recipiente passa il tempo (e che quindi, pur in un orizzonte relativistico, esso invecchia). Ma potranno anche ipotizzare, riuscendo a penetrare all’interno, di poter agire su quel contenuto: illuminarlo, toccarlo, spostarlo, eventualmente prelevare un campione, ecc… Potrebbero anche ipotizzare che una incauta penetrazione all’interno del recipiente potrebbe causare la distruzione del suo contenuto. Dunque si renderanno conto di poter conoscere alcune caratteristiche universali di qualcosa senza averne fatta diretta esperienza. Ebbene l’ipotesi di Kant è che tutte queste caratteristiche universali e necessarie8, che le cose devono avere necessariamente per poter essere conosciute da noi, risiedano nella nostra mente e non nel mondo fuori di noi (più o meno come i colori). Tra queste caratteristiche ci stanno anche i parametri fondamentali della nostra esperienza, cioè la collocazione in un qualche spazio e la collocazione in un qualche tempo, nonché la causalità. Queste storielle possiedono soltanto delle vaghe analogie con la dottrina kantiana. Tuttavia può essere utile meditare su di esse per avere un qualche aggancio pratico per sostenere l’elevato livello di astrazione che viene richiesto per la comprensione della filosofia kantiana. Materia e forma della conoscenza Seguendo una tradizione abbastanza consolidata (di lontana derivazione aristotelica), Kant ha denominato "materia della conoscenza" la componente empirica della conoscenza; ha denominato "forma della conoscenza" la componente universale e necessaria fornita dalla mente umana. Ogni conoscenza sarà dunque costituita - sembra di ascoltare Aristotele - di una materia (proveniente dall’esperienza) e di una forma (proveniente dalla mente umana). 8 Coloro che conoscono bene Galileo e Cartesio, non faranno fatica a riconoscere, tra queste caratteristiche universali e necessarie, le famose qualità primarie (volume, superficie, temperatura, massa,…). 10 Dovrebbe essere chiaro perché, una volta assunto che le forme fondamentali della conoscenza stiano nella mente umana, l’obiezione di Hume verrebbe superata: per verificare l’universalità e la necessità di una legge scientifica non dobbiamo più esaminare tutti i casi che riguardano quella legge, perché l’universalità e necessità è ora una proprietà della nostra mente che noi imponiamo alla natura, con cui la nostra mente struttura la natura. Poiché tutte le menti umane operano attraverso le stesse forme, sembrerà agli umani di con-vivere in un mondo coerente d’esperienza. Fenomeno e noumeno La rivoluzione copernicana, insieme ai suoi vantaggi, ha comportato per Kant l'accettazione di una serie di paradossi. Il più noto di questi è la distinzione (che diventa inevitabile nel sistema kantiano) tra la realtà così come è in se stessa (che risulta però inconoscibile per la mente umana) e la realtà così come viene conosciuta da noi (che risulta sì conoscibile, ma a prezzo di un pesante intervento di strutturazione da parte della nostra mente). La realtà così come viene conosciuta da noi viene chiamata da Kant “fenomeno” (ovvero, ciò che appare); la realtà così come è in se stessa (e che quindi non può essere conosciuta da noi) viene chiamata da Kant “noumeno” (ovvero, ciò che è solo ipotizzabile e non conoscibile). L’ambito della filosofia della conoscenza In tal modo viene anche distinto, con una certa chiarezza, il compito della scienza da quello della filosofia: compito della scienza naturale è quello di approfondire sempre di più il lato della materia dei giudizi (le conoscenze sempre nuove delle varie scienze ); compito della filosofia della conoscenza sarebbe invece quello di approfondire il lato della forma dei giudizi, ovvero quello di studiare le forme universali e necessarie che la mente umana conferisce alla materia della conoscenza. La Critica della Ragion Pura di Kant altro non è se non la ricognizione dettagliata delle forme universali e necessarie della mente umana, ovvero il catalogo, l’inventario, delle forme che la mente umana impone alla natura. Le facoltà della mente, secondo Kant Secondo Kant la mente umana non può fare a meno di conferire all’esperienza le proprie “forme”: conoscere significa proprio “dare forma” alla nostra esperienza (questo è indubbiamente un residuo aristotelico nella filosofia kantiana). Ma la mente non è un tutto unitario. Essa è composta di diverse facoltà (qui Kant segue il senso comune filosofico) e ciascuna facoltà sarà dotata di sue proprie specifiche forme e opererà attraverso di esse. A loro volta le diverse facoltà della mente saranno bene individuabili proprio a partire dalla diversa funzione strutturante che le loro forme ono in grado di svolgere. Le facoltà della mente secondo Kant sono tre: intuizione sensibile (o sensibilità), intelletto e ragione. Ciascuna di queste facoltà ha un suo modo tipico di operare che è costituito dalle sue specifiche forme trascendentali (per il significato di trascendentale, vedi oltre). Ciascuna facoltà opera poi su una sua specifica materia e determina un suo specifico prodotto. Non resta che esaminare, per ciascuna facoltà, quali siano le specifiche forme trascendentali e quali siano i loro prodotti in termini di strutturazione dell’esperienza. L’intuizione sensibile. L’intuizione sensibile opera in maniera intuitiva (cioè, senza alcun ragionamento discorsivo, senza produrre giudizi). Essa opera attraverso le due forme trascendentali dello spazio e del tempo. Grazie ad essa gli oggetti della nostra esperienza ci sono dati in modo intuitivo, immediatamente (in questo caso, la sintesi a priori è immediata). L’intuizione sensibile produce dunque la nostra esperienza immediata, il nostro essere “qui ed ora”, i nostri fondamentali parametri spaziali e temporali. Kant ha dunque qui elaborato