I moderni: Copernico, Galilei, Cartesio, Leibniz

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4. Scienza moderna
I “moderni” (Copernico, Galilei, Cartesio, Leibniz, Newton)
fisica e matematica, causa e legge, estensione e forza
Il richiamo va a cinque coraggiosi osservatori del mondo e costruttori di teorie sistemiche dai
quali dipende oggi il nostro orientamento nella realtà dal punto di vista dell’osservazione, ciò che
vediamo, dei concetti, come e di cosa parliamo, delle scelte operative, come ci rapportiamo al
mondo dell’esperienza all’interno di una condivisione scientifica sociale definita normale. Autori
noti, di cui si pongono in risalto, in modo un po’ riduttivo ma con intenzioni di essenzialità,
alcuni strumenti di metodo con cui viene definita e da cui prende slancio la scienza detta moderna.
1. Niccolò Copernico (1473-1543)
2. Galileo Galilei (1564-1642)
3. René Descartes (1596-1650)
4. Gottfried Wilhelm Leibniz (1646 – 1716)
5. Isaac Newton (1642 – 1726)
Come premessa: la situazione classica, filosofica, scientifica e del senso comune.
0.1. come una ricostruzione «Proviamo a tornare con la mente a 2000 o 2500 anni fa, in un
villaggio o una città della Grecia antica. Che cosa si poteva fare la sera, in uno di questi luoghi?
Non essendoci (fortunatamente) la televisione, si poteva sedersi nel cortile della propria casa,
oppure in mezzo ai prati, e guardare il cielo. Uno spettacolo meraviglioso, tra l’altro, perché
all’epoca non esistevano le luci elettriche, e dunque neppure l’inquinamento luminoso: quindi si
vedeva un bel cielo nero pieno di stelle. Ci si accorse rapidamente che in cielo c’erano, anzitutto,
due oggetti diversi dagli altri. Uno era il Sole, che si vedeva di giorno e illuminava completamente
il cielo, impedendo la vista di tutto il resto. L’altro era la Luna, che era all'incirca della stessa
grandezza del Sole, ma si vedeva principalmente di notte e brillava molto meno. C'erano poi le
stelle visibili a occhio nudo. Esse ruotavano tutte insieme nel corso della notte, attorno a un punto
fisso che oggi è la Stella Polare. Poiché non cambiavano le proprie posizioni reciproche, furono
chiamate per l’appunto «stelle fisse». Infine, a parte il Sole, la Luna e le stelle fisse, i cui moti
erano abbastanza regolari, c'erano cinque [per Tolomeo i pianeti erano cinque] altri oggetti
luminosi che si muovevano invece in maniera molto strana, e che i greci chiamarono appunto
planétes (erranti [dal verbo plànomai, errare]). Gli scienziati dell’epoca, dopo aver osservato il
cielo, cercarono di capire quali fossero i moti di questi corpi celesti.» Piergiorgio Odifreddi in
Hack Margherita 2012, Tolomeo e Copernico. Dalle stelle la misura dell’uomo, Gruppo editoriale
l’Espresso, Roma, 93-94)
0.2. il geocentrismo
0.2.1. le ragioni di Aristotele: «Secondo Aristotele, la cui teoria fisica fu la più accettata fino al
Seicento secolo inoltrato, la sfera terrestre stava immobile nel centro dell'universo perché la terra
(uno dei quattro elementi insieme con aria, acqua e fuoco) era la più pesante di tutte le sostanze, e
il centro dell'universo era il luogo dove andavano a collocarsi gli oggetti pesanti. Perciò era
semplicemente la pesantezza della Terra, e non la sua nobiltà o privilegio, a spiegare la centralità
cosmica di noi terrestri.» (Danielson Dennis, 2009, Le ossa di Copernico, in Hack 2012, 79) La
centralità della terra, nell’opinione scientifica e culturale generale fino, almeno, al 1700 non era
vanto di un primato o di una maggior rilevanza nell’universo, ma al contrario situazione di
“pesantezza” e disagio; per Aristotele, del resto, il cielo è luogo di perfezione per materia (etere) e
movimento (circolare), per i platonici, antichi e dell’umanesimo, dalla terra era bene fuggire il più
presto possibile (Pico della Mirandola, Marsilio Ficino), lo stesso Dante pone la terra al centro del
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mondo e al suo esatto centro l’Inferno, Copernico infine dirà di nobilitare la terra ponendola nel
cielo.
0.2.2. la spiegazione di Tolomeo nell’Almagesto: «Quelli che ritengono un paradosso che il così
grande peso della Terra non ondeggi da qualche parte, né si sposti, mi sembrano sbagliare in
quanto fanno questo confronto riferendosi alle condizioni loro proprie e non alle proprietà del
tutto. Non credo che ciò sembrerebbe loro ancora stupefacente, se considerassero che questa
grandezza della Terra, confrontata con la totalità del corpo che la circonda, ha con essa il rapporto
di un punto. Sembrerà loro così possibile che ciò che è relativamente piccolissimo sia sostenuto e
sospinto da ogni lato con forza uguale e con angoli simili da ciò che è assolutamente grandissimo
e simile nelle sue parti. Non c'è infatti per la Terra nel mondo un «alto» e un «basso», come
neppure in una sfera si può concepire nulla di simile.» Tolomeo Claudio, Almagesto
Composizione [o Sintassi] matematica) in Hack 2013, 40)
0.2.3. La valutazione e il problema oggi: «Oggi noi sappiamo che i sistemi di Tolomeo e di
Copernico sono assolutamente equivalenti, da un punto di vista matematico. Quello di Tolomeo è
più complicato, perché descrive le cose da un punto di osservazione non privilegiato. Poiché la
Terra è uno dei pianeti che girano intorno al Sole, se noi vogliamo descrivere il moto degli altri
pianeti visti dalla Terra, dobbiamo naturalmente aggiungere la sua orbita (l’epiciclo) all'orbita di
questi pianeti attorno al Sole (il deferente). Il sistema tolemaico è dunque più complicato di quello
copernicano, ma in fondo risolveva un problema più complicato: non il moto dei pianeti attorno al
Sole, bensì il loro moto attorno alla Terra.»(Odifreddi Piergiorgio, in Hack 2012, 95)
0.2.4. La teoria di Tolomeo si dichiara rispettosa di due vincoli: la visione, che attesta soprattutto i
moti “erranti” nel cielo di alcuni corpi celesti (i pianeti); la teoria, che afferma la perfezione e il
conseguente moto circolare del cielo e dei corpi celesti. Tolomeo e la tradizione che ne deriva
spiega la visione con la matematica piegando la geometria a questo scopo con opportune
modifiche ad hoc (centro, equante, deferente, eccentrico, epicicli).
1. Niccolò Copernico (1473-1543)
1543 Le rivoluzioni delle sfere celesti (De revolutionibus orbium coelestium)
Dalla lettera dedicatoria a papa Paolo III posta in prefazione all’opera.
La lettera dedicatoria che Copernico scrive al papa Paolo III, ben lontana dal semplice obiettivo di
cercare protezione per la propria opera e per le tesi che vi sono sostenute, esprime la chiara
consapevolezza della portata rivoluzionaria della nuova teoria astronomica. Presentando una
descrizione dell’universo in radicale opposizione con quanto attestano la percezione quotidiana e
la comune convinzione, e collocando la Terra in un’area finora considerata celeste, le tesi di
Copernico mettono in discussione l'intera teoria fisica del mondo. Il problema del vero ordine del
mondo si trasforma necessariamente nella questione più generale del metodo scientifico e imprime
mutamenti profondi e rivoluzionari alla ricerca scientifica: si tratta, oltre che di una rivoluzione
astronomica, di una rivoluzione del senso comune, del metodo scientifico, dei modi in cui lo
scienziato si accosta al testo antico, delle competenze che lo scienziato, rispettoso del metodo, può
rivendicare al proprio lavoro sul tema della capacità di fornire l’esatta descrizione dell’universo.
«Ma forse Vostra Santità non si meraviglierà del fatto che ho osato pubblicare queste mie
elucubrazioni (dal momento che la loro elaborazione era stata per me lavoro così gravoso, da non
farmi esitare a metterla per iscritto), ma piuttosto desidererà sapere da me come mi sia venuto in
mente di andare contro l’opinione ormai stabilita dei matematici (cioè, degli astronomi tecnici), e
quasi contro lo stesso senso comune, immaginando qualche movimento della Terra. E così non
voglio che resti nascosto a Vostra Santità che nessun altro motivo mi ha indotto a meditare su un
nuovo possibile criterio di calcolare i movimenti delle sfere del mondo se non il fatto di essermi
accorto che i matematici stessi non sono d’accordo fra loro sul modo di determinarli. Prima di
tutto, infatti, essi sono a tal punto incerti riguardo al movimento del Sole e della Luna che non
possono né osservare né dimostrare la costante durata dell’anno tropico. In secondo luogo, nella
definizione dei movimenti, tanto degli astri sopra nominati quanto degli altri cinque astri erranti,
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essi non riescono ad usare gli stessi princìpi e postulati e le stesse dimostrazioni delle rivoluzioni
e dei moti apparenti. Alcuni, infatti, usano solo cerchi omocentrici, altri invece anche eccentrici ed
epicicli, con cui tuttavia non raggiungono pienamente i loro fini. Infatti, coloro che si basano sugli
omocentrici, anche se hanno dimostrato che con essi si possono comporre alcuni movimenti
ineguali, tuttavia, da questo, non poterono stabilire qualcosa di certo, che corrispondesse senza
alcun dubbio ai fenomeni. Quelli poi che escogitarono gli eccentrici, anche se sembrano avere in
gran parte, con il loro aiuto, ordinato in modo esatto i moti apparenti, tuttavia hanno insieme
dovuto ammettere parecchie cose che sembrano contravvenire ai princìpi sull’uniformità del
movimento. La determinazione più importante poi, cioè la forma del mondo e l’esatta simmetria
delle sue parti, non poterono né trovarla né ricavarla da essi; ma a loro capitò proprio come ad un
artista che, prendendo da luoghi diversi mani, piedi, testa e altre membra, molto belle in sé, ma
non fatte per un solo corpo, anzi per nulla tra loro corrispondenti, formasse così un mostro invece
che un uomo. Così, nel processo della dimostrazione, che chiamano méthodon, si riscontra che o
hanno tralasciato qualcosa di necessario, o hanno ammesso qualcosa di estraneo e per nulla
attinente. E questo non sarebbe certo accaduto se avessero seguito principi sicuri. Infatti, se le
ipotesi da loro assunte non fossero fallaci, tutte le conseguenze dovrebbero essere verificate senza
lasciare adito a dubbi.»
1.1. la “rivoluzione copernicana” è una rivoluzione di metodo. Nella lettera dedicatoria del De
rivolutionibus, Copernico non manca di ricordare le scelte di metodo che hanno reso possibile la
nuova teoria. Alla radice dei processi rivoluzionari avviati dalla teoria copernicana si colloca il
ruolo attribuito alla matematica nella composizione del sistema dell’esperienza: essa viene infatti
presentata come condizione indispensabile per definire «la forma del mondo e l’esatta simmetria
delle sue parti». Copernico si professa astronomo matematico (prendendo così le distanze da
coloro che si occupano del cielo dalla prospettiva della magia, della religione ecc. e anche della
semplice osservazione con intenti raffigurativi o descrittivi empirici) in quanto è mosso dal
proposito di comporre i dati dell’esperienza secondo un ordine rigorosamente geometrico.
L’obiettivo da raggiungere, la «determinazione più importante» è infatti quello di presentare «la
forma del mondo e l’esatta simmetria delle sue parti». La «rivoluzione copernicana» è dunque, dal
punto di vista epistemologico, una rivoluzione di metodo: essa impone il primato della ragione e
della matematica sull’esperienza e sulla visione. Le teorie astronomiche precedenti descrivono
accuratamente il moto degli astri, ma si limitano a registrare e a spiegare il dato visivo, senza far
astrazione dalle singole situazioni e dunque senza poter scoprire le leggi meccaniche che regolano
il corso degli astri. Copernico parte invece dalla convinzione metafisica e teologica della regolarità
dell’universo e riconduce la sua visione al piano che la ragione geometrica può coerentemente
formulare.
1.1.1. una rivoluzione sulla base della matematica e della conseguente (o correlata) semplicità. Dal
punto di vista strettamente scientifico, Copernico attribuisce la bontà del modello da lui proposto a
due caratteristiche derivanti dalla natura matematica della nuova teoria astronomica: l’ammirevole
semplicità e la capacità di presentare l’ordine reale, oggettivo del mondo. Di fronte a osservazioni
che ponevano in crisi la teoria aristotelica e tolemaica (l’irregolarità dei moti degli astri, la diversa
luminosità dei corpi celesti sono evidenti a un qualsiasi attento osservatore del cielo), gli
astronomi fedeli alla tradizione avevano introdotto opportune correzioni (modifiche ad hoc) allo
scopo di registrare accuratamente l’esperienza, senza mettere in discussione la validità della teoria
geocentrica; ma questa descrizione dei moti celesti, elaborata assumendo punti di riferimento
specifici e dunque sempre diversi, aveva finito per produrre un complicato e sproporzionato
«mostro» teorico a forza di modifiche ad hoc conciliare i dati dell’osservazione con la teoria
aristotelica affermata come vera.
1.1.1.1. Osserva l’epistemologo Imre Lakatos: «Tolomeo, che visse nel II secolo d.C., con un
sistema molto complicato e ingegnoso riuscì a spiegare il moto irregolare dei pianeti. Grazie a
questo sistema, su cui si basò anche un’intera astrologia per molti secoli, si potevano predire le
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eclissi, i movimenti dei pianeti ecc. L’astrologia, ovviamente, ha bisogno di una buona descrizione
e predicibilità dei moti planetari. La cosa interessante di Tolomeo era che la Terra stava pressoché
al centro dell’universo. C’erano poi delle cose molto complicate, le sfere celesti, una sorta di sfere
di cristallo concentriche. Per la verità, nei testi di Tolomeo, troverete che non sono del tutto
concentriche! Su queste sfere ci sono altre sfere che scivolano silenziosamente, e su queste sfere ci
sono altre sfere che scivolano silenziosamente e ogniqualvolta si sbaglia una predizione, si
inserisce un altro cerchio. Quindi, semplicemente introducendo via via nuovi cerchi (questi sono i
famosi epicicli che oggi hanno questo significato astratto, come quando si dice, per esempio,
argomento dell’epiciclo, col quale si intende un argomento ad hoc architettato semplicemente con
lo scopo di rendere conto dei fatti) possiamo ottenere dalla teoria di Tolomeo una buona macchina
predittiva.» (Lakatos Imre, Feyerabend Paul K. 1995, Sull’orlo della scienza. Pro e contro il
metodo, ed. Raffaello Cortina, Milano 1995, 79-80)
«Analogamente, i fatti riguardanti le stazioni e retrocessioni dei pianeti, sebbene noti fin
dall’antichità, “davano un sostegno molto maggiore a Copernico che a Tolomeo, all’interno del
cui sistema venivano trattati solo in modo ad hoc, mediante un aggiustamento di parametri”
(Lakatos, Zahar).» (ibidem 159)
1.1.1.2. I termini: epicicli, deferente, eccentrici, equante… In contrasto con la teoria aristotelica
che afferma l’immutabilità degli astri e la perfetta circolarità del loro moto, l’osservazione visiva
attesta un movimento non uniformemente circolare e una luminosità variabile; la teoria degli
eccentrici e degli epicicli, introdotta da astronomi greci anteriori a Tolomeo, intende correggere
tale contrasto spiegando il dato della visione senza porre in dubbio la tesi aristotelica della
perfetta circolarità dei moti celesti (tesi alla quale la stessa teoria di Copernico resta rigorosamente
fedele). La teoria degli eccentrici sostiene che l’astro si muove lungo una circonferenza il cui
centro non è la Terra, ma un punto ideale posto a una qualche distanza da essa (punto detto
equante per il ruolo svolto di ricostruire l’ordine circolare perfetto del cielo e dei movimenti che lo
riguardano); visto dalla Terra il moto dell’astro non apparirà perciò né circolare né uniforme e
collocato a distanze diverse (fino agli estremi dell’apogeo, la distanza massima, e del perigeo, la
distanza minima). L'epiciclo è il cerchio descritto da un corpo celeste (errante o pianeta) attorno a
un centro che a sua volta si muove su di una circonferenza (chiamata deferente) che abbia al suo
centro la Terra (figura a); il deferente a sua volta è un cerchio eccentrico nei confronti della terra
come centro, in quanto il suo centro è l’equante); l’epiciclo, visto dalla Terra, assume una forma
tale da spiegare come a volte sembri che gli astri si arrestino o recedano (figura b). Lo stesso
sistema copernicano eliocentrico resta rigorosamente fedele alla tesi aristotelica della perfezione
celeste e quindi della perfetta circolarità delle rivoluzioni dei corpi celesti, ivi compresa la Terra.
figura a
figura b
1.1.1.3. Epistemologicamente, il “mostro” di cui parla Copernico può equivalere alla seguente
situazione scientifica: «Duhem accetta la posizione dei convenzionalisti secondo la quale nessuna
teoria fisica crolla solo sotto il peso di “confutazioni,” ma proclama che essa può crollare sotto il
peso di “continue correzioni e di un’accozzaglia di puntelli”, quando le colonne corrose dai vermi
non possono più sopportare “un edificio che traballa da tutte le parti”; la teoria perde allora la
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semplicità originaria e deve essere sostituita.» (Imre Lakatos, 1970, La falsificazione e la
metodologia dei programmi di ricerca, in Lakatos Imre, Musgrave Alan (a cura di) 1970 Critica e
crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1986, 180)
1.1.2. Copernico muove da una convinzione: il mondo è un sistema ordinato e semplice. La prova
della veridicità della spiegazione eliocentrica sta nella sua semplicità; è l'ordine matematico della
teoria eliocentrica ad attestarne l’oggettività, a dimostrare che essa espone «l’ordinamento
generale dell'universo». Le irregolarità dei moti degli astri non sono infatti aspetti oggettivi della
realtà, ma un semplice dato della visione; esse dipendono dal «punto di vista» dell’osservatore,
sono apparenze e illusioni destinate a dissolversi.
[richiamando una affermazione recente, una definizione del senso culturale della matematica:
«Che cos’è la matematica? […] La matematica è la ricerca della regolarità delle strutture.»
Feynman P. Richard 1999, Il piacere di scoprire, Adelphi edizioni, Milano 2002, 184]
1.1.3. In quanto presenta il sistema ordinato del mondo, la “rivoluzione copernicana” è una
rivoluzione della certezza e sicurezza. La sicurezza e certezza, anche previsionale, dell’ordine
matematico della nuova astronomia. La nuova teoria astronomica nasce dall'idea di «cercare se,
ammesso un qualche movimento della Terra, si potessero trovare spiegazioni più sicure sulla
rivoluzione delle sfere celesti»; attribuendo alla Terra una diversa posizione astronomica è
possibile realizzare i due obiettivi cui tende ogni teoria astronomica e, in generale, ogni teoria
scientifica: spiegare il dato della visione e fornire un sistema semplice e geometrico dell’universo
corrispondente alla sua reale struttura e renderlo perciò certo e previsionale.
1.2. la “rivoluzione copernicana” è una rivoluzione e una sfida nei confronti del senso
comune. «Come mi sia venuto in mente di andare contro lo stesso senso comune». Il coraggio
con cui Copernico, seguendo il proposito di rispettare le esigenze della razionalità dell'universo, si
pone in contrasto con l'evidenza quotidiana della staticità della Terra e del moto del Sole,
trasforma la nuova teoria astronomica in rivoluzione del senso comune. Contraddicendo
l’evidenza sensibile la teoria copernicana impone infatti un riorientamento visivo e culturale; non
si tratta solo di riorganizzare la percezione del mondo e mutarne la descrizione (per coerenza
dovrebbero essere bandite, in quanto scientificamente irreali, espressioni comuni quali «il Sole
sorge e tramonta» e tutto ciò che la letteratura, l'astrologia hanno detto e dicono delle stelle e della
Luna), ma è posta soprattutto in discussione la visione ideologica del mondo fondata sul
geocentrismo.
1.2.1. Una astrologia e una cosmologia “ideologica”. L’ordine dell’astronomia e della cosmologia
aristotelica era infatti diventato il naturale e consolidato punto di riferimento per ordinare e
regolare, seppur in modo non organico né univoco, molti altri settori dell'esperienza, come il
mondo delle virtù e dei vizi, delle gerarchie sociali e professionali, il rapporto tra cielo e terra (e i
correlati: l’alto e il basso, i luoghi dell’aldilà come paradiso e inferno e le loro tradizionali
indicazioni spaziali [nell’alto dei cieli, negli abissi degli inferi…]), fede e ragione, potere della
chiesa e potere dello stato; sono questi aspetti «esterni» del problema, più che la teoria
astronomica in sé, a sollevare la reazione intimorita dei centri tradizionali di produzione e
controllo della cultura.
1.2.2. L’evidenza quotidiana del moto del Sole contrasta la teoria eliocentrica. La rivoluzione del
senso comune non ha l’effetto né l’intenzione di negare le evidenti percezioni contrastati il moto
della terra e la staticità del sole; in nome dell’esattezza e semplicità matematica quelle percezioni
non possono e non devono essere negate come dato visivo, ma vanno spiegate come ciò che ci si
attende normalmente nelle stessa nuova teoria. È evidente infatti la percezione quotidiana del
moto del Sole e della staticità della Terra, dati contrari alle tesi dell’astronomia copernicana, ma
devono essere considerate nella loro reale natura di dati visivi, collocati nel regno dell’apparenza.
Così ridefiniti i dati dell’esperienza non contrastano più con la teoria matematica dell’universo:
l’esposizione del sistema geometrico del cielo è infatti in grado di presentare l'ordine della realtà
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spiegando perché la percezione immediata pare discostarsi da esso. A tale scopo si impone una
radicale rivoluzione nell’ambito della fisica.
1.3. la “rivoluzione copernicana” è una rivoluzione dell’ordinamento delle scienze. In
particolare è la rivoluzione della fisica come scienza: un’unica fisica, della terra e del cielo. La
teoria copernicana contrasta la visione tradizionale del mondo delineata nelle opere di Aristotele e
dello scienziato Claudio Tolomeo (II sec. d.C.) non tanto perché pone il Sole al centro
dell'universo (sostituendo al sistema geocentrico un sistema eliocentrico), quanto perché,
collocando la Terra nel cielo (trasformandola cioè da centro dell’universo in pianeta del Sole)
annulla ogni possibile distinzione astronomica scientifica tra terra e cielo, tra fisica terrestre e
fisica celeste. Anche la Terra partecipa infatti, secondo Copernico, del moto perfetto,
uniformemente circolare, che la tradizione di Aristotele riservava ai corpi celesti. L'astronomia è
perciò destinata a trasformare il metodo dell’osservazione naturale della Terra e le leggi generali
dei movimenti dei corpi; essa impone alla fisica moderna un completo ripensamento delle sue
indagini e dei suoi principi. «Uno fra i caratteri più ragguardevoli della ricerca scientifica è il fatto
che essa non tiene alcun conto delle divisioni fra singole discipline. Galilei argomentò come se
non ci fosse alcuna differenza fra astronomia e fisica — due discipline che nella filosofia del
tempo venivano divise accuratamente —…» (Feyerabend 1978, 206)
1.4. la “rivoluzione copernicana” è una rivoluzione nella rivendicazione: lo scienziato
rivendica a sé la capacità di presentare la struttura oggettiva (non solo apparente o comoda)
dell’universo. La teoria copernicana riconduce dunque il disordine e l’irregolarità dei corpi
celesti, attestati dall’evidenza sensibile, all’ambito dell’apparenza e presenta invece l'ordine e la
regolarità come tratti propri dell'universo creato da Dio; Copernico può sostenere perciò la natura
oggettiva della propria teoria: essa non costituisce una semplice ipotesi ma descrive l’ordine
razionale del mondo.