una teoria contro intuitiva, assai difforme da senso comune: nell’ambito del senso comune riteniamo che lo spazio e il tempo siano fuori di noi e indipendenti da noi; secondo Kant invece lo spazio e il tempo sono forme con cui la nostra mente 11 struttura l’esperienza sensibile. Si pone, nella filosofia di Kant, il problema di come possa l’intuizione accedere alla sua materia, prima di essere spazializzata e temporalizzata. Il problema è lasciato insoluto, poiché - per l’uomo non è possibile conoscere alcunché che non abbia già intuitivamente preso la forma spaziale e temporale. La materia dell’intuizione sensibile - come è in sé” - non è dunque conoscibile. Kant ha chiamato “noumeno” (da nous) questa entità solo presumibile, ma non conoscibile. L’intelletto. L’intelletto opera in maniera discorsiva (produce dunque dei giudizi). La materia di cui si serve l’intelletto è costituita dall’esperienza sensibile (già spazializzata e temporalizzata) prodotta dall’intuizione. L’intelletto, attraverso le sue forme trascendentali, “pensa” l’esperienza sensibile e produce come risultato la nostra conoscenza intellettuale della natura (ad esempio produce i vari giudizi di cui sono costituite le scienze). Per produrre tutte le nostre conoscenze intellettuali, secondo Kant, sono necessarie molte forme, che egli ricava dalla logica tradizionale: si tratta di ben 12 forme (chiamate anche “categorie”, sempre sulla scia di Aristotele). A queste forme Kant aggiungerà poi un’altra forma chiamata Io (o anche Io-penso), che evoca l’autocoscienza cartesiana - anche se non si tratta proprio della stessa cosa9. L’intelletto dunque è la facoltà che presiede all’elaborazione della conoscenza scientifica. La ragione. La ragione opera anch’essa in maniera discorsiva (produce dunque dei giudizi attraverso argomentazioni), tuttavia si differenzia dall’intelletto poiché non si applica al mondo sensibile, non si applica all’esperienza, bensì a un ipotetico mondo sovrasensibile (meta-fisico). La ragione dunque opera secondo le proprie forme, ma non ha a disposizione una materia da strutturare (avendo come obiettivo di conoscere proprio ciò che sta oltre la materia). Le forme trascendentali della ragione (che sono sempre forme trascendentali della mente umana) e che Kant chiama anche Idee della ragione sono tre: l’Anima, Dio e il Mondo (si badi bene che non si tratta di idee in senso contenutistico, bensì di modi tipici di operare della ragione, predisposizioni a ragionare in certi modi...). La ragione, grazie alle sue forme, produce la conoscenza metafisica, le dottrine metafisiche; ma queste - come sì vedrà - non avendo alcun corrispettivo sensibile - non possono mai avere una prova definitiva a loro sostegno o una confutazione definitiva. Da ciò si ricava che la metafisica non è in grado di produrre alcuna conoscenza scientifica (nel senso della sintesi a priori) 9 L’io-penso cartesiano è una sostanza, mentre l’io-penso kantiano è una forma pura trascendentale, ovvero un puro modo di operare (e quindi non è sostanza). 12 13 La terminologia kantiana e il concetto di “trascendentale” Kant, nella sua filosofia della conoscenza, ha utilizzato una terminologia rigorosa, in parte mutuata dai filosofi precedenti e in parte originale. Merita di essere segnalato l'impiego del termine "trascendentale". Se lo traducessimo nel nostro linguaggio odierno, potremmo dire che equivale a “strutturante”. Esso è stato utilizzato da Kant per indicare la capacità caratteristica delle forme della nostra mente di conferire una struttura universale e necessaria alla materia della conoscenza: "Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscere". Il termine "trascendentale" ha una lunga storia: deriva da un uso della filosofia scolastica medievale: in quel tempo trascendentali erano dette le proprietà ontologiche fondamentali (dunque universali e necessarie) di ciascuna cosa creata, proprietà che rispecchiavano il creatore stesso ed erano l’analogo delle proprietà di Dio, essere per eccellenza. I trascendentali in Tommaso erano - si ricorderà - uno, vero e buono. In sostanza i trascendentali erano le strutture profonde (universali e necessarie) delle cose, che le cose dovevano per forza avere, poiché tutte derivavano dal creatore: le creature dovevano portare dentro di sé le strutture profonde imposte dal loro creatore. Nella filosofia della conoscenza di Kant la mente umana prende il posto del creatore: le forme della mente conferiscono la loro forma alla natura. Un altro aspetto terminologico e concettuale caratteristico della filosofia kantiana è la distinzione tra intelletto e ragione: l'intelletto è la facoltà che si applica alla conoscenza fenomenica; la ragione è la facoltà che si applica alla conoscenza metafisica. L'indice della Critica della Ragion Pura La struttura fondamentale della Critica della Ragion Pura ricalca (almeno nella sua parte principale, la cosiddetta dottrina degli elementi) quella delle forme trascendentali che mano a mano vengono prese in esame. La principale suddivisione è quella tra estetica trascendentale e logica trascendentale: nella prima ci si occupa della sintesi a priori che viene realizzata nell’ambito della sensibilità; nella seconda ci si occupa della sintesi a priori che viene realizzata nell’ambito delle facoltà discorsive (o logiche) della mente: intelletto e ragione. Questa sezione, la logica trascendentale, viene ulteriormente ripartita in due parti dedicate alle due specifiche facoltà: la analitica trascendentale si occupa delle forme pure dell’intelletto, mentre la dialettica trascendentale si occupa delle forme pure della ragione. Per il resto, l’indice della CRP è assai più complesso, ma per i nostri scopi introduttivi, ciò è più che sufficiente. 14 Giuseppe Rinaldi 15