1.4.1. Priva di alcun riscontro visivo, anzi in clamoroso contrasto con l’esperienza immediata e
con il senso comune, la teoria copernicana sembra far riesplodere, nell’ambito delle scienze della
natura, la secolare contrapposizione filosofica tra apparenza e realtà; si pone la necessità di
stabilire quali scienze e quali teorie aprano l’accesso alla realtà, quali invece, vittime di un fatale
inganno, si fermino al mondo superficiale delle apparenze. La nuova teoria astronomica, sostiene
Copernico, riceve la propria legittimazione di scienza oggettiva e vera dalla capacità di rispondere
alle esigenze della ragione e dell’evidenza quotidiana; essa infatti compone i moti del cielo
secondo un disegno matematico, ma dà anche piena soddisfazione ai dati raccolti dalle accurate
osservazioni astronomiche. La matematica infatti attrezza il pensiero e lo sguardo dell’uomo con
nuovi strumenti, permette di cogliere nuovi aspetti della realtà, prima ignorati per l'assenza di
concetti opportuni, suscita una nuova abitudine alla percezione globale e quotidiana del mondo.
1.4.2. «La trasformazione delle scienze classiche durante la Rivoluzione scientifica è attribuibile
più precisamente ai nuovi modi di guardare ai vecchi fenomeni che non a una serie di nuove
scoperte sperimentali.» (Kuhn S. Thomas, 1972 Tradizioni matematiche e tradizioni sperimentali
nello sviluppo delle scienze fisiche, in Kuhn S. Thomas, 1997, La tensione essenziale e altri saggi,
Einaudi, Torino 2006, 42)
1.5. la “rivoluzione copernicana” è una rivoluzione della visione complessiva del mondo
1.5.1. «Ma la “Rivoluzione copernicana" non comprendeva solo mutamenti nel campo
dell’astronomia bensì anche in settori che in principio non avevano alcuna connessione con
l’astronomia; conteneva mutamenti in fisica, in cosmologia, nella teoria della conoscenza, in
teologia, nella costruzione di tavole astronomiche e anche in filosofia generale (natura dell’uomo e
sua posizione nel mondo). I tentativi di spiegazione comuni si occupano esclusivamente dei
mutamenti intervenuti nell’ambito della teoria dei moti planetari.» (Feyerabend 1978, 195
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1.5.2. «Fu questo miscuglio di “microprocessi” estremamente diversi a condurre in astronomia al
“macroprocesso” accettazione della teoria copernicana, dove né i microprocessi e neppure il
macroprocesso seguirono i criteri allora usati o quelli oggi difesi di comportamento razionale…»
(Feyerabend 1978, 195)
1.5.3. «Così un controllo della concezione copernicana coinvolge da un lato, assunti concernenti
l’atmosfera terrestre, l’effetto del movimento sull’oggetto che è mosso (dinamica), e, dall’altro,
coinvolge pure assunti sulla relazione fra l’esperienza dei sensi e il “mondo” (comprese teorie
della percezione e teorie della visione telescopica). […] Orbene, non c’è alcuna garanzia che un
mutamento fondamentale nella cosmologia, com’è il mutamento da una concezione geocentrica a
una eliocentrica, vada di pari passo con un miglioramento di tutte le materie ausiliarie pertinenti. È
piuttosto il contrario: un simile sviluppo è estremamente improbabile. Chi, per esempio, si sarebbe
mai aspettato che l’invenzione della concezione copernicana e quella del telescopio sarebbero
state immediatamente seguite dall’appropriata ottica fisiologica? Le teorie fondamentali e le
materie ausiliari sono spesso “fuori fase”. Il risultato è che gli esempi confutanti che otteniamo
non indicano che una nuova teoria è condannata all’insuccesso, ma soltanto che per il momento
essa non si adatta al resto della scienza. Quando ciò avviene, gli scienziati devono sviluppare
metodi che permettano loro di conservare le loro teorie di fronte a semplici fatti che le confutano
apertamente e senza ambiguità, anche se non si affacciano all’orizzonte spiegazioni controllabili di
tale conflitto. Il principio della tenacia (che chiamo “principio” soltanto per ragioni mnemoniche)
è un primo passo nella costruzione di tali metodi.» (Paul Feyerabend,1969, Consolazioni per lo
specialista, in Lakatos Imre, Musgrave Alan (a cura di) 1970 Critica e crescita della conoscenza,
285) Tenacia e prolificazione sono le due componenti (“principi” pratici) operative nella ricerca
scientifica.
1.6. per una visione complessiva della “rivoluzione copernicana” costruita da un punto di
vista di carattere epistemologico. Traendo spunto dalle riflessioni di Laudan Larry 1981Un
approccio al progresso scientifico fondato sulla soluzione di problemi, in Hacking Ian (a cura)
1981, Rivoluzioni scientifiche, Laterza, Roma-Bari 1984.
1.6.1. il senso globale e fondamentale della rivoluzione copernicana: non è negata semplicemente
una teoria astronomica, è messa in questione una complessiva visione del mondo e, dal punto di
vista epistemologico, è messa sotto processo una tradizione di ricerca.
1.6.2. «In generale, queste [tradizioni di ricerca] constano di almeno due componenti: (I) un
insieme di convinzioni su quali sorte di entità e di processi compongano il campo di
investigazione, e (II) un insieme di norme epistemiche e metodologiche su come il campo debba
essere investigato, su come le teorie debbano essere sottoposte a controllo, su come i dati debbano
essere raccolti e via dicendo.» (Laudan 1981, 201)
1.6.3. «Le tradizioni di ricerca assolvono varie funzioni specifiche. Fra l’altro: a) indicano quali
assunti possano essere considerati una « conoscenza di sfondo» per tutti gli scienziati attivi in
quella tradizione; b) aiutano a identificare quelle porzioni di una teoria che sono in difficoltà e
dovrebbero essere modificate o emendate; c) stabiliscono regole per la collezione di dati e per il
controllo delle teorie; d) pongono problemi concettuali per qualsiasi teoria nella tradizione che
violi le tesi ontologiche ed epistemiche della tradizione madre.» (Laudan 1981, 202)
1.6.4. «Mentre le teorie possono essere abbandonate e sostituite molto spesso, le tradizioni di
ricerca hanno di solito lunga vita, potendo ovviamente sopravvivere alla morte di qualsiasi delle
teorie loro subordinate. Le tradizioni di ricerca sono unità che durano anche attraverso il
mutamento di teorie e che costituiscono, assieme con i problemi empirici risolti, gran parte della
continuità presente nella storia della scienza. Ma anche tradizioni di ricerca possono essere
rovesciate. Per comprendere come, dobbiamo introdurre nel quadro il meccanismo di valutazione
fondato sulla soluzione di problemi.» (Laudan 1981, 202)
1.6.5. «Una teoria è più adeguata (cioè più accettabile) di una rivale solo nel caso che abbia
rivelato una maggiore efficienza nella soluzione di problemi rispetto all’altra. Una tradizione di
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ricerca è più adeguata di un’altra solo nel caso che l’insieme di teorie che la caratterizza in un
tempo dato sia più adeguato dell’insieme di teorie che compongono una qualsiasi tradizione di
ricerca rivale.» (Laudan 1981, 203)
1.6.6. «Nella valutazione scientifica c’è però un elemento prospettivo oltre che un elemento
retrospettivo. La nostra speranza è quella di pervenire a teorie in grado di risolvere più problemi,
compresi problemi empirici potenziali, di quelli di cui siamo in grado di venire a capo
attualmente. Noi cerchiamo teorie che promettano fecondità nell’estendere l’ambito di ciò che
possiamo spiegare e predire oggi.» (Laudan 1981, 203)
1.7. Nella teoria copernicana, eliocentrica, persiste «la tentazione di collocarsi al centro».
1.7.1. Si può comporre centralità e contingenza, senza consegnare necessariamente la centralità
della terra o al concetto antico di abiezione e quasi sentina dell’universo (fino a porre al centro
della terra l’inferno, come da schema dantesco), o al concetto di potenza e dominio quale sembra
essere preminente nelle tesi di coloro che difendono accanitamente, già ai tempi di Copernico, la
centralità della terra; una centralità che, legata alla contingenza, si accompagna ai temi della scelta
e della responsabilità. Basta pensare alla Oratio de dignitate hominis scritta da Pico della
Mirandola nel 1485 come discorso di apertura di una grande adunanza di dotti che si sarebbe
dovuta tenere a Roma sotto gli auspici di papa Innocenzo III e che, pur non recitata, è diventata il
manifesto etico dell’umanesimo. Pico immagina che Dio, creando l'uomo, gli si rivolga con queste
parole: «… Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel
mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi
libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai
degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle
cose superiori che sono divine».
1.7.2. Giordano Bruno (1548-1600 arso vivo), affermando che il cosmo, l’universo, è una unità
infinita, annulla la possibilità che si possa indicarne un centro e una circonferenza. Copernico e
Galilei, passando dal geocentrismo all’eliocentrismo, conservano invece l’idea di un centro
dell’universo che attribuiscono al Sole. La «tentazione di collocarsi al centro» si rivelerà un
ostacolo di lunga durata per le ricerche fisiche astronomiche. «… la tentazione di collocarsi al
centro. Si tratta di un presupposto naturale e spesso anche di una necessità pratica, ma è stato un
ostacolo enorme per lo sviluppo di un modello accurato dell’universo. Ci vollero l’intuizione e la
fermezza intellettuale di Galileo e Copernico per sfidare la visione ortodossa che voleva la nostra
madre Terra al centro dell’universo, come lo eravamo noi. Abbandonare questa visione infantile
non fu semplice e, una volta abbandonata, l’idea che almeno il sistema solare fosse al centro
dell’universo visibile restò in voga fino ai primi decenni del ventesimo secolo. Come spesso
accade nella scienza, fu necessario un decisivo progresso nell’osservazione della natura per
convincere tutti che non era così.» (Scharf Caleb, 2012, I motori della gravità. L’altra faccia dei
buchi neri, codiceedizioni, Torino 2014, 46.)
1.7.3. per una visione contemporanea: esistono miliardi di soli nella nostra galassia e miliardi di
galassie nell’universo. Dall’opera di Caleb Scharf si può ricavare lo stato delle conoscenze attuali,
a partire dal 1918 (“La scoperta fatta da Harlow Shapley nel 1918 fu l’inizio della moderna
mappatura del cosmo), dei “quattordici miliardi di anni della storia dell’universo”; per un
confronto: è noto che il sole è una stella di una galassia, quella chiamata via Lattea, «… ora siamo
in grado di stimare che il numero totale di galassie nell’universo osservabile supera probabilmente
i cento miliardi, anzi potrebbe avvicinarsi a duecento miliardi di sistemi distinti. La Via Lattea è
una galassia grande, una delle maggiori. Le galassie del suo tipo contengono centinaia di miliardi
di stelle, di protostelle e di resti stellari. […] Una grande galassia come la Via Lattea contiene
oltre duecento miliardi di stelle normali. […] non solo …la Via Lattea è una galassia tra le tante,
ma …per questi oggetti non esiste alcun centro, e … tutte le galassie si allontanano
reciprocamente mentre l’universo si espande. […] In tutte le galassie non c’è una sola stella che
sia immobile. In quelle ellittiche e nane la maggior parte delle stelle vola avanti e indietro,
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seguendo orbite semplici che le portano prima ad avvicinarsi e poi ad allontanarsi dal centro
galattico. […] Il Sole è collocato in posizione molto eccentrica nel sistema [...] il gruppo locale si
trova a circa metà strada tra il centro e il margine della galassia. […] È questo, dunque, tutto ciò
che abbiamo: un pezzettino di mappa dell’infinito. Il resto, se potessimo vederlo, si estenderebbe
alla grande scala dell’universo osservabile, a tutti i suoi 13,8 miliardi di anni, e andrebbe per
giunta completato con i dettagli di ogni frastagliato pezzo di roccia, di ogni rarefatta nube di gas.
[…] I numeri non sono granitici, perché la valutazione statistica è più un’arte che una scienza, in
questo caso. Nonostante ciò, non sarebbe una scommessa azzardata dire che esistono
1.000.000.000.000.000.000.000 (1021, ovvero mille miliardi di miliardi) di singole stelle
nell’intero universo osservabile... o forse da dieci a cento volte di più. Si tratta di un numero
eccezionalmente grande. È interessante notare che il numero complessivo di esseri umani venuti al
mondo, a partire da cinquantamila o centomila anni fa, è generalmente stimato intorno ai cento
miliardi. Quindi, facendo i conti a spanne, nell’universo esistono circa dieci miliardi di stelle per
ogni essere umano mai esistito.» (Scharf Caleb, 2012, I motori della gravità, 46-70 passim).
1.7.2. Una nuova presenza: i buchi neri. Da un’altra prospettiva, il ruolo dei buchi neri: «Il nostro
lontano colosso e i suoi simili rappresentano un caso estremo della fauna e della flora galattiche.
Sono gli alberi giganti nella parte più fiorente della foresta tropicale cosmica. Oggi ci sono pochi
dubbi che, in questi ambienti, i buchi neri supermassivi abbiano svolto un ruolo significativo,
probabilmente il ruolo principale, nel modellare le forme che oggi osserviamo. Dodici miliardi di
anni fa, e anche prima, agirono come regolatori e tutori dell’ordine per arginare l’ondata di nuove
stelle quando la materia si raffreddò e si condensò. Da allora, hanno continuato a tenere a bada la
materia. Le grandi bolle negli ammassi hanno miscelato gli elementi e regolato la trasformazione
del gas caldo grezzo in nuove stelle e nuovi pianeti. Ma questo avviene in sincrono con il flusso
verso l’interno di questa stessa materia, una stupefacente sinfonia di retroazione ed equilibrio.
Questi grandi sistemi inspirano ed espirano. Anche altrove, in altre galassie, i buchi neri
supermassivi fanno sentire la loro presenza, ma in queste altre macchie e boschetti di alberi e
cespugli galattici, il gioco intrecciato di costruzione e distruzione è più complesso. Noi ci siamo
ritrovati a vivere in una grande galassia a spirale, la Via Lattea. È un territorio interessante: né uno
stagno secondario né una delle grandi strutture simili a cattedrali, le galassie ellittiche giganti
all’interno degli ammassi. È naturale chiedersi quale influenza abbiano avuto i buchi neri su
questo luogo, e quale ruolo possano avere in futuro, il che ci porta all’ultima parte della nostra
storia, la ricerca delle origini e della natura del nostro ambiente galattico e forse anche della vita.»
(Scharf Caleb, 2012, I motori della gravità, 187)
2. Galileo Galilei (1564-1642)
Nella rivoluzione scientifica che prende forma nelle opere di Galilei riveste una importanza
fondamentale il dichiarato e pieno sostegno che Galilei esprime nei confronti delle teorie
astronomiche di Copernico. Ad esse fa riferimento, come contesto applicativo se non come
fondamento unico di legittimazione, il richiamo al rispetto dell’esperienza, la tesi della natura
matematica dell’universo, la rivendicazione dell’autonomia della scienza nella presentazione di
una teoria oggettiva del mondo, la costruzione della fisica secondo leggi naturali e non secondo
cause e, in particolare, la presentazione delle due leggi cardine della nuova fisica: il principio di
inerzia e di relatività.
2.1. l’autonomia della scienza sulla base di propri fondamenti
1613 Galileo Galilei, Lettera a Benedetto Castelli (dalle “lettere copernicane”)
Il tema: «…tornar a considerare alcune cose in generale circa ‘l portar la Scrittura Sacra in dispute
di conclusioni naturali …»
«… parmi che prudentissimamente fusse proposto da quella e conceduto e stabilito dalla Paternità
Vostra, non poter mai la Scrittura Sacra mentire o errare, ma essere i suoi decreti d’assoluta ed
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inviolabile verità. Solo avrei aggiunto, che, se bene la Scrittura non può errare, potrebbe
nondimeno talvolta errare alcuno de’ suoi interpreti ed espositori, in vari modi: tra i quali uno
sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle
parole, perché così vi apparirebbono non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie
ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali
e umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, e anco talvolta l’obblivione delle cose passate e
l’ignoranza delle future. Onde, sì come nella Scrittura si trovano molte proposizioni le quali,
quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa per
accomodarsi all’incapacità del vulgo, così per quei pochi che meritano d’esser separati dalla plebe
è necessario che i saggi espositori produchino i veri sensi, e n’additino le ragioni particolari per
che siano sotto cotali parole stati profferiti.
Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente
bisognosa d’esposizioni diverse dall’apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute
naturali ella doverebbe esser riserbata nell’ultimo luogo: perché, procedendo di pari dal Verbo
divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come
osservantissima esecutrice degli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per
accomodarsi all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al
significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all’incontro, essendo la natura inesorabile e
immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti
alla capacità de gli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli; pare
che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le
necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per
luoghi della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della
Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura.»
2.1.1. Due libri (Natura e Scrittura), due diverse intenzionalità, diversi criteri di lettura e di
interpretazione. I passaggi del ragionamento di Galilei in sintesi: 1. la bibbia non sbaglia mai (è
divina rivelazione); 2. gli interpreti possono errare: 2.1. soprattutto quando si fermano al senso
letterale delle parole creando effetti inaccettabili per la stessa nozione del divino; 3. la corretta
interpretazione della Scrittura comporta la conoscenza 3.1. dell’intentio auctoris, la salvezza e non
la scienza; 3.2. del principio pedagogico che la rende possibile: adattamento di Dio alla capacità
(mente e conoscenze) del destinatario; 4. provengono del pari da Dio Natura e Scrittura ma
caratterizzate da una diversa logica: la necessità delle leggi per la Natura (che dunque va letta sulla
base dell’esperienza e della matematica), la scelta salvifica dell’adattamento all’uomo per la
Scrittura (che dunque non può essere interpretata sempre in senso letterale).
La discussione intorno al citare la Sacra Scrittura nelle dispute scientifiche permette di mettere a
punto i criteri di interpretazione della Scrittura e i metodi di costruzione del sapere scientifico.
L’ermeneutica biblica si svolge correttamente se non dimentica l’“intentio auctoris”, cioè
l’obiettivo della salvezza, e il conseguente processo di adattamento della parola di Dio alle
capacità della mente umana storicamente segnata. La scienza della natura rispetta il corso degli
eventi secondo regolarità, leggi e cause se si attiene alle “sensate esperienze” e procede con
“matematiche dimostrazioni”.
2.1.2. Una lunga disputa, partita da Copernico (o lì solo riesplosa) e ancora oggi né risolta né
sopita. La convinzione che sia compito dell’astronomo, e più in generale dello scienziato, quando
rispetta le regole di metodo che lo pongono in sintonia con il linguaggio della natura, delineare la
struttura oggettiva dell’universo (tesi ripetutamente affermata da Copernico e dagli astronomi che
ne condividevano la teoria) è destinata ad avviare uno dei più vivaci e tragici scontri nella storia
del pensiero moderno. La tradizione ha da sempre riconosciuto all’astronomo un'ampia libertà nel
fornire teorie e modelli; essa tuttavia riteneva che il compito dell’astronomo consistesse nella
formulazione di ipotesi con cui comporre ordinatamente la visione dei corpi celesti e non nella
descrizione della sua forma oggettiva. Dai teologi cristiani tale convinzione è ancora più
saldamente ribadita e con essa Galilei disputa nelle “lettere copernicane”. Secondo i teologi e gli
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uomini di chiesa, la struttura oggettiva dell’universo è quella delineata dal modello di Aristotele,
perché Dio nella Sacra Scrittura ha parlato del mondo in termini aristotelici; alla Scrittura, ai suoi
legittimi interpreti e ai teologi spetta dunque il compito di controllare la verità delle dottrine
astronomiche e scientifiche. Quando delinea una teoria astronomica su basi matematiche e le
attribuisce la capacità di presentare l’ordine e la regolarità geometrica con cui Dio ha creato la
struttura dell'universo, Copernico e soprattutto Galilei rivendicano invece allo scienziato il
compito e il diritto di definire l'oggettiva struttura dell'universo: «i pensieri del filosofo — osserva
Copernico — sono ben lontani dall’opinione comune, proprio perché il suo primo compito è
cercare la verità in ogni cosa, almeno nei limiti concessi da Dio alla ragione umana»; e Galilei:
«… quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le
necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per
luoghi della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della
Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura.»
2.1.3. Esperienza e ragione «sensata esperienza …necessarie dimostrazioni». Gli argomenti a
difesa del moto della Terra dimostrano che i sensi da soli sono incapaci di darci la vera
conoscenza della natura; la comprensione della realtà è frutto del ricorso al «senso, ma
accompagnato col discorso», cioè con il supporto della ragione. La catalogazione di alcuni dati dei
sensi come apparenti e di altri come reali deriva dal fatto che l’osservazione e la dimostrazione
scientifiche sono guidate da ipotesi teoriche e non si limitano a una disordinata percezione e
registrazione dei contenuti sensibili; di conseguenza dichiarare apparenti alcuni dati
dell’esperienza comunemente condivisi significa mettere in discussione gli elementi linguistici e
concettuali che ne han reso possibile la percezione e la descrizione. Le esperienze con le quali
Galilei dimostra le leggi fisiche della teoria copernicana sono rese possibili dalla introduzione di
una nuova prospettiva di osservazione che mira a cogliere le regolarità matematico-geometriche
della natura.
2.1.3.1. Una precisazione doverosa: osservazioni e dimostrazioni, richiamati da Galilei a sostegno
della propria teoria (copernicana), sono gli stessi fondamenti scientifici (fenomeni osservati,
dimostrazioni geometriche) che anche Tolomeo, nell’Almagesto, poneva alla base della propria
teoria astronomica di carattere geocentrico. «Cercherò di esporre chiaramente ciascuna di queste
sezioni, utilizzando come principi e, per così dire, fondamenti per lo stabilimento delle teorie i
fenomeni evidenti e quelle indubitabili tra le osservazioni degli antichi e nostre; e connetterò le
conoscenze che ne conseguono per mezzo delle dimostrazioni caratteristiche dei procedimenti
geometrici.» (Tolomeo, Almagesto, in Hack 2012, 29)
È però altrettanto necessario far notare la diversa relazione posta tra le due componenti: esperienza
e matematica. Tolomeo conserva l’esperienza sensibile così come si manifesta immediatamente e
ad essa adatta la geometria moltiplicandone ad hoc le forme. Copernico e Galilei negano
l’evidenza sensibile (ad es. del moto del sole), o meglio vi fanno forza, riportandola ad un disegno
geometrico composto secondo rigore e semplicità, dimostrando poi come quella esperienza trova
spiegazione e legge, armonia e ordine, nella nuova composizione matematica della realtà. Si tratta
di due ben diversi modi di “salvare le apparenze”; l’impostazione di Copernico e Galilei mette a
frutto la capacità logica organizzativa della matematica con la consapevolezza del ruolo che essa
svolge nel metodo che conduce alla conoscenza della realtà, e (come chiarità Descartes con la
metafora dell’orologio) nella pluralità dei modi con cui questo compito può svolgersi.
2.2. Scienza, matematica e natura. L’autonomia della scienza sulla base della matematica come
metodo e come “scrittura” del mondo. Il mondo è scritto matematicamente.
1623 Galileo Galilei, Il Saggiatore
«Ma tornando al proposito, vegga com’egli di nuovo vuol pure ch’io abbia reputato gran
mancamento nel P. Grassi l’aver egli aderito alla dottrina di Ticone, e risentitamente domanda:
Chi ci doveva seguitare? forse Tolomeo, la cui dottrina dalle nuove osservazioni in Marte è
scoperta per falsa? forse il Copernico, dal quale più presto si deve rivocar ognuno, rnercé
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dell’ipotesi ultimamente dannata? Dove io noto più cose: e prima, replico ch’è falsissimo ch’io
abbia mai biasimato il seguitar Ticone, ancor che con ragione avessi potuto farlo, come pur
finalmente dovrà restar manifesto a i suoi aderenti per l’Antiticone del signor cavalier
Chiaramonte; sì che quanto qui scrive il Sarsi, è molto lontano dal proposito; e molto più fuor del
caso s’introducono Tolomeo e Copernico, de’ quali non si trova che scrivessero mai parola
attenente a distanze, grandezze, movimenti e teoriche di comete, delle quali sole, e non d’altro, si
è trattato, e con altrettanto occasione vi si potevano accoppiare Sofocle, e Bartolo, o Livio. Parmi,
oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi
all’opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso
d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un
libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno
importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La
filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi
(io dico lo universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e
conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son
triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne
umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. Ma posto pur
anco, come al Sarsi pare, che l’intelletto nostro debba farsi mancipio dell’intelletto d’un altr’uomo
(lascio stare ch’egli, facendo così tutti, e se stesso ancora, copiatori, loderà in sé quello che ha
biasimato nel signor Mario), e che nelle contemplazioni de’ moti celesti si debba aderire ad
alcuno, io non veggo per qual ragione ci s’elegga Ticone, anteponendolo a Tolomeo e a Nicolò
Copernico, de’ quali due abbiamo i sistemi del mondo interi e con sommo artificio costrutti e
condotti al fine; cosa ch’io non veggo che Ticone abbia fatta, se già al Sarsi non basta l’aver
negati gli altri due e promessone un altro, se ben poi non eseguito.» (G. Galilei, Opere, vol. I, pp.
280-281, F. Rossi, Napoli 1970)
2.2.1. Matematica e mondo. Ispirato dalla lettura delle opere di Euclide, di Archimede e della
tradizione pitagorico-platonica, Galilei si fa sempre più convinto assertore della struttura
matematica dell’universo. La natura nel suo complesso è come un libro scritto in caratteri
matematici, afferma nel 1623 nel Saggiatore; pertanto la sua «lettura» deve essere fondata su
numeri, figure, rapporti. Solo una descrizione quantitativa dei fenomeni e dei loro legami conduce
a una conoscenza certa e rigorosa delle leggi dell’universo. Le qualità soggettive, come il colore,
l'odore, il sapore, non riconducibili a precise misurazioni matematiche, sono al di fuori dell’ambito
di ogni certezza scientifica; solo le qualità matematizzabili, come il peso, la grandezza, la figura, il
movimento, possono essere oggetto di scienza.
2.2.1.1. «Si è ritenuto che la filosofia sottostante alla rivoluzione scientifica del Cinque-Seicento
fosse fortemente imbevuta non di empirismo baconiano ma piuttosto — per un colmo di ironia! —
di razionalismo platonico. Tali conclusioni sono state ancor più generalizzate: mentre
l'esperimento svolge nelle grandi rivoluzioni scientifiche fondamentali un ruolo molto minore di
quanto abbiano supposto molti filosofi, vi hanno una funzione cruciale certi tipi di presupposti,
non classificabili come «empirici» in nessuno dei soliti sensi tradizionali.» (Dudley Shapere,
Significato e mutamento scientifico in Hacking Ian (a cura) 1981, Rivoluzioni scientifiche, Laterza,
Roma-Bari 1984, 58)
2.2.2. Verità e certezza scientifica. Pervenendo alla conoscenza matematica dei fenomeni naturali,
l’uomo raggiunge un grado di certezza assoluta che eguaglia quella che Dio stesso, creatore
dell'universo, ha del mondo. Vi sono comunque due rilevanti differenze tra la conoscenza divina e
quella umana: la prima coglie tutti i rapporti matematici che vi sono tra i fenomeni, mentre la
seconda si limita ad alcuni (anche se, nel tempo, è destinata ad ampliarsi, non giungerà mai a
esaurirne il numero); Dio, inoltre, conosce intuitivamente, in modo immediato, le leggi
matematiche della natura, mentre l’uomo le conosce discorsivamente, con catene dimostrative,
passaggi logici.
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2.2.3. La metafora del libro dell’universo. Tra le molte metafore che i filosofi moderni utilizzano
per dare efficacia e immediatezza alla loro esposizione (il viaggio, il labirinto, l’edificio) quella
del libro viene impiegata per indicare il mondo: essa consente una contrapposizione tra il libro di
carta (dell’auctoritas) e il libro della natura (dei sensi e della ragione) e propone al filosofoscienziato l’idea di un mondo interamente leggibile, interpretabile, scientificamente presentabile
con verità e certezza.
2.2.3.1. La metafora creata dall'accostamento libro – universo e l’espressione «libro della natura»,
si riallaccia all’idea che la divinità, per tradizione dotata della prerogativa sovrana della scrittura,
modelli, scriva con i propri caratteri le forme della natura. In questo caso il Dio di Galilei sarebbe
un matematico che ha creato un universo geometrico: solo con una paziente «arte divinatoria»
l’uomo può decifrare, a partire dal mondo, i segni dell’azione creatrice della divinità. Il mondolibro diventa leggibile se si scoprono la trama e i caratteri da cui è costituito; l’abilità richiesta è
quella di oltrepassare l’immediatezza della percezione sensibile per cogliere la legge immutabile
della natura.
2.2.3.2. Con la metafora dell’universo come libro scritto in caratteri matematici Galileo ci offre
un’immagine efficace, ma forse ambigua, non univoca: se è chiaro infatti che senza l’ausilio della
matematica la nostra conoscenza «è un oscuro labirinto», non altrettanto chiaro è quale valore e
funzione Galilei attribuisca alla matematica; in particolare il testo galileiano non consente di
decidere con sicurezza se la matematica sia la trascrizione della struttura profonda, essenziale,
metafisica del mondo (e pertanto la conoscenza della natura sia matematica perché il mondo è
matematico) oppure sia un semplice linguaggio che, senza necessariamente pervenire alla struttura
intima del mondo, ne consente una descrizione e una costruzione scientifica. Tuttavia, la lettura
metafisica della matematica (introdotta e giustificata con un escamotage teologico) permette
l’incontro delle due tradizioni, una tradizione matematica (pitagorico-platonica ideale) e una
tradizione sperimentale (empirista e sensista), nella fisica di Galilei e nella fisica moderna.
(All’uso della metafora del libro-universo nel testo galileiano sono dedicate alcune significative
pagine del saggio di H. Blumenberg, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della
natura, Il Mulino, Bologna 1984 pp. 63-78).
2.3. La fisica galileiana: dalla causa e dalle sostanze, alle quantità e alle leggi.
1632 Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano
2.3.1. Un confronto: fisica aristotelica e fisica galileiana. La fisica aristotelica era dominata dal
problema degli elementi, delle loro qualità e posizioni: il fuoco, l’aria, l’acqua, la terra hanno,
idealmente, un luogo naturale in sfere autonome e concentriche, disposte secondo un ordine che,
dall’esterno all'interno, va dall’elemento più leggero a quello più pesante. Tuttavia, poiché nel
mondo terrestre gli elementi sono mescolati e confusi, essi naturalmente tendono a raggiungere, per
la via più breve, il proprio luogo naturale e così tornare allo stato perfetto di quiete. Altrettanto
accade anche nel mondo celeste (costituito da un elemento inalterato e senza mescolanza, il «quinto
elemento») dove ogni corpo permane in quiete nel proprio luogo naturale e gli astri, incastonati in
sfere cristalline perfettamente trasparenti, percorrono spazi uguali in tempi uguali descrivendo orbite
perfettamente circolari. Galilei muta la prospettiva e l’oggetto della ricerca fisica; cancellando, con
le tesi eliocentriche copernicane, ogni distinzione tra scienza del mondo sublunare e del mondo
sovralunare non sono gli elementi e le qualità dei corpi a costituire il fondamento e l’oggetto della
sua fisica, ma i dati quantitativi e il movimento; sono realtà “matematiche” e per la loro lettura
occorre lo strumento matematico. La costituzione matematica dell'universo impone come oggetto di
indagine non la sostanza dei corpi, ma alcune loro affezioni misurabili, non la ricerca delle cause,
ma l’individuazione delle leggi che regolano movimenti e rapporti fenomenici.
2.3.2. Un sistema inerziale. Secondo questa prospettiva, le leggi della meccanica celeste e terrestre
non si differenziano; anzi condizione ideale e naturale dell’intero universo e quindi della stessa terra
non è la quiete, ma proprio quel movimento che Aristotele aveva collocato nel cielo: il moto
uniforme secondo orbite circolari. Non è più dunque il moto a richiedere una spiegazione, ma il suo
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arresto, la quiete. A questo problema Galilei dà una precisa spiegazione formulando quello che la
tradizione successiva definirà come principio d'inerzia: «il mio intelletto concepisce un mobile
spinto su un piano orizzontale senza nessun ostacolo al suo moto: è evidente che questo si manterrà
costante e non cesserà, se il piano si estende all’infinito». Di conseguenza si chiamerà «inerziale un
sistema di riferimento rispetto a cui vale la legge d’inerzia – un corpo, sottratto all’azione di tutti gli
altri corpi dell’universo, persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme». (Bergia
Silvio, Spazio, tempo e velocità, in Bellone Enrico 2012 Albert Einstein. Relativamente a spazio e
tempo, Gruppo editoriale l’Espresso, Roma, 52)
2.3.3. Il punto di vista del matematico, un punto di vista ideale. Presentato in più modi nel
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, questo principio consente di confutare le
obiezioni alla teoria copernicana, di fornire una legge fondamentale del moto e imporre una
concezione rigorosamente geometrica dello spazio. Il solco tra la fisica galileiana e la comune
esperienza sensibile sembra così approfondirsi: contro l'affermazione teorica secondo cui il
movimento è una condizione dei corpi naturalmente destinata a non cessare, l'evidenza quotidiana
mostra che i corpi si arrestano; contro il moto della Terra, il senso comune afferma l'evidenza
della sua immobilità. La fisica di Galilei descrive del resto il moto in una situazione ideale, che
non pretende di trovare conferma nell'esperienza sensibile: se le scienze fisiche devono
raggiungere il rigore e l'universalità della matematica esse devono necessariamente scostarsi dal
piano dell’esperienza immediata, dove gli enti non si configurano con l’esattezza dei numeri e
delle figure geometriche e dove non si creano le condizioni di perfetta indipendenza dalle
circostanze contingenti (l’assenza di gravità, il vuoto, un moto realmente uniforme) che la fisica
esige per strutturarsi come scienza matematica rigorosa, universalmente valida. Consapevole della
distanza tra osservazione e teoria fisica, Galilei sottolinea costantemente questo divario invitando
a un nuovo modo di concepire l’esperienza: «quando il filosofo geometra vuol riconoscere in
concreto gli effetti dimostrati in astratto, bisogna che difalchi gli impedimenti della materia; che,
se ciò si saprà fare, io vi assicuro che le cose si riscontreranno»; la relazione matematica non è
oggetto di esperienza visiva immediata, ma di una esperienza ideale del «vedere» con gli «occhi
della mente».
Nella fisica di Galilei (nella teoria copernicana) si registra la rivoluzione in atto nei confronti
dell’esperienza sensibile. Un confronto tra l’atteggiamento di Aristotele (o del pensiero scientifico
classico generale) e l’atteggiamento presente nella fisica di Galilei (o nel pensiero scientifico
moderno in generale) mette in evidenza il cambiamento sul tema del rapporto teoria-esperienza.
«La differenza fra l’empirismo aristotelico e l’empirismo delle scienze moderne non risiede
dunque nel fatto che il primo non si rende conto di errori di osservazione, mentre le scienze
moderne rilevano ed esaminano tali errori. La differenza risiede nel ruolo che l’errore può
svolgere.» (Feyerabend Paul K. 1978/1980, La scienza in una società libera, Feltrinelli, Milano
1981, 194)
2.3.3.1. «In Aristotele l’errore occulta e deforma particolari percezioni, ma lascia intatti i caratteri
generali del sapere percettivo. Benché gli errori possano essere molto grandi, consentono
nondimeno di ricostruire i tratti generali della percezione e contengono l’informazione di cui noi
abbiamo bisogno. La filosofia aristotelica corrisponde al buon senso. Anche il buon senso
ammette che ci siano errori, anch’esso ha vie e mezzi per trovarli, per eliminarli, fra cui risultati
scientifici, e neppure esso ammetterà mai che l’uomo intelligente e sveglio possa sbagliare per
principio. L’errore è un fenomeno locale, non deforma la nostra intera visione del mondo.»
(Feyerabend 1978, 194) L’errore si presenterebbe quindi come un difetto del nostro sistema
percettivo, un limite, una debolezza umana; va colto, analizzato, annoverato, corretto o rimosso.
2.3.3.2. In Galilei (nella scienza moderna) l’atteggiamento nei confronti dell’errore sensibile muta
radicalmente e rende “relativo” (o magari cancella) il concetto stesso di errore. Galilei spiega
l’errore (vedere la terra ferma, quando la teoria ne afferma il moto, peraltro segnato da alte
velocità) presentandolo come ciò che naturalmente deve accadere e attua questo processo a partire
proprio dalla legge fisica che sembra contrastare (o essere negata da) quel dato di esperienza
14
evidente. La percezione della terra ferma non è un errore (illusione, inganno) ma è un dato
evidente e ora è la conseguenza necessaria delle leggi fisiche espresse dai principi di inerzia e di
relatività.
2.3.4. La relatività (il principio della relatività). La teoria astronomica copernicana e le leggi della
fisica che ne attestano l’oggettività, in quanto si pongono in contrasto con i dati dell'osservazione
quotidiana, ripropongono quindi il problema del rapporto tra teoria e osservazione sensibile: è un
rapporto fondativo necessario per la teoria, è evidente il ricorrere del contrasto tra esperienza
sensibile e nunciato della legge fisica; Galilei ne cerca la soluzione proponendo il concetto di
esperienza ideale. Quando le nuove leggi meccaniche dell’universo vengono poste a confronto con
i dati dell’osservazione sensibile quotidiana, e questi, a loro volta, vengono collocati all`interno di
un sistema d’esperienza costruito idealmente (caratterizzato cioè dalle condizioni ideali richieste
dalla teoria copernicana, che sono proprie di un sistema inerziale dotato di moto rettilineo
uniforme), allora non solo quelle leggi non entrano in contrasto con i dati della percezione
sensibile quotidiana, ma vi trovano una indiretta conferma.
L’esperimento ideale della relatività (relatività galileiana).
2.3.4.1. le obiezioni dall’osservazione quotidiana. «SAGREDO. Restami solamente qualche
scrupolo, come di sopra ho accennato, intorno al volar de gli uccelli; i quali, avendo, come
animati, facultà di muoversi a lor piacimento di centomila moti, e di trattenersi, separati dalla
Terra, lungamente per aria, e qui con disordinatissimi rivolgimenti andar vagando, non resto ben
capace come tra sì gran mescolanza di movimenti non si abbia a confondere e smarrir il primo
moto comune ed in qual modo, restati che ne sieno spogliati e’ lo possano compensare e
ragguagliar co’l volo, e tener dietro alle torri ed a gli alberi che di corso tanto precipitoso fuggono
verso levante: dico tanto precipitoso che nel cerchio massimo del globo è poco meno di mille
miglia per ora, delle quali il volo delle rondini non credo che ne faccia cinquanta. SALVIATI.
Quando gli uccelli avessero a tener dietro al corso de gli alberi con l’aiuto delle loro ali, starebbero
freschi; e quando e’ venisser privati dell'universal conversione, resterebbero tanto indietro, e tanto
furioso apparirebbe il corso loro verso ponente, a chi però gli potesse vedere, che supererebbe di
assai quel d’una freccia; ma credo che noi non gli potremmo scorgere, sì come non si veggono le
palle d’artiglieria, mentre, cacciate dalla furia del fuoco, scorron per aria. Ma la verità è che il
moto proprio de gli uccelli, dico del lor volare, non ha che far nulla co’l moto universale, al quale
né apporta aiuto né disaiuto: e quello che mantiene inalterato cotal moto ne gli uccelli, è l’aria
stessa per la quale e’ vanno vagando, la quale, seguitando naturalmente la vertigine della Terra, si
come conduce seco le nugole, così porta gli uccelli ed ogn’altra cosa che in essa si ritrovasse
pendente: talché, quanto al seguir la Terra, gli uccelli non v’hanno a pensare, e per questo servizio
potrebbero dormir sempre.» (Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo)
2.3.4.1. L’esperimento ideale della relatività. La terra: un sistema inerziale e la relatività (quindi
anche impercettibilità) del suo moto. Un sistema inerziale come la Terra (o come una nave
idealmente pensata in moto rettilineo e uniforme) non fornisce al proprio interno alcun indizio che
attesti il proprio stato di moto; il sistema appare cioè, a chi ne osserva dall’interno i fenomeni
meccanici, assolutamente in quiete; solo relativamente a un punto esterno di osservazione è
possibile coglierne lo stato di moto (è il principio galileiano di relatività). Galilei riprende gli
stessi dati dell’osservazione quotidiana, che vengono solitamente addotti per confutare la teoria
copernicana, allo scopo di fornirne una spiegazione alla luce della nuova teoria, che ottiene così
una conferma sperimentale. Il volo degli uccelli, la traiettoria di un corpo proiettato non mutano la
propria traiettoria se si ipotizza che la terra da cui si sono staccati è in moto; oltre al proprio
movimento quei corpi condividono infatti il moto comune del sistema; la loro osservazione
quotidiana non si oppone dunque alla teoria copernicana del moto della Terra, ma diventa
un’accurata descrizione della situazione dinamica interna a un sistema inerziale ideale.
«SALVIATI. … E qui, per ultimo sigillo della nullità di tutte le esperienze addotte, mi par tempo
e luogo di mostrar il modo di sperimentarle tutte facilissimamente. Rinserratevi con qualche amico
nella maggior stanza che sia sotto covata di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle
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e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi
anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di
angusta bocca, che sia posto a basso; e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli
animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedranno andar
notando indifferentemente per tutti i versi; le stile cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto; e
voi, gettando all’amico alcuna cosa non più gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte
che verso questa, quando le lontananze sieno eguali; e saltando voi, come si dice, a piè giunti,
eguali spazi passerete verso tutte le parti. Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose,
benché niun dubbio ci sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succeder così, fate muover
la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in
là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli
potrete comprender se la nave cammina o pure sta ferma: voi saltando passerete nel tavolato i
medesimi spazi che prima, né, perché la nave si muova velocissimamente, farete maggior salti
verso la poppa che verso la prua…» (Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo)
Il moto della nave è relativo a un punto di riferimento ad essa esterno.
2.4. La ragione scientifica moderna e l’esperimento ideale. Il binomio ragione ed esperienza
«Deposta l’apparenza... facciamo forza co’l discorso». Le esperienze con le quali Galilei dimostra
le leggi fisiche della teoria copernicana sono rese possibili dalla introduzione di una prospettiva di
osservazione che mira a cogliere le regolarità matematico-geometriche della natura: l’esperimento
ideale (concettuale, teorico, di pensiero) alla ricerca dell’experimentum crucis (quello che Bacone
chiamava instantia crucis nel Novum Organum), e Galilei parafrasa “ultimo sigillo”. «Quando i
fisici si trovano di fronte a particolari difficoltà nel verificare le previsioni delle loro teorie, a volte
ricorrono agli «esperimenti teorici»; scenari immaginari idealizzati in cui non si viola alcuna legge
fisica, ma troppo estremi e ipotetici per essere realizzati praticamente in un laboratorio.» (AlKhalili Jim, 2012, La fisica del diavolo. Maxwell, Schrödinger, Einstein e i paradossi del mondo,
Bollati Boringhieri, Torino, 160) Vale il senso che K.R. Popper attribuisce all’’«esperimento
cruciale»: «per «esperimento cruciale» intendo un esperimento che è stato progettato per confutare
(se è possibile) una teoria, e, più in particolare, un esperimento che è stato progettato per
provocare una decisione fra due teorie in competizione fra loro, confutando (almeno) una di esse,
senza, naturalmente, provare l’altra.» (Popper Karl Raimund 1934, 19592, Logica della scoperta
scientifica. Il carattere autocorrettivo della scienza, Einaudi, Torino 1970, 307 nota)
2.4.1. Saldando tra loro ragione matematica e continuo riferimento all’esperienza, Galilei delinea
un nuovo modello di indagine fisica. Tale modello trova nell'osservazione che la ragione orienta
verso l'individuazione dei dati quantitativi dell’esperienza, il momento iniziale della ricerca;
nell’ipotesi matematica, cui lo scienziato perviene analizzando le proprie osservazioni, il momento
centrale; nella verifica sperimentale, il momento conclusivo. Dedotte dall’ipotesi le necessarie
conseguenze logiche (le necessarie dimostrazioni), si dirà che l’ipotesi è valida se tali conseguenze
si verificano sperimentalmente, se sono, cioè, confermate dal «cimento», l’esperimento riprodotto
(realmente ma idealmente) in laboratorio. «Mi par tempo e luogo di mostrar il modo di
sperimentar…».
2.4.2. La portata dell’esperimento ideale nella concezione moderna della scienza. Un fatto diventa
un fatto scientifico o delle scienze fisiche se è riproducibile a piacere. Vi è dunque una differenza
tra un fatto storico e un fatto fisico; il fatto o l’evento storico è unico e non riproducibile sia per le
sue modalità che per le sue coordinate spazio-temporali, il fatto fisico risulta tale e viene
annoverato tra l’esperienza scientificamente accettabile in quanto riproducibile a piacere; quindi
prescinde dalle coordinate storiche spazio-temporali e per questo è astratto o ideale; si tratta di
fatti reali, realizzati in laboratorio, ma in condizioni ideali, definiti empiricamente da ciò da cui si
può astrarre ma che non si può fisicamente annullare (il moto ondulatorio del mare per
l’esperimento della nave, l’attrito dell’aria per il pendolo). La natura ideale dell’esperimento
determina l’incontro tra esperienza e legge. «Galilei… fece sicuramente degli esperimenti, ma è
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anche più importante ricordarlo come colui che portò la tradizione medievale dell’esperimento
mentale nella sua forma più sviluppata.» (Kuhn S. Thomas 1972 Tradizioni matematiche e
tradizioni sperimentali nello sviluppo delle scienze fisiche, in Kuhn S. Thomas, 1997, La tensione
essenziale e altri saggi, Einaudi, Torino 2006, 38) «… tali accadimenti non sarebbero effetti fisici,
perché, a causa della loro immensa improbabilità, non sono riproducibili a piacere.» (Popper
19592, Logica della scoperta scientifica, 217)
2.4.3. L’esperimento ideale e il moltiplicarsi possibile delle domande e delle ricerche: «Nella
scienza è importante che cambino le risposte, perché significa che si hanno dati migliori, ma è
ancor più importante che cambino le domande, perché significa che qualcosa non andava nel
quadro interpretativo precedente.» (Pievani Telmo 2011 La vita inaspettata. Il fascino di
un’evoluzione che non ci aveva previsto, Raffaello Cortina editore, Milano, 107)
3. René Descartes (1596-1650)
3.1. Alla radice di ogni scienza e conoscenza (verità e certezza) il metodo.
1637 René Descartes, Discorso sul metodo
Un motivo costante anima la riflessione del filosofo e scienziato francese René Descartes e ne
percorre tutti gli scritti: la necessità di individuare assoluti e chiari principi che possano garantire
una metodica e completa rifondazione dell’intero edificio del sapere su nuove e solide basi. A
spingere l'impegno di Descartes su questa via è il disagio di fronte allo stato del sapere del suo
tempo: le discipline scientifiche da un lato gli paiono supinamente sottomesse alle auctoritates
classiche, dall’altro, nell’illusione di liberarsi dal principio di autorità, sembrano affidarsi
incautamente alla percezione sensibile, all'osservazione soggettiva. Oscillando tra un cieco
ossequio alle tradizioni, che genera solo sterili dispute accademiche, e una rivendicazione di
libertà che ha sacrificato il rigore e la chiarezza, la filosofia e la scienza sembrano incapaci di
fornire valide regole «per condurre bene la ragione» e «distinguere il vero dal falso». Nelle
Regulae ad directionem ingenii (del 1627), come nel Discorso sul metodo (del 1637) e nelle
Meditazioni metafisiche (del 1641) ritorna costante il disagio e la delusione di Descartes per
l'incertezza dei metodi e l'oscurità dei principi cui la filosofia e la scienza si affidano;
l’insoddisfazione e l’amarezza lo spingono a volgere la sua ricerca verso l’individuazione di
regole di metodo che orientino la ragione verso principi sicuri e rigorose dimostrazioni.
3.1.1. Maturata la convinzione che la sola garanzia di certezza consiste nell’evidenza, che egli ha
ripetutamente riscontrato nelle intuizioni matematiche, Descartes avvia un analitico bilancio delle
conoscenze del tempo e imposta un’attenta indagine critica sulle tradizionali fonti di conoscenza
(la percezione sensibile, l’immaginazione, le dimostrazioni). Suo obiettivo è sgomberare il campo
della ricerca da principi, da criteri e da metodi che non si dimostrano così «chiari e distinti», cioè
evidenti, da superare ogni legittimo (e talvolta anche estremo) dubbio. Come egli stesso dichiara,
il fine cui tende la sua ricerca è l’individuazione di un «punto d’Archimede», un principio
assolutamente certo che possa essere assunto a fondamento dell'edificio del sapere che egli intende
ricostruire sulle rovine di quello della tradizione scolastica, fatto franare dalle più recenti indagini
scientifiche. Descartes è infatti convinto della necessità di rinunciare a procedere per
aggiustamenti, per accomodamenti successivi: come un edificio progettato da un unico architetto
si dimostra più solido e ordinato di un edificio restaurato, così il solido e ordinato edificio della
scienza che egli intende costruire non deve avere le proprie fondamenta nei libri degli antichi o in
disorganiche osservazioni, ma in solidi principi opportunamente indagati e ritenuti indubitabili.
3.1.2. Regole semplici di “igiene mentale” (“regulae ad directionem ingenii”) acquisite per
esperienza personale di studio e di riflessione condotti su tre ambiti: sul mondo (l’esperienza
continua e la sua varietà nel tempo e nei luoghi), sulla tradizione (la cultura ufficiale appresa e il
senso comune diffuso), su se stesso (lo stato della propria mente e delle proprie facoltà in
generale, sentimenti compresi): in questa direzione muove Descartes, come risulta da un accurato
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e autobiografico resoconto espresso nel Discorso sul metodo. Il bilancio coinvolge le discipline
studiate, ritenute passaggio indispensabile della formazione culturale.
«Avevo studiato un po’ quando ero più giovane, tra le parti della filosofia, la logica, e, tra le
matematiche, l'analisi geometrica e l’algebra: tre arti o scienze, dalle quali speravo cavar qualche
aiuto per il mio disegno. Ma, nell’esaminarle, mi accorsi che m’ero ingannato. I sillogismi e la
maggior parte dei precetti della logica servono piuttosto a spiegare agli altri le cose che già si
sanno, ovvero anche, come l'arte di Lullo, a parlare senza discernimento delle cose che uno ignora,
invece d’impararle. Quella logica contiene, senza dubbio, anche precetti ottimi, verissimi, ma,
mescolati con quelli, ne ha tanti altri nocivi, o per lo meno inutili, che separarli è un’impresa
ardua, come quella di cavar fuori una Diana o una Minerva da un blocco di marmo neppure
sbozzato. E quanto all’analisi degli antichi e all’algebra dei moderni, oltre che riguardano materie
astrattissime e di poco uso in pratica, è da notare che la prima è così legata alla considerazione
delle figure che non può esercitare l’intelligenza senza stancare molto l'immaginazione, e la
seconda s’è talmente assoggettata a certe regole e a certe cifre da apparire un’arte confusa e oscura
per imbarazzare l’intelligenza piuttosto che una scienza per coltivarla. Bisognava, dunque, che io
cercassi un altro metodo, il quale, riunendo i vantaggi di questi tre, fosse esente dai loro difetti. E
come la moltitudine delle leggi fornisce spesso una scusa all’ignoranza e al vizio, per cui uno
Stato è tanto meglio regolato quanto meno ne ha, ma rigorosamente osservate; così, invece di quel
gran numero di regole di cui la logica è composta, pensai che ne avrei avuto abbastanza di queste
quattro, purché prendessi la ferma e costante risoluzione di non venir meno neppure una volta alla
loro osservanza. La prima era di non accogliere mai nulla per vero che non conoscessi esser tale
con evidenza: di evitare, cioè, accuratamente la precipitazione e la prevenzione; e di non
comprendere nei miei giudizi nulla di più di quello che si presentava così chiaramente e
distintamente alla mia intelligenza da escludere ogni possibilità di dubbio.
La seconda era di dividere ogni problema preso a studiare in tante parti minori, quante fosse
possibile e necessario per meglio risolverlo. La terza, di condurre con ordine i miei pensieri,
cominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscere, per salire a poco a poco, come per
gradi, sino alla conoscenza dei più complessi; e supponendo un ordine anche tra quelli di cui gli
uni non precedono naturalmente gli altri. L’ultima, di far dovunque enumerazioni così complete e
revisioni così generali da esser sicuro di non aver omesso nulla.»
3.1.2.1. Le tre discipline fondamentale: logica, geometria, algebra. L’impietoso bilancio critico
negativo nei confronti delle tre discipline, peraltro fondamentali, apprese da Descartes nel corso
della propria educazione scolastica, la logica, la geometria e l’algebra, non si trasforma tuttavia in
una situazione di annullamento di quell’apprendimento, di quella cultura e di quelle stesse
discipline, ma in una loro rifondazione e nel loro conseguente rilancio. La loro debolezza sta nella
loro separazione, una separazione che riduce le tre a specialismi tanto virtuosi quanto inutili. Il
loro rilancio sta nella proposta di porle in corretto legame: «Bisognava, dunque, che io cercassi un
altro metodo, il quale, riunendo i vantaggi di questi tre, fosse esente dai loro difetti.» La logica
finora dimostra in sillogismo ciò che già si conosce, la geometria per il peso delle figure non
riesce a procedere verso argomenti più complessi, l’algebra procede per simboli e appare come
una scienza formale e vuota. Unendole, l’algebra può diventare l’arte di gestione della logica
secondo segni formali in grado di esprimere con le proprie espressioni le capacità costruttive della
geometria un mathesis unica e universale. Obiettivo della sua indagine è avviare la costruzione di
un sistema unificato delle conoscenze avente la chiarezza e il rigore del ragionamento matematico:
il progetto di una mathesis universale nasce dalla convinzione che la ragione geometrica
costituisca l`essenza della scientificità; si tratta dunque di liberare tutte le potenzialità di tale
modello di razionalità assoggettata, nelle scuole del tempo, «a certe regole e certe cifre da apparire
un’arte confusa e oscura per imbarazzare l’intelligenza piuttosto che una scienza per coltivarla».
Riportata alla sua originaria semplicità e chiarezza, la matematica potrà dare forma scientifica a
quelle discipline come l’astronomia, la musica, l’ottica, la meccanica, i cui oggetti sono regolati
dai principi dell’ordine e della misura.
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3.1.2.2. Le “regulae ad directionem ingenii”. Regola dell’evidenza. Regola dell’analisi. Regola
della sintesi. Regola dell’enumerazione.
Descartes assume a modello di scientificità il ragionamento matematico; nell’evidenza delle
premesse e nella consequenzialità delle deduzioni la matematica è la forma di ragionamento che
presenta il massimo grado di chiarezza e distinzione; essa diventa il progetto di una mathesis
universalis: estendere quel metodo a tutti i campi del sapere. Prende così corpo il progetto di una
matematizzazione universale delle conoscenze e dei saperi. Descartes esplicita e riconduce questo
metodo in quattro regole essenziali: la prima impone di procedere con cautela accogliendo solo ciò
che si presenta alla ragione in modo chiaro e distinto, cioè indubitabile; la seconda e la terza
illustrano il modo per garantirsi questa evidenza (dividere analiticamente le questioni nei loro
aspetti particolari e poi ricostruirle in sintesi ordinate); l'ultima permette un controllo definitivo
della completezza e del rigore del procedimento, mediante ripetute revisioni generali.
3.1.2.3.Sono regole per la conduzione del pensiero secondo chiarezza quando il dubbio, esercitato
con metodico e implacabile rigore, lo ha opportunamente liberato da tutto ciò che lo impegnava in
cammini privi di fondamento. Adottando la strategia del dubbio (dubbio metodico, come dalla
miglior tradizione scettica), nel momento stesso in cui mina con esso ogni comune e infondata
certezza e sembra non lasciare all’uomo alcuna possibilità di verità, Descartes intuisce una prima
fondamentale certezza. L'atto del dubitare è di per sé indubitabile. È intuitivo che se dubito, esisto;
se penso, sono; come pensiero in atto, come res cogitans, sono, esisto. Di questo posso essere
certo in modo chiaro e distinto: l'essere del mio pensiero, del mio pensare è evidente e indubitabile
per me che sono ora cosciente di dubitare e per tutto il tempo in cui dubiterò. Sia pure con questa
duplice limitazione (la certezza del mio esistere come res cogitans vale solo per me e attualmente,
fin tanto che penso) Descartes ha raggiunto una prima, stabile certezza, fondamento su cui poter
costruire l’edificio del sapere con verità e certezza.
3.1.2.4. Verità e certezza. Le tre discipline e le quattro regole permettono di unire due obiettivi
non sempre garantiti nel loro collegamento: verità e certezza. Verità in accezione “ontologica”
come definizione oggettiva della logica (delle leggi) del mondo; certezza in accezione
“gnoseologica” come conoscenza dotata di fondamento per il proprio legame con la verità e la sua
natura oggettiva.
3.2. il sistema del mondo: una fisica meccanica (orologio e macchina)
1644 René Descartes I principi della filosofia
Regole di metodo, ricerca di sicuri fondamenti di certezza, esame delle discipline di carattere
logico, meditazioni filosofiche sullo stato della mente e delle passioni dell’anima, confronto con la
tradizione… si tratta di un lungo e costante cammino per la fondazione di un nuovo sapere che
presenti due caratteristiche indispensabili: rispettare e rispecchiare la realtà senza cadere in
illusioni e inganni, procedere con rigore e controllo logico nella costruzione del sapere. Per
indagare il mondo la ragione deve procedere con metodo, diffidando sia della tendenza della
volontà ad accogliere ciò che la ragione non ha ancora intuito o dimostrato (l’errore è infatti
imputabile alla volontà che spinge a precipitose conclusioni, mai alla ragione), sia della tendenza
ad affidarsi alla sola esperienza visiva abbandonando le idee guida della mente. Si tratta allora di
individuare quelle idee, quei principi chiari e distinti che consentono di descrivere il mondo nelle
sue varie forme con rigore matematico: tali principi, chiari e distinti, sono l'estensione e il
movimento. A partire da essi Descartes costruisce nei Principi della filosofia (un trattato di fisica
scritto nel 1644 in latino, destinato a soppiantare, nelle scuole, i vecchi manuali tradizionali)
un’articolata descrizione dell’universo che presenta il rigore e la consequenzialità della geometria.
3.2.1. La grande macchina (la grande favola). Applicando il rigoroso metodo geometrico
elaborato, Descartes perviene a individuare le leggi scientifiche mediante le quali la materia e, il
movimento vengono a disporsi nell’universo (da lui «immaginato»); esse mostrano che il mondo
si presenta come una grande macchina, un «orologio» dotato da Dio di leggi che lo scienziato può
individuare servendosi dei due soli principi della materia e del movimento, senza ricorrere alle
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forme qualitative, alle cause finali, alle forze vitali di cui si sono tradizionalmente serviti i filosofi.
Il mondo è come un immenso orologio meccanico interamente spiegabile con il movimento delle
sue parti elementari; non è necessario quindi, a tale scopo, scomodare le forze e gli spiriti vitali di
cui riferiscono gli animisti rinascimentali, né è necessario ricercare quei fini ultimi che gli
aristotelici introducono per spiegare i fenomeni naturali.
3.2.2. L’universo presenta un ordine che può essere descritto secondo gli schemi della geometria
euclidea: la materia, concepita in forma rigorosamente geometrica, come estensione pura, priva di
qualità (durezza, colore, peso), può essere descritta con proposizioni semplici e ordinate, quali
sono quelle della matematica: «io suppongo — scrive Descartes nei Principi — che quelli che
leggeranno i miei scritti sapranno gli elementi della geometria o, almeno, che avranno lo spirito
pronto a comprendere le dimostrazioni di matematica. Infatti confesso francamente che non
conosco altra materia delle cose corporee che quella che può essere divisa, raffigurata e mossa in
ogni sorta di modi, cioè quella che i geometri chiamano quantità, e che prendono per oggetto delle
loro dimostrazioni; e che non considerano in questa materia che le sue divisioni e le sue figure e i
suoi movimenti; e infine che, riguardo a questi, io non voglio nulla ricevere per vero, se non
quello che ne sarà dedotto con tanta evidenza, da potere tenere luogo di una dimostrazione
geometrica».
3.2.3. la genesi e il prender forma di un progetto per strade plurime: idee e immagini, concetti e
metafore, dimostrazioni e analogie.
«COME SI PUÒ PERVENIRE ALLA CONOSCENZA DELLE FIGURE, GRANDEZZE E
MOTI DEI CORPI INSENSIBILI.
Qualcuno, da capo, potrà domandare donde ho appreso quali sono le figure, grandezze e
movimenti delle particelle di ogni corpo, molte delle quali ho qui determinate proprio come se le
avessi viste, benché sia certo che non ho potuto percepirle con l’aiuto dei sensi, poiché confesso
che esse non sono sensibili. Al che io rispondo che ho, innanzi tutto, considerato in generale tutte
le nozioni chiare e distinte che possono essere nel nostro intelletto riguardo alle cose materiali, e
che, non avendone trovate altre, se non quelle che abbiamo delle figure, delle grandezze e dei
movimenti, e delle regole, secondo le quali queste tre cose possono essere diversificate l’una
dall’altra, le quali regole sono i principi della geometria e delle meccaniche, ho giudicato che
necessariamente bisognava che tutta la conoscenza che gli uomini possono avere della natura
fosse tratta solo da quello, poiché tutte le altre nozioni che abbiamo delle cose sensibili, essendo
confuse ed oscure, non possono servire a darci la conoscenza di nessuna cosa fuori di noi, ma
piuttosto possono impedirla. In seguito di che, ho esaminato tutte le principali differenze, che
possono trovarsi tra le figure, grandezze e movimenti dei diversi corpi, che solo per la loro
piccolezza restano al disotto della sensibilità, e quali effetti sensibili possono essere prodotti dalle
diverse maniere con cui essi si mescolano insieme. E in appresso, quando ho trovato simili effetti
nei corpi che i nostri sensi percepiscono, ho pensato che essi avevano potuto essere così prodotti.
Poi ho creduto che lo fossero stati senza alcun dubbio, quando mi è sembrato essere impossibile
trovare in tutta l’estensione della natura nessun’altra causa capace di produrli. Al che l’esempio di
molti corpi composti dall’artificio degli uomini mi ha molto servito: poiché non riconosco alcuna
differenza tra le macchine che fanno gli artigiani e i diversi corpi che la natura sola compone, se
non che gli effetti delle macchine non dipendono che dall’azione di certi tubi o molle o altri
strumenti, che, dovendo avere qualche proporzione con le mani di quelli che li fanno, sono sempre
sì grandi che le loro figure e movimenti si possono vedere, mentre che i tubi o molle che
cagionano gli effetti dei corpi naturali sono ordinariamente troppo piccoli per essere percepiti dai
nostri sensi. Ed è certo che tutte le regole delle meccaniche appartengono alla fisica, in modo che
tutte le cose che sono artificiali sono con questo naturali. Poiché, per esempio, quando un orologio
segna le ore per mezzo delle ruote di cui è fatto, questo non gli è meno naturale che ad un albero
di produrre i suoi frutti. Ecco perché, nello stesso modo che un orologiaio, vedendo un orologio
che egli non ha fatto, può ordinariamente giudicare, da alcune delle sue parti che egli vede, quali
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sono tutte le altre che non vede, così, considerando gli effetti e le parti sensibili dei corpi naturali,
ho cercato di conoscere quali debbono essere quelle delle loro parti che non sono sensibili.
CHE, RIGUARDO ALLE COSE CHE I NOSTRI SENSI NON PERCEPISCONO AFFATTO,
BASTA SPIEGARE COME ESSE POSSONO ESSERE: E CHE È TUTTO QUELLO CHE
ARISTOTELE HA CERCATO DI FARE.
Si replicherà ancora a questo che, sebbene io abbia forse immaginato delle cause che potrebbero
produrre degli effetti simili a quelli che vediamo, non dobbiamo per questo concludere che quelli
che noi vediamo sono prodotti da esse. Poiché come un orologiaio ingegnoso può fare due orologi
che segnano le ore in egual modo, e tra i quali non vi sia alcuna differenza in quello che appare
all’esterno, e che, nondimeno, non abbiano nulla di simile nella composizione delle loro ruote:
così è certo che Dio ha un’infinita di diversi mezzi, per opera di ciascuno dei quali può aver fatto
che tutte le cose di questo mondo appaiano tali quali ora appaiono, senza che sia possibile allo
spirito umano di conoscere quale di tutti questi mezzi egli ha voluto impiegare a farle. Il che non
ho nessuna difficoltà ad accordare. Ed io crederò d’avere fatto abbastanza se le cause che ho
spiegato sono tali, che tutti gli effetti che esse possono produrre sono simili a quelli che vediamo
nel mondo, senza preoccuparmi se è per mezzo di esse o per mezzo di altre che essi sono prodotti.
Anzi, credo essere tanto utile per la vita di conoscere cause così immaginate, che se si avesse la
conoscenza delle vere: poiché la medicina, le meccaniche, e generalmente tutte le arti, cui la
conoscenza della fisica può servire, non hanno per fine che di applicare talmente alcuni corpi
sensibili gli uni agli altri, che, per opera della serie delle cause naturali, alcuni effetti sensibili
siano prodotti; il che noi faremo egualmente bene considerando la serie di alcune cause così
immaginate, benché false, che se esse fossero le vere, poiché questa serie è supposta simile, in ciò
che riguarda gli effetti sensibili. Ed affinché non si pensi che Aristotele abbia mai preteso di fare
qualcosa più di questo, dice egli stesso al principio del settimo capitolo del primo libro delle sue
Meteore, che «per quanto riguarda le cose che non sono manifeste al senso, egli crede dimostrarle
sufficientemente, e quanto si può ragionevolmente desiderare, se fa solamente vedere che esse
possono essere quali egli le spiega».
CHE, NONDIMENO, SI HA UNA CERTEZZA MORALE CHE TUTTE LE COSE DI QUESTO
MONDO SONO TALI, QUALI È STATO QUI DIMOSTRATO CHE POSSONO ESSERE.
Ma, nondimeno, affinché io non faccia torto alla verità, supponendola meno certa di quanto è,
distinguerò qui due specie di certezze. La prima è chiamata morale, cioè sufficiente per regolare i
nostri costumi, o tanto grande quanto quella delle cose, di cui non siamo soliti di dubitare riguardo
alla condotta della vita, benché sappiamo che può accadere, assolutamente parlando, che esse
siano false. Così quelli che non sono mai stati a Roma non dubitano che essa sia una città in Italia,
pur essendo possibile che tutti quelli, dai quali l’hanno imparato, li abbiano ingannati. E se
qualcuno, per indovinare uno scritto cifrato scritto con le lettere ordinarie, congettura un B
dovunque ci sarà un A, e un C dovunque ci sarà un B, sostituendo così al posto di ogni lettera
quella che la segue nell’ordine dell’alfabeto e, leggendo in questo modo, vi trova parole che
abbiano senso, non dubiterà affatto che quello che avrà così trovato non sia il vero senso di quello
scritto cifrato, benché possa darsi che quello che lo ha scritto ve ne abbia messo un altro tutto
differente, dando un altro significato ad ogni lettera: poiché questo può sì difficilmente accadere,
principalmente quando la cifra contiene molte parole, che non è moralmente credibile. Ora, se si
considera quante diverse proprietà del magnete, del fuoco e di tutte le altre cose che sono al
mondo sono state evidentissimamente dedotte da un piccolissimo numero di cause, da me proposte
al principio di questo trattato, anche se s’immaginasse che le ho supposte per caso, e senza che la
ragione me ne abbia persuaso, si avrebbe almeno tanta ragione di giudicare che esse sono le vere
cause di tutto quello che ne ho dedotto, quanta se ne ha di credere che si è trovato il vero senso
d’uno scritto cifrato, quando lo si vede scaturire dal significato che si è dato per congettura ad ogni
lettera. Poiché il numero delle lettere dell’alfabeto è molto maggiore di quello delle cause prime
21
da me supposte, e non si sogliono mettere tante parole, e nemmeno tante lettere, in una cifra,
quanti sono gli effetti diversi che ho dedotti da queste cause.
ED ANCHE, CHE SE NE HA UNA CERTEZZA PIÚ CHE MORALE.
L’altra sorta di certezza è quando noi pensiamo che non è in nessun modo possibile che la cosa sia
diversa da come la giudichiamo. Ed essa è fondata sopra un principio di metafisica certissimo, il
quale è che Dio, essendo sovranamente buono e la fonte di ogni verità, poiché è lui che ci ha
creati, è certo che la potenza o facoltà che egli ci ha dato per distinguere il vero dal falso non
s’inganna, quando ne facciamo buon uso, e ci mostra evidentemente che una cosa è vera. Così
questa certezza si estende a tutto quanto è dimostrato nella matematica; poiché noi vediamo
chiaramente essere impossibile che due e tre uniti insieme facciano più o meno di cinque, o che un
quadrato non abbia che tre lati, e cose simili. Essa si estende anche alla conoscenza che noi
abbiamo che ci sono dei corpi nel mondo, per le ragioni sopra spiegate al principio della seconda
parte. Poi, in seguito, essa si estende a tutte le cose che possono essere dimostrate, riguardo a
questi corpi, con i princìpi della matematica, o con altri egualmente evidenti e certi; nel numero
delle quali mi sembra che quelle da me scritte in questo trattato debbano essere ammesse, almeno
le principali e più generali. Ed io spero che esse lo saranno in effetti da quelli che le avranno
esaminate in tal modo, da vedere chiaramente tutta la serie delle deduzioni da me fatte, e quanto
sono evidenti tutti i principi, dei quali mi sono servito; principalmente se comprendono bene che
non è possibile che noi sentiamo nessun oggetto, se non per mezzo di qualche moto locale che
quest’oggetto eccita in noi, e che le stelle fisse non possono eccitare così nessun moto nei nostri
occhi, senza muovere anche, in qualche modo, tutta la materia che è fra esse e noi, donde segue
con ogni evidenza che i cieli debbono essere fluidi, cioè composti di piccole parti che si muovono
separatamente le une dalle altre, o almeno che debbono esservi in essi tali parti. Poiché tutto
quello che si può dire che io abbia supposto e che trovasi nell’articolo 46 della terza parte, può
essere ridotto solo a questo: che i cieli sono fluidi. Di modo che questo solo punto essendo
riconosciuto per sufficientemente dimostrato da tutti gli effetti della luce e dal seguito di tutte le
altre cose da me spiegate, credo che si debba anche riconoscere che ho provato con dimostrazione
matematica secondo i principi da me stabiliti, tutte le cose da me scritte, almeno le più generali
che concernono la fabbrica del cielo e della terra, e nel modo come le ho scritte: poiché ho avuto
cura di proporre come dubbie tutte quelle di cui ho pensato che fossero tali.
MA CHE SOTTOMETTO TUTTE LE MIE OPINIONI AL GIUDIZIO DEI PIÙ SAGGI E
ALL’AUTORITÀ DELLA CHIESA.
Tuttavia, poiché non voglio fidarmi troppo di me stesso, io non asserisco nulla qui, e sottometto
tutte le mie opinioni al giudizio dei più saggi ed all’autorità della Chiesa. Anzi prego i lettori di
non prestare nessuna fede a tutto quanto troveranno qui scritto, ma solo di esaminarlo, e non
ammetterne che quanto la forza e l’evidenza della ragione li potrà forzare a credere.»
R. Cartesio, Opere filosofiche, vol. III pp. 364-369, tr. di A. Tilgher, Laterza, Bari 1967
3.2.3.1. In chiusura della propria opera sul sistema del mondo (che richiama il vecchio e primo
progetto dal titolo impegnativo: De mundo), Descartes presenta come in un bilancio la propria
ragione scientifica: svela le proprie scelte di metodo e le proprie cautele di carattere scientifico
logico e di carattere scientifico etico. In schema e in forma assiomatica si possono richiamare i
seguenti passaggi:
- «ho, innanzi tutto, considerato in generale tutte le nozioni chiare e distinte che possono essere nel
nostro intelletto riguardo alle cose materiali»,
- «l’esempio di molti corpi composti dall’artificio degli uomini mi ha molto servito: poiché non
riconosco alcuna differenza tra le macchine che fanno gli artigiani e i diversi corpi che la natura
sola compone»,
- «credo essere tanto utile per la vita di conoscere cause così immaginate, che se si avesse la
conoscenza delle vere»,
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- «che, nondimeno, si ha una certezza morale che tutte le cose di questo mondo sono tali, quali è
stato qui dimostrato che possono essere»,
- «l’altra sorta di certezza è quando noi pensiamo che non è in nessun modo possibile che la cosa
sia diversa da come la giudichiamo»,
- «questa certezza si estende a tutto quanto è dimostrato nella matematica … Poi, in seguito, essa
si estende a tutte le cose che possono essere dimostrate, riguardo a questi corpi, con i princìpi della
matematica, o con altri egualmente evidenti e certi»
- «prego i lettori di non prestare nessuna fede a tutto quanto troveranno qui scritto, ma solo di
esaminarlo, e non ammetterne che quanto la forza e l’evidenza della ragione li potrà forzare a
credere».
3.2.3.2. un’impostazione complessivamente di coraggiosa apertura morale di fronte alla verità
scientifica nel rispetto dell’esperienza.
- l’obiettivo del progetto generale: «La grande meccanica non è altro se non l’ordine che Dio ha
impresso sul volto dell’opera sua, che noi comunemente chiamiamo Natura». Con questa
convinzione, espressa in una conversazione del 1627, Descartes segnala il proposito di lavorare
all’esposizione sistematica dell’ordine naturale, mettendone in luce i fondamenti metafisici e
fisici. I principi che gli consentono di spiegare con il rigore e la semplicità della matematica
l’ordine e la regolarità del mondo sono quelli propri della meccanica: grandezza, figura e
movimento. La metafora che meglio esprime la precisione e l’armonia dell’universo è quella
dell’orologio.
- la cautela della consapevolezza metodologica: l’intenzione che muove Descartes, finalizzata alla
verità, certezza e oggettività, pare tuttavia ispirata alla cautela circa il suo possibile esito e si
muove all’interno di obiettivi propri della ragione. Non si tratta di «spiegare le cose che
effettivamente sono nel mondo vero, ma semplicemente di immaginarne uno... che possa essere
creato esattamente quale lo avrò immaginato» (Il mondo, VI); Descartes sembra dunque avere di
mira non una descrizione del mondo in sé, ma una descrizione del mondo come lo può
rappresentare la ragione in base alle sue regole di ordine, semplicità e chiarezza. Se il sapere che
ne deriva non raggiunge la verità (non descrive cioè il mondo per come esso è), ha comunque la
capacità di fornire rigorose e coerenti spiegazioni di tutti gli eventi fisici e ciò può essere
sufficiente a definire scientifico questo sapere: «riguardo alle cose che i nostri sensi non
percepiscono affatto basta spiegare come esse possono essere». Ma in altri punti della sua opera,
come nella conclusione dei Principia, Descartes non nasconde, invece, il più ambizioso proposito
di fornire una descrizione veritiera del mondo: in quanto garantita dalla bontà divina e dal rigoroso
procedimento matematico, la ragione, di cui ritiene di aver fatto buon uso, può fornirgli una
«certezza più che morale» della veridicità delle sue spiegazioni.
- resta il quesito: un mondo immaginato o un mondo vero? La metafora è nota: «Un orologiaio
ingegnoso può fare due orologi che segnano le ore in egual modo... e nondimeno non abbiano
nulla di simile nella composizione delle loro ruote.» Non sarebbe dunque necessario che le cause
che si adducono per spiegare il meccanismo del mondo (orologio) siano vere, basta che spieghino
gli effetti che vediamo. Ciò si accorda anche meglio con l'infinita libertà con cui Dio può produrre
i modi naturali. Alla luce di questa ipotesi di Descartes, l’impresa scientifica sembra presentarsi
non solo come ricerca delle leggi fisiche e dei principi metafisici della realtà, ma come espressione
dell’intelletto e dell’immaginazione. Se dal punto di vista del metodo la ricerca filosofica di
Descartes appare più immediatamente ispirata ai criteri della chiarezza e della precisione
razionale, in realtà egli ha più volte presentato la «grande meccanica» o il disegno del mondo
come «favola» la cui comprensione completa richiede che il nostro pensiero oltrepassi i limiti
dell’osservazione e della riflessione razionale in quanto strumenti di rappresentazione di questo
mondo, per aprire spazi immaginari. L'idea del mondo come finzione e artifizio, le cui parvenze
comuni possono essere spiegate da meccanismi immaginari, moltiplicabili all’infinito, mostra la
singolare tendenza della impostazione filosofica di Descartes a suscitare domande più che a
fornire soluzioni.
23
3.2.4. Come bilancio e conclusione, osserva Eugenio Garin, in La vita e le opere di Cartesio, in
Cartesio, Opere, ed. Laterza, Bari Roma 1988: «Si colloca in questa prospettiva il tentativo di
costruire un modello meccanico, tutto misurabile, del mondo, capace di rendere ragione di quello
che sentiamo — la grande Mécanique della lettera a Ville-Bressieu, ossia «l’ordine che Dio ha
impresso sulla faccia della sua opera, che noi chiamiamo comunemente la Natura». Diceva allora:
ce grand modèle. Ora la grande Mécanique è presentata attraverso la ‘‘favola”, di cui, tuttavia
Cartesio subito soggiunge: «attraverso la quale la verità non mancherà di apparire
sufficientemente». È la “favola” che si pone, simmetrica, a riscontro del racconto biblico —
questo, “storico”, vera storia del «mondo vero»; quella, “favolosa” costruzione a priori di un
mondo razionalmente, matematicamente strutturato. La contrapposizione è, si badi, di Cartesio:
«Lasciate oltrepassare per un po’ al vostro pensiero i limiti di questo mondo, perché vada a
contemplarne un altro completamente nuovo, che farò nascere in sua presenza negli spazi
immaginari. I filosofi ci dicono che questi spazi sono infiniti, e in questo dobbiamo credere loro,
perché sono essi stessi ad averli fatti. Ma perché l’infinità di questi spazi non ...ci dia alcun
fastidio, non cerchiamo di arrivare fino al suo termine; limitiamoci solo ad addentrarci in essa fino
a perdere di vista tutte le creature che Dio creò cinque o seimila anni or sono; e dopo esserci
fermati in un punto determinato, supponiamo che Dio crei nuovamente intorno a noi tanta materia
che la nostra immaginazione, da qualsiasi lato si estenda, non possa più scorgere luogo alcuno che
sia vuoto». Sia poi questa materia, non l’astratta quanto incomprensibile ‘potenza’ dei filosofi, ma
«un vero corpo perfettamente solido» — senza alcuna differenziazione se non «nella diversità dei
movimenti» impressi da Dio «in modo che, fin dal primo istante della creazione, alcune parti
comincino a muoversi da un lato, altre da un altro, le une più velocemente, le altre più lentamente
(o anche, se così preferite, che siano completamente prive di movimento), e da quell’istante
continuino il loro movimento secondo le leggi ordinarie della natura. Infatti Dio ha stabilito
queste leggi in modo così meraviglioso che anche se supponessimo che non crei se non ciò che ho
detto, e che egli non vi metta né ordine né proporzione alcuna, ma che ne componga il caos più
confuso e intricato che i poeti possano descrivere: tali leggi sono tuttavia sufficienti a far sì che le
varie parti di questo caos si districhino da sole e si dispongano in così buon ordine da assumere la
forma di un mondo perfettissimo nel quale si potrà vedere non solo la luce, ma anche tutte le altre
cose, generali e particolari, che appaiono in questo Mondo vero».
Ove chiaramente Cartesio oppone il suo mondo, che si è venuto formando solo in base al regolare
funzionamento delle leggi, obbedendo alla grande Mécanique, chiara ed evidente, sia al mondo
dei «filosofi» (scolastici), che «sono così sottili da riuscire a trovare difficoltà anche nelle cose
estremamente chiare», sia al mondo “storico” che i teologi trovano nella Genesi. «D’altra parte –
avverte – la mia intenzione non è, come la loro, di spiegare le cose che effettivamente sono nel
mondo vero, ma semplicemente di immaginarne uno qualsiasi dove non sia nulla che anche le
menti più grossolane non siano in grado di concepire: un mondo tuttavia che possa essere creato
esattamente come lo avrò immaginato».
[…]
L’«esatto significato » di Cartesio, la sua fecondità, la sua forza non esaurita, la sua presenza, sono
probabilmente nella direzione indicata da Leibniz. Nulla è tanto pericoloso, di fronte a Cartesio,
quanto la formula unitaria, la riduzione a un denominatore semplificante: Descartes filosofo di ... ;
magari del metodo, del «bel metodo» da cui sarebbe derivato tutto! Con quanta giustezza e forza
Koyrè, nelle lezioni del ‘37, ricorda che nessuna rivoluzione scientifica è mai nata da una
rivoluzione metodologica. Il ‘discorso’ è venuto dopo, non prima. Guido De Ruggiero nel ‘33,
dopo un’esposizione lineare dell’«idealismo» cartesiano (il metodo, il cogito, Dio, la natura,
l’anima e il corpo), concludeva che tutto, alla fine, risulta «intricato e confuso». Chiari «gli
schemi», le «linee generali» — ossia un Cartesio supposto e inesistente. «Non appena si guardano
le cose più da vicino sorgono dubbi e incertezze innumerevoli. La ragione è che questa filosofia
non si è formata di getto intorno a un nucleo centrale», ma s’è accresciuta facendo convergere
intorno ad alcuni temi problemi sempre più complessi. Giustamente De Ruggiero indicava lì, nei
dubbi, nelle antinomie, la ragione di una forza suggestiva unica: tutti i nodi dei grandi problemi
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che agiteranno la ricerca filosofico-scientifica del mondo moderno — o invece, secondo
Whitehead, fons et origo malorum di tutti i quasi inverosimili equivoci che hanno «rovinato la
filosofia moderna».
La grande storia del cartesianismo, quella che tocca le cime, e forma l’ossatura del dialogo
filosofico dal ‘600 a noi, non meno della storia dei minori e dei minimi, costituiscono una specie
di singolare «esperimento», dove, volta a volta, un tema o un aspetto sono privilegiati, e altri
lasciati nell’ombra o dimenticati. La lettura diventa un esercizio di scelte: quelle scelte che
Cartesio non ha fatto. Regio e More, il materialista e il platonico; Arnauld; Malebranche: è facile
dare dei nomi. Così in morale: prudenza (magari conformismo), generosità, saggezza. Non solo
Cartesio in tante questioni non media e non sceglie: neppure può parlarsi di svolgimento del suo
pensiero: l’accrescimento non è per sviluppo, è per aggiunta e giustapposizione di temi. Non a
caso, quando non si hanno dati esterni, è pressoché impossibile situare un’opera nel corso della
sua vita. La Recherche de la vérité è stata spostata volta a volta, dagli anni della giovinezza al ‘49,
e sempre con buone ragioni teoriche. Di qui la complessità di una storia della storiografia
cartesiana; che è la storia di tutta la filosofia moderna.»
4. Gottfried Wilhelm Leibniz (1646 – 1716)
1695 Gottfried Leibniz, Nuovo sistema della natura e della comunicazione delle sostanze e
dell’unione tra l’anima e il corpo.
La fama di Leibniz tra i contemporanei era legata soprattutto alle sue ricerche di logica (alle tesi di
definizione di una nuova logica, scienza e arte di caratteri o simboli formali, Ars characteristica o
Speciosa generalis), di fisica (molto informato sulle opere e scoperte degli scienziati moderni) e di
matematica oltre che alla sua attività di diplomatico, ma egli si dedica con maggior passione e
speranza di successo al progetto di un organico sistema filosofico, fondato su principi metafisici.
Ritiene infatti che solo l’individuazione dei principi primi della realtà e del sapere possa
consentire alla ricerca filosofica di costruire quell’organico, solido e completo edificio di
conoscenze in cui ogni scienza trova la propria collocazione. Si tratta di un impegno che prende
forma, oltre che in brevi saggi fatti circolare tra il 1685 e il 1714, nell’opera Principi di filosofia
dimostrata con metodo geometrico, più nota come Monadologia, pubblicata 1714. Fanno parte
dunque del progetto filosofico di Leibniz almeno due imprescindibili esigenze: quella di chiarire
gli elementi primi delle relazioni logiche, in vista di una logica universale, e quella di individuare
gli elementi primi del mondo, così da poter spiegare, mediante una rigorosa scienza delle
combinazioni logiche, l’universo dei fenomeni fisici, biologici e psichici.
4.1. Alla base della nuova teoria e del nuovo sistema del mondo si pongono tesi metafisiche
che riprendono e rinnovano profondamente la categoria di sostanza. È una ripresa dalla
tradizione aristotelica ma essa viene profondamente rinnovata per il contesto scientifico in cui
quei concetti si collocano e per la funzione che svolgono nel rimarcare una netta distanza nei
confronti delle tesi di Descartes; con la propria teoria della sostanza, chiamata anche “monade”,
Leibniz esprime la sua esplicita opposizione al dualismo metafisico, inconciliabile, costruito da
Descartes proprio attraverso il ricorso al concetto di sostanza: distinzione tra anima e corpo, tra
spirito e materia, tra res cogitans e res extensa… realtà presentata da Descartes come sostanze
autonome, metafisicamente separate ma destinate a porsi in evidente legame ma in una relazione
tormentata, quasi impossibile, spesso teoreticamente inaccettabile in quanto garantita da artifizi di
relazione difficili da sostenere come reali (intervento divino, glandola pineale, occasionalismo…).
Il concetto di sostanza viene dunque ripreso per smontare quelle opposizioni e quei dualismi
inconciliabili e garantire una profonda armonia dell’universo: appunto un Nuovo sistema della
natura e della comunicazione delle sostanze e dell’unione tra l’anima e il corpo. Dichiara
programmaticamente Leibniz: «Bisognò, pertanto, richiamare e come riabilitare le forme
sostanziali, così derise ai nostri giorni, ma in una maniera che le rendesse intellegibili e ne
distinguesse l’uso che se ne può e deve fare, dall'abuso che se ne fa.» (Leibniz, Nuovo sistema).
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4.1.1. Nonostante la critica ricorrente che l’età moderna rivolge alla filosofia antica e medievale
soprattutto per il proprio fondamento sulle basi della metafisica, il formarsi della scienza moderna
è fortemente intrecciato proprio con la metafisica al cui linguaggio e alle cui impostazioni la
scienza (più o meno consapevolmente o per abitudine) ricorre per affermarsi nelle proprie tesi. Per
imporre la lettura matematica del mondo, Galilei afferma che il mondo in sé è scritto
matematicamente, addirittura scritto da Dio matematicamente; la matematica diventa la struttura
del mondo, la sua essenza è matematica. Collocare nel mondo lo strumento di lettura e costruzione
scientifica dell’esperienza come essenza e struttura del mondo stesso ottiene l’effetto di attribuire
natura oggettiva allo strumento di metodo, oggettività ai suoi risultati e piena autonomia alla
scienza.
4.1.2. Nel confronto filosofico dell’età moderna (almeno fino a Newton, ma spesso ancora oltre)
riveste dunque ancora un ruolo centrale la metafisica e, in particolare, il concetto e la teoria della
sostanza. Poiché in questo confronto è la stessa scienza moderna a trovare la propria definizione,
quel particolare passaggio attraverso la teoria della sostanza va richiamato. Esso è illuminante in
particolare nelle due diverse posizioni: quella di Descartes, quella di Leibniz, entrambe richiamate
nelle tesi espresse per la costruzione di una scienza fisica.
4.2. La posizione “metafisica” nella fisica di Descartes: res extensa. La materia è estensione,
l’estensione è sostanza, la sostanza fisica è estensione. Nella Fisica di Descartes i termini antichi
e comuni di materia e di sostanza, molto diffusi ma poco chiari perché il tempo, gli usi, le dottrine
e i lunghi dibattiti di carattere filosofico, li hanno caricati di significati plurimi e tra loro poco
compatibili (fisici, metafisici, teologici, antropologici, economici e … comuni), possono essere
introdotti solo in quanto portati a chiarezza e distinzione, e ciò con l’aiuto della “matematica”. La
materia, la natura… tutto ciò che non è pensiero (res cogitans, già anima), riportati alla loro
autentica essenza ed espressi con concetti chiari e distinti, sono adeguatamente e opportunamente
definiti dal termine “estensione”; la materia, il corpo, la natura sono essenzialmente estensione,
sostanza estesa, “res extensa”. Poiché l’estensione costituisce la vera essenza della materia allora
la realtà fisica viene letta, compresa e presentata in teoria sistematica grazie al ricorso alla
matematica.
Descartes: la realtà materiale è estensione. Sostanza-estensione, Res extensa. Una presentazione a
partire dal quotidiano: «Cominciamo dalla considerazione delle cose più comuni…», un pezzo di
cera (dalle Meditazioni metafisiche).
«Cominciamo dalla considerazione delle cose più comuni, e che noi crediamo di comprendere nel
modo più distinto, cioè i corpi che tocchiamo e vediamo. Io non intendo parlare dei corpi in
generale, perché queste nozioni generali sono d’ordinario più confuse, ma di qualche corpo in
particolare. Prendiamo, per esempio, questo pezzo di cera, che è stato proprio ora estratto
dall'alveare: esso non ha perduto ancora la dolcezza del miele che conteneva, serba ancora
qualcosa dell'odore dei fiori, dai quali è stato raccolto; il suo colore, la sua figura, la sua grandezza
sono manifesti; è duro, è freddo, lo si tocca, e, se lo colpite, darà qualche suono. Infine, tutte le
cose che possono distintamente far conoscere un corpo, s’incontrano in questo. Ma ecco che,
mentre io parlo, lo si avvicina al fuoco: quel che vi restava di sapore esala, l'odore svanisce, il
colore si cangia, la figura si perde, la grandezza aumenta, divien liquido, si riscalda, a mala pena si
può toccarlo, e benché lo si batta, non renderà più alcun suono. Ma la cera stessa resta dopo questo
cambiamento? Bisogna confessare ch’essa resta; e nessuno può negarlo. Che cosa è, dunque, ciò
che si conosceva con tanta distinzione in questo pezzo di cera? Certo non può esser niente di quel
che vi ho notato per mezzo dei sensi, poiché tutte le cose che cadevano sotto il gusto o l'odorato o
la vista o il tatto o l'udito si trovan cambiate, e tuttavia la cera stessa resta. Forse era ciò che io
penso ora: la cera cioè non era né quella dolcezza del miele, né quel piacevole odore dei fiori, né
quella bianchezza, né quella figura, né quel suono, ma solamente un corpo, che poco prima mi
appariva sotto queste forme, e che adesso si presenta sotto altre. Ma, parlando con precisione, che
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cosa è ciò che immagino, quando la concepisco in questa maniera? Consideriamolo attentamente,
e, allontanando tutte le cose che non appartengono alla cera, vediamo quanto resta. Certo non resta
altro che qualcosa di esteso, di flessibile, di mutevole. Ora, che cosa vuol dire: flessibile e
mutevole? Non significa forse che io immagino che questa cera, essendo rotonda, è capace di
divenir quadrata, e di passare dal quadrato in una figura triangolare? No di certo, non è questo,
poiché io la concepisco capace di ricevere un’infinità di simili cangiamenti, e non saprei, tuttavia,
percorrere quest’infinità con la mia immaginazione; e, per conseguenza, questo concetto che ho
della cera non si ottiene per mezzo della facoltà d’immaginare. Ma che cos’è questa estensione?
Non è, essa pure, sconosciuta, poiché nella cera che si fonde aumenta, e si trova ad essere ancora
più grande quando è intieramente fusa, e molto più grande ancora, quando il calore aumenta di
più? Né io concepirei chiaramente e secondo verità che cosa è la cera, se non pensassi ch’essa è
capace di ricevere maggior numero di variazioni, secondo l’estensione, di quel che io non abbia
mai immaginato. Bisogna, dunque, che ammetta che con l’immaginazione non saprei concepire
che cosa sia questa cera, e che non v’è se non il mio intelletto che la concepisca: io dico questo
pezzo di cera in particolare, poiché, per la cera in generale, la cosa è ancor più evidente. Ora, qual
è questa cera, che non può essere concepita se non dall'intelletto o dallo spirito? Certo è la stessa
che io vedo, tocco, immagino, e la stessa che conoscevo fin da principio. Ma, e questo è da notare,
la percezione, o l’azione per mezzo della quale la si percepisce, non è una visione, né un contatto,
né un’immaginazione, e non è mai stata tale, benché per lo innanzi così sembrasse, ma solamente
una visione della mente [solius mentis inspectio], la quale può esser imperfetta e confusa, come
era prima, oppure chiara e distinta, com’è adesso, secondo che la mia attenzione si porti più o
meno verso le cose che sono in essa, e di cui essa è composta.» (Descartes, Meditazioni
metafisiche)
4.3. La posizione “metafisica” nella fisica di Leibniz: le forme sostanziali (sostanze
autonome, monadi): «la loro natura consiste nella forza».
Gottfried Leibniz, Nuovo sistema della natura e della comunicazione delle sostanze e dell’unione
tra l’anima e il corpo. Frutto di intense ricerche e confronti, spesso epistolari, con altri studiosi del
tempo, questo breve saggio come le molte opere sui temi metafisici mettono in luce l’itinerario
filosofico di Leibniz: partendo dallo studio e dalla critica alle metafisiche della tradizione
neoplatonica e aristotelica, Leibniz affronta la metafisica e il meccanicismo cartesiano per
evidenziarne le inadempienze e lavora alla soluzione dei problemi che essi hanno posto ma non
risolto in modo soddisfacente. Uno dei temi più dibattuti negli ambienti legati alla filosofia
cartesiana era la distinzione sostanziale tra anima e corpo, tra pensiero ed estensione. A quella
distinzione si riconosceva il merito di aver liberato le ricerche naturali da componenti
psicologiche, spiritualistiche e teologiche. La fisica trovava ora nella catena delle cause
meccaniche la spiegazione dei fenomeni dell’esperienza e insieme la propria autonomia
scientifica, senza ricorrere a cause esterne, a principi spirituali; ma proprio qui aveva origine il
problema centrale del dibattito filosofico successivo: spiegare la corrispondenza tra pensiero e
realtà, tra anima e corpo.
«Ora poiché il molteplice non può derivare la sua realtà che da unità vere, le quali non derivano e
sono altra cosa dai punti matematici che sono solo gli estremi o modi di estensione, dei quali è
evidente che il continuo non può essere composto; dunque per trovare queste unità reali, fui
costretto a ricorrere ad un punto reale ed animato, per cosi dire, o ad un atomo di sostanza che
deve includere qualcosa di formale o di attivo, per farne un essere completo. Bisognò, pertanto,
richiamare e come riabilitare le forme sostanziali, così derise ai nostri giorni, ma in una maniera
che le rendesse intellegibili e ne distinguesse l’uso che se ne può e deve fare, dall'abuso che se ne
fa. Trovai così che la loro natura consiste nella forza, e che da ciò segue qualcosa di analogo al
sentimento ed all'appetito, e che bisogna concepirle ad imitazione della nozione che abbiamo delle
anime. Ma, come l'anima non deve essere impiegata per rendere ragione dei dettagli
dell’economia dei corpi dell’animale, così mi persuasi che non bisogna avvalersi di quelle forme
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per spiegare i problemi particolari della natura, benché siano poi necessarie per stabilire i veri
princìpi generali. Aristotele le chiama «entelechie prime», io le chiamo, in un modo forse più
intellegibile, forze primitive, che non contengono soltanto l'atto o il complemento del possibile, ma
anche un'attività originaria. […]
Inoltre, per mezzo dell’anima o forma, c’è vera unità che risponde a ciò che in noi si chiama «io»:
cosa che non può trovarsi nelle macchine artificiali, né nella semplice massa della materia, per
organizzata che sia. Questa, infatti, non è concepita come un’armata o come un gregge o come
uno stagno pieno di pesci o come un orologio composto di molle o di ruote. Ma se non vi fossero
vere unità sostanziali, non ci sarebbe nulla di sostanziale o di reale nella collezione. Fu questa
difficoltà che costrinse il Cordemoy ad abbandonare Descartes e ad accettare la dottrina degli
atomi di Democrito, per trovare una vera unità. Ma gli atomi di materia ripugnano alla ragione
perché, a loro volta, sono composti di parti e quand’anche la coesione d’una parte all’altra fosse
invincibile (ammesso che ciò potesse essere supposto o concepito ragionevolmente) ciò non
distruggerebbe la loro diversità. Solo gli atomi di sostanza, cioè unità reali ed assolutamente prive
di parti, sono le sorgenti delle azioni ed i primi principi assoluti della composizione della cosa e
quasi gli elementi ultimi dell’analisi delle cose sostanziali. Potrebbero essere chiamati punti
metafisici: essi hanno qualcosa di vitale ed una specie di percezione; i punti matematici sono i loro
punti di vista per esprimere l’universo. Ma quando le sostanze corporee sono ravvicinate, tutti i
loro organi connessi, rispetto a noi, costituiscono un punto fisico. Così i punti fisici non sono
indivisibili che in apparenza; i punti matematici sono esatti, ma sono solo modalità; solo i punti
metafisici o di sostanza (costituiti dalle forme o dalle anime) sono esatti e reali; e senza di essi non
vi sarebbe nulla di reale, perché senza le vere unità non vi sarebbe alcuna molteplicità.»
(Gottfried Leibniz, Nuovo sistema della natura e della comunicazione delle sostanze e dell’unione
tra l’anima e il corpo.)
Una fisica metafisica scientifica di incontri e armonia sulla base di atomi di forza, sostanze
rigorosamente individuali e infinite (monadi).
4.3.1. Armonia di termini tra loro lontani. Il testo di Leibniz, nel presentare il nuovo principio
metafisico di un sistema armonico e dinamico del mondo, le “sostanze – punti forza”, introduce un
nuovo e ardito incontro di termini antichi e moderni: “atomo di sostanza”, “punto reale e
animato”, “forme sostanziali – forza, entelechie prime – forze primitive”, “punti metafisici – punti
di vista per esprimere l’universo – punti fisici”. Profondo conoscitore delle opere degli scienziati
moderni, ma anche delle opere fisiche e metafisiche della tradizione classica, Leibniz ritiene che
per spiegare il mondo sia necessario trovare i principi essenziali che rivelano la natura dinamica
della realtà. Le nozioni di movimento ed estensione, indicate dal meccanicismo cartesiano sono
inadeguate a esprimere tale natura: l'estensione è solo l’aspetto che più immediatamente appare a
chi osserva il mondo, ma non ne esaurisce la natura. L’universo è costituito da punti di forza,
centri di energia, impenetrabili, in costante interazione tra loro, senza tuttavia che ciò faccia
perdere la quantità di forza viva globale che costituisce l'universo.
4.3.2. Incontro di atomi di sostanza e armonia universale (paradossalmente «Il perfetto accordo di
tante sostanze che non comunicano affatto tra di loro»). La riflessione metafisica di Leibniz lavora
attorno a due concetti fondamentali: la nozione di ciò che è individuale, semplice e originario
(monade, sostanza) e le condizioni dell’armonia e dell’ordine universale (armonia prestabilita). La
definizione delle forme sostanziali come «sorgenti di azione e principi assoluti» esclude da esse
ogni forma di passività; presentata in tal modo la nozione di sostanza comporta l'affermazione
metafisica che «non vi è alcun influsso reale di una sostanza creata su di un’altra». È tuttavia
esigenza altrettanto imprescindibile di un sistema metafisico indicare le forme di relazione,
coerenti con la natura della sostanza, che consentono l’armonia dell’universo e spiegano, ad
esempio, l’unione dell’anima con il corpo o del pensiero con la materia, il rapporto delle varie
unità sostanziali tra loro. Sia l’assoluta autonomia e indipendenza sia l’armonia e la relazione
degli esseri tra loro sono tuttavia caratteristiche delle sostanze, unità reali fondamentali su cui
poggia l’intero sistema metafisico e non possono dipendere, in sé e nella loro armonia globale, da
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cause esterne alla loro natura. L’infinito mondo dei legami logici e dei legami reali, si colloca
all’interno degli atomi di sostanza, esprimendo la natura propria delle unità sostanziali, le quali
collegano così unità e infinito, identità individuale e armonia universale.
4.3.3. Armonia di anima e corpo, pensiero ed estensione (anima e corpo espressione di una stessa
sostanza-forza, sostanza-punto di vista). Leibniz conserva la visione pluralistica del mondo
propria del meccanicismo di Descartes, ma attribuisce alla realtà non solo l’estensione e il
movimento, bensì anche un dinamismo che ha radice nella sostanza: il mondo si compone di
sostanze individuali, le monadi, la cui essenza consiste nell’essere punti di azione, centri di forza.
Materia e spirito, corpo e anima, estensione e pensiero sono espressioni della sostanza che, in
quanto centro di forza, è in grado di produrre autonomamente tutte le manifestazioni materiali e
spirituali della realtà. Queste manifestazioni si presentano dunque non come realtà indipendenti
dalla sostanza-monade, ma come sue determinazioni e come rappresentazioni prodotte dalle
infinite sostanze che compongono la realtà dell’universo.
4.3.4. Armonia interna ed esterna (dell’anima e dell’universo); “armonia prestabilita” non in senso
deterministico ma sulla base del concetto di infinito e quindi sulla base della possibilità; una
possibilità che esprime la propria dimensione e sfida o rilancia la scienza attraverso il concetto
ideale degli “infiniti mondi possibili”. L'autonomia e l'indipendenza delle sostanze non genera
disordine: esiste, per Leibniz, un ordinato comporsi di tutte le sostanze individuali e indipendenti,
una «armonia prestabilita». Questa nozione ha un’indubbia origine teologica (si lega alla visione
di un mondo creato e ordinato dalla mente divina), ma in Leibniz trova fondamento metafisico
nella natura stessa della sostanza. Forze primitive che svolgono un’attività originaria e infinita,
«punti di vista per esprimere l'universo», le monadi sono principi liberi e attivi. La loro infinità, la
loro attività conoscitiva e la loro libertà concorrono a delineare un visione pluralistica,
multicentrica, ma organica e sistematicamente unitaria del mondo. La nozione completa o perfetta
di una sostanza singolare implica infatti tutti i suoi predicati passati, presenti e futuri: ogni
sostanza individuale quindi è definita dall’infinità delle sue possibilità logiche, reali ed etiche. In
quanto infinita essa si colloca in piena sintonia e armonia con l’infinità dell’universo; nulla accade
fuori di essa, «ciascuna di queste sostanze rappresenta esattamente tutto l’universo a suo modo e
secondo un certo punto di vista». Esiste dunque un’armonia interna ed esterna tra i vari esseri, a
un tempo principi eterni e assoluti, ma anche partecipi di un disegno globale, di un’armonia totale
che rende questo universo, per il fatto stesso che esiste, il migliore degli infiniti mondi possibili.
5. Isaac Newton (1642 – 1726)
Un bilancio che diventa una consapevolezza di metodo nel fare scienza (e anche un epitaffio
dettato dallo stesso Newton): «… poco prima di morire aveva […] poeticamente riassunto così la
sua vita a Andrew Ramsay: “Cosa il mondo penserà di me, non lo so. A me sembra di essere stato
solo un fanciullo che gioca sulla riva del mare e si diverte a trovare, ogni tanto, un sassolino un
po’ più levigato o una conchiglia un po’ più graziosa del solito, mentre il grande oceano della
verità gli si stende inesplorato dinanzi.”» (Odifreddi Piergiorgio, 2014, Sulle spalle di un gigante.
E venne un uomo chiamato Newton, Longanesi, Milano, 22)
L’opera: Isaac Newton, Principi matematici di filosofia naturale (Philosophiae naturalis
principia mathematica [Principia], in prima edizione nel 1687 e poi la 2a 1713, la 3a 1726.
Nel 1687, a coronamento di molti anni di pazienti studi e ricerche di matematica, ottica, fisica,
astronomia, lo scienziato inglese Isaac Newton dà alle stampe l'opera Principi matematici di
filosofia naturale in cui espone in modo ordinato e sistematico i risultati delle indagini condotte
con metodo matematico sulla dinamica dei corpi celesti e terrestri. Quest'opera, che la tradizione
scientifica successiva assumerà come testo classico della fisica moderna, attua una svolta
fondamentale non solo nell'ambito delle ricerche della fisica del tempo ma anche nell'ambito
dell’opera di Newton. Mentre gli studi che Newton aveva pubblicato sino ad allora sul calcolo
infinitesimale e sul calcolo delle flussioni rivelavano un interesse per la matematica ancora
circoscritto a specifici problemi, nei Principi la matematica non compare solo come mezzo per
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descrivere le diverse esperienze, ma ispira l’intero piano dell’opera e fa da supporto alla ricerca di
un sistema del mondo.
5.1. La matematica e la natura. Dunque la matematica non si presenta né come essenza
metafisica del mondo (vale qui il motto di Newton hypotheses non fingo), né come semplice
mezzo al servizio della visione e di una sua descrizione, ma come piano di costruzione dell’ordine
del mondo secondo rigore osservativo e secondo. Lo scienziato non deve ricercare la sostanza,
l’essenza o la natura metafisica degli oggetti, ma deve descrivere, attraverso adeguate
osservazioni, il comportamento dei corpi e tradurlo in relazioni matematiche capaci di fornire una
visione globale del sistema del mondo. Questa preoccupazione antimetafisica che Newton
ripetutamente segnala nei suoi scritti deriva dal timore che la filosofia possa continuare a
trascinare la scienza in sterili dispute di natura metafisica su ipotesi del tutto destituite di
fondamenti empirici, come era accaduto e accadeva alle ricerche di filosofia naturale ispirate ai
modelli di Descartes e di Leibniz. Il sistema della natura descritto nei Principi mira invece ad
abbandonare qualsiasi postulato metafisico per presentarsi come il sistema delle relazioni
dinamiche tra i corpi. L’omogeneità della natura, che lo scienziato pone a fondamento della sua
ricerca, è garantita non da fondamenti metafisici, ma dal persistere delle caratteristiche dei corpi,
dalla costanza delle loro qualità; la continuità della natura è ricavabile dalla osservazione dei
fenomeni e dalla loro trascrizione matematica. In virtù di questa sua origine l'omogeneità della
natura assume, per Newton, il valore di principio che, esteso all`intero mondo fisico, garantisce
universalità alle leggi naturali. Osservazione e matematica sono dunque i soli necessari e
inscindibili principi di metodo della filosofia naturale.
5.2. Regole di metodo scientifico o Regulae philosophandi. Prima del terzo libro dell’opera
Philosophiae naturalis principia matematica, Newton esplicita i postulati che gli hanno permesso
di costruire e scrivere con legittimità e consapevolezza epistemologica il sistema scientifico del
mondo. Si tratta di una sezione dedicata alle regulae philosophandi in cui Newton espone gli
enunciati di metodo che spiegano come, a partire da una scelta rigorosamente empirica che
impone di considerare scientifico solo ciò che è ricavato dall’esperienza, si possano formulare
affermazioni universali, valide per ogni esperienza possibile, anche quella non empiricamente ora
a disposizione, allo scopo di costruire un sistema scientifico della natura. Proprio per la capacità di
associare il rispetto dell’esperienza con l’esigenza di formulare leggi universali della natura e di
delineare il sistema scientifico del mondo, le regulae philosophandi espresse da Newton si
presentano per la scienza dell’età moderna come postulati di metodo di ogni ricerca scientifica.
5.3. Le regole del metodo scientifico in formula o in «proposizioni secondo il costume
matematico» (il modello in formula).
«Nei libri precedenti ho trattato i Principi della Filosofia, non filosofici tuttavia, ma soltanto
matematici, a partire dai quali, però, si può discutere di cose filosofiche. Queste sono le leggi e le
condizioni dei moti e delle forze, che si riferiscono massimamente alla filosofia.
Tuttavia, affinché non sembrassero vuoti, ho illustrato le medesime con alcuni scolii filosofici,
trattando quelle cose che sono generali, e sulle quali, massimamente, la filosofia sembra essere
fondata, come la densità e la resistenza dei corpi, gli spazi vuoti di corpi, il moto della luce e dei
suoni. Rimane da insegnare, a partire dai medesimi princìpi, l’ordinamento del sistema del mondo.
Su questo argomento avevo scritto un terzo libro con metodo popolare, affinché fosse letto dai più.
Senonché coloro che non avessero sufficientemente capito i princìpi posti, in minima parte
avrebbero avvertito la forza delle conseguenze, e non avrebbero deposto i pregiudizi ai quali sono
stati abituati da molti anni; e, pertanto, affinché la cosa non fosse trascinata in discussioni, ho
trasferito l’essenziale di quel libro in proposizioni, secondo il costume matematico, affinché
fossero lette soltanto da coloro che avessero studiato in antecedenza i principi. Nondimeno, poiché
le proposizioni vi si presentano numerosissime, per cui anche ai lettori esperti di matematica
possono arrecare eccessiva perdita di tempo, non voglio consigliare ad alcuno di studiarle tutte;
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sarà sufficiente che uno legga attentamente le definizioni, le leggi dei moti, e le prime tre sezioni
del primo libro, e dopo passi a questo libro circa il sistema del mondo, ed a suo piacere esamini le
rimanenti, citate, proposizioni dei libri precedenti.
REGOLA I
Delle cose naturali non devono essere ammesse cause più numerose di quelle che sono vere e
bastano a spiegare i fenomeni.
Come dicono i filosofi: La natura non fa nulla invano, e inutilmente viene fatto con molte cose ciò
che può essere fatto con poche. La natura, infatti, è semplice e non sovrabbonda in cause superflue
delle cose.
REGOLA II
Perciò, finché può essere fatto, le medesime cause vanno attribuite ad effetti naturali dello stesso
genere.
Come alla respirazione nell’uomo e nell’animale, alla caduta delle pietre in Europa e in America;
alla luce nel fuoco domestico e nel Sole; alla riflessione della luce sulla terra e sui pianeti.
REGOLA III
Le qualità dei corpi che non possono essere aumentate e diminuite, e quelle che appartengono a
tutti i corpi sui quali è possibile impiantare esperimenti, devono essere ritenute qualità di tutti i
corpi.
Infatti, le qualità dei corpi non si conoscono altrimenti che per mezzo di esperimenti, e perciò
devono essere giudicate generali tutte quelle che, in generale, concordano con gli esperimenti; e
quelle che non possono essere diminuite non possono essere nemmeno sottratte. Certamente,
contro il progresso continuo degli esperimenti non devono essere inventati sconsideratamente dei
sogni, né ci si deve allontanare dall’analogia della natura, dato che essa suole essere semplice e
sempre conforme a sé. L’estensione dei corpi non si conosce altrimenti che per mezzo dei sensi,
né è percepita in tutti; ma in quanto spetta a tutte le cose sensibili, allora viene affermata di tutte le
cose. Abbiamo sperimentato che molti corpi sono duri. Ora, la durezza del tutto nasce dalla
durezza delle parti, quindi a buon diritto, concludiamo che non soltanto sono dure le particelle
indivise di quei corpi che vengono percepiti ma anche di tutti gli altri. Deduciamo che tutti i corpi
sono impenetrabili non con la ragione, ma col senso. Gli oggetti che maneggiamo vengono
riscontrati impenetrabili, ne concludiamo che l’impenetrabilità è una proprietà dei corpi in
generale. Che i corpi siano mobili, e che a causa di forze qualsiasi (che chiamiamo forze d’inerzia)
perseverino nel moto o nella quiete, deduciamo da queste proprietà dei corpi osservabili.
L’estensione, la durezza, l’impenetrabilità, la mobilità e la forza d’inerzia del tutto nasce
dall'estensione, dalla durezza, dalla impenetrabilità, dalla mobilità e dalle forze d’inerzia delle
parti; di qui concludiamo che tutte le minime parti di tutti i corpi sono estese e dure, impenetrabili,
mobili, e dotate di forze d’inerzia. E questo è il fondamento dell’intera filosofia. Abbiamo, inoltre,
imparato dai fenomeni che le parti divise dei corpi, e contigue le une alle altre, possono essere
separate fra loro, e che le parti non divise possono essere divise con la ragione in parti minori,
come è evidente dalla matematica. In verità è incerto se quelle parti distinte e non ancora divise
possano essere divise per mezzo delle forze della natura ed essere mutuamente separate. Ma se da
anche un solo esperimento risultasse che, rompendo un corpo duro e solido, una qualunque
particella non divisa, subisce una divisione, concluderemmo, in forza di questa regola, che non
soltanto sono separabili le parti divise, ma che anche quelle non divise possono essere divise
all’infinito.
Infine, se, in generale, per mezzo di esperimenti e di osservazioni astronomiche, risultasse che tutti
i corpi che girano intorno alla Terra sono pesanti, e ciò in relazione alla quantità di materia in
ciascuno di essi, che la Luna è pesante verso la Terra in relazione alla propria quantità di materia,
e il nostro mare, a sua volta, è pesante verso la Luna, e che tutti i pianeti sono pesanti l’uno
rispetto all'altro, e che la pesantezza delle comete verso il Sole è identica, allora, si dovrà dire che
per questa regola tutti i corpi gravitano vicendevolmente l'uno verso l’altro. Infatti l’argomento
tratto dai fenomeni circa la gravità universale sarà più forte di quello circa l’impenetrabilità dei
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corpi, sulla quale non abbiamo nessuno esperimento e nessuna osservazione fatta direttamente sui
corpi celesti. Tuttavia, non affermo affatto che la gravità sia essenziale ai corpi. Con forza insita
intendo la sola forza di inerzia. Questa è immutabile. La gravità allontanandosi dalla Terra,
diminuisce.
REGOLA IV
Nella filosofia sperimentale, le proposizioni ricavate per induzione dai fenomeni, devono,
nonostante le ipotesi contrarie, essere considerate vere o rigorosamente o quanto più possibile,
finché non interverranno altri fenomeni, mediante i quali o sono rese più esatte o vengono
assoggettate ad eccezioni.
Questo deve essere fatto affinché l’argomento dell’induzione non sia eliminato mediante ipotesi.»
I. Newton, Principi matematici di filosofia naturale, pp. 601-607, tr. di A. Pala, UTET, Torino
1965
Ciascuna delle quattro regole introduce uno specifico principio di ragionamento scientifico; in
sintesi e in quanto principi, le regole possono essere presentate in questa sintetica formula: 1.
Principio dell’economia delle cause (Regola I), 2. Principio dell’analogia (Regola II), 3. Principio
della costanza delle qualità (Regola III), 4. Principio dell’osservazione (Regola IV).
5.4. Il sistema del mondo in una formula (la gravitazione universale). F=
Nel contesto: le direzioni di metodo, gli impulsi per la ricerca, l’impianto sistematico, dubbi e
domande di contenuto e di metodo… sempre come eredità.
5.4.1. Il metodo sperimentale. «Deduciamo non con la ragione ma con il senso»
Nel breve testo dedicato alle «Regulae philosophandi» che apre il Libro terzo dei Principi,
Newton invita ripetutamente e quasi polemicamente a fondare la conoscenza sulla sola
osservazione, ricordando che «non si conosce altrimenti che per mezzo dei sensi», che gli uomini
hanno imparato tutto «dai fenomeni». Egli contrappone così il metodo della propria filosofia
sperimentale, fondato sulla osservazione e sulla fedele trascrizione matematica dei fenomeni, al
metodo proprio delle filosofie della natura di ispirazione cartesiana, che egli giudica aprioristico in
quanto non si basa sull’osservazione, ma assume a proprio fondamento concetti e postulati teorici,
considerati a priori e innati.
5.4.1.1. Illustrando la terza regola (Regola III Le qualità dei corpi che non possono essere
aumentate e diminuite, e quelle che appartengono a tutti i corpi sui quali è possibile impiantare
esperimenti, devono essere ritenute qualità di tutti i corpi.), Newton richiama il problema dello
spazio, dell’estensione. La posizione di Newton suona clamorosamente anticartesiana; se per
Descartes l’estensione era un’idea chiara e distinta, scoperta attraverso la negazione di ciò che i
sensi forniscono, Newton afferma: «L’estensione dei corpi non si conosce altrimenti che per
mezzo dei sensi», ed ancora «Abbiamo, inoltre, imparato dai fenomeni che le parti divise dei
corpi, e contigue le una alle altre, possono essere separate fra loro…». Un rigido e radicale
richiamo all’esperienza, garanzia della presa che i concetti della geometria possono esercitare sulla
realtà portandoci a una conoscenza sistematica.
5.4.2. La regola dell’omogeneità naturale. «Né ci si deve allontanare dall'analogia della natura»
Il metodo sperimentale, che dichiara di ricavare dalla sola osservazione le proprie spiegazioni
della realtà, può generalizzare i risultati dello studio dei fenomeni estendendoli a fenomeni non
osservati e può trasformarli in leggi universali della natura non perché ha esaurito l'intero campo
dell’osservazione (di cui anzi Newton ribadisce il carattere infinito), ma sulla base del postulato
della «omogeneità della natura»; deve cioè considerare invariabili le leggi della natura. Grazie ad
esso il ricercatore può servirsi dell’analogia per trasporre da un campo a un altro simile le
osservazioni e le leggi che individua. Si tratta di una possibilità che va temperata con la “quarta
regola”, vista la sua difficile fondazione empirica.
5.4.3. La circolarità della scienza. «Abbiamo imparato dai fenomeni»
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La ragione scientifica vanta una superiorità nei confronti delle altre forme di conoscenza, in
quanto si dichiara in grado di esplicitare e di chiarire gli elementi concettuali e le regole di metodo
di cui si avvale e di esercitare, in tal modo, su di sé, un potere autoriflessivo, di controllo e
correzione. La scienza per Newton realizza questa caratteristica attraverso un processo logico di
tipo circolare: passa continuamente dalle premesse all’osservazione e viceversa, per una reciproca
conferma, senza indicare in modo definitivo un inizio e una fine. Le premesse da cui parte la
scienza, le «regole del filosofare», vengono giustificate e verificate dalle conclusioni che le stesse
premesse rendono possibili. Ciascun enunciato della regola da un lato sembra essere il risultato di
ripetute osservazioni, dall’altro sembra essere il principio che rende possibile l’osservazione.
Rivive qui la situazione tipica dei principi della scienza che si presentano come ricavati
dall’esperienza e contemporaneamente come presupposti dell’esperienza (circolarità che esprime
nel metodo l’autonomia della scienza).
5.4.4. Il sistema del mondo in una formula. L’espressione richiama l’opera divulgativa che
Newton aveva iniziato a scrivere con il titolo Il sistema del mondo, poi in qualche modo confluita
nei Principia. «Avendo ormai a disposizione tutti gli elementi teorici e sperimentali necessari, le
Proposizioni III.1-3 incominciano a disvelare la struttura del mondo. Anzitutto, per la seconda
legge di Keplero, il Sole attira a sé i pianeti, così come Giove e Saturno i propri satelliti e la
Terra la Luna. Inoltre, per la terza legge di Keplero e la quasi circolarità delle orbite, la forza
esercitata dal Sole sui pianeti, così come da Giove e Saturno sui propri satelliti, è inversamente
proporzionale al quadrato della distanza.» (Odifreddi 2014, 191)
Dalle «regulae philosophandi» che giustificano il passaggio dall’osservazione particolare a leggi
universali, sulla base dunque dell’esperienza e della matematica, è possibile delineare il sistema
scientifico della natura (e non il solo moto dei corpi celesti, terra compresa) e, attraverso il
linguaggio della matematica, esprimerne unitariamente la dinamica complessiva con una formula
chiara e semplice. Infatti, «Il collante con cui l’universo mette insieme le strutture cosmiche è la
gravità…» (Scharf Caleb, 2012, I motori della gravità. L’altra faccia dei buchi neri,
codiceedizioni, Torino 2014, 138)
5.4.4.1. Fedele a queste convinzioni, Newton affronta uno dei problemi centrali delle sue ricerche
fisiche, quello del moto «obbligato» dei corpi (del movimento, cioè, che segue una traiettoria non
rettilinea o inerziale, ma pendolare o rotatoria). Tale movimento non trovava spiegazione nella
fisica tradizionale, imperniata per lo più sul principio di inerzia e viene considerato un’eccezione
non riconducibile al moto naturale; è spiegato invece da Newton con la nozione di forza.
5.4.4.2. Ben lontano dall’idea medievale e rinascimentale di «forza occulta», il principio
newtoniano di forza si presenta come un concetto matematico che spiega in termini quantitativi il
dinamismo della realtà, consentendo alla matematica (innovata grazie al calcolo infinitesimale e
alla teoria delle flussioni) di esprimere il movimento delle cose, del mondo. Sulla base
dell’osservazione e della sua trascrizione matematica, Newton costruisce, avvalendosi del nuovo
concetto di forza, la teoria sistematica della dinamica dei corpi che espone nei Principi. La legge
fondamentale che compone in un sistema le leggi dinamiche dell'universo è quella di gravitazione
universale (universale e non solo planetaria): con essa Newton non solo indica nella forza la
qualità universale dei corpi, ma esprime in termini matematici il dinamismo della realtà: F=
(in altra formulazione e scrittura: la gravitazione è una forza pari a gm1m2/r2 che agisce a distanza).
5.4.4.2.1. «Nel 1666, a ventitré anni, Newton mise al bando gli spiriti che infestavano il mondo
aristotelico introducendo una nuova meccanica fondata sulle forze. Newton propose tre leggi del
moto, per cui gli oggetti si muovevano in quanto tirati o spinti da forze che potevano essere
accuratamente misurate ed espresse da semplici equazioni. Invece di fare illazioni sui desideri
degli oggetti in movimento, Newton riuscì a calcolare la traiettoria di ogni cosa — foglie cadenti,
razzi che si librano in volo, palle di cannone e nuvole — sommando le forze che su di essa
agivano. Non si trattava di una mera questione accademica, perché contribuì a gettare le
fondamenta della Rivoluzione industriale.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein. Come la
33
visione di Einstein ha trasformato la nostra comprensione dello spazio e del tempo, Codice
edizioni, Torino 2005, 7)
5.4.4.2.2. È bene sottolineare la rilevanza matematica, logica, linguistica, metodologica e…
artistica delle equazioni che si presentano come formule sistemiche del mondo; espressioni
“codificate” considerate come chiavi di comprensione e accesso alla realtà, formule che nella loro
successione storica esprimono in sintesi il mutare della scienza e le diverse visioni del mondo che
essa produce. «Mentre le equazioni in sé rappresentano il riconoscimento di verità eterne e
universali, il modo in cui furono scritte è esclusivamente, limitatamente, proprio della natura
umana. È questo che le rende molto simili a poesie: sono tentativi meravigliosamente abili di far sì
che realtà illimitate diventino comprensibili a esseri limitati.» (Guillen Michael, 1995 Le cinque
equazioni che hanno cambiato il mondo, Longanesi, Milano 1997, p. 15. Gli scienziati citati in
questo libro e le loro equazioni di sistema sono: Isaac Newton e le leggi della gravitazione
universale, Daniel Bernoulli e le leggi della pressione idrodinamica, Michael Faraday e le leggi
dell’induzione elettromagnetica, Rudolf Clausius e il secondo principio della termodinamica,
Albert Einstein e la teoria della relatività).
5.4.4.3. La formula matematica separa la legge naturale dalla tradizione delle forze occulte antiche
(medievali e forse mai tramontate) e di cui parla la magia (quella stessa magia di cui si occupa a
lungo Newton). Osserva Newton nella Prefazione al III libro dei Principia «Avevo scritto questo
libro in maniera divulgativa, così che potesse essere letto da molti. Ma coloro che non avessero
sufficientemente capito i principi stabiliti, avrebbero avuto una percezione molto sbiadita della
forza dell’argomento, e non avrebbero abbandonato i pregiudizi ai quali si sono assuefatti da molti
anni. Dunque, per evitare che sorgessero discussioni, ho tradotto la sostanza del libro in
proposizioni di tipo matematico, che potessero essere lette soltanto da coloro che avessero prima
assimilato i principi.» (Odifreddi 2014, 182)
La forma matematica delle legge contribuisce certamente a indicare la portata universale e di
visione cosmologica generale che Newton attribuisce alla gravità, come gravità generale appunto:
una formula dell’universo. La tesi tuttavia non sembra essere posta immediatamente in risalto
nella sua portata universale di sistema del mondo dalla formula e dalla sua semplicità se non si
richiama il contesto remoto e più ampio in cui matura nell’opera culturale generale di Newton.
Osserva Piergiorgio Odifreddi: «Forse i risultati più profondi che le ricerche alchemiche ebbero
sul pensiero di Newton sono i pensieri a cui egli alluse cripticamente nella Prefazione ai Principia:
«Molte cose mi spingono a sospettare che tutti i fenomeni della Natura possano dipendere da certe
forze, per effetto delle quali le particelle dei corpi, per cause non ancora conosciute, o sono attratte
fra loro e si connettono secondo figure regolari, o si respingono vicendevolmente e si allontanano.
Poiché queste forze rimangono ignote, i filosofi hanno finora indagato la Natura invano. Ma io
spero che i princìpi esposti in questo libro getteranno qualche luce o su questo modo di filosofare,
o su uno più veritiero.» In un'inedita Conclusione alla prima edizione dell'opera si era scoperto di
più, mostrando di immaginare la materia come una rete organica tenuta insieme da una tessitura di
forze che prefigurano quelle elettromagnetiche e nucleari che oggi conosciamo: «Ogni
ragionamento valido per il moto dei corpi macroscopici dovrebbe esserlo anche per quelli
microscopici. I primi dipendono dalle grandi forze attrattive che sono proprie dei corpi di
maggiori dimensioni. Quanto ai secondi, io sospetto che essi dipendano da forze di minore entità,
non ancora osservate, proprie di particelle impercettibili. L’esistenza della gravità, del
magnetismo e dell’elettricità dimostra che ci sono vari tipi di forze, in virtù delle quali i corpi
macroscopici agiscono reciprocamente l’uno sull’altro. Non si può escludere avventatamente che
esistano ancora altri tipi di forze, e io non vedo chiaramente perché i corpi microscopici non
dovrebbero agire l’uno sull’altro per effetto di forze del genere.».» (Odifreddi 2014, 30)
5.4.4.3.1. e la relazione della teoria / tesi della “forza gravitazionale” con (oggi imprevedibili e
improbabili) tradizioni ermetiche e magiche. «Nelle scienze classiche i movimenti ermetici
favorirono talvolta lo status della matematica, incoraggiando i tentativi di trovare regolarità
matematiche nella natura, e talvolta accreditando le semplici forme matematiche così scoperte
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come cause formali, termine della catena causale scientifica. Sia Galileo che Keplero forniscono
esempi di questo crescente ruolo ontologico della matematica, e il secondo mostra inoltre una
ulteriore, più misteriosa, influenza ermetica. Da Keplero e Gilbert fino a Newton, per quanto da
allora in forma attenuata, le simpatie e le antipatie naturali notevoli nel pensiero ermetico,
aiutarono a colmare il vuoto causato dal collasso delle sfere aristoteliche che avevano fino ad
allora tenuto i pianeti nelle loro orbite. […] Senza dubbio, l’enfasi ermetica sulle simpatie occulte
aiuta a comprendere il crescente interesse, dopo il 1550, per il magnetismo e l’elettricità… […]
Ma le attuali ricerche mostrano sempre di più come il maggior contributo dell’ermetismo alle
scienze baconiane e probabilmente all’intera Rivoluzione scientifica fu la figura faustiana del
mago, impegnato a manipolare e a controllare la natura, spesso con l’aiuto di ingegnosi congegni,
di strumenti e macchine. Il riconoscimento della figura di Francis Bacon come figura di
transizione tra il mago Paracelso e il filosofo sperimentale Robert Boyle ha contribuito più di ogni
altra cosa, negli anni recenti, a modificare l’intelligenza storica delle modalità con le quali sono
nate le nuove scienze sperimentali. […] … lo sviluppo delle scienze baconiane spesso aveva
bisogno di essere guidato da concetti come l’affinità e il flogisto, non drasticamente diversi dalle
simpatie e antipatie naturali del movimento ermetico. Ma il corpuscolarismo separò le scienze
sperimentali dalle magiche, promuovendo così la necessaria indipendenza. Fatto ancora più
importante, esso fornì una base razionale all’esperimento come nessuna forma di aristotelismo né
di platonismo avrebbe potuto fare.» (Kuhn S. Thomas, 1972 Tradizioni matematiche e tradizioni
sperimentali nello sviluppo delle scienze fisiche, in Kuhn S. Thomas, 1997, La tensione essenziale
e altri saggi, Einaudi, Torino 2006, 50-52)
5.4.4.4. il metodo in azione nella costruzione della teoria scientifica o come avviene l’estensione
universale della tesi della gravitazione (appunto: gravitazione universale), nel rispetto dei
fenomeni (dedurre dai fenomeni) e con l’aiuto delle regulae philosophandi; il passaggio di
Newton e la consapevolezza di metodo: «Egli era conscio di compiere un piccolo passo per uno
scienziato, ma un grande passo da gigante per la filosofia, affermando: «poiché la forza che tiene
la Luna in orbita è uguale alla forza di gravità, essa è la forza di gravità ». Non a caso, si era
premunito inserendo agli inizi del Libro III quattro Regole sul Filosofare che lo giustificassero,
delle quali abbiamo già parlato. In particolare, affermando che non si dovrebbero ammettere più
cause naturali di quante siano necessarie a spiegare i fenomeni, perché la Natura è semplice e
non indulge a cose superflue. E che a effetti analoghi si dovrebbero assegnare cause analoghe.
Basandosi su queste stesse regole, la Proposizione III.5 e i suoi Corollari compiono un ulteriore
passo avanti e deducono non solo che in tutti i casi precedenti è sempre in azione la stessa forza,
ma anche che tutti i corpi celesti esercitano l'uno sull'altro una forza di gravità inversamente
proporzionale al quadrato della distanza. Si può dunque intuire che Giove e Saturno perturbino
reciprocamente le proprie orbite attorno al Sole. Che il Sole perturbi l'orbita della Luna attorno
alla Terra. E che il Sole e la Luna perturbino le acque terrestri con effetti di marea.
Fino a questo punto, però, non è ancora stato stabilito in che modo siano legati i corpi alla gravità
che essi producono e subiscono. La Proposizione III.6 introduce la distinzione tra massa
gravitazionale (che reagisce all'attrazione e si manifesta attraverso il peso) e massa inerziale (che
reagisce ai cambiamenti del moto rettilineo e si manifesta attraverso il pendolo). E prova che la
massa gravitazionale e la massa inerziale di un corpo sono uguali. […] E poiché sappiamo già
come la forza dipende dalla distanza, la Proposizione III.7 riassume il tutto stabilendo che la
gravità che agisce mutuamente su due corpi di masse M ed m è proporzionale a entrambe, e
inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza r. Chiamando G la costante di
proporzionalità, oggi noi esprimiamo il tutto nella famosa formula: F = G
.» (Odifreddi 2014,
192) [o in revisione relativistica:
Scharf Caleb, 2012, I motori della gravità. L’altra
faccia dei buchi neri, codiceedizioni, Torino 2014]
5.4.5. La tesi e la formula della gravitazione universale richiede dunque fondamentali precisazioni
di metodo (anche in risposta alle posizioni dei fisici a lui contemporanei); in particolare:
35
5.4.5.1. sulla natura e sul ruolo della matematica nella costruzione delle teorie fisiche:
«Nel commento alla Definizione 8, Newton mette le mani avanti e stabilisce una netta separazione
fra il trattamento matematico dei Principia e la soggiacente realtà fisica del mondo: «Io considero
le forze dal punto di vista matematico, e non fisico. Dunque, il lettore si guardi bene dal pensare
che con parole come «attrazione» io intenda una specie o modo d’azione, o una causa o ragione
fisica. E che quando parlo di centri di attrazione, o di forze centrali, io attribuisca veramente e
fisicamente le forze a questi centri, che sono solo punti matematici.».» (Odifreddi 2014, 82-83)
La natura strumentale della matematica e il rifiuto di una sua diretta traduzione metafisica salva
sia la matematica che l’esperienza come condizioni indispensabili della scienza moderna e si
ispira con coerenza al motto “hypotheses non fingo” (non presuppongo ipotesi che non abbiano un
fondamento empirico e che risultino quindi a priori o sottratte alla verifica). Nelle ricerche sulla
natura della luce per definire se fosse un fenomeno ondulatorio oppure corpuscolare, Newton
richiama una centrale procedura di metodo: «La teoria che ho esposto sulla rifrazione e i colori
consiste soltanto di certe proprietà della luce, e trascura le ipotesi mediante cui si devono spiegare
quelle proprietà. Il modo migliore e più sicuro di filosofare, infatti, consiste anzitutto nel ricercare
le proprietà delle cose, accuratamente e mediante esperimenti, e solo in seguito nel preoccuparsi
delle ipotesi per la loro spiegazione. Infatti, le ipotesi devono servire unicamente a spiegare le
proprietà delle cose determinate dagli esperimenti, e non a determinarle. Perché se si cercasse di
intuire la verità delle cose soltanto sulla base di ipotesi, non si potrebbe stabilire niente di certo in
nessuna scienza, visto che è sempre possibile inventare in continuazione ipotesi ad hoc.» (in
Odifreddi 2014, 119)
5.4.5.2. sul sospetto avanzato che la gravitazione richiami in fisica l’antico motivo delle “forze
occulte” (introdotte ad hoc per risolvere intoppi indistricabili della teoria e dichiarate
paradossalmente occulte allo scopo di salvarne l’esistenza contro l’obiezione che non risultano
confermate dall’esperienza); la stessa affermazione che la matematica è mezzo va nella direzione
di escludere tesi fisiche che richiamino le tanto criticate “forze occulte” e che sostengano le tesi
della “azione a distanza” (actio in distans): «Questa posizione serviva ovviamente da scudo per
parare le critiche all’«azione a distanza» esercitata dalla gravitazione, che Leibniz aveva tacciato
di essere «una qualità occulta o inspiegabile» fin dal 1705, nella Prefazione ai Nuovi saggi
sull’intelletto umano. Qualche anno dopo, negli Elementi di filosofia newtoniana del 1738,
Voltaire poteva ormai semplicemente prendersi gioco di quest’espressione: «Se si intende per
«qualità occulta» un principio reale di cui non si può dare ragione, tutto l'universo è così. Non
sappiamo né perché avvenga il moto, né perché si comunichi, né perché i corpi siano elastici, né
perché pensiamo, né perché viviamo, né perché qualsiasi cosa esista. Tutto è «qualità occulta».»
Ma all’epoca Newton fu costretto a ribattere immediatamente a tono a Leibniz nel 1706, nella
Questione 31 dell’Ottica: «Io considero questi principi non come qualità occulte, che si
immaginano sorgere dalle forme specifiche delle cose, ma come leggi generali della Natura,
mediante le quali le cose stesse vengono formate. Sono i fenomeni a mostrarci la verità di questi
princìpi, anche se le loro cause non sono ancora state scoperte: i principi sono palesi, e solo le loro
cause rimangono occulte.».» (Odifreddi 2014, 83-84)
5.4.5.3. sull’idea della «azione a distanza» che la forza gravitazionale di una massa eserciterebbe
nei confronti di altre masse (e viceversa). «Tutte le precauzioni messe in opera nei Principia per
schermarsi dalle critiche relative all’azione a distanza dimostrano implicitamente che Newton era
conscio del problema. Ma una lettera del 25 Febbraio 1693 a Bentley testimonia esplicitamente
che egli stesso riteneva quest'azione incredibile e impossibile: «Che la gravità possa essere innata,
inerente ed essenziale alla materia, così che un corpo possa agire sopra un altro a distanza
attraverso il vuoto, senza la mediazione di qualcosa per cui, e attraverso cui, le loro forze e le loro
azioni possano essere mutuate tra l’uno e l’altro, credo sia una tale assurdità, che nessuno che
abbia un po’ di competenza filosofica possa mai crederci. La gravità dev’essere causata da un
agente che agisce costantemente secondo certe leggi, ma se questo agente sia materiale o
immateriale, l'ho lasciato decidere ai lettori.» Quanto a lui, provò a risolvere il problema più volte
36
e in vari modi. Le «cause meccaniche » le escluse grazie al semplice argomento citato sopra,
legato alla proporzionalità della gravità alla massa, invece che alla superficie.» (Odifreddi 2014,
87-88); e con altri modi: forza elettrica, uno «spirito sottilissimo che pervade i corpi ed è nascosto
in essi», e «Nella Questione 21… esplicitamente aggiunta alla seconda edizione del 1718 «per
mostrare che non assumo la gravità come una proprietà essenziale dei corpi», immagino che essa
potesse essere l'effetto di un «vento d’etere». All’etere erano dedicate, più in generale, le otto
nuove Questioni 17-24, e la loro collocazione nell'Ottica lasciava prevedere che esse vertessero
soprattutto sul problema della natura della luce.» (Odifreddi 2014, 88), fino ad assumere una
posizione avversata dalla filosofia dell’epoca, «rifiutando l’etere e accettando il vuoto… contro i
pregiudizi filosofici dell’epoca».
5.4.5.4. sulla fedeltà di Newton al suo stesso principio emblema del suo metodo affidato alla
formula “hypotheses non fingo”. Un problema che si impone quando, come accade allo stesso
Newton, dalla formulazione della legge si passa alla ricerca della causa; in questa direzione
compaiono tentazioni di carattere metafisico, per esigenze di definitiva fondazione e completezza
e, quasi inesorabilmente, risulta difficile rispettare la regola di metodo “hypotheses non fingo”;
regola che viene accanitamente ribadita proprio nel contesto di una impostazione che di fatto la
rinnega. Newton «riprese l'argomento nel 1713, nel conclusivo Scolio Generale della seconda
edizione dei Principia: «Non ho ancora assegnato una causa alla gravità. Sicuramente essa ne ha
una, che penetra fino al centro del Sole e dei pianeti, senza diminuire in potenza. E agisce sui
corpi non in proporzione alla superficie, come farebbe se fosse di natura meccanica, ma alla
massa. E arriva immensamente lontano e dovunque, decrescendo in proporzione inversa al
quadrato della distanza. [...] La ragione di queste proprietà della gravità non sono ancora riuscito a
dedurla dai fenomeni, ma non fingo ipotesi (hypotheses non fingo). Qualunque cosa non sia
deducibile dai fenomeni è infatti un’ipotesi, e nella filosofia sperimentale non trovano posto le
ipotesi metafisiche o fisiche, occulte o meccaniche. In questo tipo di filosofia le proposizioni si
deducono dai fenomeni e si generalizzano per induzione.».» (Odifreddi 2014, 83-84); come viene
più volte ribadito da Newton, ai fenomeni fanno riferimento sia l’induzione («abbiamo imparato
dai fenomeni… ricavate per induzione dai fenomeni») che la deduzione («le proposizioni si
deducono dai fenomeni … Deduciamo non con la ragione ma con il senso »), a minimizzare, se
non ad escludere, l’utilità della introduzione di ipotesi esplicative nel campo della spiegazione
scientifica.
Tuttavia, la stessa esigenza di ricerca delle cause e di una causa prima dell’intera dinamica
dell’universo, così come l’obiettivo della completezza di sistema mettono in crisi la fedeltà al
principio che vieta l’introduzione di ipotesi a priori (hypotheses non fingo) e spingono Newton ad
introdurre, in più direzioni, motivi di carattere teologico nel campo della fisica; Dio assume le
forme di un vero e proprio “Deus ex machina”. Accade per [1] l’idea di un “sensorium Dei” e per
[2] l’ipotesi di una Mente intelligente a definitiva spiegazione della forma del mondo e dell’ordine
matematico che (ora metafisicamente) lo caratterizza.
[1] «Benché corretto storicamente, attribuire la legge di gravitazione a Vincenzo Galilei [padre di
Galileo] non sarebbe stato consono allo stile ermetico. Lo era invece, come dimostra l’ultimo degli
Scolii inediti, rivangare il pensiero degli antichi sui legami tra gravità e divinità. Ad esempio,
riportando che «essi pensavano che i cieli fossero colmi di uno spirito infinito chiamato Dio, e che
i corpi si muovessero liberamente in quello spirito per la sua forza ». Newton diede la sua
personale (e imbarazzante) opinione in proposito alla fine della Questione 28 dell’Ottica: «Non
appare forse dai fenomeni che c’è un Essere incorporeo, vivente, intelligente, onnipresente, che
nello spazio infinito, come attraverso il proprio sensorio, vede le cose nella loro stessa intimità,
percependole interamente e comprendendole completamente grazie alla loro presenza immediata a
Lui?» La prima versione stampata, di cui Newton si pentì e che cercò disperatamente di ritirare,
comprando tutte le copie che poté e sostituendola a mano con la precedente, si domandava ancora
più esplicitamente se lo spazio infinito non fosse il sensorio di Dio.» (Odifreddi 2014, 93)
37
[2] «Ma per Newton la propria opinione costituiva una forma della cosiddetta prova cosmologica
dell’esistenza di Dio, espressa sinteticamente nella stessa Questione come: «ragionare dai
fenomeni senza fingere ipotesi, e dedurre le cause dagli effetti, finché non si arriva alla vera Causa
Prima, che certamente non è meccanica». (Odifreddi 2014, 94)
Il tema trova espressione esplicita in due passaggi conclusivi delle sue opere maggiori, il primo
nell’Ottica, il secondo nei Principia: [a] «La prima conclusione di Newton è la sterminata
Questione 31 dell’Ottica, risalente al 1706:«La meravigliosa uniformità del Sistema Solare
dev'essere considerata il risultato di una scelta, così come l’uniformità del corpo degli animali.
[…] E questo non può essere che la conseguenza della sapienza e dell'abilità di un Agente potente
ed eterno che, essendo in ogni luogo, è più in grado di muovere con la sua volontà i corpi nel suo
infinito e uniforme sensorio, facendo e rifacendo le parti dell'universo, di quanto noi non possiamo
muovere le parti del nostro corpo con la volontà.». » (Odifreddi 2014, 95). [b] «La seconda
conclusione è il famoso Scolio Generale dei Principia, che costituisce la summa theologiae
newtoniana, e non a caso apparve per la prima volta nella seconda edizione del 1713
supervisionata da Bentley: «Questa elegantissima compagine del Sole, dei pianeti e delle comete
non avrebbe potuto essere, senza il disegno e il dominio di un Ente intelligente e potente. […] Egli
regge il tutto, non come Anima del Mondo, ma come signore di tutte le cose, e per questo è
chiamato Signore Dio Pantocreatore. È eterno e infinito, onnipotente e onnisciente: cioè, dura
dall'eternità all’eternità, ed è presente dall’infinito all’infinito. Regge ogni cosa, e conosce tutto
ciò che accade o può accadere. […] E questo è ciò che possiamo dire di Dio a partire dai
fenomeni, che è il modo in cui ne deve parlare la filosofia naturale.» Tutto ciò dalla stessa
persona che, al paragrafo successivo dello stesso Scolio Generale, dichiarava solennemente e
spudoratamente: “io non fingo ipotesi”...» (Odifreddi 2014, 96,97).
5.4.5.5. sulla fedeltà di Newton nel conservare al modello di cui si serve (matematica e deduzioni
dall’esperienza) la natura di strumento, destinato a rispondere a una doppia esigenza: 1) è capace e
necessario per delineare il sistema del mondo, 2) è però anche in grado di mettere in luce le
difformità che il dato empirico, da cui Newton proclama di “dedurre”, presenta nei confronti del
modello applicato; difformità che potrebbero dirsi anomalie e che sotto questo nome avranno una
lunga storia nella epistemologia contemporanea. Anomalie di cui va preliminarmente affermato
che non annullano l’efficacia del modello e la teoria che con esso viene costruita, ma ne mostrano
la reale funzione e, con esso, la natura della ricerca scientifica.
L’armonia “matematica” del sistema del mondo non deve oscurare, anzi è chiamata a porre in
risalto la complessità e la difficile composizione matematica della realtà per quanto i fenomeni ci
forniscono; l’esigenza empirica e l’esigenza teorica sono imprescindibili e vanno rispettate pur
nella sorprendente e sempre crescente consapevolezza che non si sovrappongono e non si
identificano; in questo scarto si conferma la natura strumentale di ogni apparato teorico di
osservazione e di definizione e, ancora in questo scarto trova alimento e urgenza la ricerca
scientifica e il suo perenne (auto)controllo.
Alcuni campi aperti:
[1] «… i singoli pianeti non agiscono indipendentemente uno dall'altro, bensì ciascuno di essi
agisce simultaneamente sul Sole e sugli altri pianeti. Il risultato è che le loro orbite non sono né
perfettamente ellittiche, né necessariamente chiuse. Dunque, anche la prima legge di Keplero non
è valida esattamente, ma solo approssimativamente.» (Odifreddi 2014, 197-198)
[2] «… poiché il Sistema Solare è costituito, oltre che dal Sole e dai nove pianeti maggiori, da un
numero imprecisato di satelliti, comete e asteroidi, il problema del suo moto non è per niente
ovvio, né di facile soluzione. E non lo è già nel caso speciale del problema dei tre corpi, di cui
Newton considerò due casi particolarmente interessanti: il sistema formato dal Sole, Giove e
Saturno, e quello formato dal Sole, la Terra e la Luna. Al primo egli alluse soltanto, affermando
nella Proposizione III.13 che «a ogni congiunzione di Saturno con Giove c’è una perturbazione
percettibile della sua orbita, di cui non si può non tener completamente conto, e che ha messo in
difficoltà gli astronomi». Questa era una professione di fede nella validità della legge di
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gravitazione universale, più che una vera osservazione sperimentale, visto che in realtà l’effetto è
così piccolo da non risultare osservabile con gli strumenti dell'epoca.» (Odifreddi 2014, 198)
[3] «Fin dall'antichità [Ipparco, Tolomeo e poi Tycho Brahe]… la vicinanza della Luna alla Terra
aveva permesso di notare che essa si muove in maniera estremamente complicata, e che il suo
moto presenta quattro anomalie o «disuguaglianze» principali. …. la cosiddetta precessione degli
absidi: una rotazione di circa 40 gradi all'anno dell’orbita ellittica, che dunque non è chiusa. … un
doppio movimento dell’orbita: la sua lunghezza si mantiene invariata, ma la sua larghezza varia
mensilmente, e il suo piano bascula quindicinalmente. …. una variazione quindicinale e una
annuale della velocità.» (Odifreddi 2014, 199)
[4] Il problema dei tre corpi [l’interazione tra tre corpi, cioè più di due, rende difficoltoso se non
impossibile definirne la traiettoria], Comete ed equinozi, La stabilità del sistema solare («… se
piccole perturbazioni del moto di un pianeta possano soltanto produrre piccole variazioni della sua
orbita, o siano invece in grado di mandarlo completamente alla deriva.» Odifreddi 2014, 207)
[5] «I due problemi fondamentali della fisica che Newton aveva lasciati aperti riguardavano,
rispettivamente, la natura della gravità e della luce. Sulla prima egli aveva evitato di pronunciarsi
pubblicamente nel Principia, preferendo «non fingere ipotesi». Ma sulla seconda aveva
apertamente preso posizione nell’Ottica, professando la teoria corpuscolare.» (Odifreddi 2014,
209) Dunque si impone il tema delle direzioni aperte, dei problemi posti, delle questioni irrisolte
che le tesi di Newton pongono alla ricerca scientifica rendendone possibile e stimolandone il
corso. (Se il saggio di Odifreddi Piergiorgio, 2014, Sulle spalle di un gigante. E venne un uomo
chiamato Newton, Longanesi, Milano, richiama l’immagine dei giganti che sosteneva la filosofia
della Scuola di Chartres [«nel 1159 Giovanni di Salisbury aveva scritto nel suo Metalogicon (III,
4): “Bernardo di Chartres diceva che noi siamo dei nani che stanno sulle spalle dei giganti, perché
possiamo vedere di più e più lontano di loro: quindi, non per l’acutezza della nostra vista o per la
statura del corpo, ma perché siamo portati in alto e sollevati dalla grandezza dei giganti.”»
Odifreddi 2014, 53], occorre richiamare l’interpretazione che Abelardo fornisce di quella formula:
gli antichi sono giganti per noi nani e ci permettono di vedere (poco) più in là di loro non per le
risposte che forniscono ma per i problemi che pongono e i quesiti che formulano).
5.5. il lascito generale dell’opera di Newton e delle Regulae philosophandi esposte nei
Principia: «il problema di determinare i caratteri della razionalità scientifica, e quindi di
individuare innanzitutto ciò in base a cui i sistemi scientifici possono essere differenziati da
qualsiasi altro tipo di sistema teorico, è un problema canonico della filosofia postgalileiana che
diventa emergente in concomitanza con la crisi dell’immagine meccanicistica del mondo e con la
conseguente profonda trasformazione della stessa idea di scienza.» (L.Lentini, Popper e il
problema della demarcazione in “Congetture e confutazioni” di Popper K. Raimund, a cura di G.
Albanese, Paravia, Torino 1988, p. 25)
5.5.1. In questo compito e in questa direzione Newton lascia aperto un quesito cruciale e
ricorrente, ma lo lascia aperto con evidente e lucida consapevolezza epistemologica (come visto):
il tema dell’azione a distanza e a velocità “infinita” della forza gravitazionale intercorrente tra due
masse, la fondatezza e l’utilità del ricorso al “quinto elemento” aristotelico, l’etere, per dare a tale
distanza una materialità fisica (anche se per nulla supportata empiricamente, ma come postulato o
ipotesi empirica “ad hoc” o ipotesi ausiliare); si tratta di una questione che cade nello specifico
problema di definizione della forza gravitazionale, ma che, molto più in generale, coinvolge la
natura della scienza (tra empiria e ragione [ipotetica, verosimile, vera], tra convenzione e
strumento). Il tema è ripreso con lucido brio da Imre Lakatos in una delle sue Lezioni di metodo:
«Questa prospettiva cambiò in modo piuttosto strano, il che la dice lunga sulla “razionalità”
umana. Fu proprio Newton a modificare il nostro modo di pensare. Egli era convinto che le sue
teorie, provate dai fatti, fossero vere. Ma, cominciate a chiedervi che cos’è che fa sì che, diciamo,
la massa1 e la massa2 si attraggono reciprocamente, a distanza e istantaneamente? Vi renderete
conto che ai tempi di Newton ciò era altrettanto assurdo quanto le sfere di cristallo infrascivolanti
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ai tempi di Tolomeo. Leibniz e altri notarono che tutto ciò era assolutamente folle. Lo stesso
Newton cercò di giocare con la seguente idea, come sappiamo adesso dalle sue lettere
recentemente pubblicate. Qui c’è una massa sferica, qui un’altra, poi c’è un etere invisibile che è
come un gas, le cui particelle, muovendosi in ogni direzione, bombardano le pareti di un
contenitore; ma qui c'è una specie di effetto ombra, cosicché l’effetto complessivo del movimento
dell'etere è che le due masse vengono urtate in modo che l'una vada verso l'altra e viceversa. Così
l’azione a distanza è “spiegata” nei termini di semplice azione d'urto. Ora, Newton non tentò di
andare veramente a fondo di questa idea, ma ci provò a lungo perché non pensò neanche per un
istante che l’azione a distanza potesse essere vera. Così, in realtà, la sua teoria dell’azione a
distanza può essere intesa a sostegno del convenzionalismo, proprio come gli epicicli di Tolomeo.
Francamente credo che nessuna “storia interna” della scienza possa spiegare perché questo
successo “tolemaico” di Newton si tramutò in un successo del realismo!
Nel ventesimo secolo abbiamo la meccanica quantistica sviluppata da Bohr, Schrödinger,
Heisenberg e altri, secondo cui certi tipi di materia si comportano a volte come onde e a volte
come particelle. Di nuovo, tutto ciò sembra simile alle sfere di cristallo di Tolomeo. A partire
dagli anni Trenta il convenzionalismo ha guadagnato consenso nella comunità scientifica. Ora la
maggioranza dei fisici ritiene che le teorie scientifiche, a partire dalla meccanica quantistica,
assomiglino molto alla teoria di Tolomeo: quello che conta è il loro potere predittivo, non il loro
valore di verità. […] Non solo i marxisti, anche gli scienziati newtoniani hanno i loro agenti
invisibili. Si può sempre scaricare una confutazione su un fattore invisibile! Si tratta di una
strategia fondamentale nella storia della scienza. Mi sembra di aver mostrato a sufficienza che le
confutazioni non servono a molto per valutare una teoria.» (Lakatos Imre, Feyerabend K. Paul,
1995, Sull’orlo della scienza. Pro e contro il metodo, Raffaello Cortina, Milano 1995, 8283,113).
5.5.2. Nonostante l’introduzione dell’etere e la tesi dell’azione a distanza, per giunta di velocità
infinita, mostri i tratti di una ipotesi ad hoc, e si presenti come una teoria ausiliare di carattere
metafisico, non cessa di avere una funzione scientifica che può essere considerata positiva;
osserva ancora Imre Lakatos: «… interpretiamo “azione a distanza” figurativamente, e la
consideriamo come un’abbreviazione per qualche misterioso meccanismo d’azione per contatto.
[…] Se una teoria ausiliare che permette questa spiegazione (o, se si preferisce, questa
“riduzione”) produce fatti nuovi (ossia se è “controllabile indipendentemente”), la metafisica
cartesiana dovrebbe essere considerata come una metafisica buona, scientifica, empirica, che
genera uno slittamento-di-problema progressivo. Una teoria (sintatticamente) metafisica
progressiva produce un prolungato slittamento progressivo nella sua cintura protettiva di teorie
ausiliari. Ma se la riduzione della teoria al quadro “metafisico” non produce nuovo contenuto
empirico e non fa emergere nuovi fatti, allora tale riduzione rappresenta uno slittamento-diproblema regressivo, ed è un mero esercizio linguistico. […] Non eliminiamo dunque una teoria
(sintatticamente) metafisica se è in conflitto con una teoria scientifica ben corroborata, come
suggerisce il falsificazionismo ingenuo. La eliminiamo se nel lungo periodo produce uno
slittamento regressivo e c’è una metafisica migliore, una metafisica rivale che può sostituirla. La
metodologia di un programma di ricerca con un nucleo “metafisico” non differisce dalla
metodologia di un programma con un nucleo “confutabile”… » (Imre Lakatos, 1970, La
falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca, in Lakatos Imre, Musgrave Alan (a cura
di) 1970 Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1986, 202).
5.5.3. La base materiale dell’universo descritto da Newton è presentata in termini “atomistici”:
particelle elementari. «Molte cose mi spingono a sospettare che tutti i fenomeni della Natura
possano dipendere da certe forze, per effetto delle quali le particelle dei corpi, per cause non
ancora conosciute, o sono attratte fra loro e si connettono secondo figure regolari, o si respingono
vicendevolmente e si allontanano.» (Odifreddi 2014, 30) Come lo stesso Newton afferma, la sua
fisica non è in grado di stabilirne la meccanica, se non per generica analogia: «Ogni ragionamento
valido per il moto dei corpi macroscopici dovrebbe esserlo anche per quelli microscopici. I primi
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dipendono dalle grandi forze attrattive che sono proprie dei corpi di maggiori dimensioni. Quanto
ai secondi, io sospetto che essi dipendano da forze di minore entità, non ancora osservate, proprie
di particelle impercettibili.» (Odifreddi 2014, 30). Dunque si tratta di “particelle impercettibili”.
La base materiale dell’intero sistema del mondo resta inafferrabile; le leggi del moto e le formule
che le esprimono (la stessa idea di gravitazione universale) non riescono ad esprimere in modo
scientifico e in linguaggio matematico la base elementare dell’universo. La teoria di Newton, più o
meno consapevolmente, indica qui il limite da cui prenderanno avvio le scienze contemporanee: la
macrofisica a partire dalla velocità della luce come velocità limite dell’universo; la microfisica e le
teorie quantistiche indeterministiche; la vita e le sue modalità evolutive; il comportamento umano
e sociale. In questi ambiti il modello meccanico e i concetti di causa, principi, necessità intesi in
direzione rigorosamente monolineare devono lasciare il posto a analisi statistiche e a regole
indeterministiche.
5.5.4. Infine la luce: la sua natura, la sua velocità; tema centrale dell’Ottica e dei Principia di
Newton. «I due problemi fondamentali della fisica che Newton aveva lasciati aperti riguardavano,
rispettivamente, la natura della gravità e della luce. Sulla prima egli aveva evitato di pronunciarsi
pubblicamente nel Principia, preferendo «non fingere ipotesi». Ma sulla seconda aveva
apertamente preso posizione nell’Ottica, professando la teoria corpuscolare.» (Odifreddi 2014,
209). Sulla questione della velocità della luce: «Il fatto che la velocità della luce fosse grande, ma
finita, era invece noto da molto tempo. Cartesio e Keplero la consideravano ancora infinita. Ma
già nel 1638 Galileo aveva riportato, nei Discorsi sopra due nuove scienze, un esperimento volto a
determinarla. Inutile dire che i risultati erano stati inconcludenti, visto che il metodo consisteva nel
valutare a occhio il ritardo tra l’andata e il ritorno della luce su un percorso di qualche chilometro,
scoprendo una lanterna a un estremo non appena si fosse percepita la luce di una lanterna scoperta
all’altro estremo. Più realisticamente, nel 1676 Ole Rømer…» (Odifreddi 2014, 214)
5.5.4.1. una anticipazione del cammino segnato, percorso: «La doppia natura della Natura La
conferma sperimentale mise i fisici di fronte al dilemma di dover scegliere tra due teorie
contrapposte, ciascuna delle quali spiegava proprietà diverse della luce.
Ma nel 1917 Einstein ebbe un altro colpo di genio: invece di scegliere fra le due teorie, egli
propose di accettarle entrambe! Sostenne, cioè, che non era necessario dover decidere se la luce
fosse fatta di particelle oppure di onde. Bastava riconoscere che fosse fatta di particelle e di onde,
simultaneamente, così come d’altronde anche l'acqua del mare è fatta simultaneamente di gocce e
di onde.
Questo modo di pensare, che in seguito verrà detto complementare o duale, fu esteso nel 1924 dal
principe Louis de Broglie, che propose di associare a ogni onda una particella con proprietà
analoghe ai quanti di luce di Einstein. E a ogni particella un’onda con proprietà simmetriche. Il
suo lavoro fu subito considerato fondamentale, e Einstein dichiarò nella sua suggestiva maniera
oracolare che «era stato sollevato un lembo del grande velo».
Anche questa volta gli esperimenti diedero presto ragione a entrambi. Nel 1923 Arthur Compton
misurò le proprietà corpuscolari dei quanti di luce previste da Einstein. E nel 1937 Clinton
Davisson e George Thomson fecero lo stesso per le proprietà ondulatorie dell’elettrone previste da
de Broglie.» (Odifreddi 2014, 213)
